Riproposto* il classico
di Franz Rosenzweig,
edito nel 1921: ispirò
Heidegger e Benjamin,
anticipò un esistenzialismo
fondato sulla fede religiosa
LA STELLA CHE REDIME L’ANGOSCIA DELLA MORTE
di Gianandrea Piccioli (La Stampa/Tuttolibri, 24.06.2006)
COME uno di quei massi morenici che si ergono solitari nelle pianure pedemontane, imponenti e misteriosi, Franz Rosenzweig è una presenza isolata ma feconda nella storia della cultura novecentesca. Ebreo tedesco, allievo di Rickert e di Meinecke, ammiratore di Cohen, particolarmente di quello più vicino alle radici della tradizione ebraica, fu amico di Buber, con cui tradusse in tedesco la Bibbia, e la sua influenza si estende sotterraneamente fino a oggi. Cacciari, che è ritornato più volte su di lui in saggi importanti, sostiene che Essere e Tempo è, in un certo senso, una risposta a La stella della redenzione, il capolavoro di Rosenzweig, ora riproposto da Vita e Pensiero nella splendida traduzione di Gianfranco Bonola. Ma oltre ad Heidegger attinsero a Rosenzweig anche Benjamin, Scholem, Lévinas e molti altri, magari senza citarlo.
E’ impossibile render conto qui di un testo di oltre 400 pagine, denso, complesso, con evidenti prestiti da Schelling (lo Schelling delle Ricerche filosofiche e delle Età del mondo, di cui Kierkegaard diceva che, ascoltandolo, sentiva dentro di sé il bambino del pensiero balzare per la gioia come Giovanni nel grembo di Elisabetta quando si incontra con Maria), da Hegel, nonostante la forte polemica contro la chiusura del sistema idealistico, e soprattutto talmudici e qabbalistici. Un testo, inoltre, che è insieme teologico e filosofico, ma anche trattato di estetica e teoria linguistica, sintesi storica e guida al significato profondo della liturgia, fiammeggiante esegesi di testi sacri, quali i primi capitoli del Genesi o il Cantico dei cantici, e letterari, quali la tragedia greca o l’amatissimo Goethe. Cercherò quindi di indicare schematicamente la matrice di quello che Rosenzweig stesso chiama «nuovo pensiero».
Come Heidegger, e come molti della sua generazione, colpita dalle carneficine di massa della prima guerra mondiale, Rosenzweig parte dall’esperienza della morte, che annulla in un colpo tutta la storia della filosofia «dalla Jonia a Jena»: prima del pensiero c’è l’esistenza del pensatore nella sua nuda fatticità e nella sua esposizione alla morte, e vani sono i tentativi della filosofia di negare questa realtà primaria e irriducibile.
La Stella si apre con un’invettiva contro i filosofi e con queste parole: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia ». Comincia qui, in assoluto, sei anni prima di Essere e Tempo, l’esistenzialismo.
Se nell’angoscia davanti alla morte l’uomo si percepisce come soggetto finito, nell’esperienza della rivelazione, vissuta innanzi tutto come percezione istantanea di una presenza che lo sovrasta, scopre l’alterità. E qui, come in Schelling prima di lui e in Pareyson dopo, c’è la grande scommessa di Rosenzweig: usare le credenze religiose come categorie filosofiche.
A mio parere la scommessa non è vinta: mentre Pareyson salva la particolarità dell’esperienza religiosa e sostiene che certe verità possono essere comunicabili solo nel linguaggio del mito o della poesia, in Rosenzweig a un certo punto è necessaria la decisione per la fede. C’è quindi una sorta di grande a priori che sorregge tutta l’opera, e cioè l’affermazione della verità, peraltro non oggettivabile, del giudeocristianesimo. Ma un conto è sostenere che la fede non è incompatibile con la ragione ed è un modo di pensare legittimo accanto ad altri modi (storico o scientifico, a esempio), altra cosa trasformare i suoi contenuti in concetti filosofici. Però, grazie a questa mossa, tutto si mette in movimento. Per Rosenzweig gli elementi immediati dell’esperienza sono Dio uomo e mondo.
Il paganesimo, che è uno stato, o uno strato, non uno stadio dell’umanità (è la possibilità sempre aperta dell’immanenza) mantiene questi tre dati elementari irrelati l’uno all’altro, autonomi. Grazie alla rivelazione, invece, Dio l’uomo e il mondo entrano in un reciproco rapporto temporale, e perciò storico, e l’uno ha bisogno dell’altro.
Si scopre a ritroso la creazione. Si sente la necessità della redenzione. Creazione rivelazione e redenzione instaurano un ordine diverso da quello «naturale », diventando così modi di essere della realtà. In questo nuovo territorio del reale si addentra la solidarietà discorde dell’ebraismo e del cristianesimo. Solidali perché, innervati su un’unica radice, tendono entrambi alla verità; discordi perché il primo, in forza dell’alleanza, vive raccolto in se stesso un rapporto diretto con Dio, in una specie di anticipazione dell’eternità, mentre il cristianesimo si espande nell’ecumene e si dispiega nella storia.
Rosenzweig scrisse l’abbozzo della Stella su tante cartoline spedite agli amici e alla madre dal fronte balcanico, dove era andato volontario; l’edizione a stampa uscì nel 1921. Nel 1922, a soli 36 anni , contrasse una forma di sclerosi che in breve tempo lo paralizzò completamente. Nonostante ciò, assistito dalla moglie, continuò un’intensissima attività intellettuale (è di questo periodo la ricordata traduzione della Bibbia ebraica) e la sua casa divenne un luogo d’incontro per cristiani ed ebrei. La morte, nel dicembre 1929, gli risparmiò l’orrore nazista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ISRAELE E PALESTINA ... la Terra promessa. Una indicazione (1930) di Freud
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
In philosophos!, in theologos!, in tyrannos!: RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITA’ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....
Maestri del pensiero.
Franz Rosenzweig e la sete attuale della redenzione
Un secolo fa l’opera maggiore del grande autore ebreo introduceva una "svolta" decisiva per la filosofia e la teologia. Più di quanto non abbiano potuto Buber e Heidegger
di Massimo Giuliani (Avvenire, mercoledì 30 giugno 2021)
Nel 1921 vedeva la luce in Germania, edito da una piccola casa editrice ebraica, il libro Der Stern der Erlösung, “La stella della redenzione”, di un giovane filosofo, Franz Rosenzweig, quasi sconosciuto nei circoli alti dell’accademia tedesca benché avesse da poco pubblicato la sua tesi di dottorato sulla dottrina dello Stato di Hegel. In principio ben pochi si accorsero di quest’opera, dalla complessa architettura e certamente fuori dai canoni. In più, nelle sue tre parti (secondo il mistico numero hegeliano di ‘tre’), essa era polemicamente diretta contro i filosofi, contro i teologi e contro i tiranni. Eppure, con il passare dei decenni, essa fu riconosciuta come uno spartiacque del pensiero, una Kehre, una svolta, quasi una provocazione per la filosofia e la teologia del nuovo secolo, e persino per la politica.
Il suo autore vi aveva infatti anticipato sensibilità, categorie e temi, inediti e capaci di cogliere il profondo cambio di registro che si stava verificando nell’autocoscienza europea. Sembrerà esagerato, ma è ormai opinione comune che Rosenzweig abbia inaugurato il Novecento filosofico, prima di Martin Buber, che nel 1923 pubblicherà il manifesto della filosofia relazionale e dialogica, Ich und Du, “Io e tu”; e soprattutto prima di Martin Heidegger, che nel 1927 farà uscire Sein und Zeit, “Essere e tempo”, criptico proclama di un esistenzialismo ontologico senza il quale non si comprendono gli sviluppi ermeneutico-politici della seconda metà del XX secolo.
