«Parousia» senza apocalisse
Si può smontare il meccanismo teologico di sudditanza all’Uno su cui si fondano i rapporti di potere? La risposta nel nuovo saggio di Roberto Esposito
di Remo Bodei (Il Sole-24 ore-domenica, 20.04.2014)
Si tratta di un libro teoricamente denso, caratterizzato da una fitta tessitura, con tanti nodi come nei tappeti pregiati, e in grado di spaziare dalla filosofia alla politica e dalla teologia al diritto romano. Continua, innovando, la riflessione già condotta dall’autore in Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale (Torino, Einaudi, 2007).
L’intuizione di fondo che guida Due è che non riusciamo a smontare la macchina della teologia politica che «funziona precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la sottomissione di una parte al dominio del tutto».
È difficile abbandonare questo schema in quanto siamo completamente immersi nel suo orizzonte, «non perché la porta d’ingresso sia sbarrata, ma perché l’abbiamo da tempo immemorabile varcata, prima che essa si richiudesse alle nostre spalle impedendoci di uscire».
La sfida consiste, dunque, nel procurarsi uno sguardo esterno e nell’abbattere la prigione mentale, ormai invisibile, in cui la nostra civiltà ci ha rinchiusi. Un’impresa, in apparenza impossibile, simile a quella del barone di Münchausen, che pretendeva di sollevarsi da terra tirandosi su con il codino.
Ma cosa è che ci vincola in maniera così stringente e come è possibile liberarsene? Essenzialmente, è la radicata concezione che l’uno assorbe la dualità degli opposti, sottoponendo un elemento all’altro (ad esempio dividendo l’uomo in anima e corpo e asservendo questo a quella o considerando la cultura europea come universale perché ha incluso in sé, separandosene, quella di altri popoli).
Il dispositivo teologico-politico è riuscito a imporsi soprattutto attraverso la categoria di persona, in cui confluiscono il diritto romano e la teologia cristiana. Infatti, è a partire dalla summa divisio di Gaio tra persona e res che si separano i liberi dagli schiavi, riducendoli a cosa pur senza escluderli dall’appartenenza a una comune umanità. Ed è nel dibattito dei primi secoli del cristianesimo sulla doppia natura di Gesù/Cristo - vero uomo e vero Dio - e nella faticosa formulazione del dogma trinitario (una sola sostanza in tre persone) che si cristallizza e domina l’inclusione oppositiva o l’opposizione includente.
Una parte del libro è consacrata alla ripresa della nozione paolina di katechon (contenuta nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, 19, 2), la forza frenante che, trattenendo il male, impedisce però l’avvento della parousia, della seconda venuta di Cristo. Anche in questo caso, il bene contiene in sé il male che sottomette fino all’apocalisse. Da cosa deriva questa idea di invitare i fedeli ad attingere la salvezza evitando di scontrarsi con colui che Paolo definisce enigmaticamente l’anomos, l’Anticristo?
Credo che, al di là delle dispute teologiche, bisognerebbe storicizzare maggiormente la funzione del katechon, nel senso di vederla come una risposta tattica di Paolo alle attese deluse dei cristiani, ai quali Gesù aveva predetto «verrò presto» (erchomay tachy): la parousia non si è ancora prodotta perché è frenata e ritardata dalle forze del male.
La proposta di Esposito (che ricorda per certi versi «la piccola porta attraverso la quale può entrare il Messia» di Walter Benjamin) è di conseguire una parousia senza apocalisse, una affermazione senza negazione, di spezzare cioè la subordinazione forzata del due all’uno e di fare coesistere quelli che appaiono ora come opposti.
Ciò è per lui possibile qualora ci si colleghi a una tradizione filosofica che, seppur minoritaria, attraversa l’Occidente da quasi mille anni, da quando Averroè scrisse il Grande commento al De anima di Aristotele. In esso il filosofo arabo sostiene che il pensiero in atto, l’intelletto attivo, non appartiene alla persona.
In altri termini: come per il vedere qualcosa sono necessari gli occhi e gli oggetti, ma non si vede nulla se non c’è la luce, allo stesso modo gli uomini hanno in potenza la facoltà di pensare (l’intelletto passivo) e i concetti (noemata) pensabili, ma se manca l’intelletto attivo, la luce - quella che gli scolastici chiameranno lux intellegibilis - non si riesce effettivamente a pensare.
Questa luce non appartiene, tuttavia, all’individuo: simile alla luce del sole che continua a brillare anche quando il singolo muore, il pensiero è impersonale. Averroè - difeso da Dante e contrastato da San Tommaso - sostiene dunque la mortalità dell’anima e il carattere collettivo del pensiero, in ciò seguito, in diversi modi, da una serie di pensatori che Esposito opportunamente inquadra: Pomponazzi, Bruno, Spinoza, Schelling, Nietzsche, Bergson, Deleuze.
Che Bruno e Spinoza seguano questa linea sembra pacifico. Meno scontato che lo sia Nietzsche, il quale in Aurora sostiene che il compito del filosofo consiste nel coltivare le conclusioni dei pensieri che germogliano spontaneamente dal grembo di quel «saggio ignoto» che è il corpo: «Spuntano in noi da giorni umidi e nuvolosi, dalla solitudine, da due parole, conclusioni, come fossero funghi: eccole arrivare un bel mattino, chissà da dove, e girano attorno lo sguardo per cercarci, con aria grigia e malcontenta. Guai al pensatore che non è il giardiniere, ma soltanto il terreno delle sue piante!».
Meno ovvio è invece l’inserimento in questa genealogia dello Schelling delle Lezioni di Stoccarda, che parla dell’impersonalità dell’anima, o di Bergson, che mostra, attraverso la similitudine del cinema in cui il movimento è prodotto da fotogrammi fissi, come funzioni il dispositivo duale riportato all’unità: prima si fissano le astrazioni e poi si genera meccanicamente il movimento.
L’audace strada percorsa da Esposito è interessante e, in parte condivisibile, in quanto il pensiero, al pari della lingua, non appartiene al soggetto. Eppure, alla De Saussure, un ruolo bisognerebbe pur attribuirlo alla parole, all’elemento di specificità e di creatività di un individuo all’interno della langue impersonale di una comunità. Forse le cose sarebbero più perspicue se Esposito distinguesse tra pensiero (impersonale) e coscienza (personale) di chi pensa.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (KANT, 1800), "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888), E INFERNO EPISTEMOLOGICO.
IMMAGINARE, STORIOGRAFICAMENTE (E FILOSOFICAMENTE) CHE "la galileiana matematizzazione della natura" sia innanzitutto un’operazione contro Galileo, così come lo strutturalismo linguistico alla Lacan sia soprattutto una saussuriana matematizzazione del linguaggio" contro Saussure, è un bell’esempio di permanenza nel letargo (Par. XXXIII, 94) dell’inferno epistemologico della tragedia - contro la commedia e contro Dante.
Enrico Redaelli, nel suo libro "Judith Butler. Il sesso e la legge", "un attraversamento delle opere e del pensiero della femminista, attivista Lgbtq+, intellettuale militante e filosofa statunitense", nello sforzo di offrire un contributo critico alla discussione, scrive:
(A) "Contro il costruttivismo, Butler sottolinea che “esiste un ‘esterno’ a quanto è costruito dal discorso”, ma, aggiunge subito dopo, “non si tratta di un ‘fuori’ assoluto, un luogo ontologico che eccede o contrasta i confini del discorso”. Di che si tratta, dunque? Questo “fuori” non è la materia, giacché, osserva #Butler con toni hegeliani, “porre una materialità all’esterno della lingua significa, comunque, porre quella materialità. Come direbbe Gilbert Simondon, la materia è sempre materia formata. Butler suggerisce il medesimo riferendosi al corpo: “non esiste rimando a un corpo puro che non sia allo stesso tempo un’ulteriore formazione di quel corpo”; (B) "Fino all’inizio della modernità, infatti, il cosmo di cui l’uomo fa esperienza è sempre stato un cosmo sessualizzato, barrato, visto alla luce della differenza sessuale. [...] In seguito il disincanto della scienza moderna ha prodotto qualcosa di completamente nuovo, la mera “realtà oggettiva”, privata di ogni fine e di ogni senso, ma anche di ogni sesso. [...] Come ha infatti osservato #Husserl, la mossa che ha dato origine alla modernità scientifica, la galileiana matematizzazione della natura, è una potente operazione di astrazione che passa per lo svuotamento dei plena, ossia per la cancellazione di tutte le caratteristiche qualitative degli enti naturali (odore, sapore, colore, ecc.), sloggiate dall’ambito dell’oggetto ed esiliate in quello del soggetto." (cfr. E. Redaelli, "Judith Butler. Il sesso e la legge", Le parole e le cose, 7 marzo 2023).
