A. Il mondo come scuola
B. La capacità di giudizio
C. La creatività
D. Scuola, cervello e nuove tecnologie
E. Internet, attivismo e pragmatismo
F. L’assassinio di Kant, i cattivi maestri, e la catastrofe dell’Europa
G. Note
A
C’è una scuola grande come il mondo.
Ci insegnano maestri, professori,
avvocati, muratori,
televisori, giornali,
cartelli stradali,
il sole, i temporali, le stelle.
Ci sono lezioni facili
e lezioni difficili,
brutte, belle e casi cosi.
Ci si impara a parlare, a giocare,
a dormire, a svegliarsi,
a voler bene e perfino
ad arrabbiarsi.
Ci sono esami tutti i momenti,
ma non ci sono ripetenti:
nessuno può fermarsi a dieci anni,
a quindici, a venti,
e riposare un pochino.
Di imparare non si finisce mai,
e quel che non si sa
è sempre più importante
di quel che si sa già.
Questa scuola è il mondo intero
quanto è grosso:
apri gli occhi e anche tu sarai promosso.
B
DELLA CAPACITA’ TRASCENDENTALE DI GIUDIZIO IN GENERALE
di Immanuel Kant *
Se l’intelletto, in generale, viene definito come la facoltà delle regole, la capacità di giudizio è allora la facoltà di s u s s u m e re sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa cada o no sotto una data regola (casus datae legis).
La logica generale non contiene affatto norme per la capacità di giudizio, e neppure può contenerne. Difatti, in quanto essa astrae da ogni contenuto della conoscenza, non le rimane allora null’altro da fare, che dilucidare analiticamente la semplice forma della conoscenza nei concetti, giudizi, inferenze, e costituire cosí le regole formali di ogni uso dell’intelletto.
Ora, se la logica generale volesse mostrare universalmente, come si debba sussumere sotto queste regole, cioè come si debba distinguere se qualcosa cada o no sotto di esse, ciò non potrebbe accadere altrimenti che di nuovo attraverso una regola. Questa peraltro, proprio per il fatto che è una regola, richiede nuovamente un ammaestramento della capacità di giudizio; ed allora risulta chiaro, che l’intelletto è bensí capace di venir istruito e provveduto mediante regole, ma che la capacità di giudizio è un talento particolare, il quale non può essere insegnato, ma può soltanto essere esercitato.
La capacità di giudizio è quindi altresí l’elemento specifico del cosiddetto ingegno naturale, la cui mancanza non può trovare alcun rimedio nella scuola. In effetti, sebbene la scuola possa doviziosamente porgere e, per cosí dire, inoculare, ad un intelletto limitato, regole prese a prestito dalla conoscenza altrui, tuttavia la facoltà di servirsi rettamente di esse deve appartenere allo scolaro stesso, e nessuna regola, che possa essergli prescritta in questo scopo, si sottrarrà all’abuso, quando manchi una delle dote naturale (l).
Perciò un medico, un giudice, o un uomo politico, può avere in capo molte belle regole patologiche, giuridiche o politiche, al punto da poter diventare egli stesso un profondo insegnante in proposito, e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché manca di capacità naturale di giudizio (sebbene non manchi d’intelletto), ed egli può sì intendere l’universale in abstracto, ma non sa distinguere se un caso in concreto sia subordinato ad esso, o anche per il fatto che egli non è stato sufficientemente addestrato per questo giudizio, mediante esempi e pratica diretta. Questa è anche la sola e grande utilità degli esempi: il fatto, cioè, che essi acuiscono la capacità di giudizio.
In effetti, per quanto riguarda la correttezza e la precisione della comprensione intellettuale, gli esempi piuttosto recano di solito un certo danno, poiché solo di rado essi soddisfano adeguatamente alla condizione della regola (come casus in terminis), oltre al fatto che essi indeboliscono spesso lo sforzo dell’intelletto per cogliere, universalmente e indipendentemente dalle circostanze particolari dell’esperienza, le regole nella loro adeguatezza, e perciò abituano infine ad usare tali regole piú come formule che come proposizioni fondamentali. Gli esempi sono cosí le dande della capacità di giudizio, delle quali non potrà mai fare a meno colui che manchi del talento naturale di tale capacità.
Peraltro, sebbene la logica generale non possa fornire alcuna norma alla capacità di giudizio, le cose stanno tuttavia ben diversamente riguardo alla logica trascendentale, cosicché sembra quasi, che quest’ultima abbia, come suo vero e proprio compito, il correggere e il garantire - mediante regole determinate - la capacità di giudizio nell’uso dell’intelletto puro.
In effetti, come mezzo per procurare all’intelletto un’estensione nel campo delle conoscenze pure a priori, e quindi come dottrina, la filosofia non sembra affatto necessaria, o piuttosto, sembra essere male applicata, poiché in tal modo si è guadagnato poco o punto terreno, nonostante tutti i precedenti tentativi; al contrario, come critica, per prevenire i passi falsi della capacità di giudizio (lapsus judicii) nell’uso dei pochi concetti puri dell’intelletto che noi possediamo, la filosofia viene impiegata a questo fine (sebbene l’utilità sia in tal caso solo negativa) in tutta la sua acutezza ed abilità indagatrice.
La peculiarità detta filosofia trascendentale consiste tuttavia nel fatto che oltre alla regola (o piuttosto alla condizione universale di regole), la quale viene data nel concetto puro dell’intelletto, essa può al tempo stesso indicare a priori 1l caso, cui tali regole debbono essere applicate.
La causa della preminenza, che a questo riguardo essa ha su tutte le altre scienze didattiche (al di fuori della matematica), sta per l’appunto nel fatto, che essa tratta di concetti, i quali debbono riferirsi a priori ai loro oggetti, cosicché la validità oggettiva di tali concetti non può essere mostrata a posteriori, póiché tale prova non toccherebbe per nulla la loro dignità.
La filosofia trascendentale, piuttosto, deve esporre al tempo stesso - secondo caratteristiche universali ma sufficienti - le condizioni sotto cui gli oggetti possono venir dati in accordo con quei concetti; in caso contrario, questi ultimi sarebbero privi di qualsiasi contenuto, quindi semplici forme logiche e non già concetti puri dell’intelletto.
Questa dottrina trascendentale della capacità di giudizio conterrà dunque due capitoli: il p r i m o tratta della condizione sensibile, che è la sola sotto cui possano venir usati i concetti puri dell’intelletto, cioè tratta dello schematismo dell’intelletto puro; il s e c o n d o, invece, tratta dei giudizi sintetici, che discendono, sotto queste condizioni a priori, dai concetti puri dell’intelletto, e stanno a fondamento di tutte le altre conoscenze a priori, ossia tratta delle proposizioni fondamentali dell’intelletto puro.
1. La mancanza di capacità di giudizio è propriamente ciò che si chiama stupidità, e contro tale difetto non c’è assolutamente rimedio. Un cervello ottuso o limitato, cui non manchi nulla se non una misura conveniente di intelletto e una precisione nei concetti dell’intelletto, può certo agguerrirsi con lo studio, sino a raggiungere anche l’erudizione. Tuttavia, poiché in tal caso manca di solito altresí il giudizio (secunda Petri), si incontrano non di rado uomini assai eruditi, che nell’uso della loro scienza lasciano spesso scorgere quel difetto giammai emendabile.
* I. Kant, Critica della ragione pura, Adelphi edizioni, Milano 1979, pp. 214-217 (Analitica trasc. - Libro II. Introduzione). L’espressione "secunda Petri", che per Kant vale "Giudizio", rimanda a Pietro Ramo e alla sua "Logica".
C
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITA’ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Da Emilio Garroni, una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Una nota di Federico La Sala
D
Computer in aula? Con cautela
di Roberto Casati (Il Sole-24 Ore, 27 marzo 2011)
Di questi tempi bisogna premettere a una discussione su scuola, cervello e nuove tecnologie, una sfilza di robuste dichiarazioni di intenti. «Attenzione, sono critico, ma non sono un luddista! Le nuove tecnologie sono fondamentali! Ed è fondamentale capire come il cervello si adatta alle sue estensioni tecnologiche». L’ho detto, forse ora i miei lettori sono ben disposti? Perché vorrei mettere in evidenza alcuni punti critici della letteratura recente, riassunta da Armando Massarenti in un lungo articolo nel primo numero del 2011. Si tratta di una lista di problemi aperti che sottendono molte dimensioni diverse; le righe a mia disposizione sono poche, poco più di un tweet a punto, ma voglio soprattutto suggerire che abbiamo a che fare con un paesaggio a molte dimensioni, e che le scorciatoie siano purtroppo in costante agguato per riportarci di continuo a una visione appiattita del fenomeno scuola.
Neuro-x: il cervello e l’educazione
Come la neuroestetica, la neuroeducazione è un programma di ricerca fatto di risposte roboanti; ma quali sono le domande? Come per la neuroestetica, la ragione del l’assenza di domande è nota da tempo e tranquillamente ignorata. Se non si caratterizzano in modo adeguato i comportamenti sotto esame non si sta rispondendo a nessuna domanda scientifica sulla spiegazione di quei comportamenti. Lo studio neurologico della dislessia, o dell’incapacità di produrre frasi grammaticali, o del "piacere di imparare", non esiste senza una caratterizzazione funzionale di questi fenomeni, che è appannaggio delle scienze cognitive. Ora, non c’è dubbio che mostrare meravigliose immagini del "cervello in azione" abbia il suo irresistibile fascino e continuerà a catturare fondi per ricerche costose e distraenti. Peggio: fornirà la motivazione per politiche di intervento di cortissimo respiro, che sarebbero "convalidate" dalla pubblicazione delle immagini. Per esempio:«Il cervello si attiva di più quando fai una ricerca su Google che quando guardi la televisione», così mostra uno studio. Resistete! Chiedetevi che cosa significa! Magari vuol dire che il cervello non sta ottimizzando le sue risorse, che lotta contro mille segnali e non riesce a concentrarsi.
Perché insegnare la musica e perché abbiamo le classi miste?
Guardiamo a degli studi cognitivi. Uno studio ha mostrato l’influenza dell’apprendimento della musica sulla capacità di ragionamento geometrico. Uno studio mostra che i risultati scolastici di ragazze che competono con altre ragazze sono migliori di quelli di ragazze che competono con dei ragazzi. Domanda: è questa la ragione per cui fate studiare musica ai vostri figli, se lo fate? Preferireste che vostra figlia venisse iscritta in una classe solo femminile?
E perché insegnare a scrivere?
L’antropologo Dan Sperber aveva già mostrato in modo vivido la china pericolosa del ragionamento sulle tecnologie. Già ora potete dettare i vostri testi con Dragon. Se i programmi diventassero ancora di poco migliori, a che pro imparare a scrivere a mano, con penna o tastiera? Sareste d’accordo che i vostri figli non imparassero a scrivere? (E viceversa: uno studio mostra che alcuni videogiochi migliorano alcune capacità cognitive: è una ragione per far entrare i videogiochi in classe?).
Su cosa stiamo deliberando?
Questi esempi mostrano che le discussioni attuali sono soprattutto sui mezzi. «Se vogliamo ottenere migliori risultati in matematica, dobbiamo usare il metodo x e fare y». Ma deliberare sui mezzi e non sui fini significa accettare senza discussione che si sia già deliberato sui fini. La normatività implicita è quella del successo scolastico: un successo individuale, che si misura con indicatori di varia natura, che verranno poi aggregati nel successo di scuola o di una nazione relativamente ad altre scuole o nazioni, eccetera. La normatività implicita è che la scuola fornisca soprattutto una specie di servizio di training e magari anche coaching per estrarre migliori performance dai suoi studenti. (E, certo, già chiamarlo "successo" ha le sue connotazioni.) Ma che cosa succede a voler troppo misurare?
La legge di Campbell
Dice che l’ufficializzazione di un sistema di misura ha l’effetto perverso di imporre comportamenti strategici. Se lo scopo di un sistema educativo è che gli studenti riescano a passare un certo tipo di esame, il sistema si adatta e tralascia l’insegnamento di materie potenzialmente importanti che non sono valutate all’esame. Si finisce con l’insegnare a passare esami, il che comporta, incidentalmente, che gli esami stessi perdano di valore diagnostico. Passiamo alle tecnologie:
La legge di Casati
È l’inverso della famosa legge di Moore: i processori nei computer che si trovano in qualsiasi momento in una scuola hanno meno della metà della velocità di quelli che si trovano in commercio nello stesso momento. Di fatto, lavorare con loro è come lavorare con una macchina del tempo. Gli insegnanti conoscono benissimo il problema della polvere sui computer: quasi trent’anni di conferme empiriche della Legge di Casati dovrebbero suggerire che sia perfettamente surreale continuare ad «auspicare l’introduzione di nuove tecnologie nella scuola», almeno fintantoché vale la legge di Moore o ci sia una qualche forma di progresso informatico. Come conferma la pubblicità scientemente ansiogena del l’iPhone: «Ora tutto cambia. Di nuovo».
L’insegnante deve competere con lo smartphone?
Ma se l’insegnante non ha l’obbligo di "essere al passo" con la tecnologia, deve forse competere con essa? Anche qui, attenzione alla normatività nascosta. I computer sono vicini all’optimum ergonomico: prendi in mano uno smartphone, maneggi, e scopri da solo come si usa. Quindi: da un lato non ti serve un insegnante che ti spieghi come usarlo, e d’altro lato non c’è competizione possibile con un sistema ergonomicamente ottimale.
Più teoria, più design
Serve invece una robusta dose di comprensione teorica delle tecnologie: spiegare che cosa è un algoritmo, in che modo gli algoritmi di Google determinano il design e in che modo quest’ultimo determina poi le scelte di chi usa le tecnologie. Serve spiegare come si paghino a distanza di anni certe scelte di design riciclato nel grande copia-e-incolla della costruzione del software. Paola Antonelli, la curatrice del MoMA, prevede che nel futuro ci sarà una distinzione tra design teorico e design applicato, e la scuola potrebbe anticipare utilmente questa tendenza.
Il rischio dell’elettrificazione
Il design teorico dice che il design applicato è di corto respiro quando non sfrutta le potenzialità della tecnologia e cerca semplicemente di dare una veste elettrica alle vecchie situazioni di insegnamento. L’immaginazione si ferma dinanzi al quadretto di una classe in cui il banco è sostituito da un terminale, la lavagna di ardesia da una elettronica. Non è questo il luogo di fare proposte alternative, ma piacerebbe vederne di più.
Trasfigurazione del banale
Per esempio, se volete che i vostri studenti usino intelligentemente Wikipedia, insegnate loro non tanto a leggerla e copia-incollare le sue voci, ma a scrivere le voci stesse. (Imparano l’etica della scrittura. Imparano che cosa vuol dire essere spietatamente editati nel giro di poche ore).
Discutiamo ancora dei fini.
Per esempio: La scuola deve adattarsi allo sviluppo della società Vero; forse. Discutiamone. Magari deve aiutare la società a capire se il suo sviluppo sia ineluttabile. Forse può creare delle zone di tranquillità da cui guardare allo sviluppo della società in tutta calma.
Il diluvio dei dati
La discussione sulle nuove tecnologie mette in fondo in luce un potente equivoco sulla scuola. La scuola non è (più, non principalmente) un luogo in cui acquisire informazioni. Le informazioni sono disponibili in misura assai maggiore al di fuori della scuola, nella Rete: da questo punto di vista la scuola non può competere con la Rete. Il vantaggio cognitivo della scuola è di fornire qualcosa che la Rete non potrà mai dare, ovvero un punto di vista diverso sulle informazioni, dato che i sistemi di raccomandazione che lavorano nella Rete («chi ha comprato X ha comprato anche Y») fanno di tutto per inchiodare una persona al suo profilo. O forse, addirittura, la scuola può semplicemente fornire l’idea che un punto di vista sia possibile, dato che le informazioni sono oggi soltanto subìte.
Il mese della lettura
E quindi facciamo fare a scuola agli allievi qualcosa che la società non fa. Per esempio, proteggiamo lo spazio della lettura, sospendendo le classi, facendo leggere a scuola un libro al giorno per una settimana. Insegniamo che leggere un libro è quantomeno possibile.
Il registro nazionale delle buone pratiche
Il sito http://gold.indire.it/gold2/ raccoglie le buone pratiche della scuola italiana. È un po’ difficile da consultare e non è molto ordinato, ma è un passo nella buona direzione, mi pare. Basterebbe poco a farne un sito veramente utile (tag, qualche gerarchia, un sistema di raccomandazioni anche solo provvisorio eccetera). Gli insegnanti sono sulla linea del fronte dell’innovazione pedagogica e non sarebbe male ripensare la scuola a partire dal loro lavoro, che integra costantemente la riflessione sui mezzi con la deliberazione sui fini.
La fragilità degli insegnanti
Certo, non è di grande aiuto sottopagare gli insegnanti e additarli come "fannulloni". E ancor meno utile è farli sentire in colpa per non essere tecnologicamente al passo.
*
Il libro e il dibattito I contenuti del libro di Paolo Ferri, Nativi digitali (Bruno Mondadori, pagg. 212,
euro 18,00) sono stati in parte anticipati sul primo numero del domenicale di quest’anno.
Gli articoli «Che cosa sta facendo internet ai vostri neuroni» (sul quale interviene qui Roberto Casati) e «Nel regno dei nativi digitali» hanno suscitato un vasto dibattito nel mondo della cultura e della scuola e sono disponibili nel sito www.ilsole24ore.com.
Paolo Ferri insegna a Milano Bicocca, dove dirige il Lisp (Laboratorio informatico di sperimentazione pedagogica) e l’Osservatorio Nuovi Media NuMediaBios.
E
Così si realizza il sogno educativo di John Dewey
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, 27 marzo 2011)
Leggere Nativi digitali di Paolo Ferri, uno dei maggiori esperti di scuola e nuove tecnologie, avendo in mente i dubbi, puntuali e profondi, che Roberto Casati espone qui a fianco ha prodotto in me un singolare effetto filosofico. E se le risposte ai quesiti di Casati - mi sono chiesto - oltre che a essere in qualche modo presenti nel libro di Ferri, ci spingessero dritti nelle braccia del più grande filosofo-educatore del Novecento, il pragmatista americano John Dewey? Le sue idee di una scuola che educhi alla creatività, all’«arte come esperienza», alla partecipazione attiva, alla cooperazione tra individui non atomizzati, e dunque alla democrazia come "medium cognitivo" per la soluzione dei problemi che si hanno in comune, potevano sembrare difficili, se non impossibili da realizzare ai suoi tempi. Pura utopia, avrebbero detto i conservatori.
Ma non è che invece, proprio grazie alle nuove tecnologie, si stanno rivelando del tutto a portata di mano? E che proprio osservando queste specie di alieni che sono i nativi digitali - alieni per noi, figli di Gutenberg - la scuola immaginata da Dewey diventa non un sogno ma la naturale conseguenza di un sano realismo, basato sulla semplice descrizione e constatazione delle capacità cognitive che già albergano nelle menti dei nostri pargoli?
L’approccio al sapere dei nativi digitali - ci dice Ferri - si basa sull’esperienza, è meno dogmatico del nostro, è attivo e non sopporta che i contenuti vengano semplicemente trasmessi dall’alto, in un rapporto uno-molti, com’è tipicamente quello tra l’insegnante e la classe. La proposta di Ferri è quindi quella di sfruttare a scopi formativi l’"intelligenza digitale" che i nativi sviluppano per conto proprio, fuori dalle aule scolastiche, armeggiando iPad, eBook e smartphone e rimanendo sempre connessi coi loro socialnetwork, non solo per futili motivi, ma per essere sempre pronti a condividere il proprio sapere e a confrontare i propri gusti e le proprie esperienze.
Il learning by doing, la capacità di risolvere problemi, l’interattività, la socialità, la gratuità, la creatività, oltre che a essere tutti concetti profondamente deweyani, sono abilità che i nativi digitali cominciano ad apprendere a partire persino dai loro primi videogiochi. «I giochi - scrive Ferri in uno dei due passi in cui Dewey è ricordato esplicitamente - non si limitano a fornire un fondamento logico per l’apprendimento: ciò che i giocatori imparano è immediatamente utilizzato per risolvere problemi avvincenti che hanno delle conseguenze reali nel mondo del gioco».
E ancora: «Un videogioco può essere considerato come un ambiente immersivo digitale che è costituito da un insieme di problemi da risolvere». «I giochi più efficaci dal punto di vista dell’apprendimento sono i giochi che ammettono una gamma molto vasta di soluzioni» e «il gioco diviene un ambiente esterno digitale che permette di mettere alla prova le differenti rappresentazioni interne delle possibili soluzioni a quel problema».
Più in generale, l’uso di internet e degli altri strumenti digitali sta modificando la configurazione neurale delle nostre menti, che, come ha dimostrato Giacomo Rizzolatti, presenta un elevato tasso di plasticità anche in età adulta. Lo dice anche Nicholas Carr in Internet ci rende stupidi?, da poco pubblicato da Cortina, traendone però conseguenze catastrofiche. Illegittime secondo Ferri, il quale osserva che «una trasformazione e un cambiamento delle attivazioni neuronali sono ormai una prova scientifica ma certamente, come rilevano anche gli studi di Battro, Koizumi e altri neuro scienziati, non siamo ancora in grado di verificare sperimentalmente gli effetti positivi o negativi di questa trasformazione».
Anche in questo dobbiamo seguire Dewey e adottare l’approccio sperimentale dell’imparare facendo, così come gli stessi programmatori di oggi tendono ad assomigliare più a dei bricoleurs che a degli ingegneri. Significativamente Ferri accosta a Dewey un’altra grande educatrice, Maria Montessori, mostrando che «gli studenti stessi sembrano suggerire attraverso il loro "stile di apprendimento partecipativo/digitale" nuove modalità didattiche e nuovi stili didattici ai loro insegnanti. Richiedono, cioè, sempre di più, nuove opportunità di "imparare a fare da soli" (Montessori), di essere indipendenti e individualizzare e socializzare il loro stile di apprendimento».
I nativi digitali paiono richiedere un più intenso dialogo e una maggiore interazione con i docenti da realizzarsi anche attraverso i media digitali, magari all’interno, di ambienti virtuali per l’apprendimento. Non c’è bisogno di dotazioni particolarmente sofisticate. Non è questione di elettrificazione delle aule, ma di capacità di adattare ai nuovi stili cognitivi dei nativi il setting della scuola. È un’operazione metodologica prima che tecnologica. Essenziale per un’ambiente formativo digitale è ad esempio avere banchi mobili e combinabili che facilitino l’apprendimento e l’interazione di gruppo.
Dewey una volta scrisse che «Non è la perfezione la meta ultima della vita, ma il processo incessante di perfezionare, maturare e raffinare». Se il carattere aperto dei nuovi media interattivi può integrarsi con tale processo di continuo affinamento e perfezionamento, culturale e sociale, possiamo dire che il gioco è fatto: avremo prodotto esattamente quegli spiriti critici attivi, capaci di continuare ad apprendere in tutto l’arco della loro esistenza ciò di cui hanno bisogno oggi le società postindustrali basate sul l’economia della conoscenza.
F.
PER JOHN DEWEY (E LA MAGGIORANZA DEI CRITICI), KANT E’ UN NUOVO "TOLOMEO"!!!
"LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Kant pretedeva di aver effettuato una rivoluzione copernicana nel campo della filosofia, trattando il mondo e la conoscenza che abbiamo di esso, dal punto di vista del soggetto conoscente. Alla maggioranza dei critici, questo tentativo di far ruotare il mondo conosciuto sul cardine dell’attività conoscitiva della mente sembra un ritorno a un sistema di tipo ultra-tolomaico" (cfr. J. Dewey, La ricerca della certezza, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 297)
EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.
PER ULTERIORI APPROFONDIMENTI SUI TEMI, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FIABA, COSTITUZIONE, E FILOLOGIA. A VLADIMIR J. PROPP E A GIANNI RODARI, A ETERNA MEMORIA...
CESARE SEGRE E PAOLA MASTROCOLA SUL TRENINO DEL BUNGA-BUNGA PEDAGOGICO! Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani? Una riflessione di Giorgio Pecorini, con una nota
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA"!
"UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE") E ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"): "L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX". *
Riscoperte.
Marshall McLuhan tra apocalisse mediatica e pensiero cristiano
Il grande teorico della comunicazione non nascondeva la sua fede: un libro raccoglie i testi dove ne parla. «Nell’epoca della nuova oralità la Chiesa deve imparare di nuovo a parlare alla gente»
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 3 agosto 2023)
Si pronuncia il nome di Marshall McLuhan (1911-1980) e il pensiero corre all’idea di villaggio globale. Come un riflesso condizionato si ripete con noncuranza anche la sua felice formula “il mezzo è il messaggio”. Eppure dell’autore canadese docente all’università di Toronto, nato come esperto di critica letteraria e letteratura inglese e diventato noto come studioso delle trasformazioni indotte dalle rivoluzioni tecnologiche, è più facile citare le sue locuzioni che addentrarsi nel suo pensiero. Non a caso, durante una sua comparsata nel film Io e Annie di Woody Allen, pronunciò la battuta «lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro». E proprio da qui si deve partire.
È vero che il contenuto della trasmissione influisce di meno sulla società e sui comportamenti dei suoi membri di quanto faccia il medium che la veicola, il quale finisce con il condizionare stili di vita, visione del mondo e idee. È parimenti vero che l’introduzione della cultura alfabetica, imposta dalla diffusione della stampa a caratteri mobili ai tempi di Gutenberg, ha condizionato le forme del vivere insieme al pari di quanto faceva in precedenza la trasmissione orale, prima dell’introduzione e diffusione della scrittura. E probabilmente altrettanto imponenti trasformazioni seguiranno con i media elettronici, che porteranno le società attuali nei meandri ancora inesplorati della cultura postalfabetica, come aveva profetizzato in anticipo su altri proprio McLuhan.
Ridurre però il pensiero di McLuhan a un presunto determinismo significa davvero ignorare la portata delle sue riflessioni e soprattutto misconoscere quanto fa da sfondo a tutto il suo lavoro. Si tratta di un punto di avvio non marginale per dare un senso alla ricerca dello studioso canadese. Si eviterà così di citare degli estratti del suo pensiero decontestualizzati dall’orizzonte ideale da cui sono anche alimentati.
Per smontare l’accusa di determinismo che spesso si imputa a lui e a tutta la scuola di Toronto, di cui fa parte anche il gesuita Walter Ong, basta citare una risposta fornita da McLuhan nel corso di un’intervista rilasciata al periodico americano “Future Church” nel gennaio del 1977. A chi gli chiede da cosa dipenda il suo ottimismo, il teorico dei media risponde senza infingimenti: «Non sono mai stato un ottimista o un pessimista - precisa -. Sono solamente un apocalittico. La nostra sola speranza è l’Apocalisse». E continua: «L’Apocalisse non è l’oscurità. È la salvezza. Nessun cristiano potrà mai essere ottimista o pessimista: questo è solamente uno stato d’animo secolare».
Col rifiuto di pessimismo e ottimismo si sgretola pure ogni concezione determinista, che però non significa trascurare le ricadute che le tecnologie hanno sulla vita di tutti i giorni. Quanto emerge da queste parole è invece la sua fede spesso negletta o semplicemente ignorata dagli interpreti- Non a caso poco si sa della sua conversione al cattolicesimo avvenuta nel 1936, all’età di venticinque anni e poco ci si è interessati a scandagliarne l’influenza sulla sua produzione intellettuale. Di conseguenza a essere lasciata in disparte da critici e seguaci è la riflessione dello studioso legata a tematiche religiose, quasi che discuterne ne minasse l’autorevolezza come teorico dei media.
Ora i suoi contributi più importanti sulla questione sono stati raccolti e curati da Gianpiero Gamaleri nel volume pubblicato dall’editore Armando, La Chiesa secondo McLuhan. Il volto sconosciuto del profeta dei media (pagine 250, euro 20). Insieme a testi e interviste dello studioso canadese, il libro contiene anche alcune lettere inviate ad autori come Walter Ong e Jacques Maritain oltre che missive spedite alla madre e alla moglie e una testimonianza del figlio Eric.
Di quanto la fede cattolica di McLuhan fosse profonda ne fornisce testimonianza il collega e amico Ong in una conversazione con il curatore del volume: «Marshall era un cattolico assai fervente, dalla fede profondissima - precisa il padre della Compagnia di Gesù -. Di tanto in tanto egli testimoniava anche pubblicamente la sua fede. Una volta stava parlando qui all’Università di Saint Louis a un vasto gruppo di studenti quattro anni prima di morire e uno studente gli disse: professor McLuhan sono scoraggiato da tutte queste cose che sta dicendo, cosa possiamo fare? Egli rispose: beh, restano sempre la preghiera e i sacramenti della Chiesa».
Per il peso che la fede ricopre nella sua vita non è lecito pensare che McLuhan non rivolga la sua attenzione ai cambiamenti che l’arrivo dei mezzi di comunicazione digitale comporteranno per la stessa Chiesa e per il cattolicesimo. «Credo che le forze poderose che ci hanno investito con l’elettricità non siano state tenute nel benché minimo conto da parte dei teologi e dei liturgisti» ammonisce. E questo, secondo lo studioso dei media per cui il mezzo conta più del messaggio, può avere ricadute enormi sulla Chiesa e sulla fede.
I nuovi media, per McLuhan, inducono a trasformazioni epocali. Porterebbero a una progressiva interiorizzazione a discapito della socialità, su cui dovrebbero giocarsi le scelte pastorali. Se la scrittura con l’introduzione dei caratteri mobili promuoveva l’aspetto visivo della lettura, secondo McLuhan, i nuovi media elettronici danno spazio all’aspetto acustico. «Lo scritto, in generale, è da parte sua determinato e immutabile, - spiega McLuhan - costituisce l’hardware; mentre il linguaggio parlato, libero e mutevole, si richiama piuttosto al software. Il visivo è hardware, l’acustico software. La liturgia, per il suo aspetto di creatività e di improvvisazione è riferibile al software».
Ecco che, per lo studioso canadese, «oggi è la parola del pontefice che conta. Nell’era elettronica la parola ridiventa se stessa, non sopporta più di essere pietrificata nei documenti».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Le passage du Nord-Ouest" (M. Serres, 1980)."Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986). MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Intervista di Louis De Courcy e Guillaume Goubert. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!
FLS
Idee.
La foresta parla per segni. Come gli uomini?
Leggere il libro della natura: per l’antropologo Eduardo Kohn l’esperienza maturata presso gli indios ecuadoriani diventa occasione per rivalutare la funzione simbolica del linguaggio
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, venerdì 27 agosto 2021).
La leggibilità del mondo di Hans Blumenberg è stato uno dei libri fondamentali nel panorama del tardo Novecento. In quel saggio, apparso nel 1979, il pensatore tedesco ricapitolava le vicende del liber naturae, la metafora che attraversa per intero la cultura medievale per poi trionfare in età moderna. È Galileo, infatti, a rivendicare la perspicuità del “libro della natura” come criterio decisivo per il suo metodo scientifico. Ma la contemporaneità, si domandava Blumenberg, è ancora in grado di decifrare la scrittura del mondo? La realtà oggi si presenta ancora come un sistema coerente di coerente di segni?
Nella terminologia specifica di cui l’antropologo Eduardo Kohn si serve nel suo Come pensano le foreste (traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, nottetempo, pagine 448, euro 20,00, con una prefazione di Emanuele Coccia) la risposta all’“ancora” di Blumenberg potrebbe essere formulata ricorrendo a una curiosa combinazione di avverbi, “sempre già”. Si tratta, in apparenza, di una nozione specifica dei runa, la popolazione indigena della foresta amazzonica ecuadoriana presso la quale Kohn ha lungamente soggiornato.
Prima di proseguire, andrà subito sottolineato che Come pensano le foreste (edito originariamente nel 2013) è un libro attorno al quale si è sviluppato un ampio dibattito internazionale, che lo candida a diventare uno dei titoli più rappresentativi del secolo che stiamo vivendo. In questo senso, l’accostamento a La leggibilità del mondo non è dovuta solo a all’affinità tematica. Laddove Blumenberg partiva dalla filosofia per delineare un’antropologia, Kohn procede in direzione contraria: l’obiettivo della sua ricognizione etnografica consiste in una ridefinizione delle categorie filosofiche. Per dirlo con le sue parole, occorre “aprire il pensiero” in modo da renderlo accogliente alla visione dell’“oltre”. Che non è un luogo, ma un metodo.
Un sistema di segni, di nuovo. O, a voler essere puntigliosi, una semiosi. Nella struttura di Come pensano le foreste il magistero semiotico di Charles Sanders Peirce riveste un ruolo non meno importante delle ricerche sul campo di Lucien Lévy-Bruhl o Claude Lévi-Strauss. Da Peirce deriva la tripartizione dei segni in icone, indici e simboli, alla quale Kohn fa ricorso per tutta la trattazione, alternando la descrizione di episodi caratteristici della sua permanenza tra gli indios a circostanziati approfondimenti concettuali.
La tesi portante del libro è che ogni essere vivente agisce all’interno di un sistema di segni, che possono limitarsi a riprodurre l’oggetto (è il caso del’icona) oppure suggerirne la presenza attraverso indizi (questo è il compito dell’indice). A queste due funzioni basilari, nell’essere umano, e solo nell’essere umano, si aggiunge la facoltà di accedere al simbolo, che introduce un elemento di valore, permettendo al linguaggio di accedere a una dimensione morale.
Insistere sulla pervasività del segno, condivisa secondo modalità specifiche anche da piante e animali, non comporta affatto una mortificazione del pensiero umano. Al contrario, secondo Kohn, questa ulteriore declinazione di “pensiero aperto” permette di affrontare con accresciuta consapevolezza l’enigma che la Sfinge pone a Edipo. Anche in quella circostanza, com’è noto, l’essere umano viene paragonato a un animale: l’unicità della sua condizione di bipede rappresenta una mediazione tra l’iniziale necessità di procedere ferinamente a quattro zampe e la successiva adozione di uno strumento, il bastone, che si configura come protesi tecnologica.
I runa della regione di Ávila, ai quali Kohn si riferisce in modo diretto, si trovano a loro volta in una posizione di crocevia. In quanto indios mansos (letteralmente, “addomesticati”) partecipano sia della connotazione ancestrale del puma, ossia del predatore, sia di quella civilizzata dell’amo, il “signore bianco”. Le storie riportate da Kohl si muovono all’interno di questo triangolo del “sempre già”, riservando molto spazio ai sogni e alla loro interpretazione. Le donne, per esempio, si abituano a riconoscere le diverse articolazioni dei guaiti che i cani emettono durante il sonno, mentre sui cacciatori ricade l’onere di distinguere i presagi fausti dagli infausti. In sogno, racconta Kohn, può anche capitare di addentrarsi nel territorio dell’“oltre”, sul quale regnano i signori della foresta e nel quale si trasferiscono i morti dopo aver lasciato le loro spoglie sulla terra.
Lo studioso si richiama a credenze di tipo animista, che nell’esperienza dei runa convivono con una fede cristiana tutt’altro che superficiale. Non diversamente, viene da osservare, accadeva nelle campagne dell’Europa ancora in età moderna, quando il principio della “leggibilità del mondo” era istintivamente comprensibili per i semplici e per i sapienti. Del resto, insieme al mito della Sfinge, Kohl rievoca spesso l’immagine dantesca della “selva oscura”, quasi a stabilire una continuità dei segni e delle forme a dispetto di ogni eventuale discontinuità storica o geografica.
Pensare la realtà come sistema di segni comporta di per sé la convinzione che la realtà abbia un significato e che questo significato trovi espressione compiuta attraverso il simbolo. Non fosse che per questo, Come pensano le foreste è un libro che non può non chiamare in causa anche la riflessione teologica.
Come pensano le foreste
di Gianfranco Marrone (Doppiozero, 23 Luglio 2021)
Poesia e antropologia: che c’azzeccano? Sempre più spesso questo binomio viene invocato nelle cronache culturali, e ancora di più viene praticato nel loro effettivo svolgimento: dai poeti meno, probabilmente, ma senz’altro da antropologi, etnologi, etnografi o comunque li si voglia appellare. Non senza irritazioni nell’establishment accademico, sempre pronto a difendere i tradizionali steccati disciplinari, accade - con un’insistenza divenuta tendenza - che molte ricerche antropologiche acquisiscano un tono e un linguaggio, e dunque evidentemente dei contenuti, che tracimano nel poetico, o che quanto meno ricordino passaggi, stili e sensazioni che la poesia ha talora prodotto nel corso della sua lunga storia. Non si tratta, per carità, di intuizioni liriche del sentimento, secondo la famigerata lezione crociana che rispunta per ogni dove non appena ci si distrae un attimo; ma, forse, di presagi, accostamenti inconsueti, folgorazioni percettive che la sensibilità poetica sa come, dove e perché trascrivere - trasformare - in specifica testualità. Così per esempio Tim Ingold, il cui stile è già di per sé intrinsecamente lirico, ha fatto del concetto di corrispondenza, esplicitamente ripreso da Baudelaire, uno dei punti chiave della sua teoria, rivelando lo stretto legame fra le sue ricerche sul campo (soprattutto fra le varie etnie sparse nei Paesi artici) e le conclusioni che ne ha tratto, di stampo fortemente fenomenologico, dunque assai vicine a una visione poetica del mondo.
Ma più spesso questo genere di legami fra i mondi abitualmente considerati lontani della poesia e dell’antropologia è sorto, per così dire, dalle cose stesse, e cioè dall’orientamento metodologico che da alcuni decenni a questa parte ha assunto la scienza dell’uomo per antonomasia, l’antropologia appunto, includendo con sempre maggiore convinzione fra i propri oggetti di studio, accanto e insieme agli esseri umani, entità che umane non sono, come gli animali e le piante, ma anche i sogni e gli spiriti, le divinità, gli oggetti, le tecnologie. Le società umane, s’è progressivamente affermato, sono tali perché includono al loro interno anche i non umani, qualunque sia la configurazione che, proprio grazie a esse, assumono. Se, come già sappiamo da Descola a Latour, la dicotomia che - ponendosi alla base delle scienze sociali - oppone natura e cultura va abbandonata, essendo invenzione tutta moderna e occidentale, ne deriva quasi automaticamente che lo sguardo nei confronti del mondo debba essere fortemente trasformato. Di modo che le scienze sociali nel loro complesso, alla ricerca di nuovi fondamenti teorici, hanno finito per acquisire, insieme a un nuovo linguaggio, un nuovo modo di osservare uomini e cose, umani e non umani, considerandoli tutti facenti parte della cultura - o, che è lo stesso (e non importa), facenti parte della natura. Quel che viene meno, molto in sintesi, è ogni pretesa oggettivante (e perciò scientista), ma al tempo stesso ogni accostamento soggettivante (idiosincratico, e perciò sentimentalistico).
Accade cioè che per occuparsi dei meccanismi costitutivi delle società umane non basta studiare, poniamo, le relazioni di parentela, le forme religiose, i rituali di passaggio, il diritto, il costume e simili, ma anche e soprattutto l’ecologia degli esseri viventi nel loro complesso, ossia tutto ciò che solitamente consideravamo entità naturali, sia in quanto tali, sia soprattutto, nelle loro relazioni con gli umani. Così come noi abbiamo una certa idea delle cose del mondo, chiamiamolo così, socio-naturale, e ce ne costruiamo una rappresentazione a partire da precisi punti di vista e schemi mentali, allo stesso modo accade per gli altri esseri viventi, anch’essi dotati di punti di vista e schemi mentali (o comunque li si voglia chiamare) attraverso i quali si fanno una rappresentazione di noi. Lo sguardo antropologico che supera l’opposizione natura/cultura deve rendere conto, insomma, del fatto che nella fitta rete di relazioni fra gli esseri viventi, umani e non umani, tutti quanti si scrutano a vicenda, costituendosi reciprocamente.
