Nella sua ultima grande opera pubblicata in vita
Hans
Blumenberg
traccia la più completa storia della
ricezione del mito platonico, da Aristotele a Kierkegaard
Duemila anni per uscire dalla caverna
Intrecciando filologia e mitografia il
pensatore tedesco svela il simbolo del dubbio
di MASSIMO GIULIANI (Avvenire, 04.04.2009) *
L’ultima grande opera pubblicata in vita da Hans Blumenberg si intitola Uscite dalla caverna, un imperativo che non lascia dubbi sulla direzione di marcia e sul presunto messaggio del famoso mito platonico della caverna, riportato nel capitolo settimo della Repubblica. Per quasi due millenni e mezzo la storia intellettuale del mondo occidentale si è ispirata a questa mito declinandolo e interpretandolo di volta in volta alla luce delle grandi domande di ogni generazione.
In uno sforzo di ricostruzione storiografica e di erudizione umanistica che non ha eguali nel panorama filosofico del secondo Novecento, Blumenberg ha scritto la più esaustiva storia della complessa ricezione di questo mito: dall’allievo ribelle Aristotele, via Cicerone, ai padri della Chiesa (quelli veri come Agostino e quelli falsi come Arnobio), da Cartesio a Kierkegaard, da Burckhardt a Wittgenstein, in una galleria stupefacente di revisioni, appropriazioni, deformazioni, de-costruzioni, occupazioni e contro-occupazioni del mito stesso, o meglio delle sue atmosfere e dei suoi personaggi, a partire dall’unico che viene forzato ad uscire, ad andare oltre la caverna stessa e che poi torna con l’intenzione di ’illuminare’ i suoi antichi compagni, per essere da loro rifiutato e minacciato di morte.
Tale storia è la raffigurazione del destino di Socrate, spiega Blumenberg, ovvero del destino di chiunque, da fuori, venga a svegliare le coscienze, a disturbare il sonno felice dell’ignorante e a portare luce («e le tenebre non l’accolsero » , dice un testo di un’altra tradizione).
È l’allegoria più eloquente dell’ideale greco della paideia, anzi del suo fallimento o quanto meno della sua problematicità filosofica. È la metafora matrice di infinite altre metafore della ricerca della verità, dell’in-dicibilità della verità, del conflitto tra la verità contemplata (la kantiana cosa in sé) e delle mille verità esperite (i fenomeni).
Blumenberg, è stato giustamente detto, scrive da fenomenologo ma pensa da filologo, tornando ogni volta a rileggere la ’lettera’ del mito di Platone alla luce dello ’spirito’ dei suoi infiniti commentatori ed ermeneuti; scrive da mitografo ma pensa da antropologo, teso a cogliere le costanti di un’umanità segnata da svolte ’filogenetiche’ che implicano sempre perdita e dolore: i passaggi dal mare alla terra e dalla foresta pluviale alla savana; ma anche e più radicalmente dal grembo materno alla coscienza di sé, per sentieri a senso unico, in quanto non v’è risalita né possibilità di ritorno.
Di cosa non è stata simbolo, la caverna, da Platone ai nostri giorni? Il viaggio nel pensiero occidentale offerto in questo volume, da poco tradotto in italiano per i tipi di Medusa, altro non è, a sua volta, che un esodo dalle mille caverne da cui sorge e in cui si riflette la conditio humana, il cui orizzonte si guadagna sempre a spese di un altro orizzonte, come auto-superamento, come un dimenticare per meglio apprendere, un morire per far vivere, un educare (portar fuori) per conservare i significati del fenomeno-vita faticosamente visti e conquistati, eppur sempre da ri-conquistare.
In queste pagine vibra la tensione di un pensatore per il quale la poesia del mito non ha mai ceduto il passo alla prosa del logos; anzi, che ha studiato il permanere del mito nel logos e la stessa mitizzazione del logos, come avvenuto ad esempio nella fase storica dell’illuminismo (più quello francese, a ben vedere, che quello tedesco) e come avviene sempre in ogni fase illuministica della storia (esistono tanti ’illuminismi’ e non solo quello del XVIII secolo).
Emerge in questo testo monumentale la forza della disillusione, l’energia del dubbio e l’euristica del dolore, che assomigliano e si accompagnano all’euristica della paura, di cui parla Hans Jonas. Ci sono molti punti di contatto tra Blumenberg e Jonas, come la critica ad Heidegger e lo studio delle grotte primitive, e c’è il recupero del mito, appunto, come elaborazione del non altrimenti dicibile, come primato della vita (bios) sulla teoria (i concetti del bios). E se la ’vita’ (o la realtà) sembra tale solo fuori dalla caverna, è perché dentro la caverna ci si è preparati a pensarla raccontandola e la si è pre- compresa mitizzandola.
La domanda, alla fine del viaggio, è questa: ma è poi davvero possibile uscire una volta per tutte dalla caverna? E se fuori, anzi, il ’fuori’ non fosse che una caverna più grande, da cui occorre di nuovo uscire, e così via in una fuga di stanze o in un dedalo (altre figure mitologiche) senza fine? E come spiegare il conato di ritorno, l’impulso a condividere la verità con altri, con gli ignari o gli indifferenti? Ed è poi vero che il risveglio dei molti sia preferibile al loro beato sonno privo di aspettative?
Domande inquietanti, che Blumenberg lascia sospese e a cui la sua ricerca allude di continuo, senza mai negare né affermare, come l’oracolo delfico, che via sia una risposta non equivoca. Ecco l’essenza di ogni mito: rifrangere il fascino di una domanda capace di includere l’ambivalenza delle risposte.
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Hans Blumenberg
Uscite dalla caverna
Medusa Edizioni
Milano, 2009
pp. 646 € 65,00
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
"X"- FILOSOFIA. A FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
PENSIERO LIQUIDO E CROLLO DELLA MENTE.
HEIDEGGER, IL FILOSOFO DEL "CATTOLICESIMO" NAZISTA, CERCA L’USCITA DALLA CAVERNA HITLERIANA.
Hans Blumenberg: dall’autoaffermazione alla senescenza della modernità ("Epimeteo", 21 gennaio 2019).
Hans Blumenberg e l’autodistruzione del cristianesimo: La genesi del suo pensiero: da Agostino a Nietzsche(Ludovico Battista, Viella, Roma 2021).
DAL DISAGIO ALLA CRISI DI CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.
Logica carismatica / 8.
La trave e la pagliuzza
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 novembre 2021)
La nostra civiltà ama moltissimo la libertà individuale, protegge con tutte le sue forze la sfera privata delle preferenze delle singole persone. La stessa società occidentale moderna da almeno mezzo secolo ha sviluppato teorie e analisi per studiare anche i fallimenti della sovranità dell’individuo. Quei casi nei quali il gioco delle scelte basate sulle preferenze individuali produce effetti collettivi perversi. Perché non sempre la "mano invisibile" che trasforma e aggrega le scelte dei singoli genera buone trasformazioni collettive, né per gli individui né la per le società.
Un pioniere e un classico di questi studi è il premio Nobel per l’Economia Thomas Schelling, che ha mostrato, tra l’altro, che la cultura che si afferma in una comunità è diversa dalle preferenze dei singoli membri che la compongono. Noto è il suo studio sull’auto-segregazione razziale involontaria nelle scelte abitative ("Dynamic models of segregation", 1971), dove dimostrò che affinché in una città si formino quartieri segregati di soli bianchi e quartieri di soli neri, non c’è bisogno che le singole persone pensino: "Io voglio stare in un quartiere di soli bianchi" o di "soli neri". È invece sufficiente che gli abitanti bianchi (o neri) pensino: "Non voglio abitare in mezzo a due case di famiglie di neri (o di bianchi)", e in certi casi è sufficiente: "Non voglio vivere accanto a tre famiglie diverse da me". Queste preferenze individuali, che in sé non sembrerebbero radicali, producono invece un esito radicale, e ci si ritrova in un mondo che nessuno vorrebbe e voleva.
Tutto ciò vale per la segregazione etnica ma anche per ogni forma di intolleranza collettiva, perché una cultura radicalmente razzista e intollerante può essere generata da persone non così razziste e intolleranti se prese una a una. Quella piccola "soglia" di chiusura che mi impongo, che alla mia coscienza non appare particolarmente intollerante, combinata con le piccole soglie degli altri finisce per diventare un alto muro. Come se in quel limite che metto alla mia tolleranza e diversità si insinuasse un tarlo che interagendo con i tarli degli altri erode la radice della convivenza civile. Per evitare questi esiti tristi e involontari dovremmo educarci a tenere le soglie di intolleranza molto basse, magari eliminarle - sta in buona parte qui ogni sfida educativa. Perché questi studi ci dicono che le collettività amplificano le barriere dei singoli, non le riducono. La pagliuzza nell’occhio dell’«io» diventa una trave del «noi»; e una volta creata, quella trave prende il posto della pagliuzza e impedisce la vista a tutti.
Le analisi di Schelling sono tra le più importanti nelle scienze sociali contemporanee. Oggi sono applicate ai fenomeni climatici e alle scelte in materia di consumo, dove ci si ritrova con esisti collettivi e globali molto gravi e insostenibili anche quando le preferenze delle singole persone sarebbero più ecologiche. Questi esiti non dipendono soltanto dagli effetti indiretti delle nostre scelte (le note "esternalità"), ma da fenomeni più complessi che scattano aggregando le preferenze dei singoli individui.
Tutto ciò è particolarmente rilevante anche per ogni tipo di organizzazione e comunità. Ogni comunità genera una sua cultura collettiva e una identità che è molto evidente a chi la osserva da fuori - un po’ meno a chi la guarda dal di dentro. Anche qui succede che la cultura e le prassi che si generano siano più radicalizzate delle preferenze dei singoli membri. La cultura comunitaria che noi osserviamo non è la foto della cultura dei singoli. Ogni comunità sviluppa un suo stile, una sua personalità spirituale, un proprio linguaggio e gergo con tratti specifici ed espressioni comprensibili solo dai membri della comunità; genera modi di pregare, di muoversi, ammiccamenti, gesti, uno stile di abbigliamento... che si auto-rafforzano con il passare del tempo. Questi tratti collettivi non sono né la media né la somma né il prodotto dei comportamenti dei singoli, né il risultato dell’imitazione che tutti fanno di un leader (come accade invece nelle mode). Certamente, diversamente da altre istituzioni e organizzazioni, nelle comunità carismatiche il fondatore ha un ruolo speciale, ma la cultura collettiva non è la gigantografia del fondatore, né è da questi voluta - in questi processi il fondatore pesa più degli altri, ma non abbastanza da determinare la cultura collettiva. Le stesse correnti interne che si formano nelle comunità, cioè i circoli minori e i sotto-gruppi, che arrivano fino alla composizione dei tavoli nella mensa, sono risultati sovente generati da persone che, prese una a una, sarebbero più aperte e dialogiche dei gruppi chiusi cui danno vita. L’isolamento e auto-referenzialità, che all’esterno appaiono come tratti importanti e caratteristici delle comunità carismatiche, sono spesso fenomeni di auto-isolamento involontario.
Affinché nascano comunità segregate, dove i membri incontrano sempre le persone della propria comunità, non c’è bisogno di persone che non amino le relazioni sociali esterne alla comunità. È sufficiente, mantenendo i parametri del modello di Schelling e estendendone la logica, che i singoli membri inizino a pensare: "A me piace frequentare persone di altri gruppi e comunità, ma ogni due o tre incontri almeno uno lo voglio fare solo nella mia comunità". Una preferenza individuale, anche qui, non particolarmente chiusa e anti-sociale che però può generare involontariamente forti chiusure collettive e auto-segregazioni. Ciò spiega, tra l’altro, un fatto frequente e per molti misterioso, comunità che nel loro insieme si presentano (e spesso sono) chiuse e auto-referenziali, che però quando incontri le singole persone ed entri in un rapporto di confidenza con esse, scopri che individualmente sono molto aperte e socievoli. Al punto che qualche volta viene da esclamare: "Ma come ha fatto una persona così a finire in una tale comunità"? A questa esclamazione Schelling potrebbe rispondere: "Guarda, nemmeno la comunità voleva finire in questa comunità! C’è finita involontariamente".
Ma queste malattie e nevrosi sono prevenibili o curabili? Innanzitutto, se vogliamo essere onesti, le comunità carismatiche sviluppano questi esiti quasi inevitabilmente, sono forme di malattie auto-immuni, ma possono essere più o meno gravi in base alle misure che si adottano. Per prevenirle davvero - dato che la cura ex-post è quasi impossibile - dovremmo avere persone con soglie di apertura molto basse (1 su 5, ad esempio), o con soglie zero. Ma nessuna comunità nasce se i membri non si incontrano tra loro e se non rinunciano a qualche grado di libertà della loro socialità precedente. E più le comunità hanno bisogno di legami forti di appartenenza, più sono probabili le auto-segregazioni, dove il grado di parziale apertura iniziale del singolo diventa, collettivamente, chiusura. Così, molte persone entrano in comunità con il desiderio genuino di continuare ad avere appartenenze ad altri mondi vitali e a coltivare altre relazioni esterne, e poi si ritrovano in comunità dove incontrano soltanto persone della stessa comunità; inoltre - questo è un punto interessante - ciò accade senza che le persone abbiano cambiato preferenze individuali. Anche se con il passare del tempo è possibile e probabile che le preferenze individuali cambino inconsapevolmente giorno dopo giorno, e si allineino alla prassi collettiva.
