A Roma il XII simposio dello Iaph *
«I discorsi femministi, quando diventano studi puramente culturali, prendono derive astraenti e virtualizzate; pensare diventa allora un mero esercizio concettuale, o di affiliazione a discorsi altrui. Da questo Simposio ci aspettiamo di più, a cominciare dalle sorprese che l’esperienza - comportamenti, azioni, passioni - porta rispetto agli ordini di pensiero già esistenti e dominanti.
Il discorso in circolo con l’esperienza può avere una forza di trasformazione: la parola femminista ha avuto effetti politici. Com’è stato possibile? Come può accadere che l’esperienza acquisti una forza politica?» Con queste domande delle organizzatrici - Federica Giardini e Annarosa Buttarelli- si apre domani all’università di Romatre il XII simposio dello Iaph, l’associazione internazionale delle filosofe, dedicato al «Pensiero dell’esperienza»: tema proprio di tutto il pensiero femminista e in particolare del pensiero della differenza italiano, che della pratica del partire da sé ha saputo fare principio di pensiero e di azione politica. Improntato appunto all’esperienza del femminismo italiano, che diversamente da altri femminismi occidentali non si è mai chiuso nel perimetro dell’accademia e dell’organizzazione disciplinare del sapere, questo simposio Iaph (come pure quello che si tenne a Barcellona del 2001) non sarà riservato alle filosofe di professione ma si avvarrà anche del contributo di altre pensatrici, attive in altri ambiti disciplinari o nelle istituzioni, nelle associazioni, nel mondo del lavoro, in Italia, in altri paesi europei, nell’area del Mediterraneo, in Africa. Quattro le giornate di lavoro, dieci sessioni plenarie seguite da altrettanti workshop. Giovedì mattina, nella sala della Protomoteca in Campidoglio, dopo gli interventi introduttivi di Francesca Brezzi e Giacomo Marramao (del dipartimento di filosofia di Romatre), la sessione dedicata all’«Esperienza» con le relazioni di Françoise Collin (di cui in questa pagina anticipiamo ampi stralci), Angela Ales Bello, Luisa Muraro. Di seguito, su «Storia e memoria», Maria Milagros Rivera e Michela Pereira commentate da Elena Laurenzi. Nel pomeriggio il convegno si sposta al rettorato di Romatre con la sessione sul «Divino» (Letizia Tommassone e Erminia Macola, commentate da Rosetta Stella). Nel pomedriggio workshop e la sera, alla Casa internazionale delle donne, la sessione sull’arte. Venerdì mattina la sessione su «Governo, regole e relazioni» con gli interventi di Aminata Traoré, Londa Esadze, TAmar Pitch e il commento di Ida Dominijanni, poi Lia Cigarini sul «LAvoro» commentata da Annarosa Buttarelli. Sabato apre Barbara Duden su «Scienza e tecnologie», con i commenti di Gabriella Bonacchi, Elena Gagliasso, Caterina Botti; segue Manuela Fraire su «Sessualità e inconscio», poi Ina Pretorius, Chiara Zamboni e Wanda Tommasi su «Vita quotidiana». Domenica mattina infine la sessione sull’«Educazione» con le relazioni di Annamaria Piussi e Vita Cosentino.
Pensiero dell’esperienza, esperienza del pensiero Che cosa significa fare pensiero dell’esperienza? Dare all’esperienza forma e senso, interrogarla, giudicarla Un convegno internazionale rimette a tema e rilancia questa pratica teorica propria del femminismo
di Françoise Collin
Ogni pensiero nasce dall’esperienza ma nessun fatto d’esperienza ha significato o persino coerenza a meno di non aver subito un processo di immaginazione e di pensiero(Hannah Arendt, La vita della mente)
Le responsabili di questo incontro tra le donne e la filosofia hanno voluto sottolineare, con la dichiarazione d’intenti e il programma, che la filosofia non ha l’appannaggio del pensiero. E’ incontestabile. Il pensiero è all’opera ovunque - o perlomeno dovrebbe esserlo. La filosofia è forse semplicemente (come «la chiesa al centro del villaggio») il richiamo all’importanza del pensiero in tutta l’esistenza e più in particolare nel mondo minacciato dalle selvaggerie della strumentalizzazione, avente per unico criterio l’efficacia. «Pensare da sé e dialogare con gli altri» è un principio di salvaguardia dell’umanità.
Sono stata interpellata dalla problematica dei rapporti tra pensiero ed esperienza, e pensiero dell’esperienza, agli inizi stessi del movimento femminista, più di trent’anni fa, più precisamente all’interno della rivista Les Cahiers du Grif che avevo all’epoca fondato e che erano intesi riunire intellettuali e non intellettuali, per l’appunto attorno al concetto salvifico di «esperienza». La nostra prima rivolta ci spingeva infatti in quel momento a esercitare il sospetto su un sapere - compreso quello filosofico - qualificato come fallocratico, sapere che, lungi dall’illuminarci, ci aveva ingannate sulla nostra condizione: doveva da allora in poi essere oggetto di un «dubbio metodico» o persino essere messo tra parentesi per leggere e interpretare il reale con uno sguardo nuovo, scevro da a priori, che sarebbe finalmente stato, pensavamo, il nostro sguardo.