Non a caso, uno dei temi privilegiati di questa tendenza dell’attuale antropologia non può che essere quello della caccia, pratica che condividiamo con qualsiasi altro animale, se non in generale con ogni essere vivente. Tutti quanti siamo, prima di ogni altra cosa, prede o predatori, soggetti attivi oppure passivi, e dunque, in fin dei conti, mangianti o mangiati. E in questo gioco al massacro - occorre farsene una ragione - si formano i fragili equilibri anche di una parentela che include i non umani: c’è chi non mangia le scimmie perché le considera alla stregua dei cognati, così come noi non cucineremmo mai un pet, animale di compagnia e dunque parente acquisito ben presente nello stato di famiglia. Lo si vede già dagli assetti linguistici, dove, per esempio, l’uso dei pronomi personali (io/tu oppure egli) è la spia non casuale delle specifiche relazioni fra gli interlocutori in gioco, modificabile di continuo a seconda dei contesti e proprio per questo di basilare importanza, appunto, per l’antropologia - che di contesti non può non trattare. È dunque a partire dalle relazioni, linguistiche come parentali, che si generano i termini in gioco.
Tutto questo per introdurre un libro importante, Come pensano le foreste di Eduardo Kohn (nottetempo, pp. 439, € 20), che già dal titolo vuol essere tanto provocatorio quanto programmatico, indicando a chiare lettere le sfide intellettuali di quella formidabile antropologia contemporanea che, come sottolinea giustamente Emanuele Coccia nell’introduzione, è da qualche tempo in qua diventata, quasi senza volerlo, una sorta di scienza pilota: “il più grande e vivace laboratorio speculativo contemporaneo, il primo e più importante vivaio delle invenzioni morali e culturali che stanno rivoluzionando il pensiero e i costumi del XXI secolo”. Come possono mai pensare le foreste - dirà il nostro buon senso comune -, dato che il pensiero, insegna Cartesio, è prerogativa eminentemente umana, e addirittura ciò che ci fonda come soggetti non soltanto fisicamente estesi ma, appunto, cogitanti?
È possibile, risponde Kohn, se si fuoriesce proprio dal razionalismo cartesiano che ancora surrettiziamente plasma la nostra cultura, e si assume un punto di vista olistico, un atteggiamento onnicomprensivo che, mettendo in parentesi la biblica supremazia dell’uomo sul resto del ‘creato’, prenda seriamente in considerazione l’ipotesi che tutti gli esseri viventi, ognuno a suo modo, abbiano una forma di ragione o, meglio, degli strumenti per interpretare il mondo, per rappresentarsi gli altri esseri viventi, per dare loro un senso e un valore. Guardare in viso qualcuno, ricorda Kohn in apertura al libro, sia esso un uomo o un altro animale, è già un modo per predisporsi verso di esso come soggetto attivo, e se non come eventuale predatore quanto meno come impossibile preda. I giaguari che si sentono guardati, ai quali cioè si dà del tu, perdono molta della loro spavalderia venatoria.
Il libro di Kohn propone una ricca serie di esempi in merito, o se si preferisce una miniera di dati etnografici, ricavati dalla ventennale frequentazione con l’etnia Runa dell’Amazzonia ecuadoriana e precisamente del villaggio di Avila, etnia che mostra molto bene - nei discorsi e nei comportamenti - la necessità di questo rovesciamento teorico: le foreste pensano, se ne ricava, soltanto se si fa propria l’idea che possano farlo. I Runa, in questo, danno preziose lezioni filosofiche. Per nulla ‘selvaggi’ al di fuori dell’ambiente occidentale, ma colonizzati che da secoli interagiscono coi loro colonizzatori, i Runa abitualmente commerciano (in tutti i sensi del termine) con il resto del mondo, vanno per esempio al supermercato per rifornirsi di ogni necessità quotidiana, negoziano regolarmente con le ONG, si spostano nei villaggi vicini per dotarsi di armi e munizioni; ma non appena devono sfamarsi, ecco che guardano alla foresta che sta ai margini dei loro villaggi, e vi si immergono per procacciarsi il cibo, in un ambiente che è al tempo stesso domestico e selvaggio, coltivato e incontaminato. Riattivando la dialettica di base fra lo sfamarsi e lo sfamare, procurarsi selvaggina o esserlo per gli altri, i Runa - spiega Kohn - si mostrano per quel che sono nel profondo: al tempo stesso esseri ‘altro-che-umani’, al pari degli animali della foresta, ma anche ‘troppo umani’, nel senso nietzschiano del termine. “Ottenere il cibo grazie alla caccia, la pesca, la raccolta, la coltivazione e la gestione di una varietà di concatenamenti ecologici, coinvolge intimamente la gente di Avila in uno degli ecosistemi più complessi al mondo - un ecosistema stracolmo di una sbalorditiva varietà di esseri che interagiscono fra loro e che sono reciprocamente costitutivi”. In tal modo i Runa divengono “dèi che parlano attraverso i corpi delle mucche, Indios nei corpi dei giaguari, giaguari abbigliati da bianchi” e chissà quante cose ancora.
Ma come avvengono questi collegamenti tra forme di vita della e nella foresta, come si istituisce questa fitta rete di relazioni fra diversi esseri viventi? La risposta di Kohn è molto precisa: attraverso segni, segni d’ogni tipo che, il più delle volte, non hanno carattere linguistico senza per questo essere meno loquaci. Laddove le lingue umane usano sistemi di simboli convenzionali, dice Kohn riprendendo esplicitamente la teoria semiotica di Charles S. Peirce, gli altri esseri viventi comunicano fra loro, nonché con gli umani, attraverso indici e icone, e cioè mediante segni che hanno una qualche contiguità con ciò che rappresentano oppure che vi somigliano. Così, nella caccia alla scimmia si possono strattonare rampicanti legnosi o altre liane per farle fuggire (dove il movimento dei vegetali dice all’animale che sta accadendo qualcosa di strano, ed è un indice), oppure si pronunciano suoni onomatopeici come ta-ta e pu-oh (i quali rinviano all’immagine del taglio di una palma col machete, ed è un’icona). Così, “la significanza non è un territorio esclusivo degli esseri umani perché non siamo i soli a interpretare i segni. Il fatto che altri generi di esseri usino i segni è un esempio dei modi in cui la rappresentazione esiste nel mondo al di là delle menti umane e dei loro sistemi di significato”. Lungi dallo sclerotizzare le dinamiche ecologiche in codici prefissati, i segni, continua Kohn, permettono le dinamiche stesse della vita, la sua intrinseca plasticità, di qualunque vita si tratti, qualsivoglia forma possa assumere. Da qui l’idea di un pensiero che è tutt’uno con l’esistenza, sganciandosi dal dettato cartesiano che lo vorrebbe prerogativa esclusiva dei soggetti umani. Un pensiero, pertanto, che include al suo interno sensazioni e percezioni, affetti e azioni: motivo per cui, con un lungo giro, finisce per assumere conformazioni di senso e stili linguistici che ricordano quelli della poesia. Così, se per il poeta l’idea che le foreste pensano è una specie di evidenza, per l’antropologo è una conquista teorica da tenere stretta.
Una conquista che, come sempre accade, va argomentata teoricamente e, soprattutto, difesa, protetta, rafforzata. Come pensano le foreste - la cui lettura non può non interessare, al di là dell’ovvia cerchia etnologica, filosofi e sociologi, letterati e storici della cultura - non è allora un punto di arrivo ma uno di partenza, ponendosi come un testo chiave da assimilare, discutere e anche se del caso criticare. Una molteplicità di saperi viene convocata - più o meno implicitamente - nel dibattito. L’etologia, in primo luogo, grande assente tra le pagine di Kohn, eppure di grande utilità per comprendere al meglio il senso di tanti comportamenti animali. Von Uexküll e Lorenz, per esempio, avrebbero sicuramente di che ridire (si veda il capitolo sui sogni dei cani). La linguistica, in secondo luogo, che sulle onomatopee ha parecchio da dire di più incalzante. E la semiotica soprattutto, tirata in ballo a gran voce, ma utilizzata al minimo delle sue forze, riprendendo un Peirce di maniera, assai caricaturizzato, che nessun semiologo serio adopererebbe con questa rigidità. Così, per dirne una (ma occorrerà tornarci), sostenere che gli uomini usano simboli e gli animali indici e icone è un’idea tutto sommato banale, per non dire tradizionale, aristotelica nel senso manualistico del termine. In un libro che prende di petto il razionalismo l’idea di un logos come prerogativa dell’essere umano stride non poco. E poi, ammettiamolo, Verlaine e Mallarmé non sarebbero d’accordo. Se le foreste pensano, occorre ripensare tutto quanto insieme a loro.
Il mondo dell’infanzia /
A scuola da Walter Benjamin
di Giulio Schiavoni (Doppiozero, 19 Novembre 2020)
È nota la sensibilità di Benjamin per il mondo dell’infanzia e per la Kinderliteratur, aspetti ai quali peraltro non sempre si è dedicata opportuna attenzione. In un momento come l’attuale, sotto l’impatto delle restrizioni imposte dal coronavirus, è parsa venir meno per i bambini e i ragazzi post lockdown la gioia di divertirsi con mezzi di fortuna, in un giardino, in un cortile, su un marciapiede, in un’aula scolastica, e il gusto di stare insieme. Essi sono stati costretti a limitare a ritmi e abitudini quotidiane (o addirittura a rinunciarvi) e a veder modificati i rapporti scolastici che ne scandivano l’esistenza e che erano parte essenziale della loro identità. Perché non chiedersi allora se Benjamin non abbia ‘qualcosa da dire’ anche sul piano formativo e pedagogico, offrendo preziose indicazioni persino a qualche incuriosito maestro di scuola?
Theodor Adorno ha osservato nel suo Profilo di Walter Benjamin (1972): «Ciò che Benjamin diceva e scriveva sembrava far sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto. (...) Chi entrava in consonanza con lui si sentiva come un bambino che scorgesse attraverso le fessure della porta chiusa la luce dell’albero di Natale». Con tali parole egli metteva in luce un’importante componente del pensiero benjaminiano: il lasciar baluginare uno spiraglio che appariva rimandare a uno spazio utopico (che per Benjamin è poi la «tensione verso il messianico»), ben espresso nell’immagine delle luci dell’albero natalizio.
E il suo amico Gershom Scholem scrisse addirittura che il mondo dell’infanzia «faceva parte degli obiettivi su cui più durevoli e pertinaci indugiavano le sue riflessioni, e tutto ciò ch’egli ha scritto in proposito appartiene alle sue cose più perfette». Benjamin stesso del resto osservò: «Ci sono poche altre espressioni del mondo librario verso le quali io sia legato da un vincolo così stretto».
Per tanti anni, queste riflessioni specifiche sono state considerate marginali, forse perché andavano controcorrente rispetto alle leggi del mercato. (Anche se va detto che ci sono però state delle eccezioni al riguardo: in particolare, durante gli anni della rivolta studentesca a Berlino Ovest si ebbe un interessamento alle riflessioni pedagogiche di Benjamin da parte del «Consiglio centrale degli Asili socialisti», che nel 1969 stampò un’edizione pirata del suo Programma di un teatro proletario di bambini, tradotto in italiano e commentato quello stesso anno dallo psicoanalista Elvio Fachinelli, in una provocatoria Nota a Benjamin pubblicata su un numero della rivista “quaderni piacentini”).
L’attenzione per l’infanzia e le tematiche del mondo infantile si configura, nel pensiero di Walter Benjamin, come una specie di “terra d’approdo”. Negli anni intorno alla Prima Guerra mondiale, infatti, egli aveva idealizzato la gioventù (descritta come una Bella addormentata che occorreva far ridestare) e aveva militato nella Jugedbewegung, nel ‘movimento della gioventù’, ricalcando un po’ la retorica idealistica del suo maestro Gustav Wyneken, una figura carismatica di impostazione liberale. Ma poi si era ricreduto e s’era distaccato da Wyneken, rimproverandogli di aver reso cieca la «teoria», al punto da lasciare che la gioventù andasse ad arruolarsi, verso un’inutile immolazione.
È ipotizzabile che Benjamin abbia sviluppato l’interesse per le problematiche pedagogiche e per il mondo non ancora deformato dell’infanzia e l’abbia recuperato in chiave anti-idealistica e materialistica dopo questa delusione nei confronti della Jugendbewegung.
In tal senso si potrebbe idealmente ravvisare nel percorso benjaminiano uno spostamento d’interesse dalla «Jugend» alla «Kindheit», ossia dalle potenzialità della Gioventù a quelle dell’Infanzia. Complice di questo spostamento d’interesse fu probabilmente anche l’incontro con Asja Lacis, Georg Lukács, Ernst Bloch e successivamente Bert Brecht, che favorirono in lui l’apertura verso il pensiero marxista.
Nella ricca produzione di Benjamin sulla “letteratura per l’infanzia” rientra in particolare una serie di brevi articoli a carattere “pedagogico”, pubblicati fra il 1924 e il 1932 sulla «Frankfurter Zeitung» e in altre riviste dell’epoca weimariana. Essi sono reperibili in italiano nell’edizione einaudiana delle Opere complete di Benjamin nei volumi II-V (Torino 2001-2003) e sono stati ora riproposti in parte significativa anche nella raccolta Orbis pictus, Giometti & Antonello (Macerata 2020). A queste cosiddette «recensioni pedagogiche» vanno poi aggiunti i numerosi interventi benjaminiani alla radio tra il 1929 e il 1932 oggi noti come Racconti radiofonici per i ragazzi, alcune sezioni del libro di aforismi Strada a senso unico (1928) e dell’Infanzia berlinese (1932-1933) e la predilezione per l’opera di Proust, in cui il mondo dell’infanzia e quello degli adulti gli apparivano singolarmente intrecciati.
In parallelo Benjamin parve accostarsi al mondo infantile e accedere ad esso (“sbirciarvi”, secondo le sue stesse parole) anche attraverso l’uscio secondario e magico della sua passione collezionistica. Egli fu infatti anche un raffinato e ostinato collezionista di libri per l’infanzia, un genere che a suo giudizio si trattava di riabilitare e di «restituire alla vita».
Era una letteratura che il suo contemporaneo Karl Hobrecker aveva cominciato a togliere dall’oblio pur senza riuscire a spingersi oltre lo spirito di uno zuccheroso archivismo. L’intenzione di Benjamin era invece piuttosto quella di ricongiungersi - tramite il libro d’infanzia abbandonato e logoro - a un’esperienza della «felicità» a cui i bambini, a differenza di tanti adulti, gli apparivano ancora aperti. In tal senso tornava a riaccendersi in lui (come già nei surrealisti a lui contemporanei che condivisero un progetto di critica radicale della borghesia) l’esperienza suscitata in Baudelaire dalla contemplazione di giocattoli, ben espressa nella sua Morale del giocattolo.
Era una passione per i relitti di un passato ormai privo di contesto, per quelli che egli chiamava «avanzi di un mondo di sogno», rovine per le quali non c’era più spazio nella storia dei moderni, verso le quali - da Rimbaud e Baudelaire al Dada e ai surrealisti - il pensiero europeo si stava volgendo, alle quali egli tendeva per una «testarda protesta sovversiva contro il tipico e il classificabile» e che egli «salvava» per coinvolgerle nella strategia di distruzione della continuità storico-culturale. Ciò che è anacronistico conservò per Benjamin il carattere di ricettacolo dell’autentico emarginato dalla storia dei grandi eventi e, di conseguenza, la capacità «anarchica» di testimoniare contro la piattezza di chi sa soltanto proporre l’apologia dell’esistente e la logica del profitto. «Il collezionista d’arte» - si legge in un passo del suo saggio Parigi. La capitale del XIX secolo (1935) - «non si limita a sognare di essere in un mondo remoto nello spazio o nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono liberate dalla schiavitù di essere utili».
Capaci di restare refrattari alle leggi del mercato che non risparmiano la cultura e il libro, i collezionisti autentici orientano cioè - secondo Benjamin - il proprio sguardo verso il testo ormai introvabile intendendolo non già come un ennesimo articolo di scambio (come una merce) ma come il luogo in cui è assopito il «ricordo» di un’originaria «felicità» e «innocenza» che nel mondo adulto parrebbero rimosse. L’affermazione di Benjamin annuncia non soltanto la sua totale incompatibilità con la storiografia di impronta storicistica e idealistica che glorifica l’accadere come unilinearità di eventi irreversibili in cammino verso un indubitabile «progresso», ma anche la sua inclinazione e sensibilità per il lato rivoluzionario inerente all’arcaico e all’emarginato, la sua fiducia nel collezionismo come passione anarchica per la realtà, giacché ogni recupero del singolo oggetto proveniente dalla «lontananza» si tramuta, tra le sue mani, in un atto di «distruzione»: «La vera, disconosciutissima passione del collezionista» - soggiunge in Elogio della bambola - «è sempre anarchica, distruttiva». Il mondo dell’infanzia si delinea, sotto questo profilo, come il regno in cui la «maledizione di essere utili» potrebbe essere sospesa, data la marginalità - se non la totale irrilevanza - che l’infanzia riveste nel sistema produttivo degli adulti.
Tale passione è comprensibile a partire dalla biblioteca materna e dai libri da lui letti da bambino. Egli ebbe infatti la fortuna di trovare in casa tutta una serie di pregiati libri per l’infanzia, dato che sua madre disponeva di una ricca biblioteca di famiglia e che sua moglie Dora era appassionata di libri per bambini. E quindi poté nutrirsi di letture di tutto rispetto, che solo un bambino della buona borghesia come lui poteva permettersi. -Questa passione è documentata dalla folta “Collezione di libri per bambini” (Kinderbuchsammlung) benjaminiana, che vanta oggi 204 titoli e il cui Indice completo si può trovare nel già ricordato volume antologico di suoi testi Orbis pictus. Scritti sulla letteratura infantile (2020). Non molti anni fa tale Collezione, che andò incontro a varie traversie, è stata acquisita dall’Università di Francoforte e accolta presso l’«Istituto per la ricerca sul libro per la gioventù» di quest’ultima, dove tuttora è conservata.
Tra gli aspetti più significativi che emergono dalle riflessioni benjaminiane sulla letteratura infantile spicca anzitutto l’idea che chi legge è sovrano, che egli non può avere modelli pedagogici che lo terrorizzino o lo imbriglino. Quando legge, il bambino s’immerge interamente nella vicenda, fa un tutt’uno con i personaggi descritti e anche con le illustrazioni, lasciando scomparire tutto il resto. Nell’indicare questa modalità di lettura propria dei bambini Benjamin si discosta nettamente dal vecchio ideale pedagogico ottocentesco e anche da buona parte dei pedagogisti suoi contemporanei. Egli intravede negli spauracchi inventati - nei secoli - dagli educatori per imbrigliare la fantasia infantile l’implicito venir meno di un’«autorità» autenticamente capace di mantenere il bambino aperto sull’orizzonte della «felicità».
A ciò si abbina un altro grande tema benjaminiano, connesso con l’amore per i libri «vecchi e dimenticati»: quello dell’elogio della fantasia, che deve restare libera dalla responsabilità e che si alimenta di materiali informi, di residui, di scarti che i bambini salvano dalla distruzione e riutilizzano in un’operazione di montaggio. In questo contesto è decisiva per Benjamin l’importanza del colore e del linguaggio delle antiche immagini colorate presenti nei libri illustrati, che invitano il bambino a un’immersione onirica in se stesso e nel regno della fantasia, ad abbandonarsi ai propri sogni.
«Solo i bambini» - egli scrive già in gioventù, nel dialogo L’arcobaleno (1915) - «dimorano interamente nell’innocenza, e quando arrossiscono ritornano nell’essenza del colore. In loro la fantasia è così pura, che ci riescono». A suo parere, è come se alimentando la propria fantasia a confronto con il libro illustrato il bambino viva una sorta di anamnesi in senso platonico. In un frammento relativo all’apprezzato illustratore ottocentesco Johann Peter Lyser, ragionando della «bellezza delle immagini a colori nei libri per bambini» (testo che a detta di Scholem rappresenta il punto di partenza dello splendido scritto Sbirciando nel libro per bambini, 1926), egli fa infatti un rimando esplicito proprio a Platone, annotando: «Se esiste qualcosa di simile all’anamnesi platonica, allora si attua nei bambini, per i quali il libro illustrato è il Paradiso. Essi apprendono mediante il ricordo».
Applicando tale suggestione anche agli oggetti di scarto, ai materiali desueti e alla letteratura dimenticata (in un certo senso finiti - o posti - ‘fuori della storia’) si potrebbe dunque ipotizzare che a tali materiali inerisca una particolare prossimità all’Idea platonica. Benjamin era convinto che, salvando libri negligentemente votati alla distruzione o alla scomparsa (ad esempio i libri di malati di mente, o di un ribelle e antimilitarista berlinese come Paul Scheerbart), egli restasse in sintonia con una «tradizione vivente», con voci che avevano da dire sulla loro epoca «cose assai più notevoli di molti degli autori affermati», assurti a «classici», divenuti ormai «canonici e perciò inefficaci» (aggiungeva ironicamente). In qualche modo era come se quegli ‘scarti’ librari, proprio perché messi fuori circolo, dimenticati e rifiutati, fossero più vicini di altre espressioni culturali al platonico Mondo delle Idee che non a quello della Storia.
In generale emerge nella riflessione benjaminiana la costante distanza nei confronti dei modelli pedagogici e ideologici che gli adulti tendono a far passare in maniera più o meno subdola nei confronti dell’infanzia. In questo senso il saggista berlinese si pone al di fuori della pedagogia razionalistica, discostandosi da quanti badavano a utilizzare i materiali didattici per «additare mete» o «sciorinare un sapere prefissato». È irrisoria, a suo giudizio, la preoccupazione di produrre «oggetti adatti ai bambini», in quanto i bambini giocano con oggetti di uso comune, che essi trasformano e tra cui scoprono nessi inediti. Essi mettono in rapporto tra loro questi materiali di scarto, ricomponendoli in modi nuovi e imprevedibili. Si tratta di una serie di prodotti che si potrebbero circoscrivere con l’espressione «avanzi di un mondo di sogno». Con tale espressione, da lui coniata nello stile dei surrealisti, Benjamin designa ciò che - come i vecchi libri per bambini - è finito fuori del circuito commerciale, proprio quegli ‘scarti’ che fanno la gioia del bibliofilo e del collezionista. L’espressione può però valere anche per i materiali residui dei lavori del muratore, del giardiniere, del falegname, del sarto e così via, che i bambini manipolano e trasformano, ponendoli in un «rapporto reciproco nuovo e discontinuo» mediante il gioco e l’immaginazione, e in cui essi «riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge soltanto a loro».
Analogo è, a giudizio di Benjamin, il comportamento del bambino nell’uso delle fiabe: nel suo scritto Vecchi libri per l’infanzia (1924) egli afferma non a caso che il bambino «può lavorare in modo naturale e sovrano con il materiale fiabesco, allo stesso modo con cui dispone pezzi di stoffa o mattoncini delle costruzioni». Riflessioni - queste - che andrebbero rimeditate anche in un momento come quello odierno in cui anche i bambini sono in libertà vigilata, assediati dal clima di paura nei confronti del contatto ravvicinato e della vicinanza sociale, forse impediti - a scuola - di manipolare o trasformare qualunque cosa capiti loro tra le mani.
Uno dei grandi modelli o riferimenti cari a Benjamin è stato l’Orbis Sensualium Pictus, (Universo dipinto delle cose sensibili) di Jan Amos Comenio, un educatore boemo considerato come uno dei pionieri della pedagogia moderna. Questo celebre testo illustrato fu pubblicato a Norimberga nel 1658. Esso si prefiggeva di insegnare ai bambini l’uso dei vocaboli associando una parola (o meglio il suono che vi corrispondeva) a un’immagine. Gli oggetti delle illustrazioni erano numerati e i numeri corrispondevano alle parole poste al fondo del testo: in latino, seguìto dal tedesco (perlomeno nella seconda edizione).
Benjamin fu colpito dal modo di insegnare auspicato da Comenio e dalla sua utilizzazione pedagogica delle immagini, in particolare dall’idea che l’insegnante, più che riempire di nozioni precostituite la mente del bambino, doveva destarne l’interesse, accenderne l’intelligenza e aiutarlo ad acquisire una conoscenza essenziale del mondo riflettendo da solo. A questo dovevano servire le immagini dell’Orbis sensualium Pictus e i vocaboli ad esse abbinati. Ogni illustrazione ritraeva un aspetto del mondo naturale o della vita umana in un linguaggio semplice, adeguato a chi era agli inizi della formazione. Comenio sconsigliava vivamente il ricorso alle punizioni corporali. Nella sua visione era importante anche il gioco, soprattutto il gioco di gruppo: nulla era così bello come imparare divertendosi; l’insegnante doveva incoraggiare la partecipazione degli allievi. Benjamin naturalmente conosceva bene tale testo, che figura nella sua “Collezione di libri per bambini”.
Il mondo dell’infanzia /
A scuola da Walter Benjamin
di Giulio Schiavoni (Doppiozero, 19 Novembre 2020)
La passione per l’universo figurale dei vecchi libri illustrati fa un tutt’uno in Benjamin con la sua sensibilità per l’emblematica, per le associazioni di immagini, una tematica alla quale egli si appassionò trattandone diffusamente nell’Origine del dramma barocco tedesco, edito nel 1928, il libro con cui sperava di ottenere l’abilitazione presso l’Università di Francoforte. Comunque ad essa fa riferimento qua e là anche nei suoi interventi sui libri per bambini.
Com’è noto, l’emblematica è un genere letterario caratterizzato dal ricorso a immagini allegoriche contenenti solitamente un motto o una scritta collocati al di sopra della figura e un epigramma o una spiegazione in prosa o in poesia posti sotto alla figura stessa. È cioè una forma di comunicazione che combina materiale visuale e materiale verbale e che ebbe fortuna a partire dal Rinascimento e fu molto in voga nel Seicento.
Nel teatro barocco tedesco gli emblemi rivelavano un significato che riguardava la condizione creaturale e storico-sociale del mondo. Ad esempio un emblema particolarmente pregnante per l’epoca era quello del corpo senza vita, che rimandava alla caducità e fragilità, elementi che a giudizio di Benjamin contraddistinguevano un periodo storico segnato da eventi come la Guerra dei Trent’anni.
Altra caratteristica è la sensibilità di Benjamin per gli Abbecedari, per il fascino delle lettere. A suo giudizio, le lettere alfabetiche dei vecchi abbecedari (arricchite «con cura ornamentale» dapprima da ghirlande e arabeschi, successivamente da oggetti) apparivano invitanti e inducevano i bambini a inoltrarsi nel mondo che esse rappresentavano, e davano all’apprendimento il carattere di un’avventura. Con esse i bambini vivevano una gioiosa e giocosa identificazione mimetica, sperimentavano un momento di liberazione dalla paura. Erano il primo momento dell’ingresso in un mondo avventuroso, erano come «gli stipiti di una porta» che occorreva attraversare. Giacché, per Benjamin (in ciò davvero lungimirante), ai libri scolastici deve inerire un aspetto ludico, atto a incrementare la fiducia in sé del bambino.
Benjamin è stato tra i primi a individuare i rischi di una pedagogia invasiva della psiche infantile, una pedagogia che si prefigge tutt’altro che il fine di risvegliare nei bambini e nei ragazzi il giudizio autonomo e che mira invece a tessere un’apologia dell’esistente. Con le sue riflessioni sull’opportuna distanza nei confronti dei modelli pedagogici e ideologici che gli adulti tendono a far passare in maniera più o meno subdola, egli si poneva - così - al di fuori della pedagogia razionalistica, discostandosi da quanti badavano a utilizzare i materiali didattici per finalità precostituite.
In proposito val la pena menzionare la sua acuta recensione intitolata Kolonialpädagogik (Pedagogia coloniale), in cui stigmatizza i comportamenti di quanti considerano disinvoltamente l’educazione «in un’ottica coloniale volta allo smercio di beni culturali» e tendono a trasformare la «delicata e riservata fantasia del bambino» in una sorta di serbatoio da riempire.
A una simile impostazione Benjamin aveva già opposto - nel suo Programma di un teatro proletario di bambini, redatto nel 1928-29 su invito di Asja Lacis (l’importante pioniera del teatro sovietico per l’infanzia che subito dopo la Rivoluzione del ’17 aveva fondato a Orel un teatro di besprisorniki - ragazzi sbandati corrispondenti all’incirca ai nostri sciuscià - e che egli aveva incontrato a Capri nel 1924 invaghendosene perdutamente) una sorta di pedagogia alternativa, immaginata al di là delle modalità drammaturgiche di tipo ‘borghese’. In tale Programma da realizzare a Berlino, su proposta di Richard Becher e Gerhard Eisler, egli aveva prospettato un teatro in antitesi a quello borghese, un luogo (un luogo-teatro) inteso come spazio di un collettivo in cui il bambino poteva esprimere se stesso e si trovava a proprio agio perché improvvisava senza essere gestito dall’esterno, e in cui l’adulto aveva l’opportunità di imparare dal bambino: poteva ascoltare e osservare quanto il bambino stesso faceva, perdendo così la sua posizione di vantaggio (un po’ come avviene nello psicodramma, il teatro della spontaneità che negli stessi anni Jacopo Levy Moreno ideava a Vienna).
Non si può del resto non ricordare il giudizio sprezzante che Benjamin esprime nei confronti di certa pesantezza moralistica riscontrabile in non pochi pedagogisti della sua epoca, nei confronti delle «aberrazioni» perpetrate allora «grazie alla pretesa immedesimazione nella natura infantile» mediante «i racconti in rima e i ghignanti ceffi infantili che squallidi amici dei bambini dipingono per illustrarli».
Recensendo nel 1924 il libro Alte vergessene Kinderbücher [Libri per l’infanzia vecchi e dimenticati] del collezionista berlinese Karl Hobrecker egli taglia corto scrivendo in proposito: «Il bambino chiede all’adulto una rappresentazione chiara e comprensibile, ma non infantile. Meno che mai ciò che l’adulto è solito considerare tale».
Invita così a prendere le distanze da metodi pedagogici moralistici (edificanti o terrorizzanti), e da forme di catechesi che si erano sviluppate a partire dall’Illuminismo e che venivano riproposte - sotto altra forma e veste - nel presente. Il suo è un richiamo a rispettare cioè l’autonomia e la spontaneità del bambino, a non voler mettere il cappello su ogni gesto del bambino immaginando figure e forme a sua misura, ideali per lui. Sarebbe già sufficiente - osserva Benjamin - prendere le mosse da ciò che offre la terra, con la sua pienezza di «materie pure, non adulterate», da cui i bambini sono tanto attratti...
Analogo interesse meritano i vari interventi da Benjamin dedicati al giocattolo, davvero istruttivi. In vari testi egli affronta in particolare la problematica dell’uso dei giocattoli, di cui peraltro sottolinea il carattere ambivalente. Essi infatti - sostiene - in quanto opera degli adulti sono pensati per indurre modelli di comportamento nel bambino. Al medesimo tempo, però, permettono al bambino stesso di riscattarsi proprio nel gioco, perché giocando egli può usarli in modo personale, fuori dagli schemi.
Nel ribadire le distanze dalle modalità di una pedagogia dai tratti «coloniali» Benjamin si rivela originale anche nell’approccio al mondo della fiaba. A tale riguardo nello scritto Fertili rudimenti degli inizi (del 1931), recensendo due volumi dell’illustratrice di libri per bambini Tom (alias Martha Gertud) Seidmann-Freud, nipote di Sigmund Freud, dedicati alle valenze dei sillabari, in maniera assai stimolante egli sottolinea la refrattarietà all’ideologia borghese dominante attraverso in particolare i meccanismi dell’esagerazione e della ripetizione, tipici delle fiabe. Nella lettura, i bambini gli appaiono dunque animati e guidati proprio da queste due costanti della letteratura fiabesca.
E il bello è che si tratta - a giudizio del saggista berlinese - di meccanismi che finiscono per coinvolgere in positivo anche gli adulti. Quali effetti produce nel bambino l’esagerazione? Essa lo rende capace di sfuggire in qualche modo alle violenze di adulti che gli propinano o gli destinano storie atroci come quelle narrate nel celebre Pierino Porcospino (1844) di Heinrich Hoffmann, e di discostarsi così dal vecchio ideale pedagogico ottocentesco del «Sii educato, ordinato e pio!» Quanto poi alla ripetizione che si lega al raccontare fiabe e all’invito che solitamente il bambino rivolge agli adulti a «raccontare di nuovo», nel suo scritto Giocattolo e gioco (1928) Benjamin ritiene che grazie alla ripetizione sia il bambino che l’adulto che narra vengano messi in condizione di superare il terrore istillato da certi racconti. Insomma: un provare paura, ma per liberarsene.
Si direbbe che - riletti oggi - gli interventi benjaminiani sulla Kinderliteratur non abbiano perso nulla dell’attualità vera di cui il saggista berlinese è parso unicamente curarsi: l’attualità di ciò che contribuisce a schiudere la porta dei sogni e il libro della felicità, anziché a mettervi i sigilli forse definitivamente.
Cultura
Gianni Rodari, il comunista delle filastrocche
ITINERARI. Dall’adesione al partito al metodo rivoluzionario del marxismo critico. Il suo punto di riferimento è Gramsci, perfettamente inscritto nella tradizione umanistica italiana. Essere nel Pci nell’Italia del 1945 non è come esserlo solo due anni dopo. I comunisti sono chiamati, insieme a tutte le forze laiche e cattoliche, a scrivere la Costituzione
di Vanessa Roghi (il manifesto, 17.01.2021)
Chiamato nel 1950, dal Pci, a scrivere un’autobiografia per tracciare il suo percorso politico durante il ventennio, Gianni Rodari racconta il momento della scelta, durante la guerra di Etiopia. «In quell’epoca i miei filosofi erano Nietzsche, Stirner e Schopenhauer e trovavo ridicolo l’Impero». Amici operai sono il tramite a letture proibite: «In casa di uno di questi conobbi uno che ‘era stato un comunista’ nel 1921, il compagno Furega Francesco, muratore, della sezione di Gavirate, che mi raccontò a suo modo la nascita del fascismo».
Grazie a questo gruppo clandestino Rodari legge «una ‘vita di Lenin’, una di Stalin, e l’autobiografia di Trockij e la storia della Rivoluzione dello stesso Trockij. Queste opere ebbero due risultati: quello di portarmi a criticare coscientemente il corporativismo e quello di farmi incuriosire sul marxismo come concezione del mondo».
FINITA LA GUERRA, Gianni Rodari diventa un militante del Pci. Il suo punto di riferimento (suo e di tanti) è ovviamente Antonio Gramsci, perfettamente inscritto nella tradizione umanistica italiana, è la miglior difesa contro l’accusa che viene mossa al Pci di essere una mera espressione dello stalinismo in salsa mediterranea. Questo diventa chiaro con i Quaderni dal carcere (1947) che Palmiro Togliatti sceglie di far pubblicare dall’editore Einaudi e non da un editore comunista: Gramsci è esso stesso parte della cultura nazional popolare, è di tutti, e tutti con Gramsci devono fare i conti.
Nel 1948 Gianni Rodari scrive: «in Gramsci vive un tipo nuovo di «uomo di cultura. (...) La sua lotta contro Croce è un continuo smascheramento di posizioni teoriche e teoretiche che si presentano come posizioni universali e disinteressate dello spirito, per rilevarne il significato ed il valore storico di strumenti della conservazione sociale».
Il marxismo è un metodo, è costante ricerca, è scoperta della realtà, svelamento della conservazione.
INSIEME A GRAMSCI, il marxismo di Rodari si nutre di Bertolt Brecht di cui traduce nel 1945 La linea politica. Il poeta tedesco rappresenterà un riferimento costante sul senso di essere scrittori e comunisti: «Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?». Nella Storia degli uomini pubblicata a puntate su Vie nuove nel 1958 così come nella Storia universale, Rodari risponde: «C’erano solo gli uomini con due braccia per lavorare». Lo scrittore comunista, dunque, non ha solo come suo ideale committente il movimento operaio ma si impegna ad ascoltarne la voce nella storia.
ESSERE NEL PCI nell’Italia del 1945 non è come esserlo solo due anni dopo. I comunisti infatti sono chiamati, insieme a tutte le forze laiche e cattoliche, a scrivere la Costituzione e fondare la Repubblica. Ma, dopo il 1947, con l’estromissione del Pci dal governo e l’inizio della guerra fredda, la divisione del mondo in blocchi si ripercuote concretamente nell’attività dei militanti italiani. Serve un giornalismo che racconti i motivi di questa frattura e delinei i caratteri dell’’uomo nuovo’ comunista: questo fa Rodari sull’Unità. E quando il Pci gli chiede di scrivere per i bambini, lui accetta. «La generazione che il Pci ha rastrellato durante la Resistenza è quella che meno si è preoccupata di vocazioni personali».
Anche la direzione de Il Pioniere nel 1950 è un incarico che Rodari accetta per disciplina: lo obbliga infatti a lasciare Milano e trasferirsi a Roma. Ed è proprio per il suo ruolo centrale nella costruzione di una stampa popolare per ragazzi che interviene nel 1951 nella nota polemica sui fumetti con Nilde Iotti e Palmiro Togliatti: una polemica spesso presentata come la prova del fatto che Rodari fosse un comunista «eretico». In realtà una normale discussione, tipica del tempo (tesi, antitesi, sintesi del segretario) in cui alla fine Rodari e Togliatti non sono poi così distanti.
IOTTI INFATTI STIGMATIZZA il fumetto americano, violento. Rodari contesta l’opinione che non possano darsi fumetti «diversi da quelli americani» e conclude auspicando «la nascita di una nuova letteratura per l’infanzia» che comprenda accanto ai libri i fumetti. Togliatti rilancia dicendo che auspica «di riuscire a creare una letteratura e una pubblicistica per bambini e ragazzi che attirino, piacciano, educhino». E questo proverà a fare Gianni Rodari, sui periodici comunisti degli anni Cinquanta.
Nel 1956 rimane nel Pci, nel 1958 però passa a Paese sera, lasciando l’Unità. Secondo alcuni critici la militanza comunista di Rodari si farebbe più blanda a partire dal 1960, in coincidenza con la pubblicazione dei suoi libri con Einaudi. Rodari è consapevole di questa diffidenza politica che per conto suo rigetta: sa di essere la «quinta colonna comunista nella grammatica italiana», come scrive parafrasando una stroncatura di Guareschi sul Borghese. Che la sua è la «via sbagliata al socialismo».
Il solco che si apre fra Rodari e la «politica culturale» del Pci è però compensato dal rapporto fecondo che lo scrittore ha con i suoi compagni che da Reggio Emilia al movimento dei genitori democratici rappresentano quella via italiana al socialismo che Rodari rivendicherà sempre, facendolo rimanere saldo dentro al partito (Perché ho dedicato il mio libro alla città di Reggio Emilia, 1974).
Le critiche mosse alla sua svolta linguistica sono il sintomo di quel marxismo critico che «non utopizza: ha già la cosa nella mano, e nella cosa stessa ha messo la sua morale e il suo idealismo», come ha scritto Antonio Labriola. Rodari, invece, a un certo punto, inizia a «utopizzare»: sarà l’incontro con la fiaba o con lo strutturalismo e la linguistica, o con i maestri dell’Mce, ma a Rodari l’utopia sembra importante come la vista o l’udito. Inevitabile, dunque, il mutare del suo sguardo sul comunismo sovietico che vede crollare come progetto proprio per l’incapacità politica di educare alla fantasia, indispensabile tassello dell’utopia.
SCRIVE NEL 1979: «faccio obiezioni alle uniformi uguali, rispondono ‘l’uniforme educa, serve alla disciplina’. Mai esprimere un parere personale. Tutti accettano le spiegazioni date. Non so come in una scuola del genere possa mai nascere un movimento, un’iniziativa dal basso. Del resto, è un problema di tutto il sistema di democrazia socialista»
Scrive su questo una poesia: «La signora B dovette scendere a Brest/ le mancava il timbro dell’albergo/ compagni compagni cos’è come accade/ non avete fatto una rivoluzione/ per aumentare i timbri/ ma per distruggerli/ io non vi farò la lezione/ non dirò al russo che ha pagato per me/ che nella sua rivoluzione mancava qualcosa/ anch’io sono comunista/ tale mi chiamo per dare un nome alla speranza».
Essere comunista è, dunque, un modo di dare un nome alla speranza. Rodari rigetta l’alternativa imposta ai poeti dal comunismo: essere poeti rivoluzionari o essere poeti della rivoluzione. La rivoluzione è un metodo. Guarda con diffidenza gli apocalittici suoi coetanei, con simpatia il movimento del 1977 con i suoi slogan in rima, figli delle sue filastrocche. Il Pci non gli riconoscerà mai alcun incarico ufficiale nel nazionale, e abbandonerà il Giornale dei genitori che Rodari dirige dal 1968. Amareggiato, in una lettera scrive: «Se quando in Italia si parla di letteratura infantile bisogna fare al primo posto il nome di un comunista, con tutto quel che la cosa comporta, qualche merito ce l’ho anch’io».
