Una «Commedia» tanti commenti
di Cesare Segre (Corriere della Sera, 21.03.2011)
Quella dei commenti alla Commedia di Dante è una delle più importanti imprese culturali dei primi secoli della nostra letteratura. Consacrare alla Commedia, pochi anni dopo la sua definitiva pubblicazione, nel 1321, annotazioni di carattere teologico, allegorico, storico, linguistico, stilistico, così come da tempo ne venivano dedicate ai classici latini, significava riconoscere che quest’opera veniva già considerata, appunto, un classico.
Nessun testo s’impose mai con tanta autorità, e nessuno ha mai avuto un corredo d’interpretazioni così ampio. I commentatori moderni di Dante sono ben consapevoli che il tesoro di annotazioni e interpretazioni costituito dall’insieme dei commenti antichi è la base fondamentale per qualunque ulteriore ricerca. E chiunque prenda in mano un commento moderno, trova ad ogni momento un richiamo a Graziolo de’ Bambaglioli o a Benvenuto da Imola, a Iacomo della Lana o all’Ottimo.
Purtroppo, solo una minima parte di questi testi gode di un’edizione attendibile, sicché è una lacuna ancora grossa quella che da poco ha cominciato a riempire l’Edizione Nazionale dei Commenti danteschi della Fondazione Pio Rajna, raggiungendo in pochi anni l’ampiezza di 28 tomi e 18 mila pagine. Sarebbe una vergogna se ottusi ed erronei criteri di risparmio da parte delle istituzioni bloccassero la realizzazione dell’impresa.
Ma intanto può perimetrare esattamente la situazione il Censimento dei commenti danteschi, a cura di Enrico Malato e di Andrea Mazzucchi (Salerno, tomi 2, pagine LXXXIV-1.180). Esso è dedicato ai commenti dell’epoca preguntenberghiana, cioè sino al 1480: che sono davvero i più importanti. di fatto, il vero e proprio Censimento è lo «Schedario» , che costituisce la seconda sezione di questi due tomi. Vi sono infatti elencati, biblioteca per biblioteca, tutti i manoscritti di ognuno dei commenti, con descrizioni e notizie storiche.
Ma, allo stato attuale, la parte più leggibile e già matura di quest’opera di sintesi è costituita dai medaglioni dedicati, nella prima sezione, a ogni commento: lunghi anche decine di pagine. Dai medaglioni apprendiamo l’essenziale sulla vita e il metodo di lavoro dei diversi autori, e perciò veniamo forniti di quelle conoscenze di base che poi si integreranno quando i commenti saranno editi.
Ogni notizia sui commentatori è benvenuta: sapere se erano notai o funzionari o traduttori, aver notizia della loro conoscenza diretta di Dante (evidente per Andrea Lancia) e del resto della sua opera; essere informati delle loro competenze di letteratura latina o di poesia volgare.
Importante poi orientarsi tra le varie redazioni di questi commenti, in cui spesso venivano inserite nuove annotazioni, solo che i compilatori le trovassero utili. Perché è un dato fondamentale: nella storia di tutti i commenti si intrecciano da una parte il senso dell’autorialità e dell’originalità, dall’altra l’impegno alla completezza dell’interpretazione, a prescindere dalla paternità delle note. I manoscritti di uno stesso commento si allargano o si restringono in base a queste due aspirazioni.
Si noti poi che le cantiche incominciarono a essere commentate prima ancora della conclusione dell’opera: sicché i primi commenti si fermano all’Inferno o al Purgatorio. Interessante anche la distribuzione geografica dei commenti. Perché se le Chiose di Jacopo, figlio di Dante, sono evidentemente «fuori concorso» (1322), vengono primi i commenti bolognesi come quello di Graziolo de’ Bambaglioli, in latino, del 1324, subito seguito da Giacomo d e l l a Lana (1324-1328), il primo a commentare le tre cantiche, e forse il più importante di tutti, mentre quelli fiorentini subentrano solo in un secondo tempo: al 1333-40 risale l’Ottimo, forse da identificare con Andrea Lancia, autore di un altro commento del 1341-1343; infine il Comentarium di Pietro, altro figlio di Dante, è del 1340 circa.
Non c’è poi da stupirsi se i commenti bolognesi hanno un carattere più dottrinale, consapevole del sapere universitario, mentre quelli fiorentini sono più attenti allo stile e ai contenuti narrativi. È certo che l’Ottimo, sia o no da identificare con Andrea Lancia, ha già in programma di offrire una summa di quanto hanno detto i principali commenti a lui anteriori.
