E’ nelle librerie la riedizione di “Politica e psicoanalisi” (insieme ad altri saggi) di Herbert Marcuse. Alla luce delle teorie freudiane il filosofo tedesco affronta la crisi dell’autorità tradizionale e i processi di formazione della soggettività
LIBERARSI DI EDIPO PER SCOPRIRE SESSUALITA’ E GIOCO
di Mario Pezzella*
Quale rapporto esiste fra le trasformazioni economiche e politiche di una società e la vita psichica profonda degli individui che la compongono? In che modo il desiderio di felicità, i sogni dell’Eros, lo smarrimento di sè, contribuiscono a costruire rapporti di dominio e tentativi di liberazione? A partire dalla pubblicazione degli studi sull’autorità e la famiglia a cura di Horkheimer nel 1936, alcuni autori della Scuola di Francoforte hanno cercato di rispondere a queste domande, trovando un punto d’incontro fra la critica marxiana e il pensiero di Freud.
Particolarmente interessante a proposito è il saggio “Obsolescenza della psicanalisi”, contenuto in Psicanalisi e politica (Manifestolibri, pp.128, euro 15,00), un volume a cura di Roberto Finelli, che raccoglie diversi saggi di Herbert Marcuse. Rispetto alla descrizione freudiana del complesso di Edipo, dobbiamo - secondo Marcuse - prendere atto della scomparsa e dell’indebolimento della figura paterna all’interno della famiglia: la crisi della sua autorità tradizionale modifica i processi di formazione della soggettività. Non più costretto a conquistare la propria individuazione differenziandosi dal padre, il figlio della società dei consumi è apparentemente sgravato da ogni conflitto e dipendenza personale.
Ciò non vuol dire però che sia scomparsa ogni forma di dominio. L’autorità è ora immediatamente collettiva, trasmessa dagli organi omologati della società delle merci. L’Io che non si differenzia attraverso il conflitto col padre, trova un immediato modello identitario nell’ideale del gruppo, rischiando la regressione verso gli stadi preedipici della personalità. All’identificazione con istanze collettive si accompagna una desublimazione della morale sessuale, che solo apparentemente porta maggiore libertà.
Inizialmente, Marcuse intende Eros come un principio immediatamente liberatorio. Eros è l’antitesi positiva all’educazione repressiva, la quale concentra la sessualità in senso genitale e devia le energie libidiche dell’uomo verso il lavoro. Se prima questo sacrificio era reso necessario dallo strapotere della natura, con le conquiste della tecnica e delle forze produttive è divenuto superfluo. Eros potrebbe recuperare la sua potenza polimorfa in rapporti umani fondati sul gioco e sul dono, e non sul potere.
D’altra parte, soprattutto negli ultimi scritti, Marcuse distingue Eros e sessualità; la desublimazione della sessualità, invece che condurre a una società liberata, permette di intensificare il consumo e la fascinazione delle merci. Il desiderio è deviato sui surrogati immaginari forniti dall’industria culturale e diviene un ulteriore strumento di controllo e deprivazione dell’autonomia individuale.
«Il sorgere e la mobilitazione delle masse produce un dominio autoritario in forma democratica» afferma Marcuse. Nella sua forma attuale, un simile regime deve continuamente intensificare e rinnovare i consumi e le immagini di merce, perchè è in realtà esposto a un’angoscia costante e profonda. Liberata dai legami affettivi col padre e da ogni riferimento alla morale o all’autorità, la debole personalità narcisista resta vittima di una aggressività inconsapevole, che può essere dirottata secondo gli interessi delle classi dominanti, ma anche portare a un dissolvimento del gruppo.
Partito dalla critica dell’autorità repressiva, Marcuse giunge a una visione dialettica più complessa, in cui la scomparsa degli interdetti tradizionali può trasformarsi in una rivalutazione del pensiero negativo e della negatività in genere, esplicitata in particolar modo nella seconda parte di L’Uomo a una dimensione (non basta rivalutare Eros contro Thanatos ma riapproriarsi in chiave politica e rivoluzionaria della forza negatrice per rivolgerla contro l’orientamento impresso dal dominio alla storia).
Il modello freudiano, che a suo modo insisteva sull’autonomia e la forza differenziante dell’individuo, viene così salvato dall’obsolescenza. Il dialogo paritario con l’altro e con la sua differenza può acquisire una forma di decisionalità e autorevolezza, capace di sostituire il padre scomparso e di non dissolversi nella Grande Madre preedipica della società dei consumi.
La fraternità è l’idea rivoluzionaria che ritorna più spesso in queste pagine di Marcuse, anche se essa stessa non è esente da rischi. Esisterebbe cioè una dinamica che dall’interno induce gli individui a negare una possibile liberazione e a ricostruire rapporti asimmetrici di signoria e servitù.
