Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Eric A. Havelock (Wikipedia, the free encyclopedia): "Preface to Plato".
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA"!
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
ANTROPOLOGIA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. DAL DIALOGO (DALLA CULTURA ORALE), ALLA (CIVILTA’ DELLA) SCRITTURA, E ALLA LETTURA (DELLA “IA”).
CHI LEGGE UN TESTO PUO’ RISALIRE LA CORRRENTE E COME UN SALMONE PUO’ RITROVARE LA VIA DELLA "SORGENTE" E LA MEMORIA STESSA DEL SUO “LOGOS” DI NASCITA, AL DI LA’ DEL #PLATONISMO E DEL #PAOLINISMO!
"IL LETTORE IMMORTALE". A quanto sembra di poter capire, dalla nota di Tommaso Di Dio), un brillante commento della ragione antropologica (“arche-o-logica”) di questa teoria della “lettura” è rintracciabile in una scena memorabile del film di Steven Spielberg, intitolato “#AMISTAD”. “Provare”, per vedere, che significa “scrivere” e non saper più “leggere”!
“AMISTAD” (STEVEN #SPIELBERG (1997): IL PROCESSO. La sequenza relativa a “Ciò che siamo è ciò che eravamo - Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci”.
A mio parere, inoltre, la ricerca di Jesper Svenbro riapre la strada, per ricomprendere meglio non solo l’opera di #DanteAlighieri e di Ferdinand de #Saussure, ma anche dello “Eric A. Havelock, a cui il volume è dedicato”, “Preface to #Plato” (Oxford 1963), e dello stesso Platone e della intera civiltà della “scrittura” sacra e profana, atea e devota.
RECENSIONE DA "L’Indice" 1991, n. 7
di L. Koch
C’è un curioso epigramma, sul basamento di una ’kore’ arcaica del VI secolo a.C., la più antica in assoluto ad essere accompagnata da un’iscrizione. L’epigramma proclama che la ragazza, morta prima delle nozze, "rimarrà per sempre la testimone del ’kleos’ di suo padre". Dato che non ha fatto a tempo ad avere un’esistenza propria, la ragazza trova il significato pubblico della sua breve vita nel diventare, letteralmente, un messaggio: la dichiarazione del ’kleos’, cioè della "fama", di chi l’ha messa al mondo.
Da questa oscura iscrizione prende le mosse il libro sulla lettura di Jesper Svenbro, uscito in Francia tre anni fa. Nonostante il titolo italiano, non si tratta di una storia della lettura ma, più problematicamente, di una sua antropologia, una "microsociologia", una filosofia, una poetica. Storiche, certo, ma anche assai sensibili a una riflessione teorica e generale sulla comunicazione scritta e quindi sulla letteratura. Sul suo funzionamento, sui suoi scopi, sulla sua efficacia: giudicati dalla parte non di chi la letteratura la fa, ma di chi la riceve; o meglio, come qui si dimostra, la subisce e la serve. La scrittura usa il lettore come il padre della ragazza morta prima delle nozze aveva usato lei per rendere se stesso immortale. O come l’amante adulto usa l’adolescente di cui è invaghito allo stesso tempo come oggetto erotico e come discepolo: prolungamento e destinatario del proprio pensiero.
Il nuovo libro continua dunque l’indagine sulla natura della poesia iniziata, quindici anni fa, con il brillante "La parola e il marmo" sulla poetica prima di Platone; continuata con altri studi sulle origini sacrificali della poetica greca e, recentissimamente, sul carattere e sulle origini della lirica: che la tradizione greca riconduce ambiguamente, mediante i miti sull’invenzione della lira, ad Apollo e a Ermes. Anche come poeta in proprio, Svenbro mette la riflessione sulla poesia al centro dell’invenzione. Una poesia pensata sempre in termini fisici e materiali, e sempre per allegorie. La lingua che diventa poesia ripete il gioco delle canne e dei pedali dell’organo o la metamorfosi della crisalide in farfalla.
La stessa fisicità, drammatica e grandiosa, la stessa attenzione allegorica percorrono questo libro. Della poesia, nella cultura greca, Svenbro aveva già segnalato le impressionanti metafore corporali e sonore: un ventre vibrante, un animale scannato, pronto a essere offerto agli dèi, una tartaruga uccisa e svuotata che, combinata in forma di lira con due canne e sette corde di intestini d’agnello, produce suoni che riassumono l’esperienza dei tre regni naturali. Vista dal lato della ricezione, e cioè del distacco del prodotto poetico dal suo autore per andarsene "in giro per il mondo a destra e a manca ", come dice il "Fedro" la corporeità della poesia si manifesta soprattutto in termini di riproduzione e di sesso.
Accostando l’epigramma di Phrasikleia - la ’kore’ morta prima delle nozze - a una riflessione sulla pratica onomastica greca, Svenbro porta per esempio alla luce una concezione del figlio come una sorta di iscrizione ’ante litteram’: un messaggio fisico e vivente che serva a soddisfare la sete di immortalità del padre, propagando appunto la sua "fama ".
Diventa così possibile una temeraria e affascinante lettura di una delle liriche più famose e più imitate di Saffo (la cosiddetta "Ode della gelosia") come un congedo del poeta orale dalla poesia sua figlia, al momento in cui le strofe, fatte per essere recitate a un pubblico con cui il poeta è emotivamente e intellettualmente legato, vengono messe per scritto: e si avviano a un’avventura incontrollabile per il mondo, pronte a "parlare e a sorridere dolcemente" al primo sconosciuto che incontrano. Che cosa resta al poeta che le ha composte, ma che non le possiede più, se non scomparire per sempre, in un’agonia raccontata con tragica concretezza per tre strofe, e conclusasi sull’orlo stesso della morte, nell’ultimo verso?
Servendosi con estrema finezza tanto della grande letteratura (Omero, il teatro, i lirici, e naturalmente il "Fedro"), quanto delle iscrizioni artigiane a carattere funerario e votivo (gli "oggetti parlanti", le steli che si appropriano della voce del passante perché riviva il ’kleos’ del defunto), Svenbro ritrova, nelle raffigurazioni del potere che chi scrive esercita sul corpo e sulla mente di chi legge, le metafore e i modelli delle più importanti relazioni fra persone della Grecia antica: la filiazione, il matrimonio, la pedagogia pederastica. In termini di trasmissione biologica, corporale, sessuale di messaggi è immaginato e regolato anche il potere delle istituzioni pubbliche (la legge, il teatro).
Fra chi scrive e chi legge esiste dunque un rapporto a senso unico di dominio e di possesso, avvertito con eccezionale drammaticità nella lunga età di passaggio fra oralità e scrittura. Non lo dicono forse abbastanza chiaramente i graffiti ripetuti ancora ieri sui muri delle scuole, e che citano, curiosamente, alla lettera il testo di una ’kylix’ antica del VI secolo a.C., che "chi legge è inculato"? Il lettore si vede violentato, usato, asservito, perché un testo scritto da qualcuno che è forse polvere da lungo tempo riviva attraverso la sua voce; perché possano ripetersi e propagarsi i discorsi pensati da quella polvere ormai volata lontana nel vento.
Il paradigma del lettore oggetto e strumento rimane latente, e contraddittorio nel corso dell’intera cultura occidentale. Non solo, naturalmente, nelle epoche in cui la scrittura è stretto monopolio dei "chierici", ma anche nelle grandi età pedagogiche e liberali: l’illuminismo, il positivismo. Riemerge arrogante nel disprezzo dei romantici per il "volgo" dei loro lettori. Si rovescia, nel Novecento, con le poetiche "aperte" delle avanguardie: che incaricano, all’opposto, il lettore di dare senso e compiutezza sempre diversi a testi volutamente mobili e frammentari. Culmina nelle ermeneutiche letterarie a noi più vicine, interamente orientate sulla ricezione e inventrici di personaggi capaci di compensare un’umiliazione millenaria. I Superlettori, appunto, gli Arcilettori, i Lettori nella Favola.
Ma soltanto Socrate, nel grande discorso del "Fedro" che propone "un amore che non conosca vincitori [o] vinti, padroni o schiavi, dominatori e sottoposti", ha saputo proporre anche una critica, erotica e simmetrica, della lettura e della scrittura.
Una nuova parità emotiva e intellettuale dovrà legare poeta e pubblico, scrittore e lettore: accomunati in una stessa, dialettica ricerca della verità e capaci finalmente, per amore di quella ricerca, di rinunciare a una lunga storia di sopraffazione e di sfruttamento.
Phrasikleia. Antropologia della lettura nella Grecia antica
di Jesper Svenbro
Il lettore è immortale
di Tommaso Di Dio ("Le parole e le cose", 9 Gennaio 2025)
[...] La strategia di Svenbro è semplice e potentissima e si compone sostanzialmente di due mosse. La riassumiamo qui, prima di procedere con alcune riflessioni personali. Dapprima Svenbro propone uno spostamento prospettico: partire dall’esperienza della lettura e non da quella della scrittura. Approfondendo così «il lato dell’emissione»,[1] Svenbro è in grado di ricostruire una «microsociologia della comunicazione scritta»[2] che gli permette di approdare a una tesi che l’autore riassume in queste parole:
Al momento della lettura, il lettore cede la sua voce allo scritto, allo scrittore assente. Ciò vuol dire che durante la lettura la sua voce non gli appartiene: al momento in cui rianima le lettere morte, egli appartiene allo scritto. Il lettore è lo strumento vocale di cui si serve lo scritto (lo scrittore) affinché il testo possa prendere corpo, corpo sonoro.[3]
Svenbro ha guadagnato così un punto di vista originale su di una vastissima area di documenti che erano già a conoscenza della filologia classica, ma che erano «male intesi»[4] a causa dell’abitudine di privilegiare l’esperienza della scrittura su quella della lettura, la graphé invece della phoné. Il secondo passaggio è a questo punto capitale: grazie a questa mutata prospettiva, Svenbro è in grado di inanellare, in una sola proficua collana, usi della parola scritta diversissimi fra loro, ma tutti connessi da un radicale comune, un identico cominciamento e comando[5] che presiede ovunque alla pratica della parola scritta e agisce in campi remoti dei quali Svenbro è ora in grado di mostrare la struttura portante. La scrittura non è solo lo strumento per rendere presente chi non è più,[6] sia esso il defunto o il legislatore, ma, più precisamente, è il mezzo per riarticolare la presenza dell’assente in un vero e proprio esercizio di dominio, che conquista e guida il corpo dell’esecutore e gli conferisce una peculiare soggettività. La scrittura emerge, insomma, fin dall’inizio in Grecia, come dispositivo di controllo biopolitico: è il corpo della vita (del lettore) che è catturato dalla scrittura e mosso a distanza, secondo una precisa assiologia, non solo dal governo dell’autore assente, ma dal mezzo stesso che diviene così, via via, creatore della scena entro cui il lettore può esistere.
La scrittura è così lo spazio dinamico e rituale di una vera e propria trasformazione. Come emerge con chiarezza dalle pagine di Svenbro, il mondo dei morti e il mondo dei vivi, il mondo degli assenti e quello dei presenti è così reso contiguo grazie proprio al medio ambiguo e potente di una scrittura in azione. A essere scritto, di conseguenza, è letteralmente il corpo del lettore che diviene così la pagina prima, il supporto ultimo e arcaico di ogni scrittura: luogo di una penetrazione fra il visibile dei corpi (il soma, il sema) e l’invisibile di un’interiorità (la psyché) la cui giunzione è capace di generare vita al pari - se non in grado ancora maggiore - della sessualità. Svenbro ci proietta così in un universo di relazioni dove l’onomastica e la pederastia, le pratiche funerarie e la scultura, la poesia, il teatro e il tatuaggio e l’esercizio stesso della legge si sono riflessi nella pratica della scrittura e sono stati modificati dagli effetti che produce nel corpo di chi la esegue e in chi partecipa del suo nomos, ovvero della distribuzione vocale della sua cogenza.
La potenza di questa tesi e evidente, così come l’origine: Svenbro si colloca nel solco aperto dalla scuola di Costanza, che ha messo l’accento sulla dimensione del lettore e sul lavoro di ricezione del testo (Wolfgang Iser, Hans Robert Jauss); fa tesoro sia dalla grande scuola degli oralisti (Milman Parry, Albert Lord, Gregory Nagy, ma ovviamente anche Eric A. Havelock a cui il volume è dedicato), sia della tradizione antropologica e filologica francese di cui è erede diretto (Jean-Pierre Vernant, Marcel Detienne), ma anche della prospettiva dispiegata dalla filosofia, in particolare da Michel Foucault e Jacques Derrida.
Pur restando aderente ai metodi di un’ineccepibile disciplina filologica, Svenbro mostra come la compromissione fra i saperi non sia in antitesi con l’approfondimento disciplinare: la contaminazione reciproca fra studi sull’immagine e sulla parola, fra storia dell’arte, filosofia, filologia, poesia e antropologia, quando sapientemente uniti, genera una visione inedita e capace di immettere in circolo nuove dimensioni della conoscenza.
Non è un caso che alla riedizione del volume si sia felicemente deciso di accostare un contributo di Carlo Sini che testimonia come il saggio di Svenbro abbia agito proficuamente nella ricerca di uno dei massimi pensatori italiani, che proprio a partire da una meditazione sulla pratica della scrittura e sui suoi effetti ha fondato un cammino di conoscenza fra i più straordinari degli ultimi decenni. Ma i lettori di questo volume potranno ampliare la conoscenza degli effetti di questo saggio, leggendo le pagine che l’antropologo Carlo Severi ha dedicato a Svenbro e alla sua interpretazione della statua di Phrasikleia che apre il volume.[7] Come pochi altri, Carlo Severi ha rivoluzionato lo studio dello sciamanesimo e ha approfondito la semiotica della parola in azione nella dimensione rituale, la sua capacità di costruire identità metamorfiche nella interazione fra memoria, immagine e parola. Nella sua ricerca sulla “parola prestata” non poteva non incontrare il saggio di Svenbro e darne una lettura originale.
Ma la raggera di slanci che questo saggio innesca non finisce qui. Infatti la forza della tesi di Svenbro mi sembra possa agire anche oggi su chi scrive: e in particolare su chi scrive poesia. Svenbro se ne occupa direttamente nel nostro volume quando fa interagire la propria tesi con uno dei testi più celebri di Saffo, ovvero il frammento 31 Lobel-Page.[8] L’opera di Saffo si pone fin da subito come un luogo d’eccellenza per l’esercizio ermeneutico di Svenbro, in quanto vi appare fin dal primo verso il pronome di prima persona singolare «io».
Come nota l’autore, con Saffo ci situiamo in una fase di transizione, in un ambiguo crepuscolo che vede il passaggio fra una tradizione poetica orale più che consolidata e la consapevolezza nascente degli effetti innovativi delle pratiche di scrittura. Tanto che Svenbro può scrivere: «la poesia è un campo decisamente pericoloso per chi vuole studiare gli effetti della scrittura sull’enunciazione».[9] Ci troviamo in un contesto in cui la scrittura è ancora un’innovazione tecnica rara, posseduta (e presidiata) da un’élite ristretta; per cui, nei testi di questa epoca, i segnali dell’enunciazione («io», «qui», «ora») sono quasi sempre quelli della poesia orale, ovvero trascrivono direttamente «la voce viva del poeta o dell’aedo che parla in prima persona».[10] La parola poetica scritta è per lo più del tutto vicaria e accessoria (hypomnémata) di quanto è avvenuto nella parola viva di una performance. Con Saffo però, come dimostra Svenbro, ci troviamo in un crinale di trasformazione.
La poesia per la poeta di Lesbo inizia a essere anche scritta, non solo letta e l’atto della scrittura e i suoi potenziali effetti divengono dunque presenti alla sua consapevolezza mentre sta componendo il tessuto della parola e ne modificano radicalmente la forma e il contenuto. Il testo di Saffo insomma è proprio un testo: non più solo mera trascrizione di una performance orale che è accaduta nel passato, ora il testo si colloca e si offre come vero e proprio mezzo di un’esecuzione futura, che sarà contemporanea a suoi lettori e non più a chi l’ha predisposta e scritta.
