FORZA ITALIA! *
Forza Italia! è un film documentario sulla situazione politica dell’Italia nel dopoguerra e negli anni del miracolo economico. Il film è stato montato nel 1977, con la regia di Roberto Faenza, utilizzando spezzoni di documentari girati nei trent’anni precedenti. Il film si avvale della collaborazione di Antonio Padellaro e Carlo Rossella, in qualità di sceneggiatori.
Indice
1 Riassunto
2 Curiosità
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci correlate
6 Collegamenti esterni
Riassunto
Si tratta di un film-collage di diversi frammenti di documentari filmati dal dopoguerra in poi, che illustrano varie situazioni:
Il viaggio di Alcide De Gasperi in America nel 1947.
La cacciata del Partito Comunista Italiano dal governo di unità nazionale.
L’istituzione del Piano Marshall di aiuti economici americani per la ricostruzione dell’Europa, in particolare è descritta la situazione italiana.
Le elezioni politiche del 1948, mettendo in evidenza l’utilizzo da parte dei partiti di frasi come: «Dio ti vede, Stalin no», i comizi di Padre Lombardi.
Il festival canoro di Sanremo.
Nunzio Filogamo che presenta in televisione (la RAI, unica TV esistente) "La rassegna del dilettante".
La "Mostra dell’aldilà", che presentava in modo atroce la situazione economica e sociale dell’Europa di oltrecortina
La sconfitta della Democrazia Cristiana, comandata da De Gasperi nelle elezioni del 1953. Dopo questa sconfitta, la DC sarà costretta ad abbandonare il "monocolore DC", ed a formare coalizioni di governo, alcune volte il monocolore tornerà sostenuto da indipendenti (come l’estrema destra del MSI nel governo Tambroni) ma quasi sempre verranno formate coalizioni della D.C. con altri partiti conservatori o moderati come il PRI, il PLI, il PSDI, fino ad includere il PSI di Pietro Nenni (che successivamente, durante gli anni 80 con Bettino Craxi avrebbe formato il cosiddetto "Pentapartito").
La sciagura provocata dal crollo della diga del Vajont, nel Veneto, 1963.
L’elezione dell’onorevole Giuseppe Saragat alla presidenza della Repubblica, nel 1964.
La strage di Piazza Fontana, a Milano, nel 1969
La contestatissima visita del presidente americano Richard Nixon in Italia, all’epoca della guerra del Vietnam.
Papa Paolo VI (Giovan-Battista Montini) che assiste ad un comizio televisivo di Amintore Fanfani osteggiando il referendum a favore del divorzio.
Viene mostrato il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, mentre pubblicamente esegue il gesto scaramantico di «fare le corna».
Presenta spezzoni di filmati sul congresso della Democrazia Cristiana di Roma del 1976, narrando di come non sembra esserci alcun seguito alla promessa (fatta più volte nei decenni anteriori) di rinnovare finalmente la DC, rendendola più «trasparente» nelle sue decisioni, e più flessibile nell’elezione di nuovi volti dirigenziali, tra questi Aldo Moro
Curiosità
Il film esce nelle sale nell’inverno 1977-1978, poco tempo prima del sequestro dell’onorevole Aldo Moro, allora presidente della Democrazia Cristiana. In seguito a questo evento, in base ad una richiesta del Ministero dell’Interno, il film venne ritirato dalle sale, fu praticamente ostracizzato da successive proiezioni sul grande schermo, ed è molto raro che appaia in qualche palinsesto televisivo.
A quindici anni di distanza dalla «scomparsa» dagli schermi, il film venne trasmesso su Raitre domenica 7 novembre 1993, nell’ambito del programma Italiani brava gente di Giancarlo Santalmassi; il giorno dopo un ufficiale dei carabinieri, su ordine della procura di Palermo, si recò nella sede RAI di Saxa Rubra per sequestrare una copia del film; pare che in alcuni fotogrammi Giulio Andreotti comparisse a fianco di persone sospette per mafia.
Recente ridistribuzione del film assieme ad un libro dello stesso autore: nel 2006 la Rizzoli l’ha distribuito nelle librerie assieme ad un libro (interventi di: Roberto Faenza, Marco Tullio Giordana, Antonio Padellaro, Carlo Rossella, Gian Antonio Stella, Paolo Mereghetti, Manuel Gandin), con il titolo : Forza Italia! Il ritratto più divertente, spietato, censurato della Prima Repubblica.
Il 1° giugno 2007 il film è stato presentato in apertura del Bellaria Film Festival Anteprima Doc a Bellaria Igea Marina (RN), per celebrare il trentennale dell’uscita, ospiti il regista Roberto Faenza e il direttore dell’"Unità" Antonio Padellaro, sceneggiatore del film.
* WIKIPEDIA - ripresa parziale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA, CINEMA, E LETTERATURA ...
Fantozzi e Kafka. Vittime
di Sergio Benvenuto (DoppioZero, 15.07.2017)
Franz Kakfa era lo scrittore preferito da Paolo Villaggio. Questo non mi sorprende affatto, perché il Fantozzi che Villaggio ha fatto entrare nell’Enciclopedia dei Caratteri - assieme all’ipocrita, al misantropo, al millantatore, al soldato sbruffone, all’avaro, all’ipocondriaco, ecc. della commedia classica - è la versione burlesca, popolaresca, dei maggiori personaggi di Kafka, tutti un po’ fantozziani, anche se in chiave tragicissima. In fondo, anche Kafka spesso muove al riso, solo che la risata ci si congela in bocca, si storce in un ghigno di angoscia. La Repubblica ha riproposto Villaggio con lo slogan “Ci ha fatto piangere dal ridere”, Kafka invece ci fa ridere pur piangendo.
