Federico La Sala
Della Terra, il brillante colore
Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica
Prefazione di Fulvio Papi
Edizioni Nuove Scritture
Pagg. 156 € 15.00
di Fulvio Papi
Con una immagine non inappropriata, si potrebbe dire che questo libro è una breve composizione sinfonica dove l’autore preleva temi dalla tradizione musicale che orchestra come preludi indispensabili all’apparizione del proprio tema. Nella dimensione letteraria si può dire che è un libro di citazioni dove anche la scrittura dell’autore vi compare come citazione che, più che dire, annuncia. L’insieme, ovviamente, non ha 1e tracce dell’esposizione legale e paterna, ma cerca la risonanza e la suggestione che il lettore deve accogliere come parola che tenta quasi una religiosa seduzione. Tutto questo è conseguenza coerente di una delle possibili strade che si possono prendere dopo il sospetto intorno alle architetture filosofiche che rappresentano con la spada tagliente del concetto una qualsiasi forma dell’essere.
Nel caso di La Sala il pensiero (e questo è il tema saliente del suo lavoro precedente, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica) [Antonio Pellicani Editore, Roma 1991], non deve istituire il giudizio come conseguenza della trasfigurazione simbolica del mondo, ma accogliere nel profondo 1a dimensione terrestre e sensibile della vita. Una voce, avevo pensato leggendo quel libro, che viene da un Nietzsche senza la volontà di potenza, declinato su quel "femminile" che è stato uno degli elementi di riflessione su un "vuoto" strutturale della nostfa tradizione.
E ora, in breve, qualche cenno sul nuovo viaggio testuale. Il luogo di inizio è nella chiesetta di S. Maria del Carmine, a Contursi, dove, a causa di recenti restauri, viene scoperto un poema pittorico (tempera su muro) di un ignoto carmelitano dell’inizio del ‘600. Il testo raffigura le Sibille che annunciano al mondo pagano la prossima nascita del cristianesimo.
Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana in sequenza con il Cristianesimo. Ne deriva un’immagine del mondo come presenza divina nella quale abita l’uomo come unità di corpo e anima.
Tuttavia questa grande sinfonia della sacralità del mondo conduce con sé l’esclusione della donna dal sacro: essa può essere solo portatrice di sacralità. Questa esclusione limita la tradizione e riapre la domanda filosofica con l’estremo Kant della Logica: che cosa è l’uomo? Rispondere a questa domanda, interpretando quello che vuole dire l’autore, significa sottrarci alla nóstra carenza di futuro. Concetto, merce, e definizione della vita sono tre linee che consumano un’unica perdita fatale.
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: "guardiamo il nostro ombelico", rîconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire non i luoghi delle nostre scissioni. La Sala pensa in termini di speranza e di salvezza e di uomo e donna: non sono sentieri miei. E questo dovrebbe testimoniare proprio alla attenta considerazione del lavoro che deriva dall’essere trasportato senza riserve da un testo, per così dire, in piena.
Fulvio Papi
Professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Pavia.
Allegato. DOC. (senza le foto) sul tema:
LETTERA APERTA
ALLA SOPRINTEDENZA per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Salerno e Avellino
CH.MO SOPRINTENDENTE
Egr. dott. Miccio
Le scrivo, in riferimento allo stato della Chiesa di Maria SS. del Carmine di Contursi Terme. Del restauro di questa chiesa (convento carmelitano dal 1561 al 1652), dopo il terremoto del 1980, se ne sono occupati i tecnici della Soprintendenza, il dott. Domenico Palladino e la dott.ssa Maria Giovanna Sessa: i lavori furono conclusi nel 1989 (scheda restauro - pdf, in fondo).
Purtroppo, dopo molti anni di totale incuria, la sua situazione ora sta precipitando paurosamente. Solo per darle un’idea, Le ho qui allegato una foto relativa allo stato attuale del tetto (si veda, qui, in fondo).
Uno scenario orribile: non sono cresciute solo erbacce che intasano il corretto deflusso delle acque e che poi vanno ad infiltrarsi nel muro (con conseguenti danni - già disastrosi ed evidenti all’interno), ma si è avviato anche il cedimento dell’orditura che tiene l’intero manto delle tegole!!!
All’interno, la parete sinistra (ormai fradicia di umidità e sempre più ricoperta di muffe verdeggianti) sta perdendo tutti i suoi preziosi affreschi (12 Sibille) portati alla luce dai lavori di restauro.
Tenga presente che le Sibille presenti sono 12 (al contrario della volta della Cappella Sistina di Michelangelo, ove ne sono rappresentate solo 5 con 7 profeti) e che questa grande novità ovviamente non è di poco rilievo per la storia dell’arte e della storia culturale e religiosa italiana.
Sulle "decorazioni parietali di modesta fattura e complessa lettura" (come accennato dai dott. Palladino-Sessa nella loro relazione), si veda la documentazione presente nel mio lavoro: Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore. [...].
In particolare, è bene ricordarlo: "Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana in sequenza con il Cristianesimo".
Il mio unico desiderio è che il prezioso lavoro fatto dalla stessa Sovrintendenza non vada assolutamente perduto! E che questa bandiera della cultura tardo-rinascimentale piantata nell’area salernitana non ricada per sempre nell’oblio (o, diversamente, nel fango).
Mi auguro che Ella possa intervenire quanto prima, per sollecitare e contribuire a salvare il salvabile.
La ringrazio vivamente della sua attenzione e La saluto
Federico La Sala
SCHEDA IN "BIBLIOGRAPHY OF PHILOSOPHY" (Vol. 44 Fase. 1 p. 14, PARIS 01/03-1997):
20. - La Sala(Federico). Della terra, il brillante colore; Prefaz. di FulvioPapi. Salerno/Roma , Ripostes, 1996. 156 p., Lit. 30.000.
L’opera s’inquadra in una antropologia filosofica, che ritiene urgente riproporre la domanda capitale “che cos’è l’uomo?”, a partire da un complesso di filologiche e dotte Note sul "poema " di un ignoto Parmenide carmelitano ritrovato a ContursiTerme, Salerno, nel 1989. Siamo nei luoghi dove la metafisica è nata, con la sua primazia dell’Essere e dell’Uno, nei luoghi degli enigmi parmenidei e della loro sapienza unilaterale; e qui in particolare nella cappella dedicata alle dodici Sibille, che il frate carmelitano del primo Seicento accosta, nel suo poema pittorico, all’alleanza di Dio Padre con la Figlia, Maria mediatrice di nuovo pensiero profetico per l’uomo nuovo, ma ribadendo, nell’assetto figurale, una volta di più l’esclusione della Donna dalla creazione, dal sacro e dal Pensiero che è solo Padre, e onnipotente Maschio-Padrone.
Da questo viluppo di grecità e cristianesimo l’autore riesamina globalmente nel suo excursus filosofico, che solca anche l’eclettismo ermetico- cabalistico-neoplatonico rinascimentale, le radici del pensiero moderno ritrovando fin nell’uomo del presente quella mutilazione della comunione complessa e assolutamente originaria Uomo-Donna. Padre-Madre, che ha mutilato il pensiero e l’esperienza dell’uomo stesso, che storicamente non ha potuto costruirsi e gioire di ciò che veramente è : un Terzo cui ha dato nascita un Due, un Padre e una Madre e un Figlio, generatore a sua volta in armonia circolare di nuova storia debitrice pariteticamente sia alla Madre che al Padre.
Occorre, di conseguenza, nel pensare, oltre che in ogni esperienza vitale, compiere un salto : quel salto che, accantonando grecità esclusiva e cattolicità esclusiva, e traendo l’uomo dal suo stato di minorità, permetta di riconoscere la filosofia (e le religioni) come maschile e femminile, patema e materna, e così la terra come l’armonia movente e commovente che congiunge le donne e gli uomini e i figli e le figlie. R. G.
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
"GUERCINO A PIACENZA". Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 ...
Il ’600 di Guercino tra Sacro e Profano
Dal 4/3 a Piacenza si visiteranno anche affreschi cupola Duomo
di Nicoletta Castagni *
PIACENZA - Una mostra dei suoi capolavori a Palazzo Farnese e la possibilità di poter ammirare da vicino, per la prima volta, il ciclo di affreschi della cupola della Cattedrale: dal 4 marzo Piacenza celebra Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, e il suo sublime ’600, di cui, tra immagini sacre e raffigurazioni profane, il pittore di Cento fu uno degli indiscussi protagonisti. Fino al 4 giugno, la rassegna presenterà infatti una ventina di opere tra oli e disegni, mentre una serie d’iniziative di grande suggestione e rilevanza storico-artistica accompagneranno l’ascesa all’interno della cupola decorata dal maestro emiliano con le storie dall’Antico e Nuovo Testamento.
Intitolato ’Guercino a Piacenza’, il progetto espositivo è stato promosso dalla Fondazione Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi di Piacenza-Bobbio e dal comune di Piacenza, con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, del Mibact e col contributo della Camera di Commercio di Piacenza, Apt Servizi Regione Emilia Romagna, Iren (main sponsor Credit Agricole Cariparma). Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 e che si presenterà in tutta la sua bellezza grazie alla nuova illuminazione realizzata da Davide Groppi.
Tra i vertici assoluti della sua arte, le pitture della cupola sono suddivise in sei scomparti raffiguranti le immagini dei profeti Aggeo, Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia. Nelle le lunette ecco dunque alcuni episodi dell’infanzia di Gesù (Annuncio ai Pastori, Adorazione dei pastori, Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto) che si alternano alle immagini di otto Sibille e il fregio del tamburo.
Chiamato per primo a dipingere i Profeti nella volta della Cattedrale, fu nel 1625 Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, che ne realizzò due, Davide e Isaia, ma morì appena ultimati i primi due spicchi, notevoli per cromia e impianto. Quindi, nel 1626 gli subentrò il Guercino, che completò entro l’anno successivo gli altri sei scomparti della cupola e le lunette.
Per preparare all’ascesa della cupola, il visitatore sarà invitato, come prima tappa del percorso espositivo, all’interno delle sagrestie superiori della Cattedrale, dove verrà allestita una sala multimediale circolare che conterrà un grande videowall di oltre 10 m di lunghezza.
Il filmato di impatto spettacolare, condurrà virtualmente nella storia, al momento in cui il Vescovo Linati invita Guercino a Piacenza per decorare la cupola secondo i canoni imposti dal Concilio. Grazie all’impiego delle più attuali tecnologie, a una base scientifica che poggia su documenti d’archivio e disegni preparatori, alle foto ad altissima risoluzione del ciclo pittorico, lo spettatore potrà comprendere i tempi, le tecniche di lavorazione e le difficoltà riscontrate nella realizzazione di quello che la critica ha definito uno dei maggiori capolavori del maestro di Cento.
Sempre dal 4 marzo, la Cappella ducale di Palazzo Farnese ospiterà la bella mostra curata da Daniele Benati e Antonella Gigli, che insieme (e con il supporto di un comitato scientifico composto da Antonio Paolucci, Fausto Gozzi e David Stone) hanno selezionato 20 capolavori del Guercino, capaci di restituire la lunga parabola creativa che lo ha portato a divenire uno degli artisti del ’600 italiano più amati a livello internazionale. I dipinti scelti, infatti, testimonieranno la ’poetica degli affetti’ con cui il pittore, lungo l’arco cronologico della sua operosa attività artistica, ha realizzato sia i temi sacri sia quelli profani.
Tra i capolavori esposti ci saranno in prevalenza pale d’altare, ma non mancheranno i quadri ’da stanza’ a soggetto profano, in modo da scoprire il vero volto di Guercino e apprezzarne la straordinaria qualità e le prerogative messe a punto prima e dopo la grande impresa della volta piacentina. Il percorso espositivo illustrerà quindi le prime esperienze pittoriche a Cento, paese natale, svolte nel segno di una romantica adesione al linguaggio di Ludovico Carracci e indagherà la sua maturazione artistica avvenuta durante i lunghi soggiorni a Bologna e quindi a Roma. Fino ad arrivare all’ultima fase, quando, pur rimanendo inconfondibile, il suo linguaggio si apre a nuove sollecitazioni di tipo classicheggiante, incontrando il favore dei più illustri committenti.
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei. E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
CORPO CELESTE. Memoria e conversazione (storia di un piccolo libro)
di Anna Maria Ortese *
Col nome di corpi celesti venivano indicati, nei testi scolastici di anni lontanissimi, tutti quegli oggetti che riempiono lo spazio intorno alla Terra. E anche il nome oggetto, riferendosi a quello spazio, allora incontaminato, purissimo, si colorava pallidamente di azzurro. Noi - che sfogliavamo quei testi e ammiravamo quelle carte della volta celeste - eravamo invece sulla Terra, che non era un corpo celeste, ma era data come una palla scura, terrosa, niente affatto aerea.
Perciò, durante tutta una vita, poteva accadere che, guardando di sera, nella luce tranquilla della campagna, quel vasto spazio sopra di noi, pensassimo vagamente: «Oh, potessimo anche noi trovarci lassù!». Le leggende e i testi scolastici parlavano di quello spazio azzurro e di quei corpi celesti quasi come di un sovramondo. Agli abitanti della Terra essi aprivano tacitamente le grandi mappe dei sogni, svegliavano un confuso senso di colpevolezza. Mai avremmo conosciuto da vicino un corpo celeste! Non eravamo degni!, pensava l’anonimo studente.
Invece, su un corpo celeste, su un oggetto azzurro collocato nello spazio, proveniente da lontano, o immobile in quel punto (cosi sembrava) da epoche immemorabili, vivevamo anche noi: corpo celeste, o oggetto del sovramondo, era anche la Terra, una volta sollevato delicatamente quel cartellino col nome di pianeta Terra. Eravamo quel sovramondo.
Quando ho compreso questo, non subito, a poco a poco, nel continuo terremoto del cresce,ell’amarezza di scoperte inattese (della infelicità, del passare delle cose), sono stata presa da un senso di meraviglia, di emozione indicibile. L’emozione si faceva reverenza, diveniva la sorpresa e la gioia di una più grande scoperta, quella di un destino impareggiabile. Mi trovavo anche io sulla Terra, nello spazio, e il mio destino non era molto dissimile da quello degli oggetti e corpi celesti tanto seguiti e ammirati. Dove avrebbe portato non sapevo: forse su, forse giù, forse nel buio, forse nella luce.
Una cosa era certa, era nozione ormai incancellabile: tutto il mondo era quel sovramondo. Anche la Terra e il paese dove abitavo; e la collocazione, o vera patria di tutti, era quel sovramondo!
* Anna Maria Ortese, Corpo Celeste, Adelphi, Milano 1997.
Le due figure sono accomunate da una prospettiva della visione del mondo concessa solo a loro
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 10.09.2016)
Polifemo, figlio di Poseidone, viene sconfitto dall’eroe Odisseo con un gesto cruento: accecando il suo unico occhio. Tre millenni dopo un altro eroe ricorderà il Ciclope osservando la Terra, Gaia, in tutto il suo splendore attraverso l’occhio dell’oblò di una navicella spaziale. Due storie, un solo mitologema: l’essere dell’antichità mitologica ed il rappresentante della mitologia moderna si ritrovano accomunati nella visione del Mondo attraverso una prospettiva che solo a loro era concessa; Polifemo e Gagarin condividono lo stesso sguardo.
Ulisse e la sua Metis
Nessun altro all’infuori del politropos Ulisse, l’uomo della metis umana - l’intelligenza accorta ma anche l’inganno, la cui ipostasi sul piano divino è Atena - poteva concepire ed eseguire un atto così significativo del passaggio tra le vecchie Potenze telluriche femminili, generate dalla Grande Madre Gea, ed i nuovi dei olimpici dominati dal patriarca Zeus. Ciclope significa «dall’occhio circolare», come quello dell’obiettivo di una macchina fotografica, piantato nel bel mezzo della fronte a dargli una visione perspicua. Ciò che Ulisse vuole accecare è dunque proprio lo sguardo arcaico di Polifemo, la pupilla che coglie ancora la luce di un Mondo dominato dalle Potenze legate alla ciclicità dell’esistenza, nate dall’auctoritas di Gaia.
Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Metis era in origine una oceanina sposata da Zeus in prime nozze come potente alleata nella lotta che lo condusse al trono. Esiodo, nella Teogonia, ci narra a proposito di Metis come: «Zeus re degli dei per prima fece sua sposa Metis, che moltissime cose conosce tra gli dei e gli uomini mortali. Ma quando lei stava la dea Atena occhio azzurro per partorire, allora ingannatone il cuore con un tranello con parole insinuanti la pose giù nel ventre».
Il Cronide ha dunque assimilato la dea, cosi ci dice Esiodo, poiché senza la sua metis non avrebbe potuto vincere la lotta per il potere, né tantomeno mantenerlo. Sul piano umano la metis di Ulisse consentirà all’eroe di vincere la guerra di Troia e di fare infine ritorno ad Itaca, ma al prezzo, tra gli altri, di «incatenare» il suo tuffo verso la verità archetipiche espressa dalle Sirene, Potenze femminili legate ad un tempo anteriore all’ordine olimpico.
Si suol dire, come ci ricorda W. Otto, che il mutare dei bisogni dell’esistenza umana è ciò che si esprime nella formazione dell’immagine di Dio. Nella saga omerica le forme della fede e del loro culto presso i Greci sono già fissate, perché provengono da un’epoca ancora più lontana: quella che ci descrive il cantore cieco è allora l’essenza della grecità come anima dell’Occidente. Ulisse è, in questo quadro, l’eroe omerico per eccellenza, il protagonista di una epopea che descrive attraverso il racconto delle sue avventure la visione del mondo che si va affermando, di quell’agire politico e della filosofia che imprimeranno il loro sigillo sino alle Colonne d’Ercole.
Ben lo descrivono in questa sua funzione Adorno ed Horkheimer ne La dialettica dell’illuminismo in cui Odisseo è il prototipo dell’eroe colonialista e proprietario, un sovrano che deve raggiungere il suo regno e vendicarsi degli altri nobili per ristabilire il comando. Ed a questo scopo, che è poi l’essenza della missione che viene supportata attivamente da Atena - nata dalla testa del padre affinché la madre nulla potesse togliere al suo potere - bisogna non solo conquistare Troia e prendere così il comando sulle sue rotte commerciali ma, soprattutto, imporre una nuova prospettiva, un immaginario che sussuma il precedente.
A questo fine è necessario distruggere il vecchio mondo delle Potenze proteiformi legate agli elementi naturali, governato dalla immutabile legge della ciclicità, della nascita, della vita, della morte e della rinascita: il mondo della Grande Madre.
La nascita dell’Occidente è dunque legato alla Grecia antica, ai suoi dei, alla sua filosofia, alla sua politica, ma anche ad una visione imperialista e conquistatrice che poi Roma porterà a potenza. Ed alla base di questo grande esperimento, che l’uomo contemporaneo paga al duro prezzo del disincanto, del non comprendere più le ragioni del Mondo che lo circonda, troviamo la scissione tra mondo dentro e mondo fuori di noi; l’eroe omerico è un conquistatore che deve azzerare prima di tutto dentro di sé il potere delle antiche voci che lo richiamano all’essere tutt’uno con il Mondo perché, al contrario, lo deve dominare estraniandosene. Ecco che gli antichi poteri legati alla Terra divengono una congenere di mostri da uccidere o di ostacoli da superare, in ogni caso non da comprendere ma da dominare.
E allora, l’Odissea celebra questo passaggio tra le antiche divinità legate agli elementi, tutte innervate col cuore stesso delle realtà che rappresentano, impastate di terra e di sangue, custodi, come le Erinni nei confronti di Oreste di quelle regole inviolabili che sanciscono l’ordine naturale ed immutabile delle cose, e un «ordine nuovo» in cui è l’uomo a comandare su di esse, e gli dei sono distanti e distinti perché comunque immortali. Ed anche se il divino è a fondamento di ogni essere ed accadere, e se nessuna azione umana sarà compiuta senza di essi, gli dei al massimo potranno irritarsi perché gli umani vogliono andare al di là dei loro limiti - il terribile peccato della hybris - dato che è il regno olimpico quello che veramente conta per loro.
