L’amore (charitas) di Dio, il Logos del dia-logare ....

I commenti di Khaled Fouad Allam e di Aref Ali Nayed alla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, a cura di Sandro Magister.

giovedì 5 ottobre 2006.
 

[...] siamo alle prese con una eurocentrica e grecocentrica arrogante esaltazione del cristianesimo. Lascio ai teologi cristiani latinoamericani, africani e asiatici di esaminare questa strana appropriazione.

Per una Chiesa che è oggi del tutto internazionale, il papa davvero va fuori strada quando estrania tutto ciò che non è dentro la cultura greco-europea. Egli in sostanza sostiene che elementi greci ed europei sono fondamentali per la fede cristiana stessa. Io trovo l’intera sua tesi pericolosamente arrogante. Non sono solo l’islam e i musulmani ad essere minacciati. Sinceramente credo che questa lezione debba mettere in allarme insieme i musulmani, i cristiani e gli ebrei.

La posizione che crea allarme non è solo quella di un professore o un teologo, ma di un pontefice cattolico romano che guida milioni di uomini. È quindi urgente e vitale che musulmani, cristiani, ebrei e studiosi laici entrino in controversia col papa e sfidino le sue visioni non solo sull’islam, ma anche su ciò che significa essere uomo ragionevole e su ciò che significa essere europeo [...]

Due studiosi musulmani commentano la lezione papale di Ratisbona

Sono Khaled Fouad Allam e Aref Ali Nayed. Il primo più in accordo con Benedetto XVI, il secondo molto critico, in un suo saggio qui pubblicato in anteprima. Fede, violenza e ragione al centro del confronto tra cristianesimo e islam

di Sandro Magister *

ROMA, 4 ottobre 2006 - Tra i commenti di parte musulmana alla lezione di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona, due sono emblematici.

Il primo è uscito il 13 settembre sul più importante quotidiano liberal italiano, “la Repubblica”. Ne è autore Khaled Fouad Allam, nato in Algeria, residente in Italia, professore di islamologia alle università di Trieste e di Urbino, molto letto e ascoltato in campo cattolico.

Di questo commento va notata la data. L’articolo è uscito la mattina dopo il discorso del papa a Ratisbona, quando ancora non era partita dal mondo musulmano l’ondata di invettive e atti violenti che avrebbe riempito le cronache dei giorni successivi e costretto al silenzio le voci islamiche non allineate.

La tesi centrale del commento di Allam è che Benedetto XVI ha legittimamente sollevato “un immenso problema riguardo alla reale posizione del Corano di fronte alla questione della violenza”; che su tale questione il Corano “può essere letto secondo opposte interpretazioni”; e che quindi “è necessario spezzare la terribile catena del fondamentalismo” che ignora la condanna coranica della violenza e “si autoproclama unico detentore della verità”.

Il secondo commento è di un teologo e filosofo arabo, Aref Ali Nayed. Non è ancora uscito nella sua stesura integrale, ma www.chiesa ne anticipa più sotto un’ampio stralcio, per gentile concessione dell’autore.

Per Nayed, al contrario che per Allam, violenza e intolleranza sono invece estranee all’islam. E il papa offende questa religione quando le chiede di sposare non la violenza ma la ragione.

Anche Nayed è conosciuto e ascoltato dentro la Chiesa cattolica. Nato in Libia, attualmente managing director di un’azienda tecnologica con sede negli Emirati Arabi Uniti, ha studiato filosofia della scienza ed ermeneutica negli Stati Uniti e in Canada, ha seguito corsi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e ha tenuto lezioni al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica. È consulente all’Interfaith Program dell’università di Cambridge. È musulmano sunnita osservante e si qualifica “di scuola Asharita in teologia, Malikita in giurisprudenza e Shadhilita-Rifai nell’orientamento spirituale”.

All’inizio del suo lungo saggio - nelle pagine qui non riprodotte - Nayed si dichiara d’accordo con Benedetto XVI “sull’importanza di approfondire e allargare il concetto occidentale di ragione al fine di includervi il contributo che la religione rivelata può dare”. Ma per il resto le sue critiche al papa soverchiano di gran lunga gli apprezzamenti.

A Benedetto XVI Nayed rimprovera, tra l’altro, di affidarsi ad esperti di islam troppo “ostili” nei confronti di tale religione. E tra questi cita i gesuiti Christian Troll e Samir Khalil Samir, chiamati dal papa a introdurre il seminario di studi con i suoi ex allievi a Castel Gandolfo nel settembre del 2005, sul concetto di Dio nell’islam.

Piuttosto che a costoro, Nayed suggerisce a Benedetto XVI di chiedere lumi a “orientalisti cattolici” da lui ritenuti più ben disposti con l’islam, tipo Maurice Borrmans, Michel Lagarde, Etienne Renault, Thomas Michel, come pure agli arabocristiani Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme, e Georges Khodr.

Nayed lamenta inoltre che Benedetto XVI abbia rimosso l’arcivescovo Michael L. Fitzgerald dalla presidenza del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.

Ma le critiche più radicali - teologiche, filosofiche e storiche - Nayed le rivolge contro Benedetto XVI là dove analizza punto per punto la lezione di Ratisbona a partire dalla citazione fatta dal papa di un testo medievale dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo.