I protagonisti di Kafka sono quasi tutti, in effetti, delle vittime assolute. La più assoluta è forse Gregor Samsa, l’impiegato - guarda caso! - che un bel mattino si ritrova trasformato in scarafaggio, nel racconto La metamorfosi. Non solo Gregor è mutato nell’essere più abietto, ma la famiglia lo colpevolizza per questo, e suo padre finirà per punirlo con la morte. Impiegato vittima è anche Herr K. protagonista di Il processo. Si suol dire che K. subisce un processo e alla fine è condannato a morte per una accusa che non gli viene mai rivelata; ma Kafka non è così lineare. La verità è che a noi lettori l’accusa non è mai palesata, e il testo ci lascia liberi di pensare che invece K. la conosca, oppure no. Impiegato come agrimensore è il protagonista, chiamato K. anche lui, de Il Castello: qui l’eroe non riuscirà mai a entrare in contatto con i funzionari del misterioso Castello che pure lo ha chiamato; egli finirà col restare sempre nel villaggio dominato dal castello, cercando invano di essere accolto dall’invisibile datore di non-lavoro.
Kafka chiama K. molti suoi protagonisti perché era lui stesso un fantozzi. Prima di essere pensionato per la sua tubercolosi, per anni ha lavorato come impiegato all’Agenzia Assicurativa per gli Incidenti sul Lavoro del regno di Boemia. “Lavoro alimentare” da lui disprezzato, ma che pervade il mondo dei suoi eroi.
Come gli impiegati-vittime di Kafka, anche Fantozzi non è cattivo, non farebbe male a una mosca. È servile, pavido, imbranato, ma non cattivo. Ogni tanto ha dei moti alquanto velleitari di rivolta contro i suoi capi, tutti, anche se in modi diversi, sadici. Così il suo famoso urlo “La Corazzata Potëmkin è una boiata pazzesca!” quando un capoufficio cinefilo impone di vedere il film di Ėjzenštejn proprio in coincidenza con la finale del Campionato del mondo di calcio. Ma sono rivolte senza domani, puri scatti “non-costruttivi” che vengono puntualmente puniti.
Si è detto che la saga fantozziana avrebbe tacitamente contestato il primato che per la sinistra hanno avuto sempre la classe operaia e i contadini. Villaggio, focalizzando sulla miseria esistenziale degli impiegati, avrebbe reso comprensibile la famosa marcia dei 40.000 (impiegati) della FIAT a Torino che nel 1980 pose fine, in Italia, a una certa egemonia politica operaia. In realtà il povero impiegato era stato scoperto come eroe letterario già dal Romanticismo. Gli impiegati bacherozzi o condannati alla pena capitale di Kafka sono il culmine di una tradizione letteraria, e poi cinematografica, che ha prodotto grandi capolavori negli ultimi due secoli. È il filone che chiamerei La Tragedia della Mediocrità - il versante opposto della Banalità del Male di Hanna Arendt.
Tra i più eminenti di questo filone è certamente Bartleby lo scrivano, entrato ormai nel Canone occidentale. Fu pubblicato da Hermann Melville nel 1853, si noti, in forma anonima, come se l’autore avesse avuto vergogna di firmarlo. Il giovane Bartleby è assunto a Wall Street da un avvocato, un brav’uomo peraltro, e dapprima si comporta da impiegato modello, da solerte macchina umana. Poi, d’un tratto, quando il capo gli ordina qualcosa, risponderà sempre “I would prefer not to”, “avrei preferenza di no”, come tradotto da Gianni Celati. Questo sciopero cortese è però solo il primo passo verso un processo di catatonia, che porterà Bartleby a non muoversi più dall’ufficio, senza più parlare né mangiare, fino al suo ricovero nel manicomio di New York, e alla sua morte per anoressia.
All’epoca il racconto di Melville fu un flop. Fu solo nel XX secolo, ben dopo la morte di Melville, che questo è diventato uno dei testi fondamentali della letteratura. Ogni anno si pubblicano paper e libri su Bartleby, e tutte le chiavi interpretative che hanno riscosso qualche credito nell’ultimo secolo sono state usate per decriptare questa storia inquietante: marxiste, strutturaliste, anti-strutturaliste, mistico-religiose, psicoanalitiche, storiciste, decostruzioniste... Il racconto di Melville è certamente una coupure perché i personaggi tragici, prima, non erano mai grigi impiegati di concetto, ma figure sempre interessanti, affascinanti: re, regine, avventurieri, puttane, spadaccini, banditi, nobili decaduti o impazziti come Don Chisciotte...
Certo Bartleby fa il contrario di Fantozzi, non si piega, ma ha in comune con il suo discendente questo: entrambi non agiscono, sono come immobilizzati dalla loro condizione subalterna.
Fino agli anni ‘60 per indicare l’impiegato ideal-tipico non si diceva “un fantozzi” ma “un travet”. Da Ignazio Travet, protagonista della commedia piemontese "Le miserie d’Monsù Travet" del 1863, di Vittorio Bersezio, testo che idealmente inaugura l’Italia unita. Travet è un misero impiegato perseguitato dal capoufficio, disprezzato da moglie e figlia, insomma l’antesignano risorgimentale di Fantozzi.