E lo stesso Ottimo (o Andrea Lancia) può perfino appellarsi ad affermazioni di Dante stesso, per esempio in questa luminosa frase: «Io scrittore udii dire a Dante, che mai rima nol trasse a dire altro che quello ch’avea in suo proponimento; ma ch’elli molte e spesse volte facea li vocaboli dire nelle sue rime altro che quello, ch’erano appo gli altri dicitori usati di sprimere» . Dunque, nessuna licenza poetica, ma la capacità di estrarre dalle parole significati nuovi: insomma, l’uso creativo della rima. È proprio quanto un grande critico come Ernesto G. Parodi avrebbe dimostrato ampiamente sei secoli dopo.
Come è nato e si è diffuso il nostro idioma
E Dante creò una lingua meticcia
La fatica con cui lo leggiamo dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso
di Valerio Magrelli (la Repubblica, 16.05.2011)
Fra le tante eccezioni di cui gode l’Italia, terra delle eccezioni, quella della lingua non è certo fra le più marginali. Come un unico fiume millenario, la sua letteratura deriva infatti da una sola sorgente, rappresentata da un singolo testo fondatore: La Divina Commedia. (Prendiamo per buona quest’approssimazione, sorvolando sulla scuola siciliana, toscana, bolognese, come su un autore quale Cavalcanti, e proviamo a sviluppare la metafora). Dalla cima di quell’opera somma, un autentico Everest europeo, scaturisce la lingua che irriga la nostra poesia, la nostra prosa, il nostro teatro.
Ma in cosa consiste il segreto di un simile capolavoro? Direi in una capacità di concentrazione e immagazzinamento sillabico senza precedenti. Dante, cioè, procede a un inaudito stoccaggio del senso. La fatica con cui lo leggiamo, dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso, dovuto appunto alla spaventosa quantità di senso che contiene. Per ricorrere a un’altra analogia, siamo di fronte a una sorta di congelamento: ogni verso della Commedia reca in sé, sprofondata nel freddo, una massa di senso quasi intollerabile. Cosa fare, allora? Bisognerà passare questi versi al micro-onde del commento: il processo di comprensione richiede cioè di tradurre il cibo dell’autore in un nuovo stato fisico.
Altrimenti detto, all’interno di quest’opera il commento equivale a un percorso di riconversione. Da qui la lentezza del procedere: è come se ogni verso fosse un nodo, un algoritmo, un’equazione da risolvere. Sotto questo aspetto, la lingua di Dante suona straniera, talmente straniera che in certo modo solo uno straniero ha saputo coglierne fino in fondo il segreto. Penso ovviamente al grande Ospi Mandel’stam, che ne affrontò la lettura usando la penna «come il martelletto del geologo». Mille immagini sgorgano dal suo saggio, tra cui questa osservazione illuminante: «Il commento è parte integrante della Commedia [...] la Commedia, nave portento, esce dal cantiere con lo scafo già incrostato di conchiglie». Ma forse non è un caso che ad afferrare così bene la struttura dell’opera sia stato un poeta di un’altra lingua e di un’altra cultura, che amava sillabare Dante nei campi di prigionia, che usava Dante per resistere al silenzio della tirannia.
Ciò spiega quanto risulti profonda la sorgente della nostra letteratura, e aperta a chiunque voglia attingervi. Prodotta da quelle matrici latine, greche, provenzali, arabe, normanne che concorsero alla nascita del Dolce Stil Novo, la poesia, e dunque la lingua italiana, sorsero insomma meticce, e come tali sono pronte oggi a ricevere i lettori che giungono a noi da mondi lontani. È in questa prospettiva che va intesa la "funzione-Dante" descritta da un critico come Gianfranco Contini. Plurilinguismo, espressionismo, dinamicità, sono iscritti nel nostro testo fondatore come altrettante forme di accoglienza verso la parola dello straniero, l’ospite sacro venerato da Omero.
La sua nuova fortuna legata alle letture pubbliche. Di Benigni, ma non solamente Innovatore e reazionario È il suo mix, per noi oggi misterioso. Ora arrivano i Meridiani
Così lontano così vicino Un enigma chiamato Dante
A scuola è una presenza sempre più remota. In piazza trionfa con le letture di Benigni (e non solo).
Ed ecco arrivare a compimento il poderoso lavoro dei Meridiani, l’opera omnia col massimo dei commentarii
di Giulio Ferroni (l’Unità, 27.04.2011)
Davvero singolare è il modo in cui si è andata definendo negli ultimi anni la presenza di Dante nel nostro paese, nell’universo linguistico che egli con potenza eccezionale ha contribuito a fondare: per certi versi la sua opera si è sempre più allontanata, con una riduzione ed emarginazione nella scuola e nella diffusa coscienza culturale, per altri versi essa si è riproposta in vivissima attualità attraverso letture pubbliche e performance appassionate (e non solo da parte di Benigni). E con tanta tempestiva attualità si può ripetere oggi l’attacco dell’invettiva del VI canto del Purgatorio, che proprio Benigni ha recitato qualche giorno fa a Torino all’inaugurazione di Biennale Democrazia («Ahi, serva Italia, di dolore ostello», con quel che segue).
