di Carlo A. Viano *
La parola “impostura” è quasi del tutto scomparsa dalla pubblicistica come dalla letteratura dotta, e al massimo viene usata nella conversazione privata, per indicare chi millanta capacità e posizioni fittizie allo scopo di ricavarne qualche vantaggio. Eppure quella parola è stata largamente presente in scritti che hanno contribuito a trasformare i nostri modi di pensare e di essere, usata da intellettuali si erano proposti di smascherare imposture collettive, prese sul serio nella vita pubblica.
Fin dall’antichità storici come Erodoto o scrittori come Luciano di Samosata avevano svelato i trucchi, simili a quelli dei prestigiatori da fiera, di personaggi che esibivano poteri eccezionali. Perfino un moderato come Cicerone parlava degli inganni degli indovini, figure ufficiali della società antica, un po’ come i ministri delle religioni moderne. E Tito Livio, pur tutto preso dalla restaurazione augustea, mostrava come gli indovini manipolassero il sacro per adattarlo alle decisioni pubbliche più opportune. Machiavelli, che vedeva in Livio una buona guida per capire come nascono e funzionano le società, sosteneva che per metter su uno Stato bisogna ricorrere a imposture religiose.
Erano stati alcuni filosofi arabi a dire che la fede rivelata va bene per i semplici, mentre ai dotti bastano le verità razionali; e Maometto non aveva certamente parlato ai dotti. Finché il sospetto di aver forgiato una religione a fini politici toccava Maometto, la cosa andava bene ai cristiani; ma il contagio poteva diffondersi. Come soltanto con Romolo, senza le imposture religiose di Numa Pompilio, i romani non si sarebbero trasformati da banda di briganti a popolo civile, non si poteva dire che anche Mosè aveva escogitato credenze e pratiche religiose necessarie per costruire l’unità politica degli ebrei?
E Gesù? E se, quando si litiga sulle radici cristiane dell’Europa, la cosa più pratica fosse riconoscere in Gesù l’equivalente di Mosè, anche lui un grande impostore, le cui trovate potrebbero dare un’anima comune ai paesi europei? Non sarebbe neppure una novità, perché nella cultura europea ha circolato l’idea dei tre grandi impostori, Mosè appunto, Gesù e Maometto, i fondatori di quelle che oggi vengono chiamate, con una certa albagia, le religioni monoteistiche. (...)
Eppure storici e filosofi si affrettano a dichiarare che non è il caso di andare a discutere della reale possibilità degli eventi miracolosi, come se fosse disdicevole perfino rifiutarsi di credere che le case si spostino nei cieli. Ma non è un po’ ridicolo che chi fa la storia del miracolo di Loreto dica di non voler discutere se sia davvero avvenuto, come se una casa che vola nei cieli fosse un evento sul quale è prudente astenersi?
Recentemente si è parlato sui giornali e in trasmissioni televisive di Padre Pio, un personaggio che la stessa Chiesa aveva guardato con ostilità o sospetto; si è detto che ci sono prove che acquistasse di nascosto una sostanza urticante, ma si è subito sentito dire che non c’erano prove che la usasse per procurarsi le stimmate.
I papi continuano a proclamare santi, riconoscendo un numero enorme di miracoli, e i giornali, anche quelli che pretendono di avere dignità culturale, ne danno notizia come se si trattasse di eventi accertati. Anzi ogni tanto viene annunciato che questo o quel personaggio, da Giovanni Paolo II a Teresa di Calcutta, ha fatto il miracolo, quasi sempre una guarigione, senza che nessuno batta ciglio, come se si trattasse di un normale fatto di cronaca.
Il massimo che si senta a proposito delle imposture religiose è una posizione di tipo agnostico: per essere prudenti, rispettosi e di buon gusto bisognerebbe dire che non si è obbligati a credere nei miracoli come non si è obbligati a credere in Dio, ma non si può neppure escludere che i miracoli avvengano o che un essere divino esista. Oggi l’agnosticismo teologico incomincia ad apparire come una forma di reticenza, sostenuta da una filosofia piuttosto rozza, mentre l’ateismo sta riconquistando prestigio; e non c’è ragione di essere reticenti sui prodotti derivati delle credenze religiose, quali sono appunto le imposture.
Ma tant’è. Quando, alla fine del secolo scorso, le ideologie ottocentesche e novecentesche che avevano tenuto viva la critica illuministica alle imposture sono entrate in crisi, i movimenti che si rifacevano a quelle ideologie hanno dovuto andare in cerca del consenso senza fare affidamento sul valore intrinseco delle proprie idee, e ciò li ha spinti a cercare l’appoggio delle istituzioni religiose: la fine della critica religiosa è stato il prezzo che hanno dovuto pagare.