Infine, questi meccanismi involontari possono spiegare (o quantomeno offrire intuizioni) altri fenomeni simili che si verificano al livello della singola persona e all’interno delle comunità. Qualche volta mi è successo di venire in contatto con comunità religiose dove era molto difficile "toccare" l’anima delle singole persone, che preferivano passare molte ore in preghiera o in adorazione piuttosto che parlare qualche minuto con me o con gli altri membri della loro comunità. La preghiera diventava una sorta di immunitas che proteggeva dalla communitas, una cortina invisibile che immunizzava dall’incontro autentico e immediato con gli altri. Questi esiti si possono (in parte) spiegare con la stessa logica: affinché una comunità si ritrovi soltanto con persone che trascorrono tutto il tempo libero in cappella e non interagiscono più tra di loro, è sufficiente che ciascuno coltivi questo tipo di preferenza: "Mi piace stare con le altre persone della comunità, certo, ma ogni due-tre incontri, un ’incontro’ lo voglio fare da sola in cappella". Anche in questo caso, preferenze individuali "leggère", una volta aggregate collettivamente generano persone auto-segregate - un’altra forma di "morte" o di malattia grave di una comunità. E si capisce anche perché è comune che i membri delle comunità carismatiche riducano col passare degli anni la rete di relazioni profonde di amicizia, all’interno e all’esterno.
Le buone regole, le norme sociali, i regolamenti delle comunità hanno anche lo scopo di prevenire queste malattie. Ma in un tempo in cui la sovranità dell’individuo e il rispetto (necessario) della privacy sono finalmente diventate importanti anche all’interno delle comunità spirituali, diventa sempre più difficile implementare azioni e norme che spezzino queste trappole involontarie. La vera prevenzione possibile è allora lavorare sulla consapevolezza dell’esistenza di simili meccanismi di chiusura involontaria.
Tutti i membri di una comunità dovrebbero regolarmente chiedersi: quali sono i paletti invisibili che ho posto alle mie relazioni? Quanti rapporti sto vivendo con "soglie interiori"? Quante comunità vitali di ieri sto progressivamente perdendo? Quale è la varianza delle mie relazioni? Quali e quanti gradi di intolleranza sto coltivando dentro di me? Auto-test di discernimento difficili, ma non impossibili, soprattutto se la comunità offre strumenti per farli, magari insieme, anche quando non se ne avverte il bisogno. Nelle comunità si dovrebbero inserire procedure simili agli "screening" sanitari che le persone devono effettuare quando superano una certa età, a prescindere dai sintomi, al solo scopo preventivo. Scelte non facili per i responsabili, perché avvertono il rischio che qualcuno dopo il test scopra la malattia, che rispondendo a queste domande difficili vada in crisi, e magari finisca per lasciare la comunità.
Ma più forte dovrebbe essere in loro la coscienza dei danni prodotti dalla mancanza di questa prevenzione, tra questi l’estinzione della comunità stessa. Perché mentre nella prima fase di sviluppo della comunità, le preferenze delle singole persone sono meno rigide della cultura collettiva, a partire dalla seconda generazione le persone sono attratte soprattutto da quella cultura collettiva che si è generata involontariamente. E così, senza che nessuno lo voglia, le poche nuove "vocazioni" che arrivano sono in genere più chiuse di quanto non fossero i membri della prima ora - una volta diventati un quartiere di "soli bianchi" avremo soltanto nuovi vicini di casa bianchi. I nuovi arrivati con soglie più alte fanno crescere la chiusura della comunità, dando vita a circoli viziosi degenerativi. È così che spesso le comunità scompaiono involontariamente, se non si interviene decisamente e in tempo, in direzione ostinata e contraria.
Idee.
La foresta parla per segni. Come gli uomini?
Leggere il libro della natura: per l’antropologo Eduardo Kohn l’esperienza maturata presso gli indios ecuadoriani diventa occasione per rivalutare la funzione simbolica del linguaggio
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, venerdì 27 agosto 2021).
La leggibilità del mondo di Hans Blumenberg è stato uno dei libri fondamentali nel panorama del tardo Novecento. In quel saggio, apparso nel 1979, il pensatore tedesco ricapitolava le vicende del liber naturae, la metafora che attraversa per intero la cultura medievale per poi trionfare in età moderna. È Galileo, infatti, a rivendicare la perspicuità del “libro della natura” come criterio decisivo per il suo metodo scientifico. Ma la contemporaneità, si domandava Blumenberg, è ancora in grado di decifrare la scrittura del mondo? La realtà oggi si presenta ancora come un sistema coerente di coerente di segni?
Nella terminologia specifica di cui l’antropologo Eduardo Kohn si serve nel suo Come pensano le foreste (traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, nottetempo, pagine 448, euro 20,00, con una prefazione di Emanuele Coccia) la risposta all’“ancora” di Blumenberg potrebbe essere formulata ricorrendo a una curiosa combinazione di avverbi, “sempre già”. Si tratta, in apparenza, di una nozione specifica dei runa, la popolazione indigena della foresta amazzonica ecuadoriana presso la quale Kohn ha lungamente soggiornato.
Prima di proseguire, andrà subito sottolineato che Come pensano le foreste (edito originariamente nel 2013) è un libro attorno al quale si è sviluppato un ampio dibattito internazionale, che lo candida a diventare uno dei titoli più rappresentativi del secolo che stiamo vivendo. In questo senso, l’accostamento a La leggibilità del mondo non è dovuta solo a all’affinità tematica. Laddove Blumenberg partiva dalla filosofia per delineare un’antropologia, Kohn procede in direzione contraria: l’obiettivo della sua ricognizione etnografica consiste in una ridefinizione delle categorie filosofiche. Per dirlo con le sue parole, occorre “aprire il pensiero” in modo da renderlo accogliente alla visione dell’“oltre”. Che non è un luogo, ma un metodo.
Un sistema di segni, di nuovo. O, a voler essere puntigliosi, una semiosi. Nella struttura di Come pensano le foreste il magistero semiotico di Charles Sanders Peirce riveste un ruolo non meno importante delle ricerche sul campo di Lucien Lévy-Bruhl o Claude Lévi-Strauss. Da Peirce deriva la tripartizione dei segni in icone, indici e simboli, alla quale Kohn fa ricorso per tutta la trattazione, alternando la descrizione di episodi caratteristici della sua permanenza tra gli indios a circostanziati approfondimenti concettuali.
La tesi portante del libro è che ogni essere vivente agisce all’interno di un sistema di segni, che possono limitarsi a riprodurre l’oggetto (è il caso del’icona) oppure suggerirne la presenza attraverso indizi (questo è il compito dell’indice). A queste due funzioni basilari, nell’essere umano, e solo nell’essere umano, si aggiunge la facoltà di accedere al simbolo, che introduce un elemento di valore, permettendo al linguaggio di accedere a una dimensione morale.
Insistere sulla pervasività del segno, condivisa secondo modalità specifiche anche da piante e animali, non comporta affatto una mortificazione del pensiero umano. Al contrario, secondo Kohn, questa ulteriore declinazione di “pensiero aperto” permette di affrontare con accresciuta consapevolezza l’enigma che la Sfinge pone a Edipo. Anche in quella circostanza, com’è noto, l’essere umano viene paragonato a un animale: l’unicità della sua condizione di bipede rappresenta una mediazione tra l’iniziale necessità di procedere ferinamente a quattro zampe e la successiva adozione di uno strumento, il bastone, che si configura come protesi tecnologica.
I runa della regione di Ávila, ai quali Kohn si riferisce in modo diretto, si trovano a loro volta in una posizione di crocevia. In quanto indios mansos (letteralmente, “addomesticati”) partecipano sia della connotazione ancestrale del puma, ossia del predatore, sia di quella civilizzata dell’amo, il “signore bianco”. Le storie riportate da Kohl si muovono all’interno di questo triangolo del “sempre già”, riservando molto spazio ai sogni e alla loro interpretazione. Le donne, per esempio, si abituano a riconoscere le diverse articolazioni dei guaiti che i cani emettono durante il sonno, mentre sui cacciatori ricade l’onere di distinguere i presagi fausti dagli infausti. In sogno, racconta Kohn, può anche capitare di addentrarsi nel territorio dell’“oltre”, sul quale regnano i signori della foresta e nel quale si trasferiscono i morti dopo aver lasciato le loro spoglie sulla terra.
Lo studioso si richiama a credenze di tipo animista, che nell’esperienza dei runa convivono con una fede cristiana tutt’altro che superficiale. Non diversamente, viene da osservare, accadeva nelle campagne dell’Europa ancora in età moderna, quando il principio della “leggibilità del mondo” era istintivamente comprensibili per i semplici e per i sapienti. Del resto, insieme al mito della Sfinge, Kohl rievoca spesso l’immagine dantesca della “selva oscura”, quasi a stabilire una continuità dei segni e delle forme a dispetto di ogni eventuale discontinuità storica o geografica.
Pensare la realtà come sistema di segni comporta di per sé la convinzione che la realtà abbia un significato e che questo significato trovi espressione compiuta attraverso il simbolo. Non fosse che per questo, Come pensano le foreste è un libro che non può non chiamare in causa anche la riflessione teologica.
Come pensano le foreste
di Gianfranco Marrone (Doppiozero, 23 Luglio 2021)
Poesia e antropologia: che c’azzeccano? Sempre più spesso questo binomio viene invocato nelle cronache culturali, e ancora di più viene praticato nel loro effettivo svolgimento: dai poeti meno, probabilmente, ma senz’altro da antropologi, etnologi, etnografi o comunque li si voglia appellare. Non senza irritazioni nell’establishment accademico, sempre pronto a difendere i tradizionali steccati disciplinari, accade - con un’insistenza divenuta tendenza - che molte ricerche antropologiche acquisiscano un tono e un linguaggio, e dunque evidentemente dei contenuti, che tracimano nel poetico, o che quanto meno ricordino passaggi, stili e sensazioni che la poesia ha talora prodotto nel corso della sua lunga storia. Non si tratta, per carità, di intuizioni liriche del sentimento, secondo la famigerata lezione crociana che rispunta per ogni dove non appena ci si distrae un attimo; ma, forse, di presagi, accostamenti inconsueti, folgorazioni percettive che la sensibilità poetica sa come, dove e perché trascrivere - trasformare - in specifica testualità. Così per esempio Tim Ingold, il cui stile è già di per sé intrinsecamente lirico, ha fatto del concetto di corrispondenza, esplicitamente ripreso da Baudelaire, uno dei punti chiave della sua teoria, rivelando lo stretto legame fra le sue ricerche sul campo (soprattutto fra le varie etnie sparse nei Paesi artici) e le conclusioni che ne ha tratto, di stampo fortemente fenomenologico, dunque assai vicine a una visione poetica del mondo.
Ma più spesso questo genere di legami fra i mondi abitualmente considerati lontani della poesia e dell’antropologia è sorto, per così dire, dalle cose stesse, e cioè dall’orientamento metodologico che da alcuni decenni a questa parte ha assunto la scienza dell’uomo per antonomasia, l’antropologia appunto, includendo con sempre maggiore convinzione fra i propri oggetti di studio, accanto e insieme agli esseri umani, entità che umane non sono, come gli animali e le piante, ma anche i sogni e gli spiriti, le divinità, gli oggetti, le tecnologie. Le società umane, s’è progressivamente affermato, sono tali perché includono al loro interno anche i non umani, qualunque sia la configurazione che, proprio grazie a esse, assumono. Se, come già sappiamo da Descola a Latour, la dicotomia che - ponendosi alla base delle scienze sociali - oppone natura e cultura va abbandonata, essendo invenzione tutta moderna e occidentale, ne deriva quasi automaticamente che lo sguardo nei confronti del mondo debba essere fortemente trasformato. Di modo che le scienze sociali nel loro complesso, alla ricerca di nuovi fondamenti teorici, hanno finito per acquisire, insieme a un nuovo linguaggio, un nuovo modo di osservare uomini e cose, umani e non umani, considerandoli tutti facenti parte della cultura - o, che è lo stesso (e non importa), facenti parte della natura. Quel che viene meno, molto in sintesi, è ogni pretesa oggettivante (e perciò scientista), ma al tempo stesso ogni accostamento soggettivante (idiosincratico, e perciò sentimentalistico).
Accade cioè che per occuparsi dei meccanismi costitutivi delle società umane non basta studiare, poniamo, le relazioni di parentela, le forme religiose, i rituali di passaggio, il diritto, il costume e simili, ma anche e soprattutto l’ecologia degli esseri viventi nel loro complesso, ossia tutto ciò che solitamente consideravamo entità naturali, sia in quanto tali, sia soprattutto, nelle loro relazioni con gli umani. Così come noi abbiamo una certa idea delle cose del mondo, chiamiamolo così, socio-naturale, e ce ne costruiamo una rappresentazione a partire da precisi punti di vista e schemi mentali, allo stesso modo accade per gli altri esseri viventi, anch’essi dotati di punti di vista e schemi mentali (o comunque li si voglia chiamare) attraverso i quali si fanno una rappresentazione di noi. Lo sguardo antropologico che supera l’opposizione natura/cultura deve rendere conto, insomma, del fatto che nella fitta rete di relazioni fra gli esseri viventi, umani e non umani, tutti quanti si scrutano a vicenda, costituendosi reciprocamente.
Non a caso, uno dei temi privilegiati di questa tendenza dell’attuale antropologia non può che essere quello della caccia, pratica che condividiamo con qualsiasi altro animale, se non in generale con ogni essere vivente. Tutti quanti siamo, prima di ogni altra cosa, prede o predatori, soggetti attivi oppure passivi, e dunque, in fin dei conti, mangianti o mangiati. E in questo gioco al massacro - occorre farsene una ragione - si formano i fragili equilibri anche di una parentela che include i non umani: c’è chi non mangia le scimmie perché le considera alla stregua dei cognati, così come noi non cucineremmo mai un pet, animale di compagnia e dunque parente acquisito ben presente nello stato di famiglia. Lo si vede già dagli assetti linguistici, dove, per esempio, l’uso dei pronomi personali (io/tu oppure egli) è la spia non casuale delle specifiche relazioni fra gli interlocutori in gioco, modificabile di continuo a seconda dei contesti e proprio per questo di basilare importanza, appunto, per l’antropologia - che di contesti non può non trattare. È dunque a partire dalle relazioni, linguistiche come parentali, che si generano i termini in gioco.