Lontanissimo o attualissimo, Dante dà luogo comunque a una vastissima serie di studi in tutto il mondo, che toccano non soltanto la Commedia, ma anche le opere cosiddette «minori», di cui sempre più si riconosce il legame inscindibile col capolavoro: in un percorso umano e letterario segnato da un moto ascensionale, vigorosamente proteso verso un esito assoluto.
Formidabile punto d’arrivo di tanti studi e ricerche degli ultimi decenni è ora il Meridiano con l’edizione delle Opere diretta da Marco Santagata, di cui è appena apparso il primo volume (pp. CCXLVIII+1690), che contiene tre opere più esplicitamente «letterarie», cioè Rime, Vita nova e De vulgari eloquentia, curate con ampie introduzioni e fittissima annotazione (le cui dimensioni possono anche sgomentare il lettore non predisposto) rispettivamente da Claudio Giunta, da Gugliemo Gorni (grande critico e filologo recentemente scomparso) e da Mirko Tavoni.
L’introduzione di Santagata sul perno delle opere «minori» ruota verso un’interpretazione generale dell’opera dantesca, che segue proprio la coerenza e la fulminea densità del percorso che conduce dalla prima apparizione di Beatrice nella Vita nova (è la grafia definita da Gorni nell’edizione Einaudi del 1996, i cui materiali vengono qui in gran parte riproposti, con un testo molto diverso da quelli della «classica» edizione critica di Michele Barbi, che recava la grafia Vita nuova) alla visione di Dio alla fine della Commedia.
Non a caso il primo capitolo dell’introduzione s’intitola Sistematicità e coerenza, mentre gli altri chiamano in causa La componente intellettuale, Varietà e sperimentalismo, Il fuoco del sistema: Santagata collega l’inesauribile «tendere in avanti» di Dante alla costruzione di un’autobiografia disposta sotto il segno dell’eccezionalità, proiettata in una immagine mitica di sé e rivolta verso un orizzonte profetico. Tante marche tracciate dalle opere precedenti, tanti diretti riferimenti di Dante alle proprie vicende personali, tante rivendicazioni di autenticità, inviterebbero «a leggere l’intera Commedia come concepita da un autore che si sente profeta».
Dante profeta viene ad azzerare «la differenza tra realtà e finzione», ponendosi come arci-personaggio, capace di riassumere e moltiplicare in sé tutte le modalità possibili dell’essere personaggio; e nel grande poema definisce un nuovo tipo di rapporto con il pubblico, rivolgendosi non più (come in parte accadeva nelle opere precedenti) ad un «pubblico già selezionato in precedenza (i poeti d’amore, gli studiosi, i nobili appassionati di poemi e romanzi cavallereschi, i devoti), ma a tutti».
Il suo impegno sperimentale, la sua apertura all’«innovazione» (che agisce sia sul piano della lingua che su quello dell’invenzione) appaiono comunque a Santagata in netto contrasto con l’approdo politico-sociale della Commedia, rivolto ad una vera e propria «controrivoluzione», con un progetto di ritorno ad una «nobiltà» originaria, in opposizione al contemporaneo «dinamismo sociale», da lui visto come «degenerazione dei costumi»: la Commedia si troverebbe a «mettere una cultura nuova, una lingua nuova, un nuovo modo di percepire e rappresentare la realtà al servizio della tradizione», consumando una paradossale vendetta contro la «modernità» rappresentata da Firenze, la patria che aveva condannato l’autore all’esilio. È ovvio che questo Dante reazionario socialmente e rivoluzionario letterariamente non permette facili identificazioni per il lettore contemporaneo: e i saggi introduttivi alle tre opere qui raccolte sembrano variamente confermare questo suo arretrare in lontananza.
Così fa l’introduzione alle Rime di Claudio Giunta, con acuta attenzione al vario sviluppo, fino al mondo contemporaneo, della lirica e delle concezioni dell’amore: vi si mostra da una parte l’originalità con cui la lirica dantesca, a differenza dei precedenti antichi e medievali, ha conquistato lo spazio dell’intimità; ma dall’altra, guardando al presente, vi si suggerisce un distacco dalla sopravvalutazione, da Dante prolungatasi fino a noi, dell’amore come segno supremo dell’umano destino (amore-agape) e spinta verso l’assoluto (che oggi finalmente ci troveremmo a poter sostituire con la semplice gioia dell’eros).
