RISPOSTA A MICHEL SERRES
di Gaetano Mirabella
"Senza che noi ce ne rendessimo conto, e in un breve intervallo di tempo, (quello che separa i nostri giorni dagli anni Settanta) è nato un nuovo tipo di essere umano. Questo ragazzo, o questa ragazza, non ha lo stesso corpo, nè la stessa aspettativa di vita di chi lo ha preceduto, non comunica secondo le stesse modalità, non percepisce lo stesso mondo,non vive nella stessa natura, nè abita il medesimo spazio. nato con l’epidurale e in data prestabilita, grazie alle cure palliative non teme più nemmeno la morte. E poichè la sua testa è diversa da quella dei suoi genitori, conosce diversamente (...)" (cit. da: Michel Serres, Dalla parte dei (nuovi) bambini. Inventiamo una nuova educazione per gli studenti "Pollicino", la Repubblica 20 aprile 2011)
Le dichiarazioni di Michel Serres nell’intervista al quotidiano “la Repubblica” mi hanno entusiasmato e interessato perché le ho considerate come una conferma alle ipotesi teoriche su cui da tempo lavoro e che riguardano gli sviluppi e le modificazioni antropologiche della coscienza le cui conseguenze hanno prodotto la nascita di un nuovo tipo di essere umano.
Desidero esprimere a Michel Serres la mia ammirazione e la mia adesione alle sue idee con un mio contributo teorico tratto dal mio libro “Pensiero liquido e crollo della mente” nel quale tento di elaborare una ipotesi teorica per descrivere dinamiche che non sono state ancora adeguatamente pensate e analizzate.
Le nuove tecnologie hanno creato un amalgama tra l’identità e la “messa in scena” del sistema nervoso: da questa commistione è nato “lo spazio che sente”: I sensi potenziati dall’uso delle protesi tecnologiche (cellulari, ifones, i pod, display etcc), hanno dovuto imparare a “pensare” la realtà e questo ha prodotto una sorta di neocorpo con modalità cognitive e comportamentali ancora tutte da scoprire. L’impressione relativa alle possibili traiettorie future dei nativi del web I (Pollicino) di Serres, danno l’idea di una sorta di “nuova Terra” che ho chiamato Esternità verso cui i (nuovi) bambini sono diretti.
Michel Serres dice che “senza che ce ne rendessimo conto, nel breve lasso di tempo che va dagli anni ’70 fino ad oggi, è nato un nuovo tipo di essere umano. Questo ragazzo o questa ragazza non hanno lo stesso corpo né la stessa aspettativa di vita di chi lo ha preceduto; non comunica con le stesse modalità, non percepisce lo stesso mondo, non vive nella stessa natura né abita il medesimo spazio. Nato con l’epidurale e in data prestabilita, grazie alle cure palliative, non teme più nemmeno la morte. E poiché la sua testa è diversa da quella dei suoi genitori conosce diversamente.” L’analisi di Serres è chiara e coglie certamente la verità di un fenomeno che è stato ignorato per molto tempo e che oggi si avverte in tutta la sua portata. Tutto questo è stato preceduto probabilmente da un crollo della vecchia mente, altro evento ignorato dai filosofi e dai teorici
Ho motivo di credere che la mente, così come siamo abituati a considerarla, stia crollando e che in questo periodo della storia dell’umanità, stia nascendo una nuova configurazione che da un pensiero descrittivo, passi ad un pensiero liquido che scaturisce direttamente dalle percezioni dei sensi. Pare che il sentire stesso si costituisca come un centro di pensiero al di là del cervello, facendo delle percezioni centri di pensiero fluido, staccato dall’architettura mentale della rappresentazione del reale, mentre “scruta” le cose pensandole dall’interno della sua stessa percezione.
Il “sentire” si emancipa dall’uomo che lo ha provato e dispiega il “suo” pensiero del sentire, che non prescinde dall’uomo, ma lo riconsidera come uno degli elementi della visione o della percezione. Per i “nuovi esseri” senza mente, nessuna percezione è assoluta e indispensabile ai fini di una visione/costruzione del mondo: nessuna percezione ha diritto alla propria parte di frutti; ogni percezione fa ricominciare il “mondo” da zero, il passato non conta; le visioni del mondo sono sempre nuove e non si storicizzano più, anzi, ognuna di esse sembra duellare con la precedente per prevalere.
In questa fase liquido-moderna avendo abbandonato, o essendo stati cacciati dal loro precedente spazio/ambiente, i profughi del crollo della mente tendono ad essere spogliati delle identità che quell’ambiente definiva, sosteneva e riproduceva. Alla fine dell’era territorio/nazione/stato,.. ricominciare il viaggio verso un’unità razionale/ universale dall’onda liquida di percezione/pensiero, è impossibile poiché non c’è nessun altro sito “solido” da cui partire.