Ho fatto una piccola ricerca personale, che vale quello che vale, sulle ricorrenze della parola “impostura” nel dibattito contemporaneo: non soltanto ho constatato che la si usa pochissimo, ma ho visto che le sue rare comparse sono molto istruttive. Come c’era da aspettarsi, è del tutto assente negli scritti di conservatori e tradizionalisti, mentre compare qualche volta in interventi assegnabili alla sinistra.
La “grande impostura” è la ricostruzione ufficiale dell’attentato dell’11 settembre e della distruzione delle torri gemelle a New York. Imposture sono le teorie economiche di carattere matematico, messe sempre insieme ai programmi liberistici e attribuite sempre alla scuola di Chicago.
Non c’è nulla di male nel mettere in dubbio la ricostruzione ufficiale di un evento, ché anzi si dovrebbe sempre vigilare sugli atti pubblici di un paese; ma allo stato delle conoscenze è difficile dire che quella ricostruzione sia una impostura o che lo sia più delle ricostruzioni alternative, tutte ispirate a posizioni ideologiche. E il mettere indiscriminatamente insieme scuola di Chicago, teorie economiche matematiche e liberismo è piuttosto imprudente; e comunque quelle teorie e quei programmi adducono ragioni che nessuno pretende di sottrarre alla discussione pubblica.
Ma è significativo che negli ambienti nei quali pudicamente si tace sulle imposture religiose si consideri l’economia neoclassica come una religione (e il termine assume un senso negativo solo in questo caso) e come un insieme di imposture.
Anche Hobsbawm, che nel Secolo breve si intrattiene assai poco sulle religioni storiche del ventesimo secolo, bolla l’economia matematica contemporanea come una vera e propria teologia e condanna i suoi cultori come adepti di una setta.
Che l’economia matematica sia una disciplina scientifica e che, come tale, possa essere discussa e criticata con gli strumenti propri della ricerca scientifica e, in particolare, con quegli stessi strumenti che essa adopera, non viene mai preso in considerazione, né si tien conto del fatto che invece le imposture religiose e politiche pretendano di giustificarsi con strumenti straordinari, diversi da quelli dei quali si avvale qualsiasi accertamento scientifico.
In conclusione le vere imposture sarebbero creature del capitalismo americano. Le superstizioni diffuse e gli stregoni che le sostengono possono stare tranquilli: non sta bene escludere guarigioni miracolose, stimmate e case che volano, perché bisogna essere rispettosi e poi non si sa mai; ma Chicago e New York, questi sono i luoghi delle imposture. (...)
La cultura contemporanea si è trovata così disarmata di fronte alle imposture, indotta a tacere sulle loro falsità. Si può capire benissimo che preti e politici abbiano bisogno di imposture, che debbano promettere ciò che non possono fare e tacere su ciò che effettivamente fanno. Si capisce anche che manipolatori di idee e produttori di convinzioni li aiutino; ma qualcuno potrebbe pur dire che certe cose sono false, anche se si invoca il rispetto dovuto a istituzioni e credenze religiose per far tacere chiunque dica che i libri sacri sono pieni di imposture, che i preti sono anche impostori, che quello di san Gennaro è un imbroglio.
Ma la verità non è rispettosa, e le imposture non sono faccende complicate, di quelle per le quali viene da dire "chissà dove sta la verità?". Sono banali falsità: sospendere il giudizio su risurrezione dei morti o case che volano è soltanto ridicolo.
I filosofi teneri con le imposture invocano l’incertezza delle nostre conoscenze, il carattere soggettivo delle stesse conoscenze scientifiche, la non corrispondenza tra discorsi veri e realtà, magari invocano Gödel per liberarsi dal vecchio adagio che la matematica non è un’opinione e non smettono di proclamare che le parole vengono prima delle cose. Il telescopio per guardarsi i piedi: per difendere le imposture va messo in campo un bagaglio onerosissimo, mentre per confutarle basta pochissimo. La Verità chissà dov’è, ma ci sono alcune cose vere e alcun false: tanto basta per mettere a nudo le imposture, almeno quelle diffuse e grossolane.
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Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di Carlo A. Viano nell’ultimo numero di “Micromega” in edicola da oggi. Il volume, intitolato «Per una riscossa laica», contiene 20 saggi dedicati al tema della laicità firmati anche da Gian Enrico Rusconi, Alessandro Dal Lago, Telmo Pievani, Marco Revelli, Eugenio Lecaldano, Gianfranco Pellizzetti e altri
* l’Unità, Pubblicato il: 08.12.07, Modificato il: 08.12.07 alle ore 7.14
SCHEDA: CARLO AUGUSTO VIANO (Wikipedia)
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FLS
Intervista - "Letture" *
“Bibbia e Corano, un confronto” di Piero Stefani
Prof. Piero Stefani, Lei è autore del libro Bibbia e Corano, un confronto edito da Carocci: quanto sono simili i due testi sacri?