SE è VERO, come è vero CHE "La questione è più complessa e non priva di paradossi", non per questo è necessario costringere nelle vecchie botti della cosmoteandria platonico-heideggeriana l’acquisizione della relatività galileiana-einsteiniana, della consapevolezza antropologica dell’io che "non è padrone nemmeno in casa sua" e che le sue spiegazioni non sono interpretazioni di sogni, ma, a tutti i livelli, "costruzioni nell’analisi", sia in fisica sia in metafisica - criticamente, con Kant, Freud, e Franca Ongaro Basaglia.
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu
Dalla Bibbia alla psicoanalisi: il nuovo saggio di Massimo Recalcati
In "La legge della parola", lo psicoanalista rilegge alcuni episodi del Vecchio Testamento con gli strumenti di Freud e Lacan, facendo incontrare due linguaggi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 15 giugno 2022).
Nella prima cappella a destra della Chiesa di Saint-Sulpice, a Parigi, vi è una pittura murale di Eugène Delacroix che ritrae la figura biblica della lotta di Giacobbe. L’identità del personaggio con cui si batte è misteriosa. Chi è l’essere che affronta in un corpo a corpo mortale? Un uomo, un angelo, un dio? Chiunque sia, in termini simbolici Giacobbe lotta contro se stesso, con la propria immagine speculare, col fantasma del proprio narcisismo. Secondo il racconto biblico, quando il combattimento finalmente termina, Giacobbe resta ferito all’anca. Quella ferita alla propria identità lo muta profondamente, dandogli un nuovo nome. Reciso un legame troppo vincolante con se stesso, egli adesso è pronto a incontrare l’Altro, ad aprirsi alla relazione.
È la lettura, profonda e suggestiva, che nel suo nuovo libro, La Legge della parola. Radici bibliche della psicoanalisi, edito da Einaudi, Massimo Recalcati fornisce di quell’episodio e, più in generale, del Libro. Come egli stesso spiega, non si tratta di un’interpretazione psicoanalitica della Bibbia e neanche di una declinazione religiosa della psicoanalisi. Ma di un incontro tra linguaggi diversi, che tali restano, reso possibile da un presupposto comune: esiste una legge non al servizio della morte - della colpa e del castigo -, ma destinata a generare nuova vita.
Si tratta della legge della parola. Essa chiede all’uomo di non volersi fare Dio, di ammettere la propria finitezza, di riconoscere la tensione che attraversa la sua esperienza, umanizzandola. La stessa che per Freud articola pulsione di vita e pulsione di morte e per Lacan distingue desiderio e godimento. Solo superando l’identificazione narcisistica con la propria immagine, come fa Giacobbe, l’uomo può riconoscere il ritmo dell’esistenza nell’alternanza tra pienezza e mancanza, gioia e dolore, vittoria e sconfitta. La rinuncia al godimento assoluto - comunque non alla nostra portata - apre la porta al desiderio. Soltanto l’esperienza di una lesione profonda - abbandono, perdita, lutto - può rendere di nuovo generativa la vita umana.
Da questa prospettiva - maturata in una rivisitazione particolarmente creativa della psicoanalisi lacaniana - Recalcati rilegge gli episodi più intensi della Bibbia. Al centro di tutti torna, declinato in modi diversi, il rapporto costitutivo tra desiderio e divisione. Il rifiuto della fusione con se stessi a favore dell’alterità. Da parte dell’uomo, ma anche di Dio. Che, nella genesi, crea il mondo separandolo da sé. La luce di cui lo inonda coincide con la forza simbolica di una parola che rompe la notte dell’indifferenziato, generando l’infinita molteplicità della vita. Come anche nella psicoanalisi freudiana e lacaniana, la parola che Dio rivolge all’uomo non è solo comunicazione, ma rivelazione. Luce e taglio. Creando il mondo Dio si ritira, rinuncia all’onnipotenza, come hanno diversamente sostenuto Lévinas, Bonhoeffer, Simone Weil. Con un secondo taglio immette la differenza, anche sessuale, nelle forme viventi. Separa la vita umana dalla nuda vita biologica.
Ma, contro ogni retorica umanistica, la vita umana non nasce integra. Sperimenta l’odio prima dell’amore, la vendetta prima del perdono. Il fratricidio di Caino apre la storia dell’uomo nel segno della violenza assoluta. Egli uccide il fratello per essere solo, per essere tutto.
Come sostiene Lacan, Caino è l’altro nome di Narciso. Riconosce in Abele la propria immagine irraggiungibile e la distrugge. Dio lo condanna, per poi salvarlo, spezzando la catena della violenza reciproca. La violenza divina non è mai cieca. Il diluvio che scatena sul mondo corrotto consente a Noè di rigenerarlo. Così come il crollo della torre di Babele e del suo sogno di monolinguismo ripristina la molteplicità delle lingue. Perfino nell’episodio, in prima istanza incomprensibile, del sacrificio di Isacco, la mano di Dio si arresta, si ritira, sostituendo un montone al figlio prediletto di Abramo. Dio rinuncia al dominio, interrompendo la spirale del sacrificio.
Il rapporto dell’uomo con Dio resta problematico. Il racconto biblico non nasconde la tensione. Al contrario, come farà la psicoanalisi, la rivela. Il grido di Giobbe, a metà tra blasfemia e preghiera, reclama una spiegazione da Dio per la sofferenza ingiusta. Anch’egli non è una figura della rassegnazione, della pazienza, ma della lotta. In termini psicoanalitici, la sua vicenda attesta che, se la sofferenza umana è ineliminabile, attraverso il sintomo la si può interpretare, tradurre, decifrare. Il libro sapienziale di Qohelet spinge al culmine la consapevolezza dell’inaggirabilità della morte e dunque della vanità della vita. Il suo eterno oscillare tra splendore e polvere. Ma invita, proprio perciò, a godere di quanto si ha. Non nell’attesa, ma ora, adesso.
Per questo Recalcati collega Qohelet al Cantico dei cantici. In questo esplode la gioia dell’amore, la festa degli amanti. Che, però, non infrange la legge del desiderio, non s’inscrive nella logica del godimento assoluto. Anzi lo dichiara impossibile. Impossibile è la fusione in Uno di coloro che restano Due, differenziando la disponibilità femminile dal sogno di possesso maschile. La Bibbia rivela la problematicità, ma anche la necessità, del rapporto. Come insegna il racconto paradossale di Giona, il più umano dei profeti, è difficile rispondere alla chiamata di Dio, ma tale difficoltà custodisce il mistero dell’esistenza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA NASCITA DELL’ESSERE UMANO E IL GIOCO DEL ROCCHETTO. Al di là del giogo di Edipo e Giocasta.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Morto il filosofo Remo Bodei, studioso delle filosofie del Novecento
Si è spento nella sua abitazione di Pisa. Aveva insegnato alla Normale e nelle più importanti università del mondo. Era l’ideatore del Festivalfilosofia
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 8 novembre 2019)
Il filosofo Remo Bodei, scomparso all’età di 81 anni, era un accademico raffinato e di grande prestigio, abituato a confrontarsi con i temi più specialistici e complessi. Ma non disdegnava affatto la divulgazione, rivolta anche ai bambini, che riteneva particolarmente ricettivi verso le tematiche della sua disciplina. A lui si deve in buona parte il grande successo del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, di cui aveva presieduto il comitato scientifico e per il quale si era molto impegnato. Oltre che nel pensiero speculativo, la sua competenza spaziava in molti altri settori del sapere, tra cui la musica, la poesia e l’estetica: era un appassionato conoscitore e studioso dell’autore romantico tedesco Friedrich Hölderlin e aveva fatto parte dell’advisory board internazionale dell’Istituto europeo di design.