Un’altra vetta è Death of a Salesman, “Morte di un commesso viaggiatore”, di Arthur Miller, del 1949. Il protagonista, un anziano venditore alla fine della carriera, si chiama Willy Loman, ovvero porta lo stigma del proprio essere nel nome stesso - Low-man, uomo basso, uomo mediocre. Anche qui si tratta di una storia tragica. Willy è uno che non vuole accettare l’evidenza di essere stato sempre un poveraccio, peraltro disprezzato dai due figli, che non sono riusciti in nulla. Egli si vanta di essere popolare, di conoscere un sacco di gente, insomma di essere simpatico. Anticipa la massa di persone fiere di avere migliaia di friends su Facebook e di avere centinaia di Like per internet. Anche se un suo amico gli dice più o meno: “A che pro aver cercato sempre di essere uno simpatico? Dovevi fare soldi. Quando hai soldi, diventi subito simpatico.” Loman si uccide contando sul successo di pubblico ai suoi funerali, ai quali invece saranno presenti solo pochi familiari.
Sia il tragico Morte di un commesso viaggiatore che il tragicomico serial di Fantozzi sono apprezzati anche da impiegati e venditori. Mi chiedo: come possono ridere di un loro collega? Certo Villaggio ha l’accortezza di rendere il suo eroe così ridicolo e irrealistico che tutti si diranno “Per fortuna non sarò mai come Fantozzi!”. Nessuno di noi sarà mai come Fantozzi, egli è sempre l’Altro di cui ridiamo. Eppure, il trick di Villaggio è molto sottile. C’è una parte di noi, anche se siamo intellettuali e professori, che sa di essere come Fantozzi. In fondo, tutti noi da qualche parte abbiamo un capo, a qualcosa o a qualcuno ci sottomettiamo. Fantozzi è la caricatura di una mediocrità di cui ciascuno può sospettare che sia la propria, se ci confrontiamo ai grandi in ogni campo. Mostrando in modo tragico o buffo la nostra mediocrità, l’arte ce la riscatta. Mettendola a distanza da noi in un capro espiatorio con la pancia e il berretto, ne diminuisce il peso.
Si potrebbe credere che quando Fantozzi getta l’anatema contro Ėjzenštejn, Villaggio presti al suo personaggio la propria stessa voce, ma non è vero. Villaggio era un intellettuale raffinato, un uomo politicamente a sinistra, insomma, suppongo che apprezzasse La corazzata Potëmkin. Credo che in realtà Villaggio abbia descritto l’embrione psichico di quello che diventerà poi il tipico elettore populista, in particolare di Grillo, ma anche di Bossi e Salvini. La rabbia erratica e impotente di Fantozzi contro “chi comanda” è stata poi intercettata politicamente, e l’apolitico Fantozzi ha trovato finalmente i suoi portavoce politici.
Costoro sono quelli che Peter Sloterdijk (in Ira e tempo) ha chiamato “banche dell’ira”. Il Fantozzi che è in molti di noi è un grumo di ira, che i demagoghi ben sanno gestire. Il populismo in effetti si riduce a questo: “chi sta sotto” è contro “chi sta sopra”. Non i poveri contro i ricchi, ma i Fantozzi contro i dirigenti. L’impiegato “tragico” non è assillato dalla povertà - anche se la sua condizione economica è modesta - ma dalla subalternità, e in effetti il cosiddetto populismo non se la prende con i ricchi. Se la prende con “chi sta sopra”, ovvero con i politici, e in fondo con gli intellettuali, quelli che godono nel vedere film muti. Perché l’impiegato non incontra quasi mai il ricco, non si confronta con lui: ogni giorno si confronta con chi per varie ragioni gli è superiore.
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MEDIOCRITA’, BANALITA’, E TRAGEDIA. LO "STATO" SONNAMBOLICO DELL’ITALIA...
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
ADOLF EICHMANN CHIARISCE COME E’ DIVENUTO “ADOLF EICHMANN”, MA HANNAH ARENDT TESTIMONIA CONTRO SE STESSA E BANALIZZA: “IO PENSO VERAMENTE CHE EICHMANN FOSSE UN PAGLIACCIO”!!!
BERLUSCONI E LA "MEZZA" DIAGNOSI DEL PROF. CANCRINI. Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" - "L’Italia è il mio Partito": "Forza Italia"!!!
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Federico La Sala
CINEMA E STORIA. LO "STATO" SONNAMBOLICO DELL’ITALIA E LA CULTURA CHE SERVE PER UN CAMBIO DI SCENA.... E DI REGIA!!!
La corazzata Potëmkin, la rivolta e i «necrotweet» su Fantozzi
A cura di Wu Ming 1 *
Sera del 26/06/17, Piazza Maggiore, Bologna. Migliaia di persone - non meno di quattromila - applaudono in piedi La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, film breve e dritto al punto, avvincente, popolare, bellissimo. Film girato novantadue anni fa.
La moltitudine ha appena seguito col cuore in gola la storia di un celebre ammutinamento avvenuto durante la rivoluzione russa del 1905, della solidarietà di un’intera città (Odessa) agli ammutinati, e della violentissima repressione che la popolazione subisce per mano dell’esercito zarista.
L’orchestra filarmonica del Teatro comunale di Bologna ha appena eseguito la partitura composta per il film da Edmund Meisel nel 1927 - una forza che staccava da terra sedie e culi - e ora si gode la lunga ovazione.