In questo senso ha ragione Finelli quando, respingendo ogni facile utopismo, attira l’attenzione sulla natura «bina e ambivalente dell’affettività umana, di cui l’invidia e l’aggressività verso l’altro fanno parte», non meno del desiderio di riconoscimento paritario e di liberazione dell’Eros. E’ nello spazio di questo conflitto sempre aperto tra relazione di signoria e di fraternità, che si iscrive lo spazio mai deciso una volta per tutte della politica e della formazione psichica che indissolubilmente lo accompagna
* Liberazione, 07.07.2006.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"X"- FILOSOFIA. A FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
Federico La Sala
CI VOGLIONO COME UNA PLEBE TUTTA PAURA E ISTINTI, MA C’E’ UNA SPERANZA...
Mentre infuriano le polemiche sul gay pride e sulle presunte “interferenze” della Chiesa su questioni di costume e di etica pubblica (il Papa stesso ha dovuto precisare, con uno splendido discorso ai giovani, che la Chiesa non è “sessuofobica” e non è un tribunale di proibizioni, ma è un grande “si” alla felicità), è uscita una sorprendente e inattesa apologia della Chiesa Cattolica sulla “Rivista di sessuologia”, che è il magazine ufficiale del Centro italiano di sessuologia.
Perché un simile riconoscimento alla Chiesa da un ambiente scientifico, certamente laico? Azzardo una risposta: per l’ “infelicità” di questo tempo di falsa esuberanza, congestionata e obbligatoria. Perché è ormai una malattia sociale che non trova guarigione senza un abbraccio consolante, che dà senso al vivere e al morire.
L’editoriale del direttore della rivista, Franco Avenia, parte dal diffuso clima ansiogeno in cui ci siamo abituati a vivere. Fa una rassegna delle nostre paure pubbliche e private. Una marea. Ne potremmo aggiungere molte altre. Ormai l’ansia è il nostro pane quotidiano, come rivela il continuo aumento del consumo di psicofarmaci. L’altroieri “Il Venerdì di Repubblica” - per dire - ha dedicato la copertina proprio a “I nostri luoghi oscuri”. Cioè alla paura. Dai “grandi casi di cronaca agli intrighi politici, dai serial killer ai terroristi”. Il “Venerdi” è andato ad attingere a quell’industria letteraria della paura che è il giallo: James Ellroy, Stephen King e molti altri. Anche in Italia il genere giallo vive un clamoroso boom da dieci anni.
In realtà però l’industria della paura non è solo letteraria, è molto più grande e pervasiva. I giornali e i media stessi ne fanno parte e non c’è solo la morbosa telenovela di Cogne: i quotidiani titoli dei tg grondano ansia e sangue, specialmente in estate. Ci sono poi potentissime lobby della paura come quelle ecologiste deputate ad annunciarci ogni giorno catastrofi angoscianti e la fine del mondo prossima ventura (sempre puntualmente rinviata): per farsi un’idea di questa colossale bufala consiglierei di leggere - a parte il monumentale volume di Lomborg, “L’ambientalista scettico” - il libro di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari “Le bugie degli ambientalisti”. O il recente volume di Paul Driessen “Eco-imperialismo”, semplicemente impressionante. Poi ci sono gli allarmi sulla salute: quelli planetari come la mucca pazza, la Sars e la febbre aviaria o il bombardamento quotidiano su ciò che fa male, sui cibi adulterati, il fumo, lo stress e sulle malattie sempre incombenti, un bombardamento che ci ha trasformato in un esercito di ipocondriaci divoratori di medicine (ci sono pillole per qualsiasi cosa).
Perché si vuole una società così ansiogena e angosciata? Un’ipotesi veramente intelligente è appunto quella di Avenia che segnala l’altra faccia della medaglia: “al diuturno tam-tam mediatico della paura fa da contrappeso, insospettabilmente, ma non involontariamente, il richiamo sessuale”.
La stessa impaginazione dei giornali e dei programmi tv dosa notizie ansiogene-catastrofiche e immagini sexy. La pubblicità ne è piena. Il “caso letterario” dell’anno è il “demi-porno romanzo ‘Cento colpi di spazzola’ (vedi Melissa Panarello)”, amplificato da tv e cinema. Perché “il sesso fa vendere, il sesso spinge, ma soprattutto distoglie dalla paura, narcotizzando fino al prossimo telegiornale. Una continua altalena tra la morte e la vita, tra la punizione attesa ed il premio sospirato. Un sistema efficace di contrappesi che lascia scorrere in mezzo, in una sostanziale indifferenza, ogni menzogna, ogni nefandezza, ogni sopruso, sia esso sociale, economico o politico”. Avenia ricorda le “tre F (Forca, Farina e feste)” con cui un tempo si dominava sulle masse e le aggiorna oggi con le tre P, Paura, Pornografia e Pallone. E qui lo specialista fa questa considerazione: “Non può essere un caso che l’unica istituzione capace di dar sollievo morale alla sofferenza quanto alla consapevolezza della morte e di demitizzare il sesso, sia sempre di più attaccata ed in modo così feroce. La Chiesa Cattolica è fatta oggetto da tempo di una aggressività continua, un odio difficilmente comprensibile, che forse può essere spiegato solo con l’interesse a delegittimarla. Dovremmo seriamente interrogarci su tali fenomeni”. Il simbolo del momento infatti è “Il Codice da Vinci” che non a caso dosa furbamente tutti questi ingredienti: un po’ di giallo, un po’ di sesso e uno smandrappato anticattolicesimo.