È da qui che parte anche l’ampio stralcio del saggio di Nayed riprodotto più sotto.

Ecco l’uno dopo l’altro i due commenti:

1. “È necessario rimettere il Corano nelle mani di ciascun musulmano...”

di Khaled Fouad Allam

Gli attentati alle torri gemelle perpetrati da Al Qaeda, il massacro dei bambini di Beslan ad opera di un gruppo fondamentalista ceceno e i massacri in Algeria firmati dal GIA sono un prodotto dell’islam come tale oppure sono un prodotto dell’attuale sequenza storica dell’islam? La violenza sarebbe contenuta geneticamente nell’islam?

A questa grave e inquietante domanda papa Benedetto XVI, dalla cattedra dove alcuni anni fa insegnava a Ratisbona, ha cercato di rispondere citando sure e versetti del Corano e racconti sul profeta Mohammed.

Il Santo Padre ha citato un celebre versetto della sura più lunga del Corano, la sura della Vacca, composta da 286 vers etti, una sura che - per precisare l’affermazione del papa - non fa parte delle sure della Mecca ma di quelle di Medina: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”.

Va ricordato che il Corano è composto da 114 capitoli detti sure, ed è suddiviso al suo interno a seconda della provenienza delle sure. Le sure cosiddette meccane corrispondono all’inizio della rivelazione coranica e ritraggono un Profeta solo, che non ha ancora la consapevolezza di formare una comunità, formazione che avrà luogo dal 622 fino al 632, data della morte del Profeta.

Nel periodo medinese, in cui si struttura la prima comunità dell’islam, la rivelazione continua. Per i musulmani, ciò significa che la profezia continua a ispirare la comunità. Le sure dette medinesi sono quelle che hanno strutturato l’islam dal punto di vista giuridico, politico e sociale, e hanno un carattere meno escatologico di quelle meccane.

La differenza fra sure meccane e medinesi è dunque estremamente importante, perché su questo punto nell’islam si sono innescate varie polemiche. Ad esempio, anni fa un celebre teologo e intellettuale sudanese, Mohammed Taha, affermò che le sure medinesi, che sono le sure più politiche del Corano, corrispondono ai quadri mentali e psicologici di un islam del VII secolo, e che probabilmente il profeta Mohammed, non avendo mai visto la stesura definitiva del testo coranico, non avrebbe inserito le sure medinesi nel testo coranico ma in un altro testo.

In seguito a quelle affermazioni, il teologo Taha fu condannato a morte dal regime sudanese per apostasia e fu impiccato nel 1983.

Il Santo Padre solleva dunque un immenso problema riguardo alla reale posizione del Corano di fronte alla questione della violenza.

Il problema è veramente complesso, perché il testo coranico non può considerarsi un semplice libro: ha bisogno di uno strumento per essere chiarito e interpretato. Già il celebre Averroè nel suo trattato dal titolo “L’accordo fra religione e filosofia” affermava: “Esistono nella legge divina, il Corano, dei passaggi che hanno un significato esteriore, la cui interpretazione è obbligatoria per gli uomini nella dimostrazione razionale, e che essi non possono interpretare alla lettera”.

Lo strumento del commentario coranico è fondamentale. Già secoli fa la teologia classica aveva messo in luce le contraddizioni all’interno del Corano fra versetti abroganti e versetti abrogati, risolvendole affermando che se vi sono due principi in contraddizione tra loro, il principio positivo abroga quello negativo.

Il celebre versetto citato da papa Benedetto XVI può essere letto secondo due opposte interpretazioni.

Secondo la teologia classica - e secondo la teologia di tipo liberale - questo versetto dovrebbe abrogare tutti i versetti che incitano alla violenza.

Ma oggi, in una situazione caratterizzata dal monopolio di una teologia neofondamentalista, è quel versetto che viene invece di fatto abrogato, nel senso che molti non ne tengono assolutamente conto, come fanno ad esempio i salafisti.

Il problema dunque non è tanto ciò che è contenuto nel testo coranico, ma come gli esseri umani si ispirino ad esso, alla rivelazione. Perché tutte le società producono la violenza; ma non tutte risolvono la questione della violenza secondo gli stessi metodi.

Il cristianesimo ad esempio, come ha brillantemente dimostrato René Girard, risolve il problema della violenza attraverso la figura di Gesù Cristo e la sua crocifissione.

Nell’islam invece tutto è demandato alla capacità dei singoli esseri umani di scegliere tra il bene e il male, come recita un versetto del Corano: “Dio non cambia il vissuto degli uomini finché essi non cambino per primi”.

Ma perché ciò avvenga è necessario rimettere il Corano nelle mani di ciascun musulmano, vale a dire spezzare la terribile catena del fondamentalismo che si autoproclama unico detentore della verità.


2. “L’immagine di un islam violento e irragionevole è fondamentale nella lezione di Benedetto XVI...”

di Aref Ali Nayed

[...] Dopo l’amabile esordio della sua lezione, Benedetto XVI improvvisamente evoca un lascito sconvolgente:

“Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue”.