È stata la serata più intensa di quest’edizione, la trentunesima, del festival Il cinema ritrovato. Io ho portato qui mia figlia preadolescente, che si è emozionata, si è commossa, si è stretta a me durante le scene più violente, si è entusiasmata nel finale.
«FRATELLI!»
«Fratelli» è la parola chiave del film, appare all’inizio, scatena l’ammutinamento e annuncia il grande atto di solidarietà di classe nel finale.
La corazzata Potëmkin fu censurato in molti paesi per timore che scatenasse rivolte popolari e spingesse i soldati all’insubordinazione. Anche in URSS, al principio, non fu proiettato nei cinematografi ma soltanto nei circoli operai. Il poeta Majakóvskij minacciò fisicamente alcuni burocrati perché avesse una regolare distribuzione.
E il film si rivelò presto un grande successo.
Oggi è considerato una delle più grandi opere cinematografiche del Novecento, viene riproiettato di continuo in tutto il mondo, nel 2004-2005 lo hanno sonorizzato i Pet Shop Boys.
E in Italia?
Qui da noi, come ha scritto qualcuno, il film è stato «segnato da un destino davvero imprevedibile, che lo ha trasformato in qualcosa di diverso da quel che è.» Ma procediamo con ordine.
La corazzata Potëmkin è stato una grande sorpresa per la maggior parte dei presenti in piazza. Sui lati c’era chi all’inizio ridacchiava, qualcuno che mormorava la frase «cagata pazzesca» (sentito con le mie orecchie e più volte) e pensava di fermarsi pochi minuti, farsi un sogghigno e andare via, e invece è rimasto lì in piedi per oltre un’ora, magnetizzato, e magari ha pianto, di certo era tra chi ha partecipato alla lunghissima standing ovation, e magari era tra i volti fotografati da Lorenzo Burlando durante la proiezione.
Molti altri erano aficionados del festival o comunque si sono fidati della Cineteca, unica istituzione pubblica di Bologna non disprezzata dai più, anzi, oltremodo rispettata.
La Cineteca, appunto. Nei giorni precedenti, ha voluto fare una piccola e divertente campagna di “debunking”, con video e altri mezzi. Una troupe ha intervistato gente per le vie del centro, e molti erano convinti che il film durasse tre o quattro ore, se non di più. In realtà dura 70 minuti.
Bisogna sfondare il muro del pregiudizio. Non è vero che questo e altri film d’antan sono film per pochi, non è vero che «la gente non capisce». Se gli dài l’occasione di vederli, capisce eccome.
La differenza rispetto ad altri film d’antan è che La corazzata Potëmkin molti credono di sapere com’è anche senza averlo visto. Lo associano a qualcosa che credono di conoscere - cioè l’intento di Luciano Salce e Paolo Villaggio nella celeberrima scena de Il secondo tragico Fantozzi (1976) - e quell’associazione ha tenuto a distanza il film. La corazzata Potëmkin è divenuta, a torto marcio, emblema di lunghezza e pesantezza.
[Intermezzo. Alcuni «necrotweet» seguiti alla morte di Villaggio:
«Ci lascia l’unico che ha detto la verità sulla Corazzata Potemkin»;
«La corazzata Potëmkin è veramente una cagata pazzesca. Aveva ragione anche in quel caso»;
e fallo sapere anche lassù che la corazzata potemkin è una cagata pazzesca»;
«Oggi più che mai la corazzata potemkin è una cagata pazzesca!!!»
E altre centinaia di commenti così.]
Dice: - Villaggio è riuscito in quello che Dalí e Warhol avevano fallito con la Gioconda: non riuscire più a guardarla senza pensare al loro sberleffo.
Rispondo: - Non proprio. Qui è come se si sbeffeggiasse preventivamente la Gioconda senza averla mai vista.
Mi piace pensare che almeno quattromila persone, la sera del 26 giugno, vedendo il film, abbiano capito il vero significato della scena della rivolta al cineforum.
Sì, perché solo vedendo La corazzata Potëmkin si capisce che il bersaglio di Salce e Villaggio non erano banalmente le cose «pesanti» e «difficili», non erano gli «intellettuali», ma il potere - rappresentato dalla Megaditta che tutto controlla - che ingloba e svuota la cultura, anche la cultura della rivolta.
Qui è necessaria un’avvertenza: qualunque cosa abbia dichiarato nei decenni successivi (e ha detto ogni cosa e il suo contrario, anche su La corazzata Potemkin), ricordiamo sempre che all’epoca dei primi due Fantozzi Villaggio era all’estrema sinistra. Ancora undici anni dopo si candidò alle elezioni politiche con Democrazia Proletaria.
A forza di dire che la famosa scena prende in giro la cultura dei cineforum di sinistra, i tic degli «intellettuali di sinistra» eccetera, ci si è dimenticati che quello rappresentato nel film non è un cineforum di sinistra: è il cineforum della Megaditta, rivolto non a compagni ma a colletti bianchi “apolitici”. Guidobaldo Maria Riccardelli non è un compagno né un intellettuale di sinistra: è un uomo dell’azienda, del capitale.
L’unico marxista che appare nel mondo di Fantozzi è Folagra, che guardacaso non partecipa al cineforum aziendale ed è relegato in un sottoscala.
Folagra.
[Chissà quanti, oggi, capiscono che Folagra è l’unico personaggio positivo della saga. Proprio nelle intenzioni, non «ex post». È l’unico che dice a Fantozzi qualcosa di vero sulla sua condizione.