Ritornare alla sola esperienza - «alle cose stesse», per parodiare Husserl - era allora il nostro leit-motiv, e da questo punto di vista la testimonianza ci sembrava portare più verità sul reale rispetto alla sua analisi. Per giunta questo modo di procedere permetteva a tutte le donne, intellettuali e non intellettuali, di dire e di pensare il mondo in modo nuovo, al di là delle formalizzazioni teoriche che, in nome della ricerca della verità - «genio maligno» - l’avevano occultata e ce l’avevano sottratta per secoli.
Ci siamo tuttavia rapidamente rese conto che gli strumenti intellettuali che eravamo tentate di respingere, avendoli però interiorizzati, ci permettevano di dare forma a questa esperienza, e che le testimonianze del vissuto - la parola spontanea - prendevano senso solo attraverso una certa griglia di lettura che applicavamo loro inconsciamente e che risultava proprio dalla nostra cultura e formazione, iscritte in un linguaggio che ereditavamo.
Il solo fatto che ci riuniamo qui sotto l’egida dell’università di Roma tre e nella forma di un simposio che fa riferimento alle donne e alla filosofia (e non, ad esempio, nella strada attraverso il grido o dipingendo graffiti) mette in evidenza il carattere paradossale del nostro procedimento: questo dentro/fuori che lo caratterizza in permanenza e che ognuna, o ogni collettività locale o nazionale, cerca di sostenere con maggiore o minore riuscita. Dentro/fuori le istituzioni, dentro/fuori la tradizione dei saperi costituiti e delle narrazioni, che ci richiedono una sorta di arte acrobatica del pensiero e dell’essere per accedere a un di più di verità.
Il pensiero dell’esperienza è infatti sempre un superamento dell’esperienza che le dà forma a partire da categorie che le sono esterne e che sono riprese dalla tradizione della lingua e della cultura, compresa quella filosofica. Non è dunque credendo di sfuggirle o occultandola, bensì affrontandola e riassumendola dall’interno in modo critico, che possiamo rinnovare il sapere. Esercizio certo rischioso, perché quel che ci nutre e quel che ci avvelena (il pharmakon di Platone, come commentato da Derrida), si presenta nello stesso cibo. Esercizio rischioso che non possiamo tuttavia eludere con la scusa di sfuggire al sapere a vantaggio dell’esperienza, poiché l’esperienza non è mai vergine di un sapere inconsapevole che la struttura ed è tanto più temibile quanto più inconsapevole. Non è attraverso un processo di tabula rasa ma attraverso un processo di critica interna - una vigilanza - che può emergere la verità. Non procedere a questa critica interna, non abitare il discorso, significa lasciarlo alla propria tirannia, foss’anche occulta. Non esiste un cogito-donna, non c’è esperienza originaria a partire dalla quale ricostruire il mondo. Non c’è nemmeno creazione o pensiero femminile che non si situi implicitamente o esplicitamente in relazione, positiva o negativa, con la cultura circostante. La trasformazione dell’esistenza delle donne implica necessariamente la trasformazione delle loro relazioni con il mondo, e la trasformazione di questo stesso mondo attraverso un costante dibattito teorico e pratico con tutte le sue articolazioni. Da questo punto di vista è vero che il pensiero è all’opera non solo negli spazi specializzati, riservati a tale scopo e che pretenderebbero averne l’esclusiva - l’università ad esempio - ma ovunque si giochino modalità dell’esistenza singolare e collettiva. La verità è decentrata ed è poliglotta.
Il pensiero dell’esperienza non è un pensiero di questa, ma un modo di costituirla, di darle forma e di interrogarla al contempo. Si tratta di un atto interpretativo: non un semplice sapere ma già un giudizio. Le stesse situazioni e gli stessi eventi possono infatti ripetersi nell’esperienza senza però suscitare il pensiero. Così la situazione delle donne è apparsa per lungo tempo - anche a loro stesse - come un dato evidente e quasi atemporale, fino a quando il pensiero, distaccandosi dall’evidenza dell’esperienza, non l’ha messa in questione, ne ha fatto un dato problematico e, sottoponendola al giudizio, ne ha tracciato. Pensare l’esperienza non è dunque, o non è solo, renderne conto, rifletterla per analizzarla, bensì superarla. Il pensiero è un atto, un modo di dare forma o di ridare forma al dato.