Prima di loro, c’era Rosenzweig e la sua Stella, la cui Urzelle o cellula germinale risale alla fine del 1917, l’ultimo anno del conflitto mondiale, e l’anno della spagnola, che hanno avuto il terribile compito di resettare ambiguità, illusioni e non poche ipocrisie ideologiche del XIX secolo e di accelerare gli effetti di una crisi epocale che covava da tempo. La Stella nasce, secondo la narrativa agiografica, scritta sulle cartoline postali spedite dal fronte dei Balcani, dove Rosenzweig è di stanza con la divisa militare degli imperi centrali, destinati al collasso. In realtà quest’opera affonda le sue intuizioni non solo nella Grande Guerra ma anche nelle solenni feste ebraiche del 1913, quando, ebreo assimiliato, Rosenzweig riscopre in una piccola sinagoga ortodossa le proprie radici e si ferma dal passo della conversione al cristianeismo (già compiuto dai cugini Ehrenberg e dall’amico Eugen Rosenstock). Diventa così un ba‘al teshuvà, cioè uno che torna all’ebraismo, e in esso scopre la possibilità di ripensare il mondo, e l’uomo e Dio, in modo diverso, alternativo rispetto all’ossessione totalitaria dello storicismo hegeliano. Riscopre, quasi ebraicizzando Kierkegaard, il primato dell’individiduo sulla Ragion di Stato, ma anche del particolare sull’universale, dell’etico sul metafisico, del diverso sull’uniforme, della vita sulla retorica del sacrificio e della morte.
Getta così le basi per un’arcata teoretica che verrà completata, quarant’anni dopo, da un altro grande filosofo ebreo, Emmanuel Levinas, in Totalità e infinito (1961). Dirompente nel linguaggio e non solo nell’approccio esistenziale, la Stella è divenuta nel tempo una miniera inesauribile di stimoli e recuperi anche da parte della filosofia di ispirazione cattolica, almeno da quando l’editrice Marietti ebbe il coraggio di una traduzione integrale, fatta da Gianfranco Bonola nel 1985. Esauritasi, l’opera venne riproposta nel 2005 da Vita e Pensiero, dell’Università Cattolica, compulsata e commentata dalle diverse scuole di “filosofia della religione” esistenti in Italia.
Qualcosa di simile avvenne anche nel resto d’Europa, come riprova la vivacità del Società di studi rosenzweighiani, alle cui call for papers rispondono centinaia di giovani studiosi ogni anno. Qual è il segreto di tanta attualità? Quale la chiave del successo di un libro tosto, tutt’altro che accessibile senza strumenti filosofici ed ebraici? E poi, la Stella, è un libro di filosofia o di teologia? Può dirsi un libro ebraico, o sotto sotto resta un trattato hegeliano ossia cristiano? Non è facile dare risposte. Il fatto che studiosi di diverse fedi e scuole trovino tutti qualcosa in cui riconoscersi, qualche insight confacente ai propri percorsi, la dice lunga sulla complessità di Rosenzweig. Nel mondo ebraico è poi in corso un recupero di questo autore, che a Francoforte fondò un Lehrhaus di studi ebraici, via di mezzo tra una yeshivà e un’aula d’università, per stimolare gli ebrei tedeschi a tornare alle fonti, alla lingua ebraica, ai classici del giudaismo.
Solo un paio d’anni prima, nel 1919, era apparsa postuma l’opera di Hermann Cohen La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, grandiosa summa della simbiosi ebraico-tedesca... Ma i lumi ottocenteschi da cui essa era sorta si era appena spenti tra le ’inutili stragi’ delle trincee, dopo un’immane pandemia, nel desiderio di un’alba nuova e di una redenzione sociale che però stava già portando in grembo i suoi profeti, quelli veri e quelli falsi, al pari dei suoi nuovi tiranni. Della sete, anzi della nostalgia di quella redenzione si fece eco Rosenzweig. Forse il segreto della grandezza e dell’attualità di quest’opera sta tutto qui.
Eugen Rosenstock-Huessy: un pensatore impuro
di Filiberto Battistin *
Eugen Rosenstock-Huessy (1888 - 1973) è pensatore pressoché sconosciuto in Italia. Eppure è stato uno dei protagonisti, insieme a Franz Rosenzweig, Martin Buber, Karl Barth del nobile tentativo di offrire nella Germania degli inizi del Novecento, una prospettiva filosofica e religiosa, fondata sul riconoscimento dell’Altro, capace di porsi come alternativa al positivismo, all’idealismo e allo storicismo dominanti nel mondo accademico tedesco.
Tutti questi pensatori avevano, con spirito profetico, intuito che la filosofia della “ragione pura” non sarebbe stata in grado di opporsi alla barbarie del nazismo, in quanto tale dottrina sostiene una visione semplificata e mutilata dell’umanità: l’uomo non è solo puro pensiero, ma carne, cuore, passioni e sentimenti.
Se l’uomo nella sua interezza non viene vivificato dalla Parola di Dio - “Amerai il prossimo tuo come te stesso” -, diventa facilmente preda di ideologie politiche secolarizzate, che facendo perno sui miti del sangue, della razza, della nazione, si impadroniscono del cuore degli uomini, trasformandoli in micidiali strumenti di guerra e di morte. “Tutti gli uomini uccidono, perché i viventi sono obbligati a scannarsi a vicenda, per sopravvivere. E tutti gli uomini muoiono. Allora lo stesso svolgersi della storia non sarebbe potuto accadere, se contro la morte non fosse stato creato alcun rimedio.
La storia della specie umana è per questo motivo composta da un unico tema: come rendere l’amore più forte della morte?” (Rosenstock - Huessy, La trasformazione della Parola di Dio nel linguaggio dell’umanità). In tal senso, la vita di Eugen è stata determinata dalla sua partecipazione come ufficiale dell’esercito tedesco alla prima guerra mondiale, e, più precisamente, dall’aver vissuto in prima persona l’evento più tragico del conflitto, la battaglia di Verdun, che costò la vita a più di ottocento mila soldati nel corso di un anno di feroci combattimenti.
Rosenstock, di famiglia ebraica, ma convertito in giovane età al cristianesimo, esce dal conflitto scosso nelle fondamenta del suo essere, ma con la ferma convinzione che suo dovere di uomo e di cristiano è di impiegare tutte le sue energie per “rendere l’amore più forte della morte”, e ritiene che questo compito richieda in primo luogo l’educazione degli uomini, perché la filosofia è educazione e l’educazione è filosofia, e la vera filosofia è amore per la sopravvivenza materiale e spirituale dell’umanità.
“Filosofi” sono tutti gli uomini di buona volontà che operano per realizzare la pace fra gli uomini e le nazioni. Rosenstock, di conseguenza, non si chiude nel mondo ovattato dell’accademia, ma è uno dei pionieri dell’educazione permanente degli adulti sul territorio.
Sebbene non sia marxista, Rosenstock viene invitato dal Partito Social-Democratico Tedesco a fondare e a dirigere nel 1921 l’Akademie der Arbeit, che offriva agli operai tedeschi corsi e seminari. E’ importante ricordare che alcuni dei lavoratori che parteciparono ai seminari tenuti da Rosenstock saranno protagonisti di un nobile tentativo di resistenza attiva contro il nazismo, che pagheranno con il sacrificio delle loro vite.
Nel 1933, dopo l’avvento al potere di Hitler, Rosenstock emigrò negli Stati Uniti, che divennero la sua seconda patria; anche in America, Eugen continua la sua attività di educazione degli adulti, con la ferma fiducia che lavoratori e pensatori debbano condividere le loro esperienze di sapere.
