L’ORO DI NAPOLI - Una lezione di educazione civica: l’intervento terapeutico di Eduardo De Filippo - da L’oro di Napoli (YOUTUBE)
La divina commedia di una capitale
di Domenico Scarpa (Il Sole-24 Ore, 27 marzo 2011)
A Napoli, nel pomeriggio del 25 marzo 1945, domenica delle Palme, il filosofo Benedetto Croce ascoltò una conferenza dell’avvocato Mario Ferrara, liberale, sottosegretario all’Assistenza nel governo Parri: e fu una conferenza «vigorosa, concreta, efficace, sui più urgenti problemi italiani dei quali non tutti sentono la gravità e il pericolo».
Il senatore Croce, che nell’anteguerra accompagnava le sue quattro figlie a vedere le farse di Scarpetta e dei fratelli De Filippo, si sarebbe sentito maggiormente rincuorato andando a teatro anche quella domenica mattina: Eduardo e Titina De Filippo gli avrebbero infatti offerto uno spettacolo per il quale avrebbe potuto spendere le stesse parole dedicate al discorso di Ferrara.
Il quotidiano Il Giornale, che s’ispirava al suo magistero, l’aveva annunciato per tempo: «Ricordiamo che domenica alle 10 precise avrà luogo al San Carlo la prima rappresentazione per l’Italia della commedia in tre atti di Eduardo De Filippo Napoli milionaria. La manifestazione, che andrà a totale beneficio della istituzione dei "Figli del popolo", attirerà un pubblico numerosissimo».
Mancava un mese esatto alla fine ufficiale delle ostilità. Il fronte della guerra civile era fermo, la sua linea tagliava l’Italia in due dalla foce del Reno a Forte dei Marmi; da diciotto mesi Napoli era una città libera - prima metropoli europea a battere i nazisti senza aiuto esterno - ma occupata. Gli Alleati avevano requisito quasi tutti i teatri; Eduardo riuscì a ottenere il San Carlo, riservato agli spettacoli per gli ufficiali americani, per un giorno solo e a un orario incomodo, e unicamente per una recita pro orfani di guerra.
Il titolo esatto della sua commedia aveva il punto esclamativo, Napoli milionaria! Poteva sembrare una trovata comico-satirica tipica delle compagnie dialettali che cambiano copione tutti i giorni per tenere all’erta il loro pubblico, invece era una novità assoluta. Eduardo, che quattordici anni prima aveva fondato con i fratelli Titina e Peppino la «Compagnia del teatro umoristico», si era separato da Peppino e cominciava a correre un’avventura diversa.
È lui stesso a raccontarne l’origine: «Poche settimane dopo la liberazione mi affacciai al balcone della mia casa di Parco Grifeo, e detti uno sguardo al panorama di questa città martoriata: così mi venne in mente in embrione la commedia e la scrissi tutta d’un fiato, come un lungo articolo sulla guerra».
Il Parco Grifeo, sulla collina del Vomero, domina realmente la città di Napoli e il suo golfo, ma la commedia non fu stesa di getto; varie versioni si susseguirono fra l’estate 1944 e il 25 marzo successivo, e le scene finali presero forma solo durante le prove. Le prime parole su carta furono un gesto senza precedenti: «’O vascio ’e donn’Amalia Jovine», punto e accapo. Prima della battuta iniziale, già la didascalia d’apertura è in napoletano: indica un luogo dominato da una donna, situato in mezzo a una strada e non più in un appartamento borghese di vario livello. Contemplando dall’alto la sua città Eduardo conquistava finalmente il piano terra.
Napoli milionaria! è una storia di poveri che fanno i soldi con la borsa nera: prima (primo atto) in tempo di guerra quando l’Italia fascista, guappo di cartone dell’Europa, comincia a pigliare mazzate su tutti i fronti, poi (secondo atto) durante la pace promiscua dell’occupazione angloamericana.
Amalia Jovine (Titina) possiede cattiveria, autocontrollo e velocità che le permettono di moltiplicare le furbizie, le merci e il guadagno; sta sempre un passo avanti a fomentare quello che dovrà succedere. Suo marito Gennaro (Eduardo), che è calmo, volenteroso e onesto, si trova sempre in ritardo: rincorre, cerca di capire, di raccogliere, di tenere assieme, di riparare. È lui che si stende a fare il morto sopra il letto che copre il contrabbando, quando arriva la perquisizione dei carabinieri: ha paura ma non si muove neanche durante il bombardamento a tappeto, e il brigadiere che aveva capito il gioco lo premia andando via senza sequestrare niente e senza arrestare nessuno.
Ma questa è la farsa del primo atto: è ancora il vecchio teatro dei fratelli De Filippo; nel riprendere Napoli milionaria! a Roma, il nuovo Eduardo si rivolgerà al pubblico spiegandogli che tutto il suo teatro precedente è teatro dell’Ottocento e non si può più rappresentare: «Il secolo nuovo, per Napoli, comincia con l’arrivo degli Alleati. La guerra, io penso, ha fatto passare cent’anni». Le prime parole che Gennaro dirà ad Amalia, rientrando dalla prigionia in Germania a secondo atto inoltrato, saranno: «Nu seculo, Amà... Nu seculo...».