Qual è dunque la consistenza dello spazio che ci ospita? Sembra che stiamo ripassando per il tipo di spazio che fu della pittura bizantina. In questo spazio non esistono prospettive o proiezioni ma solo intensità: intorno ad un personaggio importante in una pittura bizantina, lo spazio si concentra, si organizza, cresce e cinge la figura, con la potenza di un’onda.
Il crollo della mente è avvenuto dal di dentro degli avvenimenti che si sono svuotati, misura dopo misura, senza far crollare l’involucro esterno del significante che ha continuato ad essere osservato e praticato nonostante l’esistenza di nuovi sentieri sostitutivi della mente.
Naturalmente questo porta a pensare che in questo periodo storico, stiamo andando verso la nascita di un nuova forma mentale che forse è già qui senza che noi ne siamo consapevoli. E’ problematico avanzare un’ipotesi su come questo evento abbia potuto aver luogo e per la verità è difficile anche affermare che questo evento stia veramente verificandosi. La catastrofe che stiamo attraversando è invisibile, perché accade alle spalle del linguaggio e della nostra capacità di descrizione.
Il crollo della mente è un evento che non è stato percepito e adeguatamente segnalato forse a causa dell’eccessiva attenzione verso l’intelligenza artificiale e le neuroscienze [...] L’estetica tradizionale non riesce più a spiegare che cosa accade intorno a noi, e che cosa proviamo [...]
C’è un popolo nuovo in mezzo a noi, un popolo senza nome, un popolo che si muove trascinando col mouse case, palazzi, strade, persone, auto, animali, reale compreso, in un movimento lento che sposta le città sotto un cielo poco probabile, sotto il quale avvertiamo che sorge, dal di dentro di noi, emergendo dal di sotto delle nostre stesse facce, un nuovo profilo che ci esalta e terrorizza al tempo stesso sciogliendo l’identità ch’eravamo, in un ritratto d’acqua.
Giovani elettrosciamani compiono questo lavoro, volontà d’acqua in corpi trasparenti sono all’opera e conducono se stessi e tutto il reale verso una terra che si sono promessi da soli. Sono in un corpo diverso, guardano il mondo da occhi diversi, hanno una cognitività differente, anche il loro cervello e la sua chimica sono probabilmente diversi dai nostri, essi sono su una sponda della faglia gigantesca che si è aperta sotto i nostri piedi e che crea un effetto di vortice perturbante che genera un vento che spazzerà tutti noi tra non molto tempo.
I nativi del web sono questo popolo, il neocorpo è la dimora che tentano di rendere stabile, l’esternità è la terra verso cui sono diretti. La città slitta verso nuove visioni alimentate dal pensiero del sentire dei sensi che hanno imparato a pensare una “nuova realtà” e creano la paradossale situazione in cui non si può individuare il punto in cui una cosa si trasforma nell’altra: ma intanto, una mente si scioglie e un’altra si coagula.
E allora ci è dato di “sentire” che tutto di noi è spostato di tre metri (o tre soffi, o tre misure minime) lontano dal (nostro) corpo e che vogliamo sentire il mondo lontano da noi in una proiezione dei nostri sensi al di fuori della nostra fisicità: questo modus è l’esternità stessa che s’impossessa di noi e per farlo dobbiamo entrare in un neocorpo. Oggi è in atto una diaspora dei corpi verso l’incolmabile distanza dei propri neocorpi impiantati nell’esternità.
Il silenzioso pensiero del sentire, ri-emerge oggi con grande forza per cui ritorna ciò che eravamo. Non avevamo più potuto accadere come quegli esseri formati su quel silenzioso pensiero del sentire. Che il sentire abbia un pensiero è oggi il manifestarsi di ciò che era nascosto nella tecnologia e non sappiamo ancora perché esso si sia posto davanti e prima dell’intelletto e della razionalità. Che cosa significa sentire in questa epoca è dunque la domanda che è legittimo porsi.[...]
Questo “tipo” di pensiero potrebbe essere simile alla condizione di epochè delle estasi mistiche o della percezione alterata dall’assunzione di sostanze psicotrope e degli stati di trascendenza dell’io nel samadhi degli yogi con alto grado di evoluzione spirituale. Questo pensiero scaturisce direttamente dalla percezione dei sensi; così mentre i nostri sensi “pensano”, il nostro corpo razionale può continuare a credere di essere sempre nello stesso identico punto del mondo. Ma non è così. Piano piano, ogni volta che una nuova percezione dei sensi, diviene l’oggetto del pensiero del sentire, quel bagliore fugace che s’accende, crea un’estensione del nostro corpo verso l’esternità.