Nato a Cagliari il 3 agosto 1938, Bodei in un primo tempo aveva studiato a Roma, poi aveva vinto il concorso per entrare alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si era laureato e aveva intrapreso la carriera accademica. Interessato non solo alle dottrine filosofiche, ma anche alla vita politica, si era iscritto molto giovane al Partito socialista e aveva subito anche un’aggressione da parte di militanti dell’estrema destra. Ma la contestazione del Sessantotto, che a Pisa era stata particolarmente vivace, lo aveva lasciato piuttosto perplesso. Retrospettivamente Bodei riconosceva il valore della spinta innovativa innescata dalla rivolta giovanile rispetto alle incrostazioni del mondo accademico di allora, ma continuava a rimproverarle il torto di aver prodotto «una gerarchia di capi e capetti», compreso il suo amico Adriano Sofri, nelle organizzazioni extraparlamentari.
Molto importanti, per la formazione di Bodei, erano stati i lunghi periodi di studio trascorsi in Germania, in particolare nelle Università di Tubinga, Friburgo, Heidelberg e Bochum, dove aveva avuto l’opportunità di confrontarsi con maestri di altissimo livello come Ernst Bloch e Karl Löwith. In particolare a Bloch, pensatore utopista che aveva cercato di stabilire un legame tra cristianesimo e marxismo in nome del «principio speranza», aveva dedicato il saggio Multiversum (Bibliopolis, 1979), che approfondiva il significato dei concetti di tempo e storia nell’opera del filosofo tedesco. In precedenza Bodei, curatore e traduttore di molti testi importanti, si era concentrato sulla grande tradizione idealista della Germania ottocentesca.
La sua prima monografia, con cui si era imposto all’attenzione degli specialisti, fu Sistema ed epoca in Hegel, un libro pubblicato dal Mulino nel 1975 e poi riproposto in edizione ampliata dalla stessa casa editrice nel 2014 con il titolo La civetta e la talpa. Anche il suo successivo lavoro Scomposizioni (Einaudi, 1987), riguardante i dilemmi identitari e le contraddizioni dell’individuo moderno, era stato poi rielaborato per il Mulino nel 2016. Accademico dei Lincei, autore riconosciuto a livello internazionale con la traduzione in diverse lingue delle sue opere principali, oltre che a Pisa aveva insegnato alla University of California Los Angeles (Ucla). Ma aveva anche una notevole capacità di parlare al grande pubblico, soprattutto quando affrontava temi come la ricerca della felicità personale e i vincoli che condizionano le aspirazioni dell’individuo: alcuni suoi libri incentrati su questi temi, come Geometria delle passioni (Feltrinelli, 1991) e Destini personali (Feltrinelli, 2002), avevano registrato un significativo successo anche sotto il profilo delle vendite.
Il tema dell’utopia era sempre rimasto al centro delle riflessioni di Bodei. Citando il filosofo ebreo Baruch Spinoza, amava ripetere che l’uomo «è un animale desiderante e non smetterà mai di essere attratto da ciò che gli manca». Ma era attento anche ai temi dell’attualità e riteneva indispensabile, per la filosofia, confrontarsi senza remore con le più sconvolgenti novità del nostro tempo.
Due erano le questioni che riteneva cruciali per la società del XXI secolo. Da una parte Bodei era molto interessato all’irruzione tumultuosa delle biotecnologie, con le loro gigantesche implicazioni etiche, riguardanti le origini della vita e la sua manipolazione, la trasformazione dei legami famigliari, la prospettiva affascinante e al tempo stesso inquietante del postumano, con un potenziamento artificiale della nostra specie.
Su un altro versante guardava con estrema attenzione agli effetti della riduzione drastica delle distanze tra i popoli, con il conseguente «incontro tra culture separate». Era indispensabile a suo avviso che la filosofia riuscisse a darsi «una dimensione globale», superando quel genere di universalismo che pretendeva d’imporre valori assoluti, ma senza rinunciare a un «razionalismo aperto», capace di difendere le grandi conquiste di libertà raggiunte dalla civiltà occidentale ed espresse nella Dichiarazione dei diritti umani approvata dalle Nazioni Unite nel dicembre del 1948.
Bodei era convinto che la filosofia italiana, dotata da sempre di una «vocazione civile», avesse un ruolo non secondario da svolgere su questi versanti. Pur scettico verso una certa retorica sulla cosiddetta italian theory, che temeva potesse diventare «uno slogan di comodo», riconosceva la pregnante rilevanza dell’elaborazione condotta da colleghi come Emanuele Severino e Gianni Vattimo, che avevano avuto il merito di emancipare il nostro Paese dalla precedente subalternità rispetto a correnti di pensiero provenienti dall’estero. Più in generale Bodei non si stancava di ribadire quanto fosse falso il ricorrente annuncio della «morte della filosofia». Proprio sulla base del suo rapporto con il pubblico, opponeva a questi stereotipi la permanenza indubbia di «una fame di senso nelle persone».
A suo avviso la filosofia poteva ancora costituire «una sorta di tessuto connettivo rispetto alle nozioni frammentarie che immagazziniamo e un antidoto utile al fast food intellettuale che ci viene propinato». Sul piano civile lo allarmava l’incapacità della politica di misurarsi con le grandi trasformazioni del mondo contemporaneo. Bodei avvertiva dolorosamente il pericolo di una vita pubblica appiattita nel perseguimento affannoso di traguardi immediati, senza alcun disegno complessivo munito di un qualche spessore storico: «Senza la presenza del passato - osservava - non solo non si comprende il presente e non si può progettare il futuro, ma si è sottoposti a qualsiasi manipolazione».
Antonio Carioti
Impolitico è l’uomo senza più utopie
di Roberto Esposito (l’Espresso, 23.09.2018)
Cosa vuol dire “impolitico”? Qual è il significato di questo termine - al di là di quello datogli da Thomas Mann nelle sue “Considerazioni”? Per rispondere a questa domanda bisogna prima di tutto distinguerlo dai due concetti cui viene erroneamente assimilato - l’antipolitico e l’apolitico. Quanto all’antipolitica è lo stesso Mann a situarla nell’orizzonte politico che essa vuole contrastare: «L’antipolitica è anch’essa una politica, giacché la politica è una forza terribile; basta solo sapere che esiste e già ci si è dentro, si è perduta per sempre la propria innocenza».
Nel momento stesso in cui si oppone alla politica, facendone il proprio bersaglio, l’antipolitica parla il suo stesso linguaggio, non è che una forma mascherata di politica. L’elezione di Trump ne costituisce un esempio perfetto. Ma anche in Italia ne abbiamo avuto esperienza diretta Il caso più eclatante è quello dei 5 Stelle. Che hanno costruito il proprio successo politico indossando in da subito le vesti dell’antipolitica. Ciò vale, in generale, per tutti i populismi, arrivati al potere contestando ogni politica - tranne naturalmente la propria.
Ma l’impolitico è diverso anche dall’atteggiamento apolitico. Perché anche questo, pur astenendosi dalla partecipazione alla cosa pubblica, ha sempre un effetto politico. Come accade per l’astensione. Chi si astiene - e sono sempre più a farlo nelle democrazie occidentali - rafforza politicamente una parte di coloro che intendono delegittimare. Come è noto, in America non vota più del 50 per cento degli aventi diritto - ma ciò gioca oggettivamente a favore di uno dei due candidati alla Presidenza.
Nei paesi come la Francia, in cui è previsto il ballottaggio, si va al potere con una percentuale ancora minore. In questo senso l’esercito degli astensionisti - che non considerano degno nessun partito del proprio voto - costituisce di fatto un vero partito. Spesso il maggiore sul piano numerico. In questo senso dichiararsi apolitici perde di significato, perché comunque, anche se la si rifiuta, si sta all’interno della dialettica politica.