*
Graphic novel: «Sepolti vivi», la protesta di trecento minatori
Tra Cabernardi e Percozzone, vicino a Ancona, nelle Marche si trovava, nel dopoguerra, la più grande miniera di zolfo di Europa, di proprietà della Montecatini che, nel 1952, aveva deciso di chiudere e chiudendo licenziare tutti gli operai. Così nacque la protesta che vide più di 300 minatori asserragliarsi al 13° livello della miniera per più di un mese. Gianni Rodari, scrisse in quella occasione una lunga inchiesta su Vie nuove, rotocalco comunista: Viaggio sulla terra dei sepolti vivi, intrecciando, nel racconto, la battaglia politica e le storie private di chi fu protagonista dell’occupazione. Una di queste storie è quella di Ernesto Donini, un giovane minatore di Pergola che «voleva vedere la moglie, Maria, dopo ventiquattro giorni, almeno per un istante». Così i due escogitarono un modo di incontrarsi per un breve saluto all’uscita di sicurezza, presidiata dai celerini.
«Tredici livelli di miniera significano ventisei rampe di scale, ogni rampa supera un dislivello pari a cinque o sei piani di una casa moderna. Questa ’uscita di sicurezza’ assomiglia da vicino alla tormentosa invenzione di uno scrittore fantastico». Al loro incontro Ciro Saltarelli e Silvia Rocchi si sono ispirati per un graphic novel pubblicato da El (Einaudi ragazzi, pp. 96, euro 14). Inedito e bellissimo omaggio al fantastico scrittore. (vanessa roghi)
* Scheda. «Enciclopedia» per lo scrittore
A conclusione del centenario della nascita di Gianni Rodari, Electa dedica allo scrittore il secondo titolo della nuova collana Enciclopedia: «Rodari, A-Z», autori vari, a cura di Pino Boero e Vanessa Roghi, pp. 320, euro 34). Una sequenza di voci correlate e indipendenti, insieme a una biografia illustrata con fotografie, copertine di libri per raccontare un fantasioso editorialista, ironico polemista, grande riformatore della scuola, attento osservatore del rapporto fra grandi e piccoli, nonché esploratore della letteratura e artefice di racconti incantati che hanno affascinato molte generazioni. Come fosse un abecedario letterario, il volume è composto da 84 voci scritte da 56 autori. Come spiegano i curatori, «è un invito a un cambio di prospettiva. Abbiamo pensato che Rodari non dovesse essere guardato con una lente di ingrandimento ma semmai con un cannocchiale, da lontano». Così, a spiare la sua figura da lontano, sono docenti, pedagogisti, giornalisti, intellettuali e accademici, si va dal mondo dell’editoria e dell’infanzia a quello della militanza politica, dai luoghi della vita e del lavoro alle passioni per i libri e le riviste.
La conoscenza
Fame di istruzione
Da Antonio Gramsci a Giuseppe Di Vittorio fino a Gianni Rodari la forza dell’umanità ma anche uno dei suoi primi bisogni è: sapere. Magari "tutti leggessero non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo”
di Ilaria Romeo (Collettiva, 08/12/2020)
Insediandosi in Parlamento diceva Giuseppe Di Vittorio nel 1921: “Onorevoli colleghi, questa mattina qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo per la mia presenza qui, ha mormorato: “Un cafone in Parlamento...”. Ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualcosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie e con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto”.
Sempre Di Vittorio affermava in occasione del secondo Congresso nazionale della cultura popolare (il primo Congresso si era tenuto a Milano, nella sede del Castello Sforzesco, il 7 e l’8 dicembre 1946; il terzo Congresso si terrà a Livorno dal 6 all’8 gennaio 1956, relatori Norberto Bobbio, Tommaso Fiore e Giulio Trevisani)
Perché la cultura è, e deve tornare ad essere, esattamente questo: uno strumento di emancipazione, di integrazione, dialogo, valorizzazione, sviluppo, coesione sociale. “Istruitevi - diceva Antonio Gramsci - perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. “Vorrei che tutti leggessero - affermava il maestro per eccellenza, Gianni Rodari - non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo”.
La cultura rende liberi perché ci permette di pensare con la nostra testa, perché fa in modo che i nostri pensieri non si fermino alle apparenze, non siano superficiali. In un mondo infestato dalle fake news sulla politica, sulla salute, su ogni ogni singolo aspetto della nostra vita, ciò di cui più di ogni cosa in questo momento l’essere umano ha bisogno è di allenare la sua capacità di discernimento, di autovalutazione.
Abbiamo bisogno di cultura. Una cultura messa a dura prova dalla pandemia e dal lockdown. Ma mai come oggi universalmente a disposizione di chi chiunque voglia accedere al sapere. Istruiamoci, perché abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza, oggi come non mai.
Coronavirus.
L’esperto Bonanni: impariamo dalla Spagnola, e fermiamo i veri diffusori
Paolo Bonanni è ordinario di Igiene all’Università di Firenze: «È importante non dare false certezze e imparare dal passato. Negazionisti e lockdown? C’erano anche 100 anni fa»
di Lucia Bellaspiga (Avvenire, martedì 10 novembre 2020)
“Un po’ è colpa anche di voi giornalisti, che volete il virologo con la sfera di cristallo. In realtà sul futuro di questo virus sappiamo ben poco, per prevedere cosa avverrà è più utile buttare l’occhio al passato”. Capovolge la prospettiva, Paolo Bonanni, professore ordinario di Igiene all’università di Firenze, esperto proprio nelle dinamiche di diffusione dei virus che hanno incrociato i destini dell’umanità. Insomma, andare a vedere “com’è andata” le altre volte ci può (poteva) insegnare come agire in tempi di Covid, magari senza ripetere gli stessi errori.
Invece di cercare di indovinare, meglio quindi guardare le antiche pandemie?
Con tutte le dovute differenze, molte indicazioni il passato le dà. Sul Sar-CoV2 sappiamo ancora troppo poco, io resto sempre colpito quando vedo buttare lì certezze granitiche, tipo in che giorno raggiungeremo il picco: sono così tanti i fattori che non conosciamo, che ogni previsione può essere smentita clamorosamente, e purtroppo lo abbiamo visto. Ecco perché è importante non dare false certezze e imparare dal passato: lo dicevamo quasi tutti che ci sarebbe stata una seconda ondata, e chi tra i miei colleghi lo ha negato... ora fa una conversione a 180 gradi.
La Spagnola di cento anni fa era l’ultima grande pandemia ad aver colpito l’Occidente. Ci sono analogie?
Intanto sono impressionanti le corrispondenze dei mesi: la prima ondata della Spagnola in Italia infuriò proprio in aprile e maggio, poi a ottobre/novembre si affacciò la seconda ondata, peggiore della prima. Da qualche parte arrivò anche una terza ondata più debole, ad esempio in Spagna. È molto istruttivo anche vedere che le strategie efficaci per difendersi dal contagio erano le stesse di oggi: se guardiamo le foto sui giornali dell’epoca medici e infermieri, ma anche la gente comune, indossavano la mascherina, tenevano il distanziamento e usavano disinfettanti in abbondanza, proprio le tre regole che tuttora, se le avessimo rispettate, ci avrebbero protetti perfettamente. Inoltre era proibito andare in giro e tantissime attività furono chiuse, il lockdown lo hanno inventato un secolo fa. Allora gli scienziati non avevano cognizione di cosa fosse un virus, quello influenzale sarebbe stato isolato solo dieci anni dopo, negli anni ’30, però avevano capito come si trasmetteva e quindi le modalità per rallentarlo o bloccarlo.
Anche nei movimenti di massa ci furono analogie con quanto accade oggi?
È interessante: pure un secolo fa c’erano negazionisti, terrorizzati e complottisti. Era appena finita la prima guerra mondiale e i complottisti dell’epoca sostenevano con forza che a diffondere il morbo erano stati i tedeschi, che con le loro navi avrebbero spruzzato lungo le coste degli Stati Uniti la malattia.
Sembrano proprio le bufale odierne delle “scie chimiche” e di altri complottismi...
È molto più rassicurante ritenere che la colpa sia di qualcuno che agisce per cattiveria piuttosto che pensare che la natura crea fenomeni imprevedibili e incontrollabili. Tutti i negazionisti - del Covid come della peste nel Manzoni - in realtà incarnano l’estremizzazione della paura: il terrore è tale che fa più comodo pensare che il fatto non esista, è un meccanismo ben noto agli psicologi. Ed è però anche segno della stanchezza delle persone di fronte a una seconda ondata: all’inizio va bene anche fare l’immane sacrificio del lockdown, ma poi il ripetersi della stessa situazione psicologicamente sconvolge, quando la cosa sembrava finita è ripartita.
Qual è il compito dei media in un momento in cui tanto dipende dai comportamenti della gente?
Fare un’informazione corretta e non sensazionalistica. Per mesi abbiamo sentito dare una conta quotidiana dei nuovi positivi, 1.000, 3.000, 10.000, con magico calo nei fine settimana e rialzo il lunedì: il dato dei positivi se è avulso dal numero dei tamponi fatto quel giorno non ci dice se l’epidemia si sta espandendo, crea solo semplificazioni controproducenti. Altro errore è volere a tutti i costi i virologi tuttologi. Io sono medico di sanità pubblica ed epidemiologo, non studio com’è fatto il virus ma come si diffonde e quali sono le misure per metterlo sotto controllo. Ho visto una gustosa vignetta con la raccolta di figurine dei “virologi” sull’album Panìni al posto dei calciatori, questo la dice lunga.
Infine l’informazione non deve decontestualizzare, altrimenti travisa.Un esempio? Ha ragione il virologo Palù quando dice che su 100 contagiati il 95% sono positivi asintomatici o pauci sintomatici, però manca il passaggio più importante, cioè quel 5% che finisce in ospedale e in terapia intensiva: non ci preoccupano i positivi, ci preoccupa che più aumentano loro più aumenta la frazione di chi viene ricoverato, così la tenuta del sistema sanitario crolla e i decessi crescono.
Se quel 5% viene minimizzato, il risultato è quello che vediamo ovunque: gruppi di adulti che fumano davanti al bar con la mascherina abbassata! Da epidemiologo mi fa rabbrividire, vorrei vedere la polizia dare multe: ma come, mandiamo sul lastrico ristoratori o negozianti corretti che hanno applicato i protocolli e non hanno trasmesso il contagio, e poi manca la repressione dei veri diffusori? Pensando a quali sono le modalità di trasmissione del coronavirus, è chiaro che chi non ha seguito alla lettera le tre regolette sufficienti a fermarlo è stato la causa di questa ricaduta.
Le vogliamo ripetere, allora?
Mani costantemente disinfettate, distanziamento, e mascherina sul naso: è così difficile capire che respiriamo col naso, e quindi è dal naso che il virus entra ed esce?
La Spagnola scomparve improvvisamente da sola, possiamo sperarlo per il Covid?
Il Covid per ora ha fatto poco più di un milione di morti nel mondo, la Spagnola ne fece 40/50 milioni e proprio a causa di tanta mortalità si è esaurita: non possiamo permettercelo. I virus sono talmente imprevedibili che c’è sempre la possibilità che il Covid scompaia per cause naturali, ma la speranza più concreta è che arrivi un vaccino capace di dare un’immunità abbastanza lunga nel tempo. Però ci vorranno molti mesi... sempre che tutto vada bene.
Il virus della Spagnola era diverso dal Sars-CoV2?
Completamente, non era un coronavirus ma un virus influenzale, come tutte le pandemie del ‘900. Anche per questo il Covid ci ha presi alla sprovvista, perché noi pensavamo che le pandemie fossero tutte da influenza. -Il Sars-CoV2 invece è un cugino della Sars del 2003, meno cattivo ma si adatta molto meglio alla specie umana e questo lo rende più pericoloso. La Sars quelli che colpiva li uccideva nel 10% dei casi però si trasmetteva difficilmente, così infettò 10mila persone in tutto; il Covid ha già infettato almeno 50 milioni di persone: è vero che ha una letalità bassa, ma una percentuale piccola su un numero grande fa un numero di morti enorme.
Va detto poi che la Sars incontrò sulla sua strada l’infettivologo eroe Carlo Urbani che, pur di impedire a quel coronavirus di diffondersi nel pianeta, ha dato la vita e lo ha davvero fermato: con quel 10% di mortalità, prima di auto esaurirsi la Sars avrebbe fatto strage.
Il tracciamento di tutti i contatti fatto immediatamente da Urbani a partire dal “caso zero” è un’altra lezione che questa volta il mondo ha dimenticato?
Ci vorrebbe sempre un’attenzione preventiva a questo tipo di fenomeni, ma purtroppo anche il nostro Paese per venti anni ha smantellato la sanità territoriale, il vero presidio che ci permette di controllare la situazione. Occorre avere in campo professionisti in numero sufficiente - sto parlando di dipartimenti di prevenzione e medici di medicina generale - che possano fare i tracciamenti, mettere le persone in isolamento e verificare tutto quello che succede, se no la gente si riversa sull’ospedale: non a caso la Lombardia che li ha depotenziati più degli altri si è trovata con un guaio grosso. Guardiamo invece cosa succede in Estremo Oriente: lì il sistema di controllo è capillare e infatti ne sono usciti.
A gennaio abbiamo anche fatto orecchie da mercante a un passato molto recente, quell’epidemia che in Cina faceva già enormi danni.
Sarebbe bastato guardare cosa avveniva lì per capire che sarebbe accaduto anche qui. Invece ci siamo illusi, basti dire che all’inizio era dato come criterio di fare i test solo a chi fosse andato in Cina, così il virus è arrivato sotto traccia e quando è esploso a Codogno ormai era tardi. La stessa Oms diceva che non c’era alcuna emergenza, insomma, si era tutti presi da una sorta di pregiudizio ottimistico perché è difficile aprire gli occhi su una realtà che non si vuole guardare. Questa crisi ci ha fatto capire che anche l’Occidente supertecnologico e superscientifico soggiace a cose che ci sfuggono totalmente ed è in balìa della natura...
La storia ce l’aveva insegnato, ma appena una bufera è passata si fa presto a dimenticare. Psicologicamente è normale, negli Stati Uniti degli anni ’20, finita la terribile Spagnola, c’era un’euforia incredibile e si fecero festeggiamenti lunghissimi, come dopo ogni guerra. Sicuramente succederà anche a noi quando potremo tornare a socializzare e a rivedere le persone!
Noi siamo la società della pillola per avere tutto e subito: successo, memoria, efficienza, salute. La pandemia ci costringe invece a lunghe rinunce, persino a sacrifici utili agli altri. Anche per questo ci mette in crisi?
Siamo un po’ diseducati a un comportamento che sia socialmente utile, siamo molto individualisti, dire che tu per tutelare gli altri devi sottometterti a determinati comportamenti è politicamente scorretto. D’altra parte l’educazione civica è stata espulsa da scuola, e per paradosso ci si disinteressa del prossimo al punto da arrecare danno anche a se stessi, il discorso delle mascherine abbassate o degli assembramenti serali è emblematico. La conseguenza? Tutti costretti a nuove chiusure per il comportamento di pochi.
Se è così facile che un virus dall’altra parte del mondo in poche ore diventi pandemia, come mai per un secolo non è capitato? Cos’ha più degli altri questo Sar-CoV2?
Continuamente dagli animali vengono fuori dei virus nuovi ricombinanti tra diversi ceppi, ma questo ha trovato una combinazione che si trasmette benissimo tra gli esseri umani. Di solito quando fa il salto dall’animale alla specie umana un virus è deficitario, ha problemi di trasmissione, il Covid invece è la tempesta perfetta. Magari succede una volta su dieci miliardi, ma che potesse accadere si sapeva, i biologi evoluzionisti ci dicono che è nell’ordine delle cose, purtroppo è capitato a noi.
Professore, come qualificarla in questa intervista? Epidemiologo?
Medico di sanità pubblica, ci tengo: perché noi siamo coloro che studiano come si diffondono le malattie per prevenirle, è questo l’obiettivo concreto della sanità pubblica. Come si dovrebbe fare con i terremoti: questo Paese non fa prevenzione antisismica, così spende molto di più - sia in vite umane che in denaro - per riparare ai danni dopo che sono avvenuti. In fondo è sempre la stessa storia.
Parte I
Imparare, tra cervello e macchine
di Ugo Morelli (Doppiozero, 13 marzo 2020)
“Non vi è giuoco più interessante di quello offertoci dalla nostra immaginazione”, scrive Vladislav Vancura a pagina 12 del suo capolavoro del 1934, La fine dei vecchi tempi, Adelphi, Milano 2019. Forse non vi è migliore descrizione dell’apprendimento umano che associarlo a due aspetti della nostra esperienza: l’immaginazione e la negazione. Oggi l’immaginazione ha assunto un’ulteriore centralità nei processi di apprendimento, in quanto una parte decisiva dei fenomeni e della loro conoscenza sono accessibili solo immaginandoli, come ad esempio accade con l’infinitamente piccolo, i quanti, o l’infinitamente grande, le galassie e gli universi. Allo stesso tempo la discontinuità che caratterizza l’apprendimento, nel caso degli esseri umani è notevolmente connessa alla distinzione specie specifica di dire di no, di mettere in discussione e trasgredire la consuetudine.
Se, come sostiene Stanislas Dehaene, in Imparare. Il talento del cervello, la sfida delle macchine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019; edizione originale 2019, è solo la manipolazione delle probabilità, cioè dell’incertezza di ciò che impariamo, a consentirci di ottenere il massimo da ogni informazione, ciò è possibile non solo perché il nostro cervello tiene costantemente traccia dell’incertezza associata ad ogni informazione, ma l’aggiorna ad ogni occasione di apprendimento, svolgendo una funzione ipotetica e, quindi, almeno in parte anticipatrice. È a quel livello che entra in gioco l’immaginazione, al momento della formulazione di ipotesi di possibilità, spingendo, appunto, il reale sulla soglia del possibile. “Ed è questo ciò che rende l’apprendimento molto interessante: l’adattarsi più in fretta possibile a condizioni imprevedibili”, sostiene Dehaene [p. 18].
Grazie al linguaggio e alla matematica lo spazio delle nostre ipotesi si moltiplica in modo potenzialmente infinito, anche se poggia su fondamenta persistenti ereditate dalla nostra evoluzione. A distinguere noi umani dagli altri animali è la nostra plasticità esuberante, derivante dall’azione educativa sistematica e organizzata che ha perlomeno decuplicato il nostro potenziale cerebrale. I processi di cooperazione interpretativa del mondo che si sono sviluppati nei gruppi umani da un certo momento in poi della nostra evoluzione, hanno generato circuiti di produzione di senso condiviso e progressiva accumulazione di saperi operativi, con circolari e ricorsive ricadute epigenetiche sullo sviluppo cerebrale e sui modelli di comportamento.
Dehaene mette in evidenza come la complessità della nostra società contemporanea debba all’educazione le molteplici migliorie apportate alla nostra corteccia: lettura, scrittura, calcolo, algebra, musica, senso del tempo e dello spazio, affinamento della memoria. “Per esempio, sapevate che la capacità della memoria a breve termine di un analfabeta, il numero di sillabe o di cifre che è in grado di ripetere, è circa due volte di meno di quello di una persona scolarizzata?” [p. 20].
Il confronto con la sfida delle macchine che noi umani stessi abbiamo inventato, è una costante del procedere della ricerca di Dehaene. Al tempo dei cosiddetti machine learning e deep learning, si tratta di un confronto inevitabile. Un esempio chiarificatore di Deahaene può aiutare a definire le differenze in un simile confronto.
Proviamo a seguire questa domanda che riguarda un bambino: “Come fa a capire cosa signfica ‘io’, se ogni volta che lo ha sentito, il suo interlocutore parlava di ...lui?!” [p.. 65]. La dimensione intersoggettiva di introiezione e proiezione con gli altri e il mondo consente apprendimenti non semplicistici. “Le reti neurali che si limitano a correlare gli input con gli output, le immagini con le parole, hanno bisogno di migliaia di tentativi per capire che la parola ‘farfalla’ si riferisce a questo oggetto colorato, lì in un angolo dell’immagine... e questo principio di correlazione non consentirà mai di capire parole senza un riferimento fisso, come ‘noi’, ‘sempre’, o ‘odore’” [p. 65].
Una bambina o un bambino possiedono una capacità ipotetica che consente loro di estrarre i significati da un insieme di ipotesi possibili. Ancor prima di imparare le parole, infatti, ogni bambino possiede una sorta di linguaggio della mente con cui può formulare ipotesi anche molto astratte e metterle alla prova. Questo è possibile perché il suo cervello non è un foglio bianco, non è una tabula rasa, e possiede le condizioni per selezionare le molteplicità del mondo, restringendo lo spazio di apprendimento e riconoscendo le parti selezionate.
L’intersoggettività e le relazioni sociali del bambino danno vita a quella che può essere definita “attenzione condivisa” (p. 66), che diventa un principio fondamentale dell’apprendimento. Ogni episodio di apprendimento rafforza quello precedente, e a sua volta facilita l’apprendimento successivo. La selezione peraltro si accompagna a un principio di esclusività che associa una parola a una cosa e un concetto a un fenomeno e solo a quelli.
Un esperimento aiuta a comprendere quello che accade: prendendo due ciotole identiche, una di un blu molto comune e l’altra di un colore insolito, ad esempio il verde oliva, si può dire al bambino: “dammi la scodella crapita”. Il bambino vi darà la ciotola che non è blu (una parola e un colore che già conosce) e, solo qualche settimana dopo, ricorderà che “crapita” si riferisce a questo strano colore. Del resto, antecedenti evolutivi di questa distinzione umana si ritrovano anche in altre specie animali. Stiamo parlando della capacità di usare meta-regole, che sembrano essere alla base della capacità di apprendere.
È ancora una volta, come si può facilmente intuire, il dibattito tra innato e acquisito, il punto di partenza di ogni ragionamento sull’apprendimento. Oggi abbiamo notevoli risultati di ricerca per riconoscere che forse, tra innato e acquisito, abbiamo sottostimato entrambi. “L’apprendimento è infinitamente più efficace se si ha a disposizione, da un lato, un vasto spazio delle ipotesi, ovvero un insieme di modelli mentali dotati di una miriade di regolazioni tra cui scegliere; e, dall’altro, una serie di algoritmi sofisticati per regolare i loro parametri in base ai dati ricevuti dal mondo esterno” (p. 81).
Vi è una caratteristica che attraversa tutto il testo di Dehaene e che corrisponde all’importante cambio di paradigma in corso in questi anni sui temi relativi al cervello, alla mente e all’apprendimento. Quella caratteristica riguarda la progressiva affermazione del paradigma corporeo e della centralità del movimento per comprendere i nostri comportamenti e la nostra conoscenza. La rilevanza del corpo e del sistema sensorimotorio hanno dato vita al progressivo riconoscimento del cosiddetto “paradigma motorio”, che assume che la mente sia sostanzialmente radicata nella corporeità e nella capacità di movimento di un organismo.
Si tratta di un paradigma con particolari valenze innovative, frutto di risultati sperimentali e in grado di proporre un approccio naturale e non normativo allo studio della mente e dell’apprendimento. Laddove i tradizionali assunti della “teoria della mente” proponevano una concezione tradizionale delle funzioni cognitive, basate classicamente su un presunto susseguirsi di sensazione, percezione e rappresentazioni mentali, tende ad affermarsi sperimentalmente la prospettiva dell’embodied cognition, della cognizione incarnata. In base a questo orientamento teorico non c’è separazione sostanziale tra percezione e azione, tra afferenza sensoriale ed efferenza motoria; il cervello non è un semplice recettore di informazioni e un produttore di risposte in un organismo staccato dall’ambiente, ma funziona in base al riconoscimento, all’interno di una prospettiva teorica biologica integrata, dunque ecologica e complessa, dell’intimo nesso tra percezione e azione.
Tutto tende, quindi, per comprendere cosa significa essere umani, a considerare la rilevanza di ciò che ci precede, di quanto nella filogenesi e nell’intersoggettività viene prima dell’individuazione e la rende possibile. Si sta così producendo una nuova immagine dell’essere umano, che ne individui le radici genetiche ben al di sotto e ben prima della coscienza e della volontà.
Come sostiene Carmela Morabito, in Il motore della mente. Il movimento nella storia delle scienze cognitive [Laterza, Roma-Bari 2020], vi è una tensione costante della ricerca verso un al di sotto, e un prima, che fa da elemento propulsore che spinge l’analisi nel corso del tempo nella direzione di un obiettivo convergente: individuare le basi neurobiologiche della mente. Sappiamo oggi che veniamo al mondo dotati di un vasto insieme di combinazioni di pensieri potenziali. “Questo linguaggio del pensiero, che è munito di primitivi astratti e regole grammaticali, precede l’apprendimento” (S. Dehaene, p. 82).
L’attività mentale è concepita in funzione della produzione dell’azione e la mente che ne emerge è incorporata: è basata sulla natura biologica, dinamica, storica dell’organismo che la esprime. Si capovolge la concezione tradizionale, logico-astratta, dello sviluppo della mente e del comportamento, proponendo una concezione organicamente integrata nell’interazione globale dell’organismo col suo ambiente: una prospettiva coevolutiva. “La mente è intrinsecamente un sistema motorio: il pensiero, la memoria, la conoscenza, la percezione, la coscienza, la motivazione, il significato, tutte le funzioni mentali nel loro complesso, affondano le radici in abilità motorie costruttive specie-specifiche” (Morabito, p. 6).
L’incarnazione della mente (embodiment) è basata su una concezione corporea che pone al centro il movimento, per cui nel modello motorio si può forse individuare una via teorica al superamento della contrapposizione dicotomica tra soggetto e oggetto, tra mente e mondo. L’azione e non la rappresentazione è all’origine della cognizione. A partire dal sapere invisibile, quel vasto insieme di combinazioni di pensieri potenziali con cui veniamo al mondo, disponiamo di un linguaggio del pensiero che è dotato di primitivi astratti e regole grammaticali che precedono l’apprendimento. Importanti ed efficaci esperimenti hanno mostrato che, lungi dall’essere una tabula rasa, il bambino possiede un sapere ampio in molti campi. Tant’è vero che quando è sottoposto a delle situazioni che violano le regole di uno dei domini del sapere di cui dispone, il bambino si sorprende, rivelando la sofisticata visione del mondo che egli possiede. Disponiamo fin da piccoli e per tutta la vita di una particolare attitudine sperimentale che continua, evolvendosi. “Se queste situazioni ci piacciono”, scrive Dehaene, “è perché violano le intuizioni che tutti abbiamo sin dalla nascita e che abbiamo perfezionato nel primo anno della nostra vita” (Dehaene, p. 87).
Le abbiamo perfezionate sulla base di una dotazione filogenetica disponibile fin dalla fase prenatale e perinatale. Del resto, fino a poco tempo fa, eravamo erroneamente convinti che un neonato non sapesse nulla di matematica. Oggi siamo in grado di mostrare come un bambino, fin dalla nascita, ha la capacità di riconoscere un numero approssimativo, in maniera intuitiva, senza sapere come contare, cogliendo la cardinalità dell’insieme, indipendentemente dal fatto che l’informazione provenga dall’udito o dalla vista. Ancora una volta verifichiamo che non esiste una tabula rasa e che “i neonati percepiscono i numeri già dopo poche ore dalla nascita - e così anche le scimmie, i piccioni, i corvi, le salamandre, i pulcini e persino i pesci” (Dehaene, p. 89).
Nel pulcino, ad esempio, gli scienziati come Giorgio Vallortigara e colleghi hanno controllato tutti gli input sensoriali fin dalla schiusa dell’uovo: il piccolo pulcino non ha visto neppure un singolo oggetto, eppure è in grado di comprendere l’organizzazione dei numeri (Rugani R., Vallortigara G., Priftis K., Regolin L., Animal cognition. Number space-mapping in the newborn chick resembles humans’ mental number line, Science 347, 6221, 2015, pp. 534-536). I risultati della ricerca falsificano alcune delle principali convinzioni e teorie sullo sviluppo infantile, come l’ipotesi di Jean Piaget, che riteneva che i bambini ignorassero la cosiddetta “permanenza dell’oggetto” (il fatto che un oggetto continui ad esistere anche quando non lo vediamo più) fino al primo anno di vita, o che il concetto di numero i bambini lo astraessero lentamente solo dopo alcuni anni dalla nascita.
Verifichiamo oggi che è vero il contrario: i concetti di oggetto e numero sono dei primitivi del pensiero, fanno cioè parte del nucleo di conoscenze con cui veniamo al mondo, ed è combinandoli e ricombinandoli che possiamo formulare pensieri più complessi. Lo stesso vale per le inferenze probabilistiche complesse che, fin dalla nascita, si avvalgono di una logica intuitiva disponibile. Anche la distinzione tra oggetti e soggetti, tra entità il cui movimento è causato dall’esterno, e animali e persone il cui movimento è motivato dall’interno, è evidentemente disponibile fin dai primi mesi di vita. Così come è precoce e, sembra, addirittura prenatale, la capacità di percezione dei volti.
Non solo un neonato con poche ore di vita si gira più velocemente verso una faccina che verso un’immagine simile i cui elementi siano stati capovolti, ma, usando una luce per proiettare uno stimolo attraverso la parete dell’utero si scopre che tre punti disposti a forma di faccia attraggono il feto più di tre punti disposti a piramide. “Il riconoscimento del volto sembra iniziare in utero” (Reid V. M., Dunn K., Young R. J., Amu J., Donovan T., Reissland N., The human fetus preferentially engages with face-like visual stimuli, Current Biology, 27, 12, 2017; pp. 1825 - 1828).
A proposito di quello che Dehaene chiama il “dono delle lingue”, il sapere invisibile di cui siamo dotati fin dalle nostre origini prenatali raggiunge uno dei vertici principali e distintivi: “Quando spegne la sua prima candelina”, scrive l’autore, il bambino “ha già posto le basi delle principali regole della sua lingua materna, e questo a tutti i livelli, a partire dai suoni elementari (i fonemi), fino alla melodia (la prosodia), passando per il vocabolario (lessico mentale) e le regole grammaticali (la sintassi)” (p. 98). Constatando quello che è accaduto nella ricerca negli ultimi venti anni circa, è difficile astenersi dalla tentazione di parlare di rivoluzione. Il cervello del neonato era una vera e propria terra incognita ed era considerato vuoto, anche se già nel 1940 Gaston Bachelard aveva scritto, in La filosofia del vuoto, che “il bambino nasce con un cervello incompleto e non, come affermava il postulato dell’antica pedagogia, con un cervello vuoto”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MATEMATICA: I "BASTONI DI ISHANGO". --- "Imparare - Il talento del cervello, la sfida delle macchine" (Stanislas Dehaene)
Federico La Sala
Colin Ward, manifesto per un’educazione felicemente anarchica
di Matteo Moca (Alfabeta-2, 24 GIUGNO 2018)
Se la famiglia e la scuola sono da sempre considerati come gli ambienti dove in maniera più naturale e compiuta i bambini possono ricevere un’educazione e crescere positivamente, da tempo certi indirizzi pedagogici sembrano tendere verso un’altra strada, quella che vede nell’educazione diffusa in tutti gli spazi, soprattutto quelli della città, un’occasione irripetibile di confronto e crescita.
Si tratta di quello che viene chiamato solitamente un sistema formativo integrato e di cui, seppur senza dargli questo nome, parla anche Gianni Rodari nella sua Scuola della fantasia, quando scrive che «quello che i bambini imparano a scuola rappresenta la centesima parte di quello che imparano dai genitori, dai parenti, dagli amici, dall’ambiente fisico e sociale in cui crescono, dalle strade, dalla televisione, dai giochi, dagli oggetti, da tutto e da tutti» e insiste sul necessario abbandono degli schemi precostituiti perché «un bambino, ogni bambino bisognerebbe accettarlo come un fatto nuovo, con il quale il mondo ricomincia ogni volta da capo».
Colin Ward, nei saggi che compongono il nuovo volume edito da Eleuthera, L’educazione incidentale, prosegue con grande forza teorica e pratica in questa direzione, analizzando come gli spazi altri custodiscano luoghi di relazioni vitali e di sperimentazioni uniche, in quanto, come scrive Francesco Codello nella sua ricca e approfondita Introduzione, «per Ward ogni angolo della città è un’aula scolastica, ogni occasione è propizia a stimolare l’autonomia e la partecipazione diretta alla vita sociale». Quest’ultimo aspetto, relativo all’educazione come partecipazione alla vita sociale, risulta fondamentale: in un libro molto prezioso, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, edito da Baskerville, il sociologo Dennis De Kerckhove, scrive di come la crescita e l’educazione si arricchiscano con la partecipazione alla vita della città, perché essa «richiede tra i suoi appartenenti l’accordo sui tempi, sui valori, sulle norme di comportamento pubblico», costruendo solo così una «repubblica-città» basata sulla sintonia e la socialità.
L’educazione incidentale mette insieme dunque alcuni tra i momenti di riflessioni più importanti di Ward sull’educazione; ogni parte del libro è arricchita da una preziosa appendice di Codello che permette di situare il testo all’interno dell’opera di Ward, dà l’opportunità di approfondire gli argomenti trattati e riflette amaramente sulla situazione attuale.
L’aggettivo «incidentale» specifica il carattere più profondo di questi saggi - un’idea debitrice di quella formulata da Paul Goodman, altro grande educatore, sociologo e scrittore, tra i massimi e più onesti conoscitori della Gioventù assurda - che vedono Ward ribaltare la prospettiva comune che individua nella scuola e nella famiglia gli unici luoghi deputati all’educazione: «La scuola è diventata uno degli strumenti con cui gli adolescenti vengono esclusi dalle responsabilità e dalle attività reali nella vita come nella società» scrive Ward. I luoghi dove è possibile dunque imparare e crescere in comunità sono, secondo le parole dell’introduzione di Codello, «le strade della città, i prati e i boschi della campagna, gli spazi deputati al gioco (più o meno strutturato), gli scuolabus e i bagni delle scuole, i negozi e le botteghe artigiane, [che] non solo offrono opportunità straordinarie per un’educazione informale, ma sono luoghi vivi che si rivelano vitali per imparare».
I contributi raccolti sono, come si sarà inteso, variegati e toccano molte problematiche legate al mondo dell’educazione nonché molti luoghi della città. È sufficiente anche solo scorrere i titoli di alcuni di questi saggi per notare la molteplicità delle questioni, per esempio Un programma scolastico più rurale, dove viene posto un interrogativo ineludibile: «la scuola è una sorta di apprendistato obbligatorio alla vita, ma a che tipo di vita?», La libertà della strada, in cui invece Ward denuncia una società basata sulla mania per la sicurezza, sulle paure del diverso e dello sconosciuto (nell’Appendice Codello confronta questi ragionamenti con i divieti odierni dei bambini di tornare a casa da soli dopo scuola, mettendo in luce una continua privazione di autonomia) o La città come risorsa, saggio in cui sono racchiusi molti motivi ricorrenti della visione della città di Ward, come l’esplorazione dei luoghi urbani, la socialità e gli spazi di esperienza democratica. Uno dei testi è dedicato persino allo scuolabus come luogo di cultura, analizzando il tempo che i bambini passano sul mezzo per raggiungere la scuola, importante perché si tratta di un momento dove la vigilanza degli adulti è assente, e quindi possono sorgere in maniera spontanea questioni e atteggiamenti che da una parte replicano quelli che vedono a casa dai loro genitori e dall’altra invece vivono di una naturalezza e originalità altrimenti difficile.
In un’epoca dominata dai meccanismi gonfi e scricchiolanti dell’unificazione del pensiero e dell’individualismo sfrenato, il pensiero anarchico di Colin Ward brilla come una stella isolata e necessaria: non si tratta di evocare momenti di manifestazioni aggressive o proteste violente, non è questo l’anarchismo per Ward (e prova ne è l’essenziale e indispensabile L’anarchia. Un approccio essenziale, sempre edito da Eleuthera), quanto provare a rifondare il proprio pensiero su ideali libertari, egualitari e solidali, che ritrovano solo in un ideale generoso ed utopico la loro natura più intima, con la ferma e inequivocabile convinzione che, come scriveva pure don Milani, «uscirne da soli è egoismo, uscirne tutti insieme è la politica». Lo scenario in cui l’uomo deve ritrovare il suo movimento è per Ward quello della città, con l’abitazione di tutti i suoi spazi e la spinta alla costruzione di una onesta comunità.
“Le fiabe sono il luogo di tutte le ipotesi”: vita e opere di Gianni Rodari, l’eterno bambino
A 100 anni dalla nascita vogliamo celebrare Gianni Rodari, lo scrittore che, con le sue storie rivolte ai bambini di tutto il mondo, ha rivoluzionato la letteratura per ragazzi, dando voce a luoghi e personaggi che neanche si pensava l’avessero, la voce. Facendo (ri)scoprire a diverse generazioni il piacere della lettura
di Martina Marasco *
L’approfondimento sui libri e la vita dell’autore
A volersi impegnare, forse si può trovare un adulto di oggi che non conosca neanche una filastrocca, una poesia o una favola di Gianni Rodari - ma bisogna impegnarsi parecchio.
A 100 anni dalla sua nascita vogliamo celebrare lo scrittore che, con le sue storie rivolte ai bambini di tutto il mondo, ha rivoluzionato la letteratura per ragazzi, dando voce a luoghi e personaggi che neanche si pensava l’avessero la voce, facendo (ri)scoprire a diverse generazioni il piacere della lettura.
Giovanni Rodari nasce il 20 ottobre 1920 a Omegna, in provincia di Verbano-Cusio-Ossola. Resta in Piemonte fino alla morte del padre, nel 1929, quando si trasferisce a Ranco, un paesino in provincia di Varese sulle sponde del Lago Maggiore. Lì si diploma come maestro a soli 17 anni e inizia a insegnare nella scuola elementare del paese. Resta nel varesotto fino al 1943, quando, durante la seconda guerra mondiale, è costretto a prestare servizio presso l’Ospedale Militare di Baggio.
Nonostante abbia iniziato a pubblicare i suoi libri molto più tardi, gli anni a Varese si manifesteranno più volte nel corso della sua poetica. Basti pensare al celebre incipit di Favole al telefono, “C’era una volta il ragionier Bianchi di Varese”, o ai racconti della signorina Bibiana, alla leggenda del lago di Varese o a parecchie delle sue filastrocche - citiamo, tra le tante, il Terzo indovinello: “Un dottore di Cesena andò a letto senza cena. La domanda impertinente è la seguente: aveva fame perché era un dottore o perché a Cesena non c’è il Lago Maggiore?”.
È nel 1944 che comincia ad avvicinarsi al Partito Comunista e a intraprendere il mestiere che lo accompagnerà per gran parte della sua vita: il giornalista. Dopo la Liberazione, infatti, comincia a lavorare dapprima all’Unità con la rubrica La domenica dei piccoli e poi, nel 1950, si trasferisce a Roma dove fonda, insieme a Dina Rinaldi, il giornale per ragazzi il Pioniere.
L’anno successivo Gianni Rodari è scomunicato. Il Vaticano, infatti, contesta duramente il lavoro dello scrittore, dichiarandolo “un ex-seminarista cristiano diventato diabolico” (in relazione al fatto che, prima dell’insegnamento, la madre lo spinse in seminario) e ordina di bruciare nei cortili degli oratori le copie del Pioniere, e i primi libri di Rodari, come Il libro delle filastrocche (1951) o Il romanzo di Cipollino (1951).
Ma per tornare a leggere Rodari, non bisogna aspettare poi molto: Giulio Einaudi, infatti, pubblica intorno alla metà degli anni ‘50 quelli che sono ancora oggi i suoi capolavori: Filastrocche in cielo e in terra, Favole al telefono, Il pianeta degli alberi di Natale, Il libro degli errori: il successo è immediato, e nel 1970 Rodari è insignito del Premio Andersen.
Nel 1973 viene pubblicato il suo capolavoro pedagogico, l’unico saggio indirizzato non ai bambini, ma agli insegnanti, ai genitori e a coloro che avevano a che fare con i più piccoli: Grammatica della Fantasia; introduzione all’arte di inventare storie.