Due sono i centri attorno ai quali si sviluppa la sua instancabile attività di pensiero: il linguaggio e la storia.
Il grande miracolo che sta all’origine della creazione è il linguaggio, che è la struttura fondante le relazione tra Dio e uomo, tra uomo e natura e fra gli uomini all’interno di una comunità. L’autentico linguaggio nasce dall’Ascolto: non si può parlare se prima non si è ascoltato: solo allora il linguaggio diventa risposta che implica responsabilità amorosa nei confronti di tutti i viventi. In tal senso, secondo Rosenstock, è possibile riassumere il cammino dell’uomo occidentale negli ultimi mille anni della sua storia, in tre formule:
“Credo ut intelligam”, credo per comprendere
“Cogito ergo sum”, penso dunque sono
“Respondeo etsi mutabor”, Rispondo sebbene cambierò
La prima formula esprime il modo di vivere dell’uomo medioevale, che si pone sì sul piano dell’Ascolto, ma finisce con l’irrigidirsi e con il negare il mutamento: l’esito tragico è l’Inquisizione.
La formula cartesiana, che ha dato origine alla modernità, si pone al di fuori della dimensione dell’Ascolto, e afferma l’assoluta indipendenza, autonomia, autosufficienza dell’Io dell’uomo ridotto a pura ragione. Il mondo cartesiano, secondo Rosenstock, fa naufragio nella prima guerra mondiale. Per questo motivo è necessario entrare in una nuova dimensione dell’umanità, che Rosenstock sintetizza con la terza formula: l’umanità deve rimanere fedele alla Parola, nella piena consapevolezza che “tutto scorre”, che la vita è continuo e necessario movimento. Ti rispondo, assumo la mia responsabilità, ma so che cambierò, che dovrò cambiare perché soltanto cambiando potrò rimanerti fedele. La fedeltà, infatti, richiede la capacità di trovare ogni giorno una nuova risposta e il futuro è lo spazio ancora vuoto che spetta a ciascuno di noi riempire con un agire fedele alla verità.
In tal senso, il suo capolavoro è il libro pubblicato nel 1938 “Out of Revolution. Autobiography of Western Man”, nel quale Rosenstock mostra come il concetto di Rivoluzione sia il grimaldello per comprendere la storia dell’uomo occidentale. L’idea di Rivoluzione diventa distruttiva e porta al disfacimento dell’umanità, quando ha la pretesa di creare “nuovi mondi” e “nuovi uomini” senza più porsi in Ascolto della Parola originaria della creazione e con le precedenti Rivoluzioni che l’hanno interpretata nel corso del tempo.
Il “lealista-rivoluzionario” è l’uomo che vive rimanendo fedele alla Parola originaria: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
* Fonte: http://www.nicolasaba.it/, n. 22, settembre 2012.
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi (l’Unità, 09.06.2011)
Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».
L’Auschwitz del pensiero
Anticipiamo in queste colonne due stralci delle riflessioni di Elie Wiesel e di Johann Baptist Metz raccolte nel volume ’Dove si arrende la notte. Un ebreo e un cristiano in dialogo dopo Auschwitz’, in uscita nei prossimi giorni per Rubbettino (pagine 148, euro 13,00). Si tratta di due colloqui speculari fatti nel 1993 dai teologi Ekkehard Schuster e Reinhold Boschert Kimmig al teologo cattolico e allo scrittore ebreo.
Nota nella sua introduzione la curatrice, Mariangela Caporale: «Nella riflessione di Wiesel e di Metz la parola del sapere si traduce nel primato della responsabilità per l’altro uomo, che, per entrambi, trasfigura il mondo secondo quelle promesse che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo ha consegnato alla speranza di ogni uomo».
A.
Elie Wiesel: «Il pericolo è normalizzare l’Olocausto»
«Nella storia solo due popoli sono stati destinati all’estinzione completa: noi e gli Etruschi»
DI ELIE WIESEL (Avvenire, 25.01.2011)
Non voglio scoraggiare nessuno, ma a volte credo che abbiamo perso la lotta per il ricordo. Questo non significa che dobbiamo smettere di lottare. Al contrario, dovremmo continuare a combattere. Il tempo però lavora contro di noi, come diceva Joachim Fest: il tempo è un alleato potente di coloro che parteggiano per la storicizzazione del nazismo. La gente non vuole più ricordare. Non può convivere con la verità e allora pensa di poter vivere contro di essa.
Ma anche se siamo solo in pochi e se diventiamo sempre di meno, dovremo continuare a ricordare. Fra cento anni gli studenti scopriranno che ci furono alcuni che rimasero fedeli alla memoria. Questo è un motivo sufficiente per continuare a ricordare. Spiegare la singolarità di Auschwitz non è semplice.
L’argomento che più frequentemente si ripete è ancora valido: il popolo ebreo era ed è l’unico popolo destinato all’estinzione completa. Questo significa che un ebreo nell’Estremo Oriente o un ebreo a New York o in Norvegia era condannato a morte.
Nessun altro popolo condivide questo destino tranne un popolo dell’antichità, gli Etruschi. Furono estinti e nessuno sa il perché. Un bel giorno i Romani decisero di ammazzare tutti gli Etruschi e questa decisione si trasformò in un fatto. Questa decisione fu tale che i Romani giunsero a distruggere completamente la cultura e la lingua etrusche.
Un ulteriore motivo della singolarità di Auschwitz è che nessun popolo fu mai tanto solo quanto quello ebreo. Durante la guerra anche altri uomini furono eliminati dai tedeschi, non solo gli ebrei. Per tutti esistevano comitati di soccorso che sostenevano questa gente. I comunisti furono sostenuti da Mosca, altri da Washington o Londra, gli ebrei non ebbero alcun aiuto. Non ebbero nessuno alloro fianco.
Perfino dopo la guerra gli ebrei non avevano una patria dove poter andare. Quando un francese fu liberato dal campo di concentramento, poté ritornare a casa sua; addirittura i tedeschi, che erano nei lager, poterono farlo. Gli ebrei non sapevano dove andare. Se fossero tornati dove vivevano prima, sarebbero stati perseguitati anche dopo la guerra, e perfino uccisi.
In Ungheria, per esempio, l’antisemitismo fu più forte dopo la guerra che non prima, poiché coloro che si erano impossessati delle proprietà degli ebrei scacciati non volevano restituire nulla a coloro che erano riusciti a tornare. Le vittime dovevano sopportare una pena doppia. Nonostante tutti questi argomenti ’razionali’, ci deve essere di più, qualcosa di sconosciuto che rende tanto singolare la singolarità. Ci sono storici che vorrebbero far rientrare l’Olocausto nel corso generale della storia, vorrebbero «normalizzare» questo evento.
Fare questo è completamente assurdo. Un evento di questa portata non si può rimuovere. Se accadesse questo, tale evento riemergerebbe con una potenza indomabile. Finché la Germania evita consapevolmente il suo passato, sarà sempre in pericolo.
Quando una persona singola rimuove un avvenimento di un certo peso del suo passato, si ritroverà un giorno o sul lettino dello psichiatra o in un manicomio. E lo stesso può succedere a una comunità.
B.
Johann Baptist Metz: «La Shoah è entrata tardi nella teologia»
«E se anche l’attuale crisi d’umanità fosse figlia della ferita inguaribile del lager?»