Quello che accade nella poesia Saffo, in questo senso, ci riguarda da vicino. Saffo si situa in un’alba che non ha smesso di illuminare la nostra epoca: e che è, anzi, più presente che mai. Per via della rivoluzione mediatica del Novecento, radiofonica prima, televisiva e digitale poi, la dimensione orale della scrittura è tornata a diffondersi ovunque nella nostra esperienza con sempre maggiore forza. Se siamo tutti figli della scrittura, siamo anche - e sempre più - figli di una scrittura oralizzata e condivisa mediante pervasivi strumenti audiovisivi, che trasportiamo ovunque dentro le nostre tasche e che incontriamo dappertutto sugli schermi in cui ci imbattiamo costantemente. Le voci sono ovunque e si intrecciano alle scritture in una sorta di groviglio di serpenti: viviamo in un contesto di costante riproduzione delle voci scritte e di scrittura delle voci udite, in cui assenti e presenti, passati e contemporanei, vivi e morti, si mischiano gli uni agli altri e alternano le loro apparizioni intrecciandosi sulla scena della nostra mente.[11] In questo senso la poesia di Saffo ci mostra una consapevolezza arcaica, archetipica, iniziale e iniziatica, che può esserci utile.
Se per noi, alfabetizzati fin dai primi anni dopo la nascita, la scrittura è divenuta uno strumento neutrale e inavvertito, a tal punto integrato con la nostra vita da diventare invisibile nei suoi effetti, per Saffo non lo è mai: si avvicina al dispositivo della scrittura con piena consapevolezza di ciò che è capace di fare. Secondo Svenbro, Saffo sente la scrittura, ne avverte la paura, i rischi, la potenza; per Saffo, la scrittura ha una consistenza fisica e palpabile che fa sì che non smetta mai di avvertirla come strumento e corposo frammezzo fisico fra gli agenti del linguaggio, ora divisi non solo dallo spazio fisico di un’esecuzione dal vivo, ma anche inesorabilmente da un tempo che separa ciò che è stato (scritto) da ciò che ora è (letto). Proprio in virtù della consapevolezza fisica del diaframma della scrittura, come dimostra Svenbro, Saffo predispone attivamente il campo della sua azione poetica. L’articolazione retorica del frammento 31 è così tutta prodotta a partire da questa consapevolezza, consapevolezza terribile e angosciosa, che le si dispiega proprio in quanto generata della potenza stessa della scrittura, a cui nondimeno essa non rinuncia. Scrive Svenbro: «Saffo capisce che sarà assente, addirittura morta, per il fatto stesso di scrivere».[12]
La scrittura consegna la vita di chi scrive a un destino fatalmente passato, a essere un factum che non è più in fieri. «Scrivendo la poesia, Saffo perde la voce» e per questo, mentre scrive, avvertendo il transito verso la morte a cui la scrittura la consegna, dice di sé che «non riesce più a parlare». Il testo di Saffo, in questo senso, non è più la trascrizione vicaria di una performance, ma non è più nemmeno l’incisione su pietra di un’epigrafe che prende parola al posto del morto e che lo indica come «egli». Pur provenendo da entrambe queste dimensioni aurorali della scrittura greca, il testo di Saffo, la sua peculiare grafia, si dispone già a essere qualcosa di completamente diverso: lo strumento di una rievocazione futura in cui chi dice «io» sa che avrà bisogno di un esecutore della propria scrittura e, al contempo, sa che quell’egli che pronuncerà l’«io» del testo avrà di fronte non più Saffo rediviva nella voce che le ha prestato, ma solo i segni della sua scrittura che rimandano fatalmente alla Saffo che fu. Nel momento in cui l’autrice trascrive la propria voce, il mezzo stesso genera così un effetto duplice. Da un lato, la scrittura assegna la vita dell’autrice a un futuro e così procrastina la sua forza, la rilancia: le dà una vita sonora inaspettata e sorprendente, capace di vincere la durata precaria assegnata ai corpi umani; eppure, nel medesimo tempo, la scrittura la consegna inesorabilmente alla morte, a una morte saputa nella parola e grazie a essa: Saffo, scrivendo, piegandosi al potente mezzo della grafia, diviene così l’autrice morta di un brano che, ora e nel futuro, sarà letto da un egli che, dicendo «io», ne constaterà l’assenza. [...]
Note
[1] Jesper Svenbro, Phrasikleia. Storia della lettura nella Grecia antica, La vita felice, Milano, 2024, p. 20.
[2] Ivi, p. 22
[3] Ivi, p. 21.
[4] Ivi. p. 22
[5] È la celebre espressione di Derrida: «archè, ricordiamocelo, indica assieme il cominciamento e il comando. Questo nome coordina apparentemente due principi in uno: il principio secondo la natura o la storia, là dove le cose cominciano - principio fisico, storico o ontologico - ma anche il principio secondo la legge, là dove uomini e dèi comandano, là dove si esercita l’autorità, l’ordine sociale, in quel luogo a partire da cui l’ordine è dato»; in Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Milano, 1996, p. 11.
[6] Da questo punto di vista Svenbro riprende direttamente Vernant e i suoi studi sul kolossus. Si veda Vernant, La figura dei morti II, in Figure, idoli, maschere, Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 77.
[7] Carlo Severi, La parole prêtée. Comment parlent les images, in Parole en actes, Cahiers 05 d’anthropologie sociale, L’Herne, Paris, 2009, pp. 11-41.
[8] Svenbro cit., p. 224.
[9] Ivi, p. 223.
[10] Ibidem.
[11] È la nota tesi di Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 191 e seguenti. Si veda anche Gabriele Frasca, La lettera che muore, Luca Sossella Editore, Roma, 2005.
[12] Svenbro cit., p. 228.
ANTROPOLOGIA CHIASMATICA, PSICOLOGIA, E STORIA: ALCUNE NOTE A MARGINE SULLE "VOCI PERDUTE DEGLI DEI" E "SULLE ORIGINI DELLA COSCIENZA" DI JULIAN JAYNES.
NEL LODEVOLE TENTATIVO DI CONTRIBUIRE A UNA MIGLIORE COMPRENSIONE DEL SUO LAVORO SU "IL CROLLO DELLA MENTE BICAMERALE E L’0RIGINE DELLA COSCIENZA" (ADELPHI, 1976/1991), E, ANCORA, PRECISANDO SU "LA NATURA DIACRONICA DELLA COSCIENZA" (ADELPHI, 2014), JULIAN JAYNES (1920-1997), nella raccolta di saggi, intitolata "Le voci perdute degli dèi. Sulle origini della coscienza" e pubblicata negli anni scorsi dalle Edizioni Tlon (Città di Castello, 2021), scrive e precisa:
ALLA LUCE di tali considerazioni, e, proprio seguendo il filo della "letteratura", visto che Jaynes, dopo gli studi, trascorse diversi anni in Inghilterra come attore e drammaturgo, e che, nel suo "quadro" teorico e storico, non ho trovato alcuna menzione di Shakespeare, sul tema affrontato, forse, vale la pena ricordare la "forte" esclamazione dall’ «Amleto» di Shakespeare: "O my prophetic soul! My uncle?" (Hamlet, I.5) e richiamare l’attenzione su una importante "imprecisione" relativa alle "profezie" delle Sibille e, in particolare, al numero della loro "presenza" negli affreschi della Volta della Cappella Sistina realizzati da Michelangelo:
"[...] Le sibille. L’epoca degli oracoli occupa l’intero millennio successivo al crollo della mente bicamerale. [...] Come agli oracoli, anche alle sibille veniva chiesto di
prendere decisioni su questioni di varia importanza, uso che
continuò sino a III secolo d. C. Le loro risposte erano così
pervase di fervore morale che persino i primi Padri della Chiesa
e gli ebrei ellenistici si inchinarono ad esse come a profetesse di
livello pari a quello dei profeti dell’Antico Testamento.
La Chiesa
cristiana antica, in particolare, ne usò le profezie (spesso dei
falsi) per dare un sostegno alla propria autenticità divina.
Ancora
un millennio dopo, in Vaticano, quattro sibille furono dipinte in
posizioni prominenti, sul soffitto della Cappella Sistina, da
Michelangelo.
E secoli dopo ancora, copie di queste donne
muscolose, con i libri oracolari aperti dinanzi a sé, erano solite
osservare lo stupefatto autore di questo libro in una scuola di
catechismo unitariana nel New England. Tale è la sete di
autorizzazione delle nostre istituzioni.
E dopo che anche le sibille ebbero smesso di far sentire la
loro voce, dopo che gli dèi ebbero cessato di calarsi in forme
umane viventi nella profezia e nell’oracolo, l’umanità cominciò a
ricercare altre forme per riannodare i legami fra il cielo e la terra.
Sorsero così nuove religioni, il cristianesimo, lo gnosticismo e il
neoplatonismo [...]" (J. Jaynes, "Il crollo della mente bicamertale..., cit., 1976, pp. 393-394).
ANTROPOLOGIA CHIASMATICA (NEXOLOGIA) E STORIOGRAFIA. RICORDANDO CHE SETTE SONO I PROFETI (Zaccaria, Gioele, Isaia, Ezechiele, Daniele, Geremia, Giona) E CINQUE LE SIBILLE (Sibilla Delfica, Sibilla Eritrea, Sibilla Cumana, Sibilla Persica, Sibilla Libica) PRESENTI NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA, a ulteriore approfondimento, forse, è bene (da un punto di vista antropologico, filologico, e storico-critico) riflettere ancora sul tema della "sopravvivenza degli antichi dèi" (Jean Seznec) , e in questo caso, sul richiamo fatto dallo stesso Jaynes a "Mammona", ripreso da "Percy Bysshe Shelley (1792-1822), che "dice che il «sé è Mammona della letteratura»".
"SAPERE AUDE!" (KANT): DIO ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS"). A ben rileggere l’antica parabola evangelica (Luca. 16. 1-16=C.E.I.]), probabilmente, Shelley non ha tutti i torti: si tratta di far buon uso del proprio "denaro" ("Mammona") come della propria "intelligenza" e della "facoltà di giudizio" (Immanuel Kant):
Federico La Sala
The Point of Being
Edited by
Derrick de Kerckhove and Cristina Miranda de Almeida
Cambridge Scholars Publishing, 2014
List of Figures............................................................................................ vii
Acknowledgements .................................................................................... ix
Derrick de Kerckhove and Cristina Miranda de Almeida
Introduction ................................................................................................. 1
Derrick de Kerckhove and Cristina Miranda de Almeida
Chapter One ................................................................................................. 9
The Point of Being
Derrick de Kerckhove
Chapter Two .............................................................................................. 61
Orbanism
Rosane Araújo
Chapter Three ............................................................................................ 79
Toward the Reunion of Sense and Sensibility: The Body in the Age of Electronic Trans-nature
Gaetano Mirabella
Chapter Four ............................................................................................ 103
The Interval as a New Approach to Interfaces: Towards a Cognitive and Aesthetic Paradigm of Communication in the Performing Arts
Isabelle Choinière
Chapter Five ............................................................................................ 147
The Aesthetics of the Between in Korean Culture
Jung A Huh
Chapter Six .............................................................................................. 165
Sensing without Sensing: Could Virtual Reality Support Korean Rituals?
Semi Ryu
Chapter Seven .......................................................................................... 197
Between Sense and Intellect: Blindness and the Strength of Inner Vision
Loretta Secchi
Chapter Eight ........................................................................................... 213
The Connective Heart
Cristina Miranda de Almeida
Chapter Nine ............................................................................................ 297
Quantum-Inspired Spirituality: Merging Science and Religion in the Post-Galilean Period
Maria Luisa Malerba
Editors and Contributors .......................................................................... 335
Due modi di vedere la realtà in precario equilibrio
di CHIARA ROBBIANO / Utrecht / *
A volte quando studiamo i presocratici, le nostre categorie mentali intralciano la comprensione delle antiche categorie. So che è impossibile lasciarsi alle spalle tali categorie (ce lo ha insegnato Gadamer, sulle spalle di alcuni giganti), ma esserne consapevoli è bello. E la neuroscienza può essere fonte di consapevolezza.
Poniamo, ad es. che i Presocratici avessero un gran rispetto per il modo di affrontare la realtà tipico dell’emisfero destro del cervello - che coglie l’unità e il tutto, che rende possibile l’immedesimarsi negli altri e il sentirsi parte di qualcosa di più grandi di noi (la natura, il cosmo). Se così fosse, sarebbe opportuno cercare di non proiettare sui loro scritti valori che, sebbene a noi sembrino assoluti e universali, possono invece rivelarsi tipici dell’emisfero sinistro del cervello - che separa e distingue e che guarda la vita che scorre dalla necessaria distanza che occorre per poter essere oggettivi. Quest’atteggia-mento dell’emisfero sinistro pare domini la visione del mondo tipica della nostra cultura occidentale.
Ritengo che The Master and his Emissary, The Divided Brain and the Making of the Western World [Il maestro e l’ambasciatore. Il cervello diviso e la formazione del mondo occidentale] scritto da Iain McGilchrist, psichiatra e filosofo, possa essere fonte d’ispirazione per gli studiosi di presocratici. È un libro che mette insieme studi psichiatrici sui due emisferi del cervello con un’interpretazione dell’origine della cultura occidentale in Grecia e delle sue evoluzioni fino ai giorni nostri. McGilchrist si occupa della divisione del cervello in due emisferi che risulta in due modi diversi di affrontare il mondo.
Nella prima parte del libro McGilchrist affronta la differenza di approccio dei due emisferi, e nella seconda parte quest’analisi preliminare viene usata per gettar luce sull’o-rigine e le sorti del pensiero occidentale. Un’ampia sessione della seconda parte del libro è dedicata al mondo greco antico e una parte di questa alla Grecia arcaica.Quello che a volte si legge è che la nascita della civiltà greca ha portato con sé molte capacità spesso associate all’emisfero sinistro: ad es. l’inizio della filosofia analitica, la codificazione delle leggi, la formalizzazione in varie sfere della conoscenza, il fissare tramite la scrittura ciò che è mutevole, lo sviluppo di mappe. Quello che spesso non è stato notato è che la nascita della civiltà greca ha visto anche l’acquisizione di capacità legate all’emisfero destro. McGilchrist suggerisce che il buon vecchio miracolo greco può avere a che fare con un contemporaneo sviluppo dei due emisferi che hanno permesso ai greci arcaici di approfittare della tensione causata da questi due modi di vedere e di stare al mondo. Infatti l’evoluzione dei lobi frontali di entrambi gli emisferi, che ha reso possibile creare una certa distanza dalla vita che scorre, si è rivelata fondamentale per lo sviluppo della filosofia; questa evoluzione si è manifestata, da una parte come capacità dell’emisfero sinistro di sviluppare una ‘oggettiva’ rappresentazione della realtà; dall’altra come capacità dell’emisfero destro di sviluppare empatia verso gli altri, collegata ad un certo tipo di autocoscienza che vede l’essere individuo come inseparabile dal tutto in cui vive1.
McGilchrist mostra come a un certo punto della storia della filosofia occidentale-di cui riscontra avvisaglie già in Parmenide, e poi in Platone - alcune delle profonde 1 intuizioni della filosofia presocratica legate alla visione d’insieme dell’emisfero destro, come il senso di solidarietà coll’universo e la consapevolezza dell’arbitrarietà dei confini posti dalle nostre categorie, siano andate perdute, e i filosofi occidentali abbiano preferito la certezza e la stabilità offerta dal tipo di conoscenza proveniente dall’emisfero sinistro.
Prima di affrontare la relazione tra la visione dell’emisfero destro e la filosofia dei presocratici, mi soffermerò su alcuni aspetti del diverso approccio alla realtà dei due emisferi, seguendo i suggerimenti della prima parte di “The Master and his Emissary”.
Il titolo, ci dice McGilchrist, è preso da una storia scritta da Nietzsche che parla di un saggio maestro spirituale (il master del titolo) che era anche a capo di una felice e prosperosa comunità. Questa comunità cresceva e il maestro delegava l’amministrazione delle parti più distanti a numerosi fidati ambasciatori/funzionari - essendo saggio, il maestro capiva che non avrebbe mai potuto governare una comunità così vasta da solo; inoltre, una volta affidato un compito a un fidato funzionario, non si preoccupava di esser messo al corrente dei dettagli della zona governata da questi. Un giorno però il suo più importante ambasciatore (l’emissary del titolo) decise di approfittare della sua posizione per arricchirsi; riteneva una debolezza del maestro il fatto che lui fosse così disinteressato; un giorno spodestò il maestro, divenne un tiranno e dopo poco l’intera comunità andò in rovina (p. 14). McGilchrist legge questa storia come un’illustrazione di quello che sta succedendo nel nostro cervello e nella nostra cultura, in cui l’emisfero sinistro, o l’ambasciatore, invece di collaborare con l’emisfero destro, ovvero il maestro, lotta per spodestarlo.