I temi vengono a galla con facilità: il bisogno di un assoluto laicismo all’interno della scuola, l’importante impronta antifascista, gli ideali pacifisti e la centralità dell’espressione del bambino - un aneddoto vuole che i primi editor dei suoi romanzi furono proprio i suoi alunni del varesotto - la libertà di espressione e la morale innecessaria, che lascia al bambino la possibilità di trarre le proprie conclusioni.
Nel 1980 Rodari si fa ricoverare a Roma per un’operazione alla gamba sinistra; quattro giorni dopo, muore a causa collasso cardiaco. Dagli anni ‘80 a oggi i suoi libri sono stati pubblicati in moltissime edizioni, letti e studiati, senza la percezione che le storie narrate siano scritte 70 anni fa.
Forse la potenza dell’autore sta proprio in questo, nella sua capacità di essere attuale dopo tanto tempo, di far emozionare i bambini di oggi e i bambini di ieri nei genitori di oggi, senza risultare obsoleto o fuori luogo, fuori tempo.
Favole al telefono (1962)
“C’era una volta il ragionier Bianchi di Varese. Era un rappresentante di commercio e sei giorni su sette girava l’Italia intera vendendo medicinali. La domenica tornava a casa sua, e il lunedì ripartiva. Ma prima che partisse la sua bambina gli diceva: ‘Mi raccomando, papà: tutte le sere una storia’”.
Così, ogni sera, il ragioniere cercava un telefono a gettoni e chiamava la sua bambina, per raccontarle una storia. Le storie non erano mai troppo lunghe - con quello che costava una telefonata - ma lo erano abbastanza per far addormentare col sorriso tutti i bambini del mondo.
Favole al telefono contiene gioielli di poesia difficili da imitare: uno specchio della sensibilità per cui l’autore è famoso. Un esempio fra tutti, la favola Inventare i numeri.
“Quanto costa questa pasta?”
“Due tirate d’orecchi”.
“Quanto c’è da qui a Milano?”
“Mille chilometri nuovi, un chilometro usato e sette cioccolatini”.
“Quanto pesa una lacrima?”
“Secondo: la lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la Terra”.
Il libro degli errori (1964)
In una lettera a Giulio Bollati, Rodari spiega di aver scritto un libro che raggruppa filastrocche e racconti basati sugli errori di ortografia. L’errore è la materia: l’autore vuole far passare l’errore ideologico nascosto da quello ortografico. C’è un’Itaglia sbaiata nelle antologie scolastiche, e a quindici anni dalla caduta del fascismo i testi sono pieni di realtà da correggere.
L’errore si fa anche portavoce della disubbidienza alle regole, quelle sbagliate, se si vuole davvero cambiare il mondo. Un libro necessario, italianissimo. Dice Rodari: “Gli errori hanno molti richiami regionali: la zeta dei milanesi, le doppie dei meridionali. Un libro molto italiano. Credi che vi possa interessare?”.
Ladro di “erre” può essere un ottimo esempio:
“[...] io non mi meraviglio
che il ponte sia crollato,
perché l’avevano fatto
di cemento “amato”.
Invece doveva essere
“armato”, s’intende,
ma la erre c’è sempre
qualcuno che se la prende.
Il cemento senza erre
(oppure con l’erre moscia)
fa il pilone deboluccio
e l’arcata troppo floscia.
In conclusione, il ponte
è colato a picco,
e il ladro di ‘erre’
è diventato ricco [...]”.
La grammatica della fantasia (1973)
“L’incontro decisivo tra i ragazzi e i libri avviene sui banchi di scuola. Se avviene in una situazione creativa, dove conta la vita e non l’esercizio, ne potrà sorgere quel gusto della lettura col quale non si nasce perché non è un istinto. Se avviene in una situazione burocratica, se il libro sarà mortificato a strumento di esercitazioni (copiature, riassunti, analisi grammaticale eccetera), soffocato dal meccanismo tradizionale: “interrogazione-giudizio”, ne potrà nascere la tecnica nella lettura, ma non il gusto. I ragazzi sapranno leggere, ma leggeranno solo se obbligati”.
Pubblicato nel 1973, La grammatica della fantasia è la summa di una serie di lezioni che Gianni Rodari aveva tenuto, nel 1972, a maestri, genitori, educatori nella città di Reggio Emilia. Unica opera saggistica, come suggerisce il sottotitolo Introduzione all’arte di inventare storie, La grammatica della fantasia si propone di insegnare agli adulti e ai bambini come leggere, scrivere e raccontare storie, imparando a sfruttare il mezzo più importante che abbiamo, ossia la parola, senza dimenticarsi della fantasia, che dovrebbe essere necessaria nell’educazione. Parafrasando le parole dello stesso Rodari, il valore della liberazione che può avere la parola è fondamentale per tutti; non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.
Le filastrocche
Il libro delle filastrocche (1950), Il treno delle filastrocche (1952), Filastrocche in cielo e in terra (1960), Filastrocche del cavallo parlante (1970), La filastrocca di Pinocchio (1974); postume, Filastrocche lunghe e corte (1981), Il secondo libro delle filastrocche (1985), Filastrocche per tutto l’anno (1986). Le filastrocche di Rodari sanciscono la sua celebrità, vengono lette nelle scuole, fatte imparare a memoria. Ci sono le Favole al rovescio, col lupo che scappa da Cappuccetto Rosso o la Bella Addormentata che non dorme; ci sono pellerossa che vanno a trovare Gesù bambino nel Presepe, scuole in cui, sui banchi, ci sono i grandi e non i piccini, pani così grandi che saziano tutto il mondo, c’è Napoli senza sole, ci sono l’ago, l’ama, Don Chisciotte e persino il Re Sole. Tra le tante, tantissime, ne vogliamo riportare una delle più significative; si intitola Promemoria.
Promemoria
“Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola,
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra”.
* Il Libraio, 27.01.2020 (ripresa parziale - senza immagini).
Blended learning, con i nativi digitali la scuola sposa la tecnologia
I benefici del metodo misto come nuova forma di apprendimento scolastico
di Redazione ANSA *
Il panorama educativo dei nativi digitali è piuttosto diverso rispetto alle generazioni immediatamente precedenti: la tecnologia ha cambiato in maniera radicale il sistema. Basti pensare che, secondo una recente indagine dell’American Health Association pubblicata sul portale della CNN, il 42% dei bambini al di sotto dei nove anni trascorre in media tre ore al giorno davanti allo schermo. Dato che si ripercuote sullo scarso tasso di attenzione in aula dal momento che, secondo una ricerca pubblicata su USA Today, il 67% dei bambini di fascia di età compresa tra i 6 e i 10 anni fa fatica a concentrarsi.
Cosa bisognerebbe fare per renderli più partecipi durante le lezioni in classe? Gli esperti consigliano di utilizzare la tecnica del “blended learning”, apprendimento ibrido con un mix di ambienti diversi: combina il metodo tradizionale frontale in aula con attività mediata dal computer (ad esempio e-learning, uso di DVD, ecc.) e/o da sistemi mobili (come smartphone e tablet). Come riporta Forbes, rappresenta il principale trend educativo del 2020.
Ma quali sono i benefici del blended learning per i più piccoli? Aumenta l’interazione con i docenti, rende l’istruzione più accessibile, stimola la loro creatività e li prepara a un futuro digitale. “La giusta sinergia tra lezioni frontali e l’impiego di dispositivi tecnologici aiuta i bambini a essere più attivi e partecipi in classe - spiega Eva Balducchi, co-fondatrice di Baby e Junior College - Per questa ragione nella nostra scuola adoperiamo lavagne interattive touchscreen, tablet, microscopi digitali e computer come strumenti per stimolare la curiosità dei più piccoli, avvicinandoli non solo ad un approccio ludico, ma di utilizzo funzionale alle attività didattiche, cercando di sviluppare in loro anche uno spirito critico dello strumento così che ne limitino l’uso passivo. La tecnologia mette a disposizione strumenti utili per studiare e promuovere apprendimenti significativi attraverso l’attenta guida dei nostri docenti, esperti in campo pedagogico”.
Ma non è tutto, secondo una ricerca pubblicata su Psychology Today l’utilizzo di dispositivi tecnologici in classe migliora il rendimento scolastico degli studenti e li aiuta a essere più responsabili. E ancora, un’indagine della University of Michigan, pubblicata sulla CBS, afferma che il 62% dei docenti ritiene che il blended learning possa aiutare a colmare il gap digitale e a migliorare le lezioni. Mettere in pratica questa nuova forma di apprendimento, dunque, comporta un’evoluzione radicale del modo in cui docenti e partecipanti affrontano l’esperienza formativa.
Pensiero condiviso da Mariarosa Porro, pedagogista: “L’utilizzo di nuove tecnologie in aula permette di realizzare simulazioni, reperire informazioni da fonti diverse e confrontarle tra loro, scrivere testi a più mani in modo cooperativo, guardare video tutorial e svolgere esercizi interattivi. Sono tutte esperienze formative che prevedono un coinvolgimento attivo da parte degli alunni, utilizzando strumenti a loro familiari, e stimola la loro creatività. In questo modo la tecnologia diventa una risorsa aggiuntiva che integra nel progetto educativo e formativo quanto una volta era rappresentato dal semplice spazio e dai materiali utilizzati nel gioco scolastico”.
Ecco infine i benefici del “Blended Learning” come nuova forma di apprendimento scolastico:
Aumenta l’interazione tra docenti e studenti: l’utilizzo di strumenti tecnologici permette a entrambe le parti di comunicare in maniera più immediata ed efficace.
Migliora il tasso di concentrazione dei ragazzi: gli studenti riescono a immergersi totalmente nella lezione, partecipando in maniera attiva.
Rende l’istruzione più accessibile: i materiali didattici sono accessibili in qualunque momento anche da casa.
Stimola la creatività e rende gli studenti più responsabili: gli strumenti tecnologici permettono di tener conto del percorso formativo, gestendolo in maniera personalizzata.
Migliora il rendimento scolastico: gli studenti sono più invogliati allo studio delle materie e alla scoperta di novità da imparare.
SCIENZA, STORIA E SOCIETA’: “DOPO DEWEY. Il processo di apprendimento nelle due culture”.... *
Neuroscienze
Imparare, una bambinata
L’istruzione è il principale acceleratore del nostro cervello ma per potenziare le capacità di apprendimento bisogna cominciare da piccoli
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, 21.01.2020)
Si dice che le conoscenze neurobiologiche sarebbero state o sarebbero irrilevanti per insegnare a pensare meglio. Allora il governo francese avrebbe sbagliato a mettere un neuroscienziato, Stanislas Dehaene, a capo del Consiglio Scientifico dell’Istruzione Nazionale (CSEN), insediatosi il 10 gennaio 2018 quale organo consultivo alle dirette dipendenze del ministro dell’istruzione?
Formato da esperti a titolo volontario di diverse discipline, il consiglio analizza i cambiamenti nella domanda di istruzione e promuove la ricerca e l’uso della scienza (la scienza, non le chiacchiere!) per migliorare o potenziate le strategie educative. In realtà, pedagogisti e psicologi hanno dei pregiudizi verso le neuroscienze, in Francia come in Italia.
Titolare della cattedra di psicologia cognitiva sperimentale dal 2005 e membro dell’Académie des sciences, egli dirige l’unità di neuroimmagini dell’infrastruttura NeuroSpin (CEA de Saclay) dove dal 19 luglio scorso è in funzione il più potente scanner al mondo per l’imaging cerebrale (11,7 tesla per in costo di 50 milioni di euro): per investimenti nella ricerca e nella cultura scientifica siamo anni luce dietro alla Francia, che con livelli di analfabetismo funzionale metà dei nostri sta conducendo una capillare azione di potenziamento dell’istruzione.
Nell’ultimo libro, Dehaene riprende i temi trattati nei corsi tenuti in anni recenti al College de France, ed è grosso modo organizzato in due parti: una dedicata alle conoscenze sperimentali e teoriche sulle basi neurobiologiche dell’apprendimento, e la seconda che spiega i quattro pilastri che consentono di imparare. Si apre con il caso di Felipe, un bambino brasiliano che dall’età di 4 anni è paralizzato e cieco, a causa di un proiettile vagante che gli entrava nel midollo spinale. Dopo 3 anni, parla correntemente portoghese, inglese e spagnolo, scrive racconti usando un dispositivo digitale ed è curioso di tutto. E’ un esempio della straordinaria plasticità del cervello umano, che impara anche quando è parzialmente distrutto.
Contrariamente a quanto pensano gli empiristi, dice Dehaene, il cervello non è una tabula rasa su cui verrebbero vergate le informazioni ambientali. L’evoluzione, di per sé, impara attraverso la selezione naturale e immagazzina conoscenze sull’ambiente nel genoma, ma ha scoperto o inventato «i mezzi per adattarsi il più rapidamente possibile a condizioni imprevedibili». I bambini, per esempi, sanno gestire le probabilità dalla nascita, il che gradualmente consente loro di rifiutare false assunzioni e conservare ciò che funziona.
Dehaene è fautore della teoria del cervello bayesiano, per cui saremmo statistici innati, individuando regolarità ed eccezioni nell’ambiente, per imparare nuove lezioni: il cervello combina in modo quasi ottimale le conoscenze individuali e collettive acquisite durante l’evoluzione umana con dati in arrivo dal mondo esterno. La teoria bayesiana sarebbe la soluzione all’antico dilemma dell’empirismo contro nativismo/razionalismo: l’apprendimento delle lingue, il riconoscimento delle parole, la teoria della mente, etc. possono anche essere descritte e spiegate come inferenze bayesiane.
Leggere e calcolare, attività ignorate dai nostri antenati e dai primati, procedono riciclando funzioni più antiche messe al servizio di nuove abilità attraverso la plasticità cerebrale. Questa plasticità è limitata da vincoli genetici e dovuti allo sviluppo. Nel cervello di un bambino piccolo, l’apprendimento si traduce nella proliferazione di neuroni e connessioni sinaptiche, alcune delle quali scompaiono se non utilizzate. Quando spegne la prima candelina, il cucciolo umano ha già fatto proprie le regole principali della lingua madre: fonemi, prosodia, lessico mentale e sintassi. Ecco perché i bambini nati in un ambiente bilingue o trilingue si impadroniscono facilmente di queste lingue. Il periodo più «sensibile», quello in cui apprendiamo di più, raggiunge il picco nella prima infanzia. Con l’età impariamo sempre meno facilmente, con velocità che dipendono dalle facoltà e dalla dotazione genetica: mentre le abilità fonologiche diminuiscono drasticamente dopo 12 mesi, quelle grammaticali e lessicali sono aperte fino all’adolescenza e, in misura minore, per tutta la vita.
L’invenzione della scuola ha permesso alla specie di moltiplicare le notevoli capacità di apprendimento. L’istruzione è «il principale acceleratore del nostro cervello», afferma Dehaene, che raccomanda di investire massicciamente nella scuola materna e nell’istruzione primaria se si vuole continuare a vivere in una società liberale e all’altezza delle sfide. Nella capacità di apprendimento sono coinvolti quattro meccanismi essenziali: l’attenzione, che seleziona le informazioni su cui si ci si focalizza; l’impegno attivo o motivazione ad imparare, che incoraggia la formulazione di nuove ipotesi; il ritorno sugli errori, che consente di correggere le nostre false rappresentazioni; e il consolidamento, che memorizza le informazioni a lungo termine, specialmente durante il sonno.
Per Dehaene il cervello umano è ancora superiore alla intelligenza artificiale. Gli algoritmi convenzionali di deep learning sarebbero solo un’imitazione del funzionamento di alcuni circuiti cerebrali, che corrispondono all’incirca alle prime fasi dell’elaborazione sensoriale, in cui il cervello opera in modo inconscio. È in una seconda fase, molto più lenta, consapevole e ponderata, che il nostro cervello dispiega il ragionamento, l’inferenza, la flessibilità, etc. Qui l’intelligenza artificiale non può ancora competere. Dehaene è titubante sull’impatto sociale e culturale dell’intelligenza artificiale, come si evince anche dall’ultimo capitolo dello stimolante dialogo, pubblicato circa un anno fa, con l’esperto di AI e vicepresidente di Facebook Yann LeCun, molto più ottimista di lui, nel libro La plus belle histoire de l’intelligence (Robert Laffont, 2018)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MATEMATICA: I "BASTONI DI ISHANGO". In Africa, in Congo, le origini dei numeri? Convegno a Bruxelles
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!!
Federico La Sala
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Libri sotto l’albero.
Gianni Rodari e i cento modi di dire il Natale ai più piccoli
Una selezione di titoli da regalare ai bambini, partendo dal grande autore del quale ricorre il centenario della nascita
di Rossana Sisti (Avvenire, sabato 7 dicembre 2019)
Impossibile quest’anno per parlare di strenne non partire dal centenario della nascita di Gianni Rodari. Omaggio d’occasione questo prezioso volume Cento Gianni Rodari (Einaudi Ragazzi, pagine 296, euro 20) che raccoglie cento tavole realizzate da cento tra i migliori illustratori al mondo, ciascuno dei quali ha scelto la propria favola o la filastrocca di Rodari preferita.
Edizione speciale anche per un altro anniversario: i trent’anni dalla prima edizione di Matilde (Salani, pagine 224, euro 15,90), la bambina straordinaria che adora i libri nata dalla fantasia di Roald Dahl, che lui stesso considerava una smaccata propaganda per la lettura. Un successo da 17 milioni di copie in tutto il mondo. Per l’occasione Quentin Blake geniale illustratore di tutti li libri di Dahl ha disegnato una nuova copertina, immaginando Matilde trentenne direttrice nientemeno che della Brithish Library.
Altra delizia per gli occhi, La villa delle meraviglie ( Terre di mezzo, pagine 48, euro 20) un albo scenografico realizzato da Cléa Dieudonné con un formato particolarissimo: due libri appaiati sotto un’unica copertina che si sfogliano contemporaneamente e in cui le pagine si aprono come porte alla vista delle giovane Flora sui saloni delle feste stratosferiche, le cucine, le stanze e le serre della vecchia zia Violetta. Con tanti personaggi da inseguire e dettagli da scoprire.
Dalla penna sempre felice di Michael Morpurgo l’emozionante lettera-testamento di un nonno alla nipotina con cui ha condiviso i lavori dell’orto e del giardino perché si prenda cura come potrà del Pianeta. Nonno Natale ( Jaca Book, pagine 48, euro 14) è uno speciale lungo augurio affinché le generazioni future possano vivere in un mondo più in salute di quello che hanno ricevuto in eredità dai loro padri.
Venato della consueta nostalgia che permea nonostante la vivacità delle tavole la poetica di Jimmy Liao, ecco un altro degli albi strepitosi dell’illustratore taiwanese, La pietra blu (Camelozampa, pagine 148, euro 20), una favola dal sapore ambientalista che racconta il viaggio di una pietra portata via dalla foresta, lavorata e trasformata, mai appagata delle sue forme e sempre tormentata dalla nostalgia di casa. Una metafora dell’appartenenza e delle ferite inferte alla natura. In concomitanza con l’uscita del film trasposizione animata del romanzo di Dino Buzzati, la possibilità anche per i più piccoli di leggere la fiaba della guerra scatenata da Leonzio re degli orsi alla ricerca del figlio Tonio rapito dai cacciatori, ovvero La famosa invasione degli orsi in Sicilia ( Mondadori, pagine 48, euro 16) rivisitata dalle tavole fantastiche di Lorenzo Mattotti.
Tante voci in preghiera da tutto il mondo sono quelle che Silvia Vecchini ha raccolto Nel silenzio azzurro (San Paolo, pagine 120; euro 18), un libro per ragazzi che anche gli adulti apprezzeranno. Voci che chiedono protezione e nutrimento, perdono, esprimono meraviglia, ringraziamento e gratitudine, invocano pace e unità. Tutte con l’uguale tensione di un’umanità in ricerca che vive le stesse speranze sotto lo stesso cielo.
Tra i libri infine da mettere sotto l’albero per i più piccoli non può mancare la storia vera del Natale a Betlemme. Attraverso le tenere illustrazioni di Elena Selivanova Era la notte di Natale (Paoline, pagine 36, euro 12) accompagna i lettori davanti alla stalla dove due sposi arrivati da lontano adagiano il Bimbo destinato a portare speranza nel mondo. E dove, guidati dalla grande stella si radunano pastori, gente comune, re e sapienti.
’100 Gianni Rodari’, parte la festa per centenario 2020
Mostre, nuove edizioni e Freccia Azzurra introdotta da Marcorè
di Mauretta Capuano *
ROMA. Storie, filastrocche, articoli di approfondimento, materiali scaricabili per insegnanti, poster stampabili, quiz e tanto altro per un anniversario speciale che, proprio per questo, prende il via un anno prima con protagonista assoluta la fantasia. E’ quello per i cent’anni dalla nascita di Gianni Rodari che si festeggiano il 23 ottobre 2020. Ma tra pochi giorni, proprio il 23 ottobre, parte il countdown in vista delle celebrazioni su www.100giannirodari.com, scandito da nuove pubblicazioni e iniziative.
Gli eventi sono nel segno di quello che Rodari - vincitore nel 1970 del Premio Hans Christian Andersen, considerato il Nobel della letteratura per l’infanzia - auspicava: "Tutti gli usi della parola a tutti", non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo. A inaugurare ’100 Gianni Rodari’ (#100giannirodari) sono le Edizioni EL, Einaudi Ragazzi, Emme Edizioni che, in quanto editori unici dell’opera del Maestro della Fantasia - nato a Omegna, sul Lago d’Orta, il 23 ottobre 1920 e morto a Roma il 14 aprile 1980 - hanno messo in cantiere una serie di nuove, preziose edizioni e mostre dei migliori artisti che hanno illustrato i libri dell’autore di ’Grammatica della fantasia’, in allestimento in Italia e all’estero, con partner come la Fiera di Bologna e gli Istituti di cultura italiana nel mondo.
Tra i primi titoli ad arrivare in libreria, il 5 novembre, ’Cento Gianni Rodari - Cento storie e filastrocche - Cento illustratori’ (Einaudi Ragazzi), per i bambini dai 6 anni, che raccoglie cento tavole realizzate da alcuni tra i migliori illustratori al mondo che hanno scelto ognuno la propria favola o filastrocca di Rodari preferita, in omaggio al più grande autore italiano per ragazzi, E poi la strabiliante avventura del trenino più amato d’Italia, ’La Freccia Azzurra’ (Einaudi Ragazzi), con l’inedita introduzione di Neri Marcorè, tra i grandi fan di questa moderna fiaba sull’amicizia e la solidarietà diventata anche un film d’animazione, e le nuove illustrazioni per il centenario di Camilla Pintonato.
Sono da poco arrivati in libreria anche gli albi, dai 4 anni, ’L’omino di niente’ (Emme Edizioni), tratto da ’Favole al telefono’, pubblicato per la prima volta nel 1962, con illustrazioni di Olimpia Zagnoli, e ’Bambini e Bambole’ (Emme Edizioni), la filastrocca tratta da ’Il libro degli errori’, dove troviamo il Rodari politico e poeta, con le nuove illustrazioni di Gaia Stella.
Alla Fiera Internazionale del Libro per Ragazzi di Bologna 2020, che sarà un po’ tutta nel segno di Rodari, la mostra delle "Eccellenze italiane" sarà dedicata ai 21 migliori illustratori italiani di rilevanza internazionale che hanno illustrato Rodari, tra i quali spiccano Bruno Munari, Emanuele Luzzati, fino ai più recenti Manuele Fior, Beatrice Alemagna e le stesse Gaia Stella e Olimpia Zagnoli. La mostra, che ha appena iniziato a fare il giro del mondo grazie agli Istituti di cultura italiana all’estero, ha recentemente fatto tappa a Portland ed entro dicembre sarà a San Francisco.
Nello speciale calendario di ’100 Gianni Rodari’, oltre a questi eventi hanno preso avvio letture, seminari e rappresentazioni teatrali ispirati all’opera del poeta e scrittore che ci ha insegnato che la fantasia rende liberi, su iniziativa di privati, associazioni, enti, festival. Tutti verranno segnalati sul sito che vuol essere un dinamico punto di riferimento. ’100 Gianni Rodari’, spiegano i promotori dell’iniziativa, "è anche un’esortazione: a moltiplicare per 100 la circolazione delle sue storie, a celebrare e diffondere i contenuti rivoluzionari della sua poetica, a formare una nuova generazione di piccoli, appassionati lettori tramite i suoi libri divertenti e profondi: ’Favole al telefono’, ’Filastrocche in cielo e in terra’, ’Fiabe lunghe un sorriso’, ’Il libro degli errori’, ’Le avventure di Cipollino’, ’C’era due volte il Barone Lamberto’".
Insegnante elementare per alcuni anni, Rodari è stato anche giornalista fra l’altro per ’L’Unità’, il ’Pioniere’ e ’Paese Sera’ e ha cominciato a pubblicare i suoi libri per ragazzi a partire dagli anni Cinquanta, ottenendo subito un enorme successo di pubblico e critica con traduzioni in tutto il mondo. Dagli appunti raccolti in una serie di incontri nelle scuole, ha visto la luce, nel 1973, ’Grammatica della fantasia’, diventata immediatamente un punto di riferimento.
* FONTE: ANSA, 09.12.2019
Intelligenza artificiale e apprendimento automatico
di Pierluigi Contucci (Il Mulino, 21 novembre 2018)
Le foto di nostro figlio, della nonna e anche quelle in cui compare il gatto della nonna, o quelle dove compaiono gatti qualsiasi, le foto dei monumenti, quelle della spiaggia, tutte classificate e raggruppate nel nostro smartphone: non è un umano sottopagato di qualche Paese del terzo mondo che con pazienza certosina le ha ordinate, ma è il frutto di processi automatici che imparano da esempi e sono in grado di riconoscere le facce, gli animali e le cose. Questo è solo uno dei tantissimi prodotti dell’intelligenza artificiale, un insieme di tecniche e metodi informatici che, sintetizzando informazioni dai dati che vengono loro forniti, permettono ai calcolatori di apprendere.
Anche per coloro che conoscono i meccanismi alla base di questi metodi è impossibile non stupirsi osservando la loro prodigiosa efficacia. Per tutti gli altri questo stupore ha verosimilmente la stessa natura di quelloprovocato dalle prime carrozze senza cavalli. A differenza di allora, tuttavia, questa tecnologia si sta diffondendo in modo volutamente più silenzioso e con velocità e capillarità tali da non lasciare quasi il tempo di rendersene conto.
Le idee da cui è scaturito l’apprendimento automatico sono state introdotte alla fine degli anni Cinquanta. Da allora, attraverso un interesse altalenante, sono state introdotte nuove e brillanti soluzioni tecniche, tra cui il cosiddetto apprendimento profondo, che è una di quelle a più alto impatto. Chiaramente sono stati la velocità dei nuovi processori e l’abbondanza di dati a disposizione a favorire l’accelerazione e il boom dei nostri giorni. Dal punto di vista ingegneristico, la struttura di queste nuove macchine si basa su reti ispirate al cervello umano. L’analogia tuttavia va presa con cautela e, in ogni caso, non è più significativa di quella che esiste tra il volo degli uccelli e quello degli aerei che, come sappiamo, non è molto illuminante.
In questa sede può essere utile riflettere, più che sugli aspetti tecnici, sulle eventuali implicazioni che l’arrivo di questa rivoluzione avrà per noi e per il nostro Paese, perché di rivoluzione si tratta - che ci piaccia o meno - e dovremo affrontarla.
La rivoluzione industriale è scaturita dalla capacità di produrre e di trasformare energia, di usarla e di trasportarla in modo sempre più efficiente. Essa si è nutrita e ha nutrito la scienza dell’epoca, in particolare la termodinamica e l’elettromagnetismo. Durante il suo sviluppo, il consumo giornaliero pro capite di energia, che prima era aumentato lentamente, nel tempo ha subito una crescita vertiginosa con tutte le conseguenze che conosciamo. Tra esse c’è certamente il miglior tenore di vita della nostra storia, ma anche trasformazioni epocali - non sempre indolori - avvenute nei periodi transienti e dovute a stravolgimenti e squilibri di risorse e di potere.
La rivoluzione scientifica che stiamo vivendo ora è la più recente fase acceleratoria della rivoluzione digitale. Ora le machine apprendono, cioè sono in grado di sintetizzare informazioni autonomamente, mentre prima questa facoltà era riservata all’uomo e i calcolatori, inclusi i più potenti, avevano solo il compito di elaborare dati secondo regole che venivano esplicitamente date.
La sintesi di informazione pro capite ha iniziato la sua fase di crescita esponenziale. I centri di raccolta dati dei giganti dell’informatica e le macchine che elaborano e digeriscono quei dati - apprendendo da essi - sono da paragonare alle prime grandi centrali della storia moderna dove il carbone veniva digerito in energia. La sintesi di informazione ha quindi affiancato la produzione e la trasformazione di energia nella leadership tecnologica. Per apprezzare appieno la dimensione del parallelo basti osservare che Apple e Amazon valgono insieme quanto le prime dieci compagnie di petrolio del mondo.
Di fronte a tutto ciò sorgono una moltitudine di reazioni e quesiti. Dalla paura verso qualcosa di umanoide fino a preoccupazioni più articolate, quali il timore di perdere il lavoro ed essere sostituiti da computer intelligenti.
Nel panorama internazionale il nostro Paese si trova in una situazione particolarmente delicata. Da un’iniziativa partita dal governo francese, l’intera Europa si sta coordinando per riuscire a reggere il confronto con Stati Uniti e Cina. I primi, infatti, possono contare su una posizione di vantaggio ottenuta dalla Silicon Valley, la seconda li ha praticamente raggiunti grazie alla centralizzazione politica e alle poderose risorse economiche che ha a disposizione. Nessun Paese europeo può farcela da solo e men che meno l’Italia che non può contare, a differenza di Francia e Germania, su un’industria di scala nazionale che possa anticipare i co-investimenti necessari.
Il nostro Paese ha comunque delle buone opportunità per non rimanere indietro e posizionarsi bene nel continente europeo. Anzitutto ha il capitale culturale necessario per affrontare la sfida. L’irrobustimento della ricerca di punta nel settore dell’intelligenza artificiale può dare un contributo fondamentale. In primis, devono farsi avanti le scienze dure quali la matematica, la fisica e l’informatica, ma anche tutti i necessari studi interdisciplinari che riguardano i campi dell’economia, della giurisprudenza, dell’etica, che dovranno regolare le applicazioni concrete di quelle ricerche. Queste ultime spaziano in direzioni quali il riconoscimento vocale del linguaggio umano, la progettazione di nuovi medicinali, la diagnostica medica, la decodifica funzionale del genoma, la guida automobilistica senza pilota. La struttura economico-finanziaria del nostro Paese, con la sua abbondanza di piccole e medie imprese, avrà la possibilità di alimentarsi e alimentare questi nuovi sviluppi.
Abbiamo il dovere di essere ottimisti nei confronti di queste prospettive. Agli studi bisogna affiancare un lavoro politico di grande attenzione e far sì che le nuove frontiere del digitale esprimano il loro potenziale in modo virtuoso. Una condizione sarà quella di distribuire in modo sensato le opportunità che esse sapranno generare e, soprattutto, di gestire bene il periodo transiente di trasformazione del mondo del lavoro a cui si andrà incontro.
La scienza e i suoi prodotti sono oggi più che mai a nostra disposizione. Più che il remoto e fantascientifico pericolo di essere sterminati da macchine intelligenti, dovrebbe preoccupare quello di dover comprare dall’estero anche i prodotti di questa nuova tecnologia, quando invece abbiamo tutte le risorse di ingegno per produrla ad altissimo livello.
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
Circolare del Ministero
Nelle scuole arriva il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità
di Alessia Tripodi (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Un Sillabo per introdurre strutturalmente nelle scuole secondarie italiane l’educazione all’imprenditorialità. Costruendo percorsi didattici per sviluppare nei ragazzi conoscenze, abilità e competenze utili non solo per un’eventuale futura carriera da imprenditori, ma in ogni contesto lavorativo e nelle esperienze di cittadinanza attiva. È la novità lanciata dal ministero dell’Istruzione e contenuta in una circolare inviata a tutti gli istituti.
Iniziativa in linea con obiettivi Ue
L’iniziativa, spiega il Miur, è in linea con l’obiettivo chiave di promuovere e sviluppare le abilità imprenditoriali, definite dalla Commissione Europea con la Comunicazione 2012 «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» e rinnovate nella Comunicazione 2016 «A new skills agenda for Europe». Per la prima volta si introduce quindi nella scuola italiana l’Educazione all’imprenditorialità, tramite un Sillabo costruito attraverso il coinvolgimento di circa 40 stakeholder (tra cui rappresentanze nazionali, fondazioni, attori del mondo dell’innovazione, imprese, mondo cooperativo e altri attori della società civile).
Cinque macro aree
Il Sillabo, fa sapere il ministero, è suddiviso in 5 macro aree di contenuto: Forme e opportunità del fare impresa; la generazione dell’idea, il contesto e i bisogni sociali; dall’idea all’impresa: risorse e competenze; l’impresa in azione: confrontarsi con il mercato; cittadinanza economica. L’Italia, sottolinea ancora Viale Trastevere, è inoltre tra i primi paesi in Europa ad adottare strutturalmente il modello concettuale "EntreComp" (Entrepreneurship Competence Framework), il Quadro di Riferimento per la Competenza Imprenditorialità, prodotto dalla Commissione Europea. Questo intervento è legato ai finanziamenti dedicati all’Educazione all’imprenditorialità e previsti dal bando Pon 2775, in corso di valutazione, per un investimento complessivo di 50 milioni di euro.
Ideologia sillabica
di Giorgio Mascitelli (Alfabeta-2, 29.04.2018)
La nostra vita pubblica è costellata di piccoli incidenti che sarebbero stati in altre fasi storiche insoliti se non impensabili, ma che diventano oggi, più semplicemente, l’attestazione indiretta della tendenza a ricondurre senza esitazioni ogni singolo aspetto della vita sociale alle cosiddette leggi inesorabili del profitto. È il caso, per esempio, delle controversie seguite alle critiche che diversi accademici della Crusca, riuniti nel gruppo Incipit, tra i quali figurano illustri linguisti i cui insegnamenti, in tempi normali, dovrebbero essere piuttosto il punto di riferimento per l’uso dell’italiano in ambiti ufficiali, ha riservato alla lingua usata in un documento del ministero dell’istruzione, il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria. In particolare la constatazione degli accademici che nel Sillabo vi era stata una ‘meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari’ ha suscitato la reazione piccata dello stesso ministro.
Del resto già da alcuni anni molti documenti ministeriali sono redatti in una lingua aziendalistica infarcita di stereotipi e anglismi pletorici. Si tratta di una lingua chiaramente affetta da quello che Calvino chiamava il terrore semantico, ossia la fuga di fronte a ogni termine cha abbia un significato chiaro, tipico dell’antilingua delle burocrazie. I rapporti del gergo ministeriale con l’antilingua calviniana sono evidenti e tuttavia più articolati di quanto si potrebbe pensare: se da un lato esso ne è l’omologo contemporaneo quanto all’uso e alla fruizione sociali, dall’altro appare come l’esito deviato e malsano di quello sforzo di modernizzazione dell’italiano che avrebbe dovuto salvarlo dall’antilingua. Infatti, mentre Calvino vedeva illuministicamente in una lingua pienamente comunicativa e di immediata traducibilità lo strumento linguistico di una modernità razionale, è probabile che gli estensori di questi documenti vedano in quegli aspetti del loro linguaggio che lo rendono un pidgin difficilmente traducibile tanto in italiano quanto in inglese i tratti di una comunicazione moderna che rispetta standard scientifici. Nella fiducia, nonostante tutte le evidenze di segno opposto, della sua efficacia comunicativa si rivela indirettamente uno degli aspetti dell’ideologia contemporanea ossia l’idea che il successo della scuola coincida con il suo adeguamento a determinate pratiche e concezioni internazionali o meglio promosse da alcune organizzazioni internazionali. Siccome questi organismi presentano spesso le loro politiche scolastiche non come una strategia nascente da una certa opzione politico-culturale, ma come l’applicazione di criteri scientifici all’avanguardia politicamente neutrali, ecco allora che la lingua dei documenti ministeriali pullulerà di tecnicismi anglicizzanti.
Del resto l’antilingua burocratica di cui parlava Calvino cinquant’anni fa, in cui ‘timbrare’ si doveva dire ‘obliterare’ secondo il suo celebre esempio, veniva ricalcata su allocuzioni e sintagmi tipici della lingua giuridica, sentita come più autorevole perché emanazione della legge e dello stato; così, nel gergo dei documenti sulla scuola, l’assemblaggio di espressioni provenienti dall’informatica, dalla pedagogia anglosassone e dall’economia serve a incutere nel lettore il rispetto verso discorsi che traggono origine dalle vere autorità del nostro tempo ossia il mercato e la tecnologia. Calvino sognava la modernizzazione dell’italiano come lingua al servizio della società ossia di tutti, in un’utopia nobile anche se dalle forme un po’ tecnocratiche, perché la lingua risentirà sempre dei rapporti di potere in una società e nel contempo li rappresenterà, mentre l’antilingua di oggi, come quella di ieri, enfatizza questi rapporti di potere e si fa strumento per lasciarli inalterati.
Nella fattispecie del sopraccitato Sillabo, l’idea che tutta l’attività scolastica debba essere imperniata sull’educazione all’imprenditorialità, sulla quale verte il documento, non può che essere presentata all’interno del quadro concettuale dell’antilingua ministeriale, perché in qualsiasi altra forma linguistica rivelerebbe subito gli aspetti ideologici, totalitari e assurdi di questa idea. Non si tratta allora di qualcosa di analogo al latinorum con cui Azzeccagarbugli cerca di approfittare della propria superiorità culturale e contro il quale protesta Renzo, ma del fatto che il ricorso all’antilingua garantisce una verniciatura di moderna oggettività tecnocratica a una serie di idee e concetti, le cui matrici storicamente date sono reazionarie. Così per esempio il silent coaching, evocato nel sillabo ministeriale per stimolare forme di autoconsapevolezza imprenditoriale, se fosse stato reso con la traduzione di ‘allenamento o addestramento silenzioso’, avrebbe finito con l’istillare il dubbio nel lettore che quella che si va imponendo è una scuola unidimensionale, fortemente ideologizzata e poco incline allo sviluppo delle capacità critiche dello studente.
Che un documento del genere sia intitolato con un termine arcaico e desueto quale sillabo, che sembrerebbe essere inconciliabile con le sue velleità rinnovatrici, è curioso; infatti il termine ‘sillabo’ richiama oggettivamente nella cultura italiana il documento, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, nel quale venivano condannate tutte le dottrine progressiste dell’epoca in nome del tradizionale assolutismo pontificio. Del resto è curioso, ma non sorprendente che un testo redatto in chiave accattivante e futuristica incorra in una svista simile, perché è caratteristica di ogni antilingua quella di ignorare le sfumature storiche del linguaggio. Non occorre, però, prendersela per questo, anzi dobbiamo essere grati agli incauti estensori del nuovo sillabo di questa gaffe storica che suggerisce, sia pure in modo preterintenzionale, quali siano i veri modelli sociali a cui si ispirerà la scuola del futuro.
IDEOLOGIA “SILLABICA”: MANZONI E UNA STORIA DI LUNGA DURATA ...
Il documento del ministero dell’istruzione, il “Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria”, dice della punta di un “iceberg” (lodi alle “sentinelle” della Crusca e, ovviamente, a Giorgio Mascitelli e ad “Alfabeta” per la “segnalazione”) , del lunghissimo “abbraccio” culturale-politico che ha la sua parte emersa nell’art. 7 della Costituzione e la sua parte sommersa e profondissima negli apparati “scritturali” dei funzionari ministeriali dei “due Stati”, Stato d’Italia e Stato della Chiesa cattolico-romana.
Con tutte le conseguenze del caso, sia per la Costituzione della Repubblica italiana, sia per la “Costituzione dogmatica” della Chiesa. Manzoni, con i suoi “Promessi Sposi”, ha ancora lezioni da dare su tutti e due i “livelli”, sia laico sia religioso: siamo ancora alla teologia-politica del “latinorum”!