Voglio citare ancora un passo di questo intervento intelligente e anticonformista di Avenia, proprio perché nasce da un approccio medico-scientifico alle sofferenze sociali e alla questione della sessualità: “La Chiesa Cattolica, conforto per i più deboli e speranza nel dolore, elemento stabilizzante della società nei secoli, è ora temuta e avversata” nota Avenia “come capace di spezzare il vantaggioso equilibrio scovato a fondo delle nostre paure più radicate e degli impulsi più facilmente sollecitabili. Un equilibrio funzionale alla conservazione di poteri che hanno perso progressivamente autorità e l’hanno sostituita con uno strisciante, quanto sinistro autoritarismo”.
Come appare dunque dal pasoliniano Palazzo, laggiù in basso, questa plebe variopinta che sarebbe il “popolo sovrano”? Come “una moltitudine tutta angosce ed istinti, facilmente influenzabile, governabile, spolpabile fino all’osso. Sono uomini e donne spaventati, drogati con un erotismo d’accatto, resi mansueti da chi sapientemente usa il bastone della paura e la carota del sesso”. Se infatti una volta Marx definiva la religione l’oppio dei popoli, “oggi a ben guardare è il sesso l’oppio della nostra società, contraltare ad uno sciame di paure liberate artatamente nell’etere e fatte posare, il giorno dopo, sulle pagine dei giornali”.
Questo quadro descrive quantomeno come ci vogliono. Come i media rappresentano il Paese, anzi come cercano di plasmarlo. Un dominio che pretende di esprimersi perfino sui corpi oltreché sulle anime. Tutti, giornali e tv, sono omologati alla stessa monocultura: lo si è visto nel referendum dell’anno scorso, quando l’intero schieramento mediatico sponsorizzò questo tipo di sottocultura dell’ “io-istintivo” (tutto voglie e paure). Eppure in quel caso il Paese disse no. Avemmo un sussulto della testa e del cuore, del nostro vero io. Subito censurato e rimosso dai media. “Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta/ forse un po’ come si tace/ una speranza ineffabile” (Rilke)
(Libero, 18 giugno 2006)
Ben scavato vecchio Karl
Come e perché torna attuale il suo pensiero, un cantiere riaperto di fronte alle crisi del capitalismo
di GIANNI VATTIMO *
Ricordate la battuta di qualche anno, o decennio, fa: «Dio è morto, Marx è morto, e anch’io non mi sento troppo bene»? Ebbene forse possiamo cancellarla definitivamente. Dio se la cava ancora egregiamente, nonostante i dubbi alimentati dalle condotte scandalose dei suoi ufficiali rappresentanti in terra; e Marx è ormai largamente risuscitato per merito del palese fallimento del suo nemico storico, il capitalismo occidentale, salvato solo dalle misure «socialiste» dei governi liberali dell’Occidente.
Ad annunciare con freschezza (e audacia) giovanile il ritorno di Marx è uno studioso torinese emigrato temporaneamente al San Raffaele di Milano, dottorando sotto la saggia guida di Giovanni Reale, un accademico non uso a coltivare giovani ingegni sovversivi. Bentornato Marx!, con il punto esclamativo, è il titolo dell’affascinante libro di Diego Fusaro uscito presso Bompiani (pp. 374, e 11,50). Il libro ha il difetto di portare una dedica al sottoscritto, che ha avuto la ventura di essere tra i professori torinesi presso i quali ha studiato l’autore. Ma ne posso parlare senza pudore perché, a parte l’affettuosa dedica, di mio nel libro non c’è niente, credo nemmeno una citazione; il che può ben valere come garanzia: sia della serietà del lavoro, sia dell’assenza di qualunque conflitto di interesse in questa recensione.