L’esternità è adesso. Non c’è nulla a priori, niente che possa costituire un corpo di conoscenza perché ogni cosa è adesso. Ogni cosa è adesso e.. silenziosamente, significa che la “cosa” compare e lampeggia solo questa volta e poi mai più e quindi essa comporta la sua esistenza in un punto sconosciuto dell’esternità. L’esistenza dell’esternità si “scruta”, si scruta e si percepisce intorno al fenomeno o alla “cosa”: di essa ci si accorge poiché il comportamento degli uomini ha un’impennata verso modalità stranianti. [...] A differenza dello spettacolo che implica l’esistenza di un occhio che lo guarda, la nozione di paesaggio trae dalla sua provenienza geografica un’impersonalità che prescinde completamente dal punto di vista soggettivo. Senza la mente lo spazio diventa liquido, senza la mente lo spazio diventa ogni cosa, senza la mente il paesaggio tramonta definitivamente.
Il paesaggio è trasmutato nel sito e il sito non ha consistenza e in esso gli uomini devono affidarsi agli “organi di risonanza” dei social network per non naufragare; il web, da questa angolazione, e da questo punto d’essere è considerabile come una zattera a cui si aggrappano uomini in pericolo di affogare in menti non più sufficienti, sciolte come castelli di sabbia in un pensiero liquido. La verità di un paesaggio è una questione di aderenza e di stili di pensiero.
L’esperienza di un paesaggio/sito è una questione muta, obliqua, opposta a quello del paesaggio reale perché il pensiero liquido del sentire si raffigura anche ciò che non si vede poiché il pensiero liquido senza mente, trasgredisce anche le regole della prospettiva, inserendo nella visione sostenuta dagli organi di risonanza tecnologici, molti orizzonti e molti punti di vista. Così come accade nella pittura bizantina in cui l’eidos (la forma sovrasensibile) e la morphé (la forma sensibile), coincidono completamente, allo stesso modo, diventa percepibile che nel “sito” si attua il congiungimento tra l’invisibile e il visibile, tra il virtuale e il reale, poiché esso è il luogo in cui i due mondi si toccano. [...]
La nuova consapevolezza fluisce oggi in un ambiente cosciente che si può considerare una sorta di secondo mondo sorto su una esternità che cresce e s’innalza come un grattacielo in costruzione. In questa dimensione sempre nuova e cangiante, si muove un sentire pensante che ci svela che siamo parti di un grande corpo, che siamo “cellule pensiero” che pensano e sono pensati da un pensiero liquido. Ora dopo tremila anni siamo ancora noi la metafora del mondo? La verità è chiusa forse nei cellulari.
Tutte le informazioni che circolano nella noosfera, prima o poi tornano “giù” da noi, ma molti di noi, pur agendole, non le comprendono. Quelle informazioni sono state pensate e percepite, sentite da occhi e orecchie elettronici. Sembra paradossale ma quel pensiero del sentire che pure era nostro e che ci torna dall’etere, per noi è pressochè inutile perché incomprensibile a causa della complessità e intensità dei tanti fenomeni che ha colto.
Per supplire all’assenza di informazioni da parte della mente, si rende necessario un sentire artificiale, pilotato dall’esterno dai cosiddetti organi di risonanza, (i social network) dai quali dipendiamo come individui. Siamo alla mercè degli imperativi collettivi che corrono sui sentieri dei social network. Procedere sulla scena di un sentiero fatto di consapevolezza (di risonanza) che si dispiega in uno spazio “nuovo”, mentre ci trasmette descrizioni fondamentali sulla nostra vita sconosciuta, costituisce un’offerta allettante. Questa offerta non va accettata oltre un certo limite.
Entrare a far parte del paesaggio che sente, richiede una grande disciplina ed insieme una grande immaginazione, poiche’ dobbiamo dare un nome e un volto a cose, fatti, oggetti mai visti prima, ma soprattutto i nostri sensi devono aver imparato a pensare per riuscire a distinguere il punto d’intersezione, dove il varco tra la vecchia visione del mondo e la nuova, si apre e si accede all’accesso. Siamo condotti al varco verso la scena consapevole dalle macchine, dunque conta immensamente essere prudenti, perche’ quella che si apre dinnanzi a noi e’ una scena di guerra.
Le nuove tecnologie hanno determinato uno spostamento della nostra consapevolezza sul limite esterno del nostro corpo che confina con la scena circostante, determinando, in questo modo, un’ amalgama tra il se’ e l’esternita’. L’accesso a questo limite si accompagna alla perdita della sfera sociale e/o linguistica. Riuscire a trasferire la consapevolezza del nostro corpo quotidiano all’esternita ’tramite le tecnologie e’ un compito difficile e pericoloso. In sostanza si tratta di usare la consapevolezza come un elemento dell’ambiente dopo essersi disancorati dal linguaggio.