Non è chiaro in che senso il dialogo del Paleologo abbia fatto “tornare in mente” a Benedetto XVI “tutto questo”. Avrei preferito pensare che a Benedetto XVI fosse tornato in mente il valore della discussione ragionata basata sulla comune umanità, per il fatto che un cristiano e un musulmano tenevano una discussione ragionata nel pieno di una guerra d’assedio. Ma purtroppo penso che una più probabile interpretazione sia che a Benedetto XVI sia tornata in mente la presunta intima relazione tra la fede cristiana e la ragione per il fatto che un cristiano, messo a fronte di un islam violento, tuttavia concentrava l’attenzione proprio sull’equazione tra fede e ragionevolezza.

Benedetto XVI, prendendo spunto da una situazione di “assedio”, fa rivivere una scena dell’assedio di Costantinopoli, con tutto il simbolismo ad esso associato:

“Fu presumibilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le - come si diceva - tre ‘Leggi’ o tre ‘ordini di vita’: Antico Testamento, Nuovo Testamento, Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento - piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo - che, nel contesto del tema ‘fede e ragione’, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema”.

È strano che Benedetto XVI abbia selezionato un punto riconosciuto “marginale” di un oscuro dialogo medievale, scritto in un momento particolarmente anormale e teso, per cercare un “punto di partenza” della sua riflessione su “fede e ragione”. Uno potrebbe immaginare un numero infinitamente ampio di possibili punti di partenza più diretti ed efficaci.

Molti punti di partenza alternativi avrebbero aiutato Benedetto XVI a sviluppare i suoi punti su fede e ragione senza usare uno sfigurato fantoccio dell’islam. Il legame tra il dialogo medievale e il punto centrale della lezione risulta artificiale e distante; evocare quel dialogo senza un motivo necessario danneggia le relazioni cristiano-musulmane. In un tempo in cui abbiamo veramente bisogno di sanare queste relazioni.

Inoltre, di tutte le sezioni del libro dell’imperatore, il papa sceglie di concentrare l’attenzione su quella concernente la guerra santa o Jihad:

“Nel settimo colloquio- controversia edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della Jihad, della guerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: ‘Nessuna costrizione nelle cose di fede’. È una delle sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa”.

È anche interessante che Benedetto, invocando l’autorità di anonimi “esperti”, sbrigativamente liquidi la chiara e normativa regola del Corano ‘Nessuna costrizione nelle cose di fede’ asserendo che essa fu sostenuta da Maometto (la pace sia sopra di lui) in tempi di debolezza.

Invece di valorizzare questa regola e sfidare i musulmani di oggi a conformare ad essa la loro vita, il papa liquida un’importante risorsa islamica per la ragionevolezza e la pace vedendo in essa una falsa posizione islamica che fu sostenuta solo a motivo di una temporanea mancanza di potere.

In nessun momento della storia giuristi musulmani hanno autorizzato legalmente la conversione forzata di popoli di altre religioni. Questo vitale versetto è stato il fondamento della tolleranza che i musulmani hanno mostrato concretamente verso i cristiani e gli ebrei che vivevano in mezzo a loro. È molto pericoloso per il papa liquidare un versetto coranico che ha formato nei fatti e forma tuttora una garanzia di salvezza giuridica e storica per i cristiani e gli ebrei che vivono tra i musulmani.

Per di più, la scoraggiante asserzione da parte di Benedetto XVI che Maometto (la pace sia sopra di lui) abbia cambiato a capriccio i principi e gli insegnamenti giuridici dell’islam, a seconda della sua debolezza o forza, è semplicemente una eco di ostili vedute pregiudiziali che affiorano ogni volta nella polemica cristiana e occidentale contro l’islam. Più saggi e misurati consigli avrebbero salvato Benedetto XVI dall’adottare simili pregiudizi.

L’immagine di un Profeta opportunista, che Benedetto XVI evoca di passaggio, è profondamente dolorosa e offensiva per i musulmani. Che cosa avrebbe provato Benedetto XVI se dei musulmani avessero sostenuto che la Chiesa cattolica è diventata tollerante con i musulmani e gli ebrei solo dopo che ha perso il suo potere in Europa, e che questa tolleranza è stata assicurata nei fatti dagli stati secolari e non dalla Chiesa, che l’avrebbe fatta propria solo opportunisticamente? Un punto come questo è prevedibile che arrechi dolore ed offesa. Si immagini, poi, il dolore e l’offesa che noi musulmani proviamo quando Benedetto XVI sostiene che il nostro amato Profeta è un opportunista che insegna una cosa quando è senza potere, solo per capovolgerla quando diventa più forte.

Benedetto XVI prosegue:

“Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il ‘Libro’ e gli ‘increduli’...”

Di nuovo, Benedetto XVI stranamente liquida, di passaggio, un’altra risorsa islamica per la tolleranza nei confronti dei cristiani e degli ebrei. L’islam ha sempre distinto tra il “popolo del Libro” (i cristiani e gli ebrei) e i semplici pagani. Il popolo del Libro che vive nelle comunità islamiche ha sempre avuto garantiti i diritti a pregare in pace grazie soprattutto a questa importante distinzione. È molto importante notare che alcuni dei ragionamenti d’odio di recenti terroristi pseudo-islamici hanno fatto di tutto per dissolvere la distinzione tra cristianesimo e paganesimo (chiamando i cristiani “adoratori della Croce”) precisamente al fine di rimuovere la protezione giuridica garantita al cristianesino e all’ebraismo dalla giurisprudenza islamica. Benedetto XVI sembra implicare che queste distinzioni sono di scarsa importanza e solo nascondono la pretesa intolleranza dell’islam.