Tutto questo per introdurre un libro importante, Come pensano le foreste di Eduardo Kohn (nottetempo, pp. 439, € 20), che già dal titolo vuol essere tanto provocatorio quanto programmatico, indicando a chiare lettere le sfide intellettuali di quella formidabile antropologia contemporanea che, come sottolinea giustamente Emanuele Coccia nell’introduzione, è da qualche tempo in qua diventata, quasi senza volerlo, una sorta di scienza pilota: “il più grande e vivace laboratorio speculativo contemporaneo, il primo e più importante vivaio delle invenzioni morali e culturali che stanno rivoluzionando il pensiero e i costumi del XXI secolo”. Come possono mai pensare le foreste - dirà il nostro buon senso comune -, dato che il pensiero, insegna Cartesio, è prerogativa eminentemente umana, e addirittura ciò che ci fonda come soggetti non soltanto fisicamente estesi ma, appunto, cogitanti?
È possibile, risponde Kohn, se si fuoriesce proprio dal razionalismo cartesiano che ancora surrettiziamente plasma la nostra cultura, e si assume un punto di vista olistico, un atteggiamento onnicomprensivo che, mettendo in parentesi la biblica supremazia dell’uomo sul resto del ‘creato’, prenda seriamente in considerazione l’ipotesi che tutti gli esseri viventi, ognuno a suo modo, abbiano una forma di ragione o, meglio, degli strumenti per interpretare il mondo, per rappresentarsi gli altri esseri viventi, per dare loro un senso e un valore. Guardare in viso qualcuno, ricorda Kohn in apertura al libro, sia esso un uomo o un altro animale, è già un modo per predisporsi verso di esso come soggetto attivo, e se non come eventuale predatore quanto meno come impossibile preda. I giaguari che si sentono guardati, ai quali cioè si dà del tu, perdono molta della loro spavalderia venatoria.
Il libro di Kohn propone una ricca serie di esempi in merito, o se si preferisce una miniera di dati etnografici, ricavati dalla ventennale frequentazione con l’etnia Runa dell’Amazzonia ecuadoriana e precisamente del villaggio di Avila, etnia che mostra molto bene - nei discorsi e nei comportamenti - la necessità di questo rovesciamento teorico: le foreste pensano, se ne ricava, soltanto se si fa propria l’idea che possano farlo. I Runa, in questo, danno preziose lezioni filosofiche. Per nulla ‘selvaggi’ al di fuori dell’ambiente occidentale, ma colonizzati che da secoli interagiscono coi loro colonizzatori, i Runa abitualmente commerciano (in tutti i sensi del termine) con il resto del mondo, vanno per esempio al supermercato per rifornirsi di ogni necessità quotidiana, negoziano regolarmente con le ONG, si spostano nei villaggi vicini per dotarsi di armi e munizioni; ma non appena devono sfamarsi, ecco che guardano alla foresta che sta ai margini dei loro villaggi, e vi si immergono per procacciarsi il cibo, in un ambiente che è al tempo stesso domestico e selvaggio, coltivato e incontaminato. Riattivando la dialettica di base fra lo sfamarsi e lo sfamare, procurarsi selvaggina o esserlo per gli altri, i Runa - spiega Kohn - si mostrano per quel che sono nel profondo: al tempo stesso esseri ‘altro-che-umani’, al pari degli animali della foresta, ma anche ‘troppo umani’, nel senso nietzschiano del termine. “Ottenere il cibo grazie alla caccia, la pesca, la raccolta, la coltivazione e la gestione di una varietà di concatenamenti ecologici, coinvolge intimamente la gente di Avila in uno degli ecosistemi più complessi al mondo - un ecosistema stracolmo di una sbalorditiva varietà di esseri che interagiscono fra loro e che sono reciprocamente costitutivi”. In tal modo i Runa divengono “dèi che parlano attraverso i corpi delle mucche, Indios nei corpi dei giaguari, giaguari abbigliati da bianchi” e chissà quante cose ancora.
Ma come avvengono questi collegamenti tra forme di vita della e nella foresta, come si istituisce questa fitta rete di relazioni fra diversi esseri viventi? La risposta di Kohn è molto precisa: attraverso segni, segni d’ogni tipo che, il più delle volte, non hanno carattere linguistico senza per questo essere meno loquaci. Laddove le lingue umane usano sistemi di simboli convenzionali, dice Kohn riprendendo esplicitamente la teoria semiotica di Charles S. Peirce, gli altri esseri viventi comunicano fra loro, nonché con gli umani, attraverso indici e icone, e cioè mediante segni che hanno una qualche contiguità con ciò che rappresentano oppure che vi somigliano. Così, nella caccia alla scimmia si possono strattonare rampicanti legnosi o altre liane per farle fuggire (dove il movimento dei vegetali dice all’animale che sta accadendo qualcosa di strano, ed è un indice), oppure si pronunciano suoni onomatopeici come ta-ta e pu-oh (i quali rinviano all’immagine del taglio di una palma col machete, ed è un’icona). Così, “la significanza non è un territorio esclusivo degli esseri umani perché non siamo i soli a interpretare i segni. Il fatto che altri generi di esseri usino i segni è un esempio dei modi in cui la rappresentazione esiste nel mondo al di là delle menti umane e dei loro sistemi di significato”. Lungi dallo sclerotizzare le dinamiche ecologiche in codici prefissati, i segni, continua Kohn, permettono le dinamiche stesse della vita, la sua intrinseca plasticità, di qualunque vita si tratti, qualsivoglia forma possa assumere. Da qui l’idea di un pensiero che è tutt’uno con l’esistenza, sganciandosi dal dettato cartesiano che lo vorrebbe prerogativa esclusiva dei soggetti umani. Un pensiero, pertanto, che include al suo interno sensazioni e percezioni, affetti e azioni: motivo per cui, con un lungo giro, finisce per assumere conformazioni di senso e stili linguistici che ricordano quelli della poesia. Così, se per il poeta l’idea che le foreste pensano è una specie di evidenza, per l’antropologo è una conquista teorica da tenere stretta.
Una conquista che, come sempre accade, va argomentata teoricamente e, soprattutto, difesa, protetta, rafforzata. Come pensano le foreste - la cui lettura non può non interessare, al di là dell’ovvia cerchia etnologica, filosofi e sociologi, letterati e storici della cultura - non è allora un punto di arrivo ma uno di partenza, ponendosi come un testo chiave da assimilare, discutere e anche se del caso criticare. Una molteplicità di saperi viene convocata - più o meno implicitamente - nel dibattito. L’etologia, in primo luogo, grande assente tra le pagine di Kohn, eppure di grande utilità per comprendere al meglio il senso di tanti comportamenti animali. Von Uexküll e Lorenz, per esempio, avrebbero sicuramente di che ridire (si veda il capitolo sui sogni dei cani). La linguistica, in secondo luogo, che sulle onomatopee ha parecchio da dire di più incalzante. E la semiotica soprattutto, tirata in ballo a gran voce, ma utilizzata al minimo delle sue forze, riprendendo un Peirce di maniera, assai caricaturizzato, che nessun semiologo serio adopererebbe con questa rigidità. Così, per dirne una (ma occorrerà tornarci), sostenere che gli uomini usano simboli e gli animali indici e icone è un’idea tutto sommato banale, per non dire tradizionale, aristotelica nel senso manualistico del termine. In un libro che prende di petto il razionalismo l’idea di un logos come prerogativa dell’essere umano stride non poco. E poi, ammettiamolo, Verlaine e Mallarmé non sarebbero d’accordo. Se le foreste pensano, occorre ripensare tutto quanto insieme a loro.
Anticipazione.
Educare lo spettatore alla teologia del cinema
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, venerdì 13 novembre 2020)
Perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di di altissima impronta religiosa. La collana della FEdS
Era l’anno 1895 e per la prima volta i fratelli Louis-Jean e Auguste Lumière facevano scorrere alcune immagini in movimento, dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata “la settima arte”, la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, per conto dei fratelli Lumière, aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico con le sue apparecchiature destinate a filmare Papa Leone XIII nell’atto di benedire. Da lì a poco un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il Papa “di persona”.
Nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passione di Albert K. Léhar, un’esperienza che nel 1899 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, col film cristologico Le Christ marchant sur les eaux, cui seguirà Jeanne d’Arc. Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film “biblici” e agiografici, al moltiplicarsi dei festival e così via.
Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, perciò, di presentare una trilogia schematica, simile a un trittico mobile e di taglio impressionistico.
Nella prima scena abbozzeremo un essenziale cenno teorico e teologico; nel secondo quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcuni protagonisti - anche inattesi - della dialettica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo ai non molti ma significativi approcci pastorali ufficiali offerti dal Magistero, mentre la Chiesa era coinvolta vivacemente nella trionfale affermazione della “settima arte”.
La matrice del cinema si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l’immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» (Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. -Nelle Scritture cristiane e nella Tradizione la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è per sua stessa natura simbolico e analogico - come per altro aveva già intuito il libro della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature analógôs [per analogia] si può ascendere al loro Autore» (13,5) - ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l’Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazareth una eikôn, un’icona, un’immagine del Dio invisibile, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15). In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia.
Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono per loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell’ “azione” cinematografica che cerca di “attuare” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell’interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.
L’altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è per sua natura “storia della salvezza” e quindi narrazione.
È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli - benedetto sia - ama i racconti ». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell’adulterio di Davide e dell’assassinio di Urìa presente nei cc. 11-12 del Secondo Libro di Samuele.
In quest’ottica si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una serie di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa. Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), a Il grande pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil B. DeMille (1927) remake di Nicholas Ray nel (1961); quest’ultimo ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un “classico” della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956).
Non si badava a spese e a effetti, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell’esagitato, La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si devono escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell’uso improprio del testo sacro ( L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1988, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema. Anche per il cinema si può, comunque, riproporre l’antica querelle che ha tormentato critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non sono necessariamente sinonimi). In realtà, bisognerebbe superare le classificazioni troppo rigide perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GELBISON, GIBSON E LA CHIESA CATTOLICA. DUE PAROLE, UN ’RIVELATIVO’ SEGNO DEI TEMPI.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN : NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA" !
FLS
1937-2018
Morto Mario Vegetti, filosofo studioso di Platone
È scomparso l’11 marzo nella sua casa milanese all’età di 81 anni
Aveva esaltato l’importanza del pensiero scientifico della Grecia antica *
Raffinato studioso e commentatore di Platone, conosceva come pochi altri anche il versante scientifico della cultura classica. E aveva un carattere piuttosto schivo, non cercava la popolarità e non amava i riflettori. Tuttavia Mario Vegetti, scomparso ieri nella sua casa milanese all’età di 81 anni, era ben consapevole della necessità di far conoscere la civiltà antica al grande pubblico. Diversi suoi libri hanno infatti un carattere didascalico - non a caso sono articolati in lezioni - o d’introduzione alle opere dei grandi filosofi. Concepiva l’università come un luogo aperto al confronto con il territorio, gli dispiaceva che, dopo alcuni tentativi, le istituzioni accademiche avessero rinunciato a essere «protagoniste attive del tessuto cittadino».
Nato a Milano il 4 gennaio 1937, Vegetti era stato alunno del prestigioso collegio Ghislieri di Pavia e si era laureato nell’ateneo di quella città con una tesi su Tucidide, nel 1959. Sempre a Pavia era stato professore ordinario di Storia della filosofia antica per trent’anni, dal 1975 al 2005. Poi aveva lasciato, un po’ deluso per lo scarso dinamismo dell’ambiente accademico, che addebitava non solo ai colleghi, ma anche ai giovani: «Un tempo gli studenti - ricordava - ponevano domande di senso. Oggi non più».
Convinzione profondamente radicata di Vegetti era appunto che lo studio del mondo classico fosse fondamentale per aprire le menti. I grandi pensatori greci, sottolineava, avevano sviluppato le proprie riflessioni in un ambiente privo di sacre scritture o di autorità che pretendessero di possedere e imporre dottrine prefissate, quindi avevano potuto avanzare le ipotesi più varie, a volta geniali, a volte strampalate, in completa libertà. Avevano così animato un immenso laboratorio intellettuale non solo in campo filosofico, ma anche scientifico. La medicina, per esempio, aveva compiuto passi enormi attraverso la pratica quotidiana proprio perché non vincolata da regole previste nei libri sacerdotali, come avveniva al contrario nell’Egitto dei faraoni.
A questo rapporto sinergico tra sperimentazione diretta (condotta affondando la lama nella carne di animali e cadaveri) e accumulo del sapere teorico Vegetti aveva dedicato il suo saggio significativamente intitolato Il coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1979), prodotto di un’approfondita ricerca sul pensiero scientifico ellenico condotta secondo l’indirizzo di uno dei suoi maestri, il filosofo marxista eretico Ludovico Geymonat, e proseguita poi in diverse altre opere. In seguito Vegetti aveva pubblicato il lavoro altrettanto importante L’etica degli antichi (Laterza, 1989) e si era progressivamente caratterizzato come uno dei più acuti e validi studiosi di Platone a livello internazionale. -Aveva curato una monumentale edizione commentata della Repubblica, opera più nota del filosofo greco, in sette volumi usciti tra il 1998 e il 2007 presso l’editore Bibliopolis. Ma aveva realizzato anche saggi rivolti a un pubblico di non specialisti come Quindici lezioni su Platone (Einaudi, 2003), Guida alla lettura della «Repubblica» di Platone (Laterza, 2007), Un paradigma in cielo (Carocci, 2009).
Su Platone, Vegetti si era confrontato con un altro accademico italiano di notevole prestigio, Giovanni Reale, scomparso nel 2014. Quest’ultimo riteneva che la «dottrina non scritta» del grande filosofo greco, di carattere metafisico, fosse l’autentico contenuto del suo insegnamento, mentre i Dialoghi ne sarebbero stati soltanto l’introduzione. Una lettura che non convinceva affatto Vegetti, secondo il quale andava viceversa riconosciuto il «pieno valore filosofico» dei testi platonici. In particolare il suo interesse era attirato dal problema della politica così come era stato affrontato dall’autore della Repubblica.