Al Parco Grifeo, Eduardo aveva eseguito una lettura privata della commedia a un suo amico e vicino di casa, il pittore Paolo Ricci, militante comunista; alla fine Ricci gli contestò la battuta conclusiva «Adda passà ’a nuttata» che gli suonava qualunquista e rinunciataria. Eduardo non la cambiò. La mattina del 25 marzo 1945 il San Carlo era strapieno. Era presente tutto lo stato maggiore del Pci campano: Giorgio Amendola, Mario Alicata, Paolo Ricci, Maurizio Valenzi, e i giovanissimi Gerardo Chiaromonte e Giorgio Napolitano.
Eduardo affida a Enzo Biagi il suo ricordo: «I professori dell’orchestra, per assistere allo spettacolo, si erano infilati nel golfo mistico. "Vedrete che ci diffamerà", pensava qualcuno allarmato dal titolo (...) Arrivai al terzo atto con sgomento. Recitavo e sentivo attorno a me un silenzio assoluto, terribile. Quando dissi l’ultima battuta, la battuta finale: "Adda passà ’a nuttata", e scese il pesante velario, ci fu un silenzio ancora, per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile, tutti avevano in mano un fazzoletto, gli orchestrali del golfo mistico che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena, il pubblico che era salito sul palco, tutti piangevano, e anch’io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi. Io avevo detto il dolore di tutti».
Come sempre, Eduardo lo aveva detto col minimo di parole e di gesti. Gennaro Jovine è un personaggio che straparla, ma la sua forza è silenziosa, sta tutta nell’abito con cui riappare in scena al secondo atto, scampato a tredici mesi di deportazione: «Il berretto è italiano, il pantalone è americano, la giacca è di quelle a vento dei soldati tedeschi ed è mimetizzata. Il tutto è unto e lacero». Il suo vestiario è il riepilogo della guerra mondiale, vincitori e perdenti, indossato da un perdente consapevole e frastornato la cui testa pensante - il suo berretto: sono dettagli simbolici che Eduardo premedita con cura - rimane italiana. Gennaro esibisce quel vestito «come se fosse una gloriosa bandiera di reggimento».
È sconfitto ma non vinto: nella sua famiglia rovinata da una ricchezza improvvisa e disonesta, nel basso che è sempre un basso ma ora ha gli stucchi dorati sul soffitto a volta, Gennaro porta i segni visibili del passato sofferto, ma desidera il futuro proprio perché sa che la guerra non è finita: e lo ripeterà fino all’ultimo, anche con quella frase proverbiale che tanto era spiaciuta al suo amico Ricci.
Nel 1950 Napoli milionaria! apparve da Einaudi, primo volume del suo teatro completo. Leggendola stampata, Corrado Alvaro ebbe l’impressione di cogliere finalmente il segreto di Eduardo, il suo "tipo umano" e anche il suo limite: che «si potrebbe chiamare convenzionalità o ingenuità. Ma è l’ingenuità dei personaggi di un certo rilievo. Proprio questo fa impressione in alcune personalità che si immaginano complesse: il limite, cioè la concezione precisa del bene e del male, che è il limite stesso della gente semplice e di non grande intelletto».
Il protagonista della prima commedia nuova di Eduardo, la sua commedia della guerra non finita, portava la complessità e l’ingenuità affiancate nel suo nome e cognome: Gennaro come il napoletano per antonomasia, sottile e senza fondo, Jovine come uno che al principio sembra non riuscire a farsi adulto, e poi ricompare come un adulto rifatto giovane da un’esperienza che lo ha falciato dentro.
Quando Primo Levi entrò in rapporti con casa Einaudi, il primo libro che chiese di acquistare fu proprio Napoli milionaria! In quel volumetto dalla copertina verde-acqua scoprì che - proprio come accadeva a lui nel sogno che lo tormentava ad Auschwitz tutte le notti - anche l’ex deportato Gennaro Jovine non trovava, tornando a casa, nessuno disposto ad ascoltare il racconto degli orrori che aveva visto con i suoi occhi: gli amici, la moglie, i figli, tutti gli voltavano le spalle distratti o infastiditi.
Questa intuizione di Eduardo fu un colpo di genio: ma fu anche il suo modo di portare sulla scena la metafora di un Sud che non riesce a dire la propria esperienza, e quando pure arriva a dirla non trova udienza nemmeno in se stesso - in una parte di sé. Napoli sa tutto, ma rilutta a specchiarsi in ciò che sa; lo aveva già detto Leopardi nella Ginestra composta «su l’arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo»: «Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco».
Napoli milionaria! ci offre la consapevolezza storica del napoletano e la sua renitenza alla storia: Eduardo capiva i suoi concittadini fino in fondo, con una cattiveria resa più tagliente dalle staffilate di pietà, così come capiva i suoi connazionali: Napoli è un occhio e una voce di cui l’Italia dispone per raccontarsi - fingendo, se così le fa comodo, che quel racconto riguardi appena una porzione di lei.