Essere un’amalgama che sente, deve configurarsi come un esercizio di autoconoscenza nel quale e’ possibile riconoscere il paesaggio come scena della nostra nuova presenza liquida, nella quale e’ impossibile descrivere cio’ che accade, perche’ il linguaggio e’ inadeguato a costruire sintatticamente una configurazione congruente. Dobbiamo capire che siamo ormai gli ordinatori dei luoghi senza luogo della rete.
Noi, il vuoto intelligente, dobbiamo rivestirci coscientemente di spazio per entrare nel nuovo spazio. Tra noi e l’esternità non c’è più distanza ma continuita’: noi siamo il luogo che sente, e siamo anche il fluire lungo quello spazio. Il crollo della mente, la fine dell’identità, l’eclissarsi del soggetto, il suo annegamento nel pensiero liquido-moderno, nonchè lo scorazzare tra i vari SE’ che i social network ci forniscono, pongono il problema relativo al governo e alla transizione eventuale da certe condizioni d’esistenza ad altre, da un autostato ad un altro.
Non è facile inventare un’altra educazione per gli studenti “pollicino” come Michel Serres li definisce. In generale questi ragazzi vivono in famiglie “putative” che non stimano, da cui vorrebbero fuggire e che usano per assicurarsi la sopravvivenza. Al di là dell’aspetto sentimentale, del fatto cioè se amino o no i loro genitori, c’è in loro una irreprimibile spinta a varcare una specie di confine invisibile, oltre il quale essi pensano all’esistenza di una esternità da raggiungere, come una sorta di terra promessa. E’ destinato al fallimento l’idea di rivolgersi ai “nativi” chiedendo che partecipino a programmi di educazione, poiché questo presupporrebbe in loro una volontà di rivestire o incarnare una qualche identità fra quelle che il sociale prescrive e che essi non hanno. L’abitudine di proporsi come sé differenti, offrendosi in identità multiple intercambiabili nelle chat line, il senso di disapprovazione per gli squallidi menages populistici delle loro famiglie, costituiscono deterrenti forti contro simili progetti. Bisognerebbe sapere a “CHI” ci si rivolge e con che tipo di “coscienza” abbiamo a che fare.
Relativamente alla forma e al mantenimento di una coscienza come individui senza mente, i nativi del Web sono alla mercè degli imperativi collettivi. Destinata al naufragio è l’idea di una stabilità globale e dell’esistenza eventuale di un principio là fuori, verso il quale si può partire come un cavaliere antico, (che oggi non ha cavallo, né armatura ma con-batte e si di-batte con una lattina di birra in mano, mentre balla semiubriaco di fronte ad un muro di una vecchia fabbrica al suono di musica in un rave party). E sono questi “imperativi collettivi”, sotto le spoglie di organi di risonanza elettronici, display, iphones, che determinano la sparizione del poco sé che ancora rimane.
Secondo la “relatività” la presenza della materia di cui è fatto questo Sé, dovrebbe “mostrarsi” facendo tendere lo spazio, deformandolo o meglio sarebbe dire formandolo nel sociale. Ma non avviene così per l’esternità creata tramite l’attività degli organi di risonanza sui neocorpi liquidi senza la mente. La forma dei neocorpi senza mente non è in sé pienamente compiuta, quindi è impossibile mettere in tensione l’esternità poiché quest’ultima è soltanto campitura, sfondo/contenitore indifferente.
Non sappiamo quale linguaggio parla il corpo nell’esternità e dunque diventa impossibile fornire ragioni logiche per determinati comportamenti e le risposte verbali dei nativi del web alle domande fondamentali, non hanno origine in alcun spazio mentale interiore ma in semplici camere elettroniche di compensazione e risonanza. In sostanza non può più esistere l’eventualità che una persona possa spiegare se stessa. Con la perdita del “sé” e con il crollo della mente e della capacità di narratizzare, il comportamento o risponde a ordini ricevuti in forma allucinatoria da organi di risonanza o continua facendosi guidare dall’abitudine. Il poco “sé” che rimane ha l’impressione di essere stato lasciato solo dalla Divinità costituita (dal suo emisfero cerebrale destro).