Tuco: - Oggi (quasi) tutti considerano un personaggio positivo Calboni, e vorrebbero essere come lui.
WM: - In fondo berlusconismo e renzismo sono minime varianti ideologiche di questo «voler essere Calboni».
IAmOst: - È il collega d’ufficio che nessuno vorrebbe avere, ma che tutti vorrebbero essere. Forse il più “italiano” di tutti.]
La corazzata Potëmkin - nel film di Salce parodiato in «Kotjomkin» - narra una rivolta, ma la rivolta è addomesticata, disinnescata, la cornice del cineforum aziendale e la modalità di fruizione la sviliscono, e la visione stessa è sminuzzata, non c’è più l’insieme, solo dettagli: «L’occhio della madre... La carrozzella...» E così sono gli impiegati a rivoltarsi, e poiché Salce e Villaggio sanno il fatto loro, la rivolta contro il film ripete quella nel film.
L’episodio del cineforum è un sottile remake del film di Ėjzenštejn, un’allegoria “a chiave” che ne ripercorre tutti e cinque gli atti:
il cineforum è la corazzata;
Fantozzi è il marinario Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo;
gli spettatori sono i marinai insorti;
l’odioso Riccardelli è gli ufficiali spodestati;
la sala occupata è Odessa;
la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono.
Il finale, però, è molto diverso: gli insorti non hanno scampo e sono condannati a mettere in scena e subire ad nauseam la repressione zarista/aziendale.
Il fatto che in quest’allegoria il ruolo della carne marcia imposta ai marinai ce l’abbia - in una vertiginosa mise en abyme! - il film dove si narra la rivolta che gli impiegati ripetono rende l’intero episodio complessissimo.
Siamo di fronte a una parodia colta e, al fondo, per nulla anti-intellettuale.
Chi non ha mai visto il film di Ėjzenštejn non può rendersene conto.
Molti spettatori del 1976 lo avevano visto.
L’episodio, per il pubblico di allora, aveva una carica critica ad alto voltaggio, che però col tempo si è esaurita. Non poteva che esaurirsi: il contesto che rendeva l’episodio comprensibile in tutti i suoi aspetti e livelli - l’Italia degli anni Settanta, dei movimenti radicali, delle grandi lotte operaie -, quel contesto non c’è più.
E cosa rimane di quella critica, oggi, nell’interpretazione corrente di quella scena?
Pressoché nulla.
La scena, tolta dal suo contesto, rivista e ri-rivista da sola come frammento, citata e stracitata come semplice gag, col tempo ha cambiato significato: oggi è evocata per rigettare la cultura stessa e tutto ciò che è «difficile», in nome del parla-come-magni (detto quasi sempre da gente che mangia malissimo) e del solito «E fattela ‘na risata!»
Come abbiamo scritto in tempi non sospetti:
L’eterna ripetizione della gag ha diffuso l’idea che La corazzata Potëmkin duri molte ore e altri miti che il film manda in frantumi, se solo si supera il pregiudizio e lo si guarda. Ma il pregiudizio c’è, inutile negarlo. Un danno culturale c’è stato. Sì, danno culturale. L’arma della critica è stata girata e puntata contro la critica stessa, allo stesso modo in cui Riccardelli, gerarchetto della Megaditta, aveva girato e puntato il cinema di Ėjzenštejn contro i suoi sottoposti.
Qualcuno ci ha attaccati per aver fatto queste riflessioni sul film, la sua parodia e le diverse ricezioni di quest’ultima il giorno stesso della morte di Villaggio - VERGOGNA!!1!! - come se si trattasse tout court di un attacco al caro estinto.
Quel caro estinto, da molto tempo non lo stimavamo più. Eppure questa riflessione è l’omaggio più serio che potessimo dedicargli. Nondimeno...
«...VERGOGNA!!1!!»
Non è solo pavlovismo da «necrotweet day». C’è qualcosa di più profondo, che verrà capito meglio in futuro, da antropologi e storici delle mentalità che con ogni probabilità non sono ancora nati.
Oggi l’obbligo contro cui ribellarsi non è quello di guardare La corazzata Kotjomkin. Semmai, al contrario, è quello di non prendere mai nulla sul serio. Il «farsi una risata» come risposta a tutto, l’essere sempre ironici per non mostrarsi mai troppo coinvolti in nulla, perché coinvolti equivale a vulnerabili, e dunque ironia sempre, cinismo e disincanto, non devi dare mai l’impressione di credere fino in fondo a quel che dici. Soprattutto, fai vedere che ti stanno sul cazzo gli «intellettuali». Risulta molto più facile se adotti l’espediente di chiamare «intellettuali» tutti quelli che ti fanno sentire vulnerabile. Chiama «pippone» qualunque cosa scrivano o dicano.
In un simile clima culturale - che ci auguriamo venga spazzato via al più presto da un’immane tormenta - un film come quello di Ėjzenštejn, che mostra la fratellanza nella rivolta e a volte fa sarcasmo sul potere ma mai ironia sulla rivolta stessa, deve per forza essere considerato una «cagata pazzesca». Vige l’obbligo di conformarsi alla lettura più decontestualizzata e banale dell’episodio fantozziano.
È contro quest’obbligo che dobbiamo ribellarci, proprio come Fantozzi si ribellò al cineforum aziendale.
E gli applausi di Piazza Maggiore non saranno durati 92 minuti, ma bastano a convincerci che siamo nel giusto. «Братья!»