Walter Otto nel suo Gli dei dell’antica Grecia descrive benissimo questo passaggio generazionale tra una serie di Potenze ed un‘altra, quando chiarisce prima di tutto la natura degli Olimpici dichiarando che essi «sono ben lontani dal voler redimere il mondo ed attirare a loro gli uomini». L’antica fede, quella preomerica, è terrestre e attaccata all’elemento, come l’antica esistenza medesima. Terra, generazione, sangue e morte sono le grandi realtà che dominano tale fede. Le divinità che rappresentano questa concezione del Cosmo e della Vita sono una pluralità, ma convergono tutte verso la Terra, tutte partecipano della vita e della morte. Ciò, evidentemente, le contraddistingue radicalmente dalle divinità olimpiche che non appartengono alla Terra né tantomeno hanno a che fare con la morte, essendo immortali. Questo non significa che esse scompaiano, ma che vengono mantenute nello sfondo, la loro potenza viene lasciata sussistere «in secondo piano». Sono rispettate per quello che ancora rappresentano, ma vinte, come Prometeo nella tragedia di Eschilo: il coro delle Oceanine piange la sua sorte e poi cala con lui nell’abisso.
Ed è proprio dal limite dei limiti, quello della stessa vita umana condannata alla morte nell’ordine delle cose, che l’Occidente vorrà affrancarsi progressivamente. Nietzsche ci ricorda tutto questo ne La nascita della Tragedia quando descrive il passaggio della più sublime forma d’arte, la Tragedia, dal ciclo di Dioniso - l’archetipo della vita indistruttibile - alle vicende umane.
Ulisse e la prospettiva
E dunque su cosa si gioca il conflitto tra Ulisse ed il Ciclope? Sulla prospettiva. L’eroe omerico ha già una visione prospettica moderna del mondo, possiamo dire, mentre il Ciclope lo guarda ancora da una prospettiva arcaica. Che significa? Anche se la storia della pittura ci dice che la prospettiva è stata «scoperta» nel Rinascimento, sappiamo che anche nei tempi antichi gli artisti la conoscevano bene.
Sarebbero stati possibili i templi egizi o le scene che facevano da sfondo alle tragedie classiche se così non fosse? Avrebbe Tolomeo proiettato su una superfice piana la Terra se non l’avesse conosciuta? Solo che, come ci dice Pavel Florenskij nel suo La prospettiva rovesciata, «non la volevano usare». La spiegazione di Florenskij, alla quale rinviamo per mancanza di spazio e perché la sua chiarezza espositivo-argomentativa è da noi irraggiungibile è, in sintesi estrema e rozza, che la prospettiva rinascimentale è una delle tante modalità di visione del mondo, non certo l’unica e che, al contrario di ciò che si suole far credere, deforma la realtà imponendo un punto di vista falsamente realistico che, invece di chiarire la nostra relazione con la mutabile realtà delle cose, con la loro vera essenza, le cristallizza in una istantanea fasulla che le svuota del loro contenuto essenziale, numinoso.
Florenskij contrappone alla visione rinascimentale quella della pittura medioevale, in particolare delle icone bizantine, in cui l’apparente mancanza di prospettiva, o addirittura il suo rovesciamento - cioè dove le cose più lontane sono più grandi di quelle vicine - rende pienamente, secondo lui, a chi sa vedere, la realtà simbolica del divino, costruisce le porte attraverso le quali il credente può trovare la via per il sacro che emana da tutte le cose. E allora, chiosa l’autore de Le Porte regali, lo sfavillante saggio sull’iconostasi, la falsa prospettiva rinascimentale è uno dei dispositivi della modernità, cioè di quella Weltanschauung che scinde l’uomo da se stesso e lo riduce a falso osservatore di una realtà altrettanto artificiosa quanto lo è la sua relazione col Mondo.
E dunque la prospettiva rinascimentale o, meglio, la sua scelta tra le altre, serve per governare il mondo rendendolo artificialmente omogeneo allo sguardo, ne semplifica la complessità non per comprenderlo ed esserne compresi, ma per dominarlo.
Una vera prospettiva, totale, ci dice giustamente Florenskij, sarebbe possibile solo osservando il Mondo da un occhio solo, posto al centro della fronte, come il Ciclope appunto. Ed è per questo che Ulisse lo acceca, forgiando da una albero di ulivo, perché sacro ad Atena, un palo dritto ed acuminato, strumento tecnico che azzererà la visione di Polifemo dimostrando la superiorità della tecnè umana di fronte alle Potenze antiche, tecnè di cui i nuovi dei olimpici sono garanti.
Ogni verso del Canto IX dell’Odissea è un inno a questo sorpasso. Altre cose sono da notare: l’albero di ulivo è storto, come il «legno storto dell’umanità» di cui dice Isaiah Berlin nell’omonimo saggio. Eppure Ulisse ed i suoi uomini, con l’aiuto di Atena cui quel legno è comunque sacro, lo rendono diritto, affermando una capacità di ingegno che, invece, il Ciclope non ha; basti pensare al fatto che non riesce neanche a palpare le pecore sino al ventre per stanare i suoi aggressori in fuga. Altro particolare degno di nota è che solo in questo caso Ulisse va alla ricerca di un pericolo, mentre negli altri Canti è lui a dover salvare i compagni. Significa che questa avventura ha un significato preciso, il cui simbolismo appare chiaro nell’economia dell’opera.
E così, se leggiamo il presente ripercorrendo i significati simbolici del passato, possiamo ben dire che la nostra modernità non è che la continuazione dell’antichità classica con altri mezzi, ad esempio con la centralità del ruolo del danaro, il nuovo dio unico della nascente borghesia, figlia delle signorie rinascimentali. Non a caso il monumento simbolo della modernità borghese, come ci dice Franco Farinelli nella sua Geografia, è il Portico degli Innocenti, in cui per la prima volta il Brunelleschi costruisce un luogo attraverso il quale la prospettiva, la «falsa prospettiva» direbbe Florenskji, si afferma.
Firenze è la patria delle banche, del denaro che foraggia la guerra, ma soprattutto dell’esportazione di questa nuova prospettiva sul Mondo, di una visione proprietaria del globo che attraverso le «scoperte» di quegli anni, prima tra tutte l’America, diventerà il terreno di conquista per chi non solo ha la forza militare, ma disegnerà le carte che ne sanciranno i confini attraverso la geografia politica. Ma conquistatori non lo erano stati forse anche i Greci? E per dominare il Mondo non avevano dovuto anch’essi ridisegnarlo a loro immagine?
Lo sguardo di Gagarin
Ma nel secolo passato, in piena modernità, anzi forse all’inizio di questa sua ultima fase, c’è stato un uomo che ha visto con i suoi occhi ciò che nessun’altro aveva mai visto prima, che ha potuto fare una esperienza unica, irripetibile: la Terra osservata dallo spazio, finalmente tutta intera. Questo uomo è Jury Gagarin, il primo cosmonauta della storia. Lui ha colto Gaia nel suo insieme, nella sua forma reale, dal vivo, dall’alto, in tutto il suo incanto come solo gli dei avevano potuto fare sino a quel momento.
Anche Polifemo, dal suo punto di vista, è il caso di dirlo, vedeva la Terra dall’alto: Omero, infatti, ci dice che era «alto come una montagna», dunque il suo occhio osservava da un luogo elevato che gli consentiva uno sguardo sull’insieme poiché, a quei tempi, da una montagna si dominava tutto il Mondo raggiungibile.
Omero ci dice che l’occhio di Polifemo era tondo, come il Mondo, ma mai nessuno questo Mondo, questa Grande Madre resa splendente dal mantello del suo sposo Urano, come ci narra Ferecide di Siro, l’aveva guardata negli occhi. Gagarin la guarda dall’oblò della Sojuz, la navicella spaziale poco più grande di un bidone di petrolio, e vede ciò che tutti gli altri avevano solo immaginato, poetato, cantato, sognato.
Ulisse aveva addirittura accecato Polifemo per negargli questo sguardo e ridurre il Mondo alla sua dimensione umana. Astolfo si spinge sino alla Luna per recuperare il senno di Orlando, e da lassù guarda la Terra; prima e dopo di lui generazioni di visionari hanno immaginato ciò che Gagarin ha finalmente ammirato.
Dell’impresa del Sovietico si parla sempre in termini scientifico-politici: la corsa allo spazio, la competizione con gli Usa. Ma esiste un aspetto tutto immaginale, psichico, di quel primo viaggio in orbita che ci dice del suo significato simbolico, di quella Odissea nello spazio che cominciava 55 anni or sono, il 12 Aprile del 1961.
Ed infatti, la domanda più incognita era proprio: riuscirà Gagarin a sopportare la visione della Terra vista dallo spazio? La sua mente resisterà ad una immagine che nessun uomo ha mai visto, che non ha luogo se non nel Mundus Imaginalis dell’umanità ma non nella sue esperienza concreta? Ed il cosmonauta sovietico non tradisce le aspettative: da vero eroe fonda un nuovo mito, quello dell’uomo che riesce a comprendere dentro di sé la vastità del Mondo, la sua bellezza senza confini, il suo splendore senza padroni. Così lo descrive guardandolo dall’oblò della capsula, attraverso una prospettiva vera poiché il suo sguardo non solo era canalizzato da un unico punto di osservazione, ma soprattutto perché era come attirato dall’essenza luminosa di Gaia, focalizzato verso il suo invisibile centro simbolico. Nella visione di Gagarin Gaia riprende la sua podestas sullo sguardo degli uomini, il mondo delle Potenze che generarono Polifemo rinasce per un istante nella visione del cosmonauta. Esattamente il contrario di Ulisse.
La forza di queste suggestioni mitologiche è tanto forte che nei voli spaziali, più che in qualunque altra attività umana, ritroviamo i nomi delle antiche divinità: dai vettori come Atlas-Agena ai programmi come Mercurio e Apollo. Ma, anche qui, preponderanti sono le divinità olimpiche, quelle che abbiamo messo al posto di Gaia. La visione di Gagarin, cosmonauta e non astronauta, non conquistatore degli astri dunque ma vagabondo delle stelle, ha brillato forse per una sola orbita, ma grande quanto quella vastità cosmica che un tempo abbracciava l’occhio di Polifemo.
POESIA E MAGIA. È stato l’enigma meglio custodito dell’«Orlando furioso»: chi, o che cosa, è il temibile negromante che tiene prigioniero Ruggiero in cima ai Pirenei? E qual è il titolo del libro che ha in mano? Gli indizi convergono e mostrano la vera fisionomia del personaggio e la visione del mondo del poema di Ariosto
Segreto svelato: Atlante è l’atlante
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 04.12.2016)
Siamo in grado di svelare il segreto meglio riposto (ma all’inizio di Pulcinella) di tutto l’Orlando furioso : chi, anzi che cosa sia Atlante, il negromante che nel suo castello in cima ai Pirenei tiene prigioniero Ruggiero e produce incanti, illusioni e giochi di specchi.
Una quarantina d’anni fa David Quint avanzò l’ipotesi che dietro tale figura si celasse quella del Boiardo, dal cui Orlando innamorato l’Ariosto trasse molto. Poeta dunque contro poeta. Italo Calvino arrivò invece a pensare che Atlante fosse l’Ariosto stesso, che cioè egli simboleggiasse per così dire la continua lotta dell’artista, trasfiguratore della realtà, nel cavare il meglio dalla propria vena.
In realtà, come nella celebre novella di Poe sulla lettera rubata, non ci si è fin qui accorti della vera identità di Atlante perché si è cercato troppo lontano, senza avvedersi di quel che era invece subito a tiro: Atlante è l’atlante, la raccolta di carte geografiche legate insieme. «La stanza avara», come Ariosto definisce il castello del mago è insomma nient’altro che una mappa, e la «finzïon d’incanto» che la costruzione esercita è quella cartografica.
L’aspetto e l’azione dell’incantatore sono descritti all’ottava diciassettesima del Canto quarto: egli cavalca l’Ippogrifo, il cavallo alato, tenendo nella destra un libro la cui lettura produce un’«alta meraviglia». Questa consiste nel fatto che per un verso sembra che egli attacchi con l’arma, e l’impressione è talmente vivida che, preparandosi a ricevere il colpo, le vittime chiudono istintivamente gli occhi; in realtà egli è lontano, e alla sensazione visiva non corrisponde nessun contatto fisico, nessun «tocco». È il contenuto del libro a produrre l’effetto stupefacente per cui il mondo «al falso più che al ver si rassomiglia» (II, 54), la meraviglia «alta» nel doppio senso ideale e materiale, cioè di ordine superiore e allo stesso tempo di fatto sopraelevata, perché chi subisce l’assalto non cavalca in cielo ma sta a terra.
Ma di quale libro si tratta? Qual è questo libro che «facea tutta la guerra» (IV, 25)? Si tratta di un testo sul cui titolo, dunque sulla cui natura, stranamente, i commentatori non si sono fin qui molto spesi. Ma la risposta non è difficile, se si pone mente alle mosse di cui la guerra in questione consiste.
La logica dello scontro tra Atlante e il resto del mondo non si fonda soltanto sulla tecnica della falsa eliminazione della distanza, sull’illusione che quel che è lontano sia invece vicino e viceversa, ma anche sulla disparazione tra vista e tatto. Disparazione è termine tecnico che si riferisce alla differenza tra l’immagine percepita dell’occhio destro e quella dall’occhio sinistro, che il cervello ricompone in un’unica visione unitaria. Qui invece disparazione serve a definire lo scarto e la frattura tra quel che si vede e quel che si tocca, il cui incrocio risulta, per i malcapitati assaliti da Atlante, del tutto fuorviante: non soltanto la punta della lancia è lontana e non vicina come pare, ma il contatto che di conseguenza vien dato per imminente non si produce.
Si potrebbe obiettare che comunque anche in tal modo la coincidenza tra l’impressione visiva e quella tattile resta impregiudicata, perché ambedue risultano nel medesimo tempo illusorie, ambedue producono lo stesso concomitante ingannevole effetto. Ma così non è, perché si precisa (in II, 53) che Atlante «quando all’uno accenna, all’altro mena», quando fa finta di colpire uno percuote invece chi gli sta accanto: la vista cioè sembra individuare un bersaglio ma il tatto è dolorosamente costretto a smentirla e a registrarne un altro, diverso e anzi opposto.
Disparazione dunque, e anche la più decisa. Così la domanda diventa: quando nasce la diffrazione, il décalage, la differenza anzi l’opposizione tra il tatto e la vista, quando e dove s’incrina per la prima volta la loro concordanza? Al riguardo non vi sono dubbi: all’inizio del Quattrocento a Firenze, sotto il portico dell’Ospedale degli Innocenti, concepito e costruito dal Brunelleschi. La prima struttura architettonica realizzata secondo il modello della prospettiva lineare moderna, vale a dire secondo il codice spaziale.
È sotto tale portico che, con lo spazio, nasce la modernità, perché per la prima volta il soggetto vien chiamato a una decisione inconcepibile sia per l’antichità che per il Medioevo: è costretto a scegliere se credere appunto al tatto - cioè all’intero suo corpo, per il quale le linee che delimitano il pavimento del portico stesso sono rette - oppure, al contrario, concedere fiducia alla sua vista, per la quale le linee in questione appaiono al contrario convergere all’infinito, verso il punto di fuga di fronte a sé, il centro della finestrella dove fino al 1875 i trovatelli fiorentini venivano deposti.
È questa, insomma, la disparazione originaria, la scissione archetipica che fonda l’intera tattica di Atlante, e che implica tra l’altro la fine della coerenza euclidea del mondo, sovvertendone uno dei principali assunti.
Ma da dove deriva, a sua volta, il modello brunelleschiano, qual è l’origine della moderna forma di spazio? La risposta coincide appunto con il titolo del libro che Atlante reca nella destra e che tanta forza conferisce alla sua azione: la Geografia di Tolomeo, appunto un atlante e insieme un manuale d’istruzioni per costruire mappe, che da tempo gli storici dell’arte (Kim Veltman e Samuel Edgerton jr. per primi) hanno individuato come la matrice dell’invenzione della prospettiva fiorentina.
Perciò Atlante è davvero l’atlante, nel senso che quando intorno al 1570 Antonio Lafréri edita a Roma in volume le sue Tavole moderne di geografia raccolte et messe secondo l’ordine di Tolomeo, la prima collezione cartografica sul cui frontespizio appare la figura di Atlante che regge il globo, evidentemente egli sa bene di agire proprio come il negromante che imperversa nell’ Orlando furioso: costringe in un magico, poderoso edificio tutte le forme del mondo, per preservarle dalla vita che, come dicono i tedeschi, fa male alla vita. Proprio come il mago dal cavallo alato aveva imprigionato nel suo castello Ruggiero per preservarlo dalla sicura morte che egli avrebbe incontrato se avesse continuato a duellare in giro per il mondo.
Se finora non ci siamo accorti di quello che, a proposito della figura di Atlante, è sempre stato sotto i nostri occhi è soltanto perché crediamo ancora alla lezione di Max Weber, per la quale l’epoca moderna è l’epoca del «disincanto del mondo», segna la fine della magia come tecnica di salvezza. Ma dall’Ariosto si apprende invece che ogni epoca ha invece il suo incanto, tanto tragico e maggiore quanto la tecnologia avanza: il gran tema della polvere da sparo contro la cavalleria che compare nel canto nono. Allora il problema era la prima forma con la quale l’insieme dei processi che oggi chiamiamo globalizzazione iniziava a manifestarsi.
Di qui il fascino dell’ Orlando, la cui furia corrisponde allo stile parossistico del nuovo funzionamento del mondo, nel bilico di un complesso di storie che riconosce allo spazio che avanza (ad Atlante) la supremazia su ogni antica logica dei luoghi ma che si conclude con la riaffermazione dell’ umanità del destino degli esseri viventi. Per questo il Furioso resta ancora il viatico più utile per inoltrarci sulla Terra che è la nostra, oggi che la globalizzazione assume una seconda forma e spazza via quella spaziale che è stata la prima: perché Ludovico Ariosto ci ha lasciato la prima e forse fin qui unica guida per restare umani in un mondo finalmente diventato un unico globo.
Corpo celeste
di Anna Maria Ortese *
“So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere, e della dignità di ogni essere - al di là di tutte le barriere - e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.
C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bambini amati e vecchi sereni, e donne al di sopra dell’utile. [...] Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi.
Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli - che sono tutte le altre specie - può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.”
* Fonte: Quaderno 7 / Corpo Celeste (di Chandra Livia Candiani, Doppiozero, 8 Dicembre 2020)
Beata ignoranza
I danni postumi di Gelmini: cancellata la Storia dell’arte
Nel Paese dei monumenti la materia sparisce dai programmi di molte scuole
di Tomaso Montanari (il Fatto, 13.12.2013)
Le colpe dei Padri ricadono sui figli, si sa. Così pagheremo per generazioni l’idea scellerata di affidare l’Istruzione (che una volta era) pubblica a un ministro come Mariastella Gelmini. Tra le eredità più pesanti di quel passaggio fatale si deve contare l’ulteriore estromissione della Storia dell’arte dalla formazione dei cittadini italiani del futuro.
NONOSTANTE la raccolta di oltre 15 mila firme, nonostante l’appoggio esplicito del ministro per i Beni culturali Massimo Bray, nonostante la disponibilità di quasi 2500 precari prontissimi a insegnarla, la ministra Maria Chiara Carrozza non è per ora riuscita a rimediare al grave errore di chi l’ha, purtroppo, preceduta.
Fortemente ridotta negli Istituti tecnici, la Storia dell’arte è stata del tutto cancellata in quelli Professionali: dove è possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo. E nei Licei artistici non si studierà più né il restauro né la catalogazione del nostro patrimonio artistico. Inoltre si chiudono tutte le sperimentazioni che rafforzavano l’esigua presenza della Storia dell’arte negli altri licei (compresi i classici, da sempre scandalosamente a digiuno di figurativo). Numeri alla mano, più della metà dei nostri ragazzi crescerà in un radicale analfabetismo artistico.
Non si tratta di una svista, né di un caso. È stata invece una scelta consapevole, generata dal disprezzo per le scienze umanistiche in generale e da una visione profondamente distorta del ruolo del patrimonio storico artistico del Paese: che non si salverà finché gli italiani non torneranno prima a saperlo leggere. Insomma, oggi non riusciamo a trovare qualche diecina di milioni per insegnare la Storia dell’arte: domani ne dovremo spendere centinaia o migliaia per riparare ai danni prodotti dall’ignoranza generale che stiamo producendo.
Perché un italiano dovrebbe essere felice di mantenere, con le sue sudate tasse, un patrimonio culturale che sente lontano, inaccessibile, superfluo come il lusso dei ricchi? È una domanda cruciale, e se davvero si vuol cambiare lo stato presente delle cose, è da qua che bisogna partire. Per la maggior parte degli italiani di oggi, il patrimonio è come un’immensa biblioteca stampata in un alfabeto ormai sconosciuto. E non si può amare, e dunque voler salvare, ciò che non si comprende, ciò che non si sente proprio. Per non parlare della nostra classe dirigente: la più figurativamente analfabeta dell’emisfero occidentale.