Nell’esternità come accade nel rave party, e così come accade pure, nel momento del controllo degli organi di risonanza dei social network, non c’è un analogo del sé. Il nativo senza mente non può raffigurare se stesso nell’atto di fare qualcosa, e non può prepararsi a rispondere a ciò che le esigenze del momento richiedono. Il volume d’informazione è così voluminoso e veloce che ha surclassato il sistema nervoso quindi il vecchio hardware biologico è inadatto all’infosfera e all’esternità. Per i nativi del Web bisogna guadagnare il neocorpo che serve solo una volta e solo per una percezione. Il pensiero del sentire nella condizione di liquidità inonderà le cose e la nuova spiaggia del “reale”: ad ogni ondata il pensiero del sentire bagnerà una nuova esternità per la quale ogni volta occorrerà un neocorpo senza la mente.
Riguardo alla domanda su “che cosa” insegnare, credo che i “nuovi bambini” scelgano da soli ciò che gl’interessa e in questo sono come i nomadi o come i popoli primitivi che, al contatto con una società tecnologica ne prendono solo gli elementi che ritengono utili a costruire o integrare i loro “apparati” tecnomagici per scavalcare il muro invisibile che li separa dalla libertà di una esternità. L’esternità è una “terra” che si raggiunge dall’interno di un “corpo” nuovo che si ottiene con un allenamento quotidiano a diventare “cose”, oppure situazioni, animali, gadgets, o qualunque altra cosa possa implicare un autostato “magico/tecnologico”. I nuovi “bambini” seguono training per risvegliare poteri sopiti attraverso routines neurofisiologiche per raggiungere protocolli operativi verso tensioni e intenzioni intense per entrare nel neocorpo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NATIVI DIGITALI
L’empatia virtuale di Ed Atkins
di Simona Brunetti *
L’esperienza della contemporaneità è segnata da una progressiva perdita di importanza del corpo quale luogo primario ed esclusivo di qualsiasi rapporto tangibile col mondo e con gli altri. Il nostro “abitare” un corpo materiale non ci preclude la possibilità di switchare con disinvoltura su un corpo digitale che a sua volta abita un mondo parallelo, alternativo a quello reale, e di interagire con esso sulla scia dell’idea illusoria di un trascendimento emozionale pressoché totale.
Eppure succede davvero, che “virtualmente” siamo liberi di cambiare faccia, nome e identità, accettare l’amicizia di qualcuno o cancellarlo dalla nostra vita. Virtualmente possiamo finanche morire o rimanere vivi, pur essendo morti nella vita reale. È un corpo, questo virtuale, che si configura sempre meno come surrogato e sempre più come prolungamento del corpo fisico ed emozionale, alimentando un fenomeno che è assai più evidente nelle ultime generazioni dei cosiddetti “nativi digitali”, nati cioè all’interno di una società multi-schermo e abituati ad interagire con una realtà mediata da schermi e dispositivi tecnologici di varia natura.
A tale generazione appartiene Ed Atkins, inglese, classe 1982, a cui Torino dedica due grandi mostre personali, una al Castello di Rivoli (a cura di Marianna Vecellio e Carolyn Christov-Bakargiev) e l’altra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (a cura di Irene Calderoni e della stessa Bakargiev). Di questa generazione Atkins mantiene un punto di vista “interno” al medium pur avendo, da artista, una visione accorta dei molteplici processi di riversamento della realtà nel suo epigono digitale. Egli in pratica è sia dentro che fuori quel vissuto ibrido generazionale in cui il corpo fisico individuale si espande in un corpo virtuale (dal latino virtualis che viene da virtus = forza, potenza) che racchiude in sé, appunto, tutte le potenzialità dell’essere. Un corpo “desiderante” ma anche desiderato poiché, bisogna ammetterlo, «esso ha un suo sex appeal ed è spesso molto più interessante da invitare a cena di quello reale perché la rappresentazione che costruiamo di noi è molte volte assai più sexy della banale realtà» (Luca Poma, Il sex appeal dei corpi digitali. Seduzione, amori, tradimenti, malattie e immortalità dei nostri digital body, Franco Angeli 2016).
La rappresentazione simbolica di questi corpi desideranti/desiderati si concretizza, nel lavoro di Atkins, in una serie di personaggi animati digitalmente che riaffiorano dal buio delle stanze del Castello di Rivoli su superfici-schermo sulle quali talvolta il video è sincronicamente ripetuto, seguendo una logica di compresenza che è paradigmatica dell’universo virtuale. Lo spazio espositivo diviene dunque una proiezione della scatola nera dell’inconscio: luogo da dove emergono creature digitali modellate sulle sembianze del volto dell’artista, descritte con un’attenzione iperrealistica che indulge su dettagli anatomici come capelli, salive, denti, pelli, lividi, tatuaggi, cicatrici, e che le riqualifica, illusoriamente, come corpi “di carne e sangue”. Sono uomini dalla bellezza stereotipata, persi nei meandri dell’esistenza tra abusi, noia e malattia; che ci parlano di malinconia, di morte, dello scorrere del tempo, di ricordi e che, da un primo sguardo, appaiono ben più che semplici avatar.