In che modo vedono (e formano) la realtà i due emisferi? Nella prima parte del libro (Part One: The Divided Brain), dopo aver presentato la fisiologia del cervello nel breve Capitolo 1, “Asymmetry and the Brain” McGilchrist confronta gli approcci dei due emisfe-ri nel Capitolo 2, “What do the two hemispheres ‘do’?”.
Ecco alcuni dei modi di vedere la realtà dell’emisfero destro (dx) e sinistro (sin) a confronto:
Il Capitolo 3 “Language, Truth and Music” e il Capitolo 4 “The nature of the two worlds” affrontano temi filosofici come la conoscenza, il linguaggio, la metafora, e il paradosso, mettendo in luce come aspetti diversi di questi fenomeni emergano a seconda dell’emisfero con cui li si guarda. Ognuno di questi approcci è coerente in se stesso, mentre è incompatibile con l’altro. Accennerò alle due interpretazioni della conoscenza e del paradosso. Due tipi di conoscenza. McGilchrist si sofferma sul diverso significato del verbo “to know” a seconda di quale emisfero dica “I know this” [La differenza conoscere (cognoscere, connaitre, kennen)/sapere (sapere, savoir, wissen) non è presente in inglese, solo ‘to know’, p. 96.] Quando parliamo di conoscenza ci riferiamo a volte ad un contatto diretto tra noi e una persona: questo tipo di conoscenza/incontro non si può facilmente tradurre in parole; se vi racconto com’ è una persona non vi offrirò lo stesso tipo di conoscenza che consisterebbe nel farvela conoscere, cioè incontrare (p. 95). Invece l’altro tipo di conoscenza non ha questa qualità dell’incontro diretto e può essere trasmessa ad altri senza perdita d’informazione. Io so e vi dico che è nata nel 1980, che ha i capelli castani, è alta 1.65 e abita a Parigi. Questo tipo d’informazioni è lo stesso che si possono dare per ciò che è vivente e ciò che non lo è: anche di un armadio si può dire è alto 2 m, è di legno di ciliegio e si trova nel garage ad un certo indirizzo. E’ il tipo di sapere scientifico, non cambia da persona a persona o da momento a momento, è fisso.
Eraclito (a cui torneremo presto) capiva la differenza (Capitolo 4 “The nature of the two worlds”): la vera conoscenza non è quella che accumula mattoncino su mattoncino, quella basata sul principio di divisione che porta chiarezza e stabilità nell’oggetto di conoscenza, una volta separato dagli altri oggetti e categorizzato e misurato: quella è solo polumathiê, ovvero approccio dell’emisfero sinistro, che spezzetta e non sa unire. Eraclito sa che il tutto non è la somma delle parti, ma un processo continuo e non frammentato: Eraclito accoglie la prospettiva dell’emisfero destro, che sa incontrare il tutto nel fenomeno in cui s’imbatte. Eraclito sa riconoscere la realtà come un processo nel quale le “cose” vengono separate ed etichettate per fini pratici - non lo disturba il fatto che le etichette poste sulle cose siano da una parte giuste e sensate e dall’altra false e parziali. Eraclito non è disturbato dal paradosso: lui sa che il nostro modo usuale di vedere le cose e parlarne non è adeguato a cogliere la natura della realtà.
Paradosso. La consapevolezza del fatto che le nostre etichette e i nostri concetti (radicati nell’emisfero sinistro) sono utili ma inadeguati a catturare la realtà è ancora molto 7 viva e tangibile per Zenone. Il paradosso (radicato nell’emisfero destro) va contro l’opinione comune (para-doxon), governata dall’emisfero sinistro, ed esprime la consapevolezza (propria del destro) dei limiti del nostro linguaggio e pensiero8.
Per Platone invece il paradosso è qualcosa d’inquietante - poiché è visto alla luce della legge del tertium non datur che è considerata come una legge del pensiero che deve essere anche una legge della realtà. Mentre l’emisfero destro ammette di buon grado che i nostri concetti, e il nostro modo ordinario di pensare non è adeguato alla natura della realtà, McGilchrist descrive così la reazione dell’emisfero sinistro al paradosso: se il movimento non si lascia descrivere in termini non-contraddittori, allora non è reale. Così è successo quando i filosofi greci non hanno più capito il paradosso di Zenone e lo hanno interpretato come fa l’emisfero sinistro: contrariamente a ciò che ci dice il buon senso, la freccia non si muove, Achille non può superare la tartaruga; la realtà non è come sembra - la logica ci deve mostrare com’è la realtà: se la logica non può spiegare il movi-mento, non è la logica inadeguata, bensì il movimento non è reale9 (p. 140).
Nel Capitolo 5 “The Primacy of the Right hemisphere” McGilchrist spiega che la visio-ne dell’emisfero destro dovrebbe prevalere poiché è l’unica che può pervenire a una sinte-si delle due visioni. E nel Capitolo 6, “The triumph of the left hemisphere” spiega come si sia potuta affermare la tendenza usurpatrice dell’emisfero sinistro.
I valori dell’emisfero sinistro sono chiarezza e stabilità che servono a poter predire e controllare il mondo una volta lo si è ridotto a questi termini - l’attrattività di questo approccio è ovvia; ma per ottenere questo tipo di conoscenza il tutto deve essere frammentato in parti, l’implicito reso esplicito, le metafore bandite, il mondo sostituito da una rappresentazione statica e coerente; è il mondo della fisica Newtoniana, della visione atomistica della realtà che ha caratterizzato il pensiero occidentale in un certo senso da Democrito a Niels Bohr. E’ una visione del mondo che ha prevalso per un certo periodo, 8 ma che deve essere reintegrata in una visione più grande che restituisca la consapevolezza che tale rappresentazione, pur essendo utile, non riflette la realtà - perciò l’ambasciatore dovrebbe fare il suo dovere e non usurpare il titolo di maestro10.
Nella seconda parte del libro (Part two: How the brain has shaped our world) McGil-christ affronta vari cambiamenti nella storia della cultura occidentali e li mette in rela-zione al prevalere della visione di uno dei due emisferi. Affronterò in questa sede solo il Capitolo 8 “The Ancient World”.Nella storia della filosofia greca McGilchrist vede nel periodo dei presocratici un equilibrio dei mondi (o del modo di vedere) dei due emisferi, combinato alla consapevolezza del primato del destro; seguito poi da uno spostamento verso sinistra e quindi da una permanente vittoria dell’emisfero sinistro e rigetto delle intuizioni del destro.
McGilchrist affronta i presocratici in cui riscontra un tentativo di conciliazione della fondamentale unità del mondo con la sua ovvia diversità. In questa sede affronta il tipo di monismo rispettoso della pluralità dei Milesi (p. 267-268) che non avrebbero ridotto la pluralità all’unità, ma avrebbero provato a rendere conto della possibilità della diversità all’interno di un sistema unitario11.
Ad es., Anassimandro coglie la necessaria relazione - sia produttiva che distruttiva - tra opposti che agiscono su un principio, e interpreta tale relazione che unisce gli opposti come un processo piuttosto che un’entità12.
McGilchrist si sofferma a lungo su Eraclito. Eraclito è consapevole che gli strumenti che siamo inclinati a usare per investigare la natura non sono adatti. Il buon senso e le 10 opinioni che ci guidano nella quotidianità ci traggono in inganno quando si tratta di capire come funziona la realtà. Dobbiamo essere pronti a lasciar andare le nostre aspettative ed essere totalmente aperti, in modo da poter cogliere ciò che la natura ci dice, invece di forzarla nei quadri delle nostre categorie e punti di vista (provenienti dall’emisfero sinistro). Dobbiamo aspettarci l’inaspettato, che è inesplorato ed impervio. L’inaspettato, il nuovo, è terreno dell’emisfero destro. La realtà non è chiara e lineare come la vorrebbe l’emisfero sinistro; ha una logica che si può capire se non si pensa di poterla ridurre a proposizioni chiare e distinte. La natura parla a chi la sta ad ascoltare senza preconcetti, parla come un oracolo. Per questo Eraclito (Kahn) deve parlare in un modo oscuro che deve assomigliare alla natura piuttosto che descriverla. Parlare della natura in linguag-gio lineare, sarebbe come tradirla. La natura non si lascia rappresentare fedelmente, ma si lascia evocare tramite paradossi, metafore ed immagini. L’emisfero destro, che ama i paradossi, le metafore, gli spunti incomprensibili se non visti alla luce del contesto, è quello che la può capire.
Se le apparenze ingannano e non si lasciano descrivere in modo coerente, la ricetta di Eraclito non è quella di allontanarsi da esse verso un mondo astratto in cui la complessità del reale venga appianata e semplificata. La sua ricetta è di tornare alla nostra esperienza, cercare di incontrare veramente le cose, invece di ascoltare le opinioni nostre e di altri a proposito delle cose (è l’emisfero destro che predilige l’esperienza diretta piuttosto che le teorie). Ovviamente non basta guardare le cose per capirne la natura, bisogna guardarle in modo intelligente, in un modo che ci consenta di vederle veramente e di capire l’unione degli opposti. L’intelligenza (dell’emisfero destro) è ciò che ci permette di trascendere la nostra prospettiva di soggetto per cui la natura è un oggetto, e di essere consapevole di come il contesto cambi il valore degli enunciati ed il significato delle parole; l’intelligenza ci permette di cogliere l’armonia comune al tutto.
Così Eraclito crea una filosofia consapevole del fatto che l’emisfero destro debba avere l’ultima parola13.
McGilchrist interpreta invece la filosofia di Parmenide come sintomatica dello spostamento verso ‘sinistra’ che si vede riflesso poi in Socrate e Platone e i filosofi venuti dopo di loro. Ovviamente McGilchrist è consapevole della grandezza di Platone riflessa per esempio nel suo ampio uso del mito in cui certi contenuti devono rimanere impliciti - ma questo è un altro discorso. Quello che a lui preme sottolineare è che già nel periodo classico della filosofia greca, e sicuramente a partire da Teofrasto, lo stile di Eraclito veniva interpretato come segno di malattia mentale.
McGilchrist (purtroppo) abbraccia l’interpretazione di Parmenide secondo la quale Parmenide considera il mondo dei fenomeni come un’illusione e ritiene che le leggi della logica debbano avere l’ultima parola, anche se portano a conclusioni contrarie al buon senso. Secondo McGilchrist con Parmenide l’emisfero sinistro ha prevalso e ha lasciato in eredità a Platone e a gran parte della filosofia occidentale il pregiudizio secondo cui non si possono conoscere le cose che cambiano. ‘Conoscere’ qui è ovviamente interpretato come lo interpreta l’emisfero sinistro, cioè una conoscenza teorica, astratta, sistematica di entità lontane dall’esperienza, esprimibile in un linguaggio lineare privo di metafore e paradossi14.
Così la filosofia occidentale è diventata e rimasta per un lungo periodo un prodotto dell’emisfero sinistro: molto analitica, richiede un modo di pensare astratto e decontestualizzato, preferisce il generale rispetto al particolare ed ha un approccio alla verità lineare; pensa che la verità sia conoscibile per mezzo della ragione, e che la testimonianza dei sensi e il mondo della nostra esperienza ci ingannino.
E pensare che, all’inizio della civiltà greca, nel periodo d’oro dei nostri presocratici, i due emisferi erano in equilibrio (e l’ambasciatore non era ancora divenuto tiranno).
E chissà che questo modello non ci aiuti ad interpretare certe posizioni dei presocrati-ci che difficilmente si lasciano interpretare come teorie completamente consone ai detta-mi dell’emisfero sinistro, cioè statiche, lineari ed esaustive della realtà, visto che i presocratici nutrivano rispetto per la visione olistica, fluida e contestuale dell’emisfero destro.
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FONTE: PEITHO / EXAMINA ANTIQUA 1 ( 4 ) / 2013 (RIPRESA PARZIALE, SENZA LE NOTE).
Mnemosyne, Aletheia e i poeti veggenti
di Mauro Zanchi *
Nell’antica Grecia si pratica la divinazione per sonno, un procedimento di natura mantica, un’incubazione religiosa. A Lebadea, Trofonio rende i suoi oracoli in un antico santuario, in una Tholos, ovvero in una tomba a forma di alveare, che deve condurre simbolicamente alla discesa nell’Ade. Il postulante, dopo qualche giorno di clausura e di severe interdizioni alimentari, viene accompagnato nei pressi di due sorgenti contigue, Lethe e Mnemosyne, prima di accedere nel mondo sotterraneo. L’acqua della prima fonte induce la mente a dimenticare tutta la vita personale, mentre la seconda fa in modo che il consultante possa conservare i ricordi di tutto quello che vedrà nell’altro mondo. Pausania narra che il corpo viene inghiottito come se un fiume impetuoso lo trascinasse nel suo flusso. L’individuo entra in uno stato d’incoscienza, prima di essere tratto dal mondo soprannaturale e invisibile per sedersi sul trono della Memoria, non lontano dalla bocca oracolare. -Appena riprende coscienza, l’iniziato ritrova la facoltà di ridere, segnando la rottura con il periodo di tensione e il ritorno dopo il viaggio nell’aldilà. La persona diviene simile a un morto, entra nella “Pianura d’Oblio”, scende nel ventre della Terra-Madre, entra in contatto con le potenze dell’aldilà, e ritorna ricco di conoscenza, che si estende al passato e all’avvenire. Acquisisce così facoltà e valori essenziali corrispondenti a quelli degli indovini e dei poeti ispirati, divenendo un “vivo” tra i morti, come Anfiarao e Tiresia, in virtù dell’acqua di Mnemosyne.
Il dono di veggenza, le visioni notturne dei Sogni (chiamate Alethosyne) e il viaggio nell’invisibile conducono i mortali a vedere con gli occhi dell’Aletheia (Verità), riuscendo a comprendere tutte le cose divine e umane, in ogni spazio e tempo.
La Musa e la Memoria, nella civiltà greca arcaica, sono considerate due potenze religiose. Sono simili a divinità e portano nomi di sentimenti, passioni, qualità intellettuali, attitudini mentali, sostantivi comuni e potenze divine. Poiché la parola cantata è ritenuta inseparabile dalla memoria, Esiodo immagina che le Muse siano figlie di Mnemosyne[1]. Le Muse inducono i poeti a ricordarsi, a sviluppare l’arte della mnemotecnica, a imprimere lo statuto religioso nelle loro parole. E soprattutto in una cultura fondata sulle tradizioni orali e non sulla scrittura, come era la Grecia dal XII al IX secolo a.C., la memoria non deve ingannare, ma risvegliare immagini e significati che sono già dentro le coscienze. A Chio le Muse sono considerate mneiai, ovvero rimembranze, perché inducono il poeta a mettere in azione i suoi ricordi.
Ma la memoria dell’aedo è una funzione psicologica molto diversa da quella dei nostri tempi: è una memoria divinizzata in grado di viaggiare nel tempo, per attingere a forze e immagini di rango superiore, spirituali, religiose, epiche, eroiche. La memoria sacralizzata è un privilegio di poeti ispirati, organizzati in confraternite, dove viene insegnata (per via iniziatica) l’arte vicina a un sapere mantico. Per loro la memoria è un’onniscienza di natura divinatoria. Come veggenti, i poeti entrano in contatto con l’altro mondo, accedono agli avvenimenti che evocano, decifrano l’invisibile, ricordano il passato e il futuro[2]. Sono sintonizzati con le divinità oracolari, che incarnano la potenza veggente.
Sul piano più alto della rivelazione oracolare sta Apollo, e il suo tempio a Delfi. Poi vi sono Nereo, Glauco, Pontos, Phorkys. Eido viene chiamata Thenoe “poiché conosce tutte le cose divine, il presente, l’avvenire, un privilegio che ha ereditato dall’avo Nereo”[3]. Come lei molti chiaroveggenti si affidano al campo di pensiero della mantica, fortemente legato alla Sapienza e alla Verità. All’Aletheia appartengono anche le visioni e le rivelazioni ricevute in sogno[4]. Ma nel pensiero religioso greco la dea della giustizia, Dike, è strettamente associata alla Verità. L’Aletheia, “che sa tutte le cose divine, il presente e l’avvenire”[5] ed è la più giusta di tutte le cose, esprime la sua azione nello stesso ambito di Dike, che conosce in silenzio ciò che avverrà e ciò che è avvenuto. Entrambe si affidano anche a forme di divinazione e di mantica nei procedimenti giudiziari. A prova di questa pratica, nel VI secolo a.C. Teognide scrive: “Bisogna che io giudichi questa faccenda con tanta esattezza come se procedessi con il filo di piombo e la squadra, che io renda equamente il dovuto alle due parti con il ricorso agli indovini, agli uccelli, agli altari che fumano, per risparmiarmi l’onta di un errore”[6].