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* Questo post è la sintesi di una lunga discussione avvenuta su Twitter il 4 luglio 2017, e incorpora riflessioni di diverse persone. Grazie a tutte e tutti, anche a chi, senza pensarci un momento, è partito subito con gli insulti. La stolidità altrui ci spinge a fare meglio, a sforzarci di essere più chiari.
Fonte: http://www.wumingfoundation.com/giap/2017/07/potemkin/#more-29691 (ripresa parziale).
“Pacificazione” B. e la sinistra attrazione fatale di Roberto Faenza (il Fatto, 4.05.2013)
Silvio Forever 2. Potrebbe essere il titolo di un formidabile film sull’attrazione sadomasochista che il Pd, ex Ds, ex Pds, ex Pci, prova per l’odiato e ora amato Silvio Berlusconi. La foto dell’abbraccio di Bersani con Angelino Alfano è già storia. A vederla mi sono commosso, perché la voglia di quell’abbraccio covava da tempo ed è stato un gesto liberatorio.
Il filosofo greco Eraclito coniò un termine perfetto: enantiodromia. Significava la corsa verso l’opposto. Così scriveva: “ciò che si oppone conviene e dalle cose che differiscono si genera l’armonia più bella, perché tutte le cose nascono secondo gara e contesa”. Sembra scritto per gli ex nemici Pd-Pdl, che a forza di rincorrersi si sono finalmente incontrati. Anche Jung credeva in quell’antica formula, tant’è che elaborò una sua teoria sugli opposti, che non possono fare a meno di intrecciarsi. Di recente ho letto un articolo che nobilita l’etimo, pare napoletano, della parola inciucio.
Il disegno di Napolitano
E ora la stampa fa a gara per definire gentiluomini i politici che sino a ieri venivano denigrati. Sicuramente molto dipende dal volere del presidente della Repubblica, quel Giorgio Napolitano, ex migliori-sta, che secondo alcuni ha decretato la dissoluzione del suo partito, in odio al comunismo di un tempo. Sembrerebbe vero osservando il disastro combinato con Monti, quando se avesse sciolto le Camere oggi governerebbe la sinistra. Sul fronte opposto splende il sole. Lo si capisce analizzando le parole della canzone dedicata a Berlusconi dai suoi fan: “Nobile e giusto, tu piaci per questo, sei il pensiero che ci guiderà. Il sogno riparte da qua, diventa realtà”. L’inno per il capo è ciò che manca al Pd. Chi potrebbe mai dedicare ai leader di un partito lacerato un’ode tanto passionale?
Berlusconi è il Maradona della politica. Attrae il suo popolo e ora anche il centrosinistra perché è un gigante di sfrontatezza. Il potere da sempre offre un’aura di grandiosità che calamita anche i nemici. Gli eredi del Pci hanno nel loro dna il germe del moralismo. A loro l’etica del gaudente è da sempre vietata. Palmiro Togliatti doveva amare di nascosto Nilde Iotti, pena la scomunica del partito. Massimo D’Alema, per il solo fatto di essersi comprato un paio di scarpe di pregio, è stato messo in croce. Quando negli anni Cinquanta qualcuno voleva iscriversi al Pci correva l’obbligo di riempire una scheda biografica di tutti gli intimi comportamenti. “Possiede un barboncino”, si legge su una scheda negli archivi del Pci di Bologna, per sottolineare l’imborghesimento di un aspirante compagno.
Chi non invidia almeno un poco l’ultrasettantenne che può permettersi di avere non una ma cento amanti senza doverle nascondere, comprarsi non un cagnolino ma un intero canile, avere a disposizione cuochi e avvenenti segretarie? Quella sì che è vita, è il pensiero latente che pulsa nel cromosoma sinistro dei nostri democratici.
L’uomo, spiegava Freud, è attratto da ciò che non ha. Non credo di esagerare, ma lo streaming di Bersani di fronte ai due esponenti 5 Stelle è qualcosa di raccapricciante. Il leader del maggior partito della sinistra europea va a Canossa da due novellini assisi in cattedra che si prendono gioco di lui. Se uno di noi è sotto stress, al massimo gli viene l’herpes. A un politico invece cala l’autostima. Qualcosa di simile accade nel 1990 quando D’Alema e Veltroni furono umiliati, costretti a fare anticamera nel camper di Craxi parcheggiato a Rimini. Il Pd in crisi di identità La crisi di identità del Pd sta tutta nel comportamento abnorme di queste settimane. Eppure non è solo il Pd a volersi amalgamare. Lo stesso Berlusconi, se gli fosse data l’occasione, non esiterebbe di fronte alla possibilità di diventare il capo del Partito Unico Italiano, nato dalla fusione dei due nemici di un tempo.
Come Zelig, non vedrebbe l’ora di cambiare pelle. Basta con quegli straccioni provenienti dalle truppe ex An ed ex Dc. Che bello imparentarsi con le frange nobili della sinistra, con i suoi intellettuali e passare alla storia come l’uomo che emigrò dalla destra alla sinistra con la stessa nonchalance con cui si passa da una vergine a un’olgettina. Ricordate le sequenze finali di Attrazione fatale? Il film si conclude in casa di Dan, dove la moglie Beth viene sorpresa in bagno da Alex, la persecutrice invaghita del marito che tenta di ucciderla. Sarà Beth ad avere la meglio e a infliggerle il colpo mortale.