DI JOHANN BAPTIST METZ (Avvenire, 25.01.2010)
Come sempre accade, anch’io mi sono accorto tardi, troppo tardi, dell’assenza in teologia di una riflessione su Auschwitz. Quando molta gente, dopo la guerra, affermava di non aver saputo niente di quest’orrore, ritenevo che si trattasse di una menzogna o una rimozione. Quando mia madre mi disse che anche lei non aveva né sentito né saputo niente di questo crimine nazista, ho riflettuto ancora di più sulla cosa. In un certo senso questo oggi mi sembra chiaro: probabilmente allora non seppero davvero niente, soprattutto perché nessuno poteva immaginare una cosa così mostruosa, perché ogni orrore di cui avevano sentito parlare, l’avevano considerato un orrore proprio del tempo di guerra e solo lentamente, dopo la guerra, hanno preso coscienza di quello che era realmente successo. Perciò non mi meraviglio tanto quando, ancora oggi, qualche volta viene fuori qualcuno che nega questa atrocità. Piuttosto mi meraviglio che sono così pochi. In definitiva, la realtà di Auschwitz allarga lo spazio delle nostre vedute.
Naturalmente non si può fare di Auschwitz una specie di «religione negativa» o un «mito negativo» per i cristiani. Su Auschwitz nel nostro ambito cristiano si fa molta retorica della colpa e della responsabilità, retorica che, però, se capisco bene, non arriva fino alle radici della teologia cristiana.
Quello che successe durante la Shoah non esige solo una revisione delle condizioni storiche nelle quali si determinò la relazione tra cristiani ed ebrei, ma esige anche una revisione della teologia cristiana in quanto tale. Il mio amico Jürgen Moltmann a buon diritto ha messo in evidenza con nettezza questa questione.
L’antisemitismo non esiste solo come crudo razzismo: in questa forma non appare più in teologia.
Esiste però in forma molto più raffinata e sottile, ossia in veste psicologica o metafisica. Fu in questa veste che divenne fin dall’inizio il tentatore della teologia cristiana. Mi riferisco soprattutto a motivi e nozioni gnostiche. La domanda teologica dopo Auschwitz non è solamente: dove era Dio ad Auschwitz? Ma è anche: dove era ad Auschwitz l’uomo?
Come si potrebbe credere nell’uomo, o perfino nell’umanità, quando si dovette sperimentare ad Auschwitz di che cosa «l’uomo» è capace? Come continuare a vivere tra gli uomini? Che cosa sappiamo noi della minaccia all’umanità dell’uomo, noi che abbiamo vissuto voltando le spalle a questa catastrofe o che siamo nati dopo di essa?
Auschwitz ha ridotto profondamente il limite di pudore metafisico tra uomo e uomo. A questo sopravvivono solo coloro che hanno poca memoria o coloro che sono riusciti bene a dimenticare che hanno dimenticato qualcosa. Ma nemmeno questi restano illesi.
Non si può peccare quanto si vuole contro il nome dell’uomo. Non solo l’uomo singolo, anche l’idea dell’uomo e dell’umanità è profondamente vulnerabile. Solo pochi collegano ad Auschwitz l’attuale crisi d’umanità: l’insensibilità crescente di fronte a diritti e valori universali e grandi, il declino della solidarietà, la furba sollecitudine nel farsi piccoli pur di adattarsi a ogni situazione, il rifiuto crescente di offrire all’io dell’uomo una prospettiva morale, eccetera.
Non sono tutte scelte di sfiducia contro l’uomo? La catastrofe che è stata Auschwitz costituisce forse una ferita inguaribile?
Un’indagine sul filosofo ebraico autore de «La stella della redenzione»
Atene, Gerusalemme e il nuovo pensiero di Rosenzweig
di Daniele Di Matteo
Riforma. L’eco delle valli valdesi, Anno 146 - numero 19 - 14 maggio 2010
FRANZ Rosenzweig nel
1906, immerso negli studi
scientifici di medicina, che poi
abbandonerà per approdare
definitivamente alla filosofia,
scrive su un diario che da sempre
lo «spontaneo senso di
Dio» è «presente all’interno»
dell’essere umano. «Esso viene
paragonato metaforicamente - nota Francesco Paolo Ciglia
in un libro di grande interesse,
articolato in sei «studi»* - ad
una sostanza che è presente in
natura allo stato gassoso e che,
in questa forma, è in grado di
riempire totalmente tutti gli
spazi vuoti che sussistono
all’interno» e sulla superficie
della persona. Così né il senso
di Dio né l’essere umano vengono
minimamente alterati
dal contatto reciproco. «Le religioni
», invece, per il giovanissimo
studioso, «sarebbero sopravvenute
solo in un secondo
momento», appropriandosi del
«senso di Dio allo scopo di
manipolarlo radicalmente». Si
tratta di una polemica destinata
a riproporsi nell’elaborazione
del pensatore, pur se in maniera
più matura.
Analogamente tornerà sempre
la tensione dinamica fra
«Atene», luogo per antonomasia
della classicità greca e del
«paganesimo» antico, e «Gerusalemme
», simbolo della realtà
giudaico-cristiana. Così in
Globus. Studi sulla dottrina storico-
universale dello spazio
vengono
evocate una raffigurazione
«omerica» e mediterranea
del mondo, con un grande
«mare interno» circondato da
un anello costiero, «a sua volta
circoscritto dalla sottile striscia
acquatica del mitico fiume
Oceano», e una raffigurazione
«biblica» di esso, con un grande
blocco terrestre delimitato
«da un’enorme massa acquatica
», «la cui estensione si perde
all’infinito».
Il discorso su «Atene» e «Gerusalemme » assume poi un’originalità e una profondità eccezionali nel capolavoro filosofico di Rosenzweig, La Stella della Redenzione. La cultura greca antica era riuscita a cogliere le tre figurazioni concettuali «elementari»: Dio, il mondo, l’uomo; il Dio mitico, il cosmo plastico, l’eroe tragico.
Si tratta di tre «elementi» distinti e non riducibili l’uno all’altro. La classicità «pagana », però, li ha pensati come fra loro irrelati. Il senso della rivelazione biblica, invece, è quello di porli in relazione, pur rispettandone la differenza. Il pensatore, inoltre, mostra ciò che, nell’ottica biblica, lega i tre elementi. La relazione fra Dio e il mondo si esprime nella creazione, quella fra Dio e l’uomo nella rivelazione, quella fra l’uomo e il mondo nella redenzione.
Bastano tali cenni per rilevare come il rapporto fra «Atene» e «Gerusalemme» venga esplorato dal filosofo in maniera dissimile rispetto agli autori che, nei secoli, hanno affrontato il tema. Per comprendere Rosenzweig, però, non va dimenticato che al «nuovo pensiero», di cui è considerato il fondatore, fanno riferimento anche altri studiosi e che egli è profondamente legato a un gruppo di amici con interessi affini, ebrei e cristiani. E grande è il suo travaglio interiore riguardo alle scelte di fede: di famiglia ebraica, ma religiosamente tiepida, si avvicina al cristianesimo ed è a un passo dal battesimo nella chiesa luterana quando riscopre le proprie radici spirituali e culturali.
E qui si colloca la richiesta di «riconoscimento» rivolta agli amici cristiani, che approda alla domanda, rivolta agli interlocutori, «di cimentarsi nell’elaborazione di una vera e propria teologia cristiana dell’ebraismo», impegnandosi nel contempo «nell’elaborazione di un’appassionata ed altrettanto impegnativa rilettura del messaggio neotestamentario a partire da una chiave di lettura rigorosamente ebraica».
Da ciò Ciglia prende le mosse per proporre un modello metodologico di dialogo interculturale che coniughi il riconoscimento fra diversi, chiesto e offerto, con il tentativo di interpretare, dal proprio punto di vista ma con spirito di apertura, la cultura dell’altro, in un gioco di rimandi senza fine. Suggestive sono poi le pagine volte a evidenziare alcune non trascurabili analogie fra Rosenzweig e il pensiero postmoderno e quelle dedicate alla sua concezione estetica.