Dopo quell’unica recita napoletana del marzo 1945, anche il pubblico del marzo 2011 ha il compito di accogliere il racconto di Gennaro Jovine: l’intensità della sua vicenda e la freschezza del suo sguardo contano fra le non moltissime prove che questo paese è capace di farsi adulto.
Passata ’a nuttata, cosa resta del suo Teatro
A trent’anni dalla morte di Eduardo De Filippo, ecco l’eredità di un maestro del nostro tempo
di Masolino D’Amico (La Stampa, 31.10.2014)
Cosa rimane di Eduardo trent’anni dopo la sua scomparsa? La risposta è, moltissimo. Le sue opere sono in stampa e si vendono; le registrazioni televisive dei suoi spettacoli, riprodotte prima in VHS e adesso in DVD, continuano a circolare.
Interpreti di prim’ordine ripropongono regolarmente le sue commedie, chi nel segno della continuità (Carlo Giuffrè, il suo stesso figlio Luca) chi in quello della rilettura garbatamente adattata ai tempi nuovi (Toni Servillo e altri, tra cui il Marco Sciaccaluga di un recente, ammirevole Sindaco del rione Sanità). Le registrazioni curate dallo stesso Eduardo per la Rai-TV (con l’eccezione di una prima serie sciaguratamente distrutta dall’Ente) hanno consegnato alla posterità il documento di allestimenti in una veste molto vicina a quella per cui furono concepiti, il che smentisce il tradizionale assioma secondo il quale il teatro è scritto sull’acqua: anche se dell’attore, che fu immenso, nessuna pellicola può rendere il senso di comunione col pubblico. I famosi silenzi, le famose esitazioni di Eduardo, sempre dettati dal momento e dal clima che si era venuto a creare, qui non ci sono né ci potrebbero essere.
Le registrazioni tuttavia sono preziose, sia perché spesso assai godibili in sé, sia come precedente col quale l’interprete moderno può confrontarsi, valutando se e come sia il caso di prenderne le distanze. Nella sua evoluzione Eduardo - l’Eduardo «serio» - da un realismo molto legato al momento passò all’esplorazione, talvolta con risvolti un po’ surreali, di temi più sottili, nascosti nel profondo della psiche umana.
Non si può sradicare un capolavoro come Napoli milionaria! dalla città massacrata da quella guerra. Ma l’ambientazione letterale, per quanto gustosa, non è indispensabile ai due ancora più grandi capolavori dell’Eduardo «pirandelliano» - o meglio, postpirandelliano - vale a dire Le voci di dentro e Sabato, domenica e lunedì, due non-storie del non-detto, dove un avvenimento minuscolo (il sogno di un personaggio, il malumore di una brava casalinga) rivela ai membri di un gruppo familiare tensioni nascoste e odi repressi, con conseguenze che minacciano di diventare addirittura tragiche. E fuori dal suo tempo e buona in ogni contesto, non per nulla tradotta e replicata in tutto il mondo, è la materia di Filumena Marturano, col suo discorso sulla paternità che neanche l’odierna possibilità di risolverlo prosaicamente mediante il ricorso al DNA riuscirà mai a togliere dal repertorio.
Non c’è dunque bisogno di sottolineare il valore di Eduardo. Il teatro queste cose le decide da sé. Finché i lavori «chiamano», impresari e interpreti li mettono in scena. Quando ciò smette di accadere, passano nelle collezioni dei classici e sono offerti solo alla lettura.
Qui importa piuttosto sottolineare il fatto, primo, che ciò avvenga - ossia, che le pièces siano allestite - e secondo, che ciò avvenga, e con tanta frequenza, oggi, ossia in un’epoca sempre più dominata dal predominio dell’immagine sulla parola, e del medium (cinema, Tv, web) sul contatto con la persona in carne e ossa.
Se esiste tanta gente che, magari dopo aver fruito delle predette registrazioni, compra un biglietto per recarsi ad ascoltare il dettato di quei testi pronunciato da altri, vuol dire che non è ancora morto quello che una volta era considerato un bisogno primario: avere davanti un individuo che narra. Spesso sentiamo anche rimpiangere la decadenza della nostra lingua.
Ma esiste, ancora, tanta gente che a quanto pare apprezza il suono di un parlato vivo, tanto più vivo quando non è koinè più o meno artificiale, ma schiettezza. Non sarà il nostro dialetto (come riduttivamente una volta lo si chiamava), ma la sua autorità ci mette in contatto con un passato nel quale non possiamo non riconoscerci. La nostra (il napoletano, NdR), disse una volta Luca De Filippo, è una lingua di cui non ci dobbiamo vergognare in Europa. Dove Eduardo (peraltro anche in inglese, io ricordo bene Laurence Olivier nella parte di nonno Antonio, «creata» dall’impagabile Enzo Petito), non ha mai smesso di commuovere, divertire e fare riflettere.