Quindi Benedetto XVI arriva a citare uno dei più sconvolgenti passaggi del discorso dell’imperatore:

“Egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto di stupirci, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: ‘Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava’”.

Questo passaggio carico d’odio e di offesa è quello che i media hanno più ripreso e contro cui si sono per lo più scagliate le reazioni popolari musulmane.

Tragicamente, Benedetto XVI, avendo evocato dal suo storico letargo questo brano di letteratura dell’odio, manca di prendere personalmente le distanze dall’opinione del suo autore originale. Egli usa termini come “brusco”, “al punto da stupirci”, “in modo così pesante”. Ma in ogni caso, nessuna di queste epressioni costituisce un giudizio negativo o un rifiuto dell’opinione dell’autore originale. In realtà, esse possono anche essere lette come indicative di un sottile sostegno a una supposta audacia magari un po’ incauta.

Quando uno cita gratuitamente un testo molto oscuro che esprime cose piene d’odio ha l’obbligo morale di spiegare perché ha voluto citarlo e l’ulteriore obbligo di replicare ad esso e di eliminare l’odio che vi è espresso. Altrimenti, è più che ragionevole pensare che la persona che cita il testo offensivo lo intende e condivide le vedute espresse in esso.

Affermare che non era presente nessun intento offensivo e che i musulmani semplicemente non hanno capito il testo, angosciosamente aggiunge insulto ad ingiuria. Questo è il motivo per cui le quasi-scuse di Benedetto XVI non sono state ritenute sufficienti da molti musulmani. Tutte le prese di posizione vaticane fin qui avute, compreso il discorso di Benedetto XVI, si rammaricano per il fatto che i musulmani avrebbero male interpretato la lezione del papa e avrebbero reagito male ad essa.

Un simile approccio semplicemente accusa i musulmani di mancanza di comprensione e di reazione sproporzionata. Questo approccio, invece di mitemente e umilmente ammettere l’offesa che si è recata, biasima gli offesi per il modo sbagliato con cui hanno preso l’insulto! Molti fedeli cattolici, sfortunatamente, hanno visto il rifiuto musulmano delle quasi-scuse e le reazioni emotive dei musulmani alle parole sul loro Profeta (la pace sia sopra di lui) come indicative della corretta ed eroica posizione di Benedetto XVI.

Benedetto prosegue:

“L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. ‘Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia... Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte...’"

Curiosamente, se uno consulta un buon libro di esegesi coranica classica (Tafsir) per un’esegesi del versetto “Nessuna costrizione nelle cose di fede”, troverà spiegazioni che sono molto simili a ciò che l’imperatore dice a proposito del cuore e dell’anima come dimora della fede. Tutti i trattati teologici musulmani hanno una sezione sulla fede (Iman). C’è unanimità tra tutti i teologi musulmani nel ritenere che la fede risiede nella dimora del cuore o dello spirito e che nessuna costrizione fisica può mai intaccarla.

È interessante notare che Benedetto XVI è stato per molti anni prefetto della fede della Chiesa cattolica. Il prefetto della fede è la lontana versione moderna dell’Inquisizione. L’Inquisizione raramente rispettava la santità del cuore umano in materia di fede. Tragicamente, per musulmani ed ebrei, specialmente in Spagna, la Chiesa usava una terrificante batteria di tecniche di torture fisiche per far convertire musulmani ed ebrei al cristianesimo. L’Inquisizione non si attenne mai a criteri come quello dell’imperatore: “Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte”. Tutti dovremmo imparare da questo criterio.

È coranicamente normativo per i musulmani chiamare al sentiero di Dio con saggezza, consigli pacati e discussione corretta. Niente stabilisce nell’islam che si torturi per convertire la gente. L’Indonesia e la Malesia contano più musulmani che tutti i paesi arabi sommati. Nessun esercito ha mai invaso quelle terre. Come si è diffuso là l’islam?

Tuttavia sarebbe disonesto o ingenuo asserire che nessun esercito musulmano ha mai conquistato qualche terra. In ogni caso, creare un dominio nel quale Dio può essere liberamente adorato non comporta convertirne gli abitanti con la forza o con la “spada”. Le conquiste musulmane raramente si sono trasformate in conversioni forzate. La prova è evidente: terre dominate dai musulmani hanno ancora minoranze cristiane. Quanti musulmani o ebrei sono rimasti in Spagna dopo che i cattolici Ferdinando e Isabella l’hanno riconquistata?

Curiosamente, dei musulmani, come immigranti, sono stati in grado di rientrare in Europa sotto le politiche multiculturali dell’Europa secolare. Se la Chiesa cattolica avesse mantenuto il potere questo sarebbe stato possibile? Lo stesso Benedetto XVI è famoso per aver respinto la richiesta della Turchia di diventare parte dell’Europa per mancanza dei diritti religiosi e delle credenziali culturali.