Certo questi e gli altri ricchissimi dati interpretativi che il volume propone meriterebbero di essere a lungo considerati e discussi: essi susciteranno ampia attenzione e discussione nel mondo degli studi danteschi, anche perché questo Meridiano sembra ambire a porsi come un modello «definitivo» di commento ai vari testi.
Si attende un secondo volume, dedicato al Convivio e un terzo, con le altre opere latine e un poemetto dalla controversa identificazione, il Fiore (la cui paternità dantesca è ora negata con ben misurate e convincenti ragioni da un rigoroso saggio di Pasquale Stoppelli, Dante e la paternità del “Fiore”, Salerno editrice, €.14,00).
Resta il fatto che opere capitali come questo Meridiano, nell’atto stesso in cui portano un contributo imprescindibile agli studi e penetrano anche con nuovi elementi dentro le più sfuggenti pieghe dei testi danteschi, vengono a farceli sentire un po’ più lontani, in una sorta di gelida impenetrabilità. Ma questa è forse la condizione attuale della filologia e della storiografia letteraria.
Vent’anni di lavoro e centinaia di studiosi per un’opera monumentale
Scoprite il catalogo dei commenti a Dante
Si tratta di un censimento di circa 500 manoscritti che riguardano parti del poema
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 07.04.2011)
Un’impresa scientifico-culturale di straordinaria portata è giunta in questi giorni ad una svolta decisiva del suo cammino. Grazie ad un lavoro ormai ventennale e all’impegno di un centinaio di studiosi provenienti dai più importanti centri di ricerca italiani e stranieri, coordinati dall’infaticabile Enrico Malato, il Censimento dei Commenti danteschi. I Commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), edito dalla Salerno, a cura del Centro per gli Studi Danteschi intitolato ad uno dei caposcuola della filologia romanza, Pio Rajna, vede finalmente la luce. Si tratta della catalogazione di circa 500 manoscritti, tra i quali molti anonimi, la maggior parte riguardanti solo alcuni canti o passaggi del poema; per tutti sono indicati i luoghi che ne custodiscono i testimoni.
Di estremo interesse sono i medaglioni biografici dei diversi autori, specie dei più rappresentativi, infinite volte citati anche nei commenti moderni e contemporanei e rimasti spesso fin qui nient’altro che un nome. Eppure è proprio grazie ad essi, ai più antichi, che ci è possibile dipanare l’immensa "selva" dantesca, fatta di figure, vicende storiche, personaggi, luoghi: dal grande commento del della Lana, primo integrale in volgare, all’Ottimo (così chiamato per la purezza del suo volgare toscano), al Buti, al Rambaldi. Ma occorre ricordare anche le prove dei figli stessi di Dante, Pietro e Jacopo, e quella del Boccaccio, che lesse i primi 17 canti dell’Inferno a Santo Stefano in Badia, alla fine della sua vita, quasi estremo omaggio a colui che era stato il suo Autore.
Qualsiasi Paese civile sosterrebbe un’opera collettiva di questo livello, riguardante in grande misura, il fondatore del proprio stesso idioma, con entusiasmo e con tutti i mezzi necessari affinché possa completarsi con ragionevole rapidità. Da noi, invece, si corre il fondato pericolo che debba "chiudere", forse in onore delle celebrazioni del 150°. E non sarebbe certo la prima Edizione Nazionale a fare questa fine.
Ma risparmiamoci ora le patrie miserie, per sottolineare l’importanza storico-culturale di questa ricerca. I commenti alla Commedia delineano, nel loro spesso confuso intrecciarsi, la storia ininterrotta dell’affermarsi di Dante, fino al ‘500, come "stella fissa" della cultura umanistica. Il poeta è insieme sempre l’esule politico, l’agonista indomito, che tale rimane fino all’Empireo, e insieme il teologo, il vate-profeta, l’uomo di scienza.
Proprio in questi commenti, si può già vedere in atto ciò che sarà compreso dai grandi studiosi contemporanei di Dante, per così dire post-crociani: l’indissolubilità di tutte queste dimensioni del genio dantesco. Nella modestia con cui essi "servono" il poema, senza pretendere di giudicarlo secondo una prospettiva, "tacendo" quasi dei propri convincimenti, questi commenti illustrano e spiegano indirettamente la inesauribile polifonia della Commedia.
La passione per l’Autore e il suo canto si lega così alla più positiva istanza di volerlo comprendere in ogni suo dettaglio. E’ come fosse qui già avvertita la coscienza che la forma dell’intero si rivela in ogni particolare, allorché questo venga realmente analizzato e compreso. E’ lo stesso accordo di amore e scienza che informa di sé, io ritengo, il lavoro filologico e scientifico dei curatori di questo Catalogo.