* Francesco Paolo Ciglia,
Fra
Atene e Gerusalemme - Il «nuovo
pensiero» di Franz Rosenzweig.
Milano, Marietti, pp. 256, euro
25,00.
Un saggio di Massimo Giuliani vede nel libro biblico non solo la teoria dell’amore, ma anche una visione politica, legata al tema di Israele disperso tra le nazioni
Il Cantico dei cantici? Una metafora politica
di MARCO RONCALLI (Avvenire, 10.05.2008)
Che con straordinarie metafore celebrasse l’intimo rapporto d’amore tra Dio e il popolo di Israele, era piuttosto noto. Che nonostante la consuetudine di citarlo in occasioni sponsali non potesse venir considerato un inno all’amore coniugale - vista l’assenza di preoccupazioni procreative o di allusioni al vincolo matrimoniale anche. Idem quanto alla presenza dell’Eterno nei codici della parola amore (e leggasi pure, oltre il termine eros, ciò che ruota attorno a philìa, agàpe, ecc.). Né può essere considerata una novità la teoria dell’amore «esodo da sé di ciascuno dei due per essere dell’altro» (per dirla con il teologo Bruno Forte).
Meno battuta è invece la pista che porta a leggere questo dialogo straordinario -cioè il Cantico dei Cantici - come «metafora teologico-politica» applicata al tema di Israele disperso tra le nazioni. Che è esattamente quanto proposto in questo nuovo saggio dedicato da Massimo Giuliani allo Shir haShirim, nel solco di una comunque solida tradizione che dai targumim (traduzioni/parafrasi aramaiche del testo) ai coevi midrashim (in buona parte raccolti nello Shir haShirim Rabbà), da Rashi - grande commentatore del XII secolo - a molti pensatori contemporanei, arriva sino a noi.
L’opera è divisa in due parti e lungi dal focalizzarsi su aspetti filologici e storico-letterali, attribuisce al Cantico un ruolo di pilastro portante, centrale, nell’ideale arcata «creazione-rivelazioneredenzione » che alza la storia della salvezza. La prima parte rielabora un seminario tenuto lo scorso anno mantenendo il registro della conversazione orale con parecchi rimandi alle interpretazioni sviluppatesi entro il giudaismo rabbinico o nella cultura ebraica moderna e tenendo sullo sfondo il lavoro di Franz Rosenzweig La stella della redenzione. La seconda, valorizzando la traduzione del Cantico di Daniele Garrone (riportata in appendice al volume), scandaglia, oltre la grammatica dell’eros, il paradigma dell’esilio ma sino ad analizzare le prospettive aperte dal superamento della condizione diasporica o della sua negazione nella complessa dimensione politica, fra sionismo e antisionismo, oltre le elaborazioni ancorate alle prerogative messianiche. Per considerare infine in chiusura un’emblematica poesia di Paul Celan: Todesfuge, scritta nel 1945, dopo Auschwitz, nella quale la Shulamita del Cantico è contrapposta alla protagonista del Faust goethiano Margarete.
Tornando alla parte più organica del libro, Giuliani, dato per scontato dietro ogni nudità il problema dell’io, dell’identità, e dopo averci ricordato che nella Bibbia a dire ’io’ è Dio, s’interroga su come sia permesso o proibito interpretare il Cantico, poi sulle ragioni per le quali esso è finito nel canone biblico tanto ebraico quanto cristiano, andando oltre la risposta che poggia sull’attribuzione al re Salomone e piuttosto sottolineando dentro l’esilio di Israele un pegno storico e una riprova della sua elezione.
E, proprio nella convinzione che il Cantico finisca per abbracciare il problema teologico-politico per antonomasia del popolo ebraico, l’esilio e la sua redenzione, fonde i due interrogativi in un’unica questione. Per la cui soluzione prova anche ad identificare i protagonisti del Cantico. Che per certi autori poi non sarebbero così chiaramente l’amante e l’amata.
Per Amos Luzzatto, ad esempio personaggio reale sarebbe solo, lei, la ragazza, una sognatrice per la quale il ’noi’ della storia amorosa sarebbe un prodotto dell’immaginazione. Altri autori invece vedono un triangolo, aggiungendo al noi dell’amante e dell’amata , le cosiddette figlie di Gerusalemme, le figlie di Sion: perché l’amore non è mai evento privato; perché l’amore di Dio per Israele, pur esclusivo, è al servizio del resto dell’umanità.
Se però, come Giuliani riconosce, resiste in ogni caso la definizione di Rosenzweig pronto a vedere nel Cantico «il nucleo e il centro della rivelazione» - pur prendendo seriamente i divieti dei rabbini che impedivano interpretazioni letterali del dialogo, resiste anche la difficoltà di leggere il testo solo come allegoria degli ebrei in galut, in esilio, (proibizione che è - tra l’altro - un’eccezione alla regola generale dell’ermeneutica rabbinica contemplante la lettura simbolica proprio dopo quella ’alla lettera’). A meno che proprio la chiave di lettura teologico-politica apra la porta su qualcosa in più del dramma storico dei senza patria, indicando la nostalgia di un centro perduto e il dubbio sulla presenza di Dio nella vita del suo popolo.
Sentimenti celati, tra sogni e sofferenze, nei versetti dello Shir haShirim che nel tempo dell’esilio non spengono mai nel popolo il desiderio del ritorno. A Sion.
Massimo Giuliani
EROS IN ESILIO
Letture teologico-politiche del «Cantico dei cantici»
Medusa. Pagine 152. Euro 14
TEORIE
In «Globus» il filosofo Rosenzweig propone una ricostruzione della storia mondiale attraverso due forze motrici principali,la terra e l’acqua
La geopolitica è nata dal mare
Un precursore della globalizzazione. L’oceano, come territorio senza limiti né confini, è l’immagine del fine ultimo cui il pianeta è consegnato: una lenta unificazione
di Francesco Tomatis (Avvenire, 07.07.2007)
Il grande pensatore tedesco di origini ebraiche Franz Rosenzweig (1886-1929) avviò la stesura del suo capolavoro filosofico, La stella della redenzione (la cui traduzione italiana è stata riedita nel 2005 da Vita e Pensiero), sul fronte bellico durante la prima guerra mondiale, inviando quotidianamente il testo a casa su lettere e cartoline fittamente scritte. Il giovane sottoufficiale dell’esercito tedesco, inviato nei Balcani in una postazione contraerea, già durante tutto l’anno 1917 lavorò ad un’altra opera, peraltro da alcuni anni ideata, la quale fa un po’ da trait d’union ideale fra il più celebre libro, edito nel 1921, e la sua prima vasta ricerca storico-filosofica, dedicata a Hegel e lo Stato. Si tratta di Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, scritto pubblicato postumo e ora proposto in Italia da Marietti in una edizione a cura di Francesco Paolo Ciglia, acuto interprete di Rosenzweig, ma non solo, anche di Lévinas e Pareyson in particolare.
In Globus Rosenzweig svolge una rapida ma studiatissima, originale e significativa ricostruzione di tutta la storia mondiale: in una prima parte intitolata «Ecumene» dal punto di vista dei rapporti di forza terranei, nella seconda denominata «Thalatta» nell’ottica del confliggere di potenze marittime. Ben prima dello Jünger del saggio su Lo stato mondiale o dello Schmitt dell’opera capitale Il nomos della terra, con Globus Rosenzweig intuisce e delinea brevemente una concezione geopolitica del mondo secondo una marcata, benché visibile solo in prospettive di lunga portata, tendenza all’unificazione, nonché attraverso le forze motrici della storia principalmente individuabili nell’essere marittimo e terraneo.