Anzitutto, ci voleva la passione e il coraggio di uno studioso giovane per affrontare l’impresa di una ripresentazione complessiva del pensiero di Marx; non tanto perché ancora agli occhi di molti Marx sembra essere un argomento tabù. Ma soprattutto perché bisognava fare i conti con una bibliografia sterminata di studi critici, di interpretazioni anche politicamente contrastanti, senza metterli semplicemente da parte come se fosse possibile tornare al «vero Marx» saltando la storia della fortuna e sfortuna dei suoi testi; e senza, d’altra parte, farsi travolgere dalle discussioni tra gli interpreti, producendo un ennesimo studio in cui Marx risulta oscurato da uno dei tanti ritratti che pretendono di rappresentarlo.
Fusaro è riuscito egregiamente a evitare i due rischi, e ha raccontato con chiarezza e vivacità vita e dottrina di Marx prendendo anche francamente posizione su tante questioni interpretative presenti nella vasta letteratura che cita e discute nelle note. Uno dei temi ricorrenti nel libro è quello del rapporto tra Marx e il marxismo. Ma, dice Fusaro, l’opera di Marx è stata sempre un cantiere aperto - anche il Capitale è un libro incompiuto; e pretendere di cercare una verità originaria di Marx è sempre stata solo la tentazione dei dogmatismi che hanno creduto di richiamarvisi anche in connessione con politiche di dominio.
Dogmatismo è anche parlare di un socialismo «scientifico», ovviamente. Un vasto settore del marxismo novecentesco è stato dominato (si pensa ad Althusser) dall’idea che Marx sia stato anzitutto uno scienziato della società: proprio Althusser insisteva sulla «rottura epistemologica» che separerebbe il Marx giovane (i famosi Manoscritti economico-filosofici del 1844) dal Marx del Capitale, analista obiettivo della società dello sfruttamento e dell’alienazione.
Fusaro, del resto con l’appoggio di molti studi recenti, mostra che neanche l’analisi obiettiva delle strutture del capitalismo condotta nel Capitale sarebbe possibile senza l’operare, nello spirito di Marx, di un costante proposito normativo. Il termine «critica» che ricorre così spesso nei titoli dei suoi scritti - dalla Critica della filosofia del diritto di Hegel fino allo stesso Capitale che è sottotitolato «Critica dell’economia politica», ha sempre avuto per lui il duplice significato: analisi di un oggetto per determinarne il significato e valore, e smascheramento e denuncia di errori e mistificazioni.
Per questo Marx merita la qualifica di pensatore «futurocentrico»; per il quale la filosofia non deve limitarsi a descrivere (o addirittura, a contemplare) il mondo, ma deve trasformarlo (come dice la famosa undicesima delle Tesi su Feuerbach). A quella che Gramsci definirà la «filosofia della prassi» Marx giunge partendo da posizioni che condivide con i «giovani hegeliani», discepoli di Hegel che radicalizzavano in senso rivoluzionario le tesi del maestro, ma sempre mantenendosi nell’ambito di una critica teorica degli errori: così, la religione veniva smascherata come proiezione del desiderio di perfezione dell’uomo, ma tutto si limitava a sostituirvi un atteggiamento mentale filosofico.
Via via che, anche come giornalista della Gazzetta Renana, Marx acquista conoscenza concreta delle condizioni di sfruttamento in cui vivono i salariati della sua epoca, le posizioni di critica filosofica dei giovani hegeliani gli appaiono sempre più insufficienti: se l’uomo proietta in Dio una immagine di perfezione e felicità che non può avere, non basta spiegargli questo meccanismo alienante; bisogna modificare le condizioni di miseria e di infelicità in cui di fatto vive. Questo in fondo è il significato fondamentale del materialismo storico, che come lo spettro del comunismo ha tanto spaventato le borghesie di tutto il mondo.
Il Manifesto del Partito comunista, scritto nel 1848, è un lavoro «su commissione», Marx e Engels lo scrivono per mandato dalla Lega dei comunisti che si riunisce a congresso nel 1847, mentre nel 1864 parteciperanno alla fondazione della Associazione internazionale dei lavoratori, poi passata alla storia come la Prima Internazionale. Anche se da «giovane hegeliano» ha aspirato alla carriera accademica, Marx è ormai un attivista politico, anche la grande impresa scientifica del Capitale nasce in questo clima.
Ma: critica e azione politica in nome di che? Marx, nonostante le apparenze e le opinioni di tanti suoi interpreti, è un «filosofo della storia», eredita da Hegel, rovesciandone il senso puramente idealistico, una prospettiva finalistica (una traccia secolarizzata di religiosità): non che ci «sia» un senso dato della storia, ma certo l’uomo lo può creare se si progetta in un tale orizzonte. La descrizione scientifica del capitalismo ha solo senso in questa prospettiva emancipativa. Che nonostante il «sonno della ragione» mediatico-televisivo in cui siamo caduti, ha ancora, e di nuovo, la capacità di svegliare anche noi: davvero, bentornato Marx!