Il pensiero dell’esperienza si avvicina sì all’esperienza ma non allo stato vergine, come si potrebbe sognarlo, ma come a un’esperienza determinata, informata da una storia, e con gli strumenti di una lunga tradizione, che si tratta non di ricusare o abolire, ma perlomeno di interrogare. Il pensiero dell’esperienza diventa allora uno strumento di lettura del mondo, e anche di rilettura dei testi filosofici della tradizione, non solo per individuarvi le lacune o i pregiudizi che riguardano la differenza tra i sessi e le donne ma, avendone preso la misura, per appropriarsene in modo critico, senza soccombervi.
La presa di coscienza da parte delle donne della loro esclusione da alcune sfere del sapere, e della loro oggettivazione riduttiva in questo sapere, ha determinato una doppia strategia: da una parte, la costituzione di sfere del pensiero e del sapere parallele e esterne all’istituzione, e al tempo stesso, a poco a poco e in modo sempre più sicuro, la loro integrazione in questa istituzione. E’ così che quel che si doveva chiamare «studi di genere» (i gender studies) si sono imposti in numerosi paesi e sono anche stati poco a poco integrati in un buon numero di università - l’Italia fa eccezione - come uno specialismo tra gli altri. Posizione eminentemente ambigua di questi studi, che rischiano di vedere eroso il loro potenziale sovversivo, aggiungendo un capitolo ai capitoli del sapere tradizionale, un’aggiunta che non sovvertirebbe il corpus del sapere ma verrebbe piuttosto a completarlo e, indirettamente, a confermarlo. Ma in compenso, la non integrazione di questi studi - la loro marginalizzazione - rischiava di esaurirne a breve il potenziale trasformativo. Il problema non è nuovo in materia di strategia: è più efficace rimanere al margine, sostenendo così una forza di radicalità, oppure integrarsi per beneficiare di alcune leve determinanti, a rischio di esserne contaminati?
Bisogna interrogare la tradizione filosofica dall’interno oppure elaborare una forma parallela di "pensare da sé" a rischio di marginalizzazione, quando non di deperimento? Il richiamo che ci viene qui fatto a un «pensiero dell’esperienza» è certo un invito a pensare quel che accade e a cui siamo confrontate, senza passare di necessità dal canale di concettualizzazione dei «filosofi di professione», secondo la formulazione ironica di Arendt, anche quando lei stessa si presentava sulla scena universitaria che ne è il vettore portante. Ma l’esperienza stessa è mai puramente fattuale - un’esperienza grezza - può mai essere non informata da una storia e da un sapere che quanto più non si formulano come tanti quanto più sono operativi? Abbiamo mai a che fare con «le cose stesse», nell’epoché della loro congiuntura e della loro storia? Il pensiero dell’esperienza non è forse sempre il pensiero di un’esperienza già informata, o messa in situazione, che richiede la sospensione critica nel mentre che la cogliamo?
Un’altra pratica è stata quella di ritrovare nei sotterranei della storia le opere di donne nate-morte, dimenticate o emarginate dalla costruzione storica del pensiero. Nel riabilitare le opere e i testi di queste donne, che malgrado gli arresti domiciliari sono riuscite a «pensare da se stesse»: scrittrici, rivoluzionarie, mistiche, che sono riuscite a sviluppare al margine del corpus dominante, malgrado l’ordine dato, un pensiero irriducibile (ma il lavoro di resurrezione delle morte non finisce troppo spesso per lasciare deperire le vive per mancanza di attenzione?).
Comunque lo si individui, il pensiero delle donne si lavora nel corpo del reale e nel corpus del sapere «patrocentrico», in un corpo a corpo diretto o indiretto, e non a partire da una tabula rasa che permetterebbe la costruzione di un sapere alternativo cosiddetto femminile. Non è un sapere altro ma un’alterazione del sapere. Non è un nuovo pensiero dell’esperienza ma il ribaltamento di questa stessa esperienza.
L’accesso delle donne all’esperienza del pensiero passa attraverso il loro accesso alla dimensione dialogica. La più grande innovazione del movimento delle donne alla fine del XX secolo è la reciproca autorizzazione a pensare che si sono date attraverso la parola e l’azione (volo ut sis, voglio che tu sia, Agostino citato da Arendt), ognuna autorizzando l’altra e autorizzandosi a essere, a pensare e a parlare, che fosse nell’accordo o nel disaccordo, perché lo stesso disaccordo conferma l’importanza attribuita all’altra. Il pensiero dell’esperienza è innanzitutto il pensiero di questa esperienza che consiste nel riconoscere l’altro/a come agente del divenire del pensiero, come depositario/a di un momento della verità. E’ il costituirsi di questo appello che fa essere l’altro e, dando credito alla sua parola, le riconosce la capacità di generare simbolicamente. Perché se, fin dai greci, il rapporto di un uomo con un altro uomo è il solo portatore di verità - essendo quello di un uomo con una donna destinato a generare un figlio - il rapporto di una donna con una donna si rivela ora anch’esso portatore della verità.