Ma torniamo ai versi dei poeti-veggenti che, per cogliere chiaramente la verità, si affidano al medium della Memoria superiore. Mnemosyne è la potenza religiosa che dona al verbo poetico lo statuto di parola magico-religiosa[7], così che la parola cantata da un poeta dotato della visione profetica sia veramente una parola efficace, in grado di rendere vivi i significati del mondo simbolico religioso, della realtà, dell’Aletheia, in tutte le sfumature significanti, che trascolorano dal “dischiudimento” alla verità, dallo svelamento alla rivelazione.
I poeti ispirati, ma anche le persone più sensibili, in alcuni momenti del tempo sentono in loro la presenza delle Muse. Metis è la facoltà intellettuale, Themis è la nozione sociale, entrambe spose di Zeus. La Musa esprime la teologia della parola cantata, o della parola ritmata. In principio, molto prima di Esiodo, le Muse sono tre, venerate in un antichissimo santuario sul monte Elicona. Si chiamano Melete, Mneme, Aoide, e incarnano aspetti essenziali della funzione poetica. Melete rappresenta l’esercizio mentale, la concentrazione e l’attenzione che il poeta deve mettere in atto nella propria disciplina. Mneme è la funzione psicologica che permette di improvvisare e di recitare i versi. Aoide è il poema finito, il prodotto che ha preso forma da Melete e Mneme. Al tempo di Cicerone le Muse divengono quattro, con una sostituzione e un’aggiunta. Le nuove arrivate sono Arche, ovvero la musa che svela il principio e l’originario, la realtà primordiale, e Thelxinoe, la seduzione dello spirito, l’incantamento che il ritmo e i suoni dei versi esercitano sugli ascoltatori. Sarcofago delle Muse (II secolo), proveniente da Via Ostiense, Parigi, Museo del Louvre
Nel poema Teogonia, Esiodo attesta che le Muse rivendicano il privilegio di dire la verità, attingono direttamente all’Aletheia poetica e religiosa, rivelando “ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu”[8]. I poeti - intesi come i servitori delle Muse, della Memoria e dell’Aletheia - divengono voci determinanti in una civiltà agonistica, dove la parola di lode può incidere nella memoria dei contemporanei e dei posteri, e decidere del valore di un guerriero, di un re, di un nobile, o di un artista.
Nella civiltà greca vi sono due aspetti della gloria: Kydos e Kleos. Kydos è gloria istantanea, accordata direttamente dagli dèi, mentre Kleos è la gloria che prende forma e si sviluppa di bocca in bocca, di generazione in generazione, è una fama che sale fino agli dèi. E questa gloria dipende dalla bravura dei poeti, dai maestri della lode. I servitori delle Muse hanno il potere di accordare o di rifiutare la memoria alle gesta di un guerriero, all’operato di un re, ai versi di un letterato, alle opere di un artista. Nell’Iliade, Ettore testimonia che la vita di un guerriero è tesa verso la gloria cantata: “Non voglio morire senza lotta, senza gloria, senza qualche alta impresa il cui ricordo pervenga ai posteri”[9]. L’angoscia degli argonauti risiede nella paura di morire senza che nessuno dia memoria alle loro gesta[10].
I poeti ispirati dalle Muse, per mezzo della lode e dell’etymos, possono trasformare un comune mortale in uomo avvolto dalla gloria, nel pari di un Re: “Nestore e il licio Sarpedonte, uomini di grande fama, ci sono noti dai versi armoniosi che hanno composto gli artisti di talento. Sono i canti illustri a far durare il ricordo del merito; pochi, però, riescono ad ottenerli”[11]. Ogni mortale sta tra le due potenze antitetiche, tra Mnemosyne e Lethe, ovvero tra la memoria e l’oblio, tra la possibilità di essere ricordato dai posteri o di essere inghiottito dalla dimenticanza e dal silenzio perenne. Le imprese su cui si tace scompaiono, o vengono inghiottite dalle fauci dell’Oblio e della Notte. Aletheia si oppone a Lethe, conferisce luce e splendore, saggezza e virtù. Il poeta è considerato “maestro di verità”, perché agisce e parla attraverso l’Aletheia delle Muse.
Il poeta Esiodo si considera come un indovino-profeta, in grado di rivelare i “disegni di Zeus”[12]. Per lui anche arare, coltivare e far fruttificare la terra hanno un carattere sacro e sono da intendere come una pratica religiosa. “Uomo divino” è colui che conosce il rituale concatenarsi dei lavori nelle quattro stagioni. Ed è per questo che il contadino di Ascra può guadagnare l’Aletheia attraverso il suo agire sulla terra, per vedere la rivelazione dei Lavori e dei Giorni. L’aedo pronuncia le parole magico-religiose delle Muse, articolate con la memoria poetica. Il contadino può sconfiggere l’oblio attraverso lo spirito e i frutti del suo lavoro[13]. E come l’iniziato che entra nel mondo ctonio, chi sa lavorare la terra e farla generare accede al mondo sacrale della Terra-Madre, condotto dalla memoria dei saggi e dalla verità che disvela.
[1] Hes., Theog., 54, 135, 965 sgg.
[2] Cfr. Il. I, 70; Hes., Theog., 32 e 38.
[3] Eur., Hel., 13 sgg.
[4] Esch., Sette, 710.
[5] Eur., Hel., 13 sgg.
[6] Theognis, 543 sgg.
[7] Si veda: M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Roma-Bari 1983, pp. 4-5.
[8] Hes., Theog., 28, 32 e 38.
[9] Il., XXII, 304-305.
[10] Apoll., Rh., IV, 1306.
[11] Pind., Pyth., III, 112-115.
[12] Hes., Oper., 661-662. Cfr. M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Roma-Bari 1983, p. 13.
[13] Hes., Oper., 397 e 769.
* Fonte:(Antinomie, 22/12/2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Filosofia. In «Partorire con la testa» (Marsilio) Dorella Cianci ragiona sulla maieutica e fa emergere lati meno noti del pensatore greco, anche al di là della versione platonica
Ritratto inatteso di Socrate, sapiente maestro di ribelli
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 15.01.2019)
Una persistente e densa immagine mentale in evoluzione. Mito e raziocinio ruotano fra la tecnica dell’anamnesi e gli aspetti terapeutici della forma dialogica verso la scoperta del sé nascosto nell’inconscio, sorpreso a ragionare con reminiscenze primordiali. Tant’è che oggi si trovano a confluire sulla genesi del pensiero differenti discipline: pedagogia, storia, antropologia, psicoanalisi, filosofia, retorica, teologia.
Con analisi accurata delle fonti dall’antichità al Medioevo, un inatteso Socrate, non più esclusivamente «controllato» dalla versione platonica, scopriamo ora nel volume Partorire con la testa. Alle origini della maieutica di Dorella Cianci (Marsilio).
Nata a Cerignola (Foggia) nel 1984, filologa classica, docente universitaria, l’autrice ritiene che Socrate sia passato alla storia come filosofo grazie alla volontà dall’allievo Platone. È sufficiente leggere fra le righe dei documenti. Una di queste prove si trova non a caso in un dialogo platonico, il Menone. Un giovane schiavo, che credeva di non avere dubbi, dopo l’incontro con Socrate non ha più certezze. Anzi, il ragazzo viene indotto a ricercare il sapere, perché si trova in uno stato di fame della conoscenza.
Socrate è davvero un maestro di parto, un’abilissima ostetrica. Da dove arriva l’idea di generare senza utero se non dal mito? È noto come Atena, dea della sapienza, fosse la figlia prediletta di Zeus, nata dalla testa del padre, aiutato da Efesto che gli spaccò il cranio in due. La potenza simbolica dei miti è ineluttabile nella cultura classica. Giulio Guidorizzi, grecista di chiara fama, sottolinea nell’illuminante prefazione: «Nulla nasce senza dolore e rottura. Questa è in definitiva la natura della maieutica socratica; ...a poco a poco, una nuova idea viene al mondo e con essa un nuovo modo di essere cresce nella mente di una persona, che alla fine ne viene mutata fondamentalmente».
Senza dubbio la teoria socratica parte dall’assunto che la verità esiste già nella mente di una persona. Siamo nel campo dell’inconscio. Tocca al maestro, induttore di idee e non solo levatrice, far emergere la coscienza di sé, quando ancora l’allievo giace in uno stadio d’inconsapevolezza.
Platone attribuisce al comico Aristofane la maggiore responsabilità per la condanna a morte di Socrate nel 399 a. C. È vero, nelle Nuvole, commedia rappresentata nel 423, Socrate viene trasformato in un buffo manichino, maschera ridicola che si arrabbia nel caso qualcuno gli faccia abortire delle idee, un ateo che rigetta la religione olimpica. È il segno che Aristofane testimonia l’opinione dell’uomo della strada, mentre il pubblico ride del «supremo corruttore dei ragazzi». Nessuna colpa, quindi, del comico per la condanna decisa contro il filosofo dopo più di vent’anni dall’allestimento teatrale.
La questione maieutica in Socrate nasce dall’esigenza di proporre una pedagogia nuova. Chi esce dalla sua scuola è un ribelle pronto a demolire i valori etici dell’educazione tradizionale. Per questo Socrate deve morire.
Alias domenica
L’«Iliade» plurilingue di Franco Ferrari
Classici ritradotti. Negli Oscar una nuova, personalissima versione, con denso commento
di Federico Condello (il manifesto, 01.07.2018)
«Non si è autori che a partire dalla seconda opera», diceva il Lejeune del Patto autobiografico. Aurea regola, dalla quale viene una formula tra le più fortunate del nostro marketing librario: «dallo stesso autore di...». Segue, naturalmente, menzione di uno o più bestseller anteriori. Ma cosa accadrebbe se volessimo applicare la regola, e la pubblicità che ne deriva, all’autore primo e principe, cioè a Omero? Il gioco funzionerebbe ancora? O invece Omero fa eccezione, ed è nato autore fin dalla sua prima opera, che è per noi la prima di tutte le opere a venire? L’«Oscar» omerico che si discute in queste pagine (Iliade, a cura di Franco Ferrari, pp. 1232, € 14,00) esibisce placidamente questa réclame: «di Omero negli Oscar: Iliade, Odissea». E però bisogna ammettere che la dicitura suona piuttosto spiazzante, se applicata al cieco di Chio, al poeta dei poeti. «Iliade, Odissea»: che altro mai dovrebbe esserci? «Di Omero»: siamo sicuri? E «di Omero» in che senso? Omero è forse un autore come un altro?
Eppure, a suo modo, la regola di Lejeune funziona anche per l’autore dell’Iliade e dell’Odissea. «Omero» - il suo nome, il suo mito - è decisamente posteriore ai poemi che del suo nome e del suo mito si alimentarono: appropriarsi di quei poemi, e diffonderli sotto la paternità di un proto-poeta leggendario, fu una geniale operazione di marketing letterario avvenuta nel corso del VI sec. a.C. Gli aedi che la promossero, oltre a tutelare se stessi dietro un comodo anonimato, diedero impulso a una dilagante attività pubblicitaria in virtù della quale «tutta la poesia epica, intorno al 500 a.C., è poesia di Omero» (Wilamowitz): tutta l’epica perduta che noi oggi leggiamo a brandelli. Finché essa circolò sotto il nome di Omero, fu salvaguardata. Poi si perse. Così, se dapprima «Omero» trasse lustro dall’Iliade, di lì a breve l’Iliade trasse lustro da «Omero»; e con essa l’Odissea, poema programmaticamente epigonale con cui inizia davvero «la letteratura», diceva Vincenzo Di Benedetto; e con l’Iliade e l’Odissea ogni altro epos di età arcaica a vocazione panellenica: tutti poemi provenienti a qualche titolo da Omero, cioè «dallo stesso autore di...».
E oggi? Oggi Omero è più che mai «Omero», perché la sua canonizzazione moderna - un fenomeno tutto sommato recente, di pretta età romantica - ne fa un autore più che mai anonimo, più che mai collettivo. Diciamoci la verità: situare Omero nel tempo e nello spazio non solo non ci interessa, ma ripugnerebbe al nostro gusto, e ci parrebbe lesa maestà. Semmai, ci interessa sapere chi lo traduce per noi.
In effetti, fra le infinite patenti di classicità che vanno riconosciute a Omero, una si deve sottolineare, perché la si nota di rado: Omero è l’unico «autore» classico di cui importa sapere chi sia il suo traduttore. Nessuno se lo chiede, fuori dagli specialisti, per Senofonte o Cicerone, per Seneca o Plutarco, e nemmeno per Platone o Aristotele. Omero è diverso. «Voglio rileggere Omero», oppure «mia figlia deve leggere Omero, che traduzione mi consigli?»: ecco una domanda che i classicisti si sentono porre da amici e conoscenti con la stessa frequenza con cui i medici si sentono interpellare su questo o quell’acciacco. E improvvisamente i classicisti si scoprono utili: anche se quasi mai riescono a dare una risposta secca.
D’ora in poi, per l’Iliade, la risposta risulterà forse più facile. Sì, perché a Ferrari riesce qualcosa che ai traduttori omerici riesce di rado: emanciparsi, nella misura in cui è possibile e legittimo, dal canone traduttivo anteriore. Ora, si sa che l’Omero novecentesco è indiscutibilmente quello di Rosa Calzecchi Onesti: la portentosa traduttrice forgiò nel 1950 l’italo-omerico contemporaneo; liberarsi del suo modello si è rivelato per lo più un’impresa impossibile, anche quando la si è lucidamente perseguita. Fra le rare eccezioni, il coraggioso Omero in prosa di Maria Grazia Ciani; e l’ispida, laboriosa, genialmente cervellotica Odissea del citato Di Benedetto.
Ferrari, con questa sua Iliade, si colloca da par suo fra le eccezioni. La sua Iliade viene dopo l’Odissea da lui tradotta quasi vent’anni fa; e viene dopo tanti altri classici - lirici, tragici, prosatori - volgarizzati per le maggiori case editrici italiane: se a Ferrari applicassimo la formula «dallo stesso traduttore di...», l’elenco sarebbe lunghissimo.
Con l’Iliade, però, egli compie un’operazione speciale, costata anni e anni di lavoro: il traduttore cerca un ritmo e un tono che siano solo suoi; e solo sue sono tante singole soluzioni che innovano, oltre al ron-ron formulare, tutto il campionario lessicale del poema. Ne esce una stupenda Iliade plurilingue: accanto al registro aulico, c’è il colloquiale; accanto alla vaghezza lirica, c’è il vocabolario tecnico; accanto all’epiteto stereotipato - atto d’ossequio dell’aedo alla sua tradizione, che impone al traduttore un analogo tradizionalismo - c’è l’imprevisto guizzo della nominazione inedita, esatta, illuminante.
Un’Iliade nuova è una novità davvero. Le novità sono qui figlie di dottrina, non solo di felicità espressiva: quasi ogni scelta è una meditata presa di posizione esegetica. E infatti l’introduzione, la nota filologica, il densissimo commento sono fra i migliori contributi omerici recenti. La profondità si abbina a una chiarezza superba, di cui pochi sarebbero stati capaci.
«Voglio rileggere l’Iliade...». Bene: questa traduzione si può caldeggiare con ottimi motivi.
Picchi di intensità per il ritmo di Achille ed Ettore
Classici ritradotti. L’esametro greco viene trasformato in una sequenza sillabica scandita con enfasi contenuta e discreta, che spesso gioca sulla sospensione precipitando nel verso successivo
di Maria Grazia Ciani (il manifesto, 01.07.2018)
Nonostante la mole, la nuova Iliade di Franco Ferrari (Oscar «Classici», testo greco a fronte) è estremamente maneggevole e soprattutto ha il pregio di cogliere tutti gli aspetti relativi a un capolavoro antico, restituendolo nella sua complessità ma sciogliendo al tempo stesso quei nodi tecnici che tendono a rendere di difficile comprensione i testi classici. L’introduzione è fondata sulla questione dell’oralità e della redazione scritta del poema. Qui Ferrari chiarisce la «scoperta» di Parry e Lord inserendola in un quadro più ampio che si rivela a una lettura molto attenta del poema, a quei particolari considerati come «incidenti» sui quali facilmente il lettore sorvola, e che fanno pensare a una «precoce redazione scritta del poema» (come documento da conservare), tesi sostenuta dai numerosi esempi di riprese omeriche - sia pure elaborate e variate - da parte di autori posteriori a Omero, quali Simonide, Stesicoro, Alceo, Alcmane... Esistevano quindi esemplari scritti anteriori alla cosiddetta redazione pisistratea e il poema - come del resto osservava Wilamowitz - era già «pronto» quando pervenne agli Ateniesi.