Per restare sul tema della storia d’Italia e del “Sillabo” (vale a dire, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo” di Pio IX (8 dicembre 1864), molto utile potrebbe essere la lettura dei saggi presenti nel libro “Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel’900” (Il Mulino, Bologna 1972): in particolare, “Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «il Frontespizio» di Luisa Mangoni, e, “Alcune lettere di Mons. Giuseppe De Luca a Giuseppe Bottai” a cura di Renzo De Felice; e, ancora, sia lecito, di alcune mie note su “un rinato sacro romano impero” (Gramsci, 1924): I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882).
Federico La Sala
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE...
LA CORONA DEL REGNO, IL PALOMBARO, E LA LEGGENDA DI "(NI) COLA PESCE" *
*
Cola Pesce
Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva:
Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?
E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione:
Cola! Che tu possa diventare un pesce!
Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì.
La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re; e il Re ordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare.
Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando.
Cola! - gli disse. - C’è il Re di Messina che ti vuole parlare!
E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re.
Il Re, al vederlo, gli fece buon viso.
Cola Pesce, - gli disse, - tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede!
Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia.
Dopo un poco di tempo fu di ritorno. Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo.
E allora Messina su cos’è fabbricata? - chiese il Re. - Devi scendere giù a vedere dove poggia.
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò a galla e disse al Re:
Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta.
O Messina, Messina,
Un dì sarai meschina!
Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Cola scese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce.
Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce. Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse:
Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno.
Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò sù disse che il fondo non l’aveva visto, perché c’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua. Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse:
Gettati dalla cima della Torre del Faro
La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò da lassù in cima.
Il Re ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido.
Che c’è, Cola? - chiese il Re.
C’è che sono morto di spavento, - disse Cola. - Ho visto un pesce, che solo nella bocca poteva entrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire m son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina!
Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo il Faro non gli era passata.
E Cola:
No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura.
Visto che non riusciva a convincerlo, il re si levò la corona dal capo, tutta piena di pietre preziose, che abbagliavano lo sguardo, e la buttò in mare.
Va’ a prenderla, Cola!
Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno!
Una corona che non ce n’è altra al mondo, - disse il Re. - Cola, devi andarla a prendere!
Se voi così volete, Maestà, - disse Cola - scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più.
Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare.
Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie.
Cola Pesce s’aspetta che ancora torni.
(Palermo)
*Cfr.: Fiabe italiane raccolte e trascritte da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1971, vol. II, pp. 602-604.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SOVRANITÀ, LA DIGNITÀ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA, E "I DUE CORPI DEL RE". La lezione di Kantorowicz...
LA COSTITUZIONE, "I DUE CORPI DEL RE", E I DUE PATTI DEL CITTADINO. L’ analisi di Barbara Spinelli (2006)
I due corpi del re vanno tenuti disgiunti, perché resti vivo l’inaugurale patto che dissuade dalla guerra di tutti contro tutti, e che fonda un rapporto non effimero, non continuamente modificabile, fra i cittadini e chi li comanda.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Intervista
Michel Serres. Perché ho scritto alcuni dei miei libri
di Gaspare Polizzi (di Doppiozero, 07.02.2018)
Do il benvenuto a Michel Serres, un giovane filosofo di 87 anni che di recente ha pubblicato molti libri in Italia. Le porrò alcune domande sui libri ora disponibili per i lettori italiani: Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, tr. it. di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2016; BioGea. Il Racconto della terra, tr. it. di Maurizio Costantino e Rossana Lista, Postfazione di Francesco Bellusci, Asterios Editore, Trieste 2016; Darwin, Napoleone e il samaritano, tr. it. di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2017; Hergé mon ami. Studi e Ritratto, a cura di Domenico Scalzo, tr. it. di Simone Massa, Portatori d’acqua, Pesaro 2017. E anche la bella antologia a lei dedicata a cura mia e di Mario Porro: Michel Serres, Riga 35, Marcos y Marcos, Milano 2015.
Partiamo dal titolo Il mancino zoppo (Le gaucher boiteux), che descrive la sua condizione fisica - «Penso, dunque biforco. Già mancino, ho rischiato l’emiplegia: zoppico dolcemente» (p. 93) -, ma anche, nel suo stile a più voci, i suoi “personaggi concettuali”, Pantope, Hermès, Petite Poucette e molti altri. La sua filosofia produce personaggi. Ci dica qualcosa su questi personaggi. Come li ha creati?
Sulla prima parte della domanda, quando richiama l’espressione “mancino zoppo”, vorrei dire che essa si riferisce a una storia millenaria. All’origine gli eroi dell’antichità greca erano detti “zoppi”. I nomi di Edipo, di Laio, padre di Edipo, e di Labdacos, padre di Laio, rinviano tutti e tre a una caratteristica comune, la “difficoltà a camminare dritti” (Labdacos = “zoppo”; Laio = “sinistro”, “deforme”; Edipo = “piede gonfio”). E all’origine dell’antichità latina c’erano Orazio Coclite e Muzio Scevola, che erano uno guercio (cocles) e l’altro mancino (scevola). Nella tradizione ebraica Giacobbe che sta per diventare Israele, il fondatore, se vogliamo, del termine, lotta tutta una notte contro l’angelo e diventa zoppo.
Quindi questa tradizione è davvero molto antica, e vuol dire che in qualche parte del corpo è necessaria una qualche forma di squilibrio, e tale squilibrio è favorevole alla marcia, all’avanzata; si può camminare grazie a una rottura dell’equilibrio. Questa specie di corpo a metà, di mezza sensazione che ci coinvolge è molto interessante. E così, se volete, il personaggio del “mancino zoppo” è una sorta di ripresa di una tradizione estremamente antica.
In secondo luogo, per quel che riguarda i personaggi, io credo che la filosofia debba dire tutto. Sa bene che ci sono scienze specialistiche e scienze generaliste. Il filosofo è generalista, perché ha da dire su tutto. Ma come? Deve dire di tutto in tutte le forme possibili, tanto con la geometria, l’algebra, con scienze come la fisica o la biochimica, ecc., quanto con la poesia, la letteratura, ecc. E ciò è evidente nelle tradizioni che ci riguardano - noi francesi e italiani -, nelle quali si dice che i filosofi sono anche letterati.
La filosofia produce personaggi, ma non direi “personaggi concettuali”, bensì personaggi reali che si possono incontrare per strada, come si può incontrare il “mancino zoppo”. Non sono concetti, allegorie, ma personaggi reali come quelli che un poeta o un romanziere avrebbero potuto inventare. Ecco la molteplicità delle vie di accesso alla realtà. E si tratta di tradizioni che sono penetrate a fondo nella cultura latina, italiana, spagnola e francese.
In Darwin, Napoleone e il samaritano espone una filosofia della storia. Nessuno oggi ha il coraggio di proporre una filosofia della storia. E una filosofia della storia che rinvia alla visione di Gioacchino da Fiore sul progresso dello Spirito in tre periodi: l’epoca dell’origine, l’epoca dura e l’epoca dolce. L’epoca dolce del Samaritano si apre con la pace, la medicina, il virtuale. Un’eresia, si direbbe, che annulla anche l’opposizione natura/storia.
Vorrei rispondere richiamando ancora una tradizione. C’è in Francia un libro di un gesuita francese, Henri de Lubac, un libro molto bello, che si intitola La Postérité spirituelle de Joachim de Flore [La posterità spirituale di Gioachino da Fiore, tr. it. di Francesco di Ciaccia e Gabriella Cattaneo, 2 voll., Jaca Book, Milano 1981-83]. Questo libro sottolinea che a partire da Gioacchino da Fiore non c’è una filosofia della storia, dal medioevo ad oggi, che abbia evitato la divisione del tempo in tre parti. In tal modo Gioacchino da Fiore è anche l’ispiratore di Hegel, di Marx, di Bossuet e così via, di tutti i filosofi della storia. Egli richiama così la più antica tradizione della filosofia della storia del nostro tempo.
In secondo luogo, a proposito della rottura natura/storia io dico che accade tutto il contrario, perché per la prima volta abbiamo creato una storia del mondo, quello che chiamo il Grand Récit, ovvero sappiamo ora veramente che la storia umana si collega alla storia del mondo, alla storia dei viventi, all’evoluzione darwiniana, ecc. Di conseguenza, al contrario di quanto si crede, il legame natura/storia non è mai stato assicurato più saldamente di quanto lo sia oggi.
La terza risposta alla sua domanda è che, soprattutto nella seconda parte del libro, ho scritto la storia dal punto di vista delle vittime. Ci sono stati grandi uomini come Napoleone, Luigi XIV, Cesare, Alessandro Magno. ma io guardo alla storia dal punto di vista del numero di morti che questi grandi uomini hanno prodotto. E per questo ho chiamato questo periodo della storia l’epoca dura. Ha ragione a segnalare che viviamo in pace, almeno in Occidente, da più di settant’anni e che la speranza di vita è cresciuta di una decina o ventina di anni, e quindi che viviamo un momento del tutto eccezionale della nostra storia.
Le porrò ora tre domande su Hergé mon ami. Studi e Ritratto, appena tradotto da Simone Massa in un libro a cura di Domenico Scalzo. Hergé è stato un vostro amico d’infanzia, di maturità e di vecchiaia. «Hergé insegna a ridere, a pensare, a inventare: unico verbo in tre persone» (p. 18).
La figura di Tintin possiede tratti indeterminati, quasi inespressivi, quasi a favorire l’identificazione di ogni lettore con l’eroe di Hergé. Lei è stato un lettore attento delle Aventures de Tintin fin dall’infanzia, tra la guerra di Spagna e la Seconda Guerra Mondiale. Ci può descrivere il momento in cui ha detto, come Flaubert davanti a Madame Bovary, “Tintin sono io”?
La mia risposta è molto divertente. Ci sono in Francia, e credo anche in Italia, dei cartoni nei quali si trova un foro al posto della testa e ci si può fotografare mettendo la testa nel foro e apparire nel resto del corpo, ad esempio, come un soldato di una legione romana. Una volta ero a teatro e ho visto un attore al quale è caduto sul collo e sulle spalle un muso di toro e che se ne è andato, barcollante, tra le attrezzature di scena. Ho capito allora che Tintin era come uno di quei cartoni. Per questo motivo Tintin ha dei tratti così indeterminati, perché attraverso quel foro Gaspare o Michel o ogni altro individuo può mettere la propria testa. Di conseguenza Tintin è lei, sono io, siamo tutti. Credo che il successo di questo fumetto sia dovuto al fatto che noi tutti possiamo identificarci con il personaggio principale. È questo, credo, il motivo della sua originalità, o piuttosto della sua assenza di originalità, che influenza tutti.
Ci dice che ha appreso, per la ricerca sulle origini della nostra civiltà, più da Hergé che da Marx o da Freud: «Hergé - lei scrive - non ha alcun bisogno di economisti, di psicoanalisi o antropologia, né di etnologi, poiché disegna, senza dirlo pesantemente, ciò che questi sapienti e queste scienze credono di spiegare. Meglio, egli inventa e si spinge più lontano di loro» (p. 54).
Richiamo ciò che ho detto prima sulla tradizione che accomuna Italia e Francia nel mettere dei personaggi nella riflessione concettuale, come avviene con Vico o, tra di noi, con Diderot. Evidentemente in quel momento ci si persuade che il racconto, come quelli sviluppati dai grandi scrittori della letteratura o da Hergé che ne prende il testimone, che questi personaggi in azione o questi racconti dicono cose molto più profonde, o, se vuole, sono la sintesi, la sintesi vivente di determinazioni concettuali che sarebbero più astratte. E in un certo senso questa letteratura, compresi i fumetti, fa la sintesi delle scienze umane. Per questo ho scritto una volta che Hergé era il Jules Verne delle scienze umane.
Una delle avventure più celebri di Tintin, Les Bijoux de la Castafiore, Hergé affronta il tema della mancanza di comunicazione a causa di un eccesso di comunicazione. Tema che attraversa la sua filosofia, nel gioco mai risolto tra immagini e parole che riassume l’arte del fumetto. Qual è oggi il senso degli scacchi nella comunicazione?
Risponderò in due maniere. Una personale e una oggettiva.
In maniera personale devo dire che quando ho letto Les Bijoux de la Castafiore mi sono accorto che si trattava di una meditazione molto precisa sulle rotture di comunicazione. E ciò mi ha colpito molto, perché avevo già scritto Hermès, La Legende des Anges e tutta la mia ricerca si era orientata sulla comunicazione.
In maniera oggettiva si deve rispondere alla domanda: “perché c’è uno scacco nella comunicazione”. Vi sono diverse ragioni. La prima ragione, oggettiva, ma ora anche soggettiva, è che quando si connettono troppo i canali di comunicazione, essi si intrecciano gli uni con gli altri: si ha nello stesso tempo e insieme la televisione, il telefono, internet. Di conseguenza, tutto a un tratto ogni mutamento nel regime delle comunicazioni è completamente muto, per eccesso di comunicazione. E bisogna anche aggiungere - è molto semplice - che all’epoca di Hergé la televisione non funzionava ancora molto bene, come anche il telefono. Vi sono nei fumetti di Hergé una serie di immagini datate di un periodo nel quale effettivamente si stavano realizzando nuovi sistemi di comunicazione, ma in cui questa realizzazione non era ancora molto precisa.
Per finire due domande sul futuro dell’umanità, che è legato alla gioventù di oggi. Ha scritto in Petite poucette (2012; Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, tr. it. di Gaspare Polizzi, Bollati Boringhieri, Torino 2013): «i ragazzi abitano dunque il virtuale [...]. Non conoscono, né integrano, né sintetizzano come noi» (p. 14). Quale sarà la pedagogia del futuro in questo predominio del virutale? Come combinare la creatività con la conoscenza legata ai lunghi esercizi sui libri e sulle formule?
In Petite pouchette ho descritto le differenze che mi sembravano più importanti tra i giovani e noi. Quando siamo in presenza di internet o degli strumenti odierni di comunicazione abbiamo un accesso estremamente facile alle informazioni. Noi due, per esempio, abbiamo deciso di apprendere qualcosa di molto difficile, come la meccanica quantistica. Ci troviamo insieme e con internet acquisiamo tutte le informazioni possibili, ma non comprendiamo niente in queste informazioni e di conseguenza dobbiamo cercare un amico che diventi il nostro maestro e ci permetta di trasformare l’informazione in conoscenza. L’informazione non è la conoscenza. Con questo esempio si vede molto bene che avvicinarsi all’informazione è molto facile, ma per arrivare alla conoscenza bisogna impegnarsi a lungo. La pedagogia non è stata davvero annullata per effetto dei nuovi strumenti di comunicazione. C’è sempre bisogno di un pedagogo, di un insegnante o di un professore.
Ci può regalare, per finire, un ricordo della sua amicizia con Ilya Prigogine, del quale si è appena celebrato il centenario della nascita? Su “Le Monde” del 4 gennaio 1980 ha scritto, a proposito di La Nouvelle Alliance: «un libro tanto equilibrato sembra un miracolo».
Me ne ricordo bene di Prigogine, perché è scomparso alcuni anni dopo, dopo aver conseguito il premio Nobel per la fisica. L’ho conosciuto bene e gli ho sottoposto il mio articolo uscito su “Le Monde” prima che fosse pubblicato. La frase che avete citato è una frase quasi ironica, perché tutto il suo libro è fondato su un concetto che è l’inverso di quanto ho scritto. Prigogine è un teorico della termodinamica e ha studiato il non-equilibrio. Ha fatto bene a porre questa domanda, perché consente di ritornare alla prima, a quella sul “mancino zoppo”.
Lei aveva esattamente l’idea di ciò che abbisognava in questa nostra conversazione, ovvero che per camminare bisogna produrre uno scarto dall’equilibrio e per pensare bisogna sempre mettere in questione ciò che si è imparato. Tutto si tiene, grazie a lei, con la prima e con l’ultima domanda.
Attendiamo ancora molti suoi libri. Quale sarà la prossima tappa della sua randonnée, dopo il suo ultimo libro C’était mieux avant!?
Scriverò ancora altri libri. Quando si scrivono dei libri non ci si ferma mai. I calzolai fanno sempre delle scarpe nuove.
L’importanza di perdersi nel bosco
di Giovanna Zoboli *
Dopo l’attentato di Manchester, nel quale al termine di un concerto di Ariana Grande sono rimasti uccisi numerosi ragazzi la maggior parte dei quali ancora minorenni, come dopo ogni atto di terrorismo su media e social network è circolata la domanda “Come spiegare gli attentati ai bambini”. Famiglia Punto Zero, social di promozione culturale della genitorialità e approfondimenti tematici sulla famiglia, ha girato la domanda a Nadia Terranova, scrittrice per adulti e ragazzi, che tiene una bella pagina dedicata alla letteratura per l’infanzia sull’inserto Robinson.
«Il problema - ha risposto Terranova - non è svegliarsi ogni volta e chiedersi come spiegare gli attentati ai bambini, il problema è che bambini a cui le favole sono state edulcorate, a cui non si può più leggere niente perché “è troppo difficile”, che non hanno più un’elaborazione simbolica della paura perché i grandi hanno paura della loro paura, sono infinitamente più fragili. E il problema non è la cronaca o una soluzione-medicina all’indomani di ogni fatto di cronaca, ma un immaginario indebolito da rifortificare.»
Centra il punto Terranova. Dietro la fragilità dei bambini c’è quella di un mondo incapace di offrire una sponda al problema del Male: l’infinita fragilità di adulti, voraci consumatori di falsi miti di massa e di ogni genere di impostura, oggi, in aggiornata versione fake news, ma, si direbbe, incapaci di sguardo sulla realtà, come testimoniano continui episodi, ultimo dei quali la vicenda del bambino morto di otite. La questione non è nuova.
L’ambientalista Ed Ayres spiega che «un modello generale di comportamento tra le società umane è quello di diventare, via via che s’indeboliscono, più cieche alla crisi, anziché più attente.» E tuttavia, nel tempo, questa difficoltà a incontrare il reale, evidente in tutti gli ambiti delle nostre vite e della nostra società, paradossalmente si manifesta in campo educativo, a scuola, in famiglia, e ovunque vi siano bambini, in una calcificata resistenza nei confronti della finzione letteraria e del suo potere catartico, ove la letteratura non si configuri esclusivamente come attività di intrattenimento, ma diventi pratica di ricerca di senso.
Sono le fiabe, in particolare, a essere le prime vittime di questa lugubre e ostile diffidenza. Dopo qualche migliaio di anni, la più perfetta fra le finzioni, il più celebre degli incipit, C’era una volta, garanzia di distanza, e quindi di elaborazione simbolica, fra realtà del presente e passato della fiaba, non convince più.
Una ipotesi potrebbe essere che essendo gli adulti sempre più incapaci di distinguere fra realtà e finzione, individuino nella finzione letteraria, che obbliga il lettore a sospendere temporaneamente la propria incredulità, un potenziale innesco a traumi e comportamenti devianti, temendo che la fiaba funzioni da miccia a paure incontrollate e dannose alla crescita, come se i bambini apprendessero dell’esistenza della paura dalle fiabe e non la sperimentassero in prima persona nella propria esperienza quotidiana.
Già i Fratelli Grimm, a stare ai loro carteggi, si lamentavano del problema, osservando che il perbenismo dei lettori li costringeva a sistematiche ripuliture dei testi orali raccolti durante il loro lavoro di ricerca. E in effetti le loro Fiabe o Märchen, come le leggiamo oggi, sono il risultato di ben sei edizioni nelle quali si procedette a successive riscritture per adeguarle al gusto del pubblico borghese, disturbato dal perturbante delle narrazioni popolari.
Oggi, il grande interesse per le fiabe e il fiabesco di certa parte della cultura attraverso le ricerche di studiosi che negli ultimi anni hanno lavorato a divulgare la conoscenza delle fiabe e la loro importanza in ambito letterario ed educativo, permette di accedere a raccolte di fiabe di grande interesse, come la prima bellissima edizione dei Grimm, quella redatta fra il 1812-1815, che in Italia, intitolata Principessa Pel di Topo, curata da Jack Zipes e illustrata da Fabian Negrin, è stata edita da Donzelli nel 2012 (a questa è seguita quella integrale, Tutte le fiabe, del 2015).
Raccolte importanti a cui si dovrebbe attingere per letture ai bambini, prima ancora che ad adulti, senza timori e incertezze, poiché, come spiegano psicologi, antropologi, evoluzionisti, pediatri, educatori, la razza umana, adulti e bambini, da sempre hanno bisogno di sperimentare la paura, e la narrazione è uno dei sistemi più antichi ed efficaci perché questo avvenga, a livello simbolico, senza incorrere in pericoli reali.
In L’istinto di narrare, Jonathan Gotschal, nel terzo capitolo, L’inferno è amico delle storie, scrive: «Nel suo straordinario Come funziona la mente Pinker (teorico dell’evoluzione umana, ndr) sostiene che le storie ci dotano di un archivio mentale di situazioni complesse che un giorno potremmo trovarci a dover affrontare, unitamente a una serie di possibili soluzioni operative. Così come i giocatori di scacchi memorizzano risposte ottimali a un’ampia gamma di attacchi e difese, noi ci attrezziamo per la vita reale, assorbendo schemi di gioco funzionali».
E più avanti: «La costante attivazione dei nostri neuroni in risposta a stimoli derivanti dal consumo di finzione narrativa rafforza e ridefinisce le vie neurali che consentono una navigazione competente nei problemi dell’esistenza. In questo senso siamo attratti dalla finzione narrativa non a causa di un’anomalia dell’evoluzione, ma perché la finzione è, nell’insieme, vantaggiosa per noi. Questo perché la vita umana, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa e le poste in gioco molto alte. La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie». La tesi di Gotschall in L’istinto di narrare è, infatti, che l’attitudine alla narrazione abbia determinato il successo della specie umana.
Molto prima dei moderni studi antropologici, peraltro, nell’antica Grecia, filosofi e pensatori, a proposito di Poesia e Tragedia, interpretavano lo straordinario potere della finzione letteraria come catarsi. -Ciò che avveniva durante la lettura di versi o sul palcoscenico induceva il pubblico a purificarsi, elaborando in profondità dilemmi etici, e vivendo intensamente come spettatori vicende che a tutt’oggi, nei teatri antichi di Siracusa, Taormina, Segesta, Epidauro, muovono le nostre coscienze e ci educano alla necessità della ricerca di senso.
Da alcuni anni Chiara Guidi, insieme alla compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio, si è fatta interprete di spettacoli che mettono al centro della scena le fiabe e i bambini, attraverso quello che ha definito “metodo errante”. Per innescare questo metodo, spiega «bisogna preparare un posto inerte, come le pagine di un libro. Il teatro è un’apparecchiatura spaziale e temporale che permette di far sorgere la figura. Sono i bambini a metterlo in moto con la loro presenza.»
Grazie a questa presenza e azione infantile si entra nella fiaba, nel racconto mitico, arrivando a toccarli, generando un atto di creazione, un’esperienza d’arte. Da questo metodo sono nate le esperienze teatrali delle Favole di Esopo (1992), di Hänsel e Gretel (1993), Buchettino (1995), Pelle d’asino (1996), Jack e il fagiolo magico (2013).
Fra i suoi spettacoli più noti, c’è Buchettino che Guidi in un’intervista del 2012 racconta così:
«è una favola raccontata da una attrice messa dentro a una stanza di legno che diventa una grande cassa di risonanza dove, all’esterno, dei tecnici rumoristi fanno i rumori della favola: suonano la favola. I bambini sono a letto coperti con delle coperte: cinquanta bambini, cinquanta coperte, cinquanta lenzuoli, cinquanta cuscini, e il letto diventa una barca, e diventa anche il luogo della protezione, perché se ho paura mi copro con la coperta, consapevole che quella coperta diventa una corazza che mi protegge. Non c’è nulla da vedere: però, ascoltando, è possibile vedere.
I bambini oggi ascoltano poche favole, le favole non sono più favole della tradizione perché queste sono favole che fanno paura e non possono essere raccontate ai bambini. Si può far vedere il male attraverso la società dello spettacolo ed escludere invece la catarsi della favola che sempre porta il lieto fine.
Sarebbe necessario un ritorno dei bambini a favole che sono l’espressione di un’esperienza che conduce attraverso la vita della favola alla vita possibile futura di un bambino che diventerà adulto.»
La grande intuizione di questa rappresentazione, in un momento storico in cui i bambini sono accuratamente tenuti lontani dalle fiabe, è mettere al centro dell’azione scenica i bambini come ascoltatori di fiabe, spettatori, ma dentro il corpo stesso della fiaba, nel suo pericolo, attivamente impegnati a ricrearla con l’immaginazione, seguendo la narrazione orale e l’andamento sonoro della vicenda.
La storia di Buchettino, che poi è quella di Pollicino ovvero Le petit poucet di Charles Perrault (Buchettino è il titolo della versione toscana) come è stata portata in scena da Chiara Guidi, con l’adattamento di Claudia Castellucci, è stata pubblicata da Orecchio Acerbo nel 2015 in una bella edizione con le illustrazioni di Simone Massi.
Per origine, storia e natura le fiabe si prestano più di ogni altro genere letterario a rielaborazioni, metamorfosi, riscritture attraverso i medium più diversi: dal teatro al cinema, al fumetto, alla poesia, all’illustrazione, alla danza, alla musica.
Questa estrema duttilità è una grande risorsa dal punto di vista educativo, poiché permette di proporre ai bambini una quantità di varianti e di linguaggi che diventano ottimi strumenti di ri-narrazione e indagine. Il linguaggio in cui si sceglie di raccontare una fiaba, infatti, determina la forma stessa della narrazione portando, ogni volta, a galla delle vicende aspetti che in altre versioni rimangono impliciti, nascosti.
Nella raccolta poetica In mezzo alla fiaba, edita da Topipittori nel 2015 con illustrazioni di Arianna Vairo, Silvia Vecchini decostruisce venti fiabe della tradizione per ricostruirle attraverso venti composizioni poetiche. La prima volte che le lessi, rimasi folgorata dal testo che dedicò a Pollicino, poiché non avevo mai realizzato consapevolmente, ma solo inconsciamente, quale fosse il suo centro tensionale:
Se tuo padre è un orco
non ti basterà dormire
indossando una corona
la violenza è cieca
il coltello non ragiona.
Al cuore di questa vicenda, Vecchini mette, anziché l’abbandono dei figli nel bosco da parte dei genitori afflitti da una miseria senza scampo, l’eccidio delle orchessine uccise dal padre-orco al posto di Pollicino e dei suo fratelli che scambiano i loro cappelli con le corone delle bambine, condannandole a morte e ingannando l’orco.
Nell’illustrazione che Gustave Doré dedicò a questo momento della fiaba vediamo le orchessine che dormono tutte insieme in un grande letto cosparso di ossa. Accanto a questo, specularmente, il lettore immagina il letto in cui dormono Pollicino e i suoi fratelli. È certo che in questa fiaba lo stare a letto di bambini e bambine è fortemente implicato con il tessuto stesso della storia, ed è certamente anche questo che rende la messa in scena di Chiara Guidi così potente e liberatoria.
La fiaba di Pollicino di Perrault ha numerosi punti di contatto con quella di Hänsel e Gretel dei Grimm, in particolare nella parte iniziale che procede identica: la decisione dei genitori di abbandonare i figli a causa della miseria, l’abbandono nel bosco, lo stratagemma dei sassolini bianchi per ritrovare la strada di casa, e poi quello, fallimentare delle briciole mangiate dagli uccelli, che decreta lo smarrimento dei bambini e il pericolo di essere mangiati nel primo caso dalla strega, nel secondo dall’orco. Silvia Vecchini nella poesia in cui riscrive Hänsel e Gretel mette al centro della scena il vincolo di salvezza che stringe fratello e sorella:
A tutti servirebbe un fratello
che nel momento più scuro
esca di nascosto e si riempia le tasche,
che nel bosco resti al tuo fianco
e lasci cadere a ogni passo
un sassolino bianco.
Se in Pollicino, infatti, sono le doti straordinarie del più piccolo dei fratelli e apparentemente incapace, a salvare gli altri, inetti, qui il lieto fine è sancito dalla collaborazione dei due bambini, ugualmente impegnati nel salvarsi reciprocamente la vita. Sottolinea questo significato anche Bruno Bettelheim che in Il mondo incantato dà una lettura di grande interesse di Hänsel e Gretel, in cui l’accento è posto sulla necessità dei bambini di affrontare il bosco per crescere, conquistare l’autonomia, liberandosi, attraverso il pericolo corso e superato, dalla tendenza regressiva a rifugiarsi nella casa e nel supporto dei genitori.
Uscita nel 2009 per Gallimard Jeunesse e in Italia edita da Orecchio Acerbo, Hänsel e Gretel, attraverso le insuperabili illustrazioni di Lorenzo Mattotti, che tocca qui uno dei suoi punti più alti, è davvero “la fiaba per eccellenza” come l’ha definita Chiara Guidi: un percorso attraverso il buio e la luce che segna la crescita come capacità di riconoscere e opporsi al Male e superare il pericolo con le proprie forze. Dev’essere questa eccellenza la ragione per cui questa fiaba non smette di esercitare il suo fascino su disegnatori e illustratori.
L’ultima versione edita in Italia è uscita per Canicola che inaugura con questo Hänsel e Gretel, della tedesca Sophia Martineck, la collana di fumetti “Dino Buzzati” dedicata ai bambini. Fedele alla versione dei Grimm, Martineck nelle illustrazioni attualizza interni e abiti dei protagonisti: la casa dei genitori ha una moderna cucina a gas, un lavello di acciaio e i bambini indossano giacca a vento ed eskimo. Fiabesco rimane il bosco, antico e senza tempo, intrico di ombre e tronchi, dove la casa della strega si manifesta come un’allucinazione.
Il modo di narrazione del fumetto che racconta in forma dialogica, porta in primo piano la crudezza della vicenda attraverso le parole che si scambiano genitori e figli. La sbrigativa menzogna con cui vengono lasciati soli nel bosco urta contro la drammatica consapevolezza dei bambini, e del lettore, che sanno bene che la promessa di tornarli a prenderli dopo il taglio della legna è destinata a non compiersi. Ugualmente interessanti sono i dialoghi dei bambini, le loro parole sempre affettuose, fiduciose, speranzose anche nello spavento: fiabesche, insomma, quanto il bosco atemporale, analogia che sottolinea quanto l’infanzia appartenga a una dimensione profondamente radicata nella natura e nei suoi simboli.
Del Pollicino di Perrault, invece, nella versione dei Grimm non rimane niente, se non il titolo e il tema del bambino piccolissimo che riesce a superare ogni sorta di avventure con grande scaltrezza. È una fiaba allegra, scanzonata questa, da poco pubblicata in Italia da Quodlibet/Ottimomassimo nel volume Fiabe a fumetti, scritte e disegnate da Rotraut Susanne Berner, vincitrice lo scorso anno dell’Hans Christian Andersen Award.
Fiabe a fumetti raccoglie otto fiabe dei Grimm, trasposte nel segno limpido, aggraziato e umoristico caratteristico della grande autrice tedesca. È infatti la bellezza visiva del fiabesco a fare la parte del leone in questo libro, in cui le storie sono rese in massima sintesi, una sorta di morfologia della fiaba alla maniera di Propp, in cui i bambini più piccoli, aiutati dallo stampatello, potranno familiarizzare con le trame delle storie e i loro protagonisti, osservando e divertendosi a osservare analogie e differenze delle trame.
Benché i contenuti paurosi delle vicende qui non siano censurati, come invece spesso avviene in numerose mortificanti riduzioni in commercio, è straordinario osservare come il fascinoso immaginario nordico a tinte cupe dei Grimm subisca una metamorfosi che lo porta ad avvicinarsi alla luminosa e ludica allegria delle Fiabe italiane curate da Italo Calvino. Come se in questa autrice nata in Germania, come in tanti suoi conterranei prima di lei, covi una segreta passione per la luce mediterranea, e la disposizione al comico del suo folklore.
Fra il 1970 e il 1972, uno fra i più grandi illustratori del Novecento, Maurice Sendak realizzò una serie di illustrazioni per una selezione delle fiabe dei Grimm, edite poi nel 1973 da Farrar, Straus and Giroux con il titolo The JuniperTree. Per avvicinarsi alle storie e al loro immaginario, Sendak fece un lungo viaggio in Europa e in Germania, e un’accurata ricerca sugli stilemi della pittura tedesca, in particolare su Dürer. -Quando il libro uscì, ci furono parecchie critiche riguardo al modo che aveva scelto per rappresentarle. Piuttosto contrariato, l’autore spiegò che più che “rappresentare” la storia, aveva voluto puntare al suo lato oscuro, sotterraneo: a quello, cioè, che la storia non dice, o meglio, dice nascostamente. Di queste fiabe gli interessava «cogliere il momento in cui la tensione fra storia ed emozione è perfetta, così che il lettore leggendo, possa sorprendersi, pensando che si tratta ’semplicemente’ di una favola.»
Ai molti che giudicarono queste immagini claustrofobiche, cupe, poche adatte ai bambini (che peraltro hanno sempre amato follemente il lavoro di Sendak come dimostra la fortuna dei suoi libri in tutto il mondo) affermò: «Credo che i bambini intuiscano il significato profondo di ogni cosa. Sono solo gli adulti che per la maggior parte del tempo leggono la superficie. Sto generalizzando, naturalmente, ma le mie illustrazioni non sorprendono i bambini. Loro sanno cosa c’è in queste storie. Sanno che matrigna significa madre, e che il suffisso -igna è lì per evitare che gli adulti si spaventino. I bambini sanno che ci sono madri che abbandonano i loro bambini, emotivamente, non letteralmente. Talvolta vivono con questa realtà. Non mentono a se stessi. E vorrebbero sopravvivere, se questo accade. Il mio obiettivo è non mentire loro.»
Sendak aveva ragione, naturalmente. Oggi sappiamo che l’ingresso della matrigna nella fiaba di Hänsel e Gretel, si dovette ai malumori del pubblico ottocentesco che nella madre della fiaba, attiva promotrice nell’abbandono dei figli, videro compromessa e infangata la figura materna, che invece si pretendeva intatta, nella sua tradizionale funzione di accudente angelo del focolare. Per questo le parole di Sendak risultano tanto più veritiere, lucide.
Non mentire ai bambini significa anzitutto per gli adulti non mentire a se stessi, recuperare la possibilità di confrontarsi con la realtà, saperla leggere, incontrarla. Magari proprio a cominciare dalla finzione letteraria, dalle fiabe che come scrive Italo Calvino nella prefazione alla sua raccolta, «sono vere».
* DoppioZero, 08.06.2017 (ripresa parziale, senza immagini).
INSEGNARE A VIVERE. La Scuola della Repubblica sempre più "un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista"...
Microfisica dell’alternanza scuola lavoro
di Giorgio Mascitelli (alfapiù, 3 febbraio 2017)
La legge della Buona scuola ha istituito, come è noto, la cosiddetta alternanza scuola lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti di tutte le scuole superiori, compresi i licei, di frequentare periodi formativi presso aziende ed enti, pubblici e privati, nonché nel caso di un’indisponibilità di questi, presso la stessa scuola con la modalità dell’azienda simulata. Si tratta di uno dei pochi punti popolari di questa controversa legge perché la narrazione ideologica, secondo la quale sono le scuole le responsabili delle difficoltà sul mercato del lavoro incontrate dai loro discenti e non coloro che gestiscono quello stesso mercato, gode di un notevole successo.
All’atto pratico questa alternanza scuola lavoro sembra coinvolgere positivamente una minoranza di scuole, perlopiù istituti tecnici e professionali, che spesso avevano avuto già prima dell’introduzione della legge la possibilità di avviare un’attività di stage perché costituiscono per i loro indirizzi di studi un reale interesse per alcune imprese. Nelle altre scuole si assiste generalmente a un’affannata corsa da parte di dirigenti, insegnanti, famiglie e studenti stessi per trovare iniziative che rientrino nei caratteri richiesti dalla legge senza alcuna strategia formativa con il solo obiettivo di far accumulare ore di stage ai ragazzi. Non a caso si sta sviluppando una rete di agenzie accreditate, che offrono a pagamento alle scuole interi percorsi di alternanza scuola/lavoro per risolvere il problema e inculcare nelle giovani menti l’importante principio sociale che per lavorare bisogna pagare.
Anche quando gli uffici ministeriali hanno provato a contrarre direttamente accordi con il mondo delle aziende, non è andata meglio. Quello più significativo per numero di posti (10.000 all’anno, che sono quasi nulla rispetto al fabbisogno) è stato stipulato con McDonald’s; ma in quest’ultimo caso almeno il messaggio educativo finisce con il diventare involontariamente chiaro: è inutile studiare quando il destino che attende è generalmente quello di un lavoro dequalificato. In realtà, nulla di quello che sta succedendo è sorprendente, anzi era una delle cose più facili da prevedere: gli stage, per avere una funzione effettiva, devono avere delle aziende che abbiano interesse nel prendere stagisti che si occupino di cose che rientrano nel quadro delle attività aziendali ed è questa una situazione che riguarda una minoranza di studenti, perlopiù di istituti tecnici e professionali, e di aziende.
Proprio in ragione della sua facile prevedibilità, una simile situazione non deve essere considerata un effetto collaterale, ma un obiettivo che il legislatore si proponeva di raggiungere. L’alternanza scuola lavoro, del resto, ha essenzialmente un valore ideologico o, se si preferisce, educativo.
A un primo livello naturalmente ha la funzione propagandistica di mostrare che il governo si sta seriamente occupando della disoccupazione giovanile: invece di prendere atto della verità e cioè che le innovazioni tecnologiche, specie nel campo dell’intelligenza artificiale, produrranno una disoccupazione di massa anche a livello di lavori qualificati, e cercare di costruire una scuola di alto profilo culturale, che almeno sviluppi un intelletto generale, si preferisce alimentare vane speranze in un apprendistato che, salvo settori specifici e minoritari, non porterà a nulla.
E’, tuttavia, a un livello più specificamente ‘formativo’ che si può cogliere nell’alternanza scuola/lavoro il suo aspetto più propriamente ideologico. La preoccupazione di accumulare le ore di stage, la monopolizzazione della discussione nelle riunioni collegiali sui problemi organizzativi dell’alternanza, l’immancabile messe di procedure burocratiche, il successo di quegli studenti che grazie alle conoscenze familiari possono assolvere all’obbligo dello stage in maniera autonoma, quello corrispondente dei docenti che hanno trovato buone sistemazioni per gli studenti, la relativizzazione dell’importanza dello studio e delle attività culturali sono tutte conseguenze microfisiche di un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista, che diventa il punto cardine dell’attività scolastica.
L’alternanza scuola/ lavoro infatti presentandosi, fatto salvo l’obbligo del numero di ore da svolgere e alcune altre regole generali, come una libera scelta nelle sue articolazioni concrete, diventa una pedagogia della libera scelta neoliberista ossia “l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, regolamentare, architettonico, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga ‘in piena libertà’ ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse” (Dardot- Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi 2013, p. 315).
Anche la recente riforma dell’esame di stato si muove in questa direzione: a fronte di una sua sostanziale semplificazione tramite l’eliminazione della terza prova scritta, dell’area di approfondimento individuale nel colloquio e dell’aumento al 40% del voto finale della parte decisa dalla scuola prima dell’esame, si assiste all’introduzione dell’alternanza scuola lavoro come argomento di discussione e di valutazione finale, nonché all’obbligo di aver sostenuto le prove INVALSI per essere ammessi. Non deve ingannare l’apparente trascurabilità del provvedimento, perché così si introduce secondo una modalità microfisica una procedura volta a creare un ordine disciplinare nella scuola che privilegia, rispetto alle attività di studio e di elaborazione critica, l’adesione a determinate pratiche e attraverso di essa a determinati valori.
Edgar Morin è un autore che gode meritatamente per le sue idee sulla scuola e sull’insegnamento di grande stima sia presso le autorità competenti sia presso molti esperti, sicché capita spesso di vedere citato il suo lavoro in interventi pubblici e anche in documenti ufficiali, anche se talvolta un osservatore diffidente potrà avere il sospetto che esso sia più citato per il suo prestigio che effettivamente letto e meditato. Proprio Edgar Morin ci offre una chiave di lettura per valutare al meglio questo tipo d’iniziative: “Si tratta evidentemente di resistere alla pressione del pensiero economico e tecnocratico, facendosi difensori e promotori della cultura, la quale esige il superamento della disgiunzione fra scienze e cultura umanistica” (Insegnare a vivere, Raffaello Cortina 2015, pagg. 65-66).