L’articolazione dialogica del pensiero mi sembra al cuore della sua vitalità. «Pensare da sé e dialogare con gli altri», mettere in relazione e a confronto «le esperienze di pensiero» che si fanno in punti diversi e secondo modalità diverse. E’ nel pensare e nel parlare insieme, nel confrontare le nostre esperienze, a partire dai luoghi che sono i nostri, che ci assumiamo al contempo il comune e il differente che ci riunisce, la posta in gioco della verità trovandosi in questo spazio a più voci, un più che viene dalle esperienze a partire dalle quali si elabora, dalla diversità degli approcci di cui sono fatte e delle lingue che le articolano.
Si può sostenere che nel rimettere in gioco il pensiero nel dialogo, nell’interpellare ciascuna e ciascuno, nel restituire all’interrogazione la sua funzione di levatrice della verità, siamo fondamentalmente fedeli all’ideale filosofico e democratico originario: partorire la verità che è in ciascuno e in ciascuna, quando interroga la propria esperienza, e metterla pubblicamente in gioco. Con questo avvertimento, non da poco: che ognuna è contemporaneamente e alternativamente Socrate e il suo discepolo, ognuna è interrogante e interrogata: è così che il dialogo di sé con sé si iscrive nel dialogo di sé con l’altro, liberando il pensiero da qualsiasi riferimento a un qualsivoglia «cielo delle Idee». Quel che taglia l’indecidibilità fondamentale della messa in questione, non è il sapere bensì l’immaginazione e il giudizio: una delucidazione dell’essere che è un far essere, una «messa al mondo». Perché non siamo chiamate ad allinearci al dato bensì a creare del senso.
Al pensiero dell’esperienza che considera l’esperienza come un fatto di cui il pensiero renderebbe conto, si sostituisce così l’esperienza del pensiero, quella che fa essere e significare l’esperienza stessa nell’indecidibilità dell’alternanza dialogica. Perché l’esperienza non è un fatto che fungerebbe da fondamento, ma è già da sempre un racconto suscettibile di essere ripreso in una nuova narrazione, di cui oggi siamo eredi e responsabili.
E’ per questo che il pensiero dell’esperienza è anche un’esperienza avventurosa del pensiero: non è tanto la delucidazione di quel che è già ma piuttosto è il far essere quel che non è ancora e di cui il/la filosofa, tanto quanto l’artista, è responsabile, a cui è assegnato/a. Pensare non è soltanto rendere conto: è sempre anche e soprattutto giudicare, e immaginare. (traduzione dal francese di Federica Giardini)
www.ilmanifesto.it, , 30.08.2006
Simposio Iaph, l’esperienza che fa la differenza
Si sono concluse domenica a Roma le quattro dense giornate di lavoro dedicate al «pensiero dell’esperienza»
di Catrin Dingler (il manifesto, 05.09.2006)
Dedicato al «pensiero dell’esperienza», il XII simposio dello Iaph, l’associazione internazionale delle filosofe, che si è tenuto a Roma da giovedì a domenica scorsi, ha avuto inizio sull’altura del Campidoglio, tra la raccolta di busti maschili della Protomoteca: una cornice ideale per riflettere sul richiamo di Françoise Collin, nella sua relazione d’apertura, agli inizi del movimento femminista.
Perché se allora le donne si spinsero «a esercitare il sospetto su un sapere qualificato come fallocratico» e a pensarsi al di fuori della tradizione maschile, oggi la loro ricerca teorica e politica non è più ristretta ai luoghi separati. «Il pensiero dell’esperienza - spiega Luisa Muraro - si inserisce tra il già interpretato e il non ancora interpretato»: il soggetto, non più neutro bensì sessuato, è chiamato a stare in questo luogo di mezzo, fra la critica dei significati in cui l’esperienza è ingabbiata e la sua risignificazione, ma senza arrendersi alla decostruzione infinita di molto pensiero (anche femminista) postmoderno.
Sui modi di vivere e pensare creativamente al centro del presente si è discusso in quattro dense giornate di lavoro al rettorato dell’università di Roma 3, organizzate da Federica Giardini. Egemone in tanti paesi (e testimoniata al simposio dalle ospiti venute dalla Germania, dall’Austria e dalla Svizzera), la strategia di matrice anglo-americana dei gender studies, che punta a integrare gli studi sul genere nelle istituzioni accademiche, è meno seguita in Italia, dove la politica delle donne ha saputo mettere in circolo la sapienza di partire da sé in una politica che non punta all’integrazione emancipativa bensì alla significazione della differenza (testimoniata soprattutto dalle filosofe italiane di Diotima e dal contributo su esperienza, storia e memoria di Marìa Milagros Rivera).