Da una parte Vegetti, affascinato dalle infinite sfaccettature dell’eredità di Platone, poneva l’accento sulla sua ineludibile polivalenza e sottolineava che quell’insegnamento trasmesso in forma dialogica, attraverso il confronto fra punti di vista differenti, «non può venire ridotto a un sistema univoco di significati». Dall’altra, apprezzava l’afflato ideale che percorre quelle medesime pagine, nelle quali la politica viene «pensata in grande», assegnandole «una capacità di orientamento della vita sociale nella sua complessità economica, militare, etica».
Uomo di sinistra, impegnato socialmente al fianco della moglie Silvia Vegetti Finzi (psicologa di primo piano e firma del «Corriere della Sera»), era consapevole di quanto spinoso sia il nodo della legittimità del potere, su cui si era soffermato con grande finezza di argomentazioni nel libro Chi comanda nella città (Carocci, 2017). Ma riteneva comunque che la politica avesse bisogno di uno slancio utopistico, dovesse nutrirsi di valori, per non diventare miope e conservatrice. E proprio per questo diffidava di Aristotele e della sua tendenza a «naturalizzare» le istituzioni umane storicamente determinate, che a suo avviso finiva per risolversi in una pericolosa giustificazione integrale dell’esistente. Ma certo non sottovalutava il pensatore di Stagira, al quale aveva dedicato il volume Incontro con Aristotele, firmato con Francesco Ademollo (Einaudi, 2016).
Va comunque aggiunto che Vegetti dissentiva da coloro che, ponendo al centro l’opera dei maestri più illustri, svalutano il successivo periodo ellenistico e la ancor più tarda fase imperiale, con la Greca ormai sottomessa al dominio di Roma. Considerava l’ellenismo «fondamentale per l’etica, per la logica, in fondo anche per la fisica». E guardava con estremo interesse alla dialettica tra il pensiero classico e le nuove religioni di salvezza, in primo luogo il cristianesimo.
Nella vasta Storia della filosofia antica da lui diretta con Franco Trabattoni (Carocci, 2016) Platone e Aristotele occupano solo un volume su quattro. Per presentare quell’opera Vegetti aveva partecipato per «la Lettura» del «Corriere» (numero 228 del 10 aprile 2016) a un incontro con alcuni studenti, nel corso del quale aveva riaffermato la sua fiducia nella funzione civile della filosofia. Lo allarmava un dibattito pubblico ridotto a frastuono e a ingannevoli espedienti di marketing. Considerava più che mai urgente «mettere ordine nel modo di pensare».
* Corriere della Sera, 12.03.2018 (ripresa parziale, senza immagini)
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
Platone insegna. Il nostro destino è nella caverna
di Umberto Curi ( Corriere della Sera, La Lettura, 11.03.2018)
«Strana immagine - disse - e strani incatenati». È questo il primo commento formulato da Glaucone, interlocutore di Socrate nell’esordio del libro VII della Repubblica, dopo aver ascoltato la descrizione della «dimora sotterranea a forma di caverna» e della condizione di coloro che in essa sono prigionieri.
Tanto l’ immagine (eikón) complessiva che è stata evocata, quanto coloro che in essa sono raffigurati avvinti da catene (desmótas), appaiono strani ( atópous), perché privi di un luogo (tópos) a cui attribuirli, e che li renda perciò riconoscibili. La nostra phýsis, ciò che ciascuno di noi è per «nascita», appare dunque originariamente simile a quella «strana» eikón. Come quei prigionieri, anche noi possiamo vedere e sentire soltanto skiái - solamente «ombre». Inevitabile, quindi, la conclusione. Chiunque si trovi in una situazione come quella ora descritta, crederà che la verità consista nelle «ombre degli oggetti artificiali».
Se vogliamo sapere quale sia la condizione umana originaria, prima che essa venga profondamente modificata attraverso quel processo di formazione in cui consiste la paidéia, dobbiamo avere in mente questa «strana» immagine, riconoscendo che noi siamo in tutto e per tutto simili a quegli incatenati. Come loro, anche noi siamo prigionieri di un mondo di ombre - dei riflessi visivi e dell’eco delle voci.
All’origine, insomma, il genere umano è caratterizzato dall’impossibilità di valorizzare pienamente le potenzialità connesse con il vedere. Le catene impediscono qualsiasi visione panoramica, impongono una fissità nel vedere che si traduce in una vera e propria amputazione sensoriale, e dunque conoscitiva. Ciò implica non solo una visione-conoscenza difettiva del «mondo» esterno a noi, degli altri e di ciò che li circonda, ma anche di noi stessi.
«Supponi ora - racconta Platone - che uno dei prigionieri si sciolga». Questo passaggio della narrazione platonica ha dato origine a innumerevoli equivoci, a vere e proprie rimozioni collettive. Perché il filosofo non dice se il prigioniero si sciolga da sé, o perché aiutato da altri. Perché non precisa che cosa induca l’incatenato a privarsi dei suoi ceppi. Perché il percorso che conduce fuori dalla caverna è descritto per ellissi e allusioni, più che illustrato nei dettagli. Un punto, fra tutti, deve in ogni caso essere chiarito, per fugare le più diffuse distorsioni interpretative. Il mito non si conclude affatto con la fuoriuscita dalla caverna, come si è sostenuto più volte, in contesti diversi.
Ritenere che il tragitto possa essere considerato compiuto nel momento in cui lo sguardo è in grado di sollevarsi verso ciò che «produce le stagioni e gli anni e che domina tutte le cose del mondo visibile ed è causa di tutto ciò che (il prigioniero) vedeva», vorrebbe dire precludersi la possibilità di comprendere in che cosa davvero consista l’essenza della paidéia , alla quale Platone riconosce la capacità di determinare non soltanto una generica «educazione», ma un rivolgimento completo dell’anima.
Affinché l’itinerario avviato con lo scioglimento dalle catene possa giungere a conclusione è infatti necessario che non solo il prigioniero ritorni nella caverna dalla quale era uscito, ma che egli ingaggi una vera e propria lotta con i desmótai , cercando in ogni modo - con la «persuasione» (peithói) e con la «costrizione (anánke)» - di strapparli dalle tenebre della dimora sotterranea. Come ha sottolineato Martin Heidegger nella sua opera L’essenza della verità (Adelphi, 1988), la ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo che il presunto «libero» possa concedersi così per svago, magari per curiosità, per provare come si presenta l’esistenza della caverna vista dall’alto, ma è, essa soltanto, il «compimento autentico del divenire liberi».
Da tutto ciò consegue che la libertà coincide non con una condizione pacifica, con l’estatica e solitaria contemplazione della verità da parte di un singolo privilegiato che sia riuscito a sciogliersi dalle catene, e dunque goda di questa straordinaria opportunità. Al contrario, come Platone esplicitamente afferma, per potere essere veramente libero, colui che si sia sciolto dalle catene dovrà ritornare nella caverna e dovrà contendere con coloro che in essa sono rimasti, anche a rischio della propria incolumità e della stessa vita. Non si è liberi, se non si agisce come liberatori degli altri.
In quanto ricorda ciò che ciascuno di noi è per nascita, il mito della caverna allude ad una condizione di intrinseca ed ineliminabile duplicità come sigillo specifico e inconfondibile della condizione umana. In quanto raffigura le caratteristiche salienti di colui che ama contemplare lo spettacolo della verità, esso mostra fino a che punto la verità stessa si presenti non come un dato, o un oggetto, o una realtà definita, ma come un lotta incessante e insuperabile, nel quale entrano in conflitto lo svelarsi e il sottrarsi a questo svelamento. In quanto descrive quale debba essere il compito del filosofo all’interno degli Stati, affinché essi conoscano se non altro una «tregua» ai mali che li affliggono, esso indica nella necessità della discesa nella caverna un dovere irrinunciabile per colui che abbia ricevuto la migliore paidéia.
Infine, in quanto illustra la peculiarità dello sguardo, il mito platonico - ripreso anche nel romanzo del Nobel portoghese José Saramago La caverna (Einaudi, 2000) oltre che in varie opere cinematografiche di successo - consente di comprendere che non può esservi visione che non sia accompagnata dall’accecamento. Che mai, in nessun caso, è possibile godere di uno sguardo che non sia in qualche modo offuscato dal persistere delle ombre. Che mai è concesso andare oltre un incerto chiaroscuro, per cogliere compiutamente la luce. Che mai a nessuno di noi può accadere di uscire per sempre dalla caverna da cui proveniamo, e nella quale dobbiamo comunque ritornare, per cercare in essa, nel conflitto originario con gli altri come noi, di rintracciare una strada da percorrere, forse al riparo da irrimediabili cadute, ma anche senza illusioni di compiuta salvezza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA"!
Nella sua ultima grande opera pubblicata in vita, la più completa storia della ricezione del mito platonico, da Aristotele a Wittgenstein.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
FILOSOFIA, MATEMATICA E REALTA’: IMPARARE A CONTARE!!! Una nota in memoria di PRIMO MORONI ...
PLAUDENDO AL VOSTRO "SPECIALE MATEMATICA E REALTÀ", in ottima corrispondenza con l’incontro filosofico del 22 pv (“Realismo Metafisica Modernità”, Aula Biblioteca Guglielmo Marconi - Piazzale Aldo Moro 7, Roma),
PREMESSO CHE il “LOGOS” non è un “NUMERO” (cfr. CONTARE E PENSARE... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4963) e, convinto che occorra legare insieme FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA (cfr. ATENE/EUROPA ... https://www.alfabeta2.it/2017/02/16/ateneeuropa-volare-sullabisso/#comment-625400),
COME CONTRIBUTO al lavoro della Redazione di ALFABETA2 e del SUO CANTIERE, ripropongo qui UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI “UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO”?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3995)
e un mio breve lavoro
in memoria di PRIMO MORONI:
CHI SIAMO NOI, IN REALTÀ?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198).
BUON-LAVORO!!!
Federico La Sala (18.02.2017)
2)
MATEMATICA, REALTÀ, E CREATIVITÀ. Un omaggio ad “Alfabeta - 1”, “Alfabeta - 2“, e un contributo ai lavori del Cantiere ...
Realismo e Metafisica. A voler rendere meno sintetico ed ellittico il discorso, e a raccordare l’ieri con l’oggi, “ALFABETA 1” con “ALFABETA 2” e il CANTIERE, mi sia consentito richiamare, due miei interventi: il primo sugli atti di un convegno eccezionale sugli “stati generali” del realismo scientifico e filosofico - LIVELLI DI REALTÀ (“Alfabeta”, 66, 1984) e, insieme, il secondo sul “grande scontro” tra razionalismo fondazionalistico e razionalità antifondazionalistica - FILOSOFI CATTOLICI IN POLEMICA (“Alfabeta”, 108, 1988), intorno al lavoro del filosofo cattolico Dario Antiseri, vicino al “pensiero debole” ieri e vicino a studiosi e ricercatori (cfr. il suo contributo “L’universo incerto della ragione umana”, nel volume collettaneo “I modi della razionalità”, Mimesis Edizioni, 2016, pp. 29-45) di questi anni recenti, sino ad oggi.
REALISMO E MODERNITÀ. RIPRENDENDO A “CONTARE”, e portando alla luce del sole (dalla caverna o, se si vuole, da “interi millenni” di labirinto) il legame profondo tra filosofia, matematica, e antropologia, si arriva a comprendere di nuovo e meglio che della razionalità, come dell’essere, si può parlare “in molti modi” - non in un solo modo (quello mono-logico ed ego-latrico, con le sue platonizzanti pretese: “Io, Platone, sono la Verità”). E, altrettanto, come sia possibile riportare - FILOSOFICAMENTE E ANTROPOLOGICAMENTE - la vita e la ricerca sulla strada aperta da ARISTOTELE (al di là di ogni tomistica e neotomistica illusione: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3617#forum3121791) e illuminata da KANT (oltre ogni scetticismo e ogni idealismo-materialismo: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829), definitivamente, fuori dall’orizzonte della creatività “andropologica” dell’ “uomo supremo”, del “superuomo” e della sua società a “una” dimensione.
N.B. - L’uscita dallo “stato di minorità” è all’ordine del giorno già dal 1784...
BUON-LAVORO!!!
Federico La Sala (19.02.2017)
* DUE NOTE A MARGINE DELLO "SPECIALE MATEMATICA E REALTÀ" DI ALFABETA2.
Scheda di lettura
Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo
di Deborah Spiga
Per poter comprendere tale opera è necessario inserirla nel quadro delle ricerche condotte da Blumenberge in particolare nell’ottica della sua “metaforologia”. Al centro del suo pensiero vi è l’intento di scomporre e analizzare il mondo dei miti, delle metafore e dei luoghi comuni che hanno contraddistinto non solo la filosofia occidentale, ma tutto ciò che va genericamente sotto la denominazione “cultura”. Il suo scopo, in questa analisi, non è propriamente ermeneutico, ma, potremmo dire genealogico - antropologico. Attraverso quelli che egli chiama “spaccati trasversali”, ricerca ciò che ha spinto l’uomo nella costruzione di una determinata figura metaforica e il loro passaggio all’interno del pensiero filosofico.
Metafore, miti, luoghi comuni non sono altro che immagini ancestrali con le quali l’uomo risponde alla realtà che lo circonda, cercando di conferirle un senso e un ordine. Risposte all’ansia, all‟incertezza, al pregiudizio di un’epoca nei confronti di una rappresentazione del tutto della realtà che non riesce a padroneggiare né a sperimentare. “Il mondo della vita” risulta così essere costituito da una trama di metafore che non solo spiegano il mondo, ma che orientano, formano e determinano, seppur inconsapevolmente, il modo di agire di ognuno in veri e propri paradigmi: “Le metafore sono dei tropi (in senso etimologico e non solo retorico), modi originari di „rivolgersi‟ al mondo, di orientarsi e disporsi nei confronti della realtà, atteggiamenti che si assumono ancora prima di ogni presa di posizione riflessiva”1. Queste le cosiddette “metafore - guida”, questa la loro funzione più propriamente pragmatica. In filosofia, d’altra parte, il loro utilizzo risponde all’esigenza di esprimere il non pienamente concettualizzabile, l’inspiegabile, il non-detto. La metafora della verità nuda o possente, il mondo come meccanismo di orologio o come teatro, il Dio demiurgo o sovrano non sono altro che i modi con cui la filosofia ha supplito ad un linguaggio logico, univoco e chiaro in qualche modo deficitario.