LO STORICO dell’arte francese André Chastel scrisse che al Louvre gli italiani si riconoscevano dal fatto che sapevano come guardare un quadro: e lo sapevano perché, a differenza dei francesi, lo studiavano a scuola. Ma proprio ora che i francesi provano ad adottare il nostro modello, noi lo gettiamo alle ortiche.
E se non ci pensa la scuola, è illusorio pensare che lo facciano altre agenzie (potenzialmente) educative. Nei media, nei programmi televisivi, nei libri per il grande pubblico non c’è posto per una Storia dell’arte che non sia il vaniloquio da ciarlatani sull’ennesima attribuzione farlocca, o sulle mostre di un eventificio commerciale che si rivolge a clienti lobotomizzati e non a cittadini in formazione permanente.
Educare al patrimonio vuol dire far viaggiare gli italiani alla scoperta del loro Paese, indurli a dialogare con le opere nei loro contesti, e non in quelle specie di tristi giardini zoologici a pagamento che sono quasi sempre le mostre. Renderli capaci di leggere il palinsesto straordinario di natura, arte e storia che i Padri hanno lasciato loro come il più prezioso dei doni. Perché non dirottare la gran parte dei soldi pubblici spesi per far mostre (in gran parte inutili, anzi dannose) in borse di viaggio attraverso l’Italia per studenti capaci e meritevoli, di ogni ordine e grado? Ma tutto questo non si può fare se manca quel minimo di alfabetizzazione che solo la scuola può dare. E che - paradossalmente - gli insegnanti eroici della scuola dell’infanzia e della scuola primaria offrono spesso molto bene, costituendo un patrimonio di conoscenze che viene poi totalmente dissipato alle superiori.
NEL 1941, nell’ora più nera della storia europea, il grande storico dell’arte Bernard Berenson seppe distillare pagine profondissime, e sconvolgentemente profetiche, sul destino della storia dell’arte. In quei mesi, egli intravide un mondo “retto da biologi ed economisti, come guardiani platonici, dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico”. Egli previde anche che “la fragilità della libertà e della cultura” avrebbe potuto aprire la strada a una società in cui ci sarebbe stato spazio per “ricreazione fisiologica sotto varie forme, ma di certo non per le arti umanistiche”. Meno di un secolo dopo ci stiamo arrivando: anche se la Gelmini, nemmeno un Berenson poteva prevederla.
RAFFAELLO A MILANO. LA "MADONNA DI FOLIGNO" A PALAZZO MARINO
Note per decifrare il significato del quadro:
Commissionata nel 1511 dal segretario papale Sigismondo de’ Conti per la chiesa dell’Aracoeli la pala raffigura la visione della Vergine che Augusto ebbe il giorno della nascita di Cristo ... La chiave per comprendere l’apparizione si trova nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (cfr. Carlo Carminati, L’enigma del fulmine, Il Sole-24 0re, 08.12.2013, p. 37)
Nella sua Legenda Aurea, Jacopo da Varagine [Varazze] così scrive: "Narra papa Innocenzo III che il senato voleva adorare come un dio Ottaviano per aver riunito e pacificato tutto il mondo; ma il prudente imperatore non volle usurpare il nome di immortale poiché ben sapeva di essere come uomo, mortale. Insistevano i senatori nel loro proposito onde Ottaviano interrogò la Sibilla per sapere se mai sarebbe nato nel mondo qualcuno più grande di lui.
Era il giorno della Natività di Cristo e la Sibilla si trovava in una stanza, sola con l’imperatore: ed ecco apparire un cerchio d’oro attorno al sole e in questo cerchio una vergine bellissima con un fanciullo in grembo. La Sibilla mostrò questo portento all’imperatore: mentre costui teneva gli occhi fissi alla visione sentì una voce che diceva: - Questa è l’ara del cielo! -. Esclamò allora la Sibilla: - Questo fanciullo è più grande di te; adoralo -.
La stanza dove avvenne tale fatto è stata poi consacrata alla Madonna ed ora si chiama Santa Maria Ara Coeli.
Timoteo ci dice di aver trovato negli antichi libri romani lo stesso fatto raccontato in modo diverso: dopo trentacinque anni di regno, Ottaviano salì in Campidoglio e chiese agli dei chi avrebbe retto l’impero dopo di lui. Udì in risposta queste parole: - Un fanciullo celeste, figlio del Dio vivente, nato da una vergine immacolata -. Ottaviano fece allora costruire un altare e vi fece scolpire queste parole: - Questo è l’altare del figlio del Dio vivente - (...)" (Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, Libreria Editrice Fiorentina, p. 52 s.)
SIBILLA TIBURTINA *
[...] Nella seconda metà del IV secolo apparve dunque in oriente una profezia sibillina ambientata a Roma, che ha avuto ampia diffusione anche in occidente, dove è stata tradotta in latino e dove, lungo i secoli, è stata oggetto di varie riscritture. Più di un centinaio sono i manoscritti noti che ne conservano il testo, che fu ricopiato ininterrottamente dall’XI fino agli inizi del XVI secolo. Le maggiori versioni latine furono prodotte tra l’XI e il XII secolo.
Gli oracoli sibillini godettero dunque di grande diffusione nel Medioevo. Nella tradizione greca non si parla mai esplicitamente della Sibilla Tiburtina; tuttavia, come accennato, la veggente pronunzia il suo oracolo a Roma: la profetessa rivela ad Augusto l’avvento prossimo del figlio di Dio. Di questo celeberrimo racconto, sono note due differenti versioni, una diffusa in oriente e l’altra in occidente. Nella versione orientale, attestata nel VI secolo dal Chronicon di Giovanni Malalas, autrice della rivelazione non è una Sibilla, bensì la Pizia: è a lei, infatti che si sarebbe rivolto Augusto per conoscere il nome del proprio successore. La sacerdotessa di Apollo, simbolo di tutti gli oracoli pagani, ridotti al silenzio dall’avvento di Cristo, avrebbe detto all’imperatore di allontanarsi dagli altari, perché un fanciullo ebreo le imponeva ormai di tornarsene nell’Ade. L’imperatore avrebbe in seguito eretto un altare sul Campidoglio dedicato al figlio di Dio.
Il venerabile Beda (672 -735 d. C.), invece, attesta nella sua opera che tale oracolo fosse attribuito alla Sibilla Tiburtina e non alla Pizia.
A ricordo dell’ evento, per molti secoli, i francescani della Chiesa portavano in processione un’insegna della Sibilla che indicava un cerchio all’interno del quale era rappresentata la Vergine con il bambino in grembo. Tale rappresentazione sarà di grande uso nell’iconografia medievale come specificheremo in seguito. I francescani cantano tuttora tali versi: Stellato hic in circulo Sibyllae tunc oraculo, te vidit, Rex in coelo durante le feste di Natale.
La leggenda godette di enorme fortuna: ad essa si riferisce un sermone sulla Natività di papa Innocenzo III (1198-1216) . Nel XII secolo, nei Cronica imperatorum, la Sibilla Tiburtina figura sia come la profetessa della leggenda dell’Ara coeli, sia come l’interprete del sogno dei nove soli. Tra l’XI e il XII secolo, è attestata la confluenza, sulla figura di una Sibilla chiamata Tiburtina, di tre diverse tradizioni profetiche: il sogno dei nove soli, l’acrostico sul Giudizio Finale e la profezia della nascita di Cristo.
2013, nov 27 *
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
*
Della terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
ALLA RICERCA DI DIO. OLTRE IL SACRO E LE RELIGIONI. IL XXXIV INCONTRO NAZIONALE DELLE CDB
Adista Notizie n. 40 del 16/11/2013
37375. CASTEL SAN PIETRO (BO)-ADISTA. (dall’inviato) È la prima volta, negli oltre quarant’anni dalla nascita del loro movimento, che le Comunità Cristiane di Base scelgono Dio come “oggetto” di un loro incontro nazionale, il XXXIV, svoltosi a Castel San Pietro Terme dal 1° al 3 novembre scorso. A tutta prima, una contraddizione, visto che alla fine degli anni ‘60 la storia delle CdB iniziava proprio mentre si affermava la teologia della morte di Dio, si discuteva di alienazione religiosa e si rifletteva sull’affermazione della fede senza religione proposta da Bonhöffer. C’era, all’epoca, una certa diffidenza verso la teologia che si considerava scienza impegnata a investigare sull’esistenza di una realtà di cui nulla dice la ricerca scientifica e su cui si sono date, e si danno, definizioni le più disparate. Si preferiva allora guardare alla teologia “negativa” (di Dio si può dire solo che nulla si può dire) o a quella della liberazione, che incentrava sull’essere umano e sulla sua liberazione “l’evangelo” di Gesù e il messaggio della Bibbia.
Ma oggi siamo in un contesto storico ed ecclesiale radicalmente mutato, in cui prepotente è il “ritorno di Dio” e più in generale, un’attenzione al divino che si traduce in tanta parte della società laica e credente in una risposta al senso di smarrimento, alla mancanza di senso, alla difficoltà di leggere ed interpretare il presente in termini prettamente, se non esclusivamente, religiosi (è la religione, infatti, che si è sempre occupata di veicolare l’immagine di Dio). Valeva certo la pena da parte delle CdB di proporre la loro particolare lettura di Dio. Un Dio non consolatorio, ma la cui ricerca spinge ad un rinnovato impegno alla cittadinanza, lontano da stereotipi vecchi e nuovi, dall’immagine patriarcale come da quello tradizionale veicolato da secoli di teologia.
Si fa presto a dire Dio?
Forti anche dell’esperienza più che ventennale dei gruppi donne delle CdB italiane, che, insieme ad altri gruppi di donne, hanno avviato innovativi percorsi di ricerca e che sono state tra le organizzatrici e tra le animatrici del seminario, le CdB, nel corso del dibattito che ha caratterizzato i lavori del loro seminario nazionale - dal significativo titolo “Si fa presto a dire Dio...” - hanno così ribadito il loro saldo ancoraggio ad una visione militante della fede, alla preferenza per il Dio di Gesù, che non si fa attrarre da tentazioni “accademiche” o spiritualistiche. Soprattutto, il seminario ha ribadito l’istanza, portata avanti in questi anni soprattutto dalle donne delle comunità, di demistificare il modello di «Dio come uno, maschio, onnipotente, universale», per dare spazio, come è stato rilevato nel momento di spiritualità e condivisione di domenica 3 novembre, «ad una lettura aperta» in campo teologico, per «decostruire e rinominare un divino che supera concetti astratti come “trascendenza” e “immanenza”»; per «far nascere una relazione fra il divino che è in noi e quello fuori di noi, il “Dio” cosmico», che è sempre stata l’opzione radicale delle Comunità di base, oltre che di altre realtà ecclesiali di base.
In questo percorso di “riscoperta”, ma soprattutto di rivelamento di un Dio sottratto al monopolio del sacro, le CdB non sono sole. Anche “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, il cartello di realtà ecclesiali che diede vita al partecipato incontro al “Massimo” di Roma per i 50 anni dell’apertura del Vaticano II (settembre 2012), dedicherà il suo prossimo appuntamento (maggio 2014) ad una riflessione su quale Dio per quale Chiesa.
Importanti e significativi i contributi al convegno portati dai relatori “interni” ed “esterni” al movimento delle Comunità: nei tre giorni dei lavori sono intervenuti Giancarlo Biondi, ordinario di Antropologia all’Università de L’Aquila (il titolo della sua relazione era: “Prodotti dalla sola evoluzione”), Giulio Giorello, ordinario di Filosofia della Scienza all’Università di Milano (“Ateismo tra giustizia e libertà”), Luciana Percovich, scrittrice e ricercatrice della Libera Università delle Donne di Milano (“Dipanando il mito di Adamo ed Eva”), Letizia Tomassone, teologa e pastora valdese (“Al di là di Dio Padre. Il percorso di fede e di ricerca di Mary Daly”), i gruppi Donne delle CdB italiane e altri gruppi femminili/femministi (“Una sottile striscia di futuro”); Giovanni Franzoni, della CdB S. di Paolo, Roma (“Misericordia chiedo, non sacrifici. Come parliamo di Dio nelle CdB italiane”).
A confronto con chi non crede
Diversi i contributi al dibattito di studiosi e ricercatori non credenti. Tra essi, Biondi ha spiegato i meccanismi che regolano l’evoluzione all’interno delle specie viventi. Ha poi parlato del difficile rapporto tra la teoria darwiniana e la Chiesa istituzionale. Dalla condanna irrevocabile dell’800, all’accettazione dell’evoluzionismo da parte di Pio XII, che la considerava una ipotesi con la stessa dignità di quella creazionista; fino a Giovanni Paolo II, che accettava l’evoluzionismo asserendo che è più di un’ipotesi, ma escludeva che il criterio evoluzionista fosse integralmente applicabile all’essere umano, cui ad una natura biologica si affianca una natura non biologica, l’anima, che viene direttamente da Dio. Per Biondi tutto, anche i comportamenti morali, è frutto dell’evoluzione, perché legato alla dimensione sociale di molte specie animali. In particolare dei primati. Tra essi, e Biondi lo spiega con dovizia di esempi tratti da esperimenti scientifici fatti su animali in cattività, esiste un diffuso sentimento compassionevole che porta a stare vicini a chi soffre.
Giorello ha raccontato come il suo rapporto con la religione sia sempre stato molto conflittuale, sin da quando, «giovane e intemperante», era «drastico nel sostenere che la condizione del religioso è servile perché presume una forma di obbedienza a figure, istituzioni o tradizioni che è contraria all’attività scientifica». La religione come sottomissione aveva per Giorello la sola “giustificazione” storica di essere una schiavitù - indotta da abitudine, o volontaria - da mostrare alle persone che volevano essere libere affinché evitassero di ripeterne meccanismi e forme. Allo stesso modo però Giorello ha sostenuto con forza il rifiuto di una qualsiasi forma di “religione della scienza”, perché - ha detto - anche nel campo scientifico ci sono forme di opportunismo, dogmatismo, esistono lotte di potere, condizionamenti economici e politici che fanno degli scienziati uomini e donne come tutti gli altri. La religione come distruzione del dubbio e del pensiero critico, che Giorello ha detto di aver conosciuto sui banchi del liceo Berchet, durante le lezioni di religione cattolica tenute da don Luigi Giussani, è un modello da continuare a rifiutare con forza; ma a cui si può oggi contrapporre un dialogo franco e paritario tra chi sceglie di essere ateo come metodo, cioè per sondare quali possibilità si aprano a chi decida di procedere senza Dio e senza fondamenti teleologici, e quella parte dei credenti che, come ha mostrato il card. Carlo Maria Martini, prediligono il dubbio alla certezza, una religione positiva nel contesto di una società pluralistica.
Percovich, studiosa attiva nel movimento delle donne sin dagli anni ’70, ha indagato il mito ebraico di Adamo ed Eva collegandolo alle tantissime narrazioni fondanti dell’intera umanità, che chiamano in causa il tema del rapporto tra femminile e maschile. Le più antiche civiltà, ha sottolineato Percovich, hanno immaginato un’origine esclusivamente femminile, dove la Madre o la Dea, l’elemento femminile che rappresentava il ciclo della natura e dell’esistenza, il mistero della nascita e della riproduzione, dava la vita ma anche la forma, ossia quell’insieme di regole, insegnamenti e strumenti indispensabili per continuare la creazione. Attraverso la partenogenesi o una qualche emanazione di sé, questa prima Madre generava una o più figlie, poi i figli maschi, e tutte e tutti venivano educati all’armonia e all’equilibrio. Nel nuovo ordine patriarcale, l’energia femminile è stata progressivamente o traumaticamente compressa, marginalizzata finché, snervata e chiusa in gabbia, non ha più saputo fornire nessun insegnamento né contenimento.
I lavori, seguiti da oltre 170 persone, mostrano una forte vitalità del movimento delle CdB, nonostante siano molte le realtà ecclesiali nate in tempi recenti che non vi si riconoscono, anche se in alcuni casi esprimono istanze simili di partecipazione del Popolo di Dio nel cammino di una fede adulta, responsabile, liberante. Segno che la radicalità di una scelta che da oltre quarant’anni rivendica il diritto di essere Popolo di Dio fatto di cittadini e non di sudditi, dentro la Chiesa come nella società, produce ancora frutti. (valerio gigante)
Le prime a sapere sono le donne
di Tomaso Montanari (il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2013)
La domenica di Pasqua non è cominciata: è ancora buio, l’alba è lontana. Ma tre donne, le Marie, sono già sveglie: hanno camminato a lungo, sono arrivate dove giace il loro amico e maestro Gesù, morto sulla croce. Vogliono ungerne il corpo con unguenti profumati: l’ultimo atto di amore, prima di chiuderlo nel sepolcro, prima di non vederlo più. Ma, ecco, appena arrivate alla tomba, ci trovano seduto sopra un angelo: un ragazzo biondo, bellissimo, coperto solo da un mantello candido. Come in una nuova annunciazione, l’angelo chiede: «Perché cercate tra i morti quello che è vivo?». E aggiunge: «Non è qui, è resuscitato!». La tomba, infatti, è scoperchiata e il ragazzo ne regge il coperchio di pietra: e nelle sue mani sembra di plastica, di polistirolo, tanto è leggera, per lui. Intorno, a confermarne le parole inaudite, si apre un abisso di luce e di nuvole: il paradiso stesso, sceso in terra.
E le Marie che fanno? Sono scosse, colpite, quasi tramortite. Si gettano a terra, si inchinano, si prostrano. Maddalena non ha ancora capito che il suo unguento, ormai, non servirà più: e sembra offrirlo, con generosa ingenuità.
Bartolomeo Schedoni (un pittore vissuto a Parma a cavallo tra Cinque e Seicento) ci presta lo sguardo della sua fantasia, le sue mani, la sua sensibilità. Sul fondo nero i colori spiccano come smalti lucidi, le figure ritagliate sembrano sagome di cartone. È come se un uomo della generazione e della cultura di Pontormo avesse potuto vedere il mondo e i suoi colori attraverso gli occhi di Caravaggio: un strano incrocio, straordinariamente affascinante.
La pittura ha il dono di fermare l’attimo. Sotto questo cielo elettrico, carico di pioggia, Bartolomeo vuol fermare per sempre il momento decisivo per la storia umana: queste tre donne sono le prime a sapere che la morte non è la fine. Che dopo la morte c’è la resurrezione: come dopo la notte arriva la luce dell’alba. La luce dell’alba che, nel quadro, dissipa le tenebre della notte, con un effetto di controluce che estende all’aria, alla terra, al cielo e a tutte le cose la tensione e il dramma della storia.
Le Marie distendono le braccia, aprono le mani, mettono in gioco il loro corpo: ad ogni parola dell’angelo i loro muscoli si tendono sempre di più, le labbra si aprono all’incredulità, le braccia all’emozione. Tra un attimo scapperanno via: ad avvertire Pietro e gli altri, a dire al mondo che la morte è stata sconfitta. Proprio come la notte è ferita e uccisa dalla luce di Schedoni, e dai suoi colori indimenticabili.
CONTURSI TERME, 12 AGOSTO 2013: PRESENTAZIONE DEL LIBRO "DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE".
RELAZIONE DEL PROF. GIUSEPPE CACCIATORE (UNIVERSITA’ DI NAPOLI) SUL LAVORO DI FEDERICO LA SALA
Il “luogo d’inizio” di questo libro* di Federico La Sala (filosofo originario di Contursi e docente per oltre un ventennio in un liceo milanese) è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine a Contursi. Qui sono stati riportati alla luce alcuni affreschi che raffigurano le sibille, profetesse annuncianti, già in era pagana, l’avvento del Cristo. E’ da questo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico, storico-religioso e filosofico di La Sala.
Sullo stile di pensiero e di scrittura (filosofica innanzitutto, ma anche storica, artistica, estetica) di Federico La Sala ha detto in maniera efficace Fulvio Papi, nella sua breve e intensa prefazione.
Parto da essa perché, con sagace intuizione, Papi coglie un aspetto, solo apparentemente didascalico-espositivo, che pone il lavoro di La Sala in una benefica distanza dalle scritture teoretico-essenziali, capaci di riscrivere le grandi filosofie di Platone e Aristotele, di Ficino e Bruno, di Vico e di Kant, di Hegel e di Nietzsche, e così via elencando, senza mai citare un testo e men che mai un riferimento alla letteratura critica.