L’articolazione del simposio puntava a mettere alla prova il pensiero dell’esperienza in vari ambiti del sapere (storiografia, psicoanalisi, teologia, scienza e tecnologia, arte), della sfera pubblica (governo, lavoro, scuola), della vita quotidiana.
Nella sezione più dichiaratamente politica dedicata a «governo, regole e relazioni», Tamar Pitch e Ida Dominijanni hanno discusso del rapporto fra uso del diritto (e dei diritti) e pratica della relazione nella trasformazione dell’ordine sociale e simbolico.
Diana Sartori ha messo in guardia dal considerare irenicamente le relazioni, riportando l’attenzione sulla negatività e i lati oscuri che le attraversano. Spinta forse anche dall’intervento di Aminata Traoré, che ha parlato dell’esperienza africana della globalizzazione con toni che hanno toccato la platea intera: nel suo Malì il nome di Lampedusa evoca esperienze che eccedono i nostri discorsi sull’immigrazione, e il suo racconto della relazione fra la madre africana e il figlio che parte per l’Europa non entra in contatto con la narrazione e la rielaborazione femminista della relazione madre-figlia.
Estrapolando dal suo contesto un’espressione di Chiara Zamboni si potrebbe dire che ascoltando Traoré «il presente ci è caduto addosso». Un presente in cui il doppio trauma della globalizzazione e della fine del patriarcato (focalizzata in termini psicoanalitici da Manuela Fraire) convoca le donne a mettere in gioco ciò che la loro politica ha elaborato di meglio, non per riequilibrare lo squilibrio ma per indirizzarlo. In questa direzione Lia Cigarini, nella sezione dedicata al lavoro, incoraggia le donne a «portare tutto al mercato», non per mercificare il sapere femminile ma per fare irrompere la differenza contro l’ordine della mercificazione.
La rinuncia all’inglese accademico a favore della madrelingua o della lingua elettiva è stata talvolta faticosa ma ha anche suscitato traduzioni improvvisate e perciò più vive. La competenza simbolica dispiegata nei singoli contributi anche nei workshop non ha certo potuto risolvere tutti i problemi teorici e pratici messi in campo da queste giornate, ma le ha movimentate regalando anche qualche gesto sorprendente.
La tirannia del presente sul divenire della nascita
Il parlare tanto di genetica ha la funzione sociale di trasformare gli esseri umani in portatori di geni e il gene in qualcosa di reale
Barbara Duden, appassionata storica del corpo femminile e della sua percezione nella modernità, al XII simposio dell’Associazione internazionale delle filosofe
Un incontro su rischi e possibili antidoti alla crescente biologizzazione della vita, temi del suo nuovo libro, «I geni in testa e il feto nel grembo»
di Stefania Giorgi (il manifesto, 05.09.2006)
Appassionata storica del corpo femminile, dopo Il corpo della donna come luogo pubblico (Bollati Boringhieri,’94), testo cruciale per capire come nuove tecniche e un nuovo apparato linguistico hanno completamente mutato il modo di concepire e vivere la gravidanza - di come, «nel giro di pochi anni il bambino è diventato un feto, la donna incinta un sistema uterino di approvvigionamento, il nascituro una vita e la ’vita’ un valore cattolico-laico quindi onnicomprensivo» - Barbara Duden torna a indagare l’esperienza corporea delle donne con I geni in testa e il feto nel grembo (Bollati Boringhieri, E 28) - che sarà presentato e discusso con Maria Luisa Boccia al Festivalletteratura di Mantova (giovedì, ore 16, Palazzo San Sebastiano). Temi e riflessioni che ha portato a Roma nel simposio dell’Associazione internazionale delle filosofe, animando - con Elena Gagliasso, Gabriella Bonacchi, Tristana Dini, Caterina Botti, Elisabeth Strass - una sessione plenaria e un workshop su «scienze e tecnologie».
Il nuovo libro raccoglie gli interventi di Duden nel corso degli anni ’90, sollecitati da università, associazioni, ordini professionali, congressi scientifici, letture, mostre, sentenze. Con introduzioni e note che li contestualizzano e li riportano al presente. Un testo che mette in guardia sugli effetti di un’esperienza del corpo plasmata sempre più dalla simulazione tecnologica decorporeizzante, dalla pervasività del linguaggio del rischio e delle probabilità della genetica - subdola «come le radiazioni di Cernobyl» -, dell’orizzonte di una vita sempre più «biologizzata» per gli uomini ma, soprattutto, per le donne.
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Continuando a usare la gravidanza come evento paradigmatico, cosa mostrano i mutamenti che la fecondazione artificiale e la separazione del feto dal corpo materno stanno producendo sulla scena procreativa?