Il problema per Blumenberg si pone quando la stessa filosofia nella pretesa di razionalizzazione e concepibilità pura si sbarazza del le metafore come di veri e propri ponti che conducono dal mito al logos:
Le metafore come “stampelle”, gradi-zero del pensiero concettuale. Ciò che avviene è una “cristallizzazione” della polisemia e plurivocità del linguaggio analogico a favore dell’evidenza e chiarezza di quello logico. Scopo dell‟autore è quello di dimostrare come metafore e miti non siano detonatori, strutture pre-logiche del pensiero da smantellare, ma veri e propri cardini del pensiero umano in grado di “depotenziare lo strapotere della realtà e il suo assolutismo”3.
Tema di questa opera è: il mondo come metaforica del libro. Può il mondo essere letto come se fosse un libro? E il soggettocome si pone nei confronti di questo ipotetico libro: abile decifratore, soggetto ignaro da alfabetizzare o attivo lettore? Quello che Blumenberg compie è una ricostruzione a tappe del pensiero occidentale a partire dalla metaforica del mondo come libro. L’analisi prende l’avvio dalla filosofia antica e dalla sua ostilità nei confronti della scrittura. Questa infatti, in quanto negazione di una presenza, di una viva voce non è altro che copia di copia, inautenticità e inganno. Nonostante Democrito descrivesse i suoi atomi come lettere dell‟alfabeto e Platone cercasse di riprodurre nei dialoghi la dialettica del dibattito orale, l’idea della leggibilità del mondo è estranea al pensiero greco perché in esso ogni fenomeno è già pienamente accessibile:
Il mondo diviene significante solo quando il visibile-copia non rimanda più ad un modello-invisibile. Diviene significante e dunque leggibile solo quando questo perde il suo carattere di imitatività. È nel popolo della Legge, gli Ebrei, che si ha secondo l’autore la prima vera metaforica del mondo come libro. Questa idea presuppone infatti l’abbandono dell’accessibilità al fenomeno come visione e insinua una non chiarezza di fondo, una volontà di comunicare mediata che è propria di una creazione ex nihilo, di un Dio che si esprime attraverso il suo creato per indizi.
Nel cristianesimo l’esigenza di un libro che spieghi l’operato di Dio stride con l’idea di una natura naturata perfettamente chiara, giusta e comprensibile. Nel tentativo di conciliazione, autori come Alano di Lilla, Ugo di San Vittore, Bonaventura, Grossatesta descrivono la rivelazione biblica come il necessario mezzo per il ristabilimento di quello stato paradisiaco in cui l’uomo leggeva direttamente nella natura i veri nomi delle cose. Ogni creatura diviene segno e sintomo, l’allegoria strumento interpretativo indispensabile e il rapporto tra creatore-creato il rapporto tra la mano che scrive e lo scritto.
Fu il teologo Raimondo Sabunde che nel 1436 sviluppò esplicitamente per la prima volta nel Liber creaturarum la metafora dei due libri. Da una parte il libro scritto direttamente da Dio, il libro della Natura e dall‟altra quello dettato da Dio agli uomini, la Bibbia. La contrapposizione Bibbia - libro della natura viene a collidere definitivamente nel momento in cui l’avanzare delle scoperte scientifiche, geografiche e astronomiche non riescono più a convergere con i dogmi teologici. E se per Campanella i libri di Dio concordano e strumenti come il cannocchiale diventano messaggeri escatologici dell’annuncio del profeta, la soluzione di Galilei e del libro della natura come libro scritto da un Dio geometrizzante appare un compromesso. Difatti, attraverso l‟utilizzo della matematica, la natura appare governata da proprie leggi che possono essere decifrate, comprese e indagate senza alcun ulteriore rimando.
Ad un linguaggio metaforico, polisemico e analogico inizia così a sostituirsi la chiarezza e l’univocità del linguaggio logico che rinvia solo a se stesso. L’esperienza e la sperimentazione sono il nuovo terreno su cui si affaccia il nuovo soggetto che non è più spettatore ma esploratore. All’ammassibilità contenutistica del sapere viene contrapposta la viva e fresca esperienza della natura e il divario natura - sapere/libro trova qui il suo apice:
Le terre incognite, il viaggio per mare e il pellegrinare empirico diventano le nuove metafore. La scienza diventa “storia naturale”, la filosofia eco, mediatrice di una natura a cui non aggiunge nulla di proprio. Emblematica in tal senso è la metafora che utilizza Bacone nel descrivere il rapporto teoria-oggetto come quella di uno specialista che scrive sotto dettatura. Il libro della natura si ritrae così per fare spazio ad un nuovo e terzo libro: quello dell’uomo e della storia.
Con Gracìan, Vico e Lichtenberg è l’uomo viaggiatore e cosmopolita ad essere oggetto di indagine. Ogni espressione, ogni atteggiamento, ogni gesto viene cifrato dall‟uomo e decifrato dalla nuova arte della fisiognomica. Egli non è più il teoreta, ma l‟acuto decifratore che dissimula:
L’uomo diventa sempre più abile nel mascheramento delle proprie intenzioni, nell‟affinamento del decoder e nel non rendersi leggibile e trasparente all’altro. Al genio maligno si sostituisce una “demonologia” del tutto umana. La metafora diventa trascendentale e rivela il proprio carattere di artificio e costruzione. In Vico essa è precisamente deviazione, ciò che permette all’uomo di conoscere ciò che non conosce tramite ciò che conosce, conquista relazionale dell‟universo.
In seguito, nel capitolo intitolato “Tendenze per il diciannovesimo secolo”, all’esigenza illuministica di una ricapitolazionee sistematizzazione definitiva della storia nell’enciclopedia Blumenberg contrappone l’intento romantico di una riscoperta delle origini e della decifrazione dei testi antichi. Al tribunale della ragione la riscoperta del mito e di quei pregiudizi che Herder intende recuperarein quanto “impressioni infantili dell‟umanità”7.
Alla megabiblioteca e al progetto ambizioso di traduzione del mondo tramite la characteristica universalis di Leibniz l’unico libro della natura in cui tutto è già scritto di Goethe. Tutto diviene leggibile e ogniparte sta per il tutto. La natura appare di una “sincerità biblica” e lo stesso “Io geroglifizzato” di Novalis non fa altro che riflettere quella stessa natura in cui questa a sua volta si rispecchia. Al “libro della natura” si sostituisce l‟intento grandioso di scrivere un “romanzo sull‟universo”e una Bibbia di ognuno. La piena e totale significazione di ogni cosa si spinge fino al punto di perdere ogni significato e al sogno di scrivere “un libro suniente”. Vuoto, purezza, foglio bianco diventano le nuove parole d’ordine in Mallarmè e Valery:
Il viaggio a tappe termina con Freud e il mondo della cellula di Miescher e Oswald. Se nel primo l’idea di leggibilità diviene con-leggibilità attraverso i meccanismi di transfert e dell’interpretazione dei sogni, che eludendo la cifratura della censura permettono al soggetto di oggettivarsi e leggersi, nelle scienze genetiche codici, messaggeri e caratteri diventano le nuove metafore di un sistema ereditario da decifrare e manovrare in quella che va delineandosi come una vera e propria “grammatica biologica” potenzialmente riscrivibile:
1
R. Bodei, Introduzione italiana a
La leggibilità del mondo
di H. Blumenberg, p. XX.
2
H. Blumenberg,
Die Lesbarkeit der Welt
, Suhrkamp, Frankfurt 1981;
La leggibilità del mondo
,
a.c. di Remo Bodei, Il Mulino,
Bologna 2009,
p. 427.
3
R. Bodei, Introduzione italiana a
La leggibilità del mondo
di H. Blumenberg, p. XI.
4
H. Blumenberg,
Die Lesbarkeit der Welt
, Suhrkamp, Frankfurt 1981;
La leggibilità del mondo
,
a.
c. di Remo Bodei, Il Mulino,
Bologna 2009,
p.
p. 36.
5
Ibidem
, p. 11.
6
Ibidem,
p. 113.
7
Ibidem,
p.
170
8
Ibidem,
p. 315.
9
Ibidem,
p. 416-417.
* GIORNALE CRITICO - http://www.giornalecritico.it/risorse/biblioteca/Blumenberg_04.pdf
IL PIANO NAZIONALE FORMAZIONE DEL MIUR
Educare al pensiero critico
di Gaspare Polizzi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 Ottobre 2016)
Lunedì 3 ottobre è stato presentato al Miur il Piano nazionale di formazione degli insegnanti. Il Ministro Stefania Giannini lo ha illustrato dopo gli interventi di Andreas Schleicher, Direttore del Directorate of Education dell’Ocse, Jordan Naidoo, Direttore della Divisione Education 2030 Support and Coordination dell’Unesco, Oon Seng Tan, Direttore dell’ Institute of Education di Singapore. Il Piano prevede un investimento di 325 milioni di euro per la formazione in servizio degli insegnanti, che diventa - come previsto dalla legge 170/2016, art. 1, comma 124 - «obbligatoria, permanente e strutturale». Sarà presto adottato con decreto del Ministro e sarà subito operativo. Se a queste risorse si aggiunge il miliardo e 100 milioni della Carta del Docente, si arriva a un totale di 1,4 miliardi stanziati nel triennio 2016/2019 per la formazione del corpo insegnante. Non ci sono precedenti per un impegno di spesa simile del Miur per valorizzare la crescita professionale dei docenti.
Saranno coinvolti nel Piano di formazione tutti i docenti di ruolo, circa 750mila. Nove le priorità tematiche: tre riguardano le competenze di sistema (Autonomia didattica e organizzativa, Valutazione e miglioramento, Didattica per competenze e innovazione metodologica), le altre sei mirano all’innovazione (Lingue straniere, Competenze digitali e nuovi ambienti per l’apprendimento, Scuola e lavoro) e all’inclusione (Integrazione, competenze di cittadinanza e cittadinanza globale, Inclusione e disabilità, Coesione sociale e prevenzione del disagio giovanile). La qualità dei percorsi sarà assicurata attraverso nuove procedure di accreditamento a livello nazionale dei soggetti erogatori che consentiranno anche di monitorare gli standard offerti. Sarà fatto un investimento specifico sulla ricerca in questo campo, pari a tre milioni di euro, per favorire il finanziamento, la raccolta e diffusione delle migliori startup formative. Le «buone pratiche» formative, saranno raccolte, a cura dell’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca Educativa), in una «biblioteca delle innovazioni».
I tre prestigiosi relatori internazionali hanno variamente sottolineato limiti e potenzialità del sistema italiano di istruzione. Schleicher, a nome dell’OCSE, ha illustrato un triangolo perfetto della professionalità docente, ai vertici del quale si trovano l’autonomia, ovvero il potere decisionale dei docenti sul proprio lavoro, la base di conoscenze per l’insegnamento, le opportunità di sostegno e confronto necessarie per mantenere elevati standard di qualità. Nel caso italiano il triangolo è squilibrato perché a una dose elevata di autonomia fanno riscontro basse opportunità di confronto tra docenti e una ridotta base di conoscenze specifiche. È evidente che la formazione si gioca in Italia sulle conoscenze funzionali alla didattica e sulla capacità di dialogare e lavorare in gruppo.
Il ministro Stefania Giannini ha dichiarato che «siamo davanti ad un cambio di paradigma culturale: da oggi ciascun docente sarà inserito in un percorso di miglioramento lungo tutto l’arco delle sua vita professionale. Abbiamo immaginato la formazione in servizio come un ambiente di apprendimento permanente, un sistema di opportunità di crescita costante per l’intera comunità scolastica”. Il Ministro ha posto una particolare enfasi sulla centralità della didattica per competenze, che afferisce agli aspetti strategici del sistema.
Non a caso la svolta impressa dal PNF è stata sottolineata da Tan, Direttore dell’Institute of Education di Singapore, Paese all’avanguardia mondiale nei sistemi educativi: «il lancio di questo Piano rappresenta per l’Italia un traguardo importante nelle politiche di miglioramento del sistema scolastico. Il Piano farà crescere la qualità dell’insegnamento e avrà ricadute positive su scuole e studenti». Tan ha sottolineato la cura che a Singapore si dedica all’apprendimento cooperativo dei docenti, che ridiventano di buon grado studenti disposti in classi di apprendimento gestite da maestri riconosciuti. L’insegnamento collaborativo si realizza grazie alla disponibilità dei docenti a seguire un apprendimento collettivo secondo i criteri del life long learning.
Viene da pensare alla convergenza tra il «nuovo paradigma» della formazione degli insegnanti e lo straordinario impegno profuso dal Sole 24 Ore per l’attuazione del «Manifesto della Cultura», nel quale si sostiene tra l’altro che «l’azione pubblica deve contribuire a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’università, lo studio dell’arte e della storia, non disgiunto dalla formazione di una mentalità scientifica e antidogmatica, per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per la creatività del futuro, formando nel contempo i giovani ad una cultura del merito, che deve attraversare tutte le fasi educative». Gli Stati Generali della Cultura, che quest’anno celebrano la loro quinta edizione, sono imbevuti della medesima volontà di cambiare il paradigma dell’istruzione e della cultura, nella convinzione che soltanto su queste nuove basi potrà avvenire la rinascita del Paese.