Secondo l’esordio dello scritto di Rosenzweig, la storia del mondo fu inaugurata dal primo uomo che tracciò sul suolo terrestre un limite, a designare la proprietà propria e dei suoi amici e familiari. Infatti il primo confine delimitò non solo il possedimento di un privato, ma anche la possibil ità di presa di possesso della terra intera da parte di ogni altro delimitatore. Se la terra è naturalmente destinata ad esser delimitata, tracciata da solchi e leggi, termini e confini, è invece il mare - prosegue Rosenzweig - il regno dell’illimitato. Ma proprio per questa sua illimitatezza, uniforme e sterile, il mare è anche l’immagine del fine ultimo a cui la terra è consegnata, perseguibile tuttavia soltanto attraverso l’attività umana, il duro, conflittuale lavoro dell’umanità a distinguere, delimitare, prendere possesso e trasformare, per infine, in un lento ed estenuante contrasto di uomo contro uomo, volgersi all’unificazione del globo. Certo, l’unità a venire del mondo non potrà che essere movimentata, fatta di differenze infine rappacificate, fecondamente in relazione; ben lungi dunque dall’unità amorfa, indifferenziata, infeconda e grigia dell’infinito mare. Tuttavia soltanto volgendo lo sguardo al mare sterminato, l’umanità storica potrà intravvedere quell’unità costituente la forza motrice di ogni storico accadere, volto all’unificazione del globo terracqueo, altrimenti frammentato in conflitti miopi e radicati in parziali possessi e limitati confini. In questo contesto, molto brevemente delineato, di filosofia della storia globale, ecco che si inseriscono poi le acute riflessioni e originali ricostruzioni che Rosenzweig fa della storia mondiale. Dalla lettura dell’impulso originario di Roma come potenza marina, similmente ai Greci e persino ad Alessandro, alla conquista della Gallia da parte di Cesare come assoluto atto arbitrario che ha cambiato la storia, facendo di quella romana potenza continentale e terranea, dai diversificati significati del colonialismo europeo nelle sue varie fasi e direzioni, alla prima guerra mondiale come punto di svolta decisivo per la planetarizzazione. Se millenni ci sono voluti - afferma Rosenzweig - per acquisire coscienza teorica della sfericità della terra, non può stupire la lentezza con la quale la storia mondial e proceda verso l’unità del globo, prefigurabile con al suo centro l’anima europea. Eppure Dio ha creato un solo cielo e una sola terra. L’ecumenismo è il fine ultimo dell’umano cammino.
Franz Rosenzweig
Globus
Per una teoria storico-universale dello spazio
Marietti. Pagine 176. Euro 15,00.
Esce in Italia il saggio di Emil Fackenheim che indaga come ricucire le ferite provocate nella storia dai totalitarismi
Riparare il mondo dopo la Shoah
Non serve a nulla demonizzare il pensiero anti-umano: quel che occorre è salvarlo, purificarlo dalle sue patologie in un vasto programma educativo
di PAOLA RICCI SINDONI (Avvenire, 13.02.2010)*.
Strani destini regolano, a volte, la vita dei libri, messaggeri potenti e silenziosi dei loro creatori: alcuni messi rapidamente nel circolo dell’industria editoriale che ne segna la fama, altri, meno fortunati e trascurati, anche se grandi, rischiano di cadere nell’oblio. È questo il caso di Emil Fackenheim (1916-2003), filosofo ebreo-tedesco di altissimo livello, rifugiatosi - dopo la persecuzione e l’internamento - in Canada, dove visse per quarant’anni prima di trasferirsi nel 1983 a Gerusalemme. Solo nel 1977 è apparso in Italia un piccolo e denso saggio, La presenza di Dio nella storia, e poi nulla, sino ad oggi quando esce nelle librerie, per i tipi della Medusa di Milano, il suo capolavoro del 1982: Tiqqun - Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah.
Un libro splendido, ricco di suggestioni e di sane provocazioni alla filosofia e alla teologia, opera che non si può che avvicinare ad altri classici del ’900, come La stella della redenzione di Franz Rosenzweig o Totalità e infinito di Emmanuel Lévinas, come giustamente nota Massimo Giuliani nella sua intensa prefazione. Né si pensi che queste riflessioni che intrecciano filosofia, storia, politica e teologia, appartengano solo all’ebraismo, siano cioè circoscritte ai superstiti e alla loro capacità di sopravvivenza, dal momento che sono legate alla grande questione di come curare le ferite della ragione, del pensiero, della cultura umanistica e della civiltà occidentale, che non solo non hanno previsto Auschwitz, ma che non possono passare indenni dentro quell’immane disastro.
È lo stesso Fackenheim a chiamare in causa, in questo serrato confronto con alcuni protagonisti del pensiero filosofico, da Kant a Hegel, da Spinoza a Rosenzweig e a Heidegger, la necessità di una riprova storica non tanto con la memoria ferita dei sopravvissuti, quanto con la responsabilità dei loro carnefici, quei tedeschi, in prevalenza cristiani, che hanno collaborato consapevolmente alla costruzione dell’orribile macchina burocratica e tecnologica dell’annientamento degli ebrei.
L’urgenza di ’riparare’ questa enorme frattura dentro il mondo consiste perciò non nel demonizzare quel pensiero cercando altre alternative, ma nel doverlo salvare, purificare dalle sue stesse patologie, coinvolgendo in un vasto programma educativo e culturale cristiani, ebrei e tedeschi delle nuove generazioni, insieme volti a neutralizzare quelle spinte negative, culminate ad Auschwitz, luogo simbolico del nichilismo fattosi esperienza storica antiumana per milioni di persone e per lunghi anni. Per evitare il ripetersi di simili tragedie, che oggi potrebbero ancora colpire Israele nella sua stessa necessità di sopravvivenza come Stato, bisogna in primo luogo stare dentro la storia, sfuggendo ad ogni tentazione teoretica di leggerla con gli occhi impoveriti del pensiero astratto.
Da qui la tensione etica che promana da questo libro, in cui finalmente Fackenheim riesce a trovare una sintesi coraggiosa e sofferta fra le due anime che lo abitavano, i due ’cappelli’, che di volta in volta era chiamato ad indossare (come icasticamente dirà nella sua Autobiografia, fra poco in uscita per Giuntina): da una parte l’esigenza di redimere l’’età d’oro’ della filosofia classica tedesca che da Kant sino a Hegel ha disegnato il volto della cultura umanistica occidentale, ma che è apparsa impotente a fornire antidoti contro l’inumano che ha avvolto i lager, dall’altro la teologia ebraica, custodita negli anni durante gli studi a Berlino per il rabbinato e che sembrava rappresentare l’unica forma di custodia di sé, oltre gli orrori della storia.
Questi due ’cappelli’ non potevano che rinvenire un momento di felice sintesi in questa opera, dove la forma simbolico-cabalista del tikkun (secondo cui al momento della creazione scintille divine si sono sperdute nel mondo, fuoriuscite dalla rottura dei vasi che le contenevano) riesce a disegnare la forza d’urto del bene che va ricostruito dentro le oscurità del pensiero e della storia.
Quando nel 1967, durante la Guerra dei Sei giorni, gli israeliani hanno tremato ancora per la loro sopravvivenza, si è tragicamente compreso come ancora ’tutto’ poteva accadere di nuovo, che il male sconfitto covava dentro la storia, che i morti nei lager rischiavano davvero di essere morti invano, che il nazismo poteva guadagnare la sua vittoria postuma.
Nasce da questo nuovo sussulto del male storico l’esigenza a moltiplicare le energie morali per una nuova opera di resistenza verso tutte le forme di disumanizzazione dell’umano, per costruire un fronte comune dove ebrei e cristiani, soprattutto, lavorino insieme per aggiustare il mondo e renderlo più abitabile per tutti.