Il parto è stato, fino a non molti decenni fa, un momento di rivelazione, perché non si poteva sapere che cosa stava portando a compimento la donna. Un’esperienza di cambiamenti nel ritmo dell’essere che teneva insieme il presente e il non-dum latino. Nella gravidanza moderna quel non-ancora è stato cancellato. La visualizzazione di ciò che deve ancora nascere - attraverso «occhi» tecnologici sempre più sofisticati - già dal primo mese, separa il feto dal corpo materno, lo proietta all’esterno, lo oggettivizza e rende impossibile alle donne vivere questa esperienza corporea del divenire. Il non-ancora è distrutto dalla tirannia del presente. E tutto questo orienta il modo, storicamente inedito, in cui oggi si discute degli embrioni.
L’antica nozione del parto come momento della verità, atto inaugurale e decisivo del divenire umano, si perde in un tramonto che inizia negli anni ’70. Oggi il parto è il finale calcolato di un processo controllato che dura nove mesi. Il parto, venire al mondo dal corpo materno, principio che ha segnato la storia e la cultura umana, nella sua intimità, tenerezza e imprevedibilità, sta scomparendo dall’immaginario.
Sulla procreazione assistita occorre distinguere tra le manipolazioni nei laboratori, la loro regolamentazione e il desiderio di una donna di far nascere un bambino. Nella discussione pubblica svanisce il contrasto tra una manipolazione in vitro e il divenire in corpo di donna.
Questa cruciale differenza non viene più compresa intuitivamente, con un effetto simbolico molto forte: il laboratorio offerto come sostituto del corpo femminile. Le possibilità della tecnologia riproduttiva diventano così reificazioni del management di speranza che cambia il modo di vivere il desiderio di un bambino che non arriva.
È sciocco discutere sul numero degli embrioni da produrre e impiantare. È inquietante e dannoso il modo in cui si parla degli embrioni come esseri umani e, in particolare, come la chiesa cattolica si fissi su queste cellule, questi stadi organizzativi biologici come problema fondamentale della vita. Una società che discute in questo modo degli embrioni mette in opera quello che Ivan Illich definiva un «sentimentalismo epistemico», l’approccio sentimentale a una materia per la quale non si adatta né l’amore né l’avversione. Che in Europa il destino degli embrioni sia diventato una questione fondamentale provoca una devastazione del senso della parola umanità poiché questo «sentimentalismo» riguarda qualcosa che non è carne, non è un essere umano. Corporeizzando l’invisibile (l’embrione) e decorporeizzando il visibile il risultato è che non si parla dei bambini reali e del fatto che per essere tali hanno avuto bisogno di nove mesi nel corpo di una donna.
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Rischio, probabilità, predizione: nel descrivere l’indottrinamento strisciante della «biocrazia», nel suo libro parla del gene come «cavallo di Troia» per le donne...
La medicalizzazione degli anni ’50 riguardava in primo luogo le donne, ma non ne cancellava il corpo. Con l’ingresso dei geni nel linguaggio e nella vita quotidiana siamo di fronte a un fenomeno del tutto diverso. Il concetto di gene ha una storia molto lunga nel ’900 e nel tempo ha significato cose molto diverse. Solo negli anni ’90, e in modo massiccio con il progetto «Genoma Umano», il gene ha invaso il linguaggio comune ed è divenuto l’immagine (che è solo una fantasia) di un «elemento di vita» che tutti hanno in sé. Ma già negli anni ’80 il genetico Raphael Falck, nel saggio The Gene in Search of an Identity, ha chiarito come il gene sia un concetto che non rimanda a nulla che possa essere distinto, reificato, localizzato.
Parlare tanto di genetica ha la funzione sociale di trasformare gli uomini in portatori di geni e il gene in qualcosa di reale, sempre meno legato alla sfera personale della trasmissione ereditaria, con le sue radici nel passato e nella parentela. La funzione sociale del gene oggi è un’altra: è qualcosa dentro ciascuno di noi, che esiste già, con conseguenze non ancora prevedibili ma calcolabili secondo le regole delle probabilità. Il gene si incarna nella persona come un calcolo statistico e la genetica diventa predittiva, si riferisce sempre più a qualcosa a venire.
Lo stesso vale per ciò che si intende con «effetto gene». L’uomo comune s’immagina un difetto organico, un errore nel sistema operativo, qualcosa che c’è già e che potrebbe provocare qualcosa di terribile nel futuro. Se la donna, per esempio, ha interiorizzato l’idea di un gene per il cancro al seno, finirà con l’incarnare l’immagine di uno stato assediato dai terroristi con la conseguente necessità di un sistema di controllo sempre più fitto, di un’osservazione permanente. Il gene, dunque, allarga un orizzonte d’aspettativa negativa, crea paura e rende dipendenti da un sistema di controllo autoritario.
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Ma questo vale anche gli uomini,ad esempio per il cancro alla prostata...