Così, l’apparente sovrabbondanza di citazioni ed eserghi ha solo lo scopo, è ancora Papi a scriverlo, di ricercare la “risonanza” della parola che il lettore si dispone ad accogliere, sfuggendo così al “sospetto” suscitato dalle “architetture filosofiche” fin troppo impegnate a rappresentare concettualmente “qualsiasi forma dell’essere”.
Il ritrovamento del vero e proprio “poema pittorico” degli inizi del secolo XVII, scoperto durante i lavori di restauro della chiesa di S. Maria del Carmine, induce La Sala a mettere in pratica un difficile e tuttavia interessante esercizio di analisi compiuta a più livelli: storico-artistico, letterario, filosofico, teologico, allegorico-simbolico.
Il livello storico-filosofico e poi anche teologico - accompagnato, tra le altre citazioni a mò di esergo, da una lunga e profetica pagina di Eugenio Garin sull’onda lunga della cultura del Rinascimento e della sintesi platonico-cristiana riversatasi sui secoli successivi - interpreta la narrazione figurativa (le 12 sibille pagane e i profeti ebraici Elia e Giovanni Battista) come trascrizione di un viaggio iniziatico ed ermetico che conduce il pellegrino ideale da Maria madre del Cristo al figlio che accede al regno dei cieli.
La filosofia si annuncia a partire dai frammenti dell’opera parmenidea, là dove il viaggio-guida dell’uomo è tracciato dalle dee-fanciulle che indicano la via. Sono le “figlie del sole” che, lasciate le “case della notte” spingono “il carro verso la luce” fino ad arrivare alla porta che divide i sentieri della notte e del giorno. Oltre la porta la dea indicherà al viandante le vie della ricerca tra le quali dovrà scegliere: quella dell’essere, il sentiero della persuasione, e quella del non-essere, cioè della indicibilità e inesprimibilità.
Quello che, tuttavia, a me interessa molto del percorso interpretativo attivato da La Sala, è la funzione non solo simbolica e iconografica dell’immagine, ma anche e soprattutto filosofica, gnoseologica ed etica.
Resto convinto che si debba ancora oggi discutere filosoficamente il problema dell’immagine, nel senso di una sua inaggirabile valenza che è in prima istanza mentale e neuroscientifica, per diventare poi fatto antropologico ed etico-politico. Ed è proprio il lavoro svolto negli ultimi decenni dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze a confermare ciò che già Vico ad esempio aveva intuito, e cioè che l’immaginazione non è più relegabile nel mondo separato della res cogitans.
Spinoza, Vico Kant, ognuno per suo conto e anzi con diverse modalità di pensiero, hanno sostenuto che ogni atto di coscienza, e persino ogni percezione, si presenta come un’esperienza creativa - il poietico che si fa poetico - ed anche i meccanismi e gli atti della memoria non sono solo fenomeni scientificamente descrivibili e misurabili, ma anche ed essenzialmente prodotti immaginativi.
Ho citato Vico perché La Sala è autore di una serie di interessanti osservazioni sul pensiero e l’opera del filosofo napoletano. Ho già avuto modo di esprimere privatamente il mio interesse per talune sue analisi, anche se, come ho già avuto modo di dirgli in una mia lettera, io resto, per formazione e struttura mentale e disciplinare di storico della filosofia, legato all’organizzazione sistematica del discorso più che al pur rispettabile stile dell’aforisma e del frammento.
Ho anche io - in molte pagine dedicate a Vico - insistito sulla centralità che nella sua opera ha l’idea di una metafisica della mente umana commisurata alla debolezza delle passioni e alla finitudine del fare umano.
La Sala parla nelle sue incursioni nell’opera vichiana di “mente accogliente” (che è anche il titolo di un suo libro che, non a caso, si apre con la famosa immagine della dipintura che fa da premessa iconologica e sinottica al capolavoro di Vico).
La “dipintura” allegorica (progettata da Vico e realizzata dal pittore Domenico Antonio Vaccaro), è la straordinaria summa figurativa di una profonda intuizione filosofica.
All’immagine si accompagna un’introduzione in forma di spiegazione, dove si ragiona sul significato simbolico assegnato ai molteplici segni che, nel loro insieme, costituiscono la dipintura, e dove si staglia in una posizione di centralità la donna dalle tempie alate, la metafisica. Questa, anche per la posizione significativa di medium concettuale e iconologico, non si limita a contemplare Dio “sopra l’ordine delle cose naturali”, ma osserva anche il mondo delle menti umane.
Ciò è importante perché conferma che Vico non nega in alcun modo il ruolo della Provvidenza nella vita degli uomini, ai quali tuttavia spetta un margine di autonomia, di facere individuale. Proprio per questo il globo posto ai piedi della donna è poggiato su un solo lato dell’altare, e simbolicamente rappresenta il fatto che avendo i filosofi “contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte”, trascurando quella “ch’era già propia degli uomini, la natura de’ quali ha questa principale propietà: d’essere socievoli”.
La Sala ha ripreso e sviluppato, dal suo punto di vista questi temi in un commento alla recente edizione Bompiani del capolavoro vichiano che raccoglie insieme le tre edizioni della Scienza nuova (1725, 1730, 1744).
Ma torniamo ai contenuti del libro che a me pare convergano su una lettura classica della tradizione umanistica neoplatonica (a partire da Gemisto Pletone) incentrata in modo particolare sull’idea di Prisca Theologia e di profetismo preparatorio al Cristianesimo, visibile in quella tradizione ermetica così sapientemente studiata dalla Yates.
È in questo contesto che si inserisce la ricerca di La Sala sulle tracce di alcuni esempi di arte figurativa raffiguranti motivi profetici dell’avvento del Cristianesimo (com’è il caso dei mosaici nella cattedrale di Siena che ritraggono Ermete Trismegisto e le sibille). Ancora più significativo è il caso degli affreschi del Pinturicchio nell’appartamento Borgia, commissionati da Alessandro VI che fu convinto difensore di Pico della Mirandola e della sua astrologia filosofica. In essi ritroviamo le dodici sibille che profetizzano l’avvento di Cristo e i dodici profeti ebraici, ma poi ricompare anche il Trismegisto.
Fu, tra gli altri, Fritz Saxl, come ricorda la Sala, a considerare quegli affreschi come la manifestazione evidente di una tendenza che intendeva dimostrare che la storia del Cristianesimo cominciava prima di Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane. E gli esempi di raffigurazione di profeti e sibille citati da La Sala continuano: la cappella della Madonna dell’acqua di Rimini; la cappella Sistina con la mirabile rappresentazione di uno schema narrativo che va da Dio alla Sacra Famiglia, con le sibille e i profeti.
Ma io vorrei tornare ai contenuti filosofici del libro di La Sala. Questi si mostra giustamente convinto - come lo sono alcuni dei filosofi che hanno segnato la riflessione sulla crisi della modernità - della necessità di un radicale mutamento di paradigma rispetto a ciò che la tradizione dei padri ci ha trasmesso.
Ma il passaggio non è facile, perché come acutamente osserva il nostro autore, una nuova teoria, come già sapeva Kant, nasce, come un nuovo sistema solare, solo dopo una lunga gestazione e da una primordiale nebulosa, quasi come il raggio divino della dipintura vichiana che rompe l’oscura notte di tenebre delle origini del mondo. Per questo, sostiene La Sala, occorre impegnarsi per una nuova cultura che sappia porsi “all’altezza del nostro presente storico”.
Fin qui il mio pieno accordo con La Sala, ma nel passare dall’enunciato alla sua chiarificazione e praticabilità, confesso di essermi disperso - probabilmente per limiti miei di comprensione - nei tanti, e sicuramente interessanti, rivoli della sua fantasmagorica argomentazione che trova il suo nocciolo - se ho ben capito - nel saper pensare insieme la molteplicità delle cose e il Principio. Così dopo un percorso apparentemente intricato si torna al vero padre fondatore della filosofia moderna e, per me, e lo dico provocatoriamente, anche di quella post-moderna: Emanuele Kant.
Dunque, la fine della storia - come dice La Sala - comincia proprio quando la ragione kantiana ha compiuto la grande svolta filosofica e antropologica: l’unione di terrestrità e cielo stellato, coscienza sensibile e coscienza intellegibile, entrambe racchiuse nell’unità del corpo-soggetto (vere duo in carne una).
Già a partire da Kant veniva messa in discussione l’idea di una ragione pura, metafisica e assoluta e venivano poste le premesse della ragione impura, storica, civile, cosmopolitica, capace ancora una volta di pensare corporeità e intellegibilità, differenza (anche sessuale) e identità.
Concludo con due citazioni. La prima è tratta dalla Sacra Famiglia di Marx e Engels (ed è uno degli eserghi scelti da La Sala). “Come poteva la soggettività assoluta, l’actus purus, la critica pura, non vedere nell’amore la sua bête noire, il Satana in carne e ossa, come poteva non vedere ciò nell’amore, che per primo insegna veramente all’uomo a credere nel mondo oggettivo fuori di lui, che non solo trasforma l’uomo in oggetto, ma perfino l’oggetto in uomo”. E mi verrebbe da dire: alla faccia del nuovo realismo!
La seconda citazione è di La Sala: “L’indicazione di Kant non è affatto trascurabile, né sottovalutabile: è carica di teoria come di futuro: E’ un’intenzione e un invito a ricominciare da capo, senza tornare al di qua o andare al di là dell’orizzonte critico, e senza abbandonare il corpo e la Terra (...) Dopo Schopenhauer, dopo Feuerbach, dopo Marx, come dopo Nietzsche e Freud, oggi, forse, siamo finalmente più preparati e pronti per rispondere. Riusciremo a portare a compimento la rivoluzione copernicana e ad abitare la terra serenamente?”.
GIUSEPPE CACCIATORE
*
DAL SITO DEL COMUNE DI CONTURSI TERME (SALERNO), MATERIALI SULLA
Presentazione del libro di
Federico La Sala
DELLA TERRA IL BRILLANTE COLORE
Parmenide, una ”Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica
Prefazione di Fulvio Papi
Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 156, € 15,00
Lettera a Papa Francesco sulla posizione delle donne nella Chiesa
di Giancarla Codrignani *
Da: GIANCARLA CODRIGNANI
RENDO PUBBLICA LA LETTERA INVIATA A PAPA FRANCESCO: SONO STATA SOLLECITATA DALL’ INTERESSE CHE DIMOSTRA PER RIFORMARE LA POSIZIONE DELLE DONNE NELLA CHIESA. ALCUNI INDIZI (divieto al sacerdozio femminile, intervento ai convegno dei ginecologi, scomunica di un prete americano favorevole all’ordinazione delle donne) E DALLA NOTIZIA, FORNITA DA "EL PAIS" E RIPRESA DA "FAMIGLIA CRISTIANA", CHE ANTICIPA L’IPOTESI DELL’INSERIMENTO DI UNA DONNA NEL COLLEGIO CARDINALIZIO. SE FOSSE VERO, PAPA FRANCESCO OTTERREBBE UN GRANDE SUCCESSO MEDIATICO, MA NON INCONTREREBBE IL FAVORE DELLE DONNE, CHE NON CHIEDONO UN POSTO NELLA GERARCHIA CHE LE OMOLOGHI AL MODELLO MASCHILE ANCHE NELLA CHIESA, MA IL RICONOSCIMENTO DELLA LORO SOGGETTIVITA’ AUTONOMA.
HO ALLEGATO ALLA LETTERA UN DOCUMENTO DI CARLO MARIA MARTINI CHE, INTERVENENDO AD UN CONVEGNO NEL 1981, ESPRESSE IN MODO STRAORDINARIAMENTE EFFICACE IL SENSO CHE DEVE AVERE IL TARDIVO RICONOSCIMENTO DELLA POSIZIONE DELLE DONNE NELLA CHIESA.
LA LETTERA NON E’ PIU’ RISERVATA
Caro Papa Francesco,
come non provare sentimenti di amicizia e di fraternità nei suoi confronti e non solidarizzare con i segnali che viene lanciando attraverso l’infittirsi di relazioni con persone più o meno note della società italiana? Non intendo accrescere il numero dei corrispondenti che incomincia, forse, a farsi molesto; ma sono indotta a interpellarla dopo la notizia del suo intento di pronunciarsi sullo spazio da assegnare alle donne nella Chiesa. Presumo sia anche per lei un dato di realtà che non i disegni di Dio, bensì i ruoli gerarchicamente diversi che uomini e donne hanno storicamente assunto comportano differenze che non vanno sottovalutate, soprattutto se si ricercano nuovi equilibri.
Essendo anche lei un uomo come gli altri, sa bene che difficilmente agli uomini capita di dire parole adeguate quando parlano con noi, soprattutto se pensano di parlare "per" noi. Anche la Chiesa ci conosce solo attraverso una convenzione che non corrisponde alla nostra ermeneutica, di credenti e di non credenti: senza una donna non ci sarebbe stata nascita, senza un’altra donna non ci sarebbe stato annuncio (sarebbero mai arrivati al sepolcro vuoto gli apostoli senza Maria di Magdala?). Come "genere" siamo meno sensibili alle ambizioni di potere che sono incoerenti, almeno nella Chiesa, anche per un uomo. Tuttavia non siamo così stolte da non esser state sempre consapevoli che, anche se in dottrina non si ritrovano giustificazioni alla discriminazione, la Chiesa è rimasta maschile fin da quando la tradizione dei primi secoli ha trasmesso gli scritti dei "padri" della Chiesa e non delle madri, menzionate solo in quanto viri dimidiati.
Carlo Maria Martini fin dal 1981 ha posto l’urgenza di un nuovo riconoscimento della presenza femminile nella Chiesa, ma non ne sono seguite innovazioni. Anzi l’attribuzione al nostro genere di uno speciale "genio femminile" è rimasto nel tradizionalismo e non sono sembrate amicali le misure adottate dal suo predecessore per accertare l’ortodossia della Federazione delle suore americane (LCWR).
Per questo sono certa della sua informazione previa sull’ormai imponente letteratura specifica di teologhe e filosofe e dell’ opinione femminil-femminista (uso l’aggettivo, anche se riprovato da rappresentanti della gerarchia poco attenti alle dinamiche sociali) del popolo di DIo e anche della condivisione delle idee con donne religiose e laiche cattoliche (ma non solo).
Tuttavia oso esprimerle la mia preoccupazione: in tempi in cui la Chiesa soffre abbandoni "di genere", le donne si aspettano di ottenere non rappresentanza, ma riconoscimento di soggettività. Non le deluda. Perdoni la confidenza nella sua disponibilità. La ricordo con sentimenti di fiducia e affetto
G.C.
Perché, si chiede ad esempio la donna, identificare l’immagine di Dio con quella trasmessaci da una cultura maschilista? Quale l’annuncio kerigmatico per lei, non rinchiuso in una visione moralistica? Quali indicazioni per un cammino spirituale e di santità che la stimolino adeguatamente? Quali indicazioni per una rinnovata prassi pastorale, per un cammino vocazionale per il matrimonio, per la consacrazione religiosa, la famiglia, in considerazione della nuova coscienza di sé che la donna ha acquisito? Quali indicazioni per un linguaggio globale, anche liturgico, che non faccia sentire esclusa, nella sua elaborazione, la donna?
Perché così poche e inadeguate risposte alla valorizzazione del proprio corpo, dell’amore fisico, dei problemi della maternità responsabile?
Perché la pur grande presenza delle donne nella Chiesa non ha inciso nelle sue strutture? E nella prassi pastorale perché attribuire alla donna solo quei compiti che lo schema ideologico e culturale della società le attribuiva, e perché non esplicitare i suoi carismi "opera dello Spirito Santo"?
I ruoli ecclesiali affidati alle donne sono allora secondo i carismi di una Chiesa condotta dallo Spirito oppure ancora frutto di una mentalità maschile?
Le donne si chiedono tutto questo. Non sempre lo esprimono. Sentono ancora timore a infrangere una “iconografia” della donna cristiana, dentro la quale peraltro stentano a riconoscersi e non riescono più ad adattarsi.
La Chiesa deve porsi in ascolto. Deve lasciarle esprimere da protagoniste. Il loro modo di leggere, interpretare la vita ha una rilevanza che deve segnare un cammino pastorale che non può vedere le donne perennemente soggette o brave e fedeli esecutrici, quasi vergognose o timide di fronte alla forza che potrebbero esprimere in novità.
I ministeri, carismi, servizi, sono doni per la comunità ed esigono una profonda e attenta rilettura che apra nuove vie alla comprensione del ruolo delle donne nella Chiesa.
La filosofia e la teologia nelle loro varie branche, l’esegesi biblica, la pastorale hanno un compito urgente da svolgere con gli strumenti che a loro sono propri.
Le scienze umane aprono loro ampi spazi di documentazione e di fondazione. Ma anche la vita delle donne, anzi, dalla loro vita parte un richiamo fortissimo di novità. Le più mature non esprimono vane rivendicazioni di false parità: chiedono di costruire in pienezza e con coraggio, mettendo in discussione se stesse, la società e la Chiesa.
* Il Dialogo, Mercoledì 30 Ottobre,2013
LA COSTITUZIONE E LA NASCITA DEI BAMBINI: RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Cosa succede in casa - nella “camera nuziale”, e cosa succede in Parlamento - nella“camera reale”?! Per un nuovo "romanzo familiare", politico e teologico!!! *
L’ALTALENA E LA CRISI: UN RIMEDIO PER ATENE DALL’ORACOLO DI APOLLO. Un’ottima indicazione terapeutica, valida ancora oggi, per i tragici fantasmi di un falso modo di pensare alla generazione degli esseri umani. Una nota di Eva Cantarella
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L’invenzione dell’altalena che salvò le ragazze di Atene
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 28.08.2010)
Pochi giochi ci hanno reso felici, nell’infanzia, come l’altalena: la sensazione di volare, di toccare il cielo, il vento tra i capelli... Un gioco semplice, universale. Vien fatto di pensare che sia sempre esistito. Ma i greci non la pensavano così. L’altalena, per loro, aveva un luogo e un momento di nascita ben precisi, e anche, quantomeno ad Atene, una importantissima funzione sociale. A raccontarci quale fosse questa funzione è, come sempre, un mito. Nella specie, un mito poco noto, ma legato a uno celeberrimo: quello degli Atridi raccontato da Eschilo nell’Orestea.
La perfida Clitennestra, che d’accordo con il suo amante Egisto ha ucciso il marito Agamennone, viene uccisa dal figlio Oreste, che vuole - e nella mentalità dell’epoca deve - vendicare il padre. Ma, anche in quel mondo, il terribile mondo della vendetta, il matricidio è una colpa inespiabile.
Perseguitato dal rimorso Oreste fugge, inseguito, oltre che dalle Erinni che vogliono fargli pagare il terribile gesto, anche dalla sorellastra Erigone, la figlia che Clitennestra ha avuto da Egisto.
Ma quando giunge ad Atene Oreste viene assolto: «Il vero genitore - decreta la dea Atena, esprimendo quel che pensavano se non tutti, quantomeno molti greci - non è la madre, bensì il padre». A questo punto Erigone, disperata, si impicca. Senonché, quando la notizia si sparge, le vergini ateniesi, come se fossero state contagiate, prendono a impiccarsi in massa. La città rischia di estinguersi.
Preoccupatissimi, gli ateniesi si precipitano a interpellare l’oracolo di Apollo, che suggerisce un rimedio: basta costruire delle altalene, così che le ragazze possano dondolarsi nell’aria, come quelle che si impiccano, ma senza perdere la vita. La città è salva, gli ateniesi sono felici, le ragazze ateniesi ancor più di loro, e l’altalena diventa il gioco preferito delle ragazze di tutti i tempi.
"Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, La Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]: così inizia il cap.15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli delle donne” (p. 91).
Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: “[...] fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano [...] che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme”(Françoise D’Eaubonne).
Dopo e nonostante questo - l’acquisizione che i soggetti sono due e che tutto avrebbe dovuto essere ripensato, si continua come prima e peggio di prima...