A scuola con il kit, come educare l’Italia in una generazione
Librì - Progetti Educativi , dall’integrazione all’ecologia laboratori e valigette a tema
(di Paola Mentuccia) *
Cambiare la cultura italiana in una generazione attraverso l’educazione. È la sfida di Librì - Progetti Educativi (diffuso e distribuito da Giunti Scuola), che per portare tematiche quali la sostenibilità ambientale, l’integrazione, le buone maniere, l’elaborazione del lutto e la gentilezza ai più piccoli, ha ideato una serie di kit educativi destinati al mondo della scuola. "Crediamo fermamente che l’educazione sia il motore del mondo, - ha detto all’ANSA Maria Cristina Zannoner, amministratore delegato dell’impresa editoriale - è per questo che ci siamo impegnati nella diffusione di un’educazione attiva, attenta ai problemi del momento, con argomenti trasversali alle discipline didattiche".
I progetti di Librì sono partiti con la formazione di una community di 20 mila insegnanti "fidelizzati", che stanno già lavorando nelle proprie classi con i kit educativi che gli sono stati consegnati. Si tratta di valigette di carta, ognuna su un tema specifico, che contengono un libro per ogni bambino, una guida per l’insegnante e un poster illustrato con delle finestrelle che si possono aprire per scoprire i "consigli" da seguire nella vita quotidiana per il risparmio energetico, la gestione dei rifiuti, la cultura della salute e del benessere, per la condivisione e la collaborazione tra le persone; una web app per tablet e smartphone completa il materiale di supporto ai piccoli.
"L’obiettivo di quest’anno - ha detto Zannoner - è raggiungere 500 mila bambini". Una volta che i kit vengono richiesti dagli insegnanti sul sito di Librì e distribuiti gratuitamente, le classi lavorano attivamente sulla tematica scelta e partecipano ai concorsi indetti dalla casa editrice. E per gli adolescenti, l’editore ha pensato a progetti da veicolare sul web in collaborazione con la piattaforma Blasteem, con la quale ha appena chiuso un accordo.
Per Maria Cristina Zannoner, l’educazione "è un atto politico, un credo assoluto". "Gli insegnanti fanno molto - ha detto - ma spesso sono abbandonati a loro stessi". Ecco quindi l’idea di un supporto editoriale che si aggiunge ai libri scolastici e che fonda la comunicazione educativa sulle potenzialità dell’illustrazione. "Io dico sempre - ha spiegato l’ad - che un libro deve entrare in un rapporto sensuale con il bambino, come fosse un gioco: c’è la scrittura, c’è l’immaginazione e c’è l’illustrazione che resta con lui e lo fa sognare per lungo tempo". "I bambini sono stupendi perché sono molto diretti - ha detto Maria Cristina Zannoner - se si parla loro direttamente, possono ascoltare qualunque argomento e se il concetto viene amplificato dall’illustrazione, si riempiono del messaggio che gli si sta passando. È un potere immenso: questa è l’educazione".
PLAUDO PIENAMENTE (E CON GIOIA) AL LAVORO (E ALLA BRAVURA) DELLA PROFESSORESSA, è da dire però che "nella discussione bisogna poi tener conto della linea generale, che va certo" in ben altra direzione: si veda "La lettera dei 600 docenti universitari al governo" (http://firenze.repubblica.it/cronaca/2017/02/04/news/firenze_la_lettera_dei_600_docenti_universitari_al_governo_molti_studenti_scrivono_male_intervenite_-157581214/?ref=HREC1-12).
QUANTO SIA IMPORTANTE LA PORTATA della "microfisica" e, insieme e allo stesso tempo, della "MACROFISICA" SULLA "MICROFISICA", questo è il nodo da pensare (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5143)! L’intervento di Giorgio Mascitelli ha toccato il "nervo" giusto, egli ha perfettamente ragione: sia come cittadini e cittadine sia come docenti, professoresse e professori, noi tutti e tutte ancora non abbiamo piena consapevolezza di cosa significa avere la carta d’Identità della Repubblica Italiana in tasca e di cosa significa (andare ogni mattina all’interno di "certi" edifici a) insegnare nella Scuola della Repubblica italiana.
La cosiddetta AUTONOMIA della SCUOLA (e l’eliminazione di "PUBBLICA") CON TUTTI I SUOI "PROGETTI",compreso questo ultimo dell’ALTERNANZA SCUOLA LAVORO (in queste larghissime modalità), è solo il penultimo gradino dell’irruzione del MERCATO nel mondo della SCUOLA PUBBLICA e della realizzazione di una "BUONA SCUOLA" per il mondo del MERCATO "pubblico"!!! MANCA POCO e leggeremo su tutte le Scuole dello Stato dell’alternanza scuola lavoro la "pubblicitaria" scritta: "IL LAVORO RENDE LIBERI"!
“La colpa non è né degli insegnanti, né degli studenti, ma di chi ha smantellato la scuola", dice Massimo Cacciari - e ha ragione.
"L’impronta gentiliana è stata contestata e superata, ma nel momento in cui è stata sostituita non si è lavorato in modo logico. L’impianto dei vecchi licei è stato smontato senza riflettere su quali competenze siano comunque basilari per qualsiasi corso di studi. Prima c’era il nucleo forte di materie come italiano, latino, storia e filosofia al classico, lo scientifico cambiava di poco con l’aggiunta di matematica. Adesso si taglia il latino, si taglia la filosofia, pilasti per un apprendimento logico. Sembra che l’unica cosa indispensabile sia professionalizzare, ma non si vuole capire che alla base di ogni apprendimento ci sono le competenze linguistiche” - dice Massimo Cacciari (su "la Repubblica", 05.02.2017) - e ha ragione.
CONCORDO! "L’impronta gentiliana è stata contestata e superata, ma nel momento in cui è stata sostituita non si è lavorato in modo logico"!
MA, FINORA, MASSIMO CACCIARI, dove è stato e dov’è ora - in "clinica"(si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3539)?! E questo non è un problema di "sana e robusta" COSTITUZIONE E META-FISICA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5418), di METAFISICA E COSTITUZIONE?!
BUON LAVORO
Federico La Sala
UNA SCUOLA GRANDE COME IL MONDO. In memoria di Gianni Rodari ...
RISPOSTA A Microfisica dell’alternanza scuola lavoro
CONDIVIDENDO A PIENO L’ARTICOLATA E CHIARA ANALISI E RIFLESSIONE DI GIORGIO MASCITELLI ("Alfabeta2"), spero che possa essere utile e gradita la seguente nota , che allarga il campo sino ai confini della MACROFISICA (e se si vuole alla META-FISICA):
IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITA’, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. Materiali per ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5143
BUON LAVORO!
Federico La Sala
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA
La scuola capovolta
di Andrea Balzola (alfapiù,10 gennaio 2017)
Che la scuola debba essere non solo più “buona”, non solo migliore, ma radicalmente diversa da quella attuale, alla luce degli enormi cambiamenti, nel bene e nel male, realizzati nelle società cosidette avanzate dall’ultimo scorcio del Novecento a oggi, non è una novità. La rivoluzione tecnologica informatica, la precarizzazione e la mobilità del lavoro, la globalizzazione e l’evoluzione degli studi in ambito cognitivo hanno definitivamente messo in crisi i modelli educativi che dominano la pubblica (e anche privata) istruzione, dalla scuola materna e primaria fino e oltre l’università.
Eppure l’insieme del bradipesco pachiderma burocratico dei ministeri, dei legislatori, della maggioranza dei direttori didattici, di un’ampia parte del corpo insegnante nonché degli adulti genitori, coadiuvati e confortati dalla disattenzione dei media, sembra non averlo percepito. Se ne sono invece accorte, eccome, le nuove generazioni, quelle dei “nativi digitali”, che subiscono in gran quantità ore di trasfusione standard di saperi, una mole soffocante di compiti a casa, un sollevamento pesi quotidiano di libri scolastici cartacei per lo più obsoleti nella forma e nel contenuto, uno stress emotivo dovuto alla competitività e alle difficoltà relazionali che spesso sfociano nel bullismo, un’anacronistica inadeguatezza tecnologica degli strumenti e degli ambienti educativi.
Molto spesso l’esperienza scolastica, invece di incentivare quell’istinto naturale all’apprendimento che è stato confermato dalle più recenti ricerche, invece di valorizzare le potenzialità soggettive e le facoltà creative guidando una crescita integrata che unisca coscienza mentale, emotiva e corporea, spegne le motivazioni formative conformandole a un unico modello astratto e razionale di “rendimento” e di “valutazione”, da testare con discutibilissimi “invalsi” (da più parti è stato segnalato come i test invalsi siano funzionali più a interessi economici che educativi, secondo un modello di valutazione che premia esclusivamente il pensiero razionale-analitico a scapito di tutte le altre abilità).
Se però si va a spulciare la produzione editoriale e multimediale di questi ultimi anni nel settore educativo, tanto in ambito internazionale quanto a livello nazionale, ci si sorprende per la quantità e la qualità dei contributi innovativi che molti autori di differenti discipline hanno offerto al dibattito sulla realtà e sulle prospettive del mondo dell’istruzione. Diventa quindi ancor più inquietante ed esasperante la sordità del sistema scuola, con virtuose e coraggiose eccezioni che cercano di aggiornarsi e agire dall’interno, tra mille ostacoli burocratici, politici e culturali.
Un’analisi critica radicale dei modelli didattici in atto accomuna con sfumature e approcci diversi tutti gli autori di questa new wave: dai filosofi della levatura di Edgar Morin, che ha dedicato l’ultima parte della sua produzione proprio al tema del cambiamento dei paradigmi educativi (Imparare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina 2014), o di Michel Serres (Non è un mondo per vecchi. Perché i giovani rivoluzionano il sapere, Bollati Boringhieri 2014), agli esperti dell’educazione come Ken Robinson, teorico del “pensiero divergente” (Creative School. Revolutionizing Education from the Ground Up, Penguin Books 2015, purtroppo non ancora tradotto in italiano; da vedere anche i suoi video su Youtube e il canale Learning World), o Salman Khan, che ha costruito da zero la più grande rete e-learning internazionale di videolezioni interattive gratuite, la Khan Academy (La scuola in Rete. Reinventare l’istruzione nella società globale, Corbaccio 2013), psicologi come Peter Gray (Lasciateli giocare, Einaudi 2015) e Howard Gardner, teorico delle “intelligenze multiple” (Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale, Feltrinelli 2014), o psicanalisti come Massimo Recalcati (L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi 2014), che ha insistito su un recupero maieutico della figura del docente.
Freschi di stampa sono i volumi di Giacomo Stella, educatore esperto di problemi di apprendimento: Tutta un’altra scuola, Giunti 2016, e di Stefano Cianciotta e Pietro Paganini, Allenarsi per il futuro, Rubbettino 2016. Mentre nel primo libro si analizzano le gravi mancanze della scuola attuale e si spiega come la didattica non debba limitarsi a “imprimere nella mente” ma debba creare spazi di ricerca e di elaborazione attiva, integrando tutte le forme di disabilità, il secondo volume rivela come il mondo del lavoro contemporaneo richieda una formazione molto diversa dall’offerta attuale.
Scrivono gli autori: “A nostro giudizio in questi ultimi 30 anni si è abbandonato quell’equilibrio tra preparazione umanistica e competenza scientifica che di fatto aiutava il sistema italiano ad emergere. E alla fine tutto il sistema della formazione ha fatto dei passi indietro molto evidenti. Una volta aiutava a elaborare un giudizio critico, ora non più. [...] Oggi, 2016, il sistema della formazione in Italia si basa in prevalenza ancora su nozioni, che i giovani però recuperano su Youtube. Continuare a fare così significa creare le condizioni per cui il ragazzo torni dalla scuola molto svogliato”.
Il libro tocca anche un altro tema importante, quello della formazione continua, ormai necessaria in una società complessa e in continua trasformazione. La sfida non è solo riformare, ma trasformare il sistema educativo approfittando delle attuali risorse creative e tecnologiche (vedi Giuseppe Riva, Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media, il Mulino 2015).
In particolare uno dei metodi alternativi che ha suscitato più interesse e più applicazioni concrete è quello della flipped classroom, la “classe capovolta”, nato negli Stati Uniti nel 2010 e formalizzato dagli autori Jonathan Bergmann e Aaron Sams in una pubblicazione del 2012, Flip your classroom, che ha avuto una diffusione mondiale (in Italia la traduzione è uscita nel 2016 da Giunti).
L’idea di base è quella di rovesciare lo schema classico della lezione frontale in aula e dei compiti a casa, indirizzando gli studenti a seguire durante il tempo extrascolastico video-lezioni, podcast o altri strumenti e-learning che il professore fornisce loro, e poi fare esercitazioni e approfondimenti collaborativi in classe seguiti dal docente, che in questo modo può verificare e personalizzare allievo per allievo livello e modalità di apprendimento.
In Italia, a partire dal 2014, sono stati pubblicati numerosi volumi che riprendono, commentano e divulgano questo metodo, il primo volume di questo filone, intitolato La classe capovolta. Innovare la didattica con il Flipped Classroom, pubblicato da Erickson, è stato scritto dagli insegnanti Maurizio Maglioni e Fabrizio Biscaro, ed è il risultato diretto di sperimentazioni realizzate a scuola, rilanciate in Rete tramite blog e social network.
Sulla stessa linea sono i volumi usciti quest’anno di Leonarda Longo, Insegnare con la flipped classroom. Stili di apprendimento e «classe capovolta», La Scuola 2016, e Graziano Cecchinato, Romina Papa, Flipped classroom. Un nuovo modo di insegnare e apprendere, Utet 2016. Tullio De Mauro, uno degli illustri sostenitori di questo metodo, ha notato al proposito: “uno strumento nuovo e potente per facilitare l’interazione e l’insegnamento personalizzato, evitando grandi perdite di tempo [...] consente di abbattere i totem dell’istruzione, dei veri feticci: il prof in cattedra per la lezione frontale, a raccontare cose che lui o altri hanno scritto in un libro con più esattezza; la verifica orale, in cui uno o due rispondono alle domande e gli altri fanno quello che vogliono; e il manuale, una statua sacra”.
La figura del docente si trasforma, non è più l’unico conduttore - spesso più autoritario che autorevole - di un percorso omologante che segue pedissequamente il programma ministeriale e il testo scolastico, ma diventa la guida di una ricerca impostata in modo laboratoriale, con strumenti tecnologici (pc, tablet, smartphone, lim) e metodologici innovativi, con uno spirito di collaborazione piuttosto che di competizione tra gli allievi, operando come un regista e mentore sulle motivazioni e sulle potenzialità di ciascuno, piuttosto che facendo leva sulla paura dell’errore, del giudizio e sull’ansia di prestazione.
Una modalità su cui si concentra il volume di David W. Johnson, Roger T. Johnson ed Edythe J. Holubec, Apprendimento cooperativo in classe. Migliorare il clima emotivo e il rendimento, Erickson 2015. La valutazione e il merito non sono aboliti, ma fanno parte di un processo di responsabilizzazione e di consapevolezza, piuttosto che di un’imposizione arbitraria. Lo scopo fondamentale di un’educazione democratica e non burocratica dovrebbe infatti essere la formazione di invidui capaci di un’autonomia di pensiero, eticamente responsabili e collaborativi nella relazione con gli altri e con l’ambiente, consapevoli e fiduciosi delle proprie risorse, con una mentalità il più possibile aperta e creativa (creatività intesa non solo in una prospettiva artistica o espressiva, ma come capacità di dare molteplici e originali risposte ai problemi).
Concetti basilari che non sono neanch’essi nuovi nella storia della pedagogia, già promossi e riproposti nel corso del Novecento, in contesti e con orientamenti diversi, da pionieri come Dewey, Montessori, Steiner, Freinet, Makiguchi, Neill e altri, ma ignorati o marginalizzati dalle isituzioni formative.
IL PIANO NAZIONALE FORMAZIONE DEL MIUR
Educare al pensiero critico
di Gaspare Polizzi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 Ottobre 2016)
Lunedì 3 ottobre è stato presentato al Miur il Piano nazionale di formazione degli insegnanti. Il Ministro Stefania Giannini lo ha illustrato dopo gli interventi di Andreas Schleicher, Direttore del Directorate of Education dell’Ocse, Jordan Naidoo, Direttore della Divisione Education 2030 Support and Coordination dell’Unesco, Oon Seng Tan, Direttore dell’ Institute of Education di Singapore. Il Piano prevede un investimento di 325 milioni di euro per la formazione in servizio degli insegnanti, che diventa - come previsto dalla legge 170/2016, art. 1, comma 124 - «obbligatoria, permanente e strutturale». Sarà presto adottato con decreto del Ministro e sarà subito operativo. Se a queste risorse si aggiunge il miliardo e 100 milioni della Carta del Docente, si arriva a un totale di 1,4 miliardi stanziati nel triennio 2016/2019 per la formazione del corpo insegnante. Non ci sono precedenti per un impegno di spesa simile del Miur per valorizzare la crescita professionale dei docenti.
Saranno coinvolti nel Piano di formazione tutti i docenti di ruolo, circa 750mila. Nove le priorità tematiche: tre riguardano le competenze di sistema (Autonomia didattica e organizzativa, Valutazione e miglioramento, Didattica per competenze e innovazione metodologica), le altre sei mirano all’innovazione (Lingue straniere, Competenze digitali e nuovi ambienti per l’apprendimento, Scuola e lavoro) e all’inclusione (Integrazione, competenze di cittadinanza e cittadinanza globale, Inclusione e disabilità, Coesione sociale e prevenzione del disagio giovanile). La qualità dei percorsi sarà assicurata attraverso nuove procedure di accreditamento a livello nazionale dei soggetti erogatori che consentiranno anche di monitorare gli standard offerti. Sarà fatto un investimento specifico sulla ricerca in questo campo, pari a tre milioni di euro, per favorire il finanziamento, la raccolta e diffusione delle migliori startup formative. Le «buone pratiche» formative, saranno raccolte, a cura dell’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca Educativa), in una «biblioteca delle innovazioni».
I tre prestigiosi relatori internazionali hanno variamente sottolineato limiti e potenzialità del sistema italiano di istruzione. Schleicher, a nome dell’OCSE, ha illustrato un triangolo perfetto della professionalità docente, ai vertici del quale si trovano l’autonomia, ovvero il potere decisionale dei docenti sul proprio lavoro, la base di conoscenze per l’insegnamento, le opportunità di sostegno e confronto necessarie per mantenere elevati standard di qualità. Nel caso italiano il triangolo è squilibrato perché a una dose elevata di autonomia fanno riscontro basse opportunità di confronto tra docenti e una ridotta base di conoscenze specifiche. È evidente che la formazione si gioca in Italia sulle conoscenze funzionali alla didattica e sulla capacità di dialogare e lavorare in gruppo.
Il ministro Stefania Giannini ha dichiarato che «siamo davanti ad un cambio di paradigma culturale: da oggi ciascun docente sarà inserito in un percorso di miglioramento lungo tutto l’arco delle sua vita professionale. Abbiamo immaginato la formazione in servizio come un ambiente di apprendimento permanente, un sistema di opportunità di crescita costante per l’intera comunità scolastica”. Il Ministro ha posto una particolare enfasi sulla centralità della didattica per competenze, che afferisce agli aspetti strategici del sistema.
Non a caso la svolta impressa dal PNF è stata sottolineata da Tan, Direttore dell’Institute of Education di Singapore, Paese all’avanguardia mondiale nei sistemi educativi: «il lancio di questo Piano rappresenta per l’Italia un traguardo importante nelle politiche di miglioramento del sistema scolastico. Il Piano farà crescere la qualità dell’insegnamento e avrà ricadute positive su scuole e studenti». Tan ha sottolineato la cura che a Singapore si dedica all’apprendimento cooperativo dei docenti, che ridiventano di buon grado studenti disposti in classi di apprendimento gestite da maestri riconosciuti. L’insegnamento collaborativo si realizza grazie alla disponibilità dei docenti a seguire un apprendimento collettivo secondo i criteri del life long learning.
Viene da pensare alla convergenza tra il «nuovo paradigma» della formazione degli insegnanti e lo straordinario impegno profuso dal Sole 24 Ore per l’attuazione del «Manifesto della Cultura», nel quale si sostiene tra l’altro che «l’azione pubblica deve contribuire a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’università, lo studio dell’arte e della storia, non disgiunto dalla formazione di una mentalità scientifica e antidogmatica, per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per la creatività del futuro, formando nel contempo i giovani ad una cultura del merito, che deve attraversare tutte le fasi educative». Gli Stati Generali della Cultura, che quest’anno celebrano la loro quinta edizione, sono imbevuti della medesima volontà di cambiare il paradigma dell’istruzione e della cultura, nella convinzione che soltanto su queste nuove basi potrà avvenire la rinascita del Paese.
Su un punto, in particolare, il PNF può convergere con un obiettivo concreto degli Stati Generali della Cultura: l’esercizio del pensiero critico. Il dossier Ocse 2015 su scuola e università (Education at a Glance) segnala che l’Italia registra uno dei punteggi più bassi in termini di lettura e comprensione (literacy) dei 25-34enni, titolari di un diploma universitario e il dato si riflette sulle competenze logico-linguistiche degli insegnanti, e degli studenti, ostacolando anche il pieno sviluppo dell’educazione alla cittadinanza. Il potenziamento delle competenze logiche e argomentative permette l’esercizio di pratiche di ragionamento volte alla risoluzione dei problemi e in quanto tale è aspetto formativo strategico. Ne possono derivare significativi risultati metodologici quali l’impegno al dialogo e al lavoro di gruppo, la consuetudine con le procedure di verifica empirica di un’ipotesi, il controllo ragionato dei fattori che influenzano le soluzioni, la critica degli automatismi, in una parola, l’esercizio del pensiero critico. Tali azioni formative si iscrivono nel quadro del potenziamento degli apprendimenti di base degli allievi (esiti Invalsi, Ocse-Pisa, Iea-Pirls, ecc.) e della didattica per competenze.
Quella stessa didattica per competenze viene vista dal PNF come la chiave di volta della nuova formazione dei giovani: «la didattica per competenze rappresenta inoltre la risposta a un nuovo bisogno di formazione di giovani che nel futuro saranno chiamati sempre più a reperire, selezionare e organizzare le conoscenze necessarie a risolvere problemi di vita personale e lavorativa. Questa evoluzione concettuale rende evidente il legame che si intende oggi realizzare tra le aule scolastiche e la vita che si svolge al di fuori di esse, richiedendo alla scuola - e soprattutto a ciascun insegnante - una profonda e convinta revisione delle proprie modalità di insegnamento per dare vita a un ambiente di apprendimento sempre più efficace e commisurato alle caratteristiche degli studenti».
Il Piano nazionale di formazione degli insegnanti potrebbe favorire concretamente l’introduzione nell’insegnamento dell’esercizio del pensiero critico, fornendo quegli strumenti logici e metodologici che fanno perdere al docente la sua funzione tradizionale di indottrinamento tramite una lectio, per favorire un ruolo dialogico attivo degli studenti che realizzi, anche con l’apporto consapevole delle tecnologie digitali, una pratica attenta della dialettica come arte del dialogare, analisi critica delle parole e dei discorsi altrui. L’esercizio del pensiero critico potrebbe far diventare un ricordo lontano i bassi risultati dei nostri giovani in lettura e comprensione dei testi, e ridurre il diffuso analfabetismo funzionale.
ALFABETO - TULLIO DE MAURO. Italia, Repubblica popolare fondata sull’asineria
di Antonello Caporale *
Tullio De Mauro Siamo la Repubblica dell’ignoranza, degli asini duri e puri, degli analfabeti di concetto, di concorso, di condominio, da passeggio e da web. Passano gli anni ma restiamo sempre stupiti della mostruosa cifra dei concittadini incapaci di comprendere o persino leggere una frase che non sia un periodo semplice (soggetto, predicato e complemento) e un’operazione aritmetica appena più complessa dell’addizione o della sottrazione a due cifre.
Tullio De Mauro è il notaio della nostra ignoranza.
Sono ricerche consolidate, l’ultima dell’Ocse è del 2014, che formalizza il grado italiano di estremo analfabetismo. Mi succede ogni volta di dover spiegare che la sorpresa è del tutto fuori luogo, i dati sono consolidati oramai.
Professore, asini eravamo e asini siamo.
Abbiamo una percentuale di analfabetismo strutturale intorno al 33% in misura proporzionale per classi di età: dai 16 anni in avanti. Il 5% di essi non riesce a distinguere il valore e il senso di una lettera dall’altra. Avrà difficoltà a capire ciò che divide la b con la t la f la g. Cecità assoluta. Il restante 28 ce la fa a leggere, ma con qualche difficoltà, parole semplici e a metterle insieme: b a c o, baco. Singole parole.
Qui siamo al livello 1: totale incapacità di decifrare uno scritto.
Il cosiddetto livello degli analfabeti strutturali.
Passiamo al secondo livello.
Gli analfabeti funzionali. Riescono a comprendere o a leggere e scrivere periodi semplici. Si perdono appena nel periodo compare una subordinata o più subordinate. E uguale difficoltà mostrano quando le operazioni aritmetiche si fanno appena più complicate della semplice addizione e sottrazione. Con i decimali sono guai.
Dentro questo comparto di asineria alleviata c’è un altro 37% di compatrioti.
Purtroppo non ci schiodiamo da queste cifre.
Quanta gente ha una padronanza avanzata di testi, parole e concetti?
Il 29%. Si parte dal terzo gradino, quello che definisce il minimo indispensabile per orientarsi nella vita privata e pubblica, e si sale fino al quinto dove il forestierismo è compreso, si ha la padronanza della lingua italiana e anche di quella straniera.
Con gli anni si peggiora.
È un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante.
Solo tre italiani su dieci andranno a votare al referendum sulla Costituzione con qualche idea di cosa sono chiamati a decidere.
Siamo lì, purtroppo.
È un disastro!
Il Giappone nel 1870 investì ogni risorsa nella scolarizzazione. Nel 1900 tutti i giapponesi erano in possesso della licenza elementare. Traguardo che noi abbiamo raggiunto 80 anni dopo.
Per la politica è un grande business trovarsi di fronte elettori inconsapevoli. Frottole a gogò!
È un’attrazione fatale. Ricordo che il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer licenziò una riforma nella quale il Parlamento si faceva carico di ascoltare ogni anno una relazione sullo stato dell’istruzione in Italia e ogni tre anni di avanzare gli eventuali correttivi. Un po’ come la manovra finanziaria, pensava che fosse necessaria una legge di stabilità culturale. Era un modo per tenere sott’occhio anche questa sciagura e per ridurre o limitare l’evento calamitoso dell’ignoranza. Venne la Moratti e dopo un giorno dal suo insediamento la cassò.
Anche lei è stato ministro dell’Istruzione.
In Parlamento risposi a un’interrogazione di una deputata (insegnante tra l’altro). Dissi: l’onorevole preopinante (colui che ha appena dubitato, opinato ndr). Lei mi interruppe: come si permette di offendere?
Ma l’ignoranza non incide anche nella qualità del lavoro?
L’ignoranza costa in termini civili, naturalmente culturali e persino nel processo produttivo. L’indice di produttività subisce un assoluto condizionamento dall’asineria.
Di cosa ci sarebbe bisogno?
Di cicli di aggiornamento culturale di massa. E nessun sussidio (penso alla cassa integrazione) dovrebbe essere possibile senza un contestuale periodo di educazione alla lingua.
Dovremmo tutti andare al doposcuola.
Prima si andava al mercato e si sceglieva la lattuga. Adesso c’è il supermercato dove tutto è imbustato. Per capirne provenienza e confezionamento è necessario saper leggere. Posso anche leggere Cile, ma se non so dove si trova quel Paese che me ne faccio di quella indicazione?
Siamo il Paese della onesta incomprensione.
Esisteva un servizio intelligente e puntuale che indagava sulla nostra capacità di comprendere, il servizio opinione Rai poi incredibilmente chiuso. Nel 1969 fu avanzata una ricerca su tre campioni: la casalinga di Voghera, gli operai di Bari e gli impiegati di Roma. Questi ultimi si distinsero per la loro selvaggia ignoranza.
E noi a prendercela con la casalinga di Voghera.
Invece i peggiori erano gli impiegati dei ministeri. Asinissimi!
* Blog di Antonello Caporale - Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016
MILLENNIALS. Hanno la stessa età del web. Anche se il loro agire evoca il mito di Ulisse
Il paradosso generazionale dei figli che educano i padri
di Marino Niola (la Repubblica, 29.07.2016)
Più che una generazione, sono una specie in mutazione. Con il cambiamento epocale scritto nel nome. Li chiamiamo millennials, con una definizione che evoca le incognite delle grandi svolte, l’inquietudine del numero mille. L’attesa millenaristica, le insidie del millennium bug, il debutto del nuovo millennio, con il suo carico di angosce paralizzanti e innovazioni esaltanti. Un triplo concentrato di storia allo stato puro in undici lettere e quattro sillabe. Di più zippato c’è solo il poema di Aramis, il più letterato dei tre moschettieri, ventimila versi in una sillaba sola.
Nata nei primi anni Novanta come millennial generation, in origine l’espressione designava coloro che sarebbero diventati adulti con l’avvento del Duemila. Gli inventori, William Strauss e Neil Howe, avevano bisogno di un’etichetta semplice per classificare nella loro teoria delle culture generazionali i bambini nati fra il 1982 e il 2004. Ragazzi che hanno la stessa età, e lo stesso dna, di internet. Tanto è vero che li hanno identificati anche come generazione internet e, in seguito, come nativi digitali. Perché a disegnarne il profilo collettivo e a definirne il destino storico è la rete. Che ne ha fatto i protagonisti di un testacoda generazionale senza precedenti. Perché per la prima volta i figli della galassia virtuale hanno invertito i flussi di trasmissione della cultura e dei valori. Perché sono fatti a immagine e somiglianza del web, ne compartecipano l’orizzontalità, la simultaneità e l’assenza di autorità. E perché si sono fatti maestri di se stessi. Ma anche nostri.
Una volta i modelli culturali, i contenuti dell’insegnamento, le regole del comportamento, avevano un andamento discendente. Saperi, esperienze, conoscenze, competenze passavano dagli adulti ai giovani. Oggi è sempre più vero il contrario. Le istruzioni per vivere hanno un moto ascendente, dagli under agli over. Gli stili di vita, la moda e il dress code, le aspirazioni, le emozioni, i costumi, i consumi hanno un segno sempre più giovanilista. E di questa inversione di polarità, la tecnologia è la causa efficiente e, insieme, l’icona dominante. Quella che cattura il sentimento del tempo, che linka il passaggio dall’età della stampa a quella dello schermo, dall’elettrico all’elettronico, dal pensiero analogico a quello digitale, dal mondo della diacronicità a quello della sincronicità, dalla Galassia Gutenberg alla Galassia Zuckerberg.
La naturalità con cui i nativi stanno di casa nella tecnologia, li ha sparati molto più avanti dei loro genitori e insegnanti. Se la simultaneità, che è la cifra profonda della società liquida, fa fuori la cronologia, l’anteriorità del prima e la posteriorità del poi, rende di fatto superfluo ogni rituale di iniziazione e revoca i fondamenti stessi dell’educazione.
Addirittura oggi l’iniziazione funziona alla rovescia, nel senso che sono i nativi digitali a iniziare i loro genitori, portati dalle onde del web come migranti in cerca di approdi. Richiedenti asilo in un mondo nuovo e pieno di promesse, di cui i ragazzini custodiscono gelosamente le chiavi. Sono loro a decidere se e quando aprire cancelli e cancelletti a mamme, papà e insegnanti. È una lotta impari fra grandi che si arrampicano faticosamente, e volenterosamente, sulle scale impervie dell’alfabetizzazione tecnologica e la facilità irridente di pischelli che sembrano nati imparati e surfeggiano leggeri sulle onde del web.
In fondo sono l’incarnazione tech dell’intelligenza multifunzione di Ulisse. Il grande archetipo del multitasking. Non a caso Omero lo chiama polytropos, cioè ingegno multiforme. E forse, a guardarlo dalla nostra prospettiva, la sua navigazione ondivaga, piena di distrazioni e di deviazioni, fa pensare al labirinto liquido della rete dove i ragazzi dot.com amano perdersi in una simultaneità orizzontale, piena di diversioni e di seduzioni. Del resto, come diceva Walter Benjamin, il labirinto è la via di chi non vuole arrivare alla meta. E proprio così ci appaiono spesso i nostri piccoli nerd. Il loro rapporto tra mezzi e fini ci spiazza e ci irrita, soprattutto quando si tratta dei nostri figli. Non riusciamo a decidere se ammirarli, invidiarli o detestarli.
Anche per questo, la loro disarmante competenza innata ci fa quasi rabbia, il loro dadaismo digitale, pieno di ironia e qualche volta di sufficienza nei nostri confronti, ci fa sentire ininfluenti, incompetenti, vagamente dementi. Mentre loro ostentano una scienza infusa che, di fatto, rottama i tutori. E li sostituisce con i tutorial.
Secondo una ricerca dell’Università di Stanford scrivono molto più delle generazioni precedenti e, soprattutto, hanno elaborato linguaggi, codici ed estetiche che bypassano la scuola. Adesso sono app e youtube, forum e chat che forniscono info e consulting, guide e counseling. Con guru under 20 che postano lezioni su tutto lo scibile, il fattibile e il pensabile. Come imparare ad usare l’ultimo programma di montaggio o avere un makeup impeccabile h24. Ma anche l’arte di fare ordine nei cassetti, corsi di pittura, fitness, compressione dei file, chitarra e perfino l’how to play per suonare Mozart. E ancora, disegnare manga e intonare mantra, l’abbici del cake design, i trucchi di instagram, l’autoproduzione di cosmetici bio, come nutrirsi correttamente, le mosse del gangnam. Senza trascurare i classici, autostima e automassaggio, cucina e cucito, inglese e cinese. E la mappa concettuale per l’esame di maturità.
In questo oceano del possibile, i ragazzi, che a 15 anni inventano start up milionarie, appaiono molto meno spaesati di quegli adulti che pontificano su di loro. O li inseguono affannosamente, nello sforzo patetico di catturarne l’attenzione, di intercettarne i valori, finendo invece per esserne catturati. E diventare, come diceva Guillaume Apollinaire, figli dei propri figli.
Apriamo gli studenti all’ubuntu
di Luca Maria Scarantino (Il Sole-24 Ore, 05 giugno 2016)
Donna non si nasce, lo si diventa: commentando questa celebre massima di Simone de Beauvoir, due liceali della Corea del Sud hanno vinto le Olimpiadi mondiali di filosofia. La terza medaglia d’oro, ex-aequo, è andata a uno studente turco, autore di un saggio sulla logica di Aristotele. Nessun paese aveva mai ottenuto due primi posti in una stessa edizione.
Leggendo gli elaborati nello splendore fiammingo di Gent, ripensavo alle parole di un collega della giuria. «Stanno vincendo», mi aveva detto il giorno prima, mentre i militari belgi in tenuta di guerra ci perquisivano in prossimità dell’aeroporto di Charleroi: nell’Europa sotto attacco siamo noi le armi che i nostri nemici stanno preparando. Non si tratta solo di abitudini quotidiane sconvolte da questo stato d’assedio strisciante. È la crescente tentazione di chiudersi, di ripiegarsi in una tradizione, in un’identità, di restringere il proprio mondo a un insieme circoscritto, rassicurante, quasi tribale di coordinate culturali. Gli scritti dei liceali venuti a Gent da tutto il mondo per comporre un breve saggio di filosofia dicevano cose molto diverse.
«Ogni volta che devo barrare una casella, la società mi impone di scegliere “femmina”; eppure tutto dentro di me si sente maschio»: inizia all’incirca così uno degli elaborati vincitori. «Sono donna perché da diciassette anni la società mi impone di esserlo... ma ogni donna dovrebbe battersi non solo per il diritto di diventare donna, ma anche per quello di non diventarlo»: parole decise, coraggiose e piene di vita di ragazze e ragazzi coreani, svizzeri, norvegesi, croati che non hanno paura di esplorare i propri sentimenti e la propria identità di genere, servendosi della filosofia per capire meglio se stessi e la società in cui vivono. Oltre metà delle medaglie d’oro e d’argento, compresi due dei tre vincitori, sono andate a saggi dedicati a questi temi. Non è strano che adolescenti cerchino di costruirsi, né che si interroghino sul proprio rapporto con la società che li circonda; ma è evidente che la rilevanza sociale delle questioni di genere sta diventando un fenomeno universale, parecchio sentito da questi ragazzi che si chiedono in modo consapevole quanto siano pertinenti per la loro vita le norme tradizionali che regolano l’identità di genere: e lo fanno con stili, convinzioni, tesi e conclusioni assai diverse.
Alcuni colleghi europei si chiedevano quanto gli studenti giapponesi, indiani, coreani o cinesi conoscano la tradizione filosofica occidentale. I saggi arrivati in finale ci dicono che maneggiano assai bene Aristotele e Putnam, Locke e Wittgenstein, Foucault, Heidegger, Sartre e Derrida, la tradizione analitica e il pensiero femminista... Questa familiarità con altri mondi, unita a sistemi educativi particolarmente efficaci, aiuta a capire i ripetuti successi degli studenti asiatici.
Chiediamoci allora quanto i nostri studenti, liceali o universitari, conoscano delle altre culture e siano esposti al confronto con esse. Cosa sanno i ragazzi italiani (e prima ancora: cosa sappiamo noi) di Nishida, Wonhyo, Dasan, Laozi, dell’ubuntu, di Senghor, Iqbal e di tanti altri autori e autrici di formidabile rilievo teorico e culturale? Qualcosa si muove, certo; le iniziative rivolte ad aprire l’insegnamento della filosofia e delle scienze umane in senso interculturale non si possono più trascurare; e l’Italia non sta peggio di altri paesi europei. Eppure, troppo spesso si continua a identificare la filosofia con la filosofia occidentale.
È tesi corrente, in Italia e non, che molte delle espressioni culturali non occidentali siano forme di spiritualità, di religiosità, di saperi tradizionali - ma non siano filosofia. Può darsi. Ma da sempre il pensiero filosofico trae la propria forza dalla capacità di integrare una pluralità di forme e pratiche culturali, sino a fondersi con esse: si pensi all’indissolubile rapporto con la religione che ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale, o all’importanza dell’astrologia che attraversa l’intero Rinascimento. Certo, proprio questi saperi, una volta esaurito il proprio ruolo storico, sono stati rifiutati, evacuati dalla comprensione storica del pensiero filosofico: al punto che oggi non siamo quasi più in grado di riconoscerli.
Ma a cosa può aspirare oggi una filosofia che si mura entro un’unica tradizione, lasciando fuori e anzi respingendo oltre i propri confini intere tradizioni spirituali e di pensiero? Davvero vogliamo escludere dall’ambito del pensiero filosofico interi secoli di storia della cultura, abbandonare ad altre discipline lo studio del sufismo, del confucianesimo, delle tradizioni dell’India? Aprire invece, viene da pensare, spalancare le porte della propria mente a culture, filosofie, letterature, religioni di tutto il mondo, anche a costo di scardinare alcuni riflessi culturali ben radicati nella tradizione europea: è di questo che hanno bisogno questi ragazzi per competere nel mondo di oggi e di domani.
La Corea raccoglie i frutti di decenni di investimenti in cultura, educazione, scienze; ed è comunque probabile che già l’anno prossimo si abbiano vincitori di paesi diversi. Eppure, da uno dei più suggestivi borghi della vecchia Europa giunge un segnale da non sottovalutare: al netto di facili generalizzazioni, molti ragazzi extra-europei, e asiatici in particolare, sembrano assai meglio preparati a muoversi nella complessità del mondo di oggi. Ne capiscono e ne affrontano di petto i problemi, le esigenze, le difficoltà. Anche con qualche ingenuità, certo. Ma non hanno alcuna paura di mettersi in gioco: sono gay, ci dice la ragazza coreana con inesorabile forza argomentativa, e se la società vuole a tutti i costi fare di me una donna, allora la società va cambiata. Chissà se i risultati delle Olimpiadi di Gent saranno motivo di stimolo e di accresciuta apertura anche per il nostro sistema educativo.