Accadrà lo stesso all’abbraccio dei due partiti che si combattono da vent’anni e ora si fanno fotografare sorridenti insieme al governo? Il guaio è che non siamo al cinema e in tutte le storie di attrazioni fatali l’attratto finisce quasi sempre per cadere nel pozzo avvelenato dell’attraente. È lo stesso rischio che corre il Pd. Finire stritolato tra le braccia di Berlusconi. Forever.
Al di là del Tevere “un nido di vipere”
di Roberto Faenza (il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2012)
Bisognerebbe interrogarsi da cosa derivi il potere del Vaticano sui media italiani. Ne sa qualcosa questo giornale, che sfidando l’ira dei colleghi quotidiani, ha appena pubblicato un documento sconcertante. Documento minimizzato dagli altri giornali. Per non concedere al Fatto l’onore delle armi di fronte a uno scoop giustamente definito una bomba da Santoro in trasmissione? Non credo sia questa la ragione. Il motivo risiede nel timore reverenziale di urtare la “sensibilità” d’oltre Tevere. Ringraziamo Internet e la stampa internazionale, se lo scoop del Fatto ha ricevuto la giusta attenzione.
A mio avviso la parte più drammatica del documento inviato al Papa non è nella rivelazione di un possibile attentato (ora grazie alla pubblicazione di sicuro allontanato; almeno di questo si renderà merito).
L’elemento più inquietante è nelle righe che sottintendono una faida interna in seno alle segrete stanze. Il New York Times, che se c’è da dare una notizia dell’ira del Vaticano se ne frega, ha cominciato a frugare in quei segreti, a partire dalla trasmissione di Gianluigi Nuzzi su La7 a proposito della lettera dell’attuale Nunzio apostolico a Washington (pare ancora per poco) sulla presunta corruzione all’interno del Governatorato di Città del Vaticano.
Questo silenzio omertoso che costringe gran parte dei media italiani a tenere la schiena poco dritta ha radici antiche. Quando negli anni Settanta insegnavo a Washington, ebbi l’avventura di “liberare” per la prima volta una serie di documenti segreti della amministrazione americana che riguardavano l’Italia e il Vaticano.
Si trattava di rivelazioni scottanti, antesignane del lavoro che fa oggi Julian Assange, incluse le fotocopie degli assegni pagati ai politici nostrani e ad alcuni prelati. Questi documenti li ho pubblicati in un primo libro circolato indenne grazie alla Feltrinelli, Gli americani in Italia, e poi in un secondo, Il Malaffare, subito tolto dal mercato dalla Mondadori.
Alla vigilia della Liberazione, un documento Top secret dell’ambasciata americana a Roma informa Washington che sono stati “agganciati” due alti prelati, Monsignor Perrone e Monsignor Dadaglio, i quali spifferano agli yankee quanto sta avvenendo in Vaticano, ovvero i timori di Pio XII per un possibile governo con dentro i comunisti. I due prelati rivelano che in Vaticano non tutti sono d’accordo con il Papa, tra questi Monsignor Tardini, che è a capo di una corrente “non ostile” al Pci.
La documentazione relativa a questi “intrighi del Vaticano”, così li definisce la stessa amministrazione americana, viene inviata ad alcuni giornalisti italiani perché ne scrivano, favorendo così il deflagrare di alcune posizioni troppo progressiste. Come si vede, quando si vuole scrivere si scrive.
Ancora più scottante la documentazione che concerne Monsignor Giovambattista Montini. Prima di diventare Segretario di stato e poi Papa Paolo VI, Montini viene “agganciato” da James Angleton, capo del controspionaggio di stanza a Roma. È convinto delle capacità del prelato, ma preoccupato del suo orientamento “poco conservatore”. Lo farà intercettare e monitorare tramite cimici piazzate nei suoi uffici da alcuni prelati compiacenti.
Le “trame in Vaticano”, così le qualificano i documenti, si fanno particolarmente accese, quando negli anni Sessanta si prepara il Concilio Vaticano II e la DC sta per aprire al partito socialista. Giovanni XXIII appare favorevole, ma non sono pochi i cardinali che la pensano diversamente e vorrebbero metterlo “sotto tutela”.
SI AGITANO come in un balletto il Sottosegretario di stato Monsignor Dell’Acqua e i monsignori Berloco e Iginio Cardinale, capo protocollo della Segreteria. Monsignor Vagnozzi, il delegato apostolico nella capitale americana, fa addirittura la spia di nascosto al Papa. Si presenta in gran segreto ai dirigenti del Dipartimento di stato per comunicare che “Giovanni XXIII ha un cancro inoperabile. Gli restano da vivere dai 6 ai 12 mesi. Monsignor Vagnozzi ha pregato di non fare il suo nome”. Lo stesso monsignore diventerà Presidente della Prefettura per gli Affari economici.
Ai tempi del breve e misterioso pontificato di Papa Luciani il cardinale Palazzini gli contesterà la sua reticenza sugli “immorali affari dello IOR” di Monsignor Marcinkus, “in combutta con Calvi eSindona”. Tutto questo cicaleccio preoccupa la stampa americana, che comincia a filtrare notizie. Silenzio invece sui nostri quotidiani.
Spiegano bene all’Italian desk del Dipartimento di stato: il Vaticano e la Chiesa sono due entità diverse: il primo è un vero e proprio stato con un suo governo. E come tutti i governi è attraversato da correnti e conflitti interni. La Chiesa invece, scrivono a Washington, si occupa delle anime dei fedeli, in quanto vera erede di Cristo. Il Vaticano, aggiungono, talvolta appare in dissidio con la Chiesa. È sicuramente il “partito” italiano più influente, temuto dalla stampa, riverito e omaggiato persino dal partito comunista. Poi in una nota definiscono la città del Vaticano “un nido di vipere”. Ora come allora?