In alcuni passati documenti vaticani i musulmani sono stati talvolta richiesti di dimenticare il passato (quando riguarda l’Inquisizione o le Crociate). Nell’islam, il riconoscimento e il rammarico sono necesssarie precondizioni di veri pentimento e perdono. Benedetto XVI, citando con fare compunto le odiose accuse di un imperatore morto tempo fa, dimentica in modo stupefacente l’uso della tortura, la crudeltà e le violenze nella storia della Chiesa cattolica, non solo contro i musulmani, ma contro gli ebrei e gli stessi cristiani.

La violenza inflitta, o appoggiata, dalla Chiesa cattolica si è prolungata fino ai tempi moderni attraverso il sostegno alle conquiste coloniali europee del resto del mondo. I missionari, specialmente gesuiti, andavano mano nella mano con i colonialisti nelle Americhe, in Africa e in Asia. Nella mia Libia natale le armate fasciste italiane e le squadre della morte erano benedette dalle locali autorità cattoliche nelle piazze delle cattedrali prima di partire in caccia dei combattenti della resistenza libica. Questo avveniva alla fine degli anni Trenta. I soldati etiopici che i fascisti facevano marciare alla testa delle armate italiane portavano grosse croci rosse sui loro petti, proprio come i Cavalieri di San Giovanni quando fecero strage degli abitanti di Tripoli nel Cinquecento.

L’immagine di un cristianesimo non violento ed ellenisticamente ragionevole contrapposto a un islam violento e irragionevole è fondamentale nella lezione di Benedetto XVI. Questa immagine di sé è spaventevolmente superba e dimentica troppi dolorosi fatti storici. È molto importante per il nostro mondo che noi tutti cominciamo a vedere le travi che sono nei nostri occhi, piuttosto che le pagliuzze negli occhi dei nostri fratelli.

Benedetto XVI dice poi:

“L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria”.

L’“affermazione decisiva” di Benedetto XVI è: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. Questa affermazione è molto complessa ed è aperta a molte interpretazioni e discussioni. Ciò che stupisce è la rapidità e la facilità con cui essa è utilizzata per dar corpo a ciò che finisce per essere uno sconvolgente falso contrasto tra un cristianesimo amante della pace e ragionevole e un islam violento e irragionevole!

Il motivo della rapidità e facilità è il fatto che tale contrasto è un pezzo forte di quelle che possono essere chiamate “tavole dei contrasti”, spesso utilizzate in qualche discorso missionario e polemico. L’idea di simili tavole è di mettere il cristianesimo in cima a una colonna e l’islam in cima all’altra. Dopo di che uno riempie la tavola con polarità del tipo: amore-legge, pace-violenza, libertà-schiavitù, liberazione della donna-oppressione della donna, e così via.

Simili tavole fanno ricordare le tavole che gli ateniesi, i romani e anche gli idealisti tedeschi (che hanno un’influsso sul papa bavarese) spesso sviluppavano per contrapporre i “civilizzati” ai “barbari”, gli “europei” ai “non-europei”.

Sfortunatamente, per i loro proponenti queste tavole non funzionano mai. Esse sono rozzamente ipersemplificate e creano contrasti alle spese della verità e dell’equità. Nell’islam, proprio come nel cristianesimo, non c’è ragione umana calcolatrice che salvi, ma piuttosto la libera incondizionata grazia (Rahma) di Dio. Una delle molte grazie che Dio dona agli esseri umani è il dono della ragione.

La ragione è un dono di Dio che non può essere al di sopra di Dio. Questo è il punto centrale di Ibn Hazm; un punto che è stato parafrasato in forma mutilata dalle dotte fonti di Benedetto XVI. Ibn Hazm, come i teologi Ashariti con i quali spesso polemizzava, insisteva sull’assoluta libertà dell’agire di Dio. In ogni caso Ibn Hazm riconosceva, come molti altri teologi musulmani, che Dio sceglie liberamente, nella sua compassione verso le sue creature, di agire ragionevolmente in coerenza con se stesso, così che noi possiamo usare la nostra ragione per allineare noi stessi alla guida e agli ordini di Dio.

Ibn Hazm, come molti altri teologi musulmani, teneva fermo che Dio non è esternamente vincolato da niente, nemmeno dalla ragione. Comunque, in nessun punto Ibn Hazm sostiene che Dio non impegna se stesso liberamente e non onora questo suo impegno. Questo divino libero autoimpegnarsi è detto nel Corano “kataba rabukum ala nafsihi al-Rahma” (il tuo Dio ha impegnato se stesso alla compassione). La ragione non deve essere al di sopra di Dio, né essere esternamente normativa per lui. Può essere normativa solo per grazia di Dio, a motivo del libero impegnarsi di Dio stesso ad agire in coerenza con sé.

Per credere in quest’ultima proposizione non c’è bisogno di essere irrazionali o irragionevoli, con un Dio irrazionale o bizzarro! Il contrasto tra cristianesimo e islam su questa baase non solo è ingiusto, ma anche equivoco.