Su un punto, in particolare, il PNF può convergere con un obiettivo concreto degli Stati Generali della Cultura: l’esercizio del pensiero critico. Il dossier Ocse 2015 su scuola e università (Education at a Glance) segnala che l’Italia registra uno dei punteggi più bassi in termini di lettura e comprensione (literacy) dei 25-34enni, titolari di un diploma universitario e il dato si riflette sulle competenze logico-linguistiche degli insegnanti, e degli studenti, ostacolando anche il pieno sviluppo dell’educazione alla cittadinanza. Il potenziamento delle competenze logiche e argomentative permette l’esercizio di pratiche di ragionamento volte alla risoluzione dei problemi e in quanto tale è aspetto formativo strategico. Ne possono derivare significativi risultati metodologici quali l’impegno al dialogo e al lavoro di gruppo, la consuetudine con le procedure di verifica empirica di un’ipotesi, il controllo ragionato dei fattori che influenzano le soluzioni, la critica degli automatismi, in una parola, l’esercizio del pensiero critico. Tali azioni formative si iscrivono nel quadro del potenziamento degli apprendimenti di base degli allievi (esiti Invalsi, Ocse-Pisa, Iea-Pirls, ecc.) e della didattica per competenze.
Quella stessa didattica per competenze viene vista dal PNF come la chiave di volta della nuova formazione dei giovani: «la didattica per competenze rappresenta inoltre la risposta a un nuovo bisogno di formazione di giovani che nel futuro saranno chiamati sempre più a reperire, selezionare e organizzare le conoscenze necessarie a risolvere problemi di vita personale e lavorativa. Questa evoluzione concettuale rende evidente il legame che si intende oggi realizzare tra le aule scolastiche e la vita che si svolge al di fuori di esse, richiedendo alla scuola - e soprattutto a ciascun insegnante - una profonda e convinta revisione delle proprie modalità di insegnamento per dare vita a un ambiente di apprendimento sempre più efficace e commisurato alle caratteristiche degli studenti».
Il Piano nazionale di formazione degli insegnanti potrebbe favorire concretamente l’introduzione nell’insegnamento dell’esercizio del pensiero critico, fornendo quegli strumenti logici e metodologici che fanno perdere al docente la sua funzione tradizionale di indottrinamento tramite una lectio, per favorire un ruolo dialogico attivo degli studenti che realizzi, anche con l’apporto consapevole delle tecnologie digitali, una pratica attenta della dialettica come arte del dialogare, analisi critica delle parole e dei discorsi altrui. L’esercizio del pensiero critico potrebbe far diventare un ricordo lontano i bassi risultati dei nostri giovani in lettura e comprensione dei testi, e ridurre il diffuso analfabetismo funzionale.
ALFABETO - TULLIO DE MAURO. Italia, Repubblica popolare fondata sull’asineria
di Antonello Caporale *
Tullio De Mauro Siamo la Repubblica dell’ignoranza, degli asini duri e puri, degli analfabeti di concetto, di concorso, di condominio, da passeggio e da web. Passano gli anni ma restiamo sempre stupiti della mostruosa cifra dei concittadini incapaci di comprendere o persino leggere una frase che non sia un periodo semplice (soggetto, predicato e complemento) e un’operazione aritmetica appena più complessa dell’addizione o della sottrazione a due cifre.
Tullio De Mauro è il notaio della nostra ignoranza.
Sono ricerche consolidate, l’ultima dell’Ocse è del 2014, che formalizza il grado italiano di estremo analfabetismo. Mi succede ogni volta di dover spiegare che la sorpresa è del tutto fuori luogo, i dati sono consolidati oramai.
Professore, asini eravamo e asini siamo.
Abbiamo una percentuale di analfabetismo strutturale intorno al 33% in misura proporzionale per classi di età: dai 16 anni in avanti. Il 5% di essi non riesce a distinguere il valore e il senso di una lettera dall’altra. Avrà difficoltà a capire ciò che divide la b con la t la f la g. Cecità assoluta. Il restante 28 ce la fa a leggere, ma con qualche difficoltà, parole semplici e a metterle insieme: b a c o, baco. Singole parole.
Qui siamo al livello 1: totale incapacità di decifrare uno scritto.
Il cosiddetto livello degli analfabeti strutturali.
Passiamo al secondo livello.
Gli analfabeti funzionali. Riescono a comprendere o a leggere e scrivere periodi semplici. Si perdono appena nel periodo compare una subordinata o più subordinate. E uguale difficoltà mostrano quando le operazioni aritmetiche si fanno appena più complicate della semplice addizione e sottrazione. Con i decimali sono guai.
Dentro questo comparto di asineria alleviata c’è un altro 37% di compatrioti.
Purtroppo non ci schiodiamo da queste cifre.
Quanta gente ha una padronanza avanzata di testi, parole e concetti?
Il 29%. Si parte dal terzo gradino, quello che definisce il minimo indispensabile per orientarsi nella vita privata e pubblica, e si sale fino al quinto dove il forestierismo è compreso, si ha la padronanza della lingua italiana e anche di quella straniera.
Con gli anni si peggiora.
È un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante.
Solo tre italiani su dieci andranno a votare al referendum sulla Costituzione con qualche idea di cosa sono chiamati a decidere.
Siamo lì, purtroppo.
È un disastro!
Il Giappone nel 1870 investì ogni risorsa nella scolarizzazione. Nel 1900 tutti i giapponesi erano in possesso della licenza elementare. Traguardo che noi abbiamo raggiunto 80 anni dopo.
Per la politica è un grande business trovarsi di fronte elettori inconsapevoli. Frottole a gogò!
È un’attrazione fatale. Ricordo che il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer licenziò una riforma nella quale il Parlamento si faceva carico di ascoltare ogni anno una relazione sullo stato dell’istruzione in Italia e ogni tre anni di avanzare gli eventuali correttivi. Un po’ come la manovra finanziaria, pensava che fosse necessaria una legge di stabilità culturale. Era un modo per tenere sott’occhio anche questa sciagura e per ridurre o limitare l’evento calamitoso dell’ignoranza. Venne la Moratti e dopo un giorno dal suo insediamento la cassò.
Anche lei è stato ministro dell’Istruzione.
In Parlamento risposi a un’interrogazione di una deputata (insegnante tra l’altro). Dissi: l’onorevole preopinante (colui che ha appena dubitato, opinato ndr). Lei mi interruppe: come si permette di offendere?
Ma l’ignoranza non incide anche nella qualità del lavoro?
L’ignoranza costa in termini civili, naturalmente culturali e persino nel processo produttivo. L’indice di produttività subisce un assoluto condizionamento dall’asineria.
Di cosa ci sarebbe bisogno?
Di cicli di aggiornamento culturale di massa. E nessun sussidio (penso alla cassa integrazione) dovrebbe essere possibile senza un contestuale periodo di educazione alla lingua.
Dovremmo tutti andare al doposcuola.
Prima si andava al mercato e si sceglieva la lattuga. Adesso c’è il supermercato dove tutto è imbustato. Per capirne provenienza e confezionamento è necessario saper leggere. Posso anche leggere Cile, ma se non so dove si trova quel Paese che me ne faccio di quella indicazione?
Siamo il Paese della onesta incomprensione.
Esisteva un servizio intelligente e puntuale che indagava sulla nostra capacità di comprendere, il servizio opinione Rai poi incredibilmente chiuso. Nel 1969 fu avanzata una ricerca su tre campioni: la casalinga di Voghera, gli operai di Bari e gli impiegati di Roma. Questi ultimi si distinsero per la loro selvaggia ignoranza.
E noi a prendercela con la casalinga di Voghera.
Invece i peggiori erano gli impiegati dei ministeri. Asinissimi!
* Blog di Antonello Caporale - Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016
COME USCIRE DALLA TERRA, DAL MONDO, E NON PERDERSI.
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". UN LAVORO FORMIDABILE!!! Questo libro non è un libro, è un ipertesto! E’ una mappa concettuale, una guida per uscire dalla caverna di interi millenni di labirinto: è un manifesto antropologico. Già la copertina (con il "tondo Doni") è sintesi e conclusione del discorso: tutta la terza parte fornisce la chiave per rileggere in modo inedito la narrazione della volta della Cappella Sistina, ripensare il lavoro di Michelangelo, e ripensare la crisi italiana contemporanea e l’intera questione antropologica (con i suoi annessi problemi metafisici, morali, e religiosi). UN LIBRO STRAORDINARIO!
Schmitt, l’elogio dell’applauso
La «teoria dell’acclamazione» nazista contro la democrazia borghese
di Giuseppe Bedeschi (Corriere della Sera, 14.01.2012)
A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano. Era stato presidente dell’associazione dei giuristi nazionalsocialisti; aveva avallato con la sua autorità imprese efferate, come la «notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 («l’azione del Führer - affermò allora - è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»). Dal tribunale di Norimberga Schmitt venne prosciolto, ma fu dichiarato «persona non grata» nell’ambito delle istituzioni accademiche.
E tuttavia, benché messo al bando per il suo passato nazista, Schmitt continuò a esercitare un fascino notevole su personalità eminenti della cultura europea. Basti pensare a Raymond Aron - che stava certo agli antipodi, sia sul piano dottrinale sia su quello politico, del pensatore tedesco - il quale in una pagina delle sue Memorie (1983) ricordò di averlo conosciuto personalmente, di avere intrattenuto con lui rapporti epistolari, e poi ne diede questa ammirata caratterizzazione: «All’epoca della repubblica di Weimar Carl Schmitt era stato un giurista di eccezionale talento, riconosciuto da tutti.
Appartiene tuttora alla grande scuola dei sapienti tedeschi, che vanno oltre la propria specializzazione, abbracciano tutti i problemi della società e della politica e possono definirsi filosofi, come, a suo modo, lo fu Max Weber». Aron aggiunse che «uomo di alta cultura, Schmitt non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai». Affermazione certo azzardata, questa di Aron, eppure in un certo senso vera, in quanto il filosofo tedesco aveva maturato il proprio pensiero molto prima che il nazionalsocialismo conquistasse il potere in Germania. Ma è altrettanto vero che la sua adesione al partito di Hitler, lungi dall’essere opportunistica (come alcuni hanno sostenuto), era pienamente coerente coi motivi più profondi della sua riflessione.
Tale riflessione era maturata nella repubblica di Weimar, travagliata dalle discordie dei partiti, dall’aspro contrasto degli interessi, dalle spinte centrifughe, dalle minacce rivoluzionarie e «golpiste» (nel 1919 ci fu un tentativo di rivoluzione comunista, represso nel sangue; nel 1920 il Putsch di destra di Kapp, nel 1923 il fallito tentativo di colpo di Stato di Hitler).
A questa situazione di sfacelo, tremendamente aggravata dalla crisi economica, che minacciava l’esistenza della nazione tedesca, Schmitt opponeva il suo concetto di popolo inteso come comunità coesa e organica (Gemeinschaft), che deve unificare completamente gli individui, e che è la base della «vera» democrazia. La quale non può essere confusa con la democrazia liberale, e con quella sua espressione caratteristica che è il parlamentarismo. Il liberalismo infatti si fonda, secondo Schmitt, sull’individuo isolato, sul privato egoista, dedito solo ai propri interessi. Ciò si vede anche, egli dice, nella procedura elettorale introdotta dal liberalismo, in cui il singolo esprime il proprio voto in una cabina, in una situazione di segretezza e di completo isolamento: sicché, proprio nel momento in cui si chiede al privato di diventare cittadino e di esercitare, col voto, una funzione pubblica, lo si relega nel suo ruolo di privato, di «borghese». (Questa critica ha avuto molta fortuna a sinistra: essa ritorna, nella sostanza, nella Critique de la raison dialectique di Sartre). Il risultato di tutto ciò è una maggioranza «puramente aritmetica», cioè nulla di coerente e nulla di stabile.
La vera democrazia, per Schmitt, è tutt’altro. Essa deve essere espressione autentica della volontà del popolo, la quale si manifesta nel modo più alto attraverso l’«acclamazione». «La forma naturale dell’immediata espressione del volere di un popolo - egli dice - è la voce che consente o che rifiuta della folla riunita, l’acclamazione». Attraverso il proprio «grido» (Zuruf) il popolo approva o disapprova, acclama un Führer, si identifica con lui. Grazie a questa investitura popolare del Führer, il regime nazionalsocialista era una vera democrazia, in quanto poggiava sulla sostanza del popolo tedesco, sulla unità della sua stirpe.
Un altro importante filone della riflessione filosofica di Schmitt è stato quello della «teologia politica»: un’espressione con la quale il filosofo tedesco intendeva dire che per un verso i concetti politici derivano da quelli teologici, e per un altro verso presentano una analogia strutturale con essi. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti.
Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli». A questa idea schmittiana di «secolarizzazione» sono state mosse molte critiche. Hans Blumenberg ha obiettato che essa delegittima la modernità, e quindi non è in grado di capire lo sforzo di autofondazione che è proprio della politica moderna.
Esce ora in edizione italiana, presso Laterza, un libro che raccoglie tutta la discussione fra Blumenberg e Schmitt (L’enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri materiali, pagine 227, 20): una discussione profonda, in cui due grandi personalità, con una storia filosofica e politica completamente diversa l’una dall’altra, si misurano, con tolleranza e al tempo stesso con tormentata passione, sul futuro spirituale dell’Europa e, più in generale, del mondo moderno.
IL LUNGO APPRENDISTATO ALLA MODERNITA’
La caverna di Blumenberg
Uscito per Medusa il saggio di Hans Blumenberg su Platone. Un’opera dove il filosofo tedesco muove dall’elaborazione antropologica sulla natura umana per giungere alla conclusione che la ricerca della verità sia un viaggio senza meta finale e con molte soste dovute alla contingenza della vita sociale
di Bruno Accarino (il manifesto, 4 luglio 2009)
Paghiamo subito un debito di gratitudine: alla casa editrice Medusa, al traduttore Martino Doni e al curatore Giovanni Leghissa, che ci offrono in edizione italiana Uscite dalla caverna di Hans Blumenberg (Medusa edizioni, pp. 648, euro 65). Siamo in debito per l’accuratezza, mista a un pizzico di follia, con cui è stata realizzata un’impresa che avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque. Quando il nostro paese, da sempre esterofilo e perfino un po’ nevrotico nel tradurre tutto e tutti, sarà stato definitivamente travolto dal ciarpame mercatistico che classifica come orripilanti diseconomie le scienze dello spirito, guarderemo con nostalgia a quegli ultimi bagliori di lungimiranza che hanno reso disponibili nella nostra lingua una serie impressionante di testi classici e meno classici. Pagato il debito, cerchiamo il bandolo della matassa nelle ultime pagine: quelle in cui Blumenberg intensifica gli interessi antropologici a stento repressi nel corso della sua vita, lasciando intendere che d’ora in poi, cioè dal 1989, avranno un ruolo assolutamente prioritario. Il che è stato puntualmente confermato dalle opere postume finora apparse.