Se l’antipolitica è una forma di politica attiva, speculare alla politica avversata, l’apolitica è una politica passiva, ma non meno rilevante sul piano delle conseguenze nella formazione dei governi e dunque nella distribuzione del potere. Ben diverso il punto di vista dell’impolitico, come si è andato configurando nell’opera di alcuni autori “eretici” del Novecento. Nessuno di loro intende contrapporre alla politica un valore etico o estetico, come aveva invece fatto Mann. E come pretendono di fare gli antipolitici e gli apolitici ogni volta che attaccano la politica.
Al contrario gli impolitici ritengono che la politica - il conflitto di interesse e di potere - riempia l’intera realtà. In questo senso il punto di vista dell’impolitico coincide con il realismo politico, con cui condivide la consapevolezza che “la politica è il destino”. Non solo, ma un destino segnato dalla presenza inevitabile del male. Che si può contenere, limitare, ma con cui è necessario convivere.
«Anche i primi cristiani», scrive Max Weber in “Politik als Beruf”, «sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche». Ciò non vuol dire che si debba idolatrarle, rivestirle di un valore che non hanno.
Tra politica e valore vi è un solco incolmabile Il Bene non è traducibile in politica, come la Giustizia non può mai incarnarsi perfettamente nel diritto. Solo l’ignoranza diffusissima del significato sia della Giustizia che del diritto può indurre a sovrapporli. Il compito dell’impolitico è custodire il senso tragico di questa distinzione. Assumere la realtà per quella che è non vuol dire inchinarsi a essa.
Al contrario solo la consapevolezza della sua ineluttabilità, può delineare, ai suoi margini esterni, il profilo di un’altra dimensione non sua prigioniera: «Su questa terra», afferma Simone Weil, «non c’è altra forza che la forza. Questo potrebbe essere un assioma. In quanto alla forza che non è di questa terra, il contatto con essa si paga solo al transito di qualcosa che assomiglia alla morte». Questo qualcosa è appunto la Giustizia, la cui realizzazione è sbandierata ai quattro venti dai professionisti dell’antipolitica. Al contrario l’impolitico è lontano da ogni utopia. Ma anche dal cinismo di chi contrabbanda il proprio interesse per il bene generale. Egli, dalla sua posizione defilata, testimonia la contraddizione drammatica tra l’aspirazione al Bene e l’impossibilità di realizzarlo politicamente.
Mai, come ben sapeva Weber, l’etica della convinzione - che si attiene ai puri principi - e l’etica della responsabilità, che tiene conto delle conseguenze dell’azione, possono coincidere. Anche se chi è “chiamato” alla politica deve cercare di accostarle quanto è possibile. A questa eterna tensione tra finito e infinito è destinato l’impolitico. Ma cosa importa di tutto ciò ai nostri politici?
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE.... *
Il negativo è il limite che attraversa la vita
Storia delle idee. «Politica e negazione. Per una filosofia affermativa» di Roberto Esposito, pubblicato da Einaudi. Il filosofo si interroga su un’inarrestabile deriva nichilista e esplora le radici dell’alternativa di un pensiero affermativo. Una riflessione che porta la vita alla sua massima espansione senza sottrarsi a nessun conflitto. La scoperta di Spinoza per il quale la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. Quello del filosofo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 28.02.2018)
In giorni oscuri torniamo a interrogarci sulla negazione. L’avevamo rimossa, avevano detto che la storia era finita e avremmo vissuto in un eterno presente pacificato. Ci siamo risvegliati in una specie di guerra civile mondiale dove la negazione è intesa come distruzione della vita: il terrorismo jihadista che rivendica il potere di dare la morte in maniera indiscriminata. Oppure lo stragismo fascista e razzista contro gli immigrati, rovescio diabolico di una risposta uguale e terribile.
ABBIAMO PERSO il contatto con l’idea per cui il negativo sia l’anima del reale, ciò che lo spinge a rovesciare la contraddizione e affermare la vita. Il negativo è invece inteso come una negazione senza rimedio. Oltre il suo «non» c’è il niente. Il «negare» ritrova la sua lontana origine latina: «necare», uccidere. Tutto sembra essere stato assorbito da un dominio di un potere assoluto che non salva, ma uccide anch’esso. Sfumano così le distinzioni che hanno costruito la politica moderna: quella tra guerra e pace, tra il militare e il civile, tra il criminale e il nemico. Anche davanti a fenomeni meno estremi - il lutto, l’afasia, il dolore, la precarietà, la contraddizione più acuta - sembriamo incapaci di afferrare il negativo con categorie diverse dalla distruzione della differenza che abita l’essere.
SIAMO IN UN’«INARRESTABILE deriva nichilista di una negazione sfuggita di mano a chi l’ha teorizzata - scrive Roberto Esposito nel suo ultimo libro Politica e negazione. Per una filosofia affermativa (Einaudi, pp. 207, euro 22) - La logica del nichilismo si traduce in un’ontologia dell’inimicizia». E «l’annientamento diventa auto-annientamento». L’altro va distrutto per affermare un’identità tanto autentica, quanto fittizia e mortifera: l’identità nazionale e «sovrana», oppure la proprietà e la concorrenza tra individui atomici e disperati.
C’E’ STATO UN TEMPO in cui si è ritenuto che il nemico fosse chiaro, almeno dal punto di vista della razionalità politica. Questa logica, in realtà, non era così ferrea, tanto è vero che lo stesso Carl Schmitt in Teoria del partigiano ne ha indicato i limiti. Se a Lenin è stata riconosciuta una superiorità politica per avere trasformato il Capitale da «vero nemico» in «nemico assoluto» (ricambiato dall’altra parte), la deriva nichilistica dell’annientamento non è stata fermata. Anzi, si è intensificata.
POLITICA E NEGAZIONE è alla ricerca di un’alternativa. Esposito riparte dal significato di «negazione» e conduce un corpo a corpo con Hegel, il grande pensatore di questa categoria. Non c’è dubbio che il negativo sia l’essere altro da sé, il superamento verso qualcosa che non ritorna all’identico. Il punto è che non è l’espressione di una negatività di fondo dell’essere, un divenire privo di determinazioni che non siano quelle rispetto a se stesso. Il negativo fa parte della vita: è la sua necessità. Per questo va contestualizzato, non generalizzato. È una forma dell’affermazione, non l’elemento originario che annulla l’essere.
IL NEGATIVO RIGUARDA anche l’azione, il modo in cui concepiamo le relazioni e la politica. Non è un ostacolo o una forza contraria che si oppone alla libera volontà di chi vuole affermare qualcosa. Il «non» - ovvero il conflitto, la contraddizione - non è esterno al soggetto, ma è interno ad esso. Il negativo è il limite che attraversa la vita costretta tra necessità e finitezza. E tuttavia non è la fine di qualcosa, ma l’indice di ciò che potrebbe essere. Non è l’annichilimento della vita, ma «il punto vuoto che spinge il presente oltre se stesso», scrive Esposito. Lo scopo di questo approfondimento vertiginoso è modificare la nostra disposizione verso la vita. Se la vita è imprigionata nel negativo, allora è immobile povera e paranoica. Se invece è un momento determinato di un divenire storico che si sporge oltre se stesso, allora diventa una pratica.
PER AFFRONTARE questa impresa Esposito si è rivolto a Spinoza, l’unico filosofo che ha dato una definizione affermativa della negazione. Spinoza, il grande eretico aggredito da Hegel e sistematicamente travisato dai suoi posteri. Per lui la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. È una meditazione su ciò che può fare una vita, non su ciò a cui deve rinunciare per sopravvivere. Questa è ancora oggi la sua gloria: avere una grande fiducia nella vita e denunciare tutti i fantasmi del negativo.
OGGI POSSIAMO INTUIRE quanto contro-corrente possa essere un simile atteggiamento. Ma questa è la vocazione «inattuale» del filosofo. Il suo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita, a dispetto del negativo che ci circonda. Ha fiducia nelle potenzialità della vita, come nell’amore per il mondo e per chi lo vive.
L’APPRODO ALLO SPINOZISMO di un filosofo importante come Esposito non è improvvisato. Già in passato aveva parlato di «biopolitica affermativa». Oggi parla di «filosofia dell’affermazione». Una definizione rilevante in un panorama culturale come quello italiano dove prevale un «pensiero del negativo» che porta ad esiti impolitici, elitari o addirittura teologici. Il pensiero affermativo non è un positivismo del fatto compiuto, né una stanca decostruzione. Indica la strada per una nuova forma di materialismo, istanza che sembrava remota, o riservata a poco, fino a poco tempo fa.