Comincio da una precisazione rilevante: i testi sacri sono in realtà tre. Occorre infatti distinguere tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana. Uno stereotipo ancora abbastanza diffuso parla di Bibbia e Vangelo. In realtà, esistono la Bibbia ebraica, e la Bibbia cristiana formata da Antico e Nuovo Testamento. I libri dell’Antico Testamento, salvo alcuni casi particolari, coincidono con quelli della Bibbia ebraica; tuttavia in questo caso si è trattato non di aggiungere alcuni libri a quelli precedenti bensì di creare un insieme da leggere e interpretare in maniera diversa.
La somiglianza più profonda è che Bibbia e Corano sono sacri soltanto a motivo dell’esistenza di tre comunità che li considerano tali, in quanto li ricevono, li leggono nella liturgia, li commentano e li trasmettono. Tutte e tre le comunità religiose condividono la convinzione che, nel corso della storia, Dio abbia fatto giungere agli esseri umani parole destinate in seguito ad assumere una forma scritta. Ciò è avvenuto grazie a specifici mediatori che hanno trascritto nella “lingua degli uomini” la volontà di Dio. Per ricorrere alla classificazione consueta, ebraismo, cristianesimo e islam sono «religioni rivelate». Tra esse ci sono molte e non lievi differenze, ma tutte emergono a partire da questo terreno comune. Le si può paragonare a un bosco in cui ci sono alberi molto differenti tra loro, anzi a volte uno di essi fa ombra a un altro, tutti però condividono lo stesso suolo.
Quali sono i più significativi punti comuni tra Bibbia e Corano?
Il primo, irrinunciabile punto in comune è che Dio è definito creatore. Ciò significa che la realtà nel suo insieme ha avuto inizio a causa di un atto libero di Dio. Per tutte e tre non si tratta di dimostrare l’esistenza di Dio a partire da quanto sperimentiamo in noi e attorno a noi; quanto affermato dalle tre religioni è che in noi e attorno a noi ci sono segni dell’opera creatrice di Dio. Per così dire, il Cantico delle creature di Francesco di Assisi esprime un convincimento comune a ebrei, cristiani e musulmani. Per tutte e tre le tradizioni religiose, specie di età moderna, nasce poi il problema di sapere come confrontarsi con la visione del cosmo e della natura proposta dalla ricerca scientifica. Qui le strategie sono in parte diverse.
Altro punto accomunante è che Dio abbia comunicato agli esseri umani delle leggi (per limitarci a un solo esempio, si pensi ai “Dieci comandamenti”) volte a regolare sia i rapporti interni alle singole comunità religiose sia quelli con le altre persone e società. In questo caso ci si deve confrontare con il problema di quale rapporto esista tra queste leggi credute di origine divina e i tempi storici in cui sono sorte. Nasce poi anche l’interrogativo di quale sia la relazione tra le leggi di natura divina e quelle, fondate su altri principi, che regolano la società civile. La questione è accomunante, le risposte sono invece molteplici e spesso non concordi. Sono tali non soltanto tra ebraismo, cristianesimo ed islam, ma anche tra i vari gruppi o membri interni alle singole comunità religiose.
Le tre grandi religioni monoteiste fondano sulla rivelazione divina la propria dottrina, tanto da meritare l’appellativo di ‘popolo del libro’: come definiscono, i due testi sacri, la comunità dei credenti?
Come accennato in precedenza è vero che tutte e tre le comunità hanno testi sacri, tutt’altro che certo è invece che le si possa chiamare concordemente «popolo del libro». Per limitarmi a un solo esempio, per il cristianesimo la fonte prima della rivelazione è Gesù stesso, di cui i Vangeli sono memoria e testimonianza. Si può affermare che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo definiscono i loro rispettivi testi sacri in modo gerarchizzato.
La Bibbia ebraica è costituita da tre parti: Torah (Legge, con parola derivata dal greco, detta Pentateuco), Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Il ruolo decisivo è svolto della prima parte; nell’armadio sacro presente in ogni sinagoga è contenuta, non a caso, solo una copia manoscritta della Torah, l’unica che fonda i precetti osservati dagli ebrei.
Per il cristianesimo il vertice è invece costituito dai quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi). Essi sono incentrati sulla vita pubblica, morte e resurrezione di Gesù. I Vangeli sono colti come una specie di chiave interpretativa per leggere in modo unitario un libro, la Bibbia, composto da un vasto insieme di testi molto vari per origine e provenienza, sorti in un arco di tempo di parecchi secoli.