*** Un nota sul “disagio della civiltà”
Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante.
di Federico La Sala (Il Dialogo, 17 novembre 2005)
Il ’delirio’ della Gerarchia della Chiesa ’cattolico’-romana è ormai galoppante!!! E se vogliamo aiutarla a guarire o, che è lo stesso, se vogliamo aiutarci a guarire (il ’delirio’ è generale, e non solo suo!!!) non possiamo non riprendere a pensare - a partire da noi stessi, e da noi stesse!!! Il problema è pensare proprio a partire da noi, dagli esseri umani in carne ed ossa - dalle persone, quale siamo e quale vogliamo essere, da quell’individuo che non sia un (o una) “Robinson”, come voleva il ’vecchio’ Marx non marxista e non hegeliano!!!
Basta con le robinsonate! La questione è la Relazione (Dio è Amore), e una relazione non edipica!!! Una relazione edipica (sia dal lato della donna sia dell’uomo) porta a postulare l’esistenza di un “dio” (un dio-uomo o un dio-donna) e, di qui, la concezione di un ’mondo’ dove il diritto di comandare in cielo e in terra sia del “dio” (del dio-uomo o del dio-donna)!!!
Da questo punto di vista, la Chiesa ’cattolico’-romana è solo l’ultimo baluardo di quel “dio” che garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’educazione edipico-capitalistica. Perché i sacerdoti (se vogliono) non si possono sposare?!, o perché le donne non possono diventare sacerdot-esse?!, ma perché il “dio” è concepito come dio-uomo e, come tale, solo il dio-figlio può essere come il dio-padre... e la donna solo come la madre-dea.
Sulla terra (e per tutti e per tutte) il Dio-Figlio è il figlio-dio e il fratello di tutti e di tutte, ma in cielo solo Lui può essere il Padre... e lo Sposo della Madre - e, siccome è solo lui che può avere rapporti con il cielo (ma il messaggio di Gesù proprio perché è un buon-messaggio dice che tutti e tutte siamo tutti e tutte figli e figlie di Dio-Amore... e tutti e tutte possiamo avere rapporti con “Lui”!!!), deve essere anche ’donna’ (perciò si traveste così come si traveste) per ’generare’ e ’riprodurre’ se stesso, in circolo...e comandare su tutti, su tutte, e su tutto! Che follia, senza alcuna saggezza - sconsolatamente!!!
Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? Non è ora di andare al di là della tragedia, e riprendere il filo dall’ “Inizio” (filosoficamente, parlando)?! Cosa significa essere EU-ROPEUO?!! In principio cosa c’era, il Logos buono o il Logos cattivo?! Sta a noi, tutti e tutte, deciderlo - qui ed ora (come sempre, del resto)!!!
* Federico La Sala
LA TERRA E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
di Michele Zarrella *
Un libro di eccezionale rarità che tenta a grandi linee, di mettere in evidenza una inedita prospettiva di ricerca e una possibile via di uscita da duemila e più anni di labirinto: un’ontologia non più zoppa e segnata dalla cieca cupidigia del sapere-potere, ma chiasmatica e illuminata dal sapere-amore.
Il luogo di inizio del ’viaggio’ è dalla chiesetta di S. Maria del Carmine (monastero carmelitano dal 1561 al 1652) di Contursi Terme (SA), e dall’antica Elea (Velia, Ascea), ma subito ci si trasferisce a Firenze, a Rimini, a Siena, a Roma, e, infine, fuori dal pianeta Terra, da dove, finalmente, è possibile vedere "il brillante colore"! Il pianeta in cui viviamo non è una caverna e, con lo sbarco sulla Luna, ora tutti lo sappiamo - anche fisicamente! Siamo tutti nella stessa barca e che siamo tutti fratelli, ... è ora di cambiare strada, di riorganizzare e riformulare tutto il nostro sapere - a partire da questa nostra nuova consapevolezza acquisita”: il pianeta è un granello nell’Universo ed è necessario un cambiamento radicale di prospettiva altrimenti non riusciremo mai a capire chi siamo.
La società moderna non può più accontentarsi di una filosofia e di una scienza ancora legate alla catena della dea Giustizia-Necessità di Parmenide e ancor più non deve contare sul sapere che il Platone o il politico di turno porta a noi prigionieri nella «caverna». Abbiamo preso coscienza di dove siamo nell’Universo e non possiamo più far finta di nulla. Sarà compito nostro mostrare come è la nostra casa: non era e non è né una caverna, né un’arena per gladiatori.
Sulla base di questa coscienza l’autore ci spinge a lavorare a una nuova cultura e a una nuova scienza che siano all’altezza del nostro orizzonte. “Non è più concepibile né possibile (il rischio è altissimo - la fine della nostra avventura, quella dell’intero genere umano) seguire le tracce di Parmenide, né di Platone.”
Il nostro orizzonte si è elevato e non è più possibile pensare che: «Per lo scienziato esiste solo l’essere, non il desiderio, il valore, il bene, il male, l’aspirazione» (Einstein, 1950). La posizione einsteiniana è parziale, unilaterale, e soprattutto pericolosa, perché ci fa vedere e agire - rispetto a noi stessi e rispetto agli altri e rispetto alla natura che ci circonda e sostiene - ancora con gli occhi e la mente di chi vede il pianeta Terra ridotto a un campo di guerra ove i mortali che nulla sanno giocano le loro battaglie. La Terra è di un colore brillante: è azzurra. «La Terra è blu [...] Che meraviglia. È incredibile», esclamò Jurij AlekseeviÄ Gagarin quando, il 12 aprile 1961, la vide, primo fra tutti gli uomini, dallo spazio.
Se vogliamo migliorare non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete, il quale sapeva che l’azzurro circondava la Terra. E Federico La Sala, al pari di Gagarin, ci invita ad uscire fuori a guardare dalla reale prospettiva la questione della nascita nostra, del nostro pianeta, del nostro sistema solare e del nostro Universo. La Sala si pone, al pari di Talete, la domanda delle domande: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi così nasce la filosofia, così nasce il suo bellissimo libro DELLA TERRA IL BRILANTE COLORE.
Come Talete, La Sala riporta a galla dalle profondità oceaniche dell’essere i due problemi fondamentali del sapere (tutte le cose e il principio) e soprattutto sollecita a pensarli insieme. Spesso l’uomo moderno dimentica il secondo: il principio. L’autore, sulla base delle nuove conoscenze acquisite, invita a partire, anzi, a nascere nuova-mente - da capo, guardando al nostro ombelico e a ri-pensare l’Uno a partire dal Due. Noi (ognuno e ognuna) siamo uno ma siamo nati da due: nati da un uomo e una donna, e di entrambi siamo portatori non tanto e non solo dei loro geni, quanto e soprattutto lo spirito delle loro Unità.
E allora, conclude l’autore, il problema dei problemi non è più né quello metafisico («che cosa posso sapere?») né quello morale («che cosa devo fare?») né quello religioso («che cosa posso sperare?»), ma quello antropologico («che cos’è l’uomo?»).
Il problema dei problemi è rispondere alla domanda «chi siamo noi in realtà?» (Nietzsche). A questa domanda l’autore risponde in termini di speranza e di salvezza e ci invita a guardare al nostro ombelico, a qual è la nostra origine? Riconosciamoci, come siamo, figli di un uomo e una donna, di una maternità e di una paternità alla pari e che la Terra sia il luogo del nostro fiorire e non il luogo delle nostre dualistiche contrapposizioni e scissioni.
A tale permeante domanda non può rispondere solo un genere che domina sull’altro, ma insieme con le Due metà del genere umano. Solo così, con la parità, autonomia e dignità fra uomo e donna, potremo dar vita a una nuova antropologia (e, con essa, a una nuova scienza e, ovviamente, a una nuova politica) - oltre l’edipo e oltre il capitalismo - finalmente degna del nostro pianeta dal brillante colore.
Buona lettura.
Michele Zarrella
Gesualdo, 30-09-2013
TRASCENDENZA 2
Pensieri e interrogativi sparsi, passeggiando in campagna...ieri mattina....
di don Aldo Antonelli (2-ott-2013 6.23)
Perché la trascendenza, che è una categoria dello spirito (per dirla con il linguaggio hegeliano) è stata tradotta nel linguaggio spaziale?
Trascendenza come pensare altro e andare oltre.... Tanto per riprendere il titolo del mio libro.....
Il primo astronauta russo, Yuri Gagarin, di ritorno dal suo volo spaziale disse: «Sono andato nel cielo e non ho incontrato nessuno»; contro la Fede, per dire che Dio non esiste.
Io dico che la sede di Dio non è un luogo geografico/spaziale, ma antropologico/esistenziale; contro la fede imbecille!
E volendo usare le categorie spaziali perché ricorrere all’ “ALTO” che si contrappone e schiaccia il “BASSO” e non, invece, all’ “AVANTI” che pro-muove (animandolo) il “QUI”; o al “FUTURO” che pro-voca (fermentandolo) il “PRESENTE”?
Una trascendenza che non mummifichi la realtà e non fossilizzi le verità!
Il “Dio” che siede in alto, vicino il trono dei poteri e dei potenti, non è il “Dio” di Gesù di Nazareth, né il “Dio” di Maria del Magnificat (che depose i potenti dai troni...).
Quindi “trascendenza” non come lo stare sopra ma come l’’andare oltre.
Una trascendenza che non consacri la conservazione ma promuova la rivoluzione!
Il bene del mondo e la Chiesa
di Vito Mancuso (la Repubblica, 04.10.2013)
Inizierà davvero una nuova epoca per la Chiesa, e quindi inevitabilmente anche per la società, come prefigurava Scalfari a conclusione dell’intervista a papa Francesco? Ciò che sorprende nelle risposte del Papa è il punto di vista assunto, un inedito sguardo extra moenia o “fuori le mura” che non pensa il mondo a partire dalla fortezza-Chiesa, ma, esattamente all’opposto, pensa la Chiesa a partire dal mondo. Nei suoi ragionamenti non c’è traccia della consueta prospettiva ecclesiastica centrata sul bene della Chiesa e la difesa a priori della sua dottrina, della sua storia, dei suoi privilegi e dei suoi beni così spesso oggetto di cura gelosa da parte degli ecclesiastici di ogni tempo (un monumento del pensiero cattolico quale il Dictionnaire de Théologie Catholique dedica 9 pagine alla voce “Bene” e 18 alla voce “Beni ecclesiastici”!).
C’è al contrario un pensiero che ha di mira unicamente il bene del mondo e per questo il Papa può dire che il problema più urgente della Chiesa è la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi. Non le chiese, i conventi e i seminari semivuoti; non il relativismo culturale; non il sentire morale del nostro tempo così difforme dalla morale cattolica; non la minaccia alla vita e al modello tradizionale di famiglia. No, la disoccupazione dei giovani e la solitudine degli anziani.
L’aver assunto il bene del mondo quale punto di vista privilegiato ha condotto il Papa alle seguenti due affermazioni capitali: 1) la Chiesa non è preparata al primato della dimensione sociale, anzi c’è in essa una prospettiva vaticanocentrica che produce una nociva dimensione cortigiana («la corte è la lebbra del papato»); 2) storicamente essa non è quasi mai stata libera dalle commistioni con la politica - e a questo proposito la Chiesa italiana di Ruini e Bagnasco dovrebbe recitare non pochi mea culpa per non aver denunciato l’immoralità pubblica e privata di chi per anni governava l’Italia, di cui al contrario si è giunti persino a contestualizzare benignamente le pubbliche bestemmie.
Ma l’azione del papa e la nuova epoca per la Chiesa che prefigura può non avere effetti anche sul mondo laico? Dei mali della Chiesa e delle riforme di cui necessita si è detto, ma penso sia saggio domandarsi se non esista anche qualcosa nella mente laica che occorre riformare. È solo la Chiesa che deve cambiare, oppure il cambiamento e la riforma interessano anche chi si dichiara laico e non credente? Naturalmente sotto queste insegne si ritrovano gli ideali più vari, dall’estrema destra all’estrema sinistra, e io qui mi limito a discutere il pensiero laico progressista rappresentato da Scalfari.
Alla domanda del Papa sull’oggetto del suo credere, Scalfari ha risposto dicendo «io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti», e poco dopo ha precisato che «l’Essere è un tessuto di energia, energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità», attribuendo a combinazioni casuali l’emergere delle forme tra cui l’uomo, «il solo animale dotato di pensiero, animato da istinti e desideri», ma che contiene dentro di sé anche «una vocazione di caos». Insomma Scalfari si è professato, come già nei suoi libri, discepolo di Nietzsche.
Ma cosa manca a questa visione del mondo? Trattandosi di un’eredità di colui che volle andare “al di là del bene e del male”, manca ovviamente la possibilità di fondare l’etica in quanto primato incondizionato del bene e della giustizia. Per Nietzsche infatti l’Essere è un “mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea”, il mondo “è la volontà di potenza e nient’altro”.
Ma se il mondo è questo, ne consegue che il liberismo, in quanto volontà di potenza che vuole solo incrementare se stessa, ne è la più logica conseguenza. Perché mai quindi si dovrebbe lottare nel nome della giustizia, della solidarietà, dell’uguaglianza? Come non dare ragione a Nietzsche che considerava questi ideali solo un trucco vigliacco dei deboli, incapaci di lottare ad armi pari coi forti? Se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento.
Da tempo vado pensando che la cultura progressista viva la grande aporia dell’incapacità di fondare teoreticamente la propria stessa idea-madre, cioè la giustizia. Darwin ha sostituito Marx, e Nietzsche (attento lettore di Darwin) è diventato il punto di riferimento per molti. Il risultato è Darwin + Nietzsche, ovvero “l’eterno ritorno della forza”, cioè una cupa e maschilista visione del mondo secondo cui la forza e la lotta sono la logica fondamentale della vita.
Se è giunto il tempo di una Chiesa che dia più spazio al femminile, è altresì tempo di un pensiero laico altrettanto capace di ospitare il femminile, intendendo con ciò una visione del mondo e della natura che fa dell’armonia e della relazionalità il punto di vista privilegiato. Da Aristotele a Spinoza a Nietzsche, la sostanza è sempre stata pensata come prioritaria rispetto alla relazione: prima gli enti e poi le relazioni tra essi.
Oggi la scienza ci insegna (questo è il senso filosofico della scoperta del bosone di Higgs) che è vero il contrario, che prima c’è la relazione e poi la sostanza, nel senso che tutti gli enti sono il risultato di un intreccio di relazioni e tanto più consistono quanto più si nutrono di feconde relazioni. Questo è il pensiero femminile, un pensiero del primato della relazione, di contro al pensiero maschile basato sul primato della sostanza, e va da sé che pensiero femminile non significa necessariamente pensiero delle donne, perché ogni essere umano contiene la dimensione femminile e vi sono donne che pensano e agiscono al maschile (si consideri per esempio Margaret Thatcher, per tacere di alcune politiche italiane), mentre vi sono uomini che pensano e agiscono al femminile (si pensi per esempio a Gandhi e prima ancora al Buddha o a Gesù).
Io penso che il nostro tempo abbia veramente bisogno di un nuovo paradigma della mente, di una ecologia della mente nel senso etimologico di riscopertadellogosche informa oikos,il termine greco per “casa” da cui viene la radice “eco” e che rimanda alla natura. Scalfari nel suo credo insiste sul caos e non sbaglia, perché il caos è una dimensione costitutiva della natura; non è la sola però, c’è anche il logos, alla cui azione organizzatrice si deve l’emersione dalla polvere cosmica primordiale degli enti e della loro meraviglia, tra cui la mente e il cuore dell’uomo.
I grandi sapienti dell’umanità l’hanno sempre compreso, chiamando il logos anche dharma, tao, hokmà ecc. a seconda della loro tradizione. Cito volutamente un pensatore non cristiano, il pagano Plotino: «Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io; in quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio» (Enneadi IV, 8, 1).
L’unione di logos + caos è la dinamica dentro cui il mondo si muove ed evolve. Essa ci fa comprendere che la verità non è un’esattezza, una formula, un’equazione, un dogma o una dottrina, insomma qualcosa di statico; la verità è la logica della vita in quanto tesa all’armonia, quindi è un processo, una dinamica, un flusso, un’energia, un metodo, una via. La verità è il bene in quanto armonia delle relazioni. In questo senso Gesù diceva “io sono la via, la verità e la vita”, non intendendo certo con ciò innalzare il suo ego in un supremo narcisismo cosmico, ma prefigurando il suo stile di vita basato sull’amore come ciò che al meglio serve l’Essere. Ne viene una visione del mondo nella quale l’ontologia cede il primato all’etica, nella quale cioè il vero non si può attingere se non passando attraverso i sentieri del bene, e l’amore diviene la suprema forma del pensare. Amor ipse intellectus,insegnava il mistico medievale Guglielmo di Saint-Thierry.
I credenti sono chiamati a rinnovarsi e penso che con umiltà sotto la guida di questo papa straordinario in molti stiano iniziando a farlo; anche i non credenti però sono chiamati a rinnovare la loro mente alla luce dell’Essere non solo caos ma anche logos, cioè relazionalità originaria a livello fisico che fonda il bene a livello etico. Forse così l’ideale della giustizia e dell’uguaglianza al centro del pensiero progressista mondiale sarà distolto dalle nebbie del buonismo dei singoli e radicato su una più armoniosa visione del mondo.
Scienza
Parmitano, il ritorno dalle stelle
“Da lassù impari ad apprezzare
la bellezza della vita sulla Terra”
L’astronauta racconta i suoi 166 giorni in orbita: «Appena rientrato mi hanno colpito un sacco di cose all’apparenza banali: il freddo, il caldo, il vento, il Sole»
di Antonio Lo Campo (La Stampa, 09/12/2013)
“E’ bellissimo tornare in Italia. La mia missione è un esempio di come il nostro paese possa realizzare imprese importanti. Ora sono qua per raccontarvi la mia esperienza, in particolare ai giovani, che rappresentano il nostro futuro”. Luca Parmitano è in forma. A quattro settimane dal rientro a Terra dalla sua missione di lunga durata, dopo 166 giorni in orbita, è tornato in Italia.
Questa mattina ha raccontato per la prima volta ai giornalisti e alle autorità la sua esperienza, in un evento che si è tenuto presso la sede dell’Agenzia Spaziale Italiana, a Tor Vergata, alla presenza del Presidente dell’ASI, Enrico Saggese, del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana, Pasquale Preziosa, e del Direttore Programma Osservazione della Terra dell’ESA, Volker Liebig. Subito dopo il rientro, Luca ci aveva raccontato di quei primi giorni di riadattamento alla gravità terrestre, dopo i sei mesi in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale, e del disagio (normale e previsto) dei primi giorni terrestri, anche nel camminare. Ora, superata questa fase, scattante e in forma, sale sul palco con la sua tuta blu, pronto a far rivivere le emozioni della sua missione, iniziata lo scorso 29 maggio con un lancio notturno della Sojuz TmA-09M, ad un pubblico che comprendeva molti ragazzi, compresi i 150 del concorso “Mission X - Allenati come un astronauta” indetto dall’ESA in collaborazione con l’ASI.
“E’ stato tutto bellissimo ed emozionante” - dice l’astronauta italiano dell’ESA - “e in qualche modo è come se mi fossi sempre sentito in compagnia della mia Italia: dai collegamenti con i presidenti Napolitano e Letta, fino a tutte le centinaia di messaggi che ho ricevuto e i collegamenti effettuati da lassù, che hanno fatto sentire forte la partecipazione del paese in tutta la missione”.
“Mi piace usare la metafora del tetragono, uno dei solidi geometrici più perfetti; più larga è la base sui cui poggia, più è stabile e preciso. Noi astronauti non siamo che il vertice del tetragono, ma per arrivare così lontano serve una base molto ampia. Per questo ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile la missione”.
Parmitano, che ha partecipato alla missione “Volare” dell’Agenzia Spaziale Italiana, nei 166 giorni in orbita ha portato a termine 30 esperimenti scientifici, partecipato a tre appuntamenti e agganci con veicoli spaziali “cargo” e ha compiuto due “passeggiate spaziali”. E’ stato il primo italiano ad uscire nel vuoto spaziale: “Avevo un sacco di cose per la mente prima di uscire” - racconta - “stavo per realizzare un grande sogno. Però ero anche concentrato sul lungo e complesso lavoro che abbiamo svolto durante quella prima attività extra-veicolare”.
I problemi della seconda “passeggiata?: “Sì era una situazione seria” - conferma Luca Parmitano, che trovò improvvisamente acqua nel casco, e dovette interrompere subito la passeggiata - “e proprio di recente ho collaborato con la commissione d’inchiesta della NASA che ha fatto luce sul guasto al mio scafandro. E’ stato confermato che si è trattato di un guasto ad una pompa che separa il flusso d’aria da quello dell’aria del circuito di raffreddamento. Sono stati momenti delicati, ma che ho superato bene grazie ovviamente all’addestramento, e anche alla mia formazione come pilota dell’Aeronautica Militare”. “Nel 2005 infatti” - aggiunge - “dovetti fronteggiare un avaria con un velivolo, ero da solo, situazione critica.