Il mito platonico della caverna, attorno al quale ruota l’avvincente catena di digressioni e di diramazioni che compone il libro, ha poco a che fare con i cavernicoli. I cacciatori e i raccoglitori potevano sfruttare le caverne solo di passaggio, in condizioni nelle quali la transizione dal nomadismo alla sedentarietà richiedeva un cumulo di circostanze insolitamente favorevoli. Le caverne erano abitate, in epoche a cui noi siamo soliti associare la figura del cavernicolo, in modo sporadico e fugace, al punto che il mito di Platone non ha alcun titolo per disegnare l’immagine generale del progresso: il superamento delle ombre e l’uscita alla luce. Ma perché si pensa sempre alla fuga dalla caverna e non anche alla fuga nella caverna?
Se l’imperativo dell’esistenza umana è lo stare alla larga dalla realtà, o il difendersi, come suona la formula famosa del Blumenberg studioso del mito, dal suo assolutismo, la caverna è uno stratagemma non accidentale, qualcosa di più di un riparo fortuito. Blumenberg parla di uno spostamento del baricentro dalla metafisica o dall’ontologia verso l’antropologia. Solo questo spostamento consente di mettere a fuoco la profonda razionalità di chi si rifiuta di abbandonare la caverna e si oppone all’attrattiva esterna di verità superiori. Perché, in altri termini, colui che riesce a uscire e torna nella caverna per «liberare» i suoi compagni trova solo diffidenza ed è perfino vittima di un’aggressione? Perché fallisce la strategia della paideia e che cosa c’è dietro alla riluttanza all’insegnamento? L’avversione a una conoscenza superiore e definitiva tradisce la percezione di un rischio. Chi esce abbandona una forma di esistenza divenuta familiare e perciò scevra di pericoli: ci si lascia alle spalle - si può chiamarlo solo così - un mondo della vita.
Ammaestrati alla conoscenza
Ammaestrati - è il caso di dire - dai benefici presunti della paideia, sappiamo facilmente enumerare i vantaggi acquisibili da chi fugge dalla caverna. Ma siamo in grado anche di fare il censimento delle fregature a cui va incontro? Sulle orme di Arnold Gehlen e per altri versi di André Leroi-Gourhan, l’abbacinamento dello sguardo che colpisce l’abitante della caverna classica viene interpretato come il corrispettivo di un profluvio di stimoli che non può essere padroneggiato: finché il subominide può contare su segnali che sono in sintonia con il suo corredo organico, non conosce il disorientamento che colpisce chi capita in un mondo privo di segnaletica perché infinito. Gli involucri e le gabbie non solo non ostacolano, ma assecondano il programma biologico degli umani.
Il capolavoro della caverna fu l’invenzione della fantasia, e qui essa trovò anche le energie per spingersi ben oltre la mera soglia dell’autoconservazione. Se l’abitante della caverna non si fosse opposto all’aperto, alla smisuratezza dell’esterno, al territorio del cacciatore e del raccoglitore, del coltivatore e del nomade, essa sarebbe stata solo una dimora. Ma la sua tensione a de-naturalizzarsi, a installarsi nel mondo dell’artificialità, promuove una candidatura di livello superiore: quella tesa a favorire la «cultura della cura». Fu così che, passando per la caverna, «l’uomo divenne l’animale sognante»: e più propriamente fantasticante. Nella caverna ci si immagina ciò che non è dato e, invece di dar vita ad una impari colluttazione con la realtà, si opta per ciò che è assente: se ci si ritira dalla realtà, si può però sempre disporre dell’immagine, del simbolo, del nome e infine del concetto.
Gli antieroi del superfluo
Certo, bisogna pensare a strumenti inizialmente magici e non razionali, ma qualcosa di straordinario succede: i deboli, inetti alla caccia e alla predazione, rimangono dentro sperimentando il meccanismo della compensazione. Con la fantasia rappresentano qualcosa di non visto, raccontano qualcosa di non vissuto, costruiscono trame narrative da antieroi del superfluo. I cacciatori pensano alla sopravvivenza, quelli che non vanno fuori mettono a punto le strategie di un superfluo che ben presto sa farsi necessità. Come tutti gli esponenti - a cominciare da Peter Sloterdijk - della più recente e smaliziata antropologia filosofica, Blumenberg non ha dubbi sul fatto che il segno fondamentale dell’antropogenesi sia il lusso, non l’indigenza. E il primo tratto del lusso è la distanza: i deboli si appropriano di un’operatività in absentia et per distans, magari progettando trappole che facciano il loro mestiere senza essere presidiate e senza il loro intervento. Fu su questa base che si fecero largo la parola e l’immagine, le due diavolerie deputate a scansare i contatti diretti e gli scontri frontali con la realtà. Quanto a quelli che escono, e che non possono schivare né gli né gli altri, è per loro importante trovare sempre aperta la via del ritorno a «casa»: al clima confortevole che la domesticazione della caverna ha saputo determinare.
Mai più la fantasia avrebbe trovato una tale, intatta pienezza di possibilità, un momento così irripetibile di grazia e di felicità: al punto che tutti i nostri ritorni nella caverna, immaginari o fisicamente e architettonicamente reali che siano, sono un tentativo di riguadagnare una ricchezza che viene percepita come ormai sminuzzata e mortificata. Gli intellettuali, ereditando il ruolo di chi ha saputo così brillantemente gestire il rapporto tra il reale e il possibile all’interno della caverna, devono produrre una narratività che ha comunque smarrito l’opulenza della fantasia cavernicola. Il fascino immortale del mito di Platone non dipende dalla sua collocazione nella gerarchia dei suoi miti, né dal messaggio didattico-illustrativo, ma dalla sua capacità di poter riproporre nei luoghi più impensati una domanda radicale sulll’origine e sul destino degli uomini.
Il dominio del presente
Troppo raffinato per lasciarsi andare, con un corto circuito improvviso e improvvisato, a qualche proclama da sociologia dell’attualità, Blumenberg non è però reticente nel far intendere che gli universi mediatici nei quali siamo immersi, annaspando, rimasticano spesso le problematiche cavernicole dell’autogestione dell’esistenza. Nelle pagine su Jean-Paul Sartre come «fenomenologo della contingenza» si incontra il cinema: i giochi d’ombre dei moderni propongo il dominio delle arti proiettive, a cui il filosofo sfugge, come racconta in uno dei suoi interventi autobiografici, uscendo in strada. Dove però trova la contingenza e non, platonicamente, la verità: nel cinema la contingenza è assente - così Sartre -, lì tutto è necessario perché il cinema è una caverna che ha nella città il suo mondo esterno.
Il trauma originario non è per Blumenberg quello individuale della nascita, ma quello evolutivo della postura eretta. È all’altezza di quello stadio dell’evoluzione che un essere vivente scopre possibilità inedite di vedere, ma impatta con l’angoscia che si accumula in chi è visibile. Lo sguardo altrui: non poteva capitare niente di peggio, e non solo perché si moltiplicano le possibilità di essere aggrediti da quando si è molto più esposti dei quadrupedi. È allora che la parola-chiave Geborgenheit, che ha il dono di miscelare ascosità e sicurezza, nascondimento e protettività, comincia a mulinare soluzioni disparate: quelle escogitate dalla razionalità illuministica, con il suo appello a far sempre più luce, sono tutto sommato minoritarie e non durature.
La via che porta fuori dalla caverna non era stata sponsorizzata a scatola chiusa nemmeno dai greci, che non ignoravano la potenza dei misteri, dei riti di iniziazione, dei culti orfici, e potevano così apprezzare il senso della svolta all’indietro, sulla via del ritorno alla caverna. Le caverne sono accreditate di custodire l’antica sapienza e fungono da rifugio per i vinti, pronte ad ospitare la densità dei misteri più che la chiarezza deludente della conoscenza. Platone avrebbe potuto anche fare a meno di immaginare che i prigionieri della caverna fossero incatenati, stante il fatto che i veri ceppi della caverna sono le sue pareti, che non solo lasciano un’unica uscita, ma ostruiscono, respingono e rinviano ciò che preme contro di esse per sfondarle.
Turista e disincantato
Anche la brama esplorativa, allora, può conoscere battute a vuoto. La curiositas, una delle figure trainanti de La legittimità dell’età moderna, il libro a cui è legata la fama mondiale di Blumenberg, è sottoposta qui ad una declinazione diversa. Come non può fare a meno di osservare il gesuita spagnolo Baltasar Gracián (1601-1658), chi esce dalla caverna entra in un processo realistico e va incontro alla delusione di un mondo che non soddisfa le aspettative di chi nella caverna si è cimentato con una sorta di apprendistato.
Lo stupore e la meraviglia non mancano, ma per quelli che hanno deciso di uscire hanno un che di irreale, perché continuano ad operare gli effetti protettivi della caverna, che sono comparativamente gli unici ad essere reali. Dopo qualche giorno, lo stupore e la meraviglia sono condannati a scemare, sopraffatti dall’abitudine, e anzi lo stupore fa posto al terrore che sorprende il turista della mondanità: se entrare nel mondo, commenta Blumenberg, vuol dire imparare l’arte di vedere, guadagnare la distanza da esso è l’arte del tornare a non vedere, di ridurre l’attenzione.
In termini biologici, alla riduzione dell’attenzione corrisponde la riduzione dell’attività cerebrale resa possibile dal sonno profondo e non molestato che è tipico delle caverne primitive, in quella che può essere pensata come l’origine più libera da perturbazioni di tutta la storia umana. Non occorre neanche pensare alle complicazioni psicoanalitiche del sonno come succedaneo della prenatalità, basta fare l’esperimento mentale di questo unicum immunitario per capire che è irrinunciabile. Fuggire dalla caverna e soddisfare la curiosità? E chi ce lo fa fare?
Gli scatti e un testo inedito di Jean Baudrillard
Questo testo di Jean Baudrillard, inedito per l’Italia, è la base teorica su cui la vedova del filosofo, Marine, ha allestito la mostra fotografica che si inaugura oggi a Reggio Emilia.
Fotografia. L’ombra del reale
È una illusione che l’immagine sia "oggettiva" mentre non è altro che una emanazione del nostro sguardo
Occorre capire che gli oggetti sono sensibili alla ripresa quanto gli esseri umani
Oggi ognuno può credere di veder sfilare lo spirito del mondo davanti al proprio obiettivo
Wittgenstein diceva che in teatro uno scenario di alberi disegnati è meglio degli alberi veri
A volte la violenza estrema messa in mostra rischia di diventare un effetto speciale
di Jean Baudrillard (la Repubblica, 30.04.2009)
In fondo tutte le fotografie sono come le ombre platoniche proiettate sulle pareti della caverna, o come quest’ombra spettrale dell’irradiato di Hiroshima, transverberato dalla luce atomica - esempio perfetto del cliché istantaneo. Stessa proiezione "acheiropoietica" di quella del sudario del Cristo (oggetto indipendente dalla nostra volontà, l’ombra è in sé stessa un segno acheiropoietico). Le immagini più pregnanti sono quelle più vicine a questa scena primitiva di un’iscrizione fantomatica e più lontane dall’intervento umano.
La silhouette atomizzata di Hiroshima, sostanza polverizzata del corpo: un’impronta fossile - volatilizzazione dell’oggetto in una sostanza non carnale, una traccia. I fossili stessi sono altrettanto vicini all’analogon fotografico, sono come dei negativi fotografati da una mano invisibile, come le pitture rupestri del neolitico, quest’arte parietale da cui la figura umana è misteriosamente assente (salvo le mani "in negativo" contornate sulle pareti come a partire da una fonte luminosa). Unica figura moderna erede di queste pitture murali e di una forma "fotografica" del segno - più vicina a una figurazione automatica che al segno rappresentativo - sono i graffiti: anch’essi inseparabili dalle pareti.
La fotografia è l’ombra proiettata sulla pellicola di ciò di cui non avremo mai l’esperienza concreta, oggettiva, e di cui neppure conosceremo mai la fonte luminosa, proprio come i prigionieri della caverna platonica, i quali del mondo esterno e della propria esistenza non conosceranno mai altro che il riflesso.
La sfilata delle ombre (la mia sulla parete ocra, quella degli alberi, quelle dei personaggi sulla parete della Recoleta, o tutte queste sagome silenziose, la notte nelle strade di Venezia), tutto questo teatro d’ombre è come il riflesso di un mondo anteriore in cui non eravamo ancora altro che ombre, di un’età dell’oro crepuscolare in cui gli uomini non sono ancora precipitati verso la luce brutale del mondo reale, verso questo deserto dove tutte le ombre sono vittime della luce artificiale e della realtà virtuale, dove i corpi sono diventati traslucidi in un mondo sovraesposto dall’interno.
La fotografia, appunto, conserva la traccia di una scrittura d’ombra, quale essa è altrettanto che "scrittura di luce", e dunque il segreto di una fonte luminosa venuta dalla notte dei tempi. Si dice dell’ombra che ci segue, ma di fatto essa ci ha sempre già preceduti, e ci seguirà. Come la morte: noi siamo già stati morti prima di essere viventi, e lo saremo ancora dopo.