Nonostante ciò o forse proprio per questo, il testo dei poemi omerici rimase a lungo «liquido e cangiante nel dettato e nel numero dei versi», e qui il curatore interviene sulla figura degli aedi (quali Femio e Demodoco nell’Odissea) , che rappresentano una sorta di archeologia del canto epico e in un certo senso precedono i rapsodi, che si esibivano per lo più nelle feste recitando pezzi staccati dell’epopea e si davano il cambio, raccogliendo l’uno il testimone dell’altro.
Ma l’osservazione più interessante - al di là di altri particolarità su cui sorvolo - è, a mio parere, quella sulla concezione dell’Iliade stessa, poema di guerra, ma fino a un certo punto, in quanto si basa innanzitutto sull’ideologia del dono e dell’onore per poi trasformarsi in una visione allargata della vita e del destino dei singoli, mentre la guerra, pur nella ferocia delle descrizioni, diventa lo sfondo necessario ma non fondamentale del racconto.
In conclusione: un’introduzione originale, concreta, che si sofferma su particolari in genere tralasciati, ignorati, poco analizzati - i quali invece mettono in luce la frastagliata realtà di questi poemi che in genere si leggono e studiano tenendo conto delle parti più poetiche, dimenticando che la filologia, quando è applicata con chiarezza e ariosità, apre scenari inattesi e svela minuti e affascinanti misteri.
Asciutto ed essenziale il commento, variegato in quanto unisce rilievi tecnici e informazioni necessarie senza dilungarsi in interpretazioni fantasiose: modello da imitare specie trattando opere così vaste e complesse. E lo stesso dicasi della «Nota filologica», che ci presenta un tratto della storia della filologia interessante come un romanzo, sfatando una volta di più l’idea che questi argomenti siano la morte della poesia.
Abituale asciuttezza
Infine, la traduzione, cioè l’argomento che più ci interessa e incuriosisce. E incominciamo da quanto lo stesso Franco Ferrari ci dice in poche paginette con l’abituale asciuttezza. La posizione di Ferrari è categorica ma non è facile comprendere la sua esposizione se non si possiede un concetto chiaro e una conoscenza approfondita della metrica in generale e della sua evoluzione, perché è su questa che si basa la scelta del traduttore. Risalendo al blank verse e al gioco di fusione tra la ritmica delle sillabe (italiano e lingue romanze) e quella degli accenti (lingue germaniche), Ferrari opta per lo «statuto sillabico forte della lingua italiana» (senza peraltro attenersi a una polarità secca sillaba/accento, ma a uno spettro allargato di tendenze secondo l’orientamento di Franco Fortini) - il quale fa sì che «una cadenza legata a picchi di intensità si risolva... in un ritmo scandito con enfasi contenuta e discreta, più adatto del martellante esametro barbaro pascoliano a riverberare le inflessioni dell’esametro greco». Se la comprensione di quanto viene affermato non è facile, veniamo alla traduzione per la quale ho pensato di prendere in considerazione alcuni brani noti del poema omerico.
«Canta, Musa, l’ira...»
Ineludibile l’inizio del primo canto: «Canta, Musa, l’ira di Achille Pelide, / l’ira sciagurata che lutti innumerevoli impose / agli Achei precipitando alla casa dei morti molte / anime forti di eroi e facendo dei loro corpi / la preda di cani, il banchetto di rapaci: si attuava / il piano di Zeus da quando, scontratisi, si separarono / l’Atride capo di genti e Achille divino».
Non credo sia dovuto a suggestione il fatto che - in luogo della resa dell’esametro ad verbum, che suscita la sensazione di un racconto ininterrotto, di una specie di prosa spezzata - qui si avverta un ritmo il quale, facendo leva sulla lingua d’arrivo, «traveste», secondo l’espressione stessa del traduttore, l’esametro greco e lo trasforma in una sequenza scandita, nella quale gli enjambement - invece di scomporre l’ordito - lo rafforzano, sottolineando una sospensione che precipita nel verso seguente, in un alternarsi di pieni e di vuoti, di pause e di riprese che trascinano il lettore concentrando l’attenzione proprio sul «travestimento». Una nuova proposta di traduzione, profondamente studiata e rispettosa del testo greco senza essere né libera né pedissequa, ma originale soprattutto nella resa del «passo epico», grazie appunto all’adozione dello «statuto sillabico».
Citerò un passo del Catalogo delle navi (libro II): «Lo seguivano gli agili Abanti chiomati sulla nuca, / guerrieri avidi di squarciare con le aste protese / di frassino le corazze attorno al petto dei nemici. / Venivano con lui quaranta navi scure».
La ripetizione del ritornello, reso molto felicemente (venivano quaranta o ottanta navi scure) e la versione sincopata della rassegna rendono la misura del terrore - la forza marinara dell’intera Ellade schierata all’orizzonte, archetipo di un’Operazione Overlord ante litteram.
La bellezza di alcuni passi
Sfogliando il poema, anziché leggerlo puntigliosamente da cima a fondo, è più facile cogliere la bellezza di alcuni passi, come questi del libro IX: «Ma anche a voi altri vorrei consigliare di far vela verso casa / Perché ormai non vi accadrà di vedere la fine / Di Ilio scoscesa: stese la sua mano a proteggerla / Zeus tonante, la sua gente ha ripreso fiducia» (vv. 417-420); «Nulla per me vale il soffio della vita: non le ricchezze / Che dicono ospitasse la popolosa città di Ilio / In tempo di pace, prima che arrivassero i figli degli Achei, / né quelle che chiude al suo interno la soglia marmorea / di Febo Apollo l’arciere di Pito rupestre. / Buoi e grasse pecore si possono razzziare, bacili / E cavalli dalle fulve criniere si possono acquistare: il soffio / Della vita non si può, per farlo tornare indietro, né rubare / Né comprare una volta che abbia varcato la barriera dei denti» (vv. 401-409).
E alcuni versi tratti dalle scene di morte di Sarpedonte e Patroclo nel libro XVI: «Cadde simile a quercia o a pioppo o a pino / Svettante che calafati tagliano sui monti con scuri / Appena affilate per farne scafo di nave: / così quello giaceva disteso davanti ai cavalli / e al cocchio rantolando e stringendo la polvere insanguinata» (Sarpedonte, vv. 482-486); «Si troncò di netto nelle mani di Patroclo l’asta / Dalla lunga ombra, pesante, poderosa, dalla punta / Di bronzo e gli cadde dalle spalle con la sua cinghia lo scudo / Ben orlato. Gli slegò la corazza Apollo sovrano / Figlio di Zeus. Cecità gli invase la mente, si sfaldarono / I suoi splendidi arti, si fermò sbalordito...» (Patroclo, vv. 801-806);
Dal libro XXIV - da molti ritenuto un’aggiunta postuma - ricorderò almeno due passi significativi di quel risvolto umano della guerra che Ferrari ha sottolineato nell’introduzione: «Achille prende tra le sue braccia il cadavere di Ettore per deporlo sul carro: / Dopo che le serve lavarono e unsero il corpo / E lo avvolsero in un telo pregiato e in una tunica Achille / Lo sollevò di persona e lo depose su un letto e insieme / Con lui i compagni lo issarono sul lucido carro» (vv. 587-590); e la mirabile scena della «contemplazione»: «Allungavano prontamente le mani sui cibi imbanditi, / ma quando ebbero saziato il desiderio di bevanda e di cibo / Priamo Dardanide guardava Achille ammirandone / L’imponenza e la bellezza tanto somigliava agli dei / E Achille guardava Priamo Dardanide ammirandone / La nobile figura e porgendo ascolto alle sue parole» (vv. 627-632).
Considerata l’arte della traduzione nel suo insieme, pur citando solo pochissimi esempi, vorrei dire ancora due parole sull’uso e la resa delle formule fisse e degli epiteti. Regola aurea della tradizione epica è - si dice - il rispetto di tutti quegli elementi «fissi» che costituiscono i punti di appoggio per i cantori itineranti. A tal proposito Ismail Kadaré, rievocando in un suo docu-romanzo la scoperta dell’oralità da parte di Parry-Lord, rammenta che nei Balcani era prassi consueta la conservazione delle leggende per via orale e che esistevano gilde di cantori molto chiuse, che si trasmettevano le loro leggende col divieto assoluto di alterare alcunché, con una fissità dura e ostinata da portare alla follia (Ismail Kadare-Jusuf Vrioni, Le dossier H., Fayard, 1989).
La traduzione di Franco Ferrari rispetta l’antica regola, con qualche leggera variante peraltro giustificata dalla fluidità del poema da lui stesso sottolineata. Quindi Apollo è sempre «arciere» o «signore dell’arco», Ettore «sterminatore», gli Achei «dalle forti gambiere», Zeus «adunatore di nembi», Aiace «baluardo degli Achei», Andromaca e Era «dalle candide braccia» (confesso che la variante «candida di braccia» mi piace meno, e così «bella di guance» e simili). Trovo estremamente efficaci le formule «di morte», nelle loro lievi variazioni, che peraltro rispondono alle variazioni del testo («Lo catturò tenebra odiosa», «Morte lo avvolse», «Livida notte avvolse i suoi occhi», «La notte calò sui suoi occhi» ecc.).
Qualche altra soluzione, specie degli epiteti, mi piace meno e eviterò di citarle perché è solo un mio parere, ma non posso fare a meno di confessare che là dove sono rimasta delusa è nella traduzione degli epiteti degli eroi maggiori. Non mi riconosco in un Achille «scattante di piede» o anche semplicemente «scattante», e soprattutto in Ettore «domesticatore di puledri», siano o non siano questi termini quelli più esatti per rendere il greco.
Per entrambi gli eroi l’epiteto è importante, li caratterizza in modo assoluto e inoltre l’Ettore domesticatore di puledri chiude il poema - musicalmente parlando - in minore. Certo, anche questo dimostra come sia difficile tradurre l’epiteto che in sé racchiude tutta una storia, a volte ci vorrebbe un verso intero, come ha fatto quello scrittore che , citando l’ultimo verso dell’Iliade, scriveva: «Questi furono gli onori funebri resi a Ettore, a Ettore che quando era vivo, amava domare i cavalli». Bello, certo, ma non è possibile forzare e snaturare in questo modo il severo anche se fluido esametro. D’altronde quello che conta è l’insieme di questa nuova traduzione che appare diversa dalle altre e avvincente per il ritmo trascinante di quello «statuto sillabico forte» che si dimostra una scelta estremamente felice e che rende la lettura sorprendentemente scorrevole e «nuova». Una bellissima Iliade.
Scheda di lettura
Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo
di Deborah Spiga
Per poter comprendere tale opera è necessario inserirla nel quadro delle ricerche condotte da Blumenberge in particolare nell’ottica della sua “metaforologia”. Al centro del suo pensiero vi è l’intento di scomporre e analizzare il mondo dei miti, delle metafore e dei luoghi comuni che hanno contraddistinto non solo la filosofia occidentale, ma tutto ciò che va genericamente sotto la denominazione “cultura”. Il suo scopo, in questa analisi, non è propriamente ermeneutico, ma, potremmo dire genealogico - antropologico. Attraverso quelli che egli chiama “spaccati trasversali”, ricerca ciò che ha spinto l’uomo nella costruzione di una determinata figura metaforica e il loro passaggio all’interno del pensiero filosofico.
Metafore, miti, luoghi comuni non sono altro che immagini ancestrali con le quali l’uomo risponde alla realtà che lo circonda, cercando di conferirle un senso e un ordine. Risposte all’ansia, all‟incertezza, al pregiudizio di un’epoca nei confronti di una rappresentazione del tutto della realtà che non riesce a padroneggiare né a sperimentare. “Il mondo della vita” risulta così essere costituito da una trama di metafore che non solo spiegano il mondo, ma che orientano, formano e determinano, seppur inconsapevolmente, il modo di agire di ognuno in veri e propri paradigmi: “Le metafore sono dei tropi (in senso etimologico e non solo retorico), modi originari di „rivolgersi‟ al mondo, di orientarsi e disporsi nei confronti della realtà, atteggiamenti che si assumono ancora prima di ogni presa di posizione riflessiva”1. Queste le cosiddette “metafore - guida”, questa la loro funzione più propriamente pragmatica. In filosofia, d’altra parte, il loro utilizzo risponde all’esigenza di esprimere il non pienamente concettualizzabile, l’inspiegabile, il non-detto. La metafora della verità nuda o possente, il mondo come meccanismo di orologio o come teatro, il Dio demiurgo o sovrano non sono altro che i modi con cui la filosofia ha supplito ad un linguaggio logico, univoco e chiaro in qualche modo deficitario.
Il problema per Blumenberg si pone quando la stessa filosofia nella pretesa di razionalizzazione e concepibilità pura si sbarazza del le metafore come di veri e propri ponti che conducono dal mito al logos:
Le metafore come “stampelle”, gradi-zero del pensiero concettuale. Ciò che avviene è una “cristallizzazione” della polisemia e plurivocità del linguaggio analogico a favore dell’evidenza e chiarezza di quello logico. Scopo dell‟autore è quello di dimostrare come metafore e miti non siano detonatori, strutture pre-logiche del pensiero da smantellare, ma veri e propri cardini del pensiero umano in grado di “depotenziare lo strapotere della realtà e il suo assolutismo”3.
Tema di questa opera è: il mondo come metaforica del libro. Può il mondo essere letto come se fosse un libro? E il soggettocome si pone nei confronti di questo ipotetico libro: abile decifratore, soggetto ignaro da alfabetizzare o attivo lettore? Quello che Blumenberg compie è una ricostruzione a tappe del pensiero occidentale a partire dalla metaforica del mondo come libro. L’analisi prende l’avvio dalla filosofia antica e dalla sua ostilità nei confronti della scrittura. Questa infatti, in quanto negazione di una presenza, di una viva voce non è altro che copia di copia, inautenticità e inganno. Nonostante Democrito descrivesse i suoi atomi come lettere dell‟alfabeto e Platone cercasse di riprodurre nei dialoghi la dialettica del dibattito orale, l’idea della leggibilità del mondo è estranea al pensiero greco perché in esso ogni fenomeno è già pienamente accessibile:
Il mondo diviene significante solo quando il visibile-copia non rimanda più ad un modello-invisibile. Diviene significante e dunque leggibile solo quando questo perde il suo carattere di imitatività. È nel popolo della Legge, gli Ebrei, che si ha secondo l’autore la prima vera metaforica del mondo come libro. Questa idea presuppone infatti l’abbandono dell’accessibilità al fenomeno come visione e insinua una non chiarezza di fondo, una volontà di comunicare mediata che è propria di una creazione ex nihilo, di un Dio che si esprime attraverso il suo creato per indizi.
Nel cristianesimo l’esigenza di un libro che spieghi l’operato di Dio stride con l’idea di una natura naturata perfettamente chiara, giusta e comprensibile. Nel tentativo di conciliazione, autori come Alano di Lilla, Ugo di San Vittore, Bonaventura, Grossatesta descrivono la rivelazione biblica come il necessario mezzo per il ristabilimento di quello stato paradisiaco in cui l’uomo leggeva direttamente nella natura i veri nomi delle cose. Ogni creatura diviene segno e sintomo, l’allegoria strumento interpretativo indispensabile e il rapporto tra creatore-creato il rapporto tra la mano che scrive e lo scritto.
Fu il teologo Raimondo Sabunde che nel 1436 sviluppò esplicitamente per la prima volta nel Liber creaturarum la metafora dei due libri. Da una parte il libro scritto direttamente da Dio, il libro della Natura e dall‟altra quello dettato da Dio agli uomini, la Bibbia. La contrapposizione Bibbia - libro della natura viene a collidere definitivamente nel momento in cui l’avanzare delle scoperte scientifiche, geografiche e astronomiche non riescono più a convergere con i dogmi teologici. E se per Campanella i libri di Dio concordano e strumenti come il cannocchiale diventano messaggeri escatologici dell’annuncio del profeta, la soluzione di Galilei e del libro della natura come libro scritto da un Dio geometrizzante appare un compromesso. Difatti, attraverso l‟utilizzo della matematica, la natura appare governata da proprie leggi che possono essere decifrate, comprese e indagate senza alcun ulteriore rimando.