Molta letteratura ebraica sulla Shoah sembra ancora incapace di individuare forme di identità comune, oscillando fra la soluzione ’confessionale’ della comunità religiosa, unita nell’identità del Patto che ancora vive fra Israele e il suo Signore, e la soluzione ’politica’ e laica che oggi sostiene lo Stato e le sue istituzioni. Per Fackenheim però né supremazia né contraddizione fra questi due poli, perché è la storia, ancora una volta, a dettare il suo verdetto.
Ricorda al riguardo un drammatico episodio, avvenuto il giorno dello scoppio della Guerra dei Sei giorni. Era la festa di Yom Kippur e moltissimi si trovavano in sinagoga a pregare, quando i giovani, richiamati immediatamente alle armi, correvano per raggiungere le loro postazioni. Fu allora che alcuni anziani a Gerusalemme interruppero le loro preghiere, corsero fuori e strappando i loro libri sacri, donarono fogli sparsi ai soldati in partenza. Da parte loro - nota Fackenheim - i militari non esitarono ad accettare il dono, sia che fossero religiosi o laici: «A Yom Kippur alcuni combatterono perché altri potessero pregare, e alcuni pregarono perché altri potessero combattere». Un modo intenso e tragico per ridire la forza della volontà di sopravvivere insieme e di restituire al mondo una lezione di resistenza al male, oltre le divisioni, oltre le ricadute.
*
Emil Fackenheim
TIQQUN
Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah
Medusa. Pagine 300. Euro 24,50.
“È fatto divieto agli ebrei di concedere a Hitler vittorie postume”
614ma norma del canone ebraico istituita da Emil Fackenheim, in La presenza di Dio nella storia
Auschwitz: una sfida per la fede di Israele
La presenza di Dio nella Storia, di Emil Fackenheim, uscì nel 1970. Al centro della riflessione dell’autore sta la crisi di tutte le precedenti categorie utilizzabili, per spiegare la sofferenza di Israele. Ciò nonostante, Fackenheim conclude in modo imperativo affermando che non si deve abbandonare la fede dei Padri: chi lo facesse, concederebbe a Hitler una clamorosa vittoria postuma. *
È chiaro che il lungo silenzio teologico era necessario. Il silenzio sarebbe forse la cosa migliore anche se non fosse per il fatto che le barriere tra le nazioni sono infrante e che per questa sola ragione il tempo del silenzio teologico è irrimediabilmente passato.
Ma cominciare a parlare significa mettere radicalmente in questione alcune dottrine midrashiche [= tipiche della tradizione ebraica - n.d.r.] onorate nel tempo; e tra queste una è immediatamente sconvolta. Come abbiamo visto, anche gli antichi rabbini furono costretti a sospendere il biblico “siamo puniti per i nostri peccati”, forse non in risposta alla distruzione del tempio da parte di Tito ma alla paganizzazione di Gerusalemme da parte di Adriano. Anche noi possiamo al più lasciare momentaneamente in sospeso la dottrina biblica solo per il fatto che, come i rabbini, non possiamo né negare i nostri peccati né isolarli dalla storia. Eppure dobbiamo sospenderla. Perché, comunque noi giriamo e rigiriamo tale dottrina in risposta ad Auschwitz, essa diventa un’assurdità religiosa e addirittura un sacrilegio.
“Peccato” ed “espiazione” devono assumere una connotazione individuale? Che idea sacrilega, quando si pensi che tra le vittime dei nazisti vi furono più di un milione di bambini! Dobbiamo dar loro una connotazione collettiva? Che idea terribile, se si pensa che non furono le nostre comunità ebraiche, occidentali, agnostiche, infedeli e ricche, ma quelle più povere, devote e fedeli che furono più duramente colpite! Quando nel nostro tormento ci rivolgiamo in un ultimo tentativo alla dottrina tradizionale per cui tutti gli israeliti di tutte le generazioni sono responsabili l’uno per l’altro, noi continuiamo a sentirci completamente sconcertati perchè non un solo dei sei milioni morì perché esso non mantenne il patto divino-ebraico: essi morirono tutti perché i loro nonni lo avevano rispettato, al limite solo per aver allevato bambini ebrei. Ecco il punto in cui tocchiamo l’assurdo religioso radicale. Ecco lo scoglio contro il quale naufraga senza rimedio l’idea che “siamo puniti per i nostri peccati”.
Ma allora gli ebrei morirono forse ad Auschwitz per i peccati degli altri? Il fatto è evidentemente abbastanza ovvio, ed è sempre più evidente che questi atti corrispondevano ai criminali nazisti. Il problema sta però nel sapere se si può scoprire in questo fatto un significato religioso, se noi, come tante generazioni precedenti, possiamo far ricorso all’idea del martirio. [...] Può ancora confortare la coscienza ebraica dopo Auschwitz? Quando le bande dei crociati si scatenarono contro gli ebrei delle città renane di Worms e Magonza (1096 d. C.) esse offrirono loro in teoria, se non in pratica, la scelta tra morte e conversione permettendogli quindi di scegliere il martirio. Ad Auschwitz, invece, non ci fu scelta; vecchi e giovani, fedeli e non fedeli furono sterminati senza discriminazione. Vi può essere martirio quando non vi è scelta? [...] Auschvitz fu il tentativo supremo, il più diabolico che sia mai stato fatto di uccidere lo stesso martirio e di privare ogni morte, compreso il martirio, della sua dignità. [...]
Che cosa comanda la voce di Auschwitz?
Gli ebrei non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume. Essi hanno il dovere di sopravvivere come ebrei, perché il popolo ebreo non abbia a perire. Essi non hanno il diritto di disperare dell’uomo e del suo mondo e di trovare rifugio sia nel cinismo sia nell’aldilà, se non vogliono contribuire ad abbandonare il mondo alle forze di Auschwitz. Infine essi non hanno il diritto di disperare del Dio di Israele, perché l’ebraismo non perisca. Un secolarista ebreo non può trasformarsi in un credente per un semplice atto di volontà, né gli si può imporre di farlo... Ed un ebreo religioso che è stato fedele al suo Dio può essere costretto ad un nuovo rapporto magari rivoluzionario con lui. Una possibilità comunque è del tutto impensabile. Un ebreo non può rispondere al tentativo di Hitler di distruggere l’ebraismo cooperando egli stesso a tale distruzione. Nei tempi antichi il peccato impensabile per gli ebrei era l’ateismo. Oggi consiste nel rispondere a Hitler compiendo la sua opera.
* E. L. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica, Brescia, Queriniana, 1977, pp. 97-99 e 111-112
Note sul tema:
LA CREAZIONE E L’ORIGINE DEL MONDO. Il mattino del mondo non ha l’"oro" (la "caritas") in bocca, ma la ’amore pieno di grazia (la "charitas")
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2011) *
È il silenzio il custode dell’inizio: sta oltre ogni parola ciò di cui si potrebbe parlare solo prescindendo dalle condizioni già poste del dire. Pensare puramente l’inizio equivarrebbe a pensare quanto precede le strutture stesse del pensiero, per affacciarsi a ciò che è "fuori" dello spazio e "prima" del tempo: il vagheggiato «primo mattino del mondo» sfugge alla ricerca del soggetto, che, per quanto si sforzi, non è in grado di uscire da queste categorie dello spazio e del tempo. L’ultimo approdo dell’indagine volta a scrutare l’inizio è dunque il senso del mistero che tutto avvolge, la percezione dell’incompiutezza di ogni sforzo teso dal basso a voler offrire una spiegazione totale. La posta in gioco è alta, perché abbraccia il senso del vivere e del morire umano: perciò essa ci riguarda tutti, come mostrano i possibili esiti della risposta alla domanda sulle origini di tutto ciò che esiste.