Atkins non si limita infatti a ricreare delle rappresentazioni virtuali del sé che vivono e agiscono in un ambiente tecnologico disgiunto da quello reale. Il suo intento è di dar vita a personaggi che ammaliano il pubblico, perché creano empatia. E lo fanno attraverso gli strumenti usuali dell’arte del sedurre. Ovvero attraverso la parola, e dunque coi soliloqui poetici imploranti e carichi di autocommiserazione con i quali ciascuno di essi getta un ponte emotivo tra sé e l’interlocutore; attraverso lo sguardo, nella loro continua ricerca di un contatto visivo con lo spettatore; e ancora attraverso la musica, nei loro canti di autocommiserazione che, nati come altrettante elaborazioni digitali della voce dell’artista, rappresentano la voce inquieta di un inconscio che anela e al tempo stesso patisce la propria mutazione nella direzione dell’umano sentire.
Quella mutazione che i personaggi di Atkins subiscono “da dentro”, in uno scenario hypersensual in cui la sensazione non è indotta e dunque esterna all’opera ma è rappresentata o, per meglio dire, personificata, a mezzo di una strategia che potremmo definire “batetica” (da bathos, parola di origine greca utilizzata dal poeta del XVIII secolo Alexander Pope per descrivere una situazione letteraria in cui l’estrinsecazione eccessiva di un’intensa emozione sfocia nel ridicolo o, addirittura, nell’osceno). Proprio per questo la potenza emotiva che gli alter-ego digitali di Atkins tentano di restituire non convince fino in fondo ed è ragione, piuttosto, di uno scetticismo diffuso nei confronti di questi surrogati emozionale di cui l’artista è consapevole artefice.
Il protagonista di uno dei video esposti a Rivoli, Ribbons (2014), un bifolco di nome Dave, sputa poesie su un amore perduto mentre fuma sigarette fino al filtro e orina dentro al suo stesso bicchiere. Egli è antipatico e al tempo stesso accattivante, proprio per quel carattere di vibrante e accorata umanità che lo contraddistingue. Ma facciamo appena in tempo ad affezionarci a lui che la sua testa si accartoccia come un pallone sgonfio, disvelando la beffa di un’esistenza vissuta solo in qualità di oggetto creato e controllato da altri.
È esattamente quel che accade al protagonista di Safe Conduct (2016), la grande installazione video a tre canali che, negli spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, è allestita in modo da ricordare i tabelloni di arrivi e partenze degli aeroporti: soggetto ai normali controlli aereoportuali di sicurezza, egli vede passare nei contenitori porta-oggetti, che scorrono sul tapis roulant verso lo scanner a raggi x, i pezzi del suo corpo smembrato da una tecnologia che teoricamente avrebbe dovuto proteggerlo. Chi è dunque il personaggio che continua con enfasi a renderci partecipi dell’ansia provocata da tale macabra esperienza? È possibile assimilarlo ancora a un’idea di umano pur essendo egli mancante di testa, braccia, gambe, mani, piedi?
Con questo ulteriore espediente narrativo Atkins spezza il cerchio magico dell’empatia tra schermo e fruitore e al tempo stesso opera una critica nei confronti di quella necessità dell’“essere visti” per “vedere” cui faceva riferimento Baudrillard con la metafora dello “specchio senza amalgama”: uno specchio dietro il quale «vediamo il mondo ma lui non ci vede, non ci guarda; ora, le cose si vedono solo se ci guardano. Lo schermo fa schermo a qualsiasi rapporto duale» (Jean Baudrillard, Il patto di lucidità o l’intelligenza del male, Cortina 2006). E così sottende l’ennesimo invito a riconoscere il limite, che va sempre più perdendosi nell’era digitale, oltre il quale le nostre vite smettono di essere il risultato di una reale interazione tra noi e il mondo; quel limite oltre il quale si esaurisce la nostra capacità di rimanere radicati nella storia in quanto soggetti immuni a qualsiasi strategia di controllo esercitata dai media.
Ed Atkins
a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio
Torino, Castello di Rivoli, 27 settembre 2016-29 gennaio 2017
a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Irene Calderoni
Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, 27 settembre 2016-29 gennaio 2017
MILLENNIALS Hannola stessa età del web. Anche se il loro agire evoca il mito di Ulisse
Il paradosso generazionale dei figli che educano i padri
di Marino Niola (la Repubblica, 29.07.2016)
Più che una generazione, sono una specie in mutazione. Con il cambiamento epocale scritto nel nome. Li chiamiamo millennials, con una definizione che evoca le incognite delle grandi svolte, l’inquietudine del numero mille. L’attesa millenaristica, le insidie del millennium bug, il debutto del nuovo millennio, con il suo carico di angosce paralizzanti e innovazioni esaltanti. Un triplo concentrato di storia allo stato puro in undici lettere e quattro sillabe. Di più zippato c’è solo il poema di Aramis, il più letterato dei tre moschettieri, ventimila versi in una sillaba sola.