Non c’è dubbio che il papa si sforzi di convincere una università laica che la teologia ha un posto in un contesto basato sulla ragione. Tuttavia, questo non dovrebbe arrivare fino al punto di assoggettare Dio a una ragione che lo vincoli dall’esterno. La maggior parte dei grandi teologi cristiani, compreso l’amante della ragione Tommaso d’Aquino, non hanno mai posto la ragione al di sopra di Dio.

Quando dei teologi musulmani sostengono tale tesi, essi non dovrebbero essere accusati di irrazionalità o di irragionevolezza. Questa incomprensione è il diretto risultato delle semplicistiche tavole dei contrasti che a quanto pare piacciono a studiosi come Theodore Khoury.

Benedetto XVI non dovrebbe affidare le sue vedute sulla teologiamusulmanaastudiosicome Khoury o Samir Khalil Samir. Le loro vedute dell’islam e dei musulmani sono spesso per lo più scorrette. Il papa non vuole consultarsi con dei musulmani e nemmeno dar credito ad essi per conoscere le loro dottrine; ma almeno dovrebbe consultare degli studiosi seri, che non necessariamente appartengano a una minoranza araba cristiana o a un ristrettissimo gruppo di orientalisti cattolici.

Benedetto continua:

“A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso?”.

Il modo con cui Benedetto XVI esprime questa tesi è di nuovo aperto a molte interpretazioni e contraddizioni. Questo non è il luogo per sviluppare una questione tanto disputata. Basta dire che parlare della “natura” di Dio è di per sé problematico.

Anche parlare della ragionevolezza e dell’irragionevolezza è piuttosto problematico. Che cos’è la ragione di cui parliamo? È una umana facoltà di comprendere? Se è così, quale tipo di comprensione? Cognitiva? Emotiva? Spirituale? Oppure la ragione è piuttosto una sorta di ontologicamente primario agente o emanazione, come il neoplatonismo spesso pensa? Di quale tipo di ragione e ragionevolezza stiamo parlando?

Simili questioni richiedono ulteriori e più profonde riflessioni. In ogni caso questo è il dato interessante: l’ambiguità e la vaghezza della parola “ragione” consente [al papa] lo stupefacente salto di unificare la grecità e il cristianesimo facendo appello all’ellenistico prologo del Vangelo di Giovanni.

Come spiega Benedetto XVI:

“Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: ‘In principio era il Logos’. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce ‘con logos’. Logos significa insieme ragione e parola - una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione”.

Qui arriviamo vicini a cogliere una definizione di ciò che Benedetto XVI intende per ragione: “una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi”. Questo è davvero vicino a ciò di cui parla Giovanni. Tuttavia, questa ragione è la stessa ragione dei filosofi greci? Io penso di no. La ragione per molti dei filosofi greci era più associata con la pura contemplazione o “theoria” che con la creativa attività o “poiesis”. Inoltre, per molti dei filosofi greci essa era in quanto tale “capace di comunicarsi”. La ragione per molti di loro era l’umana capacità di ricevere questo essere autocomunicantesi.

Pertanto, la grande visione unificante di Benedetto, che mette insieme il greco e il cristiano, finisce con essere una mossa resa possibile dalle ambiguità di parole tanto ricche e controverse come “logos” e “ragione”. Naturalmente simili mosse sono state più volte praticate in passato, nelle tradizioni teologiche, esegetiche e spirituali dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam.

Naturalmente, una grande parte della riflessione medievale dipende precisamente da questo tipo di salti alimentati dall’ambiguità. Ma è piuttosto strano che questa medievale tattica del salto sia usata per gettare un ponte sul fossato tra la fredda razionalistica ragione dell’università tedesca e il “logos” della Chiesa cattolica!

Quindi Benedetto XVI fa una stupefacente affermazione hegeliana:

“Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi”.

Benedetto XVI afferma che Giovanni ha pronunciato la “parola conclusiva” sul concetto biblico di Dio. Egli fa anche l’affermazione hegeliana che la fede biblica ha trovato la via “faticosa” e “tortuosa” che culmina in questa sintesi di Giovanni.

Lascio ai teologi cristiani di varie denominazioni e scuole di commentare una simile asserzione. Alla luce delle cumulative scoperte delle ricerche storico-critiche nella Bibbia, è molto strano che sia ancora possibile fare affermazioni così criticamente discutibili su una fede biblica che si suppone abbia fatto un lungo viaggio per culminare in una sintesi greco-cristiana.

Sono sicuro che gli studiosi ebraici troveranno anch’essi difficoltà con la implicita asserzione che la trama di fede della Torah sia “faticosa” e “tortuosa”, e che ci voleva Giovanni per far sì che essa culminasse in una vera e definitiva fede biblica. Mentre la sintesi hegeliana e il suo culmine suonano meravigliosamente eccitanti per colui che si ritrova sul culmine, è sicuro che si sentano a disagio tutti quelli che al culmine si trovano sotto!

Quindi, di nuovo, l’argomentazione salta in una speculazione hegeliana, ma questa volta introducendo una pericolosa pretesa “europea” per il cristianesimo:

“In principio era il Logos, e il Logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: ‘Passa in Macedonia e aiutaci!’ (cfr Atti 16, 6-10) - questa visione può essere interpretata come una ‘condensazione’ della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco”.

Il contrasto tra Asia e Macedonia è usato per giustificare la strana pretesa che c’è una “necessità intrinseca” di avvicinamento tra la fede biblica e la riflessione greca.