Il controsenso più totale, e più generale, è l’ipertecnicità di tutte queste immagini così perfette, così impeccabili, in cui traspare soltanto l’iperrealtà della tecnica come effetto speciale (lo sfocato stesso è un effetto speciale). Di colpo la violenza che esse ci mostrano è soltanto un effetto speciale. Impossibile sfuggire a questo ricatto e di fronte a questa vampirizzazione estetica della miseria resta solo revulsione e repulsione. È come nella scena di condizionamento ottico di Arancia meccanica, in cui si è costretti a mantenere gli occhi aperti su scene insopportabili nell’illusione di purgarne l’immaginazione. Più è atroce, più è estetico, e tutti applaudono, secondo un rituale feroce di compiacimento "professionale". Del resto, non si sa più a che cosa si applaude: alla morte? alla performance? È per questa ragione che tutte queste immagini non ci toccano più, sono un’arma di distruzione di massa dell’intelligenza e della sensibilità.
Il controsenso è sempre dell’ordine del realismo, dell’alterazione del senso attraverso l’"informazione" inutile. Viene da pensare a una riflessione di Wittgenstein sulla scena teatrale: uno scenario di alberi dipinti è molto meglio che uno di alberi veri, che distrarrebbero l’attenzione da ciò di cui si tratta. O ancora, nei reportage sulla micidiale canicola del 2003 in cui ci vengono mostrati i vecchi in carne e ossa, frontalmente, nella loro agonia - ben più violenti, ben più pungenti erano le fotografie degli immensi camion di refrigerazione dove sono conservati per vari giorni i corpi che non si possono seppellire, ma che non si vedono. Immagine fredda, obliqua, molto più efficace per l’immaginazione. Ovunque la verità, la veracità tecnica, essa pure inutile, esilia l’essenziale - nella sfera delle funzioni inutili.
Della stupidità realista fa parte non solo la perfezione tecnica delle immagini, ma anche la loro accumulazione. Sempre più immagini si accumulano in serie, in sequenze "tematiche", che illustrano fino alla nausea lo stesso avvenimento, che si accavallano e si succedono - immagini che credono di accumularsi e di fatto si annullano l’un l’altra. Ciò che viene completamente cancellato in questa storia è la libertà delle immagini le une rispetto alle altre. Ognuna priva l’altra della sua libertà e della sua intensità. Ora, bisogna che un’immagine sia libera da se stessa, che sia sola e sovrana, che abbia il proprio spazio simbolico (la qualità "estetica" qui non è in causa). Non si è capito che è in atto un duello delle immagini tra loro. Se sono vive, seguono la legge degli esseri viventi: selezione ed eliminazione. Ogni immagine deve eliminarne un’infinità d’altre. È esattamente nel senso inverso che si va oggi, in particolare con il digitale, dove la sfilata delle immagini assomiglia alla sequenza del genoma.
È vero che oggi ognuno può immaginare di veder passare il Weltgeist davanti al proprio obiettivo e di essere diventato, grazie all’incessante padronanza sulle immagini, una coscienza universale. È il regno dell’espressionismo fotografico - di fronte a degli oggetti che non aspetterebbero altro che di essere visti e fotografati, cioè presi a testimoni dell’esistenza del soggetto e del suo sguardo.
Vi è qui invece un errore totale sulla ripresa e sull’essenza dell’immagine, considerata uno stereotipo oggettivo. Infatti non si tratta affatto di una registrazione, ci sono tante cose che fotografiamo mentalmente, senza necessariamente usare una macchina fotografica (del resto le più belle sono forse quelle che avremmo potuto fare in sogno, ma, ahimè, non avevamo la macchina!). È di una visione fotografica del mondo che si tratta nella fotografia, una visione del mondo nel suo dettaglio, nella sua stranezza e nella sua apparizione. Talvolta c’è passaggio all’atto, cioè a una ripresa che materializza questa visione delle cose, non così come sono, ma come in se stesse la fotografia le cambia, "just as they look as photographed". Perché la cosa fotografata non è affatto la stessa, e questo sguardo, questa visione, è da essa che emana, così come entra nel campo, nel momento dell’atto fotografico. E ciò che ne risulta - l’immagine - non ha affatto l’aria di quello che le cose sono oggettivamente, ma di quello che assumono "di fronte" all’obiettivo.
Gli oggetti sono sensibili alla ripresa quanto gli esseri umani - da qui l’impossibilità di testimoniare la loro realtà oggettiva. Quest’ultima è un’illusione tecnica, che dimentica che essi entrano in scena nel momento dello scatto, e che ciò che la fotografia può fare di meglio, ciò di cui può sognare, è di catturare questa entrata in scena dell’oggetto (escludendo ogni messa in scena o artificio sti-listico).
Ombre et photo, in François L’Yvonnet (a cura di), Jean Baudrillard, Paris, L’Herne, 2004, pp. 231-232. Traduzione di Elio Grazioli
di Evelyne Pieiller (traduzione dal francese di José F. Padova)
Quando l’ideale comunista sembrava sorpassato, un filosofo che vi si richiama trova un’eco sorprendente, anche all’estero. Ora Alain Badiou, che s’interroga circa le condizioni della vera uguaglianza, afferma la necessità di una rottura radicale con il consenso democratico.
Dal Philosophie Magazine ai «caffè filosofici» (ndt.: iniziativa sorta qualche anno fa a Parigi: libera discussione filosofica, aperta a tutti, che si svolge in locali pubblici,un poco come un tempo i café litteraires, con orario e argomento precisi e animatore competente. Stanno diffondendosi in tutto il mondo - http://fr.wikipedia.org/wiki/Caf%C3%A9_philosophique), già da qualche tempo la filosofia esce dalla sua torre d’avorio per ridare un senso alla fatica di vivere. Dapprima coinvolta nel campo, raramente compromettente, della morale, oggi essa lo è anche in quello politico. Segno dei tempi, alcune brecce cercano di farsi strada nella melanconica impotenza suscitata dalla famosa coppia “legge del mercato - fine delle ideologie”.
Nulla di sorprendente quindi nel ritorno della questione dell’impegno, che corrobora la ripresa della curiosità per Jean-Paul Sartre o Albert Camus. D’altro canto, al di là della seduzione esercitata dal vigore di pamphlet del breve [libro] De quoi Sarkozy est-il le nom ? (1),, la risonanza delle opere recenti di Alain Badiou era poco prevedibile: non già perché vi si esprime una critica del capitalismo - che non è più un’anomalia nel nostro disorientato tempo-, ma perché questa è collegata a un elogio del comunismo, «questa vecchia parola magnifica», secondo la sua definizione, che la storia sembrava aver reso sinonimo di fallimento e di dispotismo. L’attuale diffusione di Badiou indicherebbe dunque che le invocazioni alla moralizzazione del sistema non sono più sufficienti, ma che la lotta contro la rassegnazione cerca di procurarsi sogni e armi. Rimane da esaminare ciò su cui si basa questa alternativa radicale della quale egli è oggi l’enunciatore riconosciuto, da pari a pari con il suo grande interlocutore Slavoj Žižek .
Badiou non intende definire un programma, bensì fare uso della filosofia come di una «forza per la destabilizzazione delle opinioni dominanti» e imporne la «pertinenza rivoluzionaria (2)», dimostrando in primo luogo il «legame interno fra il capitalismo dominante e la democrazia rappresentativa (3)». Poiché quest’ultima ammette «avversari, ma non nemici», nessuno può «esservi portatore di un’altra visione delle cose, di un’altra regola del gioco che non sia quella dominante (4)» - vale a dire il rispetto delle libertà individuali, fra le quali quella d’intraprendere, di essere proprietario, ecc. Iscriversi nel dibattito democratico significa accettarne le intrinseche limitazioni, che impediscono di pensare al di fuori di questi valori. Ora, questi valori sono anche quelli del capitalismo. Non può quindi esservi altro come programma politico se non «la definizione gestionale del possibile (5)», il possibile racchiuso nei limiti della proprietà privata... Partiti e sindacati sono votati, logicamente, a essere collaboratori del parlamentarismo capitalistico e la sinistra rivela così la sua «bassezza costitutiva». La libertà di pensiero e di scelta offerta dal liberalismo come dal riformismo è illusoria, fino a comprendere la sua espressione mediante il suffragio universale. Poiché l’individuo è sottoposto alle influenze, agli egoismi, alle ignoranze, la «ricorrente stupidità del numero», altrimenti detta legge della maggioranza, non può essere altro che tirannia dell’opinione.
Niente di rivoluzionario in questo banale disprezzo delle «elite», convinte di essere le sole dotate d’intelligenza. Salvo che Badiou lo giustifica nel nome stesso di un ideale rivoluzionario: quello dell’uguaglianza vera, ciò che implica che «gli altri esistono esattamente come me». Lo ostacola quello che egli chiama «l’animalità»: l’attaccamento a sé, alla propria identità, questo cattivo fondo spontaneamente portato a preferirsi e che si sviluppa nel possesso. Suffragio universale, suffragio degli ego...
Qui si ritrova una costante del pensiero di destra, che si appoggia su questa stessa definizione della natura umana come avida ed egocentrica per «naturalizzare» il capitalismo». Badiou, da parte sua, malgrado tutto salva questa povera «specie animale che tenta di superare la sua animalità (6)», accordandole l’attitudine alla trascendenza, vale a dire la capacità di subordinare le necessità egoistiche a principi, a verità che valgono per tutti. D’altronde è qui il fondamento stesso della democrazia, che postula come ogni persona sia dotata di ragione, dipendendo dalla società (in particolare mediante l’insegnamento) fargli avere i mezzi per imparare a farne uso, allo scopo di emanciparsi dalla confusione delle pulsioni e da altri fattori d’opinione. Ma, per Badiou, l’uscita dalla caverna dell’ego non è né progressiva né programmabile. Essa ha luogo nello shock di un incontro con ciò che egli chiama «l’avvenimento». Un atto, storico, artistico o amoroso, all’improvviso fa «apparire una possibilità che era invisibile o perfino impensabile (7)», lacerando il consenso sul valore sovrano attribuito a ciò che singolarizza l’individuo piuttosto che a ciò ch’egli ha di universale. Questo svelamento repentino permette di strapparsi alla «finitezza animale delle identità», di salutare finalmente la fondamentale eguaglianza degli esseri umani: di entrare nella trascendenza.
Questa folgorante apertura di possibilità pone qualche domanda: da dove viene lo staccarsi improvviso dall’errore per salutare la verità? Per quale sorte si è «eletti»? L’attivazione della trascendenza assomiglia stranamente alla «grazia» e l’effetto trasfigurante della verità non esclude l’evocazione di una conversione. Non si può fare a meno di approvare Žižek , grande conoscitore dell’opera di Badiou, quando sottolinea che «la rivelazione religiosa costituisce il suo paradigma inconfessato (8)». L’«ipotesi comunista» sarebbe quindi l’altro nome dell’amore, questa «esperienza personale dell’universalità possibile (9)», al quale il filosofo platonico, dopo aver scritto su san Paolo, ha dedicato un libro di interviste?
Allora si comprende meglio perché non è la classe operaia che gli importa, ma il povero ultimo, simbolizzato dagli operai immigrati, e ancor più dai sans-papiers [ndt.: così sono chiamati in Francia i clandestini] - i quali «devono essere onorati, perché a nome di noi tutti organizzano l’affermazione di un pensiero diverso circa la vita umana (10)». Si comprende anche meglio perché per esistere il comunismo dovrà darsi gli strumenti per «controllare l’influsso dell’identità», sempre minaccioso, a pena di non poter mantenere una società realmente ugualitaria. Ma chi saprà giudicare che una simile scelta, un tale proposito, è portatore d’ineguaglianza, se non un’aristocrazia d’illuminati - i filosofi, detentori della verità? «Senza Idea, il disorientamento delle masse popolari è ineludibile (11)». Certamente dovrà arrivare il giorno, «forse fra mille o duemila anni, in cui la società sarebbe educata, nell’accezione platonica del termine (12)», vale a dire che tutti sarebbero filosofi. Ma aspettando questo Eden, bisognerebbe imporre il bene comune. Questo non sgomenta colui che ha sempre considerato come «il nostro debito verso la Rivoluzione culturale rimane immenso» e approva la domanda di Saint-Just: «Che cosa vogliono coloro che non vogliono né la Virtù né il Terrore», se non la democrazia priva di uguaglianza...?
L’«ipotesi» di Badiou a lungo termine fa quindi alquanto rabbrividire. Nell’immediato, per contro, questo «comunismo» non turba per nulla l’ordine istituito. Gli attacchi contro un suffragio universale «populista» non possono soddisfare gli adepti della «governance», che raramente sono rivoluzionari; il rifiuto di qualsiasi azione nel quadro di un partito o di un sindacato non può altro che rallegrare i detentori del sistema. Ma, soprattutto, l’affermazione spiritualista di una rivelazione della verità assoluta sembra non offrire più altro se non un comunismo sbarazzato dal marxismo, tento ben estratto dalla storia che ne è adornato del fascino poetico delle utopie inoffensive.
(1) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, Circonstances, 4, Lignes, Paris, 2007.
(2) Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, Fayard, coll. « Ouvertures », Paris, 2009.
(3) Alain Badiou et Alain Finkielkraut, L’Explication. Conversation avec Aude Lancelin, Lignes, 2010.
(4) France Culture, 27 février 2010.
(5) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit.
(6) « L’hypothèse communiste - interview d’Alain Badiou par Pierre Gaultier», www.legrandsoir.info
(7) Alain Badiou, L’Hypothèse communiste, Circonstances, 5, Lignes, 2009.
(8) Slavoj Žižek , Le Sujet qui fâche, Flammarion, Paris, 2007.
(9) Alain Badiou (avec Nicolas Truong), Eloge de l’amour, Flammarion, coll. «Café Voltaire », Paris, 2009.
(10) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit.
(11) Alain Badiou, L’Hypothèse communiste, op. cit.
(12) Alain Badiou et Alain Finkielkraut, L’Explication, op. cit.
* Le Monde Diplomatique, gennaio 2011, pagg. 26/27