Come inventare il futuro nel tempo della società dolce
di Francesca Bolino (la Repubblica, 08.05.2016)
Il “dolce” smantellerà il “duro”, quel vecchio mondo costruito con “mura, città, porti, asili di morte” che contenevano concentrazioni di donne, uomini, studenti, professori, liberi e condannati, sani e malati, cliniche, ospedali, libri, librerie.
Per Michel Serres il vecchio mondo è fatto di scatole dove non abbiamo mai smesso di cristallizzare i flussi, trasformando una folla sparsa in istituzioni, il cemento e la sabbia in muraglie, i giochi dei bambini in classi ordinate, l’amore in matrimonio... La società dolce assomiglierà invece a un vortice di flussi, senza mura.
Quando nel XVIII secolo dall’Accademia di Digione Rousseau lanciò un concorso per rispondere alla domanda «come fanno a volare gli uccelli?», le migliori teste d’Europa inviarono soluzioni geniali ma nessuna riuscì a dimostrare il volo. Il premio non fu assegnato: la meccanica dei solidi non poteva arrivare ad immaginare la scienza dei flussi e quindi comprendere la funzione delle turbolenze sotto le ali degli uccelli.
È quanto accade nella nostra società: bloccati a quella vecchia logica, siamo incapaci di pensare organizzazioni sociali fluide adatte all’età dolce. Per questo alla parola “sintesi” che designa qualcosa di stabile, il filosofo francese preferisce il termine “sirresi”, che indica una confluenza di flussi. Ed è questo paesaggio evolutivo che può far nascere un’umanità viva e mobile.
A 85 anni l’epistemologo Michel Serres scrive con Il mancino zoppo un saggio di contagiosa euforia, una ricostruzione del mondo dove l’energia creativa si sviluppa dalla volontà di uscire dalle regole. Qui il racconto dell’universo, a partire dal Big Bang, può essere narrato attraverso l’apparizione di fenomeni nuovi e imprevedibili, come un’esplosione di contingenze inventive.
Serres ci invita a immergerci nel dinamismo del mondo. Ci spinge a liberarci da ciò che è astratto, fisso, formattato: nell’età del dolce dobbiamo imparare ad abitare il possibile, inventare il futuro. Sono gli zoppi e i mancini a costruire il nuovo mondo, andando oltre le regole. Sono loro gli eroi di un’età dolce, riconfigurata dal digitale.
Il bello della dissimmetria
«Il mancino zoppo» è un autoritratto del filosofo francese. La sua condizione fisica è l’emblema del suo pensiero
di Gaspare Polizzi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.05.2016)
In filosofia, lo zoppo più famoso lo troviamo nel metà nano, metà storpio dello Zarathustra di Nietzsche che riversa «pensieri-gocce-di-piombo nel mio cervello». Ma già Edipo, «dai piedi gonfi», discende da uno zoppo, Labdaco, «il cui nome significa «zoppo», «asimmetrico», come le due gambette, una corta e una più lunga, della lettera greca lambda».
Il mancino zoppo di Michel Serres è più vicino a Edipo che al nano di Nietzsche: quintessenza dell’umanità nell’era iniziata con l’industrializzazione e oggi chiamata Antropocene.
Il titolo esprime la condizione di Serres, mancino zoppicante - «già mancino, ho rischiato l’emiplegia: zoppico dolcemente» -, ma descrive anche, in uno stile proteiforme, un racconto a più voci che richiama i suoi personaggi concettuali, da Pantope ad Arlecchino, da Ermes a Pollicina (Petite Poucette, Le Pommier 2012, tradotto con il titolo un po’ bizzarro Non è un mondo per vecchi, Bollati Boringhieri 2013). In una procedura “matematica” di integrazione che conduce a quel Grande Racconto al quale Serres si dedica dal 2001 e per il quale ha coniato il neologismo «ominescenza», che, diversamente da «ominizzazione», indica, in quanto incoativo, «l’inizio di una trasformazione (come luminescenza, adolescenza, arborescenza, ecc.)» (J-P. Dekiss, a cura di, Conversations avec Michel Serres, Jules Verne, la science et l’homme contemporain, Le Pommier 2003).
Lo strappo «ominescente» produce, tra il 1960 e il 1970, quelle «trasformazioni trans-storiche concernenti la crescita demografica, il corpo, il dolore, medicina e farmacia, sessualità, agricoltura, colonie, comunicazioni, efficacia tecno-scientifica mondiale, ecologia, cultura, morali, religioni... che riflettono le rivoluzioni contadine, il concilio Vaticano II e gli eventi del 1968». Uno strappo che il vecchio mondo non comprende ancora, cercando di «gestire il nuovo mondo, la nuova società, i nuovi uomini... con mezzi politici, economici, finanziari, culturali, pedagogici... tratti dal mondo scomparso» (Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Riga 35, 2015).
Serres si impegna a fornire una filosofia del processo di «ominescenza». Il Grande Racconto inizia con l’evocazione del Big Bang e si conclude con un «elogio dell’attuale». Per intanto, nel Mancino zoppo fornisce un polifonico elogio del possibile e del contingente.
Serres ha attraversato discipline lontane fra loro - matematica, letteratura, fisica, estetica, diritto, storia, antropologia, informatica, sociologia, biochimica - per trarne ora una visione globale sintetica. Il Terzo-Istruito, eroe di un umanesimo sostanziato dal sapere scientifico, oltrepassa la divisione tra «istruiti incolti» e «colti ignoranti», tra scienze dure e scienze umane, alla ricerca di uno «spazio trascendentale di comunicazione».
Anche in questo libro Serres vede nell’informazione il tratto costitutivo di ogni differenziazione nell’universo, nella vita, nell’azione e nel pensiero degli uomini: «che cosa significa pensare se non, come minimo, effettuare queste quattro operazioni: ricevere, trasmettere, stoccare, trattare informazione?». Dal frammento di Eraclito «Il lampo governa l’Universo», alla definizione dell’informazione di Léon Brillouin come neghentropia, non vi è soluzione di continuità. Il «Grande Racconto delle cose, dei viventi e degli uomini» descrive la Puissance de la pensée (meno perspicuo il sottotitolo italiano: Dal metodo non nasce niente) con temi che rimbalzano dai sessantanove libri precedenti.
Ne illumino qualche frammento. Un’equazione unisce l’inventare e lo scoprire, «poiché tutto ciò che esiste, contingente, per emergere ha bisogno di una data quantità di rarità, cioè di novità». L’equazione pensiero-mondo è il leit-motiv del libro: «Lo sospettavate dall’inizio del libro, che fa pensare che il mondo pensi. Con l’enorme differenza che l’informazione e il pensiero, benché dello stesso genere, non appartengono alla stessa specie».
Il pensiero inventivo si iscrive nella dissimmetria provocata dal nascere e dal conoscere, produce quelle «emergenze» rintracciabili in ogni sistema complesso, molecolare, cellulare, neurale: «Quando Léon Brillouin definì l’informazione come un’eccezione rarissima all’entropia; quando Pierre Curie lanciò, per la prima volta, l’idea di asimmetria; quando Louis Pasteur meditò sui cristalli enantiomorfi; quando, prima di loro, Lucrezio descrisse il clinamen, l’inclinazione, la biforcazione, la nanoramificazione, la rottura di simmetria a livello degli elementi primi, come costitutivi delle cose, non schematizzavano, non riassumevano, non addolcivano forse delle antiche figure, il corpo di quei mitici avventurieri, sempre distanti dall’equilibrio, mancini, essi stessi biforcanti dalle loro membra?».
Serres si trasforma in una levatrice, in francese sage-femme (letteralmente «saggia-donna»), per «aiutare a partorire il mondo nuovo», come Socrate, sterile ma efficace, con la sua maieutica, per far germinare la saggezza. Il nuovo mondo si intravede lungo la faglia profonda prodotta dallo strappo «ominescente». È il mondo di Pantope, «colui che passa per tutti i luoghi», e ora di Pollicina, «discendente diretta di Hermes», che ha scoperto «il significato fisico dell’avverbio maintenant: «Cellulare - dice lei - che sta in mano, adesso [maintenant], e tengo in mano [tenant en main] il mondo».
Nel nostro tempo digitale, l’«alleanza qui proclamata delle scienze della vita e della Terra con il digitale ci allontana finalmente dalla guerra mondiale, nel senso del conflitto contro il mondo». Perché essa si realizzi sono urgenti una politica e una filosofia della storia, «che siano rispetto a quelle passate ciò che la meccanica dei fluidi è rispetto a quella dei solidi». E su di esse Serres promette di tornare al lavoro, seguendo il motto: «penser c’est anticiper».
“Per cambiare il mondo è meglio essere mancini o zoppi”
“L’innovazione non segue mai sentieri diritti arriva improvvisa come un ladro nella notte”
intervista di Alberto Mattioli (La Stampa, Tuttolibri, 07.05.2016)
L’unico dogma della laicissima cultura francese è «la méthode». Eppure, in Francia è una star riconosciuta il «philosophe» il cui metodo è quello di contestare il metodo. Michel Serres, 84 anni, professore di Storia della scienza alla Sorbona, poi a Stanford e in mezzo mondo, accademico di Francia dal ’90, ha venduto 200 mila copie con un saggio dal poco filosofico titolo di Petite Poucette, «Pollicino». Adesso torna in libreria con Le gaucher boiteux, Il mancino zoppo (Bollati Boringhieri, pp. 285, € 18). «La mente filosofica più fine che esista oggi in Francia» (parola di Umberto Eco, che peraltro era un suo grande amico) verrà a presentarlo al Salone del Libro, intervistato da Corrado Augias.
Professor Serres, perché un mancino e per di più zoppo?
«Perché l’innovazione arriva come un ladro nella notte, a sorpresa. Non c’è un metodo per ottenerla. Una ricetta ti permette di cucinare il piatto che vuoi, non di idearne uno nuovo. Inventore è chi trova quello che non cerca. Come Cristoforo Colombo, che scopre l’America cercando l’Asia. Per innovare, bisogna uscire dal cammino previsto, biforcare. Innovare significa biforcare. Il mio mancino zoppo è qualcuno che è “biforcato” nel corpo. E’ una metafora, perché non voglio dire che tutti gli innovatori siamo mancini o zoppi o tutti e due insieme. Però, per esempio, i miti dell’Antichità sono pieni di zoppi».
Un altro esempio che lei fa è quello, poco familiare a un lettore di filosofia in generale e in particolare a un lettore italiano, di Aristide Boucicaut.
«E’ l’inventore del “Bon Marché”, il primo grande magazzino moderno, il negozio dove c’è tutto. All’inizio, monsieur Boucicaut lavora per classificazione, con un metodo rigoroso. Sistema i suoi prodotti per generi merceologici, li ordina, li divide. Grande successo. Ma, dopo un anno o due, si accorge che il fatturato non cresce più. E allora, un bel giorno, rimescola tutti i prodotti, mette le patate accanto ai vestiti. E gli affari prosperano, perché la massaia, per trovare le patate, deve passare davanti ai vestiti e finisce per comprarseli, e viceversa. Come Colombo, trova quello che non cercava. Gli anglosassoni la chiamano “serendipity”, l’avvenimento fortuito e fortunato. E’ uno dei segreti dell’innovazione, anche se ovviamente non capita per caso, ma presuppone l’impegno e la ricerca».
Lei si paragona a una levatrice. Come Socrate.
«Con una differenza, però. Per Socrate, lo scopo del filosofo era di far nascere degli spiriti individuali, delle singole personalità. Io credo invece che il filosofo debba partorire un nuovo mondo. Pensare l’innovazione significa aiutare la nascita di un nuovo mondo. Quindi la metafora è la stessa di Socrate, il suo oggetto diverso».
Del suo libro, colpiscono, oltre ai concetti, il linguaggio: una serie di racconti, più che un trattato.
«Sono dentro una tradizione, che è quella francese ma anche italiana, diciamo latina. Il linguaggio filosofico anglosassone è molto formale, quello tedesco concettuale. Gli italiani, penso a Giambattista Vico, e i francesi come Montaigne, Voltaire, Diderot, hanno sempre privilegiato la narrazione, una riflessione concreta che si fa raccontando storie. Quindi non sono per nulla originale».
Colpisce il suo ottimismo. Oggi la nostra società tutto sembra fuorché fiduciosa...
«Ci saranno sempre dei nostalgici, gente che per la quale prima era meglio, a prescindere. Io però ho 84 anni e se mi guardo indietro constato di aver visto la Seconda guerra mondiale, la Shoah, Hiroshima e tutto il resto. Non ho nostalgia per un tempo in cui c’erano decine di migliaia di morti al giorno. Limitiamoci all’Europa. Da quando l’abbiamo unita, siamo in pace da 70 anni: non succedeva dai tempi della guerra di Troia. Per questo dico che viviamo in un’epoca “dolce”. Ci è sempre stato detto che la crisi economica genera la guerra: non mi sembra però che la Germania abbia invaso la Grecia. Cercate su Internet le principali cause di mortalità. Nonostante quel che scrivono i giornali, guerra e terrorismo sono fra le ultime. Gli incidenti d’auto e il tabacco fanno molti più morti. La realtà è che siamo pessimisti perché stiamo troppo bene».
La Francia di oggi sembra tuttavia piuttosto depressa...
«La Francia sembra sempre depressa. Ma non è un problema politico, è un problema culturale. Anzi, antropologico. Il francese non è gioioso, ama moltissimo lamentarsi. Certo, ci sono stati Rabelais o Diderot, ma la nostra cultura di regola non è allegra, forse perché eccessivamente basata sulla ragione. Nella cultura italiana, la dimensione emozionale è più forte. Forse per questo l’umore generale è più ottimista».
In questo quadro idilliaco stonano le ondate migratorie.
«E’ un problema, certo. Ma gestibile. Io sono nato nel sud-est della Francia. A un certo momento, sembrava che di colpo ci fossero più italiani che francesi. Poi ci fu la guerra civile e arrivarono in massa gli spagnoli. Oggi l’immigrazione pare più massiccia. Tuttavia, un fenomeno che abbiamo conosciuto è un fenomeno che possiamo controllare».
Fa un certo effetto vederla in divisa da accademico: non è un mondo un po’ demodé?
«Non credo. La marsina può sembrare vecchiotta, e lo spadino pure, ma tanto io non lo porto. Però l’Accademia è nata ed esiste soprattutto per compilare il Dizionario della lingua francese. Di solito ne esce una nuova edizione ogni vent’anni. E, in media, fra un’edizione e l’altra c’erano circa 4 o 5 mila parole di differenza. Nell’edizione che stiamo discutendo siamo già a 37 mila, fra parole nuove e parole che non si usano più. Mi sono informato: succede lo stesso anche nelle altre lingue, quindi non si tratta solo dell’invasione dell’inglese. Spariscono, per esempio, moltissime parole legate all’agricoltura o all’artigianato. E’ o non è un modello ridotto della crisi che attraversiamo, un effetto della globalizzazione? Per questo non credo che l’Accademia sia fuori moda».
Autori italiani: chi ama?
«Avevo due grandi amici e sono morti entrambi: Italo Calvino e Umberto Eco. Due tipi di intellettuali come si farebbe fatica a trovare in Francia, pieni di humour, ironici, amanti dello scherzo. Ricordo un viaggio con Eco. Un giornalista gli chiese: da quando è celebre? E lui: lo sono sempre stato, solo che la gente non lo sapeva».
Alla scuola degli amanuensi
«La calligrafia è terapeutica»
di Giuseppina Manin (Corriere della Sera, 19.06.2015)
Scrivere a mano è diventata una rarità, quasi una stravaganza. Niente più lettere, né biglietti d’amore. Tutto quello che abbiamo da dire passa attraverso la lingua dei segni di computer, tablet, telefonini. Se prima per impugnare una penna servivano, pollice e indice a contatto, il medio di sostegno, adesso per battere sui tasti basta l’indice. Smarrito, solitario y final.
Ma ecco che a scompigliare il destino dei nativi digitali, quelli che imparano a scrivere dritti sul computer senza neanche passare dal quaderno, torna inattesa e prepotente la calligrafia. Anzi, la bella grafia .
Di più: la più ricercata, sofisticata, elaborata delle calligrafie. Quella che usavano i monaci e gli scrivani del Medioevo per ricopiare codici preziosi e tramandare fino a noi capolavori altrimenti perduti. A far risorgere un’arte da noi dimenticata (ma invece tenuta in grandissima considerazione nei Paesi orientali) ci pensa una realtà friulana, lo Scriptorium Foroiuliense di Ragogna, dove da tre anni opera una scuola per amanuensi di successo.
«Quando abbiamo aperto, in molti ci hanno preso per pazzi - racconta Roberto Giurano, direttore didattico dei corsi, che l’arte della calligrafia ha appreso fin da ragazzo in un convento di benedettini -. Eravamo cinque sognatori innamorati di quei meravigliosi tratti, vergati con piume d’oca intinte in antichi inchiostri. Contro ogni buon senso abbiamo lanciato la sfida, abbiamo fatto tutto da soli. Il nostro capitale iniziale era di 250 euro».
Eppure. Per gioco, ma non tanto, i cinque amanuensi di Ragogna, temerari come i monaci de Il nome della Rosa , hanno fatto scuola. «Il primo passo è stata la trascrizione in lingua friulana del Vangelo di Marco». Mille copie stampate, una finita nella mani di papa Francesco, regalo della Regione Friuli Venezia Giulia. Un dono singolare, ne ha parlato l’« Osservatore Romano , poi è arrivata una tv austriaca a intervistarci. Uno sponsor ci ha dato mille euro, un altro una lavagna interattiva, il comune ci ha messo a disposizione una saletta per i corsi. Abbiamo preso contatti con la Scuola del Mosaico di Spilimbergo e ci hanno mandato 20 allievi, neanche un italiano». L’arte della calligrafia è contagiosa. «In tre anni qui sono passati 200 allievi. Ma l’attestato finale non è per tutti. I corsi, gratuiti per gli studenti, sono a tre livelli, declinati sui diversi stili: l’onciale, il più antico, quello dei codici miniati, il gotico con cui Gutenberg stampò la celebre Bibbia, e la cancelleresca, fino al 1900 scrittura ufficiale del Vaticano, usata anche per gli atti notarili».
Imparare a tracciarle, scoprirne le finezze segrete, richiede perseveranza e precisione assolute. «In tempi di frammentazione continua dell’attenzione, l’arte della calligrafia diventa un esercizio salvifico, riattiva la concentrazione. Utile, a volte persino terapeutico. Un’allieva affetta da Parkinson quando scrive non trema più. E con dei ragazzi down abbiamo ottenuto magnifici risultati».
Ma poi, nel quotidiano, si trovano sbocchi? «I più bravi non restano certo senza lavoro. I manoscritti da ricopiare sono pochi, ma infinite le richieste di trascrizioni di preghiere, attestati, diplomi, partecipazioni di nozze, alberi genealogici. Un’importante casa di moda ci ha chiesto di collaborare per il lancio di un profumo, un festival di cinema di realizzare i segnaposti per una cena di gala. Siamo andati al Museo della Carta di Fabriano e ora la fabbrichiamo noi stessi come un tempo, con acqua e stracci. E così pure l’inchiostro».
La ricetta, «mescolare noce di galla con acqua piovana e vitriolo romano, aggiungere cocciniglia pestata nel mortaio per il rosso, lapislazzulo per il blu», sa di stregonesco. «La scrittura stessa, quando sfiora l’arte, diventa magia», assicura Giurano. Una magia che ora ha portato i virtuosi del pennino fino all’Expo. Dal 3 al 9 luglio nel padiglione della Regione Friuli Venezia Giulia, esempio di eccellenza unica nel suo genere. Da associazione culturale per pochi, lo Scriptorium sta diventando una start up, il cui fatturato cresce. «Contro ogni previsione - conclude Giurano - il futuro è ancora tutto da scrivere».
Nati per imparare
I bambini sono predisposti all’apprendimento
Parla la psicoanalista Martine Menes: «Il desiderio di sapere è una delle facce del desiderio di vivere. Gli adulti devono imparare a non ostacolare questo moto spontaneo»
di Roberto Arduini (l’Unità, 18.01.2013)
RARAMENTE IL PROBLEMA DEL FALLIMENTO SCOLASTICO È COLLOCATO ALLA SUA ORIGINE: CIÒ CHE NEL BAMBINO RENDE POSSIBILE L’APPRENDIMENTO, CIOÈ IL SUO DESIDERIO DI APPRENDERE. MA COME NASCE E SI SVILUPPA QUESTO DESIDERIO? Dai primi studi sulla psicoanalisi infantile si aprono oggi nuove esigenze, soprattutto quella di «aggiornare» la risposta che Freud ha dato a partire da ciò che l’esperienza clinica metteva in luce nel contesto culturale della sua epoca.
Conviene, tuttavia, porre nuovamente la questione in un mondo in cui le trasformazioni dei legami e delle regole che li definiscono, sconvolgendo in particolare le condizioni di nascita ed educazione, vanno così veloci e sono così radicali che non ci si può non domandare se e come il sistema descritto da Freud sia sempre attuale per leggere una realtà in cambiamento. Nel momento in cui la pedagogia si ripiega su se stessa cercando di spiegare tutto con la mancanza delle conoscenze, quando non chiama in causa le deficienze organiche o genetiche, Martine Menes apre una strada di particolare interesse nel dibattito sull’assistenza ai bambini con disturbi nell’apprendimento.
Psicoanalista francese, membro della Scuola di Psicoanalisi dei Forum del Campo lacaniano, insegna al Collegio Clinico di Roma e di Parigi. È in Italia per presentare, oggi a Roma alle ore 18 a San Luigi dei francesi, il suo ultimo libro, Il bambino e il sapere (Edizioni du Seuil, 2012, euro 17,50), che conclude il discorso iniziato in Un trauma benefico: «La nevrosi infantile» (Edizioni Praxis del Campo lacaniano, 2011, euro 20).
«I bambini apprendono a ritmi differenti», dice in esclusiva a l’Unità. «Ma queste differenze rivelano un aspetto essenziale del rapporto al sapere: non ci sono solo le facoltà cognitive. Il loro sviluppo dipende da ciò che entra in gioco nella costruzione della personalità. Sono predisposizioni all’apprendimento che possono essere facilitate oppure ostacolate dal modo in cui il bambino si costituisce in quanto soggetto di desiderio, accede alla parola e alle relazioni all’altro. Al cuore della personalità interferisce in silenzio questo straniero familiare che si chiama inconscio».
Il desiderio di sapere esiste, quindi, fin dall’inizio in ogni bambino?
«Sì, eccetto che in situazioni estreme e patologiche (in particolare in caso di autismo); ogni bambino sente spontaneamente il desiderio di apprendere, semplicemente perché ciò è vitale per lui. Sin dalla sua uscita da quel luogo chiuso e protetto in cui vive per nove mesi, il neonato è costretto, per sopravvivere, a imparare a cogliere e utilizzare tutte le risorse disponibili nel suo ambiente per la propria crescita. D’altronde, per la psicoanalisi, il desiderio di sapere non è che una faccia del desiderio di vivere, che si può chiamare anche libido o energia vitale. Guidato naturalmente verso gli oggetti del suo sapere, il neonato impiegherà più settimane per capire che c’è dell’altro anche sul suo cammino...».
Questo altro influisce sull’accesso al sapere?
«Ci possono essere problemi quando l’altro (e per questo s’intende l’adulto che ha in carica la sua educazione) è troppo assente o troppo presente. Nel primo caso, questo è stato osservato soprattutto nei bambini in orfanotrofio, poi spostati da una famiglia ospite all’altra; la reiterazione delle separazioni e l’instabilità costringono il bambino a ricostruire ogni volta il suo mondo interno ed esterno. È qui che l’apprendimento può fare sintomo: appaiono delle difficoltà a entrare nei codici stabili della scrittura, la lettura ecc. All’altra estremità, un altro troppo ingombrante costringe il bambino a resistere per esistere. Lo vediamo soprattutto nei bambini iperattivi. Agitati, si sono costruiti una corazza e sono troppo occupati a cercare l’aria per concentrarsi. Quando i loro genitori mi descrivono l’agenda pienissima dei loro figli, chiedo loro: A che ora si annoia? Poiché fantasia, vuoto e noia sono necessari al bambino per entrare in contatto con il proprio desiderio».
In questo lungo cammino di apprendimento, ci sono dei periodi più difficili e «a rischio»?
«Sì, il desiderio di sapere può essere notoriamente ostacolato proprio da ciò che il bambino scopre. Così intorno ai 5-7 anni, nel momento in cui comincia a capire il funzionamento dell’esistenza umana, il bambino si chiede da dove viene e cosa succederà quando non sarà più qua. Prende coscienza della finitezza dei suoi genitori che finora credeva onnipotenti. Questo genera molta angoscia in alcuni bambini, che possono puntualmente prendere la posizione di non voler sapere più niente. Appaiono spesso difficoltà ad addormentarsi, o anche fobie, che mobilitano la vita psichica. Un altro periodo caotico è, ovviamente, la pubertà, in cui riemergono tutte queste questioni, con in più l’enigma dell’incontro con l’altro sesso».
Nel libro scrive che per imparare bisogna «accettare di ricevere dagli altri». Può spiegarsi meglio?
«Credo che ci troviamo in una cultura del senza limiti, in cui il bambino ignora che non è onnipotente, che non gli è accessibile tutto. Ora, per aprirsi alla conoscenza bisogna accettarsi imperfetti, mancanti. Certamente, bisogna anche sapere che ci si può riuscire, ma solamente per tappe e all’interno di un processo in cui occorrerà allo stesso tempo mettere del proprio e cooperare con gli altri».
De Mauro: “L’Italia è in ritardo
e nessuno se ne preoccupa”
Qualche domanda al noto linguista su cultura e scuola nell’era digitale
di Anna Masera (La Stampa, 03/12/2012)
Il professor Tullio De Mauro ( www.tulliodemauro.it), linguista di nomea mondiale con un’intensa seppur breve esperienza di ministro dell’Istruzione (durata 13 mesi), ha molto da dire sulla cultura e la scuola nell’era digitale. Lo contattiamo via email all’Università di Roma chiedendogli il numero di telefono per intervistarlo e risponde subito. Chiede domande scritte e quando per problemi di connessione, che attribuisce a un server evidentemente poco affidabile, non riesce ad inviare ed è costretto a rispondere a voce, chiede di poter dettare parola per parola (“Un tempo avevate i dimafonisti”), svelando una certa sfiducia verso il mestiere del giornalista. Dall’alto dei suoi 80 anni e del suo pedigree, ha la nostra totale disponibilità ad accontentarlo. Ricostruisce a braccio le risposte che sono andate perse. E senza dimafonisti, ci sembra di tornare sui banchi delle elementari nell’ora del dettato.
Professor De Mauro, gli italiani sono in grado di partecipare alla rivoluzione digitale?
“Purtroppo poco e male. L’uso della Rete presuppone le capacità almeno elementari di lettura, scrittura e calcolo. Due indagini del 2000 e del 2006 dicono che siamo messi molto male nel confronto internazionale. Io cerco di divulgare questi dati, con poco successo. Classi dirigenti pensose delle sorti del nostro Paese dovrebbero sobbalzare a sentire gli esperti internazionali concludere che “la popolazione italiana in età di lavoro (16-65 anni) soltanto per il 20% ha le capacità minime indispensabili per orientarsi nella vita di una società moderna”. Il deficit delle capacità di leggere, scrivere e far di conto spiega perché l’accesso alla Rete, anche per chi possiede un pc in casa, arriva a percentuali modeste nel confronto internazionale. Abbiamo difficoltà a usare la Rete perché abbiamo difficoltà a leggere, scrivere e far di conto”.
Che cosa manca per dare a tutti pari opportunità di accesso alla Rete?
“Manca un deciso rialzo delle capacità elementari, innanzitutto. Inoltre manca per molti, e soprattutto manca nelle scuole, l’accesso alla banda larga, per cui l’uso di Internet è lento e macchinoso”.
Che cosa dovrebbe fare la politica?
“La politica dovrebbe fare quello che fa negli altri paesi bene ordinati nel mondo. Nell’età adulta è fisiologico che si perdano competenze acquistate da giovani a scuola. Altri paesi fronteggiano questo problema, ormai noto e ben individuato, sviluppando corsi di apprendimento per tutta la vita. Ciò che in inglese viene detto il life long learning. Noi abbiamo alcuni progetti di legge, uno anche di iniziative popolari, giacenti in Parlamento, con nessuna concreta iniziativa per creare un sistema nazionale, per un’educazione ricorrente. Da molti anni l’Ocse rimprovera all’Italia questo punto debole del suo sistema di istruzione, di mancanza di educazione per gli adulti. Classi dirigenti responsabili dovrebbero metterlo in primo piano”.
Ci sono modelli a cui ispirarsi (per proteggere e far crescere la scuola, l’università, la ricerca, l’arte, la cultura in Italia)?
“Ho già ricordato l’Ocse che ogni anno pubblica un rapporto sullo stato dell’Istruzione nel mondo che offre modelli svariati a cui potremmo ispirarci. Un tratto comune alle politiche scolastiche in tutto il mondo è che sono gestite in prima persona da capi di Stato o di governo. Obama o Cameron, Sarkozy o Chavez o Merkel. E questo è giusto, sia per l’entità dell’investimento necessario dappertutto a far funzionare scuola e formazione, sia per il ruolo centrale che per lo sviluppo del Paese viene assegnato altrove a scuola e formazione”.
Se bisogna fare i conti con un’autorità pubblica deficitaria, che cosa possiamo fare noi cittadini (come società civile) per istruire noi stessi e i nostri figli?
“Il fai-da-te è una antica arte nazionale, spero non estinta. Ci sono varie cose possibili, non troppo onerose. Uno: avere in casa un po’ di libri. Due: leggerli abitualmente. Tre: Leggerli ai bambini quando ancora non vanno a scuola, abituarli alla lettura per quello che dà alle nostre emozioni e alle nostre intelligenze. Quattro: cercare di persuadere le autorità comunali, biblioteche e centri di lettura, creando una rete paragonabile a quelle che troviamo in Trentino Alto Adige e Val d’Aosta. Queste cose non particolarmente onerose come sappiamo da indagini svolte nel mondo sono decisive per il buon successo scolastico dei ragazzi, per la loro formazione e quindi per l’accesso intelligente alla Rete. In attesa che il governo capisca che deve dotare la scuola non di tablet, ma dell’accesso alla banda larga per sfruttare le opportunità che la Rete offre”.
Internet ha portato l’uso di un linguaggio tecnologico pieno di inglesismi: é accettabile o dobbiamo inventarci termini equivalenti in italiano (come fanno un po’ in Francia per preservare la lingua)?
“E’ vero che le centrali tecnologiche soprattutto Usa diffondono nel mondo con i loro prodotti anche parole inglesi. E’ meritorio lo sforzo di utilizzare parole del patrimonio nazionale invece che inglesi, possibilmente senza cadere nelle pacchianerie che abbiamo conosciuto durante il fascismo, quando era vietato dire cognac ma bisognava dire “arzente” e il bar “qui si beve”. Naturalmente a qualcuno riesce difficile un’operazione del genere se pensiamo che sia la Rai sia Confindustria continuano a chiamare “Education” i loro settori educativi pensando alla parola educazione”.
Lei e’ ottimista o pessimista sul nostro futuro?
“Sarei molto ottimista se sapessimo selezionare dei gruppi dirigenti capaci di elaborare programmi a medio e lungo termine per la vita del nostro Paese. In Italia non vedo candidati politici che abbiano messo la scuola in testa alla loro agenda politica, a parte qualche vago accenno nel programma di Vendola, per il resto è silenzio totale”.
Il barbaro che verrà La comunicazione infinita, in cui tutto perde valore di Massimo Cacciari (la Repubblica, 01.05.2012)
Siamo ormai forse irrimediabilmente assuefatti a intendere "barbaro" come espressione massima dell’inimicus - dell’hostis cui sarà sempre, per principio, impossibile attribuire il carattere dell’hospes. Barbaro non è solo il nostro nemico, ma il nemico del genere umano. Rude, feroce come una fiera intrattabile, impossibile da "addomesticare" - con lui l’unica pace consiste nel distruggerlo. Di conseguenza, per "salvarci" dai suoi appetiti, e conseguire il fine della sua necessaria eliminazione, ogni mezzo risulterà lecito. Il rapporto col barbaro è quello amico-nemico allo stato puro, in qualche modo addirittura pre-politico.
La storia consente di vedere con meravigliosa regolarità quanto il ricorso a questo schema possa diventare un’arma di straordinaria efficacia nel condurre la guerra contro il proprio nemico, nel giustificarla in termini assoluti, oltre ogni calcolo costi-benefici, nel non riconoscere all’avversario alcuna dignità.
Non occorre, tuttavia, grande scienza per sapere che questa idea del barbaro nonè affatto originaria. Il termine, non omerico, si applica eminentemente alla lingua. L’equivalente sanscrito di barbaros significa semplicemente balbus, balbulus, designa, cioè, una persona che parla come fosse balbuziente. Non che sia impossibile intenderlo, ma la sua lingua ci suona simile alla pronuncia di chi sia affetto da balbuzie. Se invece si congettura che il termine provenga dall’area sumericoaccadica, anche in questo caso non si riscontra alcun riferimento ad idee di inumana ferocia: bar - non indica che lo straniero o il confinante, e perciò, di nuovo, colui che semplicemente parla una lingua diversa dalla nostra.
La separazione mortale col barbaro inizia ad affacciarsi solo in seguito alle guerre persiane. Ma basta gettare un’occhiata sui Persiani eschilei per comprendere come questa separazione sia vissuta in chiave culturale e politica, non certo nel senso di una lotta tra civiltà e inciviltà, tanto meno tra umano e bestiale. Che cosa contraddistingue la grande, nobile potenza del "barbaro" impero dei Medi? Quale è il suo dèmone? E’ il senso dell’ illimite: illimitate terre, sconfinate distese come quelle del mare aperto, illimitati eserciti, illimitato potere del loro Re. Nulla di articolato. Non un’armonia che è composta di distinti, e anche contraddittori, elementi, ma unità in-forme. Non un logos, che raccoglie in sé diverse voci, e in cui ogni parola assume il proprio senso grazie alla sua connessione alle altre, ma un Comando che mette a tacere ogni colloquio, ogni dialettica. Non per nobiltà di sangue, non per coraggio, non per grandezza di opere e gesta, Europa si oppone a Asia, ma per questo: per la potenza con cui determina ogni astratta unità, per la misura che sa conferire ad ogni elemento, per la esattezza con cui il suo linguaggio si rapporta alla cosa. Anche il Greco conosce l’illimite - ma è l’illimite da cui provengono i cosmi, gli ordini, le forme e la bellezza, alla fine, che possiamo ammirare e dobbiamo conoscere.
Barbaro è "far grumo", unificare senza saper distinguere, o distinguere confusamente senza saper vedere il "comune" che rende possibile la stessa differenza. Barbara è una moltitudine che non sappia farsi polis. Barbara l’idea di un divenire infinito, illimite dove tutto si eguaglia nell’essere semprenuovo, o nell’esser sempre-altro, in cui F sia, cioè, impossibile scorgere un ordine, un senso, una legge. Barbara una lingua che non sia in se stessa colloquio, che non consenta ad ognuno di cercare in essa un proprio idioma, di ricavare dal grembo dei suoi possibili, e restando in tale matrice, la propria espressione, la propria parola. Vorrei dire: barbara una lingua che non custodisca in sé l’energia poetica che si cela in ognuno.
La barbarie così intesa cessa, allora, di apparire come l’astrattamente altro della "civiltà". Barbarie è un possibile sempre "aperto" del nostro essere civile. O, ben più drammaticamente, come Vico insegna, non vi è né origine, né termine della civiltà che non siano barbarie. Trarre dalle miniere indistinte della fantasia, delle superstizioni, delle rappresentazioni, delle passioni - più abissalmente ancora: dalla lingua muta dei segni e dei gesti del corpo, dall’ infanzia del corpo - l’ arma del logos, è fatica immensa, labor immane compiuto nella sua storia dall’animale uomo.
Ma il termine di questa fatica non è affatto assicurato una volta per sempre. Anzi, all’opposto, proprio la scienza è costretta, per Vico, a riconoscere il necessario ricorso della barbarie. Che non significa ritorno dell’uguale, ripetizione dello stesso. La barbarie in cui tramonta, e proprio al culmine della sua raffinatezza intellettuale, il mondo greco-romano (il fiore non è compiuto fino a quando non appassisce, ci ricorda la saggezza orientale), quella nordico-germanica, attraverso cui si universalizza l’Annuncio cristiano, ha significato e destino completamente diversi rispetto a quella da cui si era distaccato l’arcipelago delle poleis, di cui l’ultima, e la più potente, fu Roma. Così quella "barbarie della riflessione" che Vico vedeva avanzare in seno alle civilissime monarchie, dove "l’Europa cristiana sfolgora di tanta umanità", non ha certo il carattere di quella alto-medievale, del suo "tormento infinito", della sua "tremenda passione", quando il barbaro stesso poteva raffigurarsi come il Crocefisso (Hegel).
L’infinito, l’informe della barbarie avvenire non saranno più né quelli di tale tormento, né quelli dell’impero superbo di un Gran Re su terre e mari. La barbarie futura sarà forse piuttosto la confusione che nasce dal crollo dell’idea stessa di impero, dal disincanto su ogni possibile "res publica mondiale", e dalla complementare, universale sottomissione alle "leggi" del mercato e dello scambio, coronate in leggi di natura. Sarà l’assenza di forma derivante dall’equivalenza universale di ogni ente in quanto merce. Sarà la barbarie della pretesa di comunicare illimitatamente, l’apoteosi dell’idea che sia comunicare il rumore del parlarsi-informarsi all’interno di uno spazio che, per propria natura, conferisce eguale "valore" a ogni parola. Se comunicare ha il limite della forma del colloquio - dove ciascuno nella lingua comune cerca di scavare il proprio idioma -, nella barbarie avvenire, invece, il "semplice" di una sola Lingua dirà la "verità" di tutti. Ed è destino che debba essere, allora, accademicamente-scientificamente riconosciuto soltanto chi interpreti Dante "balbettando" in americano.
La maestra che insegna il rispetto del futuro
di Nando Dalla Chiesa (il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2012)
Hai voglia a dire che basta con le scuole, che di insegnanti ne hai già raccontati a sufficienza. Ne lasci uno, ne lasci due, poi decidi che non è giusto. Che in fondo la gente deve sapere. Che a Gavirate, provincia di Varese, sulle sponde del lago, funziona una delle più straordinarie esperienze di formazione civile in corso nelle scuole medie del Paese. Otto istituti di otto comuni diversi. In rigoroso ordine alfabetico: Besozzo, Brebbia, Cocquio, Comerio, Casciago, Cittiglio e Gemonio, già, il paese del Senatùr: tutti messi in rete con Gavirate, scuola media intitolata a Giosuè Carducci, che - così si narra - da queste parti si concesse qualche indebita licenza d’amore.
Crocevia di questo impegno è una professoressa con i capelli a caschetto, alle spalle una famiglia operaia con il culto del lavoro. Si chiama Angela Lischetti. Tre lauree, “ma non ci faccia caso, sono tutte uguali”: lettere, storia e filosofia. “Insegno lettere in una seconda; e in più cittadinanza e Costituzione in tre seconde, un’ora a settimana. Che facciamo? Il primo anno abbiamo lavorato sui diritti, il secondo sui doveri, compresi quelli dello Stato, e il terzo sulla libertà religiosa. Abbiamo riunito sul palco esponenti delle religioni cattolica, ebraica e islamica, e già il solo vederli abbracciarsi è stata una lezione. Poi l’anno scorso abbiamo invitato Maria Falcone e lei ci ha suggerito: perché non vi occupate della mafia? E così quest’anno l’abbiamo fatto. Incontri con magistrati, preti di trincea, familiari. Insomma con testimoni. Sa, io credo che avesse ragione Montini: questi sono tempi in cui non servono maestri ma testimoni. Il nostro è un impegno collettivo: dal preside Carretta, che è uno che ci crede, alla più giovane, Claudia, la mia collega napoletana, che prepara benissimo gli alunni nelle attività teatrali”.