SUL PIANO POLITICO questa filosofia mette in discussione la «sovranità», il fantasma di tutti i dibattiti politici o economici. Con «sovranità» si allude a uno Stato che nega l’inimicizia degli uomini e impone il monopolio della violenza. Esiste, invece, un’altra concezione dello «Stato» che incanala la potenza istituzioni capaci di salvaguardarne l’esistenza. In questo modo «il governo degli uomini non passa per una denaturazione della vita», ma da una forma immanente di auto-governo che mira al raggiungimento del «punto massimo della propria espansione». È la differenza che passa tra una politica sulla vita e una politica della vita, per usare le categorie di Esposito.
UNA «FILOSOFIA DELL’AFFERMAZIONE» non nega l’esistenza del conflitto - il negativo - né allude a una pacificazione come fa la retromania che devasta il dibattito pubblico attuale. Il conflitto è un elemento della relazione, oltre che della creazione di nuove istituzioni. Per renderla concreta è necessaria una politica dell’amicizia.
NELLA POLITICA novecentesca l’amicizia è stata considerata una categoria parassitaria dell’inimicizia. O amici, non ci sono amici in questo mondo. E così il mondo si scopre popolato solo da nemici. Davanti a questo paradosso va sperimentata una prassi politica che metta insieme corpo e intelletto, materia e spirito, vita e forma, e non rifugga ma abbracci il conflitto. Una politica dell’amicizia consiste nel costruire opere comuni, nel saperle difendere e nell’affermarle.
LA SOLIDARIETA’ E LA FRATELLANZA vanno riscoperti come strumenti affermativi, non come mezzi per attaccare il diverso. Creano legami, non impongono vincoli. Se intesi come strumenti del conflitto servono a liberarsi da ciò che impedisce di godere insieme di quello che abbiamo: la carne, la nascita, il corpo, la differenza e, più in generale, l’idea che la norma (giuridica, politica, sociale) nasca dalla vita in comune. L’amicizia è capace di affermare qualcosa che è in potenza e a disposizione di tutti. È tempo di imparare a coglierne i frutti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli". Con Rousseau, Kant, Marx, Freud e Dante, oltre Hegel, per una seconda rivoluzione copernicana.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
Federico La Sala
La parola presente /4
BENESSERE. Equilibrio, ricchezza e salute, così è cambiata la "buona vita".
Se la religione dei corpi riduce l’uomo a merce
di Marino Niola (la Repubblica, 25.07.2016)
Well be or not to be. Benessere o non essere, questo è il problema. Il dilemma del nostro tempo che ha sciolto il dubbio amletico e lo ha trasformato in imperativo cosmetico. Estetico, dietetico, terapeutico. Dopo averne fatto a lungo un mantra economico. Ma in entrambi i casi, sia che si tratti della salute del nostro corpo, sia che si tratti della salute delle nostre finanze, resta il fatto che la parola benessere ormai riguarda sempre più l’avere e sempre meno l’essere.
Con un avvitamento della lingua che riflette una metamorfosi del senso comune e dei suoi valori di riferimento. Che prendono un’accezione sempre più materiale, legando la soddisfazione, l’autostima, l’equilibrio personale, la realizzazione di sé, il proprio riconoscimento da parte degli altri, a qualcosa che si possiede. Fino a poco tempo fa era un reddito soddisfacente, adesso è un corpo efficiente. Un passaggio che nell’inglese è scritto a chiare lettere nella stretta parentela tra wealth,ricchezza, e health, salute. Mentre l’italiano chiama entrambe benessere. Con uno slittamento interno del significato che però non affiora alla superficie del vocabolario. Ne è la prova il fatto che non si sente il bisogno di creare due termini distinti.
In realtà il termine benessere finisce per riepilogare i valori, le aspettative, le proiezioni che in ogni epoca compongono gli algoritmi della buona vita. Per gli antichi si tratta di parametri spirituali, che hanno a che fare poco con la ricchezza, un po’ più con la salute, e molto con l’equilibrio. Che è alla base di una buona disposizione dell’animo. Platone la chiama eufrosine, cioè letizia, che è anche il nome di una delle tre Grazie, divinità dispensatrici di splendore, di bellezza e di prosperità. Peraltro il termine grazia è molto imparentato con la gratuità, il disinteresse, l’armonia, la giustizia. Lo dice il nome greco delle Grazie che è Cariti, da charis che significa dono, un concetto storicamente legato alla nostra idea di carità. E dunque il benessere non dipende dalla ricchezza. Ancor più chiaro in questo senso è Aristotele, che esclude categoricamente il possesso e il successo. Perché lo star bene degli uomini non consiste semplicemente in un soddisfacimento dei desideri e dei bisogni materiali, ma nel controllo razionale delle passioni e delle pulsioni. Che è condizione dell’equilibrio individuale e dell’equità sociale. Ma il filosofo della catarsi si spinge ancora oltre e, con un ragionamento che oggi definiremmo antiutilitaristico, arriva addirittura a separare la crematistica, la scienza che riguarda l’acquisto e la gestione della ricchezza, dall’economia.
Quest’ultima, infatti, insegna come soddisfare i bisogni primari e vivere bene in mezzo agli altri, mentre la crematistica, che mira a quella che adesso chiameremmo l’accumulazione del capitale, è artificiale e in un certo senso antisociale. Insomma, per l’autore dell’Etica Nicomachea, il benessere è di natura essenzialmente relazionale, nel senso che il rapporto con gli altri costituisce un bene in sé. È il fine e non il mezzo dell’economia. Una posizione declinata al presente da una filosofa come Marta Nussbaum, non a caso definita neoaristotelica. L’autrice di Non per profitto ritiene infatti che una delle cause del declino attuale della democrazia sia l’utilitarismo spinto all’estremo che riduce l’uomo a merce, il sapere a tecnica, la bellezza a dogma, la salute a obbligo. E il benessere a Pil. Che, naturalmente, per mantenersi su livelli elevati ha bisogno di lavoratori in piena forma, di macchine corporee senza difetti. Efficienti, performanti, scintillanti. È l’avvento degli “ultimi uomini”, per dirla con lo Zaratustra di Nietzsche, quelli che credono di avere inventato la felicità, che vivono sempre più a lungo, e per i quali ammalarsi è peccato.
Ed è proprio questo scivolamento della persona verso la risorsa umana, del well-being verso il well-ness, della comunità verso l’immunità, alla base della svolta biopolitica che stiamo vivendo. Dove gli uomini diventano energie rinnovabili e quindi anche rimpiazzabili. Del resto proprio questo vuol dire risorsa, dal francese resortir, nel senso di rinascere, rinnovarsi. È l’umano al servizio dello sviluppo e non lo sviluppo al servizio dell’umano.
Una critica in ipsis verbis di questo pensiero unico della crescita si trova in un apparente lapsus degli studenti della South-Pacific University di Suva, nelle isole Figi, che hanno trascritto in pidgin-english (la lingua franca di alcune aree del Pacifico), il termine development, sviluppo, facendolo diventare develop-men, ovvero piena realizzazione dell’umano. Così quello che sembrava un errore di spelling si rivela invece una straordinaria retroilluminazione della parola. Che fa brillare un altro senso possibile, a condizione di pensare altrimenti.
Oggi l’asse del benessere si è ulteriormente e decisamente spostato. Da richness a fitness. Col risultato di trasformare i nostri stili di vita in religioni del corpo, in idolatrie della longevità, in liturgie alimentari. Con il bio al posto del dio. E la dietetica al posto dell’etica. E, quasi inavvertitamente, siamo entrati nell’era di homo dieteticus, il figlio spaventato di homo oeconomicus. Quest’ultimo, spinto in avanti dal vento del progresso e convinto che le cose sarebbero andate sempre meglio, per sé e per i suoi, investiva sul futuro. Mentre l’homo dieteticus, in preda a mille insicurezze, personali, ambientali, lavorative, sta facendo della salute il bene rifugio su cui scommettere tutto e subito, il capitale immunitario al quale destinare tempo, cure, energie e risorse. Passione e ossessione. Narcisismo ed esorcismo. Ideologia e ipocondria. Forse perché non ci è rimasto altro da scambiare e da vendere nel mercato della forza lavoro globale, se non la nostra apparenza e la nostra efficienza. Ridotti come siamo a braccianti multitasking, cottimisti del tardo capitalismo, falangi della mano invisibile.