Quell’emergenza, e ciò che imparai, è stata preziosa. Il guasto alla mia tuta però è servito: in futuro, in caso di guasti simili, gli astronauti avranno a disposizione una condotta per respirare l’aria che proviene dalla parte bassa della tuta”. A bordo, nel corso dei sei mesi, ha effettuato molti esperimenti scientifici, soprattutto di fisiologia umana: “Sì, ho fatto un po’ da cavia, e poi a terra, dopo il rientro, mi hanno di nuovo visitato dalla testa ai piedi e per fortuna tutto è risultato negativo...” - dice sorridendo, in riferimento ai vari test, compreso quello sullo studio della spina dorsale - “che in questo modo” - aggiunge - “non viene più realizzato tramite enormi macchinari di risonanza magnetica, ma con un apparato piccolo e portatile. Proprio come quello che ho testato in orbita”. “Abbiamo inoltre svolto un dieta in grado di diminuire la decalcificazione ossea” - spiega - “e questo potrà avere ricadute importanti per chi soffre di osteoporosi. Nello spazio infatti noi andiamo per esplorare, e compiere ricerche scientifiche di ogni genere. Molte delle quali potranno in futuro salvare delle vite, o quantomeno alleviare alcune patologie serie”.
E poi, due aneddoti curiosi. Il primo, ancora con un piccolo inconveniente relativo allo scafandro spaziale: “Prima di uscire fuori dalla stazione spaziale” - ricorda - “ho dovuto più volte modificare il mio assetto fisico nello scafandro. Dopo sei settimane in orbita, ero cresciuto in altezza di cinque centimetri ! (è un fattore conseguenziale all’assenza di peso sulla colonna vertebrale - ndr). Invece a terra, avevamo previsto una crescita di soli due centimetri... Ma alla fine sono riuscito comunque a starci bene dentro a quel gioiello tecnologico che è la tuta EMU”.
E poi, uno di tipo “alimentare”: “Mi sono fatto fare un menù particolare” - dice mostrando il menù organizzato con importanti chef italiani, per una giornata particolare e celebrativa a bordo della Stazione - “Se faccio una cosa devo farla bene: così, ci siamo dedicati a queste cose buone, compresi, come primo, lasagne alla bolognese e riso al pesto. Il guaio è che le cose buone le abbiamo finite in breve tempo, e in attesa di nuovi rifornimenti da terra, ci siamo accontentati di cibo decisamente meno appetitoso”. “Poi però un giorno” - aggiunge - “la nostra collega Karen Nyberg trova casualmente quattro tiramisù. Erano rimasti in un armadietto, ce n’eravamo dimenticati. Il suo sguardo, e il nostro, erano talmente radiosi, che se avessimo trovato dell’oro forse non saremmo stati altrettanto felici...”.
Infine, una riflessione: “Abbiamo soltanto un mondo” - dice - “ed è bellissimo. Quando sei lassù apprezzi la Terra in modo incredibile, la vedi davvero sotto un altro punto di vista. Avessi viaggiato per tutta la vita nello spazio e avessi incrociato la Terra, non avrei avuto dubbi a voler scendere subito su questo pianeta. Appena rientrato mi hanno colpito un sacco di cose all’apparenza banali: il freddo, il caldo, il vento, il Sole, il mare, la rugiada sui fiori...dobbiamo tutelarlo perché è un pianeta davvero unico”.
Anche gli uomini recitano il rosario
di Katie Grimes (Adista” - documenti - n. 33 del 28 settembre 2013)
Il mese scorso, di ritorno dal suo celebratissimo viaggio in Brasile, papa Francesco ha espresso alcuni commenti a braccio, producendo reazioni in tutta la blogosfera cattolica. Pur riaffermando il perenne divieto della Chiesa all’ordinazione delle donne, il papa ha fatto appello a ciò che ha definito «una vera e profonda teologia delle donne nella Chiesa».
In molti hanno accolto con favore le sue parole, interpretandole come prova del suo apprezzamento per il genere femminile. Ma io non sono così sicura che dovremmo leggere queste parole come “una buona notizia”. Il problema sembra esattamente l’opposto di ciò che papa Francesco ha sostenuto. Io non biasimo la mancanza di questa “teologia delle donne”, ma il fatto che tanti rappresentanti della Chiesa la considerino necessaria.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva già tentato di delineare “una teologia delle donne” con la sua lettera apostolica del 1988 Mulieris dignitatem, individuando due dimensioni della vocazione delle donne: la maternità di stile mariano e la verginità. Tuttavia, piuttosto che criticare questa specifica teologia delle donne, voglio individuare i problemi legati ai presupposti di tale progetto.
La ricerca di una teologia delle donne, sostengo io, rende queste ulteriormente estranee, ponendole sotto la luce circoscritta dello sguardo maschile. Perché nessun papa ha mai scritto una lettera sul ruolo degli uomini nella Chiesa e nella società? O ha mai riflettuto su una “teologia dei maschi”?
La risposta è semplice: i papi non hanno mai messo in discussione il significato teologico del loro sesso, perché il potere ha trovato nella mascolinità la propria giustificazione. Esercitando il potere sociale ed ecclesiale, i maschi hanno voluto dare l’impressione di legiferare in quanto esseri umani. Gli autori del Magistero hanno anche utilizzato la parola “uomini” per indicare l’intera specie umana: le donne possono essere uomini, ma gli uomini non possono mai essere donne. Le donne non sono mai il metro di paragone, rappresentano l’eccezione.
Ciò vale per tutti i gruppi socialmente potenti. Ad esempio, negli Stati Uniti, i tradizionali opinionisti hanno sempre fatto riferimento alla costante supremazia bianca nel Paese non come al “problema bianco”, ma come al “problema nero”, o alla “questione razziale”. Allora come oggi, il fatto di essere bianco appare normativo, scontato e subliminale. Solo i neri devono spiegarsi. Invece di chiedere una «vera e profonda teologia delle donne», avrei preferito che il papa invocasse una critica più incisiva del sessismo, della misoginia e dell’androcentrismo. Invece di una teologia più profonda delle donne, avrei voluto che riconoscesse la necessità di più teologia fatta dalle donne.
Un papa non ha mai scritto una lettera affermando la dignità della popolazione maschile, anche perché questa non è mai stata messa in dubbio. La Chiesa ha sempre onorato e rispettato la dignità della mascolinità. Noi di solito dobbiamo affermare esplicitamente la dignità solo di quei gruppi a cui essa viene negata nelle vicende concrete della vita quotidiana.
Analogamente, il posto degli uomini nella Chiesa è stato dato sempre per scontato: sembra così ovvio da non dover essere discusso. Ma se papa Francesco parla della mancanza di un’adeguata teologia delle donne, vuol dire che 2000 anni non sono stati sufficienti per capire ciò che Dio vuole per le donne. Come può essere? Cosa c’è di così difficile da capire delle donne?
Forse gli autori contemporanei del Magistero considerano le donne così fastidiosamente complesse perché mirano all’impossibile: la produzione di una teoria che le renda sostanzialmente e complessivamente diverse dagli uomini, ma fondamentalmente uguali a loro. Le autorità cattoliche non hanno mai trovato questo problema così complicato. Tommaso d’Aquino ha dedicato una sola quaestio (ST 92 I.) in tutta la sua Summa alla discussione esplicita sulle donne. Ha parlato più spesso degli angeli che della “donna”.
Per gran parte della sua storia, la Chiesa non ha avuto bisogno di giustificare la sua fede nella supremazia maschile dinanzi a un coro di scettici. Le società in cui la Chiesa era inserita erano in genere d’accordo con loro. Gli autori cattolici hanno dunque investito la maggior parte delle risorse della retorica ecclesiale nella difesa della posizione della Chiesa su punti controversi.
Nel XX secolo, però, qualcosa ha iniziato a cambiare. La fede della Chiesa nella superiorità degli uomini rispetto alle donne non è sembrata più così ovvia. Nel tentativo di difendere la Chiesa da un fiorente movimento per i diritti delle donne, Pio XI ha scritto nel 1930 la Casti Connubii. Riaffermando la condizione dell’uomo come capo famiglia, ha insistito sull’importanza della sottomissione coniugale delle mogli, criticando aspramente tutti coloro che sostenevano «essere quella una indegna servitù di un coniuge all’altro» e che «i diritti tra i coniugi devono essere tutti uguali».
Quando Giovanni Paolo II è stato eletto, tali proclami erano caduti in disgrazia anche presso le donne cattoliche più conservatrici. I vecchi insegnamenti non erano più difendibili. Capovolgendo le posizioni, Giovanni Paolo II ha affermato l’incondizionata uguaglianza di donne e uomini per la prima volta nella storia della Chiesa.
Ma questo non ha risolto tutti i problemi. Non volendo in alcun modo aprire il sacerdozio a “uomini di genere femminile”, la Chiesa aveva bisogno di giustificare la sua intenzione di continuare a riservare l’ordinazione solo agli “uomini di genere maschile”. E dal momento che il divieto in relazione al sacerdozio femminile aveva sempre poggiato in maniera piuttosto decisa sull’evidente disuguaglianza delle donne rispetto agli uomini, la Chiesa si è trovata in un vicolo cieco. La complementarità sessuale, che fonda il sacerdozio esclusivamente maschile sulla differenza sessuale, piuttosto che sulla disuguaglianza sessuale, è diventata la soluzione a questo problema.
Tale ideologia divide sempre più il discepolato in base a criteri sessuali, sottolineando nelle donne l’iconica rappresentazione di Maria e negli uomini la rappresentazione di Gesù. Solo gli uomini possono stare sull’altare in persona Christi, perché Gesù Cristo era un uomo. Una “teologia del corpo” che tenta di attribuire importanza teologica e ontologica agli organi riproduttivi. Cosicché il significato di “donna” e di “uomo” può essere colto nel funzionamento eterosessuale dei loro organi genitali.
Nel suo libro del 2010, In cielo e in terra, l’allora cardinal Bergoglio ha descritto perfettamente questa linea di pensiero: «La tradizione fondata teologicamente vuole che ciò che è sacerdotale passi per l’uomo. La donna ha un’altra funzione nel cristianesimo, riflessa nella figura di Marta. È colei che accoglie, colei che contiene, la madre della comunità. La donna ha il dono della maternità, della tenerezza: se tutte queste ricchezze non si integrano, una comunità religiosa si trasforma in una società non solo maschilista, ma anche austera, dura ed erroneamente sacralizzata. Il fatto che la donna non possa esercitare il sacerdozio non significa che valga meno dell’uomo. Nella nostra concezione, in realtà, la Vergine Maria è superiore agli apostoli. Secondo un monaco del II secolo, tra i cristiani esistono tre dimensioni femminili: Maria, come madre del Signore, la Chiesa e l’Anima. La presenza femminile nella Chiesa non è stata sottolineata molto perché la tentazione del maschilismo non ha permesso di dare visibilità al ruolo che spetta alle donne nella comunità».
Giovanni Paolo II presenta nella Mulieris dignitatem una descrizione più completa di Maria come icona della femminilità. Come «il nuovo principio» della dignità e della vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna, vanificando la disobbedienza di Eva. Attraverso il suo “fiat” liberamente esercitato, Maria ha la funzione di «rappresentante e archetipo di tutto il genere umano». In questo, «rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne». Ma «d’altra parte, l’evento di Nazareth mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo che può appartenere solo alla “donna”, Maria: l’unione tra madre e figlio». Allo stesso modo in cui Maria agisce come un modello per le donne più che per gli uomini, così Gesù serve da modello per gli uomini più che per le donne. «Proprio perché l’amore divino di Cristo è amore di Sposo», argomenta Giovanni Paolo II, «esso è il paradigma e l’esemplare di ogni amore umano, in particolare dell’amore degli uomini-maschi».
I papi identificano giustamente la gravidanza come una capacità unica delle donne, ma interpretandola in modo teologicamente discutibile. Stando a loro, ci troviamo nella strana posizione di sostenere che il semplice possesso di un utero fornisce alle donne una più intensa esperienza di unione corporale con Dio rispetto a quanto possa fare un uomo. Tuttavia, se Maria ha effettivamente raggiunto l’unione con Dio portando il Figlio di Dio nel suo corpo, e se unicamente le donne possono rimanere incinte, nessuna donna prima o dopo Maria ha mai dato vita a Dio. La gravidanza di Maria si pone come un evento storico unico e irripetibile. (...). Contrariamente a quanto sostenuto dal papa, con la sua gravidanza Maria rivela la sua differenza da tutte le altre donne almeno tanto quanto la sua somiglianza come loro rappresentante. Nessuna donna, tranne Maria, è giunta all’unione del corpo con Dio attraverso la gravidanza. Esattamente come gli uomini cattolici, le donne cattoliche vivono l’unione corporale con Dio durante l’Eucaristia.
Dobbiamo affrontare un altro problema. Giovanni Paolo II crede che Maria e Gesù rappresentino un modello di genere per una seconda ragione. La femminilità, sostiene Giovanni Paolo II, esprime una passività essenziale, mentre la mascolinità incarna l’attività. «Lo Sposo è colui che ama. La Sposa viene amata: è colei che riceve l’amore, per amare a sua volta».
Ma il “sì” di Maria alla gravidanza è davvero così diverso dal “sì” offerto da Gesù nel giardino del Getsemani? Entrambi i “fiat” sono stati una risposta di sottomissione alla volontà di Dio. Proprio come Maria ha accolto la gravidanza, così Gesù ha accettato la crocifissione. (...). Sia Maria che Gesù rispondono all’amore offerto da Dio e dicono di sì con i loro corpi. Come spose, accettano il dono del loro amante e lo restituiscono con i loro corpi. Seguendo lo schema di Giovanni Paolo II, Dio Padre ha amato sia Maria che Gesù in modo maschile e sia Maria che Gesù lo hanno riamato in modo femminile. (...).
Le donne non rappresentano né un problema da risolvere né un mistero da spiegare. Contro la volontà di papa Francesco di attribuire alle donne una categoria teologica a se stante, affermiamo l’esistenza di un solo discepolato e di una sola salvezza.
NODO PROBLEMATICO E FOCALE DEL BRILLANTE LAVORO E’ IL CAPITOLO 4 DELLA TERZA PARTE:
"NICODEMO O DELLA NASCITA. SULLA STRADA DI ENZO PACI".
Pietro Della Vita
Liberali, laici e credenti
di Pawel Gaiewski
in “Riforma” - settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste Metodiste e Valdesi - del 20 settembre 2013
Il carteggio Scalfari-Bergoglio è già entrato nella storia del pensiero contemporaneo e ho l’impressione che presto leggeremo un instant book contenente l’intera documentazione. Si tratta in ogni caso di un’operazione mediatica senza precedenti. È stato il fondatore del quotidiano La Repubblica con il suo editoriale del 7 luglio ad aprire il dibattito sull’enciclica Lumen Fidei . Dopo un mese esatto Eugenio Scalfari pubblicava nuovamente un testo particolarmente denso, ponendo «al papa gesuita» tre domande «da illuminista» circa la possibilità di salvezza di un non credente, l’assolutezza della verità e il concetto di Dio, inteso come proiezione della mente umana.
Le risposte del papa dovevano dunque arrivare e ovviamente i tempi sono stati calcolati perfettamente: la lettera è datata 4 settembre ed è stata pubblicata esattamente una settimana più tardi. Per dovere di cronaca è giusto segnalare che ad agosto c’è stato anche uno scambio epistolare tra il pastore Peter Ciaccio ed Eugenio Scalfari (si può leggere all’indirizzo Internet http://vociprotestanti . it/2013/08/11/la-risposta-di-eugenioscalfari- al-pastore-peter-ciaccio/).
La risposta di Francesco contiene elementi inediti per un papa ma ben elaborati da altre scuole del pensiero cristiano finora non molto apprezzate dal Vaticano: teologia femminista, teologia della liberazione, teologia del pluralismo religioso. Si tratta prima di tutto della problematizzazione dell’assolutezza della verità a favore della sua dimensione relazionale e del primato della coscienza individuale e di conseguenza della possibilità di salvarsi aperta a chi non crede o crede «diversamente». Entrambi gli argomenti nella teologia contemporanea sono oggetti di un dibattito che è ancora lontano da qualunque conclusione definitiva. La coscienza intesa nel senso della Critica della ragion pratica di Immanuel Kant è un tema caro anche a chi si professa agnostico o ateo.
Chi invece legge la lettera del papa attraverso la lente del pensiero protestante non può che apprezzare l’enfasi sull’amore salvifico e la chiara impostazione cristocentrica dell’intero ragionamento che rasentano i Sola Gratia e Solus Christus della Riforma.
La dimensione in cui bisogna collocare in ogni caso sia la lettera di Bergoglio a Scalfari sia l’enciclica Lumen fidei (redatta, di fatto, dalla coppia Ratzinger-Bergoglio) non è quella del confronto con il pensiero protestante. Il vero problema è l’illuminismo; l’enfasi sulla luce non è casuale.
Tra le pieghe di questo documento, precisamente nel paragrafo 14, il documento critica la celebre esclamazione contenuta nell’ Émile di Jean-Jacques Rousseau: «Quanti uomini tra Dio e me!». Ecco la frase con cui l’enciclica commenta il pensiero del filosofo illuminista: «A partire da una concezione individualista e limitata della conoscenza non si può capire il senso della mediazione».
Non mi sembra giusto attribuire a Rousseau «una concezione limitata della conoscenza» e ravviso in questo atteggiamento intellettuale una notevole distanza tra le posizioni protestanti e quelle di Ratzinger e Bergoglio. Qualunque forma di mediazione nel rapporto tra Dio e l’essere umano è stata respinta con forza dalla Riforma. Successivamente il motto ginevrino Post tenebras lux e il nostro valdese Lux lucet in tenebris sono stati elaborati in chiave illuminista, dando luogo a un cristianesimo dialogante e accogliente.
Grazie all’influsso del pensiero illuminista le nostre chiese si impegnano oggi per la totale neutralità confessionale dello Stato e delle sue istituzioni, invocando con convinzione gli stessi diritti e doveri per tutte le comunità di fede. In tutto questo siamo «orgogliosamente liberali», parafrasando il succo del discorso tenuto dal moderatore Eugenio Bernardini alla fine dell’ultimo Sinodo. Liberali e laici ma al tempo stesso credenti che annunciano con convinzione Gesù Cristo.
È una cosa che Scalfari e i cosiddetti laici italiani sembrano non comprendere. Scalfari nel suo articolo del 7 agosto (quello contestato dal pastore Peter Ciaccio) liquida il protestantesimo con la seguente definizione: «sette luterane che non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione».
Nel suo commento alla lettera di Francesco, pubblicato il 12 settembre, pur citando l’inizio del Vangelo secondo Giovanni, il nestore del giornalismo italiano esprime una sorta di speranza quasi escatologica concentrata sulla persona di questo papa. Non metto in discussione che Francesco sia un ottimo pastore d’anime e un eccellente comunicatore. La sua empatia è profonda.
Mi preoccupa soltanto il Solus Franciscus che comincia a diffondersi dentro e fuori della Chiesa cattolica romana.
I protocolli del Trismegisto
La differenza tra vero e falso non interessa chi parte già dal pregiudizio, dalla voglia, dall’ansia che gli venga rivelato un mistero
di Umberto Eco (L’Espresso/"La bustina di Minerva", 12 maggio 2005)
Sino a oggi chi voleva studiarsi il "Corpus Hermeticum" (su un’edizione critica, con testo a fronte, non attraverso le innumerevoli confezioni da strapazzo che ne circolano nelle librerie di scienze occulte) aveva a disposizione la classica edizione delle Belles Lettres, a cura di Nock e di Festugière, apparsa tra 1945 e 1954 (un’edizione precedente era quella di Scott, Oxford, 1924, in traduzione inglese).
È bella impresa editoriale che oggi il "Corpus" appaia da Bompiani, nella collana diretta da Eugenio Reale, riprendendo sì l’edizione critica delle Belles Lettres, ma aggiungendovi cose che Nock e Festugière non potevano conoscere e cioè alcuni testi ermetici dai codici di Nag Hammadi - di cui la curatrice Ilaria Ramelli ci offre a fronte, per chi volesse proprio controllare, il testo copto.