Nata nei primi anni Novanta come millennial generation, in origine l’espressione designava coloro che sarebbero diventati adulti con l’avvento del Duemila. Gli inventori, William Strauss e Neil Howe, avevano bisogno di un’etichetta semplice per classificare nella loro teoria delle culture generazionali i bambini nati fra il 1982 e il 2004. Ragazzi che hanno la stessa età, e lo stesso dna, di internet. Tanto è vero che li hanno identificati anche come generazione internet e, in seguito, come nativi digitali. Perché a disegnarne il profilo collettivo e a definirne il destino storico è la rete. Che ne ha fatto i protagonisti di un testacoda generazionale senza precedenti. Perché per la prima volta i figli della galassia virtuale hanno invertito i flussi di trasmissione della cultura e dei valori. Perché sono fatti a immagine e somiglianza del web, ne compartecipano l’orizzontalità, la simultaneità e l’assenza di autorità. E perché si sono fatti maestri di se stessi. Ma anche nostri.
Una volta i modelli culturali, i contenuti dell’insegnamento, le regole del comportamento, avevano un andamento discendente. Saperi, esperienze, conoscenze, competenze passavano dagli adulti ai giovani. Oggi è sempre più vero il contrario. Le istruzioni per vivere hanno un moto ascendente, dagli under agli over. Gli stili di vita, la moda e il dress code, le aspirazioni, le emozioni, i costumi, i consumi hanno un segno sempre più giovanilista. E di questa inversione di polarità, la tecnologia è la causa efficiente e, insieme, l’icona dominante. Quella che cattura il sentimento del tempo, che linka il passaggio dall’età della stampa a quella dello schermo, dall’elettrico all’elettronico, dal pensiero analogico a quello digitale, dal mondo della diacronicità a quello della sincronicità, dalla Galassia Gutenberg alla Galassia Zuckerberg.
La naturalità con cui i nativi stanno di casa nella tecnologia, li ha sparati molto più avanti dei loro genitori e insegnanti. Se la simultaneità, che è la cifra profonda della società liquida, fa fuori la cronologia, l’anteriorità del prima e la posteriorità del poi, rende di fatto superfluo ogni rituale di iniziazione e revoca i fondamenti stessi dell’educazione.
Addirittura oggi l’iniziazione funziona alla rovescia, nel senso che sono i nativi digitali a iniziare i loro genitori, portati dalle onde del web come migranti in cerca di approdi. Richiedenti asilo in un mondo nuovo e pieno di promesse, di cui i ragazzini custodiscono gelosamente le chiavi. Sono loro a decidere se e quando aprire cancelli e cancelletti a mamme, papà e insegnanti. È una lotta impari fra grandi che si arrampicano faticosamente, e volenterosamente, sulle scale impervie dell’alfabetizzazione tecnologica e la facilità irridente di pischelli che sembrano nati imparati e surfeggiano leggeri sulle onde del web.
In fondo sono l’incarnazione tech dell’intelligenza multifunzione di Ulisse. Il grande archetipo del multitasking. Non a caso Omero lo chiama polytropos, cioè ingegno multiforme. E forse, a guardarlo dalla nostra prospettiva, la sua navigazione ondivaga, piena di distrazioni e di deviazioni, fa pensare al labirinto liquido della rete dove i ragazzi dot.com amano perdersi in una simultaneità orizzontale, piena di diversioni e di seduzioni. Del resto, come diceva Walter Benjamin, il labirinto è la via di chi non vuole arrivare alla meta. E proprio così ci appaiono spesso i nostri piccoli nerd. Il loro rapporto tra mezzi e fini ci spiazza e ci irrita, soprattutto quando si tratta dei nostri figli. Non riusciamo a decidere se ammirarli, invidiarli o detestarli.
Anche per questo, la loro disarmante competenza innata ci fa quasi rabbia, il loro dadaismo digitale, pieno di ironia e qualche volta di sufficienza nei nostri confronti, ci fa sentire ininfluenti, incompetenti, vagamente dementi. Mentre loro ostentano una scienza infusa che, di fatto, rottama i tutori. E li sostituisce con i tutorial.