Così il corpo torna ad essere, come diceva Baudelaire, l’arcano della merce, la forma elementare dell’economia. E il benessere diventa l’algoritmo di una condizione umana ridotta a nuda vita.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOLOGIA, ARTE, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA. "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
FILOSOFIA
Un nuovo pensiero per l’Europa
«Da Fuori» (Einaudi), il nuovo libro di Roberto Esposito. Il vecchio continente vive una fase di smarrimento, per capirlo serve un’altra prospettiva filosofica. Meglio se italiana.
di DONATELLA DI CESARE (Corriere della Sera, 10.04.2016)
La filosofia italiana non ha nei media e nel dibattito pubblico del nostro Paese lo spazio che meriterebbe. Eppure, basta varcare le frontiere per constatare ovunque, non solo in Europa, ma anche altrove, il riconoscimento tributato al pensiero italiano. Si vorrebbe dire nemo propheta in patria. Ma qui agiscono motivi ulteriori e più profondi: l’atavico complesso di inferiorità di una cultura scaduta per anni nel provincialismo, insieme alla incapacità di valutare degnamente la propria tradizione, a cominciare da quella umanistica, e di farsi dunque carico di un lascito imponente.
Sceglie l’inglese Roberto Esposito per indicare, nel suo ultimo libro, le tre grandi linee della filosofia europea, cioè la German Philosophy, la French Theory e l’Italian Thought (la filosofia tedesca, la teoria francese, il pensiero italiano). L’inglese rinvia all’angolo di visuale che assume scrivendo e che si compendia nel titolo Da fuori (Einaudi). Perché - dice più volte Esposito - «è sempre l’esterno a illuminare l’interno».
Guardare l’Europa, nel suo smarrimento attuale, da fuori, è possibile anzitutto ripercorrendo il cammino della filosofia europea. Già nel Novecento appare chiaro che il malessere è il nichilismo. L’Europa, terra di nascita della filosofia, diviene allora consapevole di non poter perdere il suo nesso vitale con il pensiero, ciò che la contraddistingue. Rischierebbe altrimenti di perdere se stessa.
Ma le risposte al «dispositivo della crisi» sono diverse. Alla corrente eurocentrica, quella di Husserl, di Valéry, soprattutto di Heidegger, che reagisce arretrando, nella vana ricerca dell’origine greca, Esposito oppone una corrente che fugge invece dal centro, che contesta la radice, che considera la cultura greca inimitabile, perché già sempre eterogenea e alterata. Ai nomi di Hölderlin e Nietzsche affianca quello di Patocka, il filosofo, morto a Praga nel 1977 per le violenze subite, che nei suoi Saggi eretici aveva delineato una visione del «dopo» - l’Europa dopo e oltre la cortina, finalmente riunificata.
Costante è la presenza di Carl Schmitt nell’opera di Esposito. Anche in questo libro il suo ruolo è rilevante. Merito del giurista tedesco è di aver mutato la prospettiva sull’erosione dell’Europa: dalla terra al mare. Se Heidegger insiste sul radicamento nella terra, Schmitt accoglie la sfida del mare. D’altronde, non è forse nel mare che si costituisce l’Occidente? Come dimenticare la battaglia di Salamina, e quella di Lepanto? Schmitt rinuncia alla europeizzazione del mondo per volgersi alla mondializzazione dell’Europa.
Ecco allora il Vecchio continente visto «dall’altra sponda», con gli occhi di quegli ebrei tedeschi costretti a cercare rifugio oltre Atlantico. Fuori dall’Europa, ma estranei, malgrado tutto, anche all’America. Il «fascino intellettuale che promana dalla Scuola di Francoforte - scrive Esposito - risiede in questa duplice esteriorità». Pagine importanti vengono dedicate alla Dialettica dell’illuminismo e al modo in cui Adorno in particolare decostruisce ogni mitologia dell’origine e ogni «gergo dell’autenticità», scorgendo qui la regressione in cui è caduta l’Europa degli anni Trenta. Sarebbe però un errore credere che i Lumi della modernità possano far uscire dalla crisi, dato che Auschwitz è inscritto nella civiltà europea.
German Philosophy è la filosofia tedesca del dopoguerra, che dovrebbe prendere in carico l’eredità della Scuola di Francoforte e di quegli emigranti che fanno persino ritorno, forse anche per assecondare quel lascito. No, il passaggio di consegne non riesce - ha ragione Esposito. La carica critica si affievolisce nel neoilluminismo di Habermas, convinto che la modernità non si sia ancora compiuta. Serve ancora la Ragione universale - anche per l’Europa e per i suoi conflitti. Habermas diventa capostipite di una filosofia sempre più normativa, affannata a cercare rimedi costituzionalistici, incapace, anche nei suoi epigoni, di dare voce alla società civile.
L’eredità della Scuola di Francoforte viene reclamata, però, dall’altra parte del Reno. A cominciare da Lyotard, i francesi pensano che il progetto di emancipazione, fondato sulla ragione, si sia concluso. Conservatori non sono i postmoderni, ma quelli che cercano nel moderno le chiavi per interpretare una realtà che ne ha varcato i confini. La French Theory segna una nuova deterritorializzazione della filosofia europea. I filosofi francesi diventano egemoni nelle università americane. Ma la decostruzione di Derrida rischia, per Esposito, di esaurirsi nell’impolitico, mentre il futuro dell’Europa è cercato in una identità, talmente differenziata, da diventare evanescente.
L’Italian Thought si candida allora a essere il pensiero per un’Europa ferita, umiliata, irriconoscibile. Si candida ed è candidato - basta osservarne la risonanza mondiale degli ultimi anni. Erede della crisi interna alla filosofia francese, divisa tra Derrida e Foucault, il pensiero italiano riprende però anche la filosofia tedesca, da Heidegger a Schmitt, a Benjamin. Eccentrico per storia e vocazione, al contempo più arretrato e più giovane, esce da una lunga e traumatica fase di elaborazione negli anni Sessanta e Settanta, si sviluppa intorno alla biopolitica, trova il suo «fuori» nel politico. E riesce a volgerlo in un «contro». Ma non si crogiola nella negazione - è «affermativo». Lontano dall’autonomia della filosofia e dalla neutralità della teoria, è «pensiero» perché nasce dalla prassi. Mostra la sua fedeltà alla tradizione che da Machiavelli giunge fino a Gramsci, si richiama alla parola «civile» che Vico nella Scienza nuova ha elevato a categoria filosofica. Non dovrebbe l’Europa dei popoli aspirare ad essere «potenza civile»?
Italiano nello stile, non per aderenza territoriale, l’Italian Thought prova ad assumere la prospettiva del mondo per guardare all’Europa. Esposito lo descrive magistralmente dilatando il più possibile la nozione di biopolitica, consapevole che i suoi esponenti, da Tronti a Cacciari, da Agamben a Marramao, da Bodei a Vattimo, fino ai più giovani, pur accomunati da analoghe preoccupazioni - andare, ad esempio, oltre la metafisica, oltre la teologia politica - non sono riconducibili a un profilo unitario. Perciò l’Italian Thought ha il fascino di un progetto incompiuto, di un viaggio appena intrapreso.
Abbiamo ancora bisogno della filosofia
Perché la crisi di inizio Millennio si sconfigge col pensiero critico. Il nuovo libro di Roberto Esposito
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 24.03.2016)
Il nuovo libro di Roberto Esposito (che esce dall’editore Einaudi) ha come oggetto l’Europa: com’era e com’è. Già il titolo “Da fuori” sembra richiamare forze sociali e culturali imprevedibili che stanno trasformando l’immagine del vecchio continente. Oggi in crisi, come lo fu negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo. “Da fuori” ha un sottotitolo: “Una filosofia per l’Europa”.