Ad un linguaggio metaforico, polisemico e analogico inizia così a sostituirsi la chiarezza e l’univocità del linguaggio logico che rinvia solo a se stesso. L’esperienza e la sperimentazione sono il nuovo terreno su cui si affaccia il nuovo soggetto che non è più spettatore ma esploratore. All’ammassibilità contenutistica del sapere viene contrapposta la viva e fresca esperienza della natura e il divario natura - sapere/libro trova qui il suo apice:
Le terre incognite, il viaggio per mare e il pellegrinare empirico diventano le nuove metafore. La scienza diventa “storia naturale”, la filosofia eco, mediatrice di una natura a cui non aggiunge nulla di proprio. Emblematica in tal senso è la metafora che utilizza Bacone nel descrivere il rapporto teoria-oggetto come quella di uno specialista che scrive sotto dettatura. Il libro della natura si ritrae così per fare spazio ad un nuovo e terzo libro: quello dell’uomo e della storia.
Con Gracìan, Vico e Lichtenberg è l’uomo viaggiatore e cosmopolita ad essere oggetto di indagine. Ogni espressione, ogni atteggiamento, ogni gesto viene cifrato dall‟uomo e decifrato dalla nuova arte della fisiognomica. Egli non è più il teoreta, ma l‟acuto decifratore che dissimula:
L’uomo diventa sempre più abile nel mascheramento delle proprie intenzioni, nell‟affinamento del decoder e nel non rendersi leggibile e trasparente all’altro. Al genio maligno si sostituisce una “demonologia” del tutto umana. La metafora diventa trascendentale e rivela il proprio carattere di artificio e costruzione. In Vico essa è precisamente deviazione, ciò che permette all’uomo di conoscere ciò che non conosce tramite ciò che conosce, conquista relazionale dell‟universo.
In seguito, nel capitolo intitolato “Tendenze per il diciannovesimo secolo”, all’esigenza illuministica di una ricapitolazionee sistematizzazione definitiva della storia nell’enciclopedia Blumenberg contrappone l’intento romantico di una riscoperta delle origini e della decifrazione dei testi antichi. Al tribunale della ragione la riscoperta del mito e di quei pregiudizi che Herder intende recuperarein quanto “impressioni infantili dell‟umanità”7.
Alla megabiblioteca e al progetto ambizioso di traduzione del mondo tramite la characteristica universalis di Leibniz l’unico libro della natura in cui tutto è già scritto di Goethe. Tutto diviene leggibile e ogniparte sta per il tutto. La natura appare di una “sincerità biblica” e lo stesso “Io geroglifizzato” di Novalis non fa altro che riflettere quella stessa natura in cui questa a sua volta si rispecchia. Al “libro della natura” si sostituisce l‟intento grandioso di scrivere un “romanzo sull‟universo”e una Bibbia di ognuno. La piena e totale significazione di ogni cosa si spinge fino al punto di perdere ogni significato e al sogno di scrivere “un libro suniente”. Vuoto, purezza, foglio bianco diventano le nuove parole d’ordine in Mallarmè e Valery:
Il viaggio a tappe termina con Freud e il mondo della cellula di Miescher e Oswald. Se nel primo l’idea di leggibilità diviene con-leggibilità attraverso i meccanismi di transfert e dell’interpretazione dei sogni, che eludendo la cifratura della censura permettono al soggetto di oggettivarsi e leggersi, nelle scienze genetiche codici, messaggeri e caratteri diventano le nuove metafore di un sistema ereditario da decifrare e manovrare in quella che va delineandosi come una vera e propria “grammatica biologica” potenzialmente riscrivibile:
1
R. Bodei, Introduzione italiana a
La leggibilità del mondo
di H. Blumenberg, p. XX.
2
H. Blumenberg,
Die Lesbarkeit der Welt
, Suhrkamp, Frankfurt 1981;
La leggibilità del mondo
,
a.c. di Remo Bodei, Il Mulino,
Bologna 2009,
p. 427.
3
R. Bodei, Introduzione italiana a
La leggibilità del mondo
di H. Blumenberg, p. XI.
4
H. Blumenberg,
Die Lesbarkeit der Welt
, Suhrkamp, Frankfurt 1981;
La leggibilità del mondo
,
a.
c. di Remo Bodei, Il Mulino,
Bologna 2009,
p.
p. 36.
5
Ibidem
, p. 11.
6
Ibidem,
p. 113.
7
Ibidem,
p.
170
8
Ibidem,
p. 315.
9
Ibidem,
p. 416-417.
* GIORNALE CRITICO - http://www.giornalecritico.it/risorse/biblioteca/Blumenberg_04.pdf
La civiltà che rifiutava l’immortalità letteraria
di Matteo Nucci (la Repubblica, 04.04.2016)
Nel Fedro, Platone si affannò a spiegare il motivo per cui la scrittura debba essere condannata in favore dell’oralità. Gli scritti contengono parole immobili e sterili come pietre, perché non sanno a chi si rivolgono e non sono capaci di rispondere. Le parole vive invece possono offrire risposte e per questo penetrano l’anima di chi ascolta e si rendono immortali. Anche Platone tuttavia sapeva bene che la grande letteratura deve essere scritta perché possa seriamente eternarsi.
Lo sapeva per sé, per quel che scriveva, e lo sapeva perché i canti composti oralmente dagli aedi omerici, quei canti che sarebbero diventati i più eterni fra i poemi epici dell’antichità, vennero fermati dalla scrittura e permisero così ai due eroi dell’Iliade, Ettore e Achille, di rimanere immortali, come essi stessi avevano sognato andando incontro alla fine.
Fu dunque la battaglia contro la morte attraverso la letteratura ciò che mancò agli Etruschi? Difficile stabilirlo. Può darsi che le nuove acquisizioni chiariscano qualcosa.
Per ora, di fronte all’immensa produzione letteraria di Greci e Latini, è lecito supporre che gli Etruschi avessero messo da parte quella speranza di immortalità letteraria e cercassero di procurarsela solo attraverso il culto, la religione, la cura del morto e tutto ciò che della loro civiltà ci resta con chiarezza. Ma può darsi che ci sia anche altro. Può darsi che sospettassero già quella che è la dannata disillusione raccontata dall’Odissea omerica attraverso le parole di Achille, quando morto nell’Ade incontra Odisseo. Non importa più al grande eroe quel che aveva sognato quando era in vita. Non gli importa più che ci siano poeti che ne cantano la gloria. Preferirebbe vivere la condizione peggiore, quella del servo, pur di vivere.
La letteratura dunque fallisce nel suo sogno di immortalità? Forse questo immaginavano gli Etruschi. E perciò scelsero di dedicarsi completamente a vivere questa vita e non perder tempo negli inutili giochi della letteratura. Forse.
Un’unica idea potrebbe confermare questa ipotesi che li rese così lontani dai “vicini” Greci e Latini. Ossia la più sorprendente delle loro conquiste: la condizione della donna. Aristotele dichiara con meraviglia che le donne mangiavano assieme agli uomini e con essi dunque discutevano alla pari. Teopompo ci racconta dello straordinario equilibrio che si raggiunse in quella società così unica in cui la libertà sessuale e la ricerca del piacere erano centro indiscusso. Forse gli Etruschi avevano semplicemente capito come vivere bene questa vita. Ed eliminarono tutto quello che non gli parve necessario, tra cui le più volatili illusioni di immortalità, quelle della letteratura.
*
L’autore è uno scrittore, grecista, studioso del pensiero antico. Ha pubblicato saggi su Empedocle, Socrate e Platone. Il suo ultimo libro è Le lacrime degli eroi ( Einaudi)
Nel mondo antico
La lettura è femmina
di Dorella Cianci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06.03.2016)
Come si insegnava a leggere nel mondo antico? Come si vendevano i libri? Quali erano i termini legati alla scrittura? E che ruolo essa aveva? Di recente è stato ristampato un libro memorabile per antichisti filologi e paleografi, non facile da trovare in libreria, un celebre volume di Horst Blanck, Das Buck in der Antike tradotto in lingua italiana da Rosa Otranto nel 1998, per la collana di Luciano Canfora. La prefazione dell’edizione italiana del libro è affidata allo stesso Canfora, il quale si chiede se nel mondo antico era un fenomeno prestigioso possedere delle biblioteche piene di libri e ricorda Euripide, preso in giro dal comico Aristofane anche per questo, infatti nelle Rane era accusato di possedere un «decotto di libri». In realtà Aristofane era un comico colto e aveva letto molti autori, soprattutto i più importanti tragici del tempo.
L’alfabetizzazione, nel mondo antico, è stata spesso oggetto di studio nel Novecento e, secondo Rostovtzeff, la civiltà classica, in Occidente, era crollata proprio per fattori culturali, poiché la campagna aveva sommerso le città, cioè i luoghi pieni di libri e i luoghi dove per giunta vi erano maggiori lettori. Sottolinea Canfora che anche in età più vicine a noi, ad esempio nell’Italia di metà Ottocento, verso il momento dell’unità nazionale, la massa analfabeta rasentava il 70% della popolazione, questo perché l’alfabetismo non ha mai avuto un andamento stabilmente progressivo.
È interessante guardare nel dettaglio i casi dei lettori celebri e in questo ci aiuta un libro di atti spagnoli pubblicati in Italia, a cura di Carmen Morenilla e Francesco De Martino, Palabras sabias de mujeres (Levante editori, Bari) dove si dice che i casi di lettura sono paralleli a quelli di recite a memoria.
In un frammento comico si ricorda che son proprio le tragedie i pezzi forti da leggere: eppure ironicamente si racconta che Eracle preferì un libro di cucina! Dione racconta di aver letto di mattina, dopo aver fatto colazione, i tre Filottete di Eschilo, Sofocle e Euripide. Lo stesso Socrate racconta nel Fedone di Platone di aver letto un libro di Anassagora, dopo aver sentito un tale che lo leggeva e da questa lettura ne rimase deluso.
Una lettura fatta in poco tempo, velocemente (e non a memoria come si potrebbe tradurre un passo di Taziano) è quella fatta dal tragico Euripide di un libro del filosofo Eraclito. Leggere libri filosofici era molto gradito. Una classifica ipotizzabile, nel mondo greco, potrebbe consegnarci questa lista: alcuni testi di Zenone, Sugli dei di Protagora, Su Eracle di Prodico e La Grande Cosmologia di Democrito. Era di moda anche leggere tutti insieme, ed è noto il party di Antimaco, il quale invitò tutti a casa per dare lettura del Lide, un lungo poema...Peccato che dopo poco la stanza si svuotò, eccezion fatta di Platone, un lettore non da poco.
La Grecia ha inventato la lettura silenziosa ben prima di Aristotele, al contrario di quanto a volte si scrive. Platone leggeva solitario, fra sé e sé, come si racconta nel Faone. Gli studi migliori su questo restano i volumi di Svenbro e di Knox. Un libro portava onore nella cultura greca quasi quanto uno scudo, in rarissimi casi anche per le donne e di questo ci informa Pausania, il quale parla di una stele che si trovava ad Argo e che raffigurava la poetessa Telesilla. Ai suoi piedi son gettati alla rinfusa dei libri, «quei suoi famosi volumi di poesia, mentre lei guarda l’elmo che ha in mano», come dice la traduzione di Domenico Musti.
Non sappiamo se donne colte come Saffo sapessero leggere o scrivere in maniera precisa, però si può dire, con De Martino, che «la lettera è femmina», stando a un indovinello proposto da Antifane, che recita così: «C’è una creatura che protegge i suoi piccoli. In grembo essi non hanno voce, ma lanciano un grido sonoro che, volando sull’onda del mare se tutta la terrà, raggiunge chi vogliono i mortali, e a costoro è possibile udire anche quando sono lontani; ma il loro udito è sordo». La soluzione è questa: «La creatura femminile è la lettera, i figli sono i caratteri, pur senza voce parlano a distanza, a chi essi vogliono; e un altro che per caso si trovi accanto a quello che legge, nulla udirà».
il debito «scolpito»
I primi banchieri? i sacerdoti babilonesi
Sulle tavolette nasce l’economia disumana
di Carlo Sini (Corriere della Sera, 15.09.2015)
Per gli abitanti dell’Eurozona il problema del debito è quanto mai attuale. Recenti vicissitudini, per nulla concluse, ne hanno riproposto lo spessore, non soltanto economico, ma anche culturale e morale. Vale la pena allora di insistere sulla straordinaria antichità della questione, rievocando per sommi capi una vicenda vecchia di 5000 anni: quando per la prima volta il debito si collegò con la scrittura.
Lo scenario è quello della nascita dei primi grandi agglomerati urbani in Mesopotamia e della economia del palazzo e del tempio. Siamo in un mondo sacrale governato dal principio del dono. In particolare la terra da coltivare è un dono degli dèi, è il loro stesso corpo, e non può diventare proprietà di alcuno: proprietari sono gli dèi. I sacerdoti amministrano e assegnano parti della terra da coltivare alle famiglie contadine. Una parte del raccolto è destinata al sacrifico quotidiano: ringraziamento e promessa di fecondità futura. Il tutto si svolge nell’ambito di una cultura orale, la cui memoria è vaga e imprecisa.
Intorno al 3000 a.C., con il diffondersi della scrittura cuneiforme sulle tavolette, si mette in moto una svolta, che alla lunga sostituisce l’economia del dono con i primi fenomeni di un’economia fondata invece sullo scambio. I sacerdoti infatti registrano, con sempre maggiore precisione e dovizia di particolari, i debiti dei contadini, i quali ricevono dal tempio le derrate, gli strumenti e altri servizi e dovranno restituire, esattamente nel tempo registrato, quanto stabilito. Dovranno, come si dice, «onorare» il debito: formula ambigua, nella quale elementi sacrali e puramente economici si mescolano con notevole attrito.
Accadono allora due grandi fatti conseguenti. Anzitutto la regolamentazione introdotta dalla scrittura, cioè da veri e propri contratti, stimola enormemente la produzione e i sacerdoti divengono in breve depositari di numerosi beni e di grandi capitali in denaro. Nel contempo si diffondono sempre più casi di inadempienza dei termini dei contratti e di conseguenza intere famiglie contadine divengono schiave del tempio. La loro vita, i loro corpi, il loro lavoro sono stati catturati dalla scrittura.
Con la scrittura infatti prendono vita due mondi, prima inesistenti. Da un lato il mondo delle coordinate e delle vicende «pubbliche»: sono le verità garantite dalle scritture; esse resistono nel tempo e costituiscono la realtà comune di tutti. Dall’altro lato il mondo delle vicende personali, dei fatti «privati», degli affari miei o tuoi, che non interessano i contratti e le scritture. I comuni casi della vita possono essere intervenuti con disgrazie, malattie, carestie e altre sventure, ma questo non autorizza nessuno a disattendere gli impegni scritti. Né i sacerdoti, fattisi funzionari, potrebbero esentare il debitore, anche se lo desiderassero. L’economia generale però, dopo essersi enormemente accresciuta, ora soffre per i minori frutti di un lavoro servile. Nasce la consuetudine della «rottura delle tavolette» che registrano i debiti dei contadini, in occasione di ogni elezione di un nuovo sovrano. Ma i sacerdoti inventano nuove tavolette, con una specifica scrittura che le dichiara esenti dalla distruzione. Il sovrano alla fine si adegua, niente più remissione dei debiti e il cerchio si chiude.
Il fatto ultimo della scrittura prende il sopravvento; esso, come accadrà anche ad Atene e a Roma, garantisce una legge uguale per tutti, ma questa uguaglianza formale porta con sé una componente disumana: uguali di fronte alla legge, i cittadini sono nel contempo abbandonati a loro stessi. Le loro vite private, cioè prive di verità pubblica e di storia, sono di fatto private della appartenenza concreta alla comunità originaria.
Le scritture, i contratti, gli interessi del capitale fagocitano il lavoro vivente, le energie, le fatiche quotidiane, gli sforzi creativi, la salute. Tutto questo universo scompare dal conto. Resta solo ciò che recita lo scritto (e oggi ciò che mostrano i video). Il resto non esiste. I sacerdoti babilonesi prefigurarono, disse Odoardo Bulgarelli, i primi banchieri della storia. Forse sarebbe un bene se i banchieri odierni recuperassero un po’ della saggezza orale dei sacerdoti delle origini.