Quindi è in Europa e non in Asia, e con la ragione europea e non con la ragione asiatica, che il cristianesimo arriva a unirsi con “l’interrogarsi greco”. Questo linguaggio hegeliano soffre della medesima tendenza eurocentrica di molta filosofia idealistica tedesca.

Questa tendenza è tanto più pericolosa perché misconosce versioni del cristianesimo che si manifestano in contesti non greci e non europei: per esempio le teologie sudamericane, africane ed asiatiche.

Essa inoltre avanza una pretesa alla ragione in generale, e alla ragione greca in particolare, e se ne appropria per farla puramente cristiana. Così i fatti storici di una altrettanto chiara, sia pur parziale, sintesi ebraico-ellenistica (come in Filone di Alessandria) e musulmano-ellenistica (come in Al-Farabi, Ikhwan al-Safa, Ibn Sina) sono semplicemente negati come impossibili. Solo il cristiano è unito con il greco, in una giovannino-hegeliana europea culminazione.

I musulmani, come i cristiani e gli ebrei, prima e dopo di loro, hanno prodotto molti profondi sistemi filosofici e teologici, lo scopo dei quali era l’armonizzazione tra le affermazioni della ragione umana e le verità della divina rivelazione. I filosofi appena menzionati non erano soli. Teologi delle scuole Mutazilita, Asharita, Maturida, Ithna Ashrita, Ismailita, Ibadita e anche Hanbalita si sono ingegnati ad articolare la loro fede in una forma la più ragionevole possibile. Anche testi introduttivi della filosofia e della teologia islamiche lo mostrano con chiarezza. Gli intricati lavori dialettici e logici dei grandi Abdul Jabbar, Ashari, Baqillani, Jwaini, Ghazali, Razi, Maturidi, Nasfi, Ibn Rushd, Ibn Sabain e altri sono monumenti dell’acuminato interesse musulmano per la ragione e la ragionevolezza, quando si tratta di articolare argomenti di fede. Anche il più conservatore degli Hanbaliti, Ibn Taimmiyah, ha scritto importanti opere sulla logica non aristotelica e ha sviluppato argomenti antiaristotelici simili a quelli di Sesto Empirico!

Benedetto XVI, a chiusura di un lungo passaggio che figurerebbe benissimo come prefazione alla Filosofia della Religione o alla Filosofia della Storia di Hegel, arriva a sostenere:

“Nel profondo, si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: non agire ‘con il logos’ è contrario alla natura di Dio”.

La traduzione greca dei Settanta si vede dunque accordare una primazia che, sono sicuro, suonerà strana a molte orecchie cristiane. Alla sintesi tra fede biblica e ragione greca è semplicemente dato un valore definitivo, come fosse il culmine di un processo attraverso il quale tutte le altre vie di religiosità sono relegate a realtà superate e sostituite.

Ma Benedetto XVI, come studioso di teologia medievale, sa che non può negare certi fatti:

“Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive”.

Questo passaggio, mentre serve all’intento dell’autore di mettere definitivamente fuori gioco le teologie ivi menzionate, mostra almeno che Benedetto XVI è in qualche modo consapevole che esistono altre possibili teologie, e che le teologie musulmane non erano le sole a prendersi cura dell’affermazione della sovranità di Dio contro le umane pretese di governarlo con umani criteri.

Sfortunatamente, egli procede fino a totalmente smantellare queste teologie come non fossero la vera “fede della Chiesa”. È molto interessante anche che in un successivo passaggio Benedetto XVI, per un momento, afferma un amore che trascende la conoscenza, ma poi reinterpreta questa affermazione sostenendo che è il “logos” che ama. Così egli sintetizza “logos” e ragione. Esso finisce con essere ragione che in realtà ama.

Dopo di che scorgiamo, in termini chiari e non ambigui, il vero asserto fondativo di Benedetto XVI e la ragione ultima delle sue difficoltà con l’islam:

“Il vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale - un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa”.

Egli chiaramente sostiene che l’Europa è il solo luogo nel quale cristianesimo e ragione sono culminati in una grande sintesi che è la civiltà europea. L’Europa è greco-cristiana e razionale, e il cristianesimo è greco-europeo e razionale. Se l’Europa-cristianesimo è da mantenere pura, tutti gli elementi non europei e non cristiani devono essere tenuti fuori. Ecco perché l’islam e i musulmani non hanno posto in questa grande sintesi hegeliana! Questo allarmante scenario di idee neocoloniali fonda la tesi della natura barbara (non greca) e non europea dell’islam. L’islam, stando a questo tipo di pensiero, è “asiatico”, “non razionale” e “violento”. Non ha alcun posto nella “greca”, “razionale” e “ragionevole” Europa.

Ora che Benedetto XVI è arrivato alla sua tesi della sintesi del greco e del cristiano in un singolo logos, egli procede a scalzare tutti i tentativi di negare questa sintesi. Egli va a criticare tre fasi di ciò che chiama “deellenizzazione”:

“Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo - una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra”.