Anche se queste 1.500 pagine vengono offerte a soli 35 curo, sarebbe snobistico consigliarle come un libro che tutti possono divorarsi prima di prender sonno. È un insostituibile e prezioso strumento di studio, ma coloro che degli scritti ermetici volessero soltanto assaporare il profumo potrebbero accontentarsi dell’edizione di uno solo di questi, il "Poimandres", cento paginette edite da Marsilio nel 1987.
La storia del "Corpus Hermeticum" è in ogni caso appassionante. Si tratta di una serie di scritti attribuiti al mitico Ermete Trismegisto - il dio egizio Toth, Hermes per i greci e Mercurio per i romani, inventore della scrittura e del linguaggio, della magia, dell’astronomia, dell’astrologia, dell’alchimia, e in seguito addirittura identificato con Mosé. Naturalmente questi trattati erano opera di autori diversi, vissuti in un ambiente di cultura greca nutrita di qualche spiritualità egizia, con riferimenti platonici, tra secondo e terzo secolo dopo Cristo.
Che gli autori siano diversi è ampiamente dimostrato dalle numerose contraddizioni che si trovano tra i vari libelli, e che fossero filosofi ellenizzanti e non preti egizi è suggerito dal fatto che nei trattatelli non appaiono riferimenti consistenti né alla teurgia né ad alcuna forma di culto di tipo egizio.
Che questi testi potessero avere un fascino su molte menti assetate di nuova spiritualità è dovuto al fatto che, come annota Nock nella sua prefazione, rappresentavano «un mosaico di idee antiche, spesso formulate per mezzo di allusioni brevi... e prive di logica nel pensiero quanto erano prive della purezza classica nella lingua». Come vedete (accade anche per molti filosofi moderni) il borborigmo è fatto apposta per scatenare la deriva infinita delle interpretazioni.
Questi trattatelli (salvo uno, "Asclepio", che da secoli circolava in latino) erano rimasti a lungo dimenticati sino a che un loro manoscritto non era pervenuto a Firenze nel 1460, in periodo umanistico, proprio quando ci si volgeva a una saggezza antica e precristiana. Affascinato, Cosimo de’ Medici ne affida la traduzione a Marsilio Ficino, che intitola l’opera "Pimandro", dal nome del primo trattatello, e la presenta come opera autentica del Trismegisto, fonte della più antica delle sapienze a cui non solo lo stesso Platone, ma la stessa rivelazione cristiana avevano attinto. Ed ecco che inizia la straordinaria fortuna e influenza culturale di questi scritti. Come diceva Frances Yates nel suo libro su Giordano Bruno, «questo enorme errore storico era destinato a produrre risultati sorprendenti».
Ora accade che nel 1614 il filologo ginevrino Isaac Casaubon dimostri con argomenti inoppugnabili che il "Corpus" altro non era che una raccolta di scritti tardo ellenistici - come ormai oggi non mettiamo in dubbio.
Ma la storia veramente straordinaria è che la denuncia di Casaubon rimane confinata agli ambienti degli studiosi, ma non scalfisce di un millimetro l’autorità del "Corpus". Basta vedere lo sviluppo di tutta la letteratura occultistica, cabalistica, mistica e - appunto - "ermetica" dei secoli successivi (sino a insospettabili autori del nostro tempo): si è continuato a considerare il "Corpus" come prodotto, se non proprio del divino Trismegisto, almeno di sapienza arcaica su cui giurare come sul Vangelo.
La storia del "Corpus" mi tornava in mente un mese fa, quando era apparso "The Plot" di Will Eisner (New York, Norton): Eisner, uno dei geni del fumetto contemporaneo (scomparso proprio mentre il libro era in bozze) racconta per testo e immagini la storia dei "Protocolli dei savi anziani di Sion".
La parte interessante del suo racconto non è tanto quella della fabbricazione di questo falso antisemita, ma proprio quello che è accaduto dopo, quando il "Times" nel 1921 e poi tutti gli studiosi seri hanno dimostrato e scritto dappertutto che si trattava di un falso. Direi che è proprio da allora che i "Protocolli" hanno intensificato la loro circolazione in tutti i paesi e sono stati presi ancora più sul serio (basta andare per Internet...).
Segno che, si tratti di Ermete o dei i savi di Sion, la differenza tra vero e falso non interessa chi parte già dal pregiudizio, dalla voglia, dall’ansia che gli venga rivelato un mistero, qualche sconvolgente preludio in cielo o all’inferno.
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13 settembre 2013)
Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.
Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti).
Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.
Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti.
È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”.
“Scimmia pensante... bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore.
La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4).
Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio.
Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”.
Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi.
Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico.
Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.
Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva.
Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti.
Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.
COME USCIRE DALLA TERRA, DAL MONDO, E NON PERDERSI.
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". UN LAVORO FORMIDABILE!!! Questo libro non è un libro, è un ipertesto! E’ una mappa concettuale, una guida per uscire dalla caverna di interi millenni di labirinto: è un manifesto antropologico. Già la copertina (con il "tondo Doni") è sintesi e conclusione del discorso: tutta la terza parte fornisce la chiave per rileggere in modo inedito la narrazione della volta della Cappella Sistina, ripensare il lavoro di Michelangelo, e ripensare la crisi italiana contemporanea e l’intera questione antropologica (con i suoi annessi problemi metafisici, morali, e religiosi). UN LIBRO STRAORDINARIO!
Pietro Della Vita
No Limits. Bodei: “Noi, poveri postumani schiavi delle nuove libertà”
intervista a Remo Bodei,
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 6 settembre 2013)
Esistono ancora dei limiti ultimi, invalicabili, che condizionano le nostre vite? Limiti di ordine biologico, morale, religioso, sessuale, ambientale? O siamo entrati in un mondo illimitato dove tutto, almeno in apparenza, è possibile? L’intera modernità è segnata da una violazione consapevole e inesausta dei limiti e dei confini, a cominciare da quelli geografici, continuamente superati nella grande stagione delle scoperte, e delle avventurose spedizioni verso l’ignoto. Ma oggi siamo entrati in una fase ulteriore e diversa, in cui l’autogoverno della propria finitezza è un valore apprezzato da singoli individui: non il volano di una morale condivisa. E il peccato di superbia, commesso da chi sfida la volontà di Dio e il suo disegno, non rappresenta più un freno sufficiente al contenimento degli umani appetiti. Oggi sono il desiderio e la libertà individuale a spingerci avanti, e lo sviluppo della tecnica si è fatto talmente inarrestabile da prefigurare addirittura l’avvento di una società post- umana.
Da qui l’idea di compiere una perlustrazione a tutto campo, capace di coinvolgere scienziati, teologi, psicoanalisti e filosofi. A cominciare da Remo Bodei, uomo di grande equilibrio e competenza, capace di offrirci il quadro introduttivo necessario di una questione che mette in gioco i fondamenti stessi del nostro stare al mondo.
«Sul muro esterno del tempio di Delfi, accanto alla più nota frase “Conosci te stesso”, ve n’era un’altra che dice: “Niente di troppo”. Nel mondo antico, andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita: l’esempio più noto è quello di Icaro. La filosofia classica insiste sull’ideale della medietà, in quanto virtù che squalifica gli estremi per difetto e per eccesso: est modus in rebus. Per ciascun essere la perfezione è avere un limite. L’infinito è un concetto negativo, sinonimo di amorfo, confuso, indistinto».
Poi, con la modernità, cambia tutto.
«Non si deve avere una concezione trionfalistica della modernità come innovazione pura, come completa rottura dei ponti con il passato, ma certamente essa ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana. Ha cercato di svelare gli arcana naturae , gli arcana dei e gli arcana imperii . Del resto, che gli uomini non possano accettare i limiti perché segnati dalla “mala contentezza”, lo mostrano sia Machiavelli che Hobbes. Il limite così diventa provvisorio, si sposta con noi al pari dell’orizzonte, chiude per aprire. È fatto per essere oltrepassato».
Ora però sta accadendo qualcosa di ulteriore. Viene messa in discussione l’idea stessa di umano, almeno per come l’abbiamo conosciuta sin qui.
«Sono in particolare le biotecnologie che mettono in crisi convinzioni, abitudini e idee di durata millenaria. Fin qui è stato ovvio, evidente, che un individuo viene al mondo secondo i vecchi e collaudati metodi della riproduzione sessuata naturale, con un corpo e una mente soggetti a malattie e deformità congenite e soffre, gode e muore assieme a tutti i suoi organi; ora non più. Si nasce - ormai lo sappiamo - con frequenza sempre maggiore attraverso metodi di fecondazione assistita, si è padri o madri al di fuori dell’età fisiologica abituale, si hanno trasferimenti di materia vivente attraverso trapianti di organi, che collegano storie e vicende differenti in un solo corpo. Secondo una proiezione abbastanza attendibile di una prestigiosa rivista di medicina, in Occidente, alla fine di questo secolo saremo tutti pluri-trapiantati e provvisti di numerose protesi che faranno funzionare organi malati del nostro corpo, miglioreranno le prestazioni esistenti o aggiungeranno prestazioni nuove».
Quali le conseguenze sui nostri sentimenti e le nostre passioni?
«Enormi. Perché si modifica la trama dei rapporti di sangue e parentela che sono stati alla base della struttura della famiglia e, in parte, della composizione della società. Non siamo abituati a questa nuova e rischiosa libertà, che esorcizziamo spesso attraverso vecchi fantasmi, e ci vorrà tempo per esercitarla. Servirà una più limpida visione della questione. Non abbiamo ancora potuto misurare il senso della metamorfosi in corso dallo stadio dell’umano a quello del post-umano, dai corpi organici agli esseri formati di carne e metallo, silicio e plastica, di parti umane e animali, trasferibili con trapianti da un individuo all’altro. Sulla ponderazione dei pro e dei contro prevalgono le paure, trasformando la soluzione dei problemi bioetici in un ripetuto referendum. Al quale il cittadino si presenta immancabilmente in uno stato di solitudine e oggettiva incompetenza».
E qui si misura il deficit della politica. Che dovrebbe avere l’autorità necessaria per regolare la dismisura intrinseca allo sviluppo delle varie tecniche.
«È il problema della democrazia. San Paolo, sotto Nerone, scriveva che ogni autorità viene da Dio e quindi bisogna obbedire. Tutto questo ha funzionato per secoli, millenni. Era la doppia autorità rappresentata dai due soli, Chiesa e Impero, a stabilire i limiti entro i quali il comportamento umano è lecito, virtuoso e non peccaminoso. Ora non ci sono più i due soli e l’autorità non viene più dall’alto, ma dal basso. Dal popolo. Quindi l’autorità democratica è costitutivamente debole, il che è un vantaggio, perché garantisce la libertà individuale; ma anche uno svantaggio, perché ci si deve appoggiare a stampelle offerte da altre agenzie formative, essenzialmente la tradizione religiosa e la morale. Si aggiunga che la democrazia ha sempre cercato di mediare tra quantità e qualità, accettando l’idea kantiana del “legno storto” dell’umanità, ma anche promuovendo l’educazione di ciascuno alla cittadinanza attiva. Oggi, in epoca di populismi, si scivola sempre più verso una democrazia anemica, sin troppo benevola verso le debolezze del cittadino. E in cui la mancanza di autorità favorisce la licenza. Senza contare che le figure esemplari da prendere a modello non abbondano».
In un mondo dove tutto sembra possibile, non si finisce per rimuovere il lato tragico di ogni scelta e quindi l’idea ultima della vita e della morte?
«Il mancato riconoscimento della tragicità delle scelte porta a impegni che non impegnano, all’erosione della responsabilità, all’appuntamento mancato con il futuro. E anche, certo, alla rimozione della morte, limite ultimo e indiscusso. In precedenza vigeva una possibile redenzione della vita dopo la morte. Oggi invece si assiste a una presunta redenzione della vita a scapito della morte, che finisce così per incarnare l’osceno».
Paradossale a dirsi, mentre l’esplosione dei diritti individuali e le accelerazioni della tecnica ci invitano a infrangere ogni limite, una terribile situazione economica pare risospingerci entro vecchi limiti: duri, spietati.
«Gli stoici dicevano: se vuoi essere ricco, sii povero di desideri, e Lao Tse più o meno altrettanto. Si era all’interno di una società della scarsità. Ora si parla della cosiddetta “abbondanza frugale”, che anziché sui consumi indotti, dovrebbe puntare su sobrietà, amicizia, convivialità. Adattarsi a questi comportamenti non sarà facile. Di sicuro non torneremo indietro da un punto di vista tecnologico e scientifico. D’altronde spero che nessuno voglia santificare i vecchi limiti. Il pensiero filosofico- scientifico consiste nel varcare i confini, è un incessante viaggio di scoperta. Né si possono imporre limiti per decreto, perché la democrazia per quanto debole non lo consente. Ma non si può neppure più affidare tutto alla libertà individuale e narcisistica di cui parlava Lasch. Credo sia necessario rimodulare l’idea di limite sulla base dei vincoli dettati dalle nuove condizioni storiche. E in questo ci possono aiutare molto proprio i saperi umanistici. Oggi si esaltano e finanziano soprattutto scienze dure e tecnologia e si pensa che la cultura umanistica non serve a niente. Ritengo, al contrario, che essa sia più che mai necessaria per dare senso alla vita individuale e sociale. Così come si ara il terreno per smuoverlo e favorire la crescita delle piante, oggi sarebbe necessario fare altrettanto per coltivare al meglio l’umanità. Per spingerla a varcare nuovi limiti e a considerare l’opportunità di preservarne o rafforzarne altri».
Ad esempio?
«Ad esempio non abbiamo ancora parlato della rapina costante dell’ambiente e della Terra. Non le sembra da automi miopi e incoscienti distruggere la biosfera? Andare verso l’esaurimento delle risorse senza avere nessun pianeta di ricambio? Non sarebbe questo il primo limite da tenere presente?».
MATERIALI FOTOGRAFICI (E NON) SULLA
Presentazione del libro “Della terra, il brillante colore” di Federico La Sala
avenuta il 12 agosto a Contursi Terme (SA)
al link seguente:
http://www.comune.contursiterme.sa.it/index.php?action=index&p=976
Spunti di riflessione dagli affreschi ritrovati
Nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Contursi, la presentazione del volume di Federico La Sala
di GIUSEPPE CACCIATORE (La Città di Salerno, 12.08.2013)
Il “luogo d’inizio” di questo libro di Federico La Sala (filosofo originario di Contursi e docente per oltre un ventennio in un liceo milanese) è la piccola chiesa di Santa Maria del Carmine a Contursi. Qui sono stati riportati alla luce alcuni affreschi che raffigurano le sibille, profetesse annuncianti, già in era pagana, l’avvento del Cristo. È da questo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico, storico-religioso e filosofico di La Sala.
Sullo stile di pensiero e di scrittura (filosofica innanzitutto, ma anche storica, artistica, estetica) di Federico La Sala ha detto in maniera efficace Fulvio Papi, nella sua breve e intensa prefazione. Parto da essa perché, con sagace intuizione, Papi coglie un aspetto, solo apparentemente didascalico-espositivo, che pone il lavoro di La Sala in una benefica distanza dalle scritture teoretico-essenziali, capaci di riscrivere le grandi filosofie di Platone e Aristotele, di Ficino e Bruno, di Vico e di Kant, di Hegel e di Nietzsche, e così via elencando, senza mai citare un testo e men che mai un riferimento alla letteratura critica. Così, l’apparente sovrabbondanza di citazioni ed eserghi ha solo lo scopo, è ancora Papi a scriverlo, di ricercare la “risonanza” della parola che il lettore si dispone ad accogliere, sfuggendo così al “sospetto” suscitato dalle “architetture filosofiche” fin troppo impegnate a rappresentare concettualmente “qualsiasi forma dell’essere”.
Il ritrovamento del vero e proprio “poema pittorico” degli inizi del secolo XVII, scoperto durante i lavori di restauro della chiesa di Santa Maria del Carmine, induce La Sala a mettere in pratica un difficile e tuttavia interessante esercizio di analisi compiuta a più livelli: storico-artistico, letterario, filosofico, teologico, allegorico-simbolico.
Il livello storico-filosofico e poi anche teologico - accompagnato, tra le altre citazioni a mo’ di esergo, da una lunga e profetica pagina di Eugenio Garin sull’onda lunga della cultura del Rinascimento e della sintesi platonico-cristiana riversatasi sui secoli successivi - interpreta la narrazione figurativa (le 12 sibille pagane e i profeti ebraici Elia e Giovanni Battista) come trascrizione di un viaggio iniziatico ed ermetico che conduce il pellegrino ideale da Maria madre del Cristo al figlio che accede al regno dei cieli.
La filosofia si annuncia a partire dai frammenti dell’opera parmenidea, là dove il viaggio-guida dell’uomo è tracciato dalle dee-fanciulle che indicano la via. Sono le “figlie del sole” che, lasciate le “case della notte” spingono “il carro verso la luce” fino ad arrivare alla porta che divide i sentieri della notte e del giorno. Oltre la porta la dea indicherà al viandante le vie della ricerca tra le quali dovrà scegliere: quella dell’essere, il sentiero della persuasione, e quella del non-essere, cioè della indicibilità e inesprimibilità.
Della Terra il Brillante Colore. Presentazione questa sera alla Chiesa del Carmine a Contursi.
di Gerardo Sano *
Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica “Sapere aude” , aprire gli occhi per “conoscere” della Terra il brillante colore. Mater Terra, alma Terra, omphalos del mondo, di noi essere viventi .Mater Terra, alma Terra . E di tutti noi figli e figlie, fratelli e sorelle.
E’ questa la traccia segnata da Federico La Sala nel suo libro: Della Terra Il Brillante Colore, riedito per le Edizioni Nuove Scritture , per uscire dal buco della caverna platonica. Non può non trovarci d’accordo la sua riflessione: idealisti o materialisti, geocentrici o copernicani, tutti egualmente ciechi, tutti non hanno mai visto il brillante colore della Terra. Tutti ne hanno solo cercato il possesso, la sua materialità, tutti hanno cercato di farne un Oggetto. E’ davvero ben strano che la “ più incredibile hibris philosofica ha animato” molti, troppi, tanti, ma nessuno di questi ha mai saputo guardare il proprio ombelico, il più autentico legame con la nostra “ Arca originaria “. Eppure le dodici Sibille ce lo avevano indicato e tuttora ce lo indicano. Le Sibille hanno indicato il cammino anche all’autore del libro, che trova l’ispirazione per la sua riflessione nel proprio luogo di origine .
L’inizio è la la Chiesa di S. Maria del Carmine a Contursi Terme, natio luogo del La Sala. Tutto avviene in seguito ad un sommovimento della Terra, il sisma del 1980, i danni subiti dalla Chiesa del Carmine richiedono il restauro da parte della Soprintendenza ai Beni Culturali. Durante i lavori di restauro viene scoperto un poema pittorico di un ignoto carmelitano dell’inizio del ‘600. Ritorna alla luce un testo raffigurante le Sibille che annunciano al mondo pagano la prossima nascita del Cristianesimo.
La riscoperta delle dodici Sibille e la presenza con altre celebri raffigurazioni presenti in luoghi prestigiosi e ieratici come la Cattedrale di Siena, il Tempio Malatestiano di Rimini , o la Cappella Sistina di Michelangelo hanno ulteriormente intrigato il La Sala e la sua ricerca storico-filosofica. Perché la pittura è la traccia della riflessione dell’autore e del filo che lega la filosofia e la teologia pagana in sequenza con il Cristianesimo.
La pittura disegna l’elclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale. Nella Chiesa del Carmine, sotto lo sguardo vigile delle Sibille, questa sera alla ore 19,30 il libro sarà presentato da Giuseppe Cacciatore professore di Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli, e da Giuseppe Sierchio professore Storia dell’Arte presso l’Accademia Belle Arti di Catanzaro, alla presenza dell’autore.
* http://www.gazzettadisalerno.it/2013/08/12/della-terra-il-brillante-colore-presentazione-questa-sera-alla-chiesa-del-carmine-a-contursi/
Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
J. Chirac, alla conferenza dei «Cittadini della Terra»:
«Siamo alla soglia dell’irreversibile».
Ecco la Lumen Fidei, la prima enciclica di papa Francesco ma redatta a quattro mani con Joseph Ratzinger. Il documento ripercorre la storia della fede cristiana
di Alessandro Speciale *
Città del Vaticano
La lettura della prima enciclica di papa Francesco, Lumen Fidei, pubblicata oggi, è un tuffo nel passato - un passato recente che pure sembra lontanissimo alla luce di quanto è accaduto nella Chiesa negli ultimi cinque mesi.