Ma può l’Europa essere salvata dalla filosofia? Non c’è riuscita la politica; e neppure l’economia; perché mai il sapere che fu di Platone e Aristotele dovrebbe avere qualche chance di successo? Perché una disciplina instabile, contraddittoria, a volte rissosa, dovrebbe partorire dal suo ventre le giuste risposte? «Forse perché - risponde Esposito - è proprio l’inquietudine della filosofia, la sua mobilità, a consentirle di seguire e talvolta di anticipare le trasformazioni repentine del mondo contemporaneo meglio di saperi più statici e piantati sulle loro radici».
La filosofia già in passato, con Husserl e Heidegger, in particolare, aveva affrontato la crisi europea riconducendola al grande tema del nichilismo: «Con l’espressione nichilismo, quei pensatori intendevano dirci che la civiltà occidentale era esausta e che il solo modo di ritrovare l’egemonia perduta era risalire alle radici greche. Il riferimento costante dell’Europa di Heidegger e di Husserl - malgrado la loro diversità profonda - è tornare al proprio “centro”, ossia all’origine».
Nel mondo greco, sostenevano i nostri autorevoli filosofi, c’erano le risposte giuste. Bastava cercarle. Bastava calarsi nel grande pozzo che nel frattempo l’Occidente aveva scavato e riemergerne con la verità tra le mani. «Fu un terribile fraintendimento, pensare che la crisi dell’identità europea fosse risolvibile con l’appello ai presocratici e ai valori della Grecia antica. La filosofia era troppo concentrata su di sé, troppo autoreferenziale perché potesse davvero cogliere quello che avveniva al suo esterno. La sua miopia fu, in altri termini, non essersi accorta che lì, in quella manciata di anni aveva inizio la fine irrimediabile della centralità dell’Europa».
Non solo Heidegger e Husserl, ma anche Valéry, Benda e Ortega sostarono sui bordi di quella crisi immaginando che la soluzione fosse tutta interna al pensiero e che bastasse l’appello allo spirito greco e ai suoi valori per poter ridare smalto al vecchio continente. «Ma la partita giocata tutta dentro il linguaggio filosofico non era sufficiente. Già per Hegel l’oggetto della filosofia non era la propria storia interna, ma il mondo con le sue contraddizioni. E quanto sta accadendo in questi anni recenti lo dimostra con assoluta evidenza. Nella nostra epoca di globalizzazione, non esiste più un luogo che non sia penetrato e modificato dal suo “fuori”».
Nella nuova consapevolezza che l’attuale scenario ha creato viene a maturazione un fatto di cui già un poeta della statura di Hölderlin ebbe modo di accertare, ossia che lo spirito dei greci non era imitabile. «Lo stesso Nietzsche, dice Esposito, aveva acutamente visto che quello che per Hölderlin era una frattura aperta tra modernità e classicità, diventava in lui un abisso senza fondo in cui precipitavano tutti i valori europei».
L’idea della “morte di Dio” tra le tante possibili declinazioni indicava per Nietzsche l’impossibilità di tornare a una origine autentica, di cui la metafisica fosse la garante assoluta. È di questo che le filosofie della fine del Ventesimo secolo si rendono conto? Da Foucault a Derrida, da Adorno a Habermas - in tempi differenti e con problematiche diverse - si prende atto che il compito della filosofia non è più eseguibile all’interno del proprio sapere.
Il richiamo alla biopolitica (Foucault), alla scrittura e violenza (Derrida), alla dialettica negativa (Adorno), al patriottismo costituzionale (Habermas), non è altro che il modo con cui, osserva Esposito, «il reale gioca la sua nuova partita con il pensiero, includendo così ciò che sta fuori dei suoi confini».
La parola confine sembra quella oggi più confusa e inadatta a garantire un certo tasso di sovranità: «Temo che il confine oggi svolga una funzione drammaticamente biopolitica. Ciò significa che il rapporto tra potere e vita si svolge sempre più lungo e dentro faglie territoriali, sociali e mentali che separano piuttosto che unire». Come dovremmo comportarci davanti alle scene che ogni giorno reportage di immagini ci sbattono sotto gli occhi? «Io credo che il confine resti una linea da cui bisogna passare. Non possiamo abolirlo, ma non possiamo neppure concepirlo come luoghi di operazioni poliziesche. Occorre ripensarlo come spazio politico».
La filosofia può aiutare in questo compito che oggi ci appare difficilissimo? «Il problema è che il confine non può essere solo una soglia di esclusione, ma ciò che articola e integra esperienze, culture, mondi diversi. Sono sempre più gli esseri umani che vivono, lavorano, soffrono ai confini di città e paesi».
Tutto quanto sta accadendo oggi era impensabile fino a una quindicina di anni fa. Il risveglio dei nazionalismi da un lato e del populismo dall’altro hanno scosso l’idea stessa di Europa e messo in crisi la categoria di sovranità. Costruire un mondo nuovo con dei “pezzi importanti” del mondo lasciato in frantumi non è semplice. Non lo è soprattutto se si pensa al dilagare di un neo-localismo volto a proteggere con miopia le proprie ragioni nazionali. Occorrerebbe che la filosofia, osserva Esposito, si traducesse in “grande politica”. Ma come? «Comprendendo anzitutto che nel mondo contemporaneo non è più possibile conservare gli attuali rapporti di forza tra paesi ricchi e paesi poverissimi. Si tratta di un equilibrio che ormai non tiene più e rischia di saltare tragicamente».
La partita filosofica secondo Esposito si gioca oggi nel lasciare aperto il discorso sulla civiltà senza tuttavia rinunciare alla forza. Secondo l’esempio di Machiavelli e Vico, si tratta di trovare un equilibrio tra le due componenti, evitando che una prenda il sopravvento sull’altra.
Ci si può chiedere in conclusione se l’idea d’Europa che avevano sognato i nostri padri abbia ancora un senso o non sia piuttosto tramontata. È probabile che quel nobile progetto oggi sia inadatto a risolvere le attuali contraddizioni. Forse un popolo europeo potrà nascere non in virtù dei trattati e delle convenzioni, ma da spinte che provengono dal basso: «Da questo sostrato salgono a volte umori e impulsi dissolutivi. Ma lì, io credo, è depositata anche l’energia costituente, senza la quale le élites rischiano di perdere i contatti con la vita reale. Il destino del nostro continente è sospeso a tale consapevolezza e alla risolutezza con cui saprà darle espressione».
Un pensiero vitale messo fuorigioco
Tempi presenti. Con il saggio «Da fuori» (Einaudi) Roberto Esposito vede nell’esilio prima e nel ritorno in Europa il passaggio necessario per superare la secolare crisi della filosofia. Da qui l’analisi delle «svolte» tedesca, «linguistica», francese e dell’«italian theory», quest’ultima rappresentata con rassicuranti e impolitiche tonalità naturalistiche
di Toni Negri (il manifesto, 17.05.2016)
È un libro complesso, che si vuole una summa del pensiero europeo a partire dalla sua crisi novecentesca. L’ipotesi di Roberto Esposito (Da fuori, Einaudi, pp. 256, euro 22) è che, per uscire dal «declino», il pensiero filosofico europeo abbia dovuto scegliere un «esodo», abitare un «esilio» e da quel «fuori» ritornare, capace di produrre una nuova proposta di rinnovamento civile sul terreno globale.
La crisi: Esposito la insegue dalla fine dell’Ottocento, ricostruendo quel «nihilismo passivo» che ha caratterizzato, fra Valéry, Husserl e Heidegger, l’aprirsi del sentire filosofico contemporaneo - un sapere sul «declino» che ha avuto una narrazione efficace nel rapporto stabilito da Theodore W. Adorno tra nemesi dell’Illuminismo, crisi della Ragione e l’affermazione egemone di una dialettica del negativo, di una dialettica senza soluzione. O, peggio, nel pensiero politico, una percezione della crisi che da Max Weber, passando per Ernst Jünger e Carl Schmitt, si perde nella disperata assunzione di un’impossibile rifondazione. Di contro l’America.