Le colpe dell’opposizione
di Nadia Urbinati (la Repubblica. 06.03.2009)
La lunga marcia della sinistra italiana verso il nichilismo è cominciata alla Bolognina, poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino - è utile rammentarla per capire in quale grave situazione ci si trova ora. Non ho consultato gli archivi del Pci-Pds per verificare se la decisione di abolire un partito (allora si disse "cambiare nome") fosse stata presa collegialmente dalla Segreteria o dal Comitato Centrale. Ma per noi spettatori lontani, quella fu la decisione di un capo. Il quale dall’alto della sua personale opinione decretò che era tempo di cambiare: era la storia a chiederlo, disse.
Molto probabilmente il mutamento era indispensabile; anzi lo era certamente. Ma venne effettuato nel peggiore dei modi possibili. Con un atto discrezionale, senza una deliberazione collettiva e ponderata; senza andare all’origine ideologica e ideale di quel cambiamento, che restò di facciata e vuoto di contenuti. Come un cambiar d’abito si passò dal comunismo di facciata al liberalismo di facciata (spesso al liberismo, naturale vicino di casa dell’economicismo marxista).
E da allora questo fu il metodo accreditato presso i dirigenti del maggiore partito della sinistra. Un metodo decisionista e personalista, che anticipava quello che ora tanto deprechiamo del Presidente del Consiglio. Un metodo anti-deliberativo, tipico di monarchie assolute o reggenti dispotici; un metodo che consiste nel decide d’arbitrio prima, per poi convocare organismi collettivi o congressi straordinari per legittimare post-factum quella decisione e soprattutto farla digerire al popolo subalterno.
In questo stesso modo da allora il partito ha deciso-e-digerito altre risoluzioni, quasi tutte improvvide e sbagliate. Tra le peggiori delle quali c’è senza dubbio la famigerata bicamerale, quell’improvvida politica che ha fatto della nostra Costituzione una merce di scambio politico per creare alleanze e che, soprattutto, ha legittimato il patrimonialismo di Forza Italia.
Il paese stava assistendo attonito e impotente alla formazione veloce e pericolosa di un potere assoluto -quello mediatico-patrimoniale - e i leader dell’opposizione hanno con grande intelligenza pensato bene di giustificarlo e legittimarlo, invece di imbrigliarlo e contenerlo. Hanno pensato di farvici accordi e usare l’arma del compromesso senza far troppo caso al fatto che solo tra eguali ci si può accordare; perché chi ha un potere sovrastante fa quello che vuole, e non onora gli accordi. Per fare accordi occorreva prima limitarne il potere. Il contrario sarebbe stato, come fu, un assurdo. Avevano mai avuto modo di leggere Locke o Montesquieu nei ritagli di tempo i dirigenti della sinistra?
Come in una giostra medievale, a forza di fendenti e picconate, la sinistra é stata ridotta a un’ombra di se stessa. Ed é ammirevole che i suoi elettori abbiano resistito per tanto tempo, impotenti di fronte alle violenze e improvvide offese dei capi. Da invenzione a invenzione: perfino imitando slogan di altri partiti in altri paesi (come faceva notare il corrispondente dall’Italia per il New Yotk Times dando l’annuncio delle dimissioni di Walter Veltroni) e mettendo insieme cose che non possono stare insieme, come il governo ombra britannico e il partito elettorale americano, un guazzabuglio che è stato degno di un apprendista stregone.
Infine, a completare il capolavoro, le primarie: un metodo di selezione dei candidati che prevede un partito consolidato e infine una struttura federale del partito stesso: senza di che diventa guerra fratricida fra le mura delle città e delle contrade; il nemico sta dentro, con grande godimento dell’avversario vero che sta fuori. E poi, si può adottare un metodo che vive di conflitto a fondamento di un partito che ha bisogno di grande unità, almeno per stabilizzarsi? Metodi anti-democratici e rozzi, strutture e procedure sbagliate. E che cosa dire dei contenuti?
Sarebbe interessante sapere in che cosa credono questi dirigenti: sulla rappresentatività del sistema elettorale, sulla scuola pubblica, sulla giustizia sociale, sul conflitto di interesse, sulle politiche per affrontare la crisi economica, sul pluralismo religioso, sulla divisione tra stato e chiesa, sui diritti umani fondamentali, ecc. Non ci è mai stato detto con chiarezza: perché non era possibile fare chiarezza, visto che non c’era davvero un’unità di ideali e prospettive politiche, di alcuni ideali in particolare come quelli relativi all’interpretazione dei diritti individuali o dello stato laico.
E infine, una nota dolentissima ma purtroppo realistica: molti dirigenti del Pd "vivono di" politica parlamentare essendo la politica il loro lavoro principale; questo dà loro una naturale disposizione all’inerzia e al rattoppo. Non dal centro potrà venire il rinnovamento. E di un rinnovamento di uomini e di donne c’è urgente bisogno. Senza del quale l’opposizione si consegna all’avversario e ne sancisce un potere già pericolosamente ingombrante e ai margini della costituzionalità. L’opposizione ha una responsabilità enorme, non solo o tanto verso i propri elettori, ma prima ancora e soprattutto verso i cittadini italiani: la responsabilità di contribuire a fare del paese una dittatura eletta.