Secondo una ricerca dell’Università di Stanford scrivono molto più delle generazioni precedenti e, soprattutto, hanno elaborato linguaggi, codici ed estetiche che bypassano la scuola. Adesso sono app e youtube, forum e chat che forniscono info e consulting, guide e counseling. Con guru under 20 che postano lezioni su tutto lo scibile, il fattibile e il pensabile. Come imparare ad usare l’ultimo programma di montaggio o avere un makeup impeccabile h24. Ma anche l’arte di fare ordine nei cassetti, corsi di pittura, fitness, compressione dei file, chitarra e perfino l’how to play per suonare Mozart. E ancora, disegnare manga e intonare mantra, l’abbici del cake design, i trucchi di instagram, l’autoproduzione di cosmetici bio, come nutrirsi correttamente, le mosse del gangnam. Senza trascurare i classici, autostima e automassaggio, cucina e cucito, inglese e cinese. E la mappa concettuale per l’esame di maturità.
In questo oceano del possibile, i ragazzi, che a 15 anni inventano start up milionarie, appaiono molto meno spaesati di quegli adulti che pontificano su di loro. O li inseguono affannosamente, nello sforzo patetico di catturarne l’attenzione, di intercettarne i valori, finendo invece per esserne catturati. E diventare, come diceva Guillaume Apollinaire, figli dei propri figli.
Noi dubbiosi pre-Internet con il naso nella Treccani
di Stefano Jesurum (Corriere della Sera, 07.05.2011)
Uno dice: beati i giovani, che con cinque clic trovano tutto su Wikipedia, fanno domande- le più bizzarre- e ricevono le giuste risposte sui siti di Q&A (questions and answers). Non come noi che arrancavamo tra enciclopedie, dizionari, vocabolari, compendi, manuali di ogni genere.
Ma chi dice beati i giovani non fa i conti con quel piccolo particolare, senza tempo e senza età, che è proprio del genere umano e porta il nome di ansia. Così finisce che gli «ansiosi» - anche quelli moderni -, dopo aver compulsato i loro bravi clic, si ritrovino in preda al dubbio col naso appiccicato alla vecchia Treccani, allo Zingarelli, al Mereghetti piuttosto che all’elenco del telefono. E chissà quante generazioni ancora passeranno prima che l’online dia (agli ansiosi s’intende) la medesima sicurezza della carta ingiallita.
I maestri chiamano Yam quell’insieme di commenti e regole dell’ebraismo che è il Talmud, e Yam significa «mare» . E chi utilizza Internet non «naviga» forse in Rete? Entrambi i mari- chiarisce Jonathan Rosen in Talmud e Internet, Einaudi- sono enormi continenti fatti di materia fluida come l’acqua, al cui interno vivono miliardi di informazioni. Che tocca sempre alla nostra intelligenza filtrare e interpretare. Tanto per metterci tranquilli (e non scrivere/dire strafalcioni).
Il mito della caverna e la caverna del mito, continua la lotta
Il mito della caverna e la caverna del mito. Osama, Obama, il nemico e il salvatore del mondo. La bara del demonio, l’antico mare, i Servizi americani. Gli Usa hanno bisogno dello spettacolo e del ridicolo, per celebrarsi e promuovere il nuovo corso, di cui prova inconfutabile sarebbe la riforma sanitaria del presidente democratico.
di Emiliano Morrone *
La Cia ha dichiarato che Bin Laden era nella sua villa blindata in Pakistan, prima della morte. Ricercato e bombardato ovunque, era una specie di Riina, per la bravura a nascondino. Stava quieto dentro al forte, ci racconta la stampa planetaria. Da lì, allora, diramava i suoi messaggi in video: "morte agli infedeli" e appelli alla lotta religiosa.
Bisognerebbe sapere quanti statunitensi, magari distrutti dalla crisi o costretti al lavoro disumano con paghe da miseria, sono disposti a crederci.
Il liberismo culturale imposto dai dominatori della Terra è, anzitutto, sorgente e mezzo della menzogna. La persuasione si realizza, scandirebbe Chomsky, grazie agli oligopoli dell’informazione.
Alla fine, ogni costruzione inverosimile, tipo l’azione intelligente contro Osama, diventa verità rivelata. Di default. Guai agli obiettori. Il meccanismo, e non il soggetto cinematografico, è uguale nella vicenda a luci rosse della nipote di Moubarak.
Il pensiero liquido che pensiamo - per rammentare una formidabile analisi di Gaetano Mirabella sulla perdita di centralità e identità dell’utente web - è funzione dell’antropologia e ontologia degli individui, persi in un’oceano di notizie e stimoli virtuali. Ma, questo pensiero, rassegnato, è anche il risultato del massacro nel lavoro: disoccupazione, precarietà, sfruttamento; i problemi di un’Italia priva, ormai, di sindacati. Tranne Fiom.
Nel contesto, drammaticamente reale, ci sono due strade: l’alternativa culturale e la piazza. A oltranza.