Un’America che a fronte della crisi europea - crisi che è ossessione di una perdita di «origine» - afferma, ad esempio con Hannah Arendt, la solidità della propria fondazione: origine e contemporaneità qui si sovrappongono. «Solo il passaggio per il “fuori” poteva restituire una sorta di egemonia a quella filosofia europea incapace ormai di ritrovarla nella propria origine greca»: così scrive Esposito. Attenzione, tuttavia: la nostalgia dell’origine ha spesso come risvolto il desiderio della supremazia. Comunque, secondo Esposito, quella vicenda si è realizzata: a partire dall’esodo degli intellettuali tedeschi dopo il ‘33, il passaggio attraverso il «fuori» americano, si è generalizzato; è negli Usa che il pensiero europeo si rinnova, è da quel «fuori» che si propone un vero e proprio salto di paradigma del pensiero europeo.
In cerca di rigenerazione
Il libro di Esposito sviluppa in quattro capitoli la sua ricerca di una nuova filosofia della e per l’Europa di cui abbiamo già colto la condizione: uscire dalla crisi del riconoscimento dell’«origine», dal nihilismo passivo nel quale la crisi era stata vissuta. Ed è attraverso il «fuori» (non semplicemente l’emigrazione verso l’America degli anni Trenta ma la circolazione transatlantica del pensiero) che potrà darsi un processo ricostruttivo. German philosophy, ovvero la ripresa di una radicale critica filosofica che riempie il proprio procedere di contenuti sociologici e di un’eccezionale capacità critica della realtà contemporanea.
Un lavoro di riterritorializzazione che rifiuta, con Adorno, «di confondere la questione del “fuori” con quella del “fine”»; e trasforma dunque radicalmente la filosofia continentale, strappandola ad ogni esito metafisico. French theory: un pensiero che esalta la differenza e interpreta in maniera completamente originale il linguistic turn, facendo della «critica della parola» l’ambito di una pratica di scrittura priva di intenti normativi. (Notiamo tuttavia che qui il discorso si restringe su Jacques Derrida. Ben diverso è l’andamento del pensiero foucaultiano: critica dell’«ordine del discorso», e promozione della «presa di parola»).
In entrambi i casi, tedesco e francese, il pensiero va oltre l’affermazione e la negazione dialettiche, è un «anti-Hegel» ma nel contempo mira a «neutralizzare» quel conflitto insolubile dal quale ci si era mossi, ad anestetizzare la crisi. Un’immanenza senza pieghe. E poi l’Italian thought: è «pensiero affermativo» che avendo attraversato l’immediatezza del politico e la durezza della crisi, sviluppa un pensiero costitutivo, oltre la teologia politica, un’istanza biopolitica radicale.
Difficile sarebbe qui dare una chiave di lettura di questo libro che andasse oltre quanto accennato, oppure ripercorrerlo criticamente individuandone forza o aporie. Ci permettiamo di attraversarlo, di stabilire anche noi un «fuori», notando come questo lavoro sia attraversato da due paradossi e, forse, da un’illusione.
L’asse transatlantico
Il primo paradosso è implicito nel cammino stesso che Esposito ci propone. Quell’andare «fuori» per rientrare e, nel rientro, riscoprire un orizzonte di valori «affermativi». Ed è nell’italico «pensiero vivente» che questo esito si trova. È un piacere sentirselo dire! Se non che la via che va da Machiavelli a Spinoza, dai repubblicani veneziani a Harrington è senz’altro percorribile - difficile invece cogliere una strada di ritorno, per esempio da Jefferson a Gramsci, che non sia quella che passa dal piano Marshall. È vero però, senza più scherzare, che nel sapere filosofico l’egemonia si gioca su un asse transatlantico. Su di esso hanno ondeggiato german philosophy e french theory, ma questo «ondeggiare» che comincia (hegelianamente) a diventare un «dentro» l’Europa, è troppo vago. Esso trama «contro» la modernità un disegno post - e contro la dialettica un progetto decisamente anti-hegeliano - ma diventa più credibile quando lo si qualifica come un italico «indomabile pensiero vitale»?
Più facile da definire è un certo oscuro pensiero italiano (fra Tilgher, Rensi e forse anche Colli) che addobba questa forza piuttosto di essere capace di esprimerne la potenza produttiva. E poi - ben conoscendo il pensiero di Esposito - quel vitalismo non assomiglia invece che a una lontana e profonda origine italiana, a quello che fu proprio di Bataille nella crisi europea dei Trenta? Qui Machiavelli rischia di esser preso come una sorgente e non come un potere, una potenza senza conflitto.
Il primo paradosso consiste dunque nel voler placare quella crisi che aveva cercato salvezza in un drammatico esodo; che in Germania s’era risolta nell’ostracismo della speranza; che in Francia si era perduta in un labirinto di differenze: di placarla su un orizzonte vitalista che non va oltre la proclamazione retorica della vitalità.
Messa giù in questo senso la carta dell’italian thought è davvero debole. Esposito lo sa. Eccolo dunque ricorrere a un secondo paradosso. Alla figura biopolitica che, posta come irriducibile forza vitale, non riesce a mordere il reale, vuol dare forza ontologica, attribuendole una qualificazione naturalista. L’implicazione diretta di politica e vita si scopre come implicazione di vita e natura. Il biological turn (che caratterizzerebbe una nuova dimensione globale del pensiero filosofico dopo il linguistic turn) gli permette di ripulire la scena di ogni esperimento filosofico esterno o antecedente la qualificazione naturalista del bios. La french theory e alcune correnti dell’italian thought vengono così sospinte a lato: son quelle che non sono riuscite a liberare la biopolitica dalla tentazione tanatopolitica (Mario Tronti, Massimo Cacciari) o a trasformare la biopolitica in biologia (Giorgio Agamben). Ma l’operazione è anche inclusiva. Vi sono pagine nelle quali Esposito, confrontandosi con gli autori della french theory, li vuole assolutamente con sé.
La forma dei concetti
Così Esposito introduce l’operazione: «basti confrontare gli ultimi tre testi di Foucault, Deleuze e Derrida. Pubblicati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, essi convergono sul tema della vita, a testimonianza del biological turn ormai al centro del pensiero contemporaneo, sia continentale che analitico, lungo un tragitto che va dalla biopolitica alle neuroscienze».
Così Esposito ci ricorda una delle ultime considerazioni di Foucault: «dar forma a dei concetti è un modo di vivere e non di uccidere la vita; è un modo di vivere in una relativa mobilità e non un tentativo di immobilizzare la vita». Di Deleuze quello straordinario scritto L’immanence: une vie: «diciamo che la pura immanenza è UNA VITA e nient’altro. Non è l’immanenza alla vita ma l’immanenza che non è in niente, è una vita». Di Derrida: «la morte è originaria: la vita è sopravvivenza. Sopravvivere in senso corrente significa continuare a vivere, ma anche vivere dopo la morte».
Ma questi tre brani che dovrebbero introdurci alla natura e alle neuroscienze, non sono in realtà che tre feroci affermazioni, per Foucault, contro ogni tentativo di rendere immobile la vita (tanto più di naturalizzarla), in Deleuze un’affermazione di singolarità contro l’universale della morte - e in Derrida non è quella domanda di sopravvivenza una ribellione contro ogni heideggeriana anticipazione della morte? In questi casi il biological turn è meglio lasciarlo alla fisica biologica.
Una nuova speranza
Il paradosso di Esposito lo si vede qui bene: per dar contenuto alla «forza vitale» deve toglierla alla vita, alla libertà, alla politica e ridurla alla natura.
Per finire. Esposito non cede a queste difficoltà. C’è ancora un progetto da perseguire. Nel ritorno dal «fuori» è incarnata l’idea, meglio, la speranza di Europa. Per la german philosophy la modernità europea è un «progetto incompiuto», per la french theory l’Europa è «esausta» - nell’italian thought la speranza è riaccesa. Perché quell’idea di Europa che nel modello di Jürgen Habermas doveva fondarsi sull’invenzione di un nuovo «patriottismo costituente» (e non ci è riuscita), che nel modello di Derrida pretendeva di esportare la crisi, e di dare così forza critica all’idea di Europa nel decentrarla per farla rinascere (e in parte, negli studi postcoloniali, vi è riuscito) - bene, all’italian thought è affidato il nucleo affermativo e costituente del progetto europeo. Reinventare la nostra civiltà nel rispetto della vita comune. Un’illusione?