I Greci erano misteriosi e irrazionali
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 05.06.2015)
È un’associazione inconsueta quella tra la magia e gli antichi, cui è dedicato l’ultimo libro di Giulio Guidorizzi intitolato La trama segreta del mondo (il Mulino, pp. 242, e 16). È un’associazione inconsueta perché il libro presenta un aspetto dei greci al quale non siamo abituati a pensare. Per effetto di una lunga tradizione, i greci sono per noi un popolo che sa dominare le passioni, controllato e razionale: i primi illuministi della nostra storia. Così ci hanno insegnato a pensarli autori come B. Snell e W. Jaeger, per citare i più famosi. E anche se a farci dubitare che essi non fossero totalmente ed esclusivamente razionali è arrivato nel 1951 I greci e l’irrazionale di E.Dodds, nell’immaginario collettivo la Grecia è rimasta legata a un’ideale incrollabile di perfezione, serenità e imperturbabilità.
Questo libro invece racconta una Grecia popolata da persone reali, non immuni da quelle incertezze e quelle angosce che anche in loro, trovavano conforto nella fiducia nel potere della magia. Sono questi infatti i greci che incontriamo -dopo i primi capitoli del libro dedicati alla storia degli studi sul pensiero magico e sui principi della magia - quando Guidorizzi inizia la ricognizione delle più svariate credenze magiche inframmezzata alla storia degli intermediari tra il mondo sensibile e quello occulto, vale a dire dei maghi e delle maghe. delle fattucchiere e dei negromanti.
Tra i tanti possibili esempi, limitiamoci a un paio: una maga, Medea, figlia del re della Colchide e innamorata di Giasone, lo aiuta a riportare in Grecia il famoso vello d’oro. Un’impresa famosa, che peraltro richiede una serie di magie.
La prima: Giasone riceve in dono da Afrodite un incantesimo, che le fa dimenticare amore e rispetto per la famiglia e la patria.
La seconda: Giasone sconfigge il drago che custodisce il vello d’oro grazie agli incantesimi che gli ha insegnato Medea).
La terza: durante il viaggio di ritorno in Grecia, la nave di Giasone è inseguita dalla flotta del padre di Medea. Che per rallentare l’inseguimento uccide suo fratello smembrandolo e gettando uno a uno i pezzi del cadavere in mare, con una procedura densa di elementi magici.
La quarta: giunta a Iolco, patria di Giasone, dopo aver dimostrato di poter ringiovanire esseri viventi gettando un caprone in un calderone bollente assieme a delle erbe magiche, usa la stessa magie per uccidere bollendolo lo zio-rivale di Giasone...
Certo, trattandosi di storia mitica, quella di Medea non dimostra la storicità delle magie evocate: in effetti, è difficile immaginare un uso sociale della magia di ringiovanimento. Ma poco importa: al di là dei dettagli, il mito rinvia sempre a una realtà sociale: nella specie la diffusa fiducia popolare nell’esistenza di un mondo occulto e della possibilità, grazie alla magia, di raggiungere effetti altrimenti irraggiungibili.
E veniamo a un esempio, tra i tanti, di una magia realmente, socialmente praticata, il celebre machalismos: per evitare che le anime dei morti ammazzati tornassero a vendicarsi di loro, gli assassini tagliavamo al morto naso, mani, piedi, orecchie e genitali (dove risiedeva la forza) e li legavano dietro alle sue spalle con una fune che passava sotto le loro ascelle(in greco maschalai ). La vendetta non era più possibile.
Infine, una domanda: quale sarà lo spazio dell’occulto in un futuro nel quale i progressi scientifici possono far pensare a una sua riduzione? Guidorizzi sembra escludere una simile eventualità, e personalmente non posso che condividere la sua opinione.
I tabù del mondo
La sfida di Medea femmina folle di pietra e di ferro
Resa immortale da Euripide, la madre che uccide i figli per vendetta contro il suo uomo agisce sotto il dominio di un amore cieco: una passione estrema in cui la Donna vince sulla Madre. Rifiutando anche il compromesso coniugale offerto da Giasone, in nome dei beni comuni. E rinunciando così all’“avere” pur di restare se stessa
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 08.05.2016)
La cultura patriarcale ha concepito la maternità come un destino ineluttabile della femminilità, o, meglio, come purificazione del carattere ritenuto (ideologicamente) peccaminoso della femminilità. Diventare madre per una donna significava liberarsi dal carattere anarchico e irrequieto della femminilità, normalizzarsi, civilizzarsi. L’accudimento del focolare familiare e dei figli coincideva dunque con la morte della donna nel Nome della madre. Questa rappresentazione canonica della madre patriarcale - che oggi, grazie in particolare alla cultura femminista, sta finalmente rantolando - ha conosciuto rare ma significative eccezioni nella cultura dell’Occidente.
Una di queste, indimenticabile per la sua forza drammatica, è la figura di Medea raccontata nella omonima tragedia di Euripide. Essa capovolge traumaticamente la rappresentazione patriarcale della madre: uccidendo spietatamente i suoi figli Medea mostra che non è la madre del sacrificio che annienta la donna, ma è la donna che rivendica la sua assoluta alterità di fronte alla madre. Conosciamo la sua storia: non potendo sopportare il tradimento del suo uomo (Giasone) che la abbandona per unirsi a Glauce, la principessa di Corinto figlia del Re Creonte, uccide per vendetta i suoi figli.
Il carattere barbaro, indomabile, straniero e selvaggio di Medea incarna in modo radicale l’eteros della donna che non si piega alle convenzioni e ai ragionamenti utilitaristici. Ella ci ricorda, come scrive Euripide, che «quando una donna viene offesa nel suo letto, non c’è altra mente che sia più sanguinaria».
Medea infrange il tabù della Madre mostrando che non esiste un istinto materno, che per una donna l’amore del proprio uomo è più essenziale dell’amore per i propri figli. Il suo amore per Giasone risponde solo alla forza pura della passione: ella lascia la sua terra, abbandona la sua patria, tradisce il padre, uccide il fratello e, in seguito al tradimento del suo amato, provoca la morte di Glauce e di suo padre prima di avventarsi sui suoi stessi figli.
Medea, come ha scritto Ivano Dionigi, è «un grumo di delitti». Il suo atto non mostra solo l’insubordinazione della donna alle Leggi che regolano la vita della famiglia e che la costringono a sottomettersi al potere dell’uomo, ma, più radicalmente, mostra che nemmeno la maternità è sufficiente ad appagare il desiderio di una donna, a compensare la ferita d’amore che ha subito, che, in altre parole, diversamente da quello che crede l’ideologia patriarcale, nessuna donna può mai essere assorbita del tutto nella madre.
Giasone non ha alcuna idea di cosa possa essere una donna. Il suo ragionamento esclude l’hybris dell’amore femminile. Per questa ragione Pasolini nella sua Medea lo assimila alla ragione strumentale che tende a distruggere le radici mitiche e poetiche della verità. Giasone vuole civilizzare Medea, farla ragionare, mostrarle che l’amore è solo un buono o un cattivo affare. La sua mentalità è sterilmente borghese; vorrebbe sostituire alla passione dell’amore la pianificazione lucida proponendo a Medea di rinunciare al suo essere donna, alla passione del suo amore, per assicurare ai suoi figli un avvenire meno incerto e più sicuro. Per lui il legame d’amore è semplicemente un contratto fra gli altri. A Giasone non passa per la testa che Medea gli ha dato tutto, che per lui, per il suo amore, si è esposta al rischio più alto: «Io ti ho salvato... ho tradito mio padre e la mia casa... mossa più dalla passione che dalla sapienza... E dopo aver ricevuto questo da me, tu, infame, mi hai tradito; hai scelto un nuovo letto».
Mentre in Medea la donna rivendica l’amore come passione dell’essere, Giasone invoca l’utilità cinica dell’avere, l’importanza dei beni, dell’adattamento conformistico alla realtà. In fondo è solo alla madre che il suo discorso si rivolge saltando l’alterità indomabile della donna. Errore fatale: «Non voglio una vita felice che mi faccia soffrire né una prosperità che mi tormenti l’animo », le risponde perentoria Medea. La passione femminile oltrepassa il principio di realtà che invece costituisce la bussola irrinunciabile dell’azione di Giasone. La sua colpa e la sua imperdonabile ingenuità è questa: ritenere che il calcolo della ragione possa governare l’impeto passionale dell’amore femminile riducendo il desiderio al puro calcolo fallico dell’amministrazione ordinata e redditizia dei beni.
Medea rifiuta però il destino borghese promessole dal pragmatismo ottuso del suo uomo. L’oltraggio imperdonabile di Giasone consiste nel non intendere nulla dell’amore che muove Medea come donna al di là della madre.
La sua inflessibilità ricorda quella dell’Antigone di Sofocle che nel nome dell’amore assoluto per il fratello si scontra con la Legge formale del Diritto.
Tuttavia la differenza tra le due è netta: mentre Antigone mette a repentaglio la sua stessa vita, Medea si scaglia contro la vita dei propri figli. Il superamento del confine morale non avviene in questo caso immolando solo la propria vita ma sopprimendo quella degli innocenti.
La malvagità di Medea rovescia così l’innocenza senza tentennamenti di Antigone. Medea agisce con “cuore di pietra” e con la forza del “ferro” e la madre viene traumaticamente cancellata dalla hybris della donna; come accade per Antigone, la follia dell’amore la spinge a valicare ogni limite.
Bruno Gentili, una vita per la poesia greca
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 09.01.2014)
Il nome di Bruno Gentili, scomparso ieri a Roma novantottenne, è legato al grande lavoro da lui dispiegato, d’intesa e col valido sostegno della sua scuola, nel campo della lirica greca, fino alla recentissima edizione, per la Fondazione Valla, delle Olimpiche di Pindaro (2013). Di mezzo ci sono stati contributi di grande spicco come l’edizione delle Pitiche (1995) e soprattutto, con l’imprescindibile contributo di Carlo Prato, l’edizione dei Poeti elegiaci greci per la Biblioteca Teubneriana (2 voll., 1979-1985; nuova edizione, rivista, nell’anno 2000). Agli esordi va posta l’edizione di Anacreonte (1958) con cui conquistò la cattedra di Letteratura greca nel lontano 1963.
Si deve dire inoltre che questa intensa operosità editoriale si sviluppava parallelamente ad un intenso lavoro teorico nel campo della metrica greca: La metrica dei Greci è il titolo di un suo fortunato manuale. Si colgono in questo filone di studi, che fu al centro della sua attività, l’influsso e l’insegnamento di Gennaro Perrotta, di cui Gentili fu assistente alla Sapienza di Roma.
Insieme con Perrotta, Gentili aveva pubblicato una importante antologia dei lirici greci (Polinnia , 1948; 1957; 2007), corredata di commenti e altri apparati esegetici preziosi. Era un libro per la scuola: per una scuola ben altrimenti funzionante che l’attuale. A Roma, negli anni in cui Perrotta, per ragioni di salute, non riusciva più ad esercitare pienamente il suo lavoro (strascico di un doloroso e prolungato disagio prodottosi nell’ultimo tempo della guerra), Gentili resse di fatto l’insegnamento del greco ed ebbe significativa influenza sugli allora «giovani» della filologia classica capitolina, tra cui l’insigne metricista Luigi Enrico Rossi.
Temperamento aperto al nuovo, Gentili fu molto preso dalla corrente «oralistica». Questo suo orientamento raggiunse la più compiuta espressione nel volume laterziano Poesia e pubblico nella Grecia antica, da Omero al V secolo (1984). Il suo fermo convincimento, espresso in prefazione, è che «la teoria dell’oralità offre la chiave per introdurci nel vivo e concreto problema pertinente alla funzione sociale e culturale della poesia greca da Omero al V secolo».
Il convincimento cui Gentili era approdato - sull’onda delle teorie, ormai alquanto in declino, di Milman Parry - è che «l’idea di una poesia tradizionale, formulare, comunitaria, di interazione tra cantore e uditorio, costituisce la chiave indispensabile per una corretta intelligenza della produzione culturale greca, sino all’avvento del libro nell’età di Platone» (Poesia e pubblico ). Oggi si tende a distinguere più nettamente i due piani: quello di una, immaginata ma non documentata, composizione orale e quello della prevalente diffusione dell’opera letteraria in Grecia arcaica attraverso la diretta comunicazione di fronte ad un pubblico di fruitori. È, forse, quest’ultimo il piano più fecondo, e storicamente significativo.
Né solo nel campo della poesia, ma anche, e non meno, nel campo del teatro e dell’oratoria. Beninteso, guardandosi dagli eccessi di «primitivismo» che rischiano di non rendere adeguatamente conto del fenomeno, imponente, della sopravvivenza grazie alla circolazione libraria della letteratura greca precedente Alessandria e all’enorme lavoro di conservazione e filologico posto in essere da quel grande centro di produzione e conservazione del sapere universale.
Non va trascurato il contributo che Gentili diede, insieme ad un suo allievo, Giovanni Cerri (il quale intraprese ben presto una sua propria strada nell’interpretazione politica dei tragici), nel campo della storiografia classica: Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica (Ed. dell’Ateneo, 1975). Tra i pregi del volume va segnalata l’apertura verso la cultura romana. Un frutto maturo in tal senso fu anche la fortunata Letteratura latina che Bruno Gentili pubblicò presso Laterza e che ha vissuto, per un certo tempo, una felice stagione nelle nostre scuole.
Tra i maggiori studiosi di letteratura, metrica e poesia dell’antichità, scomparso a 98 anni
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 09.01.2014)
Ci ha lasciato Bruno Gentili, uno dei maggiori grecisti del panorama italiano e internazionale. Studioso di metrica, di teatro, di poesia lirica, personalità libera e singolare, a tratti davvero unica. Era una sorta di leggenda fra noi “giovani” degli anni Settanta, e ha continuato a esserlo fino a ieri, quando a novantasette anni lo abbiamo visto pubblicare, assieme ai suoi allievi, una monumentale edizione commentata delle Olimpiche di Pindaro.
Nato nel 1914, la sua formazione di studioso si sviluppò in un ambiente culturale che era storico-filologico da un lato, estetico dall’altro. Gentili ha imparato che ai testi non si accede senza filologia e senza storia; ma che bisogna anche amarli, apprezzarli, se si vuole che l’impulso ad avvicinarvisi sia efficace.
Poi, fra gli anni Sessanta e Settanta, Gentili fa una serie di incontri e di esperienze intellettuali che in qualche modo lo trasformano. In quel periodo la cultura italiana, e con essa anche gli studi classici, si apre alla sociologia della letteratura, alla semiotica, allo strutturalismo linguistico e letterario.
Senza dimenticare i formidabili contributi che, soprattutto in senso antropologico, vengono dal cuore della filologia greca: come quelli di Milman Parry e George Havelock. Nell’ormai raggiunta maturità dello studioso, queste esperienze intellettuali, invero abbastanza vorticose, hanno anche un importante sbocco geografico: Urbino, che si trasforma in uno straordinario luogo intellettuale, una piccola ma orgogliosa capitale della cultura.
A Urbino Gentili non è solo. C’è Carlo Bo, prima di tutto, raro esempio di rettore e straordinario uomo di cultura; ci sono colleghi, classicisti e non, che contribuiscono - talvolta in emulazione o polemica, si sa come vanno queste cose - alla creazione di Urbino come centro di studi classici. Ma il motore di tutto ciò, anche per il suo carattere entusiasta e vitale, è stato Gentili. Un movimento, quello urbinate, che fa sì che in Italia gli studi sull’antichità greca prendano una nuova direzione.
Per avere un saggio di quello che è accaduto, basta prendere in mano l’antologia dei lirici greci, Polinnia, che Gentili curò con Gennaro Perrotta nel 1948. Un testo su cui hanno studiato intere generazioni di liceali. Ebbene, questo libro era privo di introduzione, nel 1948 gli autori non avevano ritenuto opportuno spiegare che cosaera la lirica greca.
Evidentemente si dava per scontato che lo si sapesse - perbacco, la lirica greca, tutti sanno cos’è! Pura, vera poesia. Proviamo dunque a confrontare questa vecchia Polinnia con la nuova edizione che lo stesso Gentili, assieme a Carmine Catenacci, ha pubblicato nel 2007. Un altro mondo. Adesso c’è una lunga introduzione che evidenzia il carattere pragmatico della lirica greca, ossia la necessità di metterla in contesto per capirne davvero il senso; poi la natura tutt’altro che individuale, “lirica” in senso moderno, di questa poesia, che era rivolta a stabilire una comunicazione con una comunità. Sono le cose, in gran sintesi, che Gentili è venuto insegnandoci in tutti questi anni. Grazie Bruno.