È meglio per i musulmani lasciare ai teologi cristiani il commento all’equità e all’esattezza delle posizioni di Benedetto XVI sulla tradizione cristiana. Comunque, a me musulmano appare stupefacente che Benedetto XVI sembri spazzar via tutti gli sforzi dei Riformatori come una deellenizzazione che invalida la vera sintesi in precedenza da lui celebrata. Lascio anche ai teologi protestanti di replicare alla piazza pulita fatta da Benedetto XVI.

Benedetto XVI biasima anche il teologo von Harnack per il secondo tipo di deellenizzazione. Di nuovo lascio ai discepoli di von Harnack di replicare alle posizioni di Benedetto XVI. Mi colpisce comunque come una cosa strana trovare von Harnack accusato di deellenizzazione. Seguendo Karl Barth, io credo che von Harnack fosse un ellenizzatore, piuttosto che il contrario. Egli può anche essere visto come uno che riduce la teologia a una specie di “phronesis” aristotelica.

Il terzo e ultimo tipo di deellenizzazione, secondo Benedetto XVI, è meritevole di più attenzione:

“Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco - un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”.

Qui di nuovo siamo alle prese con una eurocentrica e grecocentrica arrogante esaltazione del cristianesimo. Lascio ai teologi cristiani latinoamericani, africani e asiatici di esaminare questa strana appropriazione.

Per una Chiesa che è oggi del tutto internazionale, il papa davvero va fuori strada quando estrania tutto ciò che non è dentro la cultura greco-europea. Egli in sostanza sostiene che elementi greci ed europei sono fondamentali per la fede cristiana stessa. Io trovo l’intera sua tesi pericolosamente arrogante. Non sono solo l’islam e i musulmani ad essere minacciati. Sinceramente credo che questa lezione debba mettere in allarme insieme i musulmani, i cristiani e gli ebrei.

La posizione che crea allarme non è solo quella di un professore o un teologo, ma di un pontefice cattolico romano che guida milioni di uomini. È quindi urgente e vitale che musulmani, cristiani, ebrei e studiosi laici entrino in controversia col papa e sfidino le sue visioni non solo sull’islam, ma anche su ciò che significa essere uomo ragionevole e su ciò che significa essere europeo.

Quanto all’islam e al suo Profeta (la pace sia sopra di lui), secoli di crudeli e malvagi attacchi contro di essi, sia verbali che fisici, li hanno solo resi più forti. Il sole splenderà a dispetto di ciò che si sforzeranno di fare nuvole oscure.

Preghiamo per un mondo migliore, un mondo pacifico, un mondo rispettoso. Impegnamoci in un dialogo che sia basato su mutuo rispetto e si elevi al di sopra di mere polemiche. L’unico Dio ha creato tutti noi e ha voluto che fossimo così differenti, impariamo di più l’uno dall’altro e costruiamo insieme un mondo migliore, per amore di Dio.

© 2006 Aref Ali Nayed

*

http://www.chiesa.espressonline.it/dettaglio.jsp?id=87841


Il meglio del pensiero greco è “parte integrante della fede cristiana”

Il testo integrale della lezione tenuta dal papa nel pomeriggio di martedì 12 settembre 2006 nell’aula magna dell’Università di Ratisbona

di Benedetto XVI *

FEDE, RAGIONE E UNIVERSITÀ. RICORDI E RIFLESSIONI

È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Frisinga, iniziai la mia attività di insegnante accademico all’università di Bonn. Era - nel 1959 - ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto “dies academicus”, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell’intera università, rendendo così possibile una vera esperienza di universitas: il fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione - questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del “tutto” della “universitas scientiarum”, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva - di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una convinzione indiscussa.

Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non le risposte dell’erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le "tre Leggi": Antico Testamento, Nuovo Testamento, Corano. Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento - piuttosto marginale nella struttura del dialogo - che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.

Nel settimo colloquio-controversia edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihad (guerra santa). Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava". L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. "Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia... Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte...".

L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.

Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il ‘logos’". È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce con “logos”. “Logos” significa insieme ragione e parola - una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il “logos”, e il “logos” è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr Atti 16,6-10) - questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.

In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sono soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr Salmo 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria - la "Settanta" -, è più di una semplice (da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il ‘logos’" è contrario alla natura di Dio.

Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la “voluntas ordinata”. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisionieffettive.In contrasto con ciò,lafededellaChiesasièsempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio (cfr Lateranense IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come “logos” e come “logos” ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-”logos”, per cui il culto cristiano è “spirituale" - un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Romani 12,1).

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale - un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.

Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione del cristianesimo - una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra.

La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati fondamentali della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il “sola Scriptura” invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto della realtà.

La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento. Non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di dis-ellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ciò è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’università. Nel sottofondo c’è l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall’una o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico o cartesiano.

Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.

Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione - patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.

Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco - un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.

Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.

Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni - un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare - alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno". L’Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza - è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione (con il ‘logos’) è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande “logos”, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.

NOTA - Di questo testo il Santo Padre si riserva di offrire, in un secondo momento, una redazione fornita di note. L’attuale stesura deve quindi considerarsi provvisoria.


Nell’Università di Ratisbona, Joseph Ratzinger è stato titolare della cattedra di dogmatica e di storia del dogma dal 1969 al 1971, e ha ricoperto la carica di vicerettore.


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