Un lavoro serio, scrupoloso. L’altro giorno chi ha partecipato all’ultimo incontro in auditorium, nel silenzio religioso di più di 400 ragazzini giunti dagli 8 comuni, si è trovato davanti a uno spettacolo meraviglioso. Striscioni preparati dagli alunni con su i nomi delle vittime dei clan, uno striscione per ogni categoria (magistrati, politici, giornalisti, forze dell’ordine, ragazzini innocenti...).
E soprattutto un filmato su Paolo Borsellino realizzato da due ragazzini in modo semplicemente fantastico: a colpi di youtube è venuto fuori il magistrato che racconta di sé dopo la strage di Capaci, le sue frasi che si fanno anima e storia. Emozioni, memoria. Certo, la celebre abilità tecnica dei ragazzi; ma soprattutto una sensibilità civile sconosciuta a tanti adulti. Frutto di un clima scolastico con pochi eguali. Anche se, o forse proprio perché, Angela Lischetti non è “solo” una benemerita prof di educazione alla legalità. Basta parlarci per capire che c’è altro. Gratti pochissimo e sotto la legalità e l’antimafia scopri l’educatrice che ha fatto del futuro dei ragazzi la sua religione.
Trovi la donna che li difende con il piglio combattivo richiesto da una società fatta di soldi, consumi e affetti traballanti. Spiega infervorandosi le conseguenze delle tante situazioni familiari difficili. Di ragazzini in balia di capricci o insensibilità adulte. Delle coppie che si sfaldano e dei ragazzi che arrivano a scuola smarriti, costretti in ruoli impropri. Racconta delle telefonate perentorie a qualche genitore.
Nell’epoca in cui tanti padri e madri amano piombare a scuola per fare sfuriate agli insegnanti, ecco questa professoressa mingherlina e armata di buon senso operaio che mette in scena un copione opposto: e che appena capisce le difficoltà o i tormenti di un allievo o di un’allieva chiama l’adulto e chiede conto. “Il principio di autorità. È questo che manca. Inteso come rispetto di doveri e ruoli. E occorre ricostruirlo. Come occorre dare il senso della partecipazione, del futuro. Vede, in questi incontri io voglio che ogni ragazzo capisca di non essere escluso dalla storia. Tu non sei lontano da dove pulsa la nazione, ma ci sei dentro. E il destino del paese lo decidi anche tu. Ma devono abituarsi alla fatica.
Anche per questo chiedo spesso di imparare a memoria. La memoria educa, dà riferimenti. Imparare a memoria gli articoli della Costituzione, per esempio, l’articolo 3 sulla eguaglianza dei cittadini. L’altro giorno una mia allieva ne ha sentito parlare intelevisione e lo ha detto subito ai genitori: questo è l’articolo 3. Non è bello? Imparare a memoria anche le poesie. Qui poi abbiamo avuto il massimo poeta dell’infanzia, Gianni Rodari. Era di Omegna, ma venne ad abitare qui. Era povero, e i suoi non potevano permettersi di sprecare l’energia elettrica.
Così la sera, da bambino, si metteva il cappotto e andava a leggere sotto a un lampione. Questa è la sua storia. La vede quella casa com’è degradata? Era la sua. Ma non ne fanno un museo, né una biblioteca. Non lo si vuole onorare perché era comunista.” Mentre dice così, la prof riceve al cellulare la notizia che la seconda figlia si è laureata a Padova in scienze e tecnologie dei beni culturali. È felice, 110 e lode. E lei non c’è andata? “Mica potevo lasciare questo incontro; l’ho organizzato io, dovevo seguirlo fino in fondo, no?”. Rinunciare ad assistere ai trionfi accademici della figlia per garantire che la grande mattina a scuola, con l’intitolazione della biblioteca a Danilo Dolci, vada nel modo migliore. È questa la regola a Gavirate, patria di Gianni Rodari, il poeta comunista che non mangiava i bambini ma li faceva sognare.
La dittatura dell’incuria
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 04.03.2012)
«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell’allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere, l’estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».
«Niente cultura, niente sviluppo», ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell’Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c’è più cultura c’è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.
Rovesciamo: dove c’è meno cultura c’è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d’arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d’esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l’agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».
Dice uno spot girato da Berlusconi che l’Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall’Unesco». Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.
Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta. Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l’Africano.
Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell’incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare. Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell’arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull’ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.
Howard Gardner
“Un patto fra generazioni ci salverà da falsità e credenze"
In viaggio con lo psicologo fra le idee messe in crisi dal postmoderno
"Il concetto di realtà è stato rimosso E il web prende per buone le cose anche senza prova fattuale"
"Spesso i più giovani non fanno alcuna differenza fra un blog e l’inchiesta di un professionista"
di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 23.01.12)
Sono ormai in molti a sostenere che la lunga parabola del postmodernismo è entrata nella sua fase discendente e il dibattito aperto dai filosofi neo-realisti proprio su queste pagine sta a dimostrarlo. Tanto più pressante, dunque, si fa la necessità di ragionare su tutte le questioni che il movimento postmodernista, assieme festoso e sciagurato, aveva disatteso o negato. A cominciare dalla più importante: la ricerca della verità, che poi è sorella stretta del concetto di realtà.
Per farci aiutare in questa indagine, inizieremo dal volume dello psicologo americano Howard Gardner: Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo (Feltrinelli, pagg. 224, euro 20, traduzione di Virginio B. Sala). Famoso per i suoi studi sull’intelligenza, Gardner insegna Scienze cognitive e dell’educazione alla Harvard University, ed è uomo di vastissime letture e molteplici competenze disciplinari.
Professore, proviamo a concentrare l’attenzione sulla verità, la prima delle tre virtù che lei ripropone per il ventunesimo secolo. Tanto più difficili da far proprie, visto il potentissimo incrocio tra postmodernismo e media digitali.
«È proprio da lì che prendo le mosse. Dapprima il postmodernismo ha rimosso il tema della verità, riducendolo a mera preferenza di chi detiene il potere in un dato momento, poi il web ci ha messo del suo prendendo per buono tutto ciò che appare su Wikipedia, senza alcuna prova fattuale. Però, proviamo a vedere la questione da un’angolazione differente. Se la verità è essenzialmente una proprietà degli enunciati, ed esistono diversi metodi per raggiungerla, a seconda delle diverse discipline in campo, oggi è più facile avvicinarsi ad essa rispetto a quanto accadeva in passato. Un tempo avevamo meno informazioni e pochi detenevano quel potere che stabiliva cosa è vero e cosa è falso. Adesso, a meno che lei non abiti nella Corea del Nord, le cose non stanno più così. Naturalmente, se vuole ignorare una certa questione può benissimo farlo, ma se è interessato a sapere come sono andate le cose in Libia o su come vengono effettuati determinati trattamenti medici, avrà a disposizione una massa enorme di dati. Questo non significa che la verità venga automaticamente a galla, ma che abbiamo più armi per trovare una convergenza su ciò che è effettivamente accaduto».
La prima distinzione che lei opera è tra verità della conoscenza e verità della pratica.
«L’uomo della strada, indicando un oggetto, può dire: questo è argento e non oro. Ma se io sono uno scienziato, attraverso un’analisi atomica, posso dimostrare più a fondo il senso di quella differenza. La prima è una verità legata alla pratica, la seconda alla conoscenza. Inutile aggiungere che sia l’una che l’altra non hanno nulla a che fare con la verità di tipo religioso, dove si crede a qualcosa perché qualcuno ce l’ha detto, non sulla base di un test esperienziale o cognitivo».
Torniamo ai media digitali. Come scremare le informazioni che vi sono contenute se non si è sorretti da un’idea condivisa di autorità e di competenza?
«È il problema principale delle generazioni più giovani. Spesso i ragazzi non fanno alcuna differenza tra quanto compare in un blog e l’inchiesta di un reporter professionista. Sia ben chiaro, anche il New York Times compie degli errori, però li riconosce e comunque i redattori sono lì per controllare e vagliare l’articolo che verrà pubblicato. Per questo mi fido del New York Times o del Washington Post. Perché riconosco a tali imprese un’autorevolezza che si tramuta poi in affidabilità. Sia ben chiaro, quanto dico non mi fa dimenticare l’egregio lavoro di tanti blogger, che sovente possono superare in qualità quello dei giornalisti di professione, essendo meno condizionati di loro».
Diverse verità a seconda dei diversi metodi adottati. Prendiamo due discipline agli antipodi: la matematica e la storia.
«Ognuno sa che la verità matematica è la più certa, perché la più logica, la più formalizzata. Indifferente a tutte le variabili del mondo fisico. Però anche qui non esistono verità assolute, perché l’affermazione secondo cui due rette parallele non si incontrano mai vale per la geometria euclidea, non in quella non euclidea. Ma la principale differenza corre tra le ricerche di ambito fisico-biologico e quelle sociali. Nelle prime, gli oggetti di studio non sono soggetti ai risultati della nostra ricerca: le piante continuano a crescere e la rotazione terrestre non muta in relazione ai risultati scientifici ottenuti. Nell’ambito delle scienze sociali, invece, le opinioni che abbiamo di determinati fenomeni modificano i fenomeni stessi, come risulta chiarissimo in ambito economico. Quanto infine alla storia, mentre è evidente che ci sono dei fatti rispetto alla cui veridicità siamo sicuri, come il giorno della morte di John Fitzgerald Kennedy, è altrettanto evidente che ogni generazione riscrive il passato perché lo vede e lo giudica secondo la propria prospettiva. La storia dell’impero romano insegnata oggi in America è senz’altro diversa da quella di ottant’anni fa, non perché si sappia molto di più di quel periodo, ma perché da un certo punto in avanti l’America ha pensato di essere diventata essa stessa il nuovo impero romano».
L’idea iniziale di verità è legata al senso comune. Lei però ne rimarca la costitutiva insufficienza.
«Basta al massimo per la sopravvivenza. Se sono un bambino e cado in un fosso, non per questo apprendo qualcosa in ordine alla forza di gravità. La prossima volta starò più attento soltanto perché non voglio farmi del male. Affidandoci soltanto ai sensi, non possiamo fare molta strada. L’ho scritto nel libro e lo ripeto qui, più o meno con le stesse parole. Il modo migliore per stabilire lo stato di verità in un’era postmoderna e digitale consiste proprio nel mostrare la potenza ma anche il limite della conoscenza sensoriale. Impone di insegnare i metodi adottati dalle varie discipline per arrivare alla loro spiegazione del mondo e alla loro verità. Di illustrare il valore dell’esperienza e della competenza. Così come, per converso, di sottolineare tutte le forme di irrazionalità e pregiudizio degli esseri umani, con tutti i rischi che ne conseguono».
Come si evolve il rapporto con la verità a seconda delle diverse fasi della vita?
«Nel bambino credere in una cosa e contemporaneamente nel suo opposto non costituisce problema. E dunque il ruolo dell’educazione è quello di mostrare come certi convincimenti possono entrare in conflitto tra loro. All’adolescente, invece, la scuola dovrebbe mostrare innanzitutto che le verità incontrate nei testi non vengono dal cielo e non valgono per sempre. Sono soggette a continua trasformazione e sono differenti a seconda delle diverse discipline. La difficoltà, naturalmente, sta nel far convivere tale varietà e mobilità in un quadro unitario, senza cedere alla fiumana di informazioni e sovrapposizioni di un mondo ipersaturo».
Lei sostiene che i giovani sembrano più interessati all’autenticità e alla trasparenza di un messaggio che agli enunciati di verità contenuti in esso. Non è anche questa una prova della costante battaglia tra conoscenza e credenza? La verità rimanda alla conoscenza, ma è molto più facile affidarsi alla credenza.
«Purtroppo è così. Soltanto quando si sbatte personalmente il muso su una pagina del web che dice assolute falsità sul nostro conto, si capisce quanto importante sia la verità fondata sulla conoscenza. Senza dimenticare un altro aspetto del problema. Trent’anni fa non c’era la "familiarità" con i potenti che ci pare di avere oggi grazie ai media. Si ritiene di conoscerli e dunque di poterli giudicare secondo i crismi, per l’appunto, di autenticità e trasparenza. Magari quei tipi sono dei bastardi assoluti, ma se appaiono come persone a modo, ci basta e avanza».
Lei conclude il suo tragitto con una nota ottimistica. La comprensione di postmodernismo e media digitali, scrive, può ironicamente creare la possibilità di una seconda età dell’illuminismo. Perché?
«Credo che il passaggio storico in cui ci troviamo può offrire uno scambio inter-generazionale inedito e utile su entrambi i fronti. Oggi i "nativi digitali" possono insegnare a noi cose che noi non sappiamo, mentre noi possiamo offrire loro una metodologia di cui non dispongono. Malgrado tutto, i valori illuministici della tolleranza, dei diritti universali, della ricerca scientifica, sono validi ancor oggi. Ma oggi più di ieri, grazie a quell’incrocio inter-generazionale, possiamo esaltare un’idea di verità quale somma di proposizioni messe alla prova più e più volte».
(1-continua)
Tecnologie e sapere
Il ruolo degli intellettuali all’epoca di web e tv
Strumenti. La filosofia ci aiuta a svelare le complessità del mondo e a evidenziarne le carenze
Gli ostacoli. L’egocentrismo e il narcisismo di molti individui offuscano questa comprensione
di Nicla Vassallo (l’Unità, 21.06.2011)
L’intellettualità, la filosofia in particolare, ci aiuta a svelare le complessità del nostro mondo, ma pure a evidenziarne, addirittura a denunciarne le carenze. C’è tutta una parte di umanità contemporanea che nutre fiducia in chi non dovrebbe, che viene indotta a credere in valori che tali non sono, che vede bellezze dove si situano invece bruttezze, che coltiva l’ignoranza in luogo della conoscenza. La filosofia chiarisce i concetti necessari, oltre che per pensare e ragionare bene, per condurre esistenze degne di venire vissute. Tra questi concetti, non a caso domina quello di conoscenza. Perché senza aspirare alla conoscenza non saremmo esseri umani: questa è una lezione che, nata con la filosofia antica, non ha mai cessato di caratterizzare l’intera intellettualità occidentale. Senza conoscenza, ci troveremmo, se va bene, in uno stato vegetativo.
Quanti nemici, però. I vari egocentrismi, personalismi, narcisismi di molti individui hanno a lungo offuscato la possibilità di comprendere il mondo. Occorre tempo per scusare il loro oscurantismo in «fase terminale». Per la maggior parte, tali individui non condividono, con altri, valori importanti, quali la verità, ovvero la ricerca della verità, insieme al dire la verità. Individui che mentono a se stessi e si auto-ingannano finiscono col mentire agli altri e con l’ingannarli. Eccoci: viviamo in una sorta di Torre di Babele, non tanto per i linguaggi diversi che utilizziamo nel discorrere, quanto perché c’è chi abusa di questi linguaggi, li impiega non per trasmettere conoscenza, ma piuttosto per prevaricare l’altro-da-sé, per asservirlo alle più bieche ambizioni. In altri termini, circola troppa superbia, il che non ci aiuta a comprendere il mondo, né le relazioni umane che tessiamo.
La superbia (benché non solo) avvantaggia una cultura pop italiana, per lo più televisiva, di basso livello. Chi oggi viene considerato dalla maggioranza un intellettuale corrisponde in genere a un onnipresente televisivo, e la gran parte della televisione italiana contemporanea proferisce banalità, se non spesso falsità, o insulsaggini, infarcite di buona retorica, banalità che un tempo, per pudore, non si osavano pronunciare neanche tra sé e sé. C’è una spaccatura, ormai evidente, tra l’intellettuale vero e proprio, e chi applica, invece, gli ordini ricevuti dall’alto.
La differenziazione linguistico-culturale tra il vero intellettuale e quello che si atteggia a tale sta creando una sorta di classe privilegiata, una classe colta, consapevole, dotata degli strumenti per operare le scelte migliori, rispetto a una massa che di questi strumenti viene privata. Fanno gioco i complessi rapporti tra intellettuali atteggiati, schiavi del tiranno, masse e potere. Ma su ciò Elias Canetti ci aveva già messo in guardia in quel capolavoro che rimane Masse und Macht. Mentre gli intellettuali veri e propri? Non stanno a guardare; il loro margine di manovra rimane nondimeno decisamente ridotto, rispetto a un tempo. Farsi un nome, acquisire una fama immeritata, mirare a denari e successi, soggiogare la massa, testimoniare il falso o l’irragionevole non appartiene all’intellettualità degna di definirsi tale.
Possiamo confidare nella speranza che l’intellettualità vera e propria non sia una specie in via di estinzione. Alcuni intellettuali hanno rinunciato all’onnipresenza televisiva per dedicarsi alla scrittura: libri, carta stampata, ma pure blog - senza tralasciare i video su internet, dove l’intellettuale carica le riprese e i le riflessioni che desidera, senza dover badare a censure e ad ascolti.
Non dimentichiamo però che parecchi e cosiddetti grandi, vecchi intellettuali italiani detestano la tecnologia, sostanzialmente qualsiasi tecnologia. In effetti, il discorso sulla tecnologia rimane tra i più complessi, ed è sempre un dispiacere accorgersi che in troppi si esprimono contro la tecnologia senza alcuna cognizione di causa, senza distinguere tra ricerca scientifico-conoscitiva e le sue applicazioni tecnologiche, senza riconoscere le tante differenti tecnologie. Limitando l’attenzione alle tecnologie legate al trasferimento di conoscenza, in cui vengono coinvolti più modi e mezzi comunicativi, dobbiamo ammettere senza esitazioni che viviamo nella cosiddetta società dell’informazione.
Se un tempo contavano maggiormente gli scambi conversazionali, diretti, individuali, quotidiani, oggi telefoni, cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie consentono inusitate potenzialità. Se un tempo ci si incontrava al caffè, in piazza, nei salotti culturali, oggi è internet a «unirci», apparentemente offrendo possibilità singolari alla vita comunitaria. Ma conosciamo sempre con chi stiamo interloquendo quando navighiamo su internet? Quali sono le informazioni false e quali quelle vere? Quali i testimoni inaffidabili e quali quelli affidabili? Chi e che cosa ci stanno trasferendo conoscenza, e chi e che cosa invece ci sta ingannando, manipolando, controllando, tradendo? La storia del mondo, quella antecedente all’avvento di internet, ci ha regalato molti «Grandi Fratelli». Occorre fare sì che il web non si trasformi nel «Grande Fratello» di orwelliana memoria.
Il pensiero va rivolto ora ai tanti giovani che, alle prese con l’esame di maturità, stanno considerando di iscriversi all’università. Ciò che verrà loro riferito si trasformerà in conoscenza? Non sono in pochi i ricercatori, professori, rettori che faticano con cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie, ma pure con volumi, enciclopedie, giornali, riviste, radio, televisione. Proviamo a eliminare tutto ciò, cosa rimane? Ai giovani poco. E a tutti? Non sapremmo neanche il nostro nome (nome che ci viene riferito da altri, per esempio dal registro degli uffici municipali), mentre il nostro status conoscitivo, nonché pratico ne risulterebbe spogliato, depauperato. In quale epoca ci troveremmo? Probabilmente, ancora all’età della pietra.
Di cosa soffriremmo? Senz’altro di carenze cognitivo-affettive, incoerenze, ignoranze, paranoie. Anche le stesse scienze non avrebbero compiuto i progressi cui siamo ormai abituati: specie nella nostra epoca, gli scienziati sono difatti incapaci di scoperte, se non si basano sulle conoscenze di altri scienziati. Di più: capire la conoscenza ci aiuta a inquadrare con consapevolezza astrologi, complotti, credulità, dittature, gaffe, giornalismi, guerre, inganni, inquisizioni, internet, poteri, pubblicità.
Garantire ai giovani conoscenza è un nostro obbligo. Perché? Stando, per esempio, a David Hume, «un uomo delirante, o noto per la sua falsità e furfanteria non ha autorità alcuna su di noi». Per anni, tuttavia, non è stato così: a falsi e furfanti è stata attribuita grande autorità. Il suggerimento di Hume deve valore per i giovani, soprattutto per loro, benché non solo. Come accade che uomini deliranti e furfanti, noti per le loro falsità, continuino a esercitare autorità su gran parte del popolo? Come abbiamo potuto credere, almeno inizialmente, a Hitler quando giurava di non aver intenzioni belligeranti? Perché ci siamo fidati di un George Bush che sosteneva la presenza di armi di distruzioni di massa in Iraq, e non degli ispettori dell’Onu che la negavano?
Perché leggiamo un giornalista fazioso? Per ingenuità conoscitiva! Viviamo in un momento di vera e propria patologia epistemica, in cui le deviazioni dell’ignoranza e degli ignoranti ci affascinano.
Purtroppo, non capiamo che queste deviazioni conducono a devastazioni: per l’appunto alla Seconda Guerra Mondiale, alla Guerra in Iraq, o, più semplicemente, al giornalista che conduce una trasmissione come «Qui Radio Londra», sottintendendo di svolgere le essenziali funzioni informative che ha svolto la Bbc a partire dal 1938, quando invece si tratta di tutt’altro. Difendiamo la scuola e l’università pubbliche, finanziamole, facendo sì che in esse siano messi in panchina corrotti e ignoranti. Non solo i giovani devono poter aver un futuro, ma devono poter essere in grado di scegliere il futuro migliore, grazie a ottimi maestri che offrano tutti gli strumenti per condurre un’esistenza da esseri umani.
Noi dubbiosi pre-Internet con il naso nella Treccani
di Stefano Jesurum (Corriere della Sera, 07.05.2011)
Uno dice: beati i giovani, che con cinque clic trovano tutto su Wikipedia, fanno domande- le più bizzarre- e ricevono le giuste risposte sui siti di Q&A (questions and answers). Non come noi che arrancavamo tra enciclopedie, dizionari, vocabolari, compendi, manuali di ogni genere.
Ma chi dice beati i giovani non fa i conti con quel piccolo particolare, senza tempo e senza età, che è proprio del genere umano e porta il nome di ansia. Così finisce che gli «ansiosi» - anche quelli moderni -, dopo aver compulsato i loro bravi clic, si ritrovino in preda al dubbio col naso appiccicato alla vecchia Treccani, allo Zingarelli, al Mereghetti piuttosto che all’elenco del telefono. E chissà quante generazioni ancora passeranno prima che l’online dia (agli ansiosi s’intende) la medesima sicurezza della carta ingiallita.
I maestri chiamano Yam quell’insieme di commenti e regole dell’ebraismo che è il Talmud, e Yam significa «mare» . E chi utilizza Internet non «naviga» forse in Rete? Entrambi i mari- chiarisce Jonathan Rosen in Talmud e Internet, Einaudi- sono enormi continenti fatti di materia fluida come l’acqua, al cui interno vivono miliardi di informazioni. Che tocca sempre alla nostra intelligenza filtrare e interpretare. Tanto per metterci tranquilli (e non scrivere/dire strafalcioni).
I NOSTRI SCHEMI SONO VECCHI: SIAMO IN UN’EPOCA DI "ROTTURA" E DOBBIAMO CAPIRLO:
"Senza che noi ce ne rendessimo conto, e in un breve intervallo di tempo, (quello che separa i nostri giorni dagli anni Settanta) è nato un nuovo tipo di essere umano. Questo ragazzo, o questa ragazza, non ha lo stesso corpo, nè la stessa aspettativa di vita di chi lo ha preceduto, non comunica secondo le stesse modalità, non percepisce lo stesso mondo,non vive nella stessa natura, nè abita il medesimo spazio. nato con l’epidurale e in data prestabilita, grazie alle cure palliative non teme più nemmeno la morte. E poichè la sua testa è diversa da quella dei suoi genitori, conosce diversamente [...]"
* da: Michel Serres, Dalla parte dei (nuovi) bambini. Inventiamo una nuova educazione per gli studenti "Pollicino", la Repubblica del 20 aprile 2011
Perché non parliamo con i ragazzi tunisini?
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 5 aprile 2011)
Perché, ci si chiede da varie parti, proprio i tunisini che hanno appena liberato il loro Paese da un governo autoritario, personalistico e si stanno dando delle nuove regole democratiche, scappano in massa per approdare disordinatamente sulle nostre coste? Le risposte sono vaghe e distratte. Nessuno va a vedere. Nessuno chiede ai diretti interessati cosa li spinga alla fuga precipitosa. Si dà per scontato che, nel marasma della ricostruzione, siano venuti meno i freni all’emigrazione. Sono giovani, spesso hanno studiato, non trovano lavoro e quindi emigrano. Punto e basta.
Singolare questa assoluta mancanza di curiosità. Eppure si dovrebbe sapere che prima di prendere qualsiasi decisione logistica e politica è importante conoscere a fondo la questione. Qualcosa ha fatto Giuliana Sgrena andando sul posto e qualcosa ho sentito nelle parole della Bonino. Ma ascoltate da chi?
Eppure basterebbe poco: semplicemente parlare con i diretti interessati, stabilire, con rispetto, attenzione e fiducia, un dialogo per capire le loro ragioni. Sono sicura che verrebbero fuori verità diverse dai luoghi comuni finora ripetuti. La Tunisia non è un Paese povero, fino a ieri sembrava vivere in un certo agio. Perché i ragazzi scappano? E le ragazze? Rimangono a casa ad aspettare il richiamo dall’estero? Cosa succederà dopo questo massiccio esodo di maschi giovani e fertili? Dove andranno ad accasarsi? Pensano di tornare appena possibile? O danno per scontato che cambieranno patria e lingua e abitudini? Tutte cose che non sappiamo e forse non vogliamo neanche sapere.
Eppure nelle risposte a queste domande sta il segreto di una inaspettata e massiccia emigrazione che ha stupito tutti e lasciato i governi senza parole e senza idee sul cosa fare. Tutti i segnali dicono che siamo di fronte a qualcosa di assolutamente nuovo nella storia del mondo arabo: i punti di riferimento non sono più il Corano e l’esplosivo, ma Internet e i permessi di soggiorno. Il fondamentalismo con i suoi sacrifici umani, il suo odio, la sua intolleranza, sembra essere rimasto indietro in questo rapido processo di mutazione collettiva.
Le nuove parole d’ordine sono: libertà, lavoro, dignità. Ma come acquisirle? Come organizzare la nuova società? Quale rapporto stabilire con la religione tradizionale, col denaro, con le istituzioni, non è chiaro. Per il momento vince l’insofferenza di fronte a ogni forma di autoritarismo, la fame di vita, di movimento, di libertà, di autonomia.
Questi giovani non sembrano essere animati da risentimenti verso i Paesi occidentali, ma presi da una specie di furente amore imitativo. Solo che, come tutti gli amori giovanili, risulta esplosivo e impaziente. L’amata la si vuole possedere subito, senza aspettare. La si vuole divorare, farla propria senza pensarci su un minuto.
Le risposte da parte nostra sono: paura, paralisi, confusione e rapida apertura di campi di concentramento. Risposte povere e prive di immaginazione che non aiuteranno affatto a risolvere il problema.
Barbarie a Montecitorio
di Curzio Maltese (la Repubblica, 01.04.2011)
Come si sono ridotti così? Prima un po’ alla volta, poi tutto insieme. Il volto, i volti della classe dirigente riflettono ormai la deriva di un’agonia politica. Il ghigno stupefacente di Ignazio La Russa, l’isterico lancio della tessera del guardasigilli Alfano, lo sguardo esterrefatto di Fini, i deputati leghisti che ringhiano «handicappata di merda» alla collega disabile Ileana Argentin.
La malattia degenerativa di una democrazia di colpo assume i modi, le espressioni, i gesti di un’esplosione schizofrenica. Nell’ora dei telegiornali milioni d’italiani assistono attoniti a uno spettacolo di degrado, di squallore definitivo. Dentro l’aula l’impressione era ancora più penosa. Da un momento all’altro ti aspettavi che i leghisti prendessero anche a calci la carrozzella della deputata tormentata dalla distrofia o che qualcuno estraesse all’improvviso un’arma, come in Bowling for Colombine. Ogni tanto bisognava uscire fuori, per strada, fra la folla ordinata e pacifica che contestava in piazza Montecitorio, per respirare un po’ di normalità civile.
Vergogniamoci pure per loro, che non ne sono capaci. Ma perché sono arrivati a tanto? Il fatto è che il governo non esiste, la maggioranza non esiste e lo sa. Non esistono più da tre mesi, dal 14 dicembre scorso, quando il governo avrebbe dovuto essere sfiduciato dalla Camera e invece la scampò per i voltagabbana dell’ultima ora, i dipietristi pentiti Scilipoti e Razzi. Un colpo di coda col quale il premier è riuscito a garantire la propria sopravvivenza, ma niente di più. Il governo, la maggioranza sono comunque morti il 14 dicembre. Non decidono più, non sussistono. Se non all’unico scopo di sfornare leggi in grado di proteggere il premier dai processi. Per il resto, il governo è una nave fantasma, incapace da dicembre di compiere qualsiasi scelta, qualunque cosa accada. Terremoti, tsunami, crisi nucleari, guerre civili alle porte, rivoluzioni a un tiro di missile da casa. Niente. Disoccupazione, inflazione, scalate estere ai gruppi industriali. Silenzio. Uno dopo l’altro, sono spariti dalla scena i ministeri e i ministri, anche i più popolari e decisionisti. Che fine hanno fatto Brunetta, Maroni, Gelmini, perfino Tremonti? Ridotti a comparse. Sulla scena rimane l’ondivago Frattini, il nulla stesso fatto ministro, inventore del situazionismo in politica estera. E l’improvvisatore Ignazio La Russa, che fa notizia soltanto per calci, insulti e gestacci, mai per essere ministro della Difesa della nazione al centro del Mediterraneo in fiamme. Il mondo procede già come se l’Italia non avesse ufficialmente un governo, a prescindere. Perché convocare a un summit sulla crisi libica una sedia vuota?
Libera da ogni altra missione che non sia la salvaguardia di Berlusconi dalla legge, la maggioranza si divide soltanto sulle linee difensive. Oggi il gran dibattito nel centrodestra si svolge fra avvocati di Berlusconi, all’interno dei due principali studi legali. Quello di Gaetano Pecorella, scettico sulla necessità della battaglia per la prescrizione breve, e l’altro di Niccolò Ghedini, ideatore di leggi ad personam sempre più modellate sulle stringenti esigenze di Berlusconi. Con il ministro Alfano e la Lega nel ruolo di arlecchini servitori di due padroni.
È una condizione abbastanza umiliante da spiegare la deflagrazione di rabbia e violenza di questi giorni, il senso d’inutilità che esplode in un misto di rancore e vittimismo. Tanto più da parte di chi, come gli ex An e i leghisti, coltivava l’ambizione di far politica o almeno la pretesa di farlo credere agli elettori. Ma si ritrova imprigionato nella livrea del maggiordomo, scavalcato nella considerazione dall’ultimo venduto, dall’ultimo compagno di merende e compagna di bunga bunga, e allora se la prende con gli avversari, con i manifestanti, con chiunque ancora osi esibire brandelli di dignità, segnali di esistenza. Il governo e la maggioranza non ci sono più. Nella notte si sono svolte trattative fra i collegi di avvocati del premier, in vista della riconvocazione della Camera. Sarà un altro spettacolo d’angoscia. Per fortuna martedì torneranno in piazza anche i manifestanti in difesa della Costituzione, così potremo uscire ogni tanto dal manicomio di Montecitorio a respirare un po’ di civiltà.
I timori di Napolitano "Così non si va avanti"
Convoca i capigruppo per lanciare l’allarme:
e c’è chi paventa lo scioglimento delle Camere
di PAOLO PASSARINI (La Stampa, 01/04/2011)
ROMA Per Giorgio Napolitano «è chiaro che non si può andare avanti così». Il Presidente della Repubblica lo ha detto apertamente ai capigruppo parlamentari convocati ieri al Quirinale con un’urgenza che denota la sua «estrema preoccupazione» per quella che considera una vera e propria «crisi politico-parlamentare». Ne consegue, per lui, la necessità di ricordare a tutti quanto fece già presente in una nota di meno di due mesi fa, e cioè che, se non cambiano le cose, «la stessa continuità della legislatura è a rischio».
Appena rientrato dal suo viaggio negli Usa, dove aveva spiegato agli studenti della New York University i guasti provocati dal clima di permanente «guerriglia politica» dominante in Italia, Napolitano ha avuto soltanto poche ore di sonno prima di trovarsi tra le mani i giornali italiani con i resoconti delle intemperanze parlamentari del ministro Ignazio La Russa, con tutto quello che gli è girato intorno. Atteso da un’agenda indifferente al suo «jet lag» (la visita a una mostra patriottica al Vittoriano nel pomeriggio e un concerto in serata), Napolitano è stato colto da un misto di indignazione e sgomento quando, sul finire della mattinata, è stato informato dei nuovi disordini nell’aula di Montecitorio, con tanto di lanci di oggetti cartacei da parte di membri del governo.
«Siamo in una situazione difficile di politica estera - è sbottato con un collaboratore - c’è l’allarme immigrazione, si aggrava lo scontro sulla giustizia e l’aula di Montecitorio sa solo dare spettacolo». «Uno spettacolo - ha subito aggiunto con amarezza - a cui non si può più assistere». La situazione è grave, ai cittadini si richiede un grande sforzo di coesione, e la classe dirigente della Repubblicaèattivamenteimpegnata in uno sforzo di autodelegittimazione. Inaccettabile, non solo per la «forma», ma anche, e soprattutto, «per la sostanza». E la sostanza è che siamo nel pieno di una paralisi dell’organo più importante della Repubblica, il Parlamento, che si configura, appunto, come una «crisi politico-istituzionale». Della forma si possono occupare gli organi preposti a far osservare la disciplina parlamentare. Sulla sostanza, il garante della Costituzione deve intervenire.
E così, già a tarda mattinata, Napolitano ha fatto disdire la sua partecipazione al concerto della serata e ha dato disposizioni perché venissero convocati al Quirinale tutti i capigruppo parlamentari. Un gesto eccezionale: di fatto consultazioni di tutto l’arco parlamentare come quando c’è una crisi di governo, anche se i collaboratori del Presidente respingono questo termine.
Se l’ufficio-stampa del Quirinale avevailcompito di buttare acqua sul fuoco, spiegando che il Presidente, appena rientrato dall’estero, intendeva soltanto svolgere «una ricognizione a tutto campo» di quanto era successo e che ogni valutazione era rinviata «alla fine di questa ricognizione», i rappresentanti di Pdl, Pd e Udc, ricevuti nel tardo pomeriggio (gli altri seguiranno questa mattina) hanno incontrato un Napolitano agitato come non lo avevano mai visto.
A Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri (Pdl), a Dario Franceschini e Anna Finocchiaro (Pd) e a Gianpiero D’Alia e Pier Ferdinando Casini dell’Udc il Presidente non ha taciuto nessuna delle sue considerazioni sullo «spettacolo» e sulla gravità della situazione. Lo stesso farà questa mattina coi rappresentanti della Lega, dell’Idv e degli altri gruppi minori, non nascondendo a nessuno che, in una situazione di paralisi parlamentare e crisi istituzionale, l’articolo 88 della Costituzione gli impone di considerare l’ipotesi di uno scioglimento delle Camere. Quando, il 12 febbraio scorso, prendendo a pretesto la necessità di correggere il resoconto di un giornale sul suo incontro del giorno prima con Silvio Berlusconi a proposito della vicenda Ruby, aveva prospettato le necessità di interrompere una legislatura diventata improduttiva, qualcuno scrisse che Napolitano aveva dato a Berlusconi un mese di tempo per tentare di riaggiustare la sua maggioranza e riportare la situazione alla normalità. Adesso di mesi ne sono passati quasi due e, a dispetto delle tante emergenze, aumentano la conflittualità e la paralisi.
I nuovi media in Medio Oriente
Come corre la rivoluzione al ritmo di Internet
di Carlo Antonio Biscotto ( il Fatto, 29.03.2011)
Le rivolte in Tunisia, Egitto e Libia e le manifestazioni che stanno scuotendo dalle fondamenta l’intero Medio Oriente hanno portato alla ribalta il ruolo politico dei cosiddetti “social media” come strumenti di critica dei regimi e di organizzazione del dissenso.
Che poi la prima “rivoluzione in rete” dell’era moderna abbia avuto per palcoscenico il mondo arabo e non - come molti studiosi prevedevano - l’Asia, è in parte sorprendente, ma non cambia di una virgola l’analisi del fenomeno. Non sono stati, ovviamente, Facebook e Twitter a scatenare le sollevazioni popolari contro regimi brutali, oppressivi, corrotti e impopolari, ma i social network hanno fatto emergere un malcontento diffuso che covava da tempo sotto la cenere.
E L’ONDATA di collera che investe gli autocrati arabi non risparmia nessuno... Come un tam tam, Twitter, Facebook, gli sms, i video, i blog dilagano oltre che in Tunisia, Egitto e Libia anche in Giordania, in Marocco, in Siria, nello Yemen, in Bahrein mentre in aree lontane del mondo - in Cina, ad esempio - le classi dirigenti temono il contagio. Ma il ruolo di Internet non è stato identico in tutti i Paesi. In Tunisia Twitter e Facebook sono stati elementi cruciali per la diffusione di messaggi, ma non hanno dato un contributo significativo nel far conoscere all’estero le ragioni e le dimensioni della protesta.
In Egitto, invece, gli organi d’informazione internazionali, come Al Jazeera, hanno immediatamente puntato i riflettori su quanto accadeva nel Paese. Stando a quanto riferito da Opennet Initiative, Mubarak ha progressivamente oscurato l’accesso a Internet. Non è servito: Google ha ideato un sistema che ha consentito ai rivoltosi di registrare con il cellulare brevi messaggi da postare successivamente in rete. Alcuni provider francesi hanno messo a disposizione connessioni gratuite a chi si collegava dall’Egitto. Diverso lo scenario mediatico in Libia. Anzitutto solo il 5% della popolazione ha accesso a Internet (rispetto al 34% in Tunisia e al 24% in Egitto) e inoltre l’unico provider è controllato dalla famiglia Gheddafi.
MA I GIOVAN Ilibici si sono serviti dei cellulari satellitari, della possibilità di connettersi a Internet con i telefonini di ultima generazione e hanno dato prova di grande inventiva. A lasciare stupefatti è l’accelerazione che le nuove tecnologie hanno impresso alla Storia. Quando l’uomo inventò la polvere da sparo ci vollero secoli prima che le armi da fuoco diventassero strumenti di guerra. Internet ha 20 anni, Facebook 7 e Youtube appena 6. In così poco tempo sono diventate armi letali puntate contro i palazzi del potere.
Cosa avrebbero potuto o potrebbero fare in futuro i dittatori al potere per opporsi alla marea montante di giovani che su Facebook, su Twitter, sui blog, con gli sms, con i video postati su Youtube, chiedono le dimissioni di governi corrotti e maggiore democrazia? Sparare sulla folla e oscurare Internet? Strada poco praticabile. Al mondo ci sono pochi Golia e molti Davide... online. L’economia moderna dipende sempre più da Internet emisure volte ad ostacolare le comunicazioni avrebbero pesanti ricadute sulla situazione economica. La rivoluzione è di nuovo una spontanea sollevazione di popolo. Non ci sono più gruppi di cospiratori clandestini che il potere è quasi sempre riuscito a controllare e a vanificare infiltrandoli e manovrandoli.
QUASI 500 ANNI FA Lutero rivoluzionò società e religione dell’Europa con la stampa. Con l’avvento di Internet e dei social network quel mondo è tramontato. Controllare la stampa e la tv era facile, Internet è quasi impossibile. In una vignetta apparsa su un quotidiano tunisino in lingua francese, un anziano chiede a un giovane: “Ma insomma chi è il nuovo primo ministro?” e il giovane risponde: “Facebook”.
Bandiere giovanili, dal ’68 francese alla primavera maghrebina
di Carlo Formenti ( Corriere della Sera, 29.03.2011)
Nel primo Novecento i rivoluzionari europei cantavano «e noi faremo come la Russia» , nel ’ 68 impugnavano il libretto di Mao, ora tocca al Nord Africa. Il 23 marzo scorso il Knowledge Liberation Front - una rete internazionale di movimenti radicali di studenti, precari e lavoratori della conoscenza - ha indetto una conferenza stampa per annunciare tre giorni di mobilitazione contro la «finanziarizzazione delle nostre vite» . Dal comunicato si evince che il primo oggetto di contestazione sono l’aumento delle tasse di iscrizione e