AGORÀ
L’EPICA E LA SUA ECLISSI PLEBEA
di Fulvio Papi *
Un’epica nella tradizione classica è per lo più riconosciuta come identità culturale di un popolo.Una narrazione in cui ognuno, ascoltandola, riconosce i propri luoghi simbolici di origine, i personaggi che incarnano virtù arcaiche e tuttavia condivise, le scene salienti che diventano spettacoli interiori della memoria collettiva nel tempo, cioè una tradizione che continua a provocare scene esemplari nella propria vita pubblica e non solo.
Credo di aver evocato la famosa definizione di Havelock intorno ai poemi omerici come enciclopedia della tribù. Naturalmente è una enciclopedia che è soggetta a trasformazioni molto importanti poiché secondo la forma comunicativa che assume, dal canto dell’aedo alla tragedia classica, si configura secondo significati etici diversi. P
robabilmente, nell’ascolto orale, è la grande ammirata curiosità per quasi un vichiano “tempo degli eroi”; nella rappresentazione tragica l’acquisto di una dimensione sempre esemplare, ma più prossima al proprio giudizio come alla propria emozione - almeno Aristotele ci fa pensare così.
Quando poi l’epos diventa testo scritto stabile allora acquista la dimensione ideale della letteratura e quindi la distanza di una finzione che non ha più bisogno di appartenere a una storia mitizzata o immaginaria, ma assume quello statuto speciale che ha la grande letteratura come “mondo possibile” tutt’altro che privo di senso per la propria contemporaneità.
Dall’epos originario, senza voler improvvisare interpretazioni semplici e frettolose, deriva un genere letterario del quale l’Eneide è esempio che crea uno sfondo mitico a una storia politica in corso, un legame diretto tra la mitologia diffusa del passato e le vicende storiche del presente.
Quindi un’epica che trasforma, secondo una nuova sensibilità letteraria, i “topoi” più antichi, ne eredita anche gli stilemi, ma cita il suo significato etico. Questo per un verso, che, per l’altro, sono gli eroi ad assumere una propria tipicizzazione a diventare sia figure del pantheon ideale, sia personaggi che esemplarizzano, con le loro storiche trasformazioni, le forme della vita quotidiana.
Primo fra tutti Ulisse, il personaggio che ottenne il maggior numero di metamorfosi, che cominciarono tra il testo dell’Iliade e quello dell’Odissea per - come tutti sanno - giungere a una sua trasformazione nel nostro quotidiano nel celebre libro di Joyce. La trasformazione del racconto epico diviene la parodia epica di un giorno qualsiasi gettato nel nostro mondo dove, per cogliere un aspetto eclatante, il linguaggio dissolve, nelle sue fughe prammatiche, nell’intrico lessicale dei luoghi, qualsiasi memoria dello stile originario senza il quale ogni eroe diventa necessariamente figura di un altro tempo.
La letteratura corrode, distrugge, reinterpreta un personaggio mitico e, nella sua distruzione necessaria, infine ne rievoca l’origine. Non c’è altra origine, nel contemporaneo vissuto, che quella capace di mostrare la sua impossibilità.
È diverso il caso degli straordinari racconti della Bibbia che la tradizione religiosa, da Agostino in poi, reinterpreta nella storia della rivelazione cristiana. E tuttavia, almeno da Spinoza in poi, possono essere considerati come elementi fondamentali dell’epica del popolo ebraico, una serie di vicende ciascuna delle quali, diversamente da un’epica che diventa tessuto della trasfigurazione letteraria, mantiene la sua potenza etica, sapienzale, religiosa.
Di un’epica, e di quei testi o tradizioni che noi chiamiamo epica, esistono necessariamente custodi sociali, interpreti, esegeti, spesso in gara o in polemica tra loro, e sono quelli che la tramandano, sino a quando intervenga una sapienza scientifica che riconduce un testo alla sua verità mondana o, che è una filologia del tutto differente, al suo valore religioso.
Nel caso greco il testo che noi possediamo ci narra della tradizione degli aedi come narratori, il celebre Demodoco, ma lo stesso Ulisse, autobiografico alla reggia dei Feaci, diventa una figura di aedo. Ogni grande epica ha una propria storia complessa alla quale deve le sue trasformazioni di senso nelle diverse congiunture culturali.
Tutti sanno che nella musica di Wagner prese nuova forma drammatica una grande eredità epica. Anche se fu proprio il giovane Nietzsche a sostenere che era la musica wagneriana a vivificare il senso dell’epos e non era la tradizione epica ad essere “messa in musica”. Era per Nietzsche lo stesso ragionamento per cui l’origine dionisiaca della tragedia greca era rappresentata dal coro.
Un’epica, in ogni caso, implica un patrimonio narrativo, un mondo storico che vi si riconosca e un vettore che lo ricordi, lo attualizzi e lo diffonda e ne crei l’aspettativa sociale. Il teatro greco, come tutti sanno, porta sulla scena come patrimonio educativo della città la tradizione e i temi dell’epica. La medesima funzione è svolta dal teatro wagneriano. Così che ogni epica ha il suo patrimonio di eroi che, nella loro individualità, sintetizzano sempre valori che sono condivisi nell’ethos nel quale si diffonde e rinasce un tesoro epico.
Questa considerazione è in sintonia con la tesi di Hegel nella Fenomenologia secondo cui l’eroe non fa che interpretare al livello supremo, e con sacrificio personale, quello che è un sentimento, un desiderio o un dovere diffuso nella comunità di appartenenza.
L’idea del proprio sacrificio volontario come prezzo dell’azione eroica è probabilmente un topos spirituale di origine cristiana. Il sacrificio scompare lasciando il posto al modello etico e politico nella trasformazione del romanzo, secondo i canoni degli anni Trenta, del realismo socialista, in un’epica burocratica che deve affermare i valori del potere politico, così come avveniva nell’URSS staliniana. Un’epica sociale a comando che, in qualche rara circostanza, quando lo scrittore era impegnato con il suo talento e la sua immaginazione, poteva dare anche risultati letterariamente accettabili.
Ma non è certamente un caso il fatto che l’ultimo disegno epico, nella società con cui abbiamo una vera familiarità, appartenga a una poetica politica, sostenuta e valutata da un potere autoritario. Poiché, se proviamo a proiettare la domanda intorno alla presenza epica nella nostra epoca, possiamo ritrovare aspetti della tradizione che in qualche modo è stata rievocata? O, per estendere lo sguardo e rievocare un’altra grande tradizione, quella della Chanson de Roland, esistono ancora elementi di quel nucleo epico-poetico nel nostro mondo?
Il fatto è che la poesia epica non esiste più già con l’affermazione, in Italia, della grande poesia di Dante e Petrarca: esistono nella Commedia e nel De Africa personaggi di primo piano, gli uni valorizzati dalla esperienza della vita comune, gli altri tipicizzati secondo la tradizione classica delle figure esemplari.
L’epica si trasferisce dalla grande letteratura alla narrazione storica che valorizza i processi di unità nazionale e, in questo senso, è un’epica che falsifica i dati storici reali per costruire una credenza epica intorno ai personaggi rilevanti nell’ambito della storia nazionale. È dunque intorno all’unità politica della nazione che si sviluppa un narrare epico il quale vuole costruire essenzialmente la cultura identitaria e partecipazionale dei cittadini.
Basti pensare alle narrazioni storico-scolastiche tipiche dell’educazione storica americana cui, per molti anni, ha fatto eco una tradizione filmica. E chiunque conosca anche di profilo la storia della scuola italiana, sa che il periodo risorgimentale e le sue figure salienti erano diventati occasioni per narrazioni scolastiche dove era rintracciabile una forma di epos storico della nazione.
Ora questa dimensione è venuta in gran parte meno e non perché si sia diffuso un più maturo giudizio storico, ma perché nell’immaginazione collettiva il vettore epico non è più stato l’epopea storica della nazione, ma l’apparire di figure, eroi senza storia, che appartengono all’affermarsi di quello che già Debord analizzava negli anni Sessanta come la società dello spettacolo.
Non c’è più alcuna epica che si tramanda e il racconto nel quale avviene l’apparizione dell’eroe non ha la caratteristica della lunga durata. L’eroe, come tutti gli oggetti nel nostro mondo, è dato al consumo, e tuttavia la sua figura tende ad emergere come individualità mitica al di là delle narrazioni, all’origine filmiche, dove compare nella contingenza di storie differenti e prive di qualsiasi continuità.
Il racconto può essere dimenticato, ma il personaggio rimane nell’immaginaria ricordanza collettiva. È il fenomeno che si manifestò in una maniera eclatante soprattutto nel primo periodo della storia del cinema, e per comprendere l’epica del nostro tempo è necessario guardare agli eroi che appaiono nel nostro orizzonte. Essi sono privi di un racconto mitico che li contestualizzi, nel pubblico comprendere sono immagini delle quali è un grande spettacolo scoprire gli elementi biografici.
Nell’autobiografia il pubblico scopre che la storia dell’eroe ha aspetti di somiglianza con la propria, e questa curiosità rende l’eroe più prossimo alla propria esperienza, forte del suo potere di immagine, ma, in realtà, privo di una storia che travalichi i limiti della esperienza possibile se pure, come accade - ed è sempre accaduto - nel mondo delle stars, enfatizzata oltre misura. Questo è il caso tipico della nostra contemporaneità dello spettacolo che tuttavia corrisponde a un contesto di più antica data, dove il rapporto tra l’eroe e il suo spazio sociale e narrativo è dato dal “proprio tempo”.
L’eroe è l’eroe del proprio tempo, la narrazione corrisponde all’oggettività temporale, è uno schema che si ripete da Lermontov sino ai primi anni Cinquanta del nostro Pratolini. Ma in questi casi, anche se il contesto epico è il tempo storico, il vettore resta la scoperta narrativa. C’è quindi una differenza fondamentale con gli eroi del “nostro tempo” che sono sempre personaggi dello spettacolo, siano essi attori nel senso classico della parola o sportivi, o uomini politici, i quali hanno compreso che più che lo studio e l’intelligere, conta la visibilità intorno alla quale creare consenso.
Ma quello che può essere ancora più interessante è che l’eroe dello spettacolo epico, come ogni altro oggetto è sul mercato e ha un suo prezzo d’acquisto. Poiché non è mai vero che il tale atleta “non è cedibile” come talora si dice. Il problema è l’incremento del prezzo, se, per ipotesi, esso potesse salire di cinque volte, chiunque diventa cedibile. A questo punto la manovra è quella di comperare sul mercato il personaggio che è in grado di fortificare l’epos pubblico che accompagna ogni squadra sportiva. Non è la patria, il territorio, l’origine, la condivisione epica a formare il personaggio dell’epos popolare, ma esso appartiene già a un alone epico, e si tratta solo, attraverso una operazione commerciale, di trasferire il personaggio in un altro luogo. La sua funzione epica resta eguale ma è il pubblico della sua fruizione che è differente.
Potenzialmente re Mida può comperare tutte le possibilità di epicizzazione immaginaria della nostra epoca, anche se non bisogna dimenticare che il pubblico trascrive l’eroe nel suo racconto in quanto esso è impegnato in una “guerra”, qual è la metafora nata negli anni Sessanta e relativa al gioco del calcio.
In ogni caso Priamo, re di Troia, non è in grado di comperare alcun eroe acheo, ma solo il cadavere del proprio figlio ucciso dall’eroe avverso. Ogni eroe ha il suo luogo, né può esserlo fuori da questa relazione, l’eroe dello spettacolo sportivo contemporaneo assomiglia a quel “non luogo” di cui parla Augé per mostrare l’eguaglianza spaziale del nostro vivere sociale.
Si può aggiungere, per quanto riguarda lo spettacolo propriamente detto - quindi non la spettacolarizzazione dell’esistenza sociale - che già negli anni Trenta e Quaranta era fortissimo il fenomeno delle stars cinematografiche. E se Plutarco era il modello etico-comportamentale di personaggi immensi e difficili come Rousseau e Foscolo, l’attrice bizzarra e capricciosa, che in queste caratteristiche faceva consistere la “virtus” femminile, fu il modello comportamentale di molte banali piccolo borghesi degli stessi anni.
Con la mutazione dei mezzi di comunicazione e con la diffusione dello spettacolo ininterrotto, il cinema ha perduto la sua vis mimetica. L’epica avviene anche in assenza di “intrigo”, dato che è lo spettacolo stesso o la proliferazione di simulacri, alla Baudrillard, a sostituire, con la forza dell’immagine, la narrazione medesima.
L’apparizione quotidiana è l’epos quotidiano, ma è anche necessariamente un epos che ha sue leggi immanenti. Questa situazione infatti richiede contemporaneamente due condizioni. L’una che un eroe pubblico rimanga tale per un periodo sufficiente a creare il processo di “eroicizzazione”, ma, nel contempo, occorre che vi sia un certo consumo di eroi, e quindi una serie di spezzati frammenti epici poiché è il nuovo che mantiene aperto l’interesse in relazione con il ciclo della abitudine.
Inoltre il genere epico che richiede il vettore della scrittura e del testo è del tutto scomparso, se si fa eccezione per qualche rara composizione poetica che ne assume lo stile. E questo accade perché l’epica richiede un riconoscimento partecipativo che è del tutto impossibile nel tempo di un individualismo esasperato, non esistono modelli che abbiano una loro universalità etica e quindi richiedono una certa trascendenza del se stesso per una imitazione riuscita. Noi pensiamo che il fenomeno sia piuttosto recente, ma non vorrei ignorare che anche Goethe nel Faust ricorda la partenza degli dèi dal nostro mondo.
Sappiamo che oggi l’ammirazione sociale, simile a quella della plebe romana per i gladiatori, va ad icone sociali nelle quali il pubblico legge il desiderio che è nel profondo della propria identità. La partecipazione epica rinasce sfigurata nelle urla degli stadi di calcio, nella violenza insensata che, in realtà (a dispetto delle chiacchiere degli addetti ai lavori per lo più intellettualmente sprovveduti) costituisce la realizzazione della metafora della guerra che è presente nel gioco medesimo, e che solo una consuetudine alla educazione riesce a neutralizzare. Ma in alcune condizioni sociali, spesso riprodotte, il germe della violenza è difficilmente contenibile. Di queste situazioni la parodia, per fortuna inoffensiva, si ha quando il desiderio di violenza è circoscritto nella solitudine dinnanzi al video. In questo caso la cellula impazzita dell’epos è ridotta a un cortocircuito della propria immaginazione.
* TESTO RIPRESO DAL SITO DELLA RIVISTA "ODISSEA", DIRETTA DA ANGELO GACCIONE
Incisi nella pietra i segni dei bimbi di 13 mila anni fa
Nel periodo Paleolitico i bambini in età prescolare non avevano carta e pennarelli per scarabocchiare, ma disponevano di caverne con pareti molli come il pongo, su cui tracciare scanalature con le dita. I loro segni si trovano nella grotta di Rouffignac, in Francia, e risalgono a 13 mila anni fa.
di Paola Caruso (Corriere della Sera, 11.10.2011)
La scoperta del solchi nella roccia non è recente, ma soltanto adesso l’archeologa Jessica Cooney dell’Università di Cambridge, insieme a Leslie Van Gelder, si è accorta che quelle scanalature («finger fluting») sono da attribuire a bambini di 3-7 anni. Le dimensioni e le distanze tra le dita non lasciano dubbi: è opera di baby artisti.
La Cooney ha presentato la ricerca alla conferenza «Child Labour in the Past» di Cambridge, sottolineando la presenza della mano femminile nei disegni. «Sembra che le tracce siano di almeno quattro bambini - dice Diego E. Angelucci dell’Università di Trento -. Ma quelle più ricorrenti sono state attribuite a una bambina». Insomma, una femmina più attiva dei maschi. «La gender archaeology sta rivalutando il ruolo della donna nelle società preistoriche - aggiunge Angelucci -, dove spesso ci immaginiamo la figura dell’uomo cacciatore, coltivatore e guerriero, mentre la donna è sottovalutata».
Le scanalature di Rouffignac ci dicono anche altro. Primo: alcune linee sono troppo regolari per un bambino, spingendoci a credere che la minuscola mano sia stata guidata da una sorta di maestro/a. Secondo: i segni sono concentrati in un’unica stanza. Se mettiamo insieme le due osservazioni, possiamo dedurre che forse in quel luogo era presente una «scuola d’arte» per minori. «Le tracce in alto sulla parete indicano che i bambini venivano sollevati o tenuti sulle spalle - commenta Angelucci - e ciò ci fa capire quanta attenzione ci fosse per loro. Già in quel periodo i piccoli avevano uno status sociale. Lo si nota dal corredo funerario: il bimbo di Lagar Velho in Portogallo di 25 mila anni fa è stato sepolto con un coniglietto da compagnia».