La domanda è perché le donne sono così preoccupate per la loro corporeità e che cosa a che fare questa preoccupazione con la propaganda pubblica sul corpo femminile minacciato e a rischio. Il sistema della prevenzione per il cancro al seno, con le mammografie di massa, ad esempio, funziona in pochi casi. Per un numero incredibilmente alto di donne l’effetto è negativo perché c’è un numero enorme di diagnosi sbagliate. Si potrebbe parlare di una forma di lesione colposa organizzata che gli uomini di certo non tollererebbero. Ma la vera differenza tra uomini e donne sta nel fatto che il corpo femminile incarna - attraverso la sua potenzialità procreativa - una temporalità speciale rispetto al futuro che il corpo maschile non ha. In un sistema che cerca di regolare il rischio, il corpo segnato da questo legame speciale con il tempo diventa quello che più si presta, politicamente e simbolicamente, alla propaganda della fede nel gene.
Certo, dobbiamo anche chiarire la funzione sociale della medicina. Il sistema dei test genetici funziona solo perché la gente pensa che si tratta di una diagnosi medica, anche se la genetica non ha niente a che fare con il sapere e la pratica originaria dei medici. Si tratta solo di fantasie sul regolamento dei fattori di rischio. Anche se, ripeto, il riferimento tra il tipo di gene e il fenotipo è di natura statistica e talmente complicato che la possibilità della previsione individuale diventa una forma di superstizione.
La genetica modula il futuro secondo un modello in cui ciò che accadrà dipende dall’agire calcolato nel presente. E’ una pazzia che distrugge la fiducia in sé, la capacità di scelta in prima persona e rende dipendenti dalla competenza specialistica: nessuno stato corporeo è buono senza l’attestato di un professionista. La gravidanza ne è di nuovo il miglior esempio.
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Nell’irruzione del linguaggio scientifico nella vita quotidiana e nelle dispute sulla genetica applicata al vivente, c’è la possibilità, praticata in primo luogo dal pensiero critico femminista, di seguire una via che scarti la coppia oppositiva tecnofilia/tecnofobia. Nel libro, invece, lei propone un radicale «a-genetismo».
Ancora una volta si deve distinguere tra ciò che la tecnica è in grado di fare, spesso non mantenendo ciò che promette, e ciò che crea simbolicamente. E io credo che la sua funzione sociale stia nell’ordine simbolico, nel cambiamento della soggettività, della percezione dell’essere, dell’orientamento nel mondo. Ciò vuol dire, per me, che non si tratta di cercare una strada tra ottimismo e fobia, bensì di analizzare con sobrietà e senza illusioni l’effetto simbolico di questa forma di social engeneering. Con la parola carne mi riferisco a qualcosa che non si lascia definire, che ha a che fare con un sapere sensitivo e con la fiducia o sfiducia nella propria carne.
Con l’amore, la voglia di vivere, lo spreco, con un modo di percepire che non è afferrabile con una definizione normativa, che invece ha a che fare con la fiducia di poter gestire una situazione. A me pare che si finisca col perdere, anche nella discussione femminista, la possibilità di trattare la natura come grazia, bellezza, mistero e gloria della singolarità. Perciò vorrei invitare le donne a riderci sopra, a svelare la pomposa seriosità del discorso pubblico sul management della speranza e dire con chiarezza: molte invenzioni o promesse della genetica sono assurde, prive di senso. Se si capisce che l’efficacia desiderata non si verifica e, al contrario, si registrano effetti simbolici inquietanti, come la distruzione del tempo, della fiducia, mi auguro che le donne riescano a dire: lasciamolo perdere, non mi piace, non lo voglio. «No grazie».
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Ma non pensa che, oltre al controllo biopolitico, possano esserci desideri reali che la tecnologia oggi rende possibili?
Il sistema di controllo significa processi rituali che finiscono con l’assolvere a una funzione mitopoietica. Dopo una, due generazioni, vengono interiorizzati e anche la percezione corporea si modella su queste procedure.
Dobbiamo riflettere su come questi processi possano contrabbandare come desiderio delle donne il controllo ossessivo del loro corpo. Se non è stato facile per i medici convincere le donne alla prevenzione, solo trent’anni dopo il genetico ride della donna che chiede di essere informata sulla possibilità del suo embrione di essere affetto da senilità. Si prende gioco, cioè, della follia che lui stesso ha aiutato a creare. Non è facile criticare questo circuito, ma è necessario continuare a chiedersi che cosa dice questo desiderio della perdità di autorità da parte delle donne, mettersi in ascolto di ciò che veramente desiderano le donne, al di là del frame of mind che genera quello stato di preoccupazione permanente che si esprime in questa forma distorta. Ascoltare le paure delle donne assediate da aspettative, alle quali viene richiesto di essere perfette e responsabili. Oggi una donna che mette al mondo un bambino con sindrome down deve giustificarsi perfino con i vicini... Ciò che spesso viene definito desiderio è in realtà decision making, una scelta tra due opzioni calcolabili, per esempio tra cesareo e parto naturale. Due modi imparagonabili di partorire offerti come equivalenti e scelti solo in base al calcolo del rischio. Ma, su questa base, non è possibile desiderare niente. Eppure partorire non richiederebbe alcuna decisione, è qualcosa che ogni donna sa fare.