Il testo, come ha spiegato lo stesso papa argentino durante un incontro con il Sinodo dei vescovi, è di fatto frutto di un lavoro “a quattro mani”: Benedetto XVI aveva praticamente completato il testo prima delle sue dimissioni lo scorso 28 febbraio, e ha consegnato quanto aveva fatto al suo successore, che lo ha rivisto, integrato e lo ha fatto suo mettendoci la propria firma.
Sfogliandone le pagine, però, risulta evidente che nel testo - un testo relativamente breve, 91 pagine per 58 paragrafi - la mano prevalente è quella del pontefice tedesco. E non solo perché l’enciclica sulla fede conclude il trittico sulle virtù teologali iniziato con Deus Caritas Est sulla carità e proseguito con Spe Salvi sulla speranza. L’impianto del testo, i frequenti rimandi a filosofi e dibattiti vivi nella cultura tedesca degli anni ’60, l’insistere su alcuni temi, persino il paragone tra la fede e le cattedrali gotiche, dove “la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra”: tutto testimonia come papa Francesco abbia fondamentalmente deciso di rispettare e accogliere il lavoro del suo predecessore.
Francesco lo dice esplicitamente al paragrafo 7 dell’enciclica: “Queste considerazioni sulla fede - in continuità con tutto quello che il Magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale -, intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”.
Il titolo dell’enciclica, Lumen Fidei, “La luce della fede”, riassume la dinamica fondamentale lungo cui si muove il testo: la tradizione della Chiesa ha sempre associato la fede alla luce che disperde le tenebre e illumina il cammino; ma nella modernità la fede “ha finito per essere associata al buio”, è diventata sinonimo di oscurantismo: “Si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere”.
Il testo cita Nietzsche, uno dei punti di riferimento costanti - anche se naturalmente in negativo - del pensiero di Ratzinger, per il quale “il credere si opporrebbe al cercare”. Ma negli ultimi decenni, aggiunge, si è scoperto che la “luce della ragione”, da sola, “non riesce a illuminare abbastanza il futuro”: “L’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante”. Per questo, nel mondo di oggi, “è urgente recuperare il carattere di luce proprio della fede”, riscoprendo che sola la luce che deriva dal credere in Dio è “capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo”.
La strada per questa riscoperta del carattere ’luminoso’ della fede passa, naturalmente, dall’incontro con Cristo e con il suo amore: “Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro”.
Dopo l’introduzione, l’enciclica in quattro capitoli ripercorre la storia della fede cristiana, dalla chiamata di Abramo e del popolo di Israele fino alla risurrezione di Gesù e alla diffusione della Chiesa (Capitolo 1, “Abbiamo creduto all’amore”), il rapporto tra fede e ragione (Capitolo 2, “Se non crederete, non comprenderete”), il ruolo della Chiesa nella trasmissione della fede nella storia (Capitolo 3, “Vi trasmetto quello che ho ricevuto) e infine quel che la fede opera nella costruzione di società che mirano al bene comune (Capitolo 4, “Dio prepara per loro una città”). Lumen Fidei si conclude con una preghiera alla Madonna, modello di fede.
I due papi ricordano che la fede “ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia”. Per capire che cosa è la fede è necessario quindi “raccontare il suo percorso, la via degli uomini credenti, testimoniata in primo luogo nell’Antico Testamento”. La fede, infatti, affonda sì le radici nel passato ma è nello stesso tempo “memoria futuri”, memoria del futuro, e per questo è “strettamente legata alla speranza”.
È un tema che ritorna anche nella conclusione dell’enciclica, in uno dei passi in cui è forse possibile riscontrare più evidente la collaborazione dei due pontefici. È infatti la speranza, “nell’unità con la fede e la carità”, a collocare l’uomo in una prospettiva diversa rispetto alle “proposte illusorie degli idoli del mondo”, donando “nuovo slancio e nuova forza” alla vita di ogni giorno. Il punto di incontro tra fede e speranza è soprattutto la sofferenza: “La fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo”. Di qui l’appello agli uomini affinché non si lascino “rubare la speranza”.
Per questo la morte e risurrezione di Gesù sono centrali nella fede cristiana: mostrano che la fede è “veramente potente, veramente reale”, che è in grado di incidere sulla realtà in modo concreto - qualcosa che la nostra cultura ha ormai perso la capacità di concepire: “Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti”.
La fede, poi, è una e crea unità mentre il suo opposto, l’idolatria, è sempre un “politeismo” che “non offre un cammino ma una molteplicità di sentieri che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto”. Questa unità della fede implica quindi che essa non è mai qualcosa di individuale ma è sempre vissuta in mezzo ed insieme agli altri, nella comunità della Chiesa, senza che per questo il singolo con la sua individualità ne risulti schiacciato (sta qui, tra l’altro, la ragione del battesimo dei neonati). La Chiesa non vuole ridurre “il credente a semplice parte di un tutto anonimo, a mero elemento di un grande ingranaggio”.
L’unità della fede significa anche che non c’è distinzione tra il credere dei ’semplici’ e quello degli intellettuali - un rifiuto dello “gnosticismo” che ritorna spesso in papa Francesco - ma anche che non si può assumere la fede ’a pezzi’, scegliendo solo quello che più piace: “Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede”.
E questo vale anche per il teologo, che deve mettere la sua ricerca “al servizio della fede dei cristiani”, nella Chiesa, senza considerare “il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi”.
Nel secondo capitolo, quello dedicato al rapporto tra fede e ragione, torna il classico tema ratzingeriano del relativismo, legato al rifiuto del mondo moderno di accettare ogni affermazione della “verità”, vista come una prevaricazione dell’altro e come la radice del “fondamentalismo” che andrà inevitabilmente a sfociare nella “violenza”. Quello della verità è il “grande oblio” del mondo moderno, in un clima di pensiero relativista in cui la “domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più”. Invece, per i due papi, “la fede, senza verità, non salva” né “rende sicuri i nostri passi”.
Allo stesso tempo, se da una parte “l’amore ha bisogno di verità” per trovare un fondamento stabile e non ridursi “a un sentimento che va e viene”, dall’altra anche “la verità ha bisogno dell’amore”, perché “senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona”. Il vero credente, infatti, “non è arrogante” perché “la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti”.
E questo cammino è aperto anche per quei non credenti che tuttavia “desiderano credere e non cessano di cercare”. L’enciclica valuta positivamente gli sforzi di quegli ’atei devoti’ che “cercano di agire come se Dio esistesse, a volte perché riconoscono la sua importanza per trovare orientamenti saldi nella vita comune”.
Infine, la fede è un “bene comune” che non allontana il credente dal mondo ma lo pone “al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace”: “Essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza”. Grazie ad essa le famiglie scoprono la forza e i motivi di rimanere assieme “per sempre” e giovani, in eventi come le Gmg, assaporano il desiderio di una “vita grande”. La fede, infatti, “non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita”.
* La Stampa, 05/07/2013
Femminicidio, 2013 tragico
Già 68 le donne uccise nei primi sei mesi del 2013
Nel 2012 sono state 124
di Elisabetta Reguitti (il Fatto, 05.07.2013)
NEI PRIMI SEI MESI del 2013 sono state ammazzate 68 donne (124 in tutto il 2012). In Italia la violenza è la prima causa di morte per le donne dai 20 ai 40 anni. Più delle malattie. Più degli incidenti stradali. Il 70% dei femminicidi che si sono consumati potevano essere evitati perché già segnalati come situazioni a rischio. Da gennaio a oggi, oltre 600 donne si sono rivolte alla “Casa delle donne per non subire violenza” di Bologna le cui volontarie aggiornano mensilmente il bollettino di una guerra consumata fra le mura domestiche.
MA IL FEMMINICIDIO non è solo l’uccisione delle donne come movente di genere (classificato come atto criminale in sé), ma rappresenta il culmine di tutte le violenze che una donna può subire in una vita. Secondo l’ultima indagine Istat, oltre il 14% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito abusi sessuali o fisici dal partner: poco meno di 7 milioni di casi. Circa 1 milione gli stupri o tentati stupri. Solo il 7% di chi subisce violenze denuncia il compagno. Allarmante appare il dato che il 33,9% di coloro che hanno subito violenza dal proprio compagno e il 24% di coloro che l’hanno subita da un conoscente o da un estraneo, non parla con nessuno dell’accaduto per paura che il denunciato si incattivisca ancora di più.
LA CULTURA MASCHILISTA non è un concetto astratto, ma un principio saldo e diffuso. In molti casi, secondo gli esperti, è radicata la convinzione dell’inferiorità della donna e la conseguente volontà del controllo su di lei. Una donna che sta a casa, che cura i figli, fa la spesa e bada agli anziani, oppure una donna che si accontenta di mezzo salario e che si adatta a fare un lavoro precario e mal pagato, per il suo aguzzino vale meno. Donne che si ritrovano a essere ricattate dal datore di lavoro e devono stare zitte per non perdere quello stipendio. Donne che hanno paura di separarsi da un marito violento perché da lui dipendenti economicamente e che temono di non poter più rivedere i figli. Sembra poi che l’ultima frase di molte vittime prima di morire per mano del loro uomo sia “non vali niente”. Parole che un maschio non può tollerare.
STUDI
Un saggio di Claudio Moreschini getta nuova luce sul percorso e sugli intrecci dell’ ermetismo cristiano e su come fu interpretato dal tardo mondo antico a Marsilio Ficino
Ermete, dio del discorso e del silenzio, araldo di una segreta salvezza
Una visione del mondo che affonda le sue radici nell’ antico Egitto, condannata da Agostino, custodita dai sapienti medievali
di Giovanni Filoramo *
STUDI Un saggio di Claudio Moreschini getta nuova luce sul percorso e sugli intrecci dell’ ermetismo cristiano e su come fu interpretato dal tardo mondo antico a Marsilio Ficino Ermete, dio del discorso e del silenzio, araldo di una segreta salvezza
Tra i simboli che hanno contribuito a fissare in immagini pregnanti il destino dell’ ermetismo, accanto al famoso pavimento a mosaico della cattedrale di Siena (XV sec.), in cui si condensa la millenaria tradizione cristiana (fu inaugurata agli inizi del IV sec. d.C. da Lattanzio) di un Ermete, contemporaneo di Mosè, profeta pagano del cristianesimo, merita di essere evocato un emblema di Achille Bocchi (1555).
Ermete, il dio del discorso, è rappresentato con in mano un candeliere a sette braccia, mentre con l’ indice dell’ altra mano fa segno di tacere. Segreto e divulgazione: ecco il paradosso, ricco di potenzialità, di una tradizione come l’ ermetismo, in cui fin dai primordi, legati al sorgere stesso della cultura ellenistica, si mescolano, in modo quasi indistricabile, le scienze occulte tipiche dell’ antichità (alchimia magia astrologia) e un sapere filosofico-religioso che aspira a portare all’ umanità l’ annuncio salvifico di una nuova pietà, una gnosi nutrita di devozione, una pia philosophia, come dirà poi Ficino.
Le straordinarie fortune di questa tradizione, capace di conservarsi nei secoli attraverso mille metamorfosi, dalle riletture cristiane tardo-antiche alle recentissime forme di neo-ermetismo che circolano negli ambienti della New Age, si muovono continuamente tra esoterismo e propaganda.
Una dialettica creativa cui fa da contraltare, sul piano dottrinale, una cosmo-teo-sofia: una tensione a conoscere il mistero del cosmo come unità in cui si manifesta, attraverso la molteplicità delle sue forme, la stessa unità del divino cui l’ uomo è invitato a partecipare.
Oggi si è sempre più d’ accordo nel riconoscere le radici egizie di questa visione del mondo. Si tratta di una struttura di pensiero capace di mediare tra spinta centrifuga di tipo politeistico e panteistico ed intima tensione centripeta verso un monoteismo inclusivista.
È stato, però, l’ ellenismo e la simbiosi da esso promossa tra varie tradizioni culturali a costituire il terreno più favorevole perché questa visione, di per sé esoterica, assumesse valenze soteriche e, sotto il patrocinio di un dio, il tre volte grandissimo Ermete-Thoth, si diffondesse attraverso una miriade di scritti, tra cui i trattati dell’ ermetismo filosofico (per una recente messa a punto si può vedere Scritti ermetici in copto, a cura di A. Camplani, Paideia).
In realtà, la linea di divisione, che un tempo appariva chiara e invalicabile, tra ermetismo filosofico ed ermetismo popolare non ha resistito a una serie di critiche. L’ intreccio tra scienza e magia, tra procedimento scientifico e visione religiosa, è un tratto tipico del pensiero antico.
Nel tardo-antico, così come poi, con le variazioni del caso, nell’ umanesimo, alchimia e magia si mescolano coi saperi filosofici, usando un nuovo linguaggio e attingendo parte del loro materiale dalle tradizioni filosofiche, ma nel contempo imprestando tecniche e immagini alchemiche e magiche per descrivere processi cosmogonici e psicogonici: un intreccio fecondo, che costituisce una ragione profonda della fortuna di questa tradizione.
La sua storia attende ancora l’ autore in grado di disegnarne il profilo complessivo, ricostruendone i tanti rivoli, senza però perdere di vista la corrente principale. Un significativo contributo in questa direzione viene oggi dal lavoro di Claudio Moreschini (Storia dell’ ermetismo cristiano, Morcelliana, Brescia).
Senza pretese di esaustività in un campo in cui ancora molto vi è da dissodare e sulla base di una serie di lavori precedenti dedicati in particolare a Marsilio Ficino e a Ludovico Lazzarelli (di cui in appendice sono riportati alcuni testi fondamentali), l’ autore ha il merito, dopo aver ricostruito i tratti essenziali dell’ ermetismo tardo-antico e riassunto i temi fondamentali dell’ Asclepio, di abbozzare un profilo del modo in cui nell’ Occidente cristiano, sulla base soprattutto della traduzione latina dell’ Asclepio, nonostante le condanne di un Agostino, la figura di Ermete e i testi a lui attribuiti siano stati riletti, anche durante il Basso Medioevo, come una prefigurazione di aspetti fondamentali della rivelazione cristiana.
Come ricordano le Sibille del mosaico di Siena che accompagnano Ermete, la storia dell’ ermetismo medievale è anche storia dell’ intreccio con le innumerevoli tensioni profetiche che caratterizzano il Basso Medioevo. È così che lo vedrà un Ficino: non come un filosofo, ma come un profeta che preannuncia la futura rovina della religione egizia (e cioè del paganesimo) sulle cui ceneri nascerà una nuova fede. Aver contribuito a mettere in luce il fatto che questa fede ficiniana, così profondamente intrisa di succhi ermetici, fosse erede in realtà di una lunga tradizione medievale non è uno degli ultimi meriti del libro di Moreschini. Giovanni Filoramo
Rubati due preziosi incunaboli
di cui uno ha un valore di 24 mila euro
Mostra del libro antico con furto
Nel corso della diciannovesima edizione alla «Permanente».
Si tratta di due volumi stampati nella seconda metà del 1400
MILANO - Sono due rari volumi, entrambi stampati nella seconda metà del 1400, i libri rubati stamattina poco dopo l’apertura al pubblico della diciannovesima mostra del libro antico in corso alla «Permanente» di via Turati a Milano. Da due stand peraltro vicini all’ingresso sono spariti due preziosi volumi di piccole dimensioni: il primo è un testo di medicina di Marsilio Officino, «De Triplici vita» stampato a Parigi nel 1506 per il quale era richiesto un prezzo di 6 mila euro. Secondo il catalogo della mostra il volume (10 cm x 15) è il quarto esemplare completo al mondo dei sette esistenti in totale. Stampato in carattere romano su una sola colonna, senza illustrazioni, e scritto in latino con copertina in pelle scura e incisione in oro di aquila su piatti.
IL SECONDO VOLUME - Ventiquattromila euro era invece il prezzo richiesto per una raccolta di scritti di Philippus Barberiis, professore di teologia e monaco domenicano. L’Incunabolo (18 cm per 12,5) è datato 1 dicembre 1481. Il volume, restaurato nell’800, è completo di illustrazioni e rilegato con una copertina di pelle nocciola. Era esposto, insieme ad altri libri antichi, nella vetrina dello stand della Libreria Antiquaria Philobiblon di Milano.
LA DINAMICA - I ladri hanno approfittato della grande affluenza di pubblico e hanno prelevato i volumi dalle vetrine aperte all’interno degli stand. «Purtroppo - ha spiegato uno dei titolari dello stand 10 lo studio bibliografico Ozzano dell’Emilia, Giuseppe Solmi - non è possibile custodire meglio i volumi perché i compratori devono poterli toccare e osservare da vicino». I ladri, tra le 11 e le 11.30, in rapida successione hanno quindi prelevato i due piccoli volumi dai due stand e si sono allontanati senza problemi. Secondo quanto si è appreso le opere rubate sono comunque coperte da assicurazione. La mostra, che ospita 38 stand, resterà aperta fino al 16 marzo.
* Corriere della Sera, 14 marzo 2008
Martin Bernal, una scossa al mito del «miracolo greco»
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 02.07.2013)
In una celebre scena del film The Train (1964) l’ufficiale nazista (Paul Scofield), proteso a portarsi via opere d’arte francesi, mentre la Wehrmacht è in rotta precipitosa, si rivolge al ferroviere francese Labiche (Burt Lancaster), abilissimo nel sabotaggio, e gli ingiunge: «Allarga i tuoi orizzonti, Labiche!». Allargare gli orizzonti molto spesso non piace: soprattutto quando sussiste una forte tradizione che è difesa da studiosi non inclini a modificare le loro categorie mentali, ed è sorretta dal «senso comune» e dalle conseguenti, robustissime, vulgate.
È il caso delle reazioni all’importante libro di Martin Bernal, Black Athena (Londra, 1987), tradotto opportunamente da Pratiche Editrice (Parma) nel 1991. Bernal ebbe il merito di dire con chiarezza e sorreggere con seria documentazione quello che alla cultura antica, da Erodoto a Diodoro Siculo, era ben noto: che cioè il cosiddetto «miracolo greco», lungi dall’essere un «miracolo», era in realtà un rilevante e originale tassello di un grande flusso di civiltà, sorto in Oriente e fervidamente operante sin dal III millennio in aree cruciali del mondo antico quali la Mesopotamia e l’Egitto.
Nel secondo libro delle Storie, Erodoto spiega distesamente la dipendenza del pantheon ellenico da quello egizio, e chiama in causa i semi-mitici Pelasgi come punto di partenza e intermediari di grandi fenomeni di trasmigrazione culturale. E ricorda anche l’imbarazzo del greco Ecateo di fronte all’antichissima realtà statale-religiosa dell’Egitto. Diodoro di Sicilia è molto più dettagliato e forse anche più divertente. Né si dimenticheranno il Crizia ed il Timeo di Platone. Attraverso la celebre metafora del «viaggio in Egitto» del legislatore ateniese Solone, Platone getta un ponte tra i Greci «fanciulli» ed il loro antefatto culturale: lì sono gli «antichissimi Egizi» ad aiutare i Greci a riscoprire un loro passato remoto e sepolto.
Come ogni «miracolo», anche il «miracolo» greco era una invenzione. Era una invenzione della cultura «ariana» sviluppatasi nell’Europa moderna del tardo XVIII secolo e affermatasi in modo sempre più fastidioso - e alla fine minaccioso - nei due secoli seguenti.
Quando apparve in italiano il bel libro di Bernal, un coltissimo outsider quale fu Beniamino Placido ne scrisse nella rivista «Quaderni di storia» (1992). E osservò efficacemente - andando al cuore del libro di Bernal - che il «modello ariano» è stato messo a punto nel momento in cui l’Europa bianca si preparava a colonizzare l’Africa nera. «E l’America anglosassone si preparava a dire "fatti più in là", con le buone o con le cattive, ai suoi indigeni dalla pelle rossa. Faceva comodo pensare che noi - noi bianchi, noi greci - siamo radicalmente diversi e definitivamente migliori».
Bernal (1937-2013), nato a Londra, aveva conseguito all’Università di Pechino nel 1960 un diploma di lingua cinese. A Cambridge, nel 1966, un PhD in «Oriental Studies». Poi era passato negli Stati Uniti alla Cornell University. Suo nonno era stato un notevole egittologo. Quando il suo libro fece scandalo e lo si tacciò di essere anti-europeo, replicò: «My enemy is not Europe, it’s purity»!