Il Corano ha avuto invece un processo redazionale molto più breve misurabile in qualche decennio. La sua scansione interna è tra sure (capitoli) “fatte scendere” (cioè rivelate) a Mecca e quelle, cosiddette medinesi, risalenti a un periodo successivo all’egira (622 d.C.). I contenuti del Corano si suddividono in annunci, narrazioni e leggi; queste ultime, che incidono maggiormente sulla vita della comunità, risalgono al periodo finale della vita di Muhammad, quando il Profeta esercitava già una forma di governo.
L’espressione «comunità dei credenti» calza bene per cristiani e musulmani in quanto l’appartenenza alla Chiesa e all’ Umma (comunità musulmana) presuppone la fede, meno agli ebrei che costituiscono un popolo vero e proprio, non a caso si è ebrei innanzitutto per nascita (secondo una discendenza matrilineare).
Come descrivono Bibbia e Corano l’origine del male?
Vi è una dimensione accomunante che individua l’origine del male nella trasgressione. Come ben compreso da Paolo nella Lettera ai Romani, perché ci sia una trasgressione bisogna che prima ci sia una legge o un comando. Occorre quindi trovare miti fondativi che si muovano in questa direzione; il più noto è quello della proibizione di mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male. Non è difficile comprendere il suo valore simbolico incentrato propria sulla connessione tra divieto e violazione. Al pari di prospettive presenti nell’apocalittica tanto giudaica quanto cristiana, il Corano pensa a una violazione antecedente a quella compiuta dalle creature umane. Ecco allora irrompere il peccato angelico, nell’islam connesso alla figura di Iblis, angelo superbo e disobbediente. D’altra parte conviene riflettere sul fatto che una trasgressione c’è eppure non ci dovrebbe essere; in questo senso si vede chiaramente la sua connessione con il male, altra realtà che c’è ma non dovrebbe esserci. Individuare la radice del male nella trasgressione porta con sé però altri problemi: chi spinge a trasgredire? Ecco allora che si “personalizza” il peccato, presentandolo come una forza che induce a compiere atti brutali. Sia per la Bibbia sia per il Corano la storia di Caino rappresenta il simbolo più conosciuto di tutto ciò: quando uccise il fratello, il primo fra i nati da donna non aveva ricevuto il comando di non uccidere.
Aumentare a dismisura la forza del peccato o della tentazione come causa del male rischia però di fa scivolare la visione di insieme verso una forma troppo prossima al dualismo, vale a dire di prospettare l’esistenza di un Dio del male; ecco allora che in alcuni passi sia biblici sia coranici si legge che Dio crea il male (Isaia 45,7). Affermazione che non va assolutizzata ma neppure del tutto accantonata. La presenza del male rappresenta per tutti uno scoglio complesso.
In che modo Bibbia e Corano affrontano il tema della resurrezione dei morti?
Il tema è presentato in maniera per così dire defilata nella Bibbia ebraica, infatti lo si trova con chiarezza solo nel tardo e apocalittico libro di Daniele (che nella Bibbia ebraica non è annoverato neppure tra i libri profetici). La resurrezione dei morti svolge invece un ruolo centrale nel Nuovo Testamento; il motivo è evidente: il kerygma - cioè l’annuncio originario e fondamentale della fede - ha il proprio centro nella «buona novella» di Gesù Cristo morto e risorto. Come stabilito in modo definitivo da Paolo, per la fede cristiana vi è un legame inscindibile tra la risurrezione di Gesù Cristo e quella dei salvati. Anche per questo motivo nel cristianesimo, per quanto sia stato affermato più volte e venga attestato anche da alcuni passi neotestamentari, suscita sempre sconcerto la prospettiva secondo la quale ci sono dei risorti destinati alla dannazione eterna. Nel Corano la resurrezione dei morti è affermata in maniera forte e inequivocabile. Per trovarne il fondamento basta rifarsi alla perenne attività del Dio creatore: Allah, che ha plasmato l’uomo dalla polvere, è ben capace di dare nuova vita a ossa disseccate. La resurrezione è però intrinsecamente legata al giudizio in virtù del quale si è o beati o dannati; una prospettiva tanto presente nell’islam da essere anticipata da una specie di interrogatorio che avviene dentro le tombe.
Piero Stefani, di formazione filosofica, insegna “Bibbia e cultura” presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e “Diritto ebraico” all’Istituto internazionale di Diritto Canonico e Diritto comparato delle religioni dell’Università della Svizzera Italiana. È segretario generale di Biblia, associazione laica di cultura biblica. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano Il grande racconto della Bibbia, il Mulino 2017 e per Carocci I volti della misericordia (2015).
* Fonte: Letture.org
Nota:
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - ma le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Federico La Sala
DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava l’intera Costruzione ...
SE DIO SI E’ FATTO PAROLA, IO NON POSSO GIOCARE CON LE PAROLE ... IL CATECHISTA NON USA MAI PAROLE EQUIVOCHE: PARLARE DI CARITÀ SIGNIFICA PARLARE DI GRAZIA