Così, la resa al silenzio dell’ultima sponda può assumere la forma della rinuncia nichilista: si può rinunciare alla domanda, che muove la ricerca, sopprimendo la stessa nostalgia che è alla base dell’interrogare; si può accettare come unica evidenza attingibile la dignità di vivere eroicamente il frammento del presente, come se esso fosse capace di ospitare tutta la consistenza o la leggerezza dell’essere. La resa nichilista, però, è solo apparente: assegnare al nulla il ruolo di orizzonte originario e finale significa restare nel trionfo del già posseduto. Il nulla - se esteso ad avvolgere tutte le cose - resta una forma rovesciata del trionfo dell’io: ciò che manca al nichilista è la coscienza dell’altro, l’uscita dalla solitudine del soggetto e dalla rinuncia a comunicare.
L’itinerario che muove dalla domanda sull’inizio conduce, però, a un altro possibile approdo: dove è riconosciuto lo spazio silenzioso di ciò che è al di là dello spazio e il tempo senza tempo di ciò che è al di là del tempo, una voce può offrirsi. Non una voce dell’al di qua, semplice prolungamento dei ragionamenti mondani imprigionati negli schemi dell’identità, ma la voce dell’Altro, che sia puramente tale. L’alterità irrompe nel regno della logica prigioniera di sé; la differenza si fa strada nel dominio dell’identità. L’evento di questo puro inizio, che supera le secche delle proiezioni dei desideri e dei fallimenti mondani, perché non diviene nella coscienza dell’uomo, ma viene a lui, indeducibile e improgrammabile, è il miracolo della rivelazione. E la rivelazione parla dell’inizio parlando della creazione.
La creazione "preistoria" dell’alleanza. «La Bibbia parla della creazione in guisa di racconto (Dio ha creato il mondo, gli uomini) e di corrispondente risposta espressa nella lode del Creatore. Ma stranamente nella Bibbia ciò non costituisce una formula di fede...». Nei racconti delle origini Israele riflette un patrimonio comune all’umanità arcaica, connesso al bisogno originario dell’essere umano di garantire in qualche modo la consistenza del mondo, dando sicurezza alla conturbante fragilità della vita. Ciò che è nuovo e peculiare nel discorso biblico è il legame che esso stabilisce fra il racconto dell’inizio e la storia della salvezza d’Israele. Si potrebbe dire che la testimonianza della Genesi sulla creazione è una «profezia retrospettiva»: partendo dall’esperienza che il popolo eletto ha fatto del Dio della storia, lo sguardo della fede biblica si estende ad abbracciare la realtà delle origini, colta come una sorta di «preistoria dell’alleanza» (Vorgeschichte des Bundes:Karl Barth). Fra le due componenti non c’è semplice sovrapposizione, ma integrazione, senza peraltro escludere una non perfetta fusione (testimoniata ad esempio dalle ripetizioni di Gen 1,6 e 7; n e 12; 14s. e 16ss.; 24 e 25; dalla sfasatura fra il numero delle opere e il numero dei giorni; e dal contrasto fra l’atto creatore significato in Gen 1,1 e l’idea di un caos primordiale, preesistente all’azione creatrice-ordinatrice).
Diventa allora di particolare interesse discernere gli elementi di originalità del racconto biblico circa le origini del mondo (Gen 1). Il primo di questi è l’articolazione della narrazione in sei giorni, che tendono al riposo del settimo: la presentazione della creazione della luce è posta per prima precisamente al fine di garantire la distribuzione cronologica delle opere. L’essere nel tempo è in talmodo privilegiato rispetto al semplice dato di esistere. Il divenire storico, il situarsi nella successione degli atti e la conseguente relazione vitale appaiono più importanti del dominio dell’oggetto.
L’essere, che sta a cuore alla fede biblica, non è statico, ma in relazione, è l’essere storico, proprio della prospettiva dell’alleanza: già qui emerge come la tradizione delle origini sia riletta alla luce dell’esperienza della fede nel Dio salvatore, venuto incontro all’uomo nel tempo. «L’ebraismo è una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo... L’eminente parola qadosh viene usata per la prima volta nel libro della Genesi alla fine della storia della creazione, ed è estremamente significativo che essa venga applicata al tempo: "E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò". Nel racconto della creazione, a nessun oggetto dello spazio viene attribuito il carattere della santità» .
I sei giorni tendono al settimo: la creazione è "ab origine" orientata a un fine. Meta di tutte le opere e di ogni attività a esse connessa è il riposo di Dio nella creazione e del creato in Dio, in quello che sarà il sabato eterno, di cui il sabato temporale è memoria e anticipazione. Grazie alla meta sabbatica, il tempo è celebrato in tutta la sua dignità, ma ne è anche indicata la relatività, la necessaria provvisorietà del suo essere "storico", volto cioè a una fine e a un fine: il sabato della creazione dice non solo la finale destinazione di tutto il creato a Dio e la Sua sovrana trascendenza rispetto a ogni creatura, ma anche l’incompiutezza del tempo, il suo costitutivo e necessario riferimento all’eterno. Tutte le relazioni storiche devono insomma inverarsi nel sabato eterno, in cui uomo e natura, singolo e comunità saranno riconciliati nella gioia del Dio, che è all’inizio e alla fine di tutto.
«Il Sabato ci mette in sintonia con la santità nel tempo: in questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione; dal mondo della creazione alla creazione del mondo». In questa luce, ognuna delle opere di Dio nel racconto della creazione è vista come buona, protesa verso Colui da cui proviene. L’affermazione che conclude l’opera di ognuno dei giorni - «E Dio vide che era cosa buona» - sta a indicare come essa sia adatta al suo fine, volta a incontrare il Creatore nella festa del settimo giorno.
La testimonianza biblica afferma, dunque, la bontà e la bellezza delle creature (l’ebraico tob racchiude i due significati), che consiste nel loro essere aperte verso Dio, relative a Lui, fatte per incontrarLo ed entrare nel Suo riposo. La storia dell’umanità, come quella del mondo, ha una meta di bellezza, e perciò un senso, che è più forte di ogni caduta possibile. Il settimo giorno carica il tempo di dignità e di promessa, perché ne mostra l’ultimo sbocco nel giorno del riposo di Dio e della creazione intera in Lui.
Anche l’uomo rientra in quest’assoluta creaturalità: il racconto sacerdotale della Genesi non si interessa al modo della creazione dell’uomo, rispettandone il mistero e situando la creatura umana in una stretta rete di solidarietà con tutte le altre creature. Si preoccupa, però, di evidenziare - nell’alterità da Dio - l’originaria destinazione dell’essere umano a divenirne il partner nell’alleanza: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (1,26). Solidale col creato, l’uomo altro dal Creatore, creatura fra le creature, è centrale per esso, in quanto interlocutore del Dio vivente: è la creatura relazionale per eccellenza, fatta per la reciprocità («maschio e femmina li creò»: v. 28), nella prospettiva dell’originaria unità dei due.
L’immagine e la somiglianza dell’uomo con Dio vanno lette, dunque, nell’orizzonte dell’alleanza: esse esprimono la capacità dell’uomo a entrare nel patto in maniera consapevole e libera, la sua attitudine a relazionarsi e a situarsi in un rapporto di accoglienza e di gratuità. Il racconto intende, insomma, evidenziare l’originaria e costitutiva destinazione al patto della creatura responsabile e libera: «L’uomo - ogni uomo - è creato affinché accada qualcosa tra lui e Dio, e la sua vita acquisti proprio per questo il suo significato».
* L’articolo di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, è un estratto della relazione “La creazione e le origini del mondo” tenuta a Palazzo Ducale di Genova mercoledì 19 gennaio.