(ha collaborato Catrin Dingler)
L’eterno ritorno del trauma
di Ida Dominijanni (il manifesto, 05.09.2006)
Una lugubre coazione a ripetere sembra essersi impossessata del nostro presente globalizzato: da quando la profezia della «fine della storia» (oggi revocata in dubbio dal suo stesso autore Francis Fukujama) sembrava doverne orientare il futuro, la storia passata è diventata sempre più un archivio di traumi del passato a cui attingere non per superarli, ma per riproporne ossessivamente l’eterno ritorno. La Shoah, la seconda guerra mondiale, la guerra civile spagnola - per limitarsi a qualche esempio europeo - tornano continuamente nel discorso pubblico, soggette a ondate successive di revisionismi, in cui cambiano le interpretazioni e vengono stravolte le responsabilità, ma resta confermata l’impossibilità di elaborare il trauma, liberare la memoria, redimere il passato e, con ciò, aprire una porta per il futuro.
Questo eterno ritorno del fantasma è ovviamente in parte ineliminabile, data l’entità dei traumi suddetti, della scia di colpe che hanno lasciato, delle controversie interpretative che tutt’ora li avvolgono. Ma in parte è altresì funzionale al dispositivo della produzione di nuovi traumi che, a onta della profezia di Fukujama, muove il mondo globale con la sua guerra preventiva e permanente, i suoi ritorni ai campi e alla tortura stile Guantanamo, i suoi ordinari massacri in medioriente e altrove, le sue croniche violenze nel «continente dimenticato» africano eccetera eccetera. Se dai traumi del passato non si esce, infatti, nemmeno si libera lo spazio per l’immaginazione, prima che per la costruzione, di un mondo meno martoriato, e i traumi del presente ne escono psicologicamente, prima che politicamente e giuridicamente, legittimati.
Sono considerazioni portate al simposio dello Iaph che si è tenuto a Roma nei giorni scorsi (ne parliamo oggi a pagina 12) dalla storica spagnola Marìa-Milagros Rivera Garretas, e a me paiono tanto più pertinenti in prossimità del quinto anniversario dell’11 settembre, evento che si va imprimendo nella coscienza contemporanea come il paradigma per eccellenza del trauma senza uscita che genera altri traumi, altra risposta non essendo stata trovata alla dolorosa ferita di Ground Zero che quella della ritorsione e della guerra infinita contro un nemico incerto e onnipresente. .
Milagros Rivera è una storica impegnata nel movimento femminista, e inseriva queste considerazioni nel quadro della sua ricerca sulla differenza femminile come principio di interpretazione storica capace di mutarne i paradigmi correnti: differenza femminile significa anche relazione, capacità di agire e leggere il conflitto al di fuori dello schema amico-nemico o vincitore-vinti, e l’elaborazione dei traumi del passato, lei sostiene, può avvalersi di queste modalità per rintracciare e leggere i vissuti di quegli eventi più complessi e irriducibili allo schema amico-nemico, o per riportare a galla le istanze vitali che dal trauma si salvarono, o i legami che la violenza non impedì di tessere nella vita quotidiana, o i sentimenti positivi che riuscirono a contrastarla, tutto quello insomma che non resta compromesso dalla colpa o dalla brutalità; e questa redenzione quantomeno parziale del passato può proiettarsi sul presente e sul futuro.
Io credo che la lezione valga altrettanto per leggere i traumi del presente, liberando lo sguardo e l’ascolto per ciò che, in regime di guerra e di violenza, alla guerra e alla violenza riesce a sottrarsi, o nonostante la guerra e la violenza riesce a nutrirsi e a nutrire, in Iraq come in Libano o a Gaza: non per derubricare la devastazione che l’uso della forza provoca, ma per strappare al paradigma della forza le sue pretese di totalità, che non fanno che riprodurla.
E mi vengono in mente considerazioni analoghe proposte durante la guerra in Iraq su queste stesse pagine da Chiara Zamboni e Luisa Muraro, o l’appello di Judith Butler a elaborare l’11 settembre in termini di fragilità e di interdipendenza invece che di forza e di vendetta, o l’invito di Wendy Brown alla sinistra post-89 a ritrovare la forza politica dell’amore. Forse un principio femminile d’interpretazione storica comincia a dileguare il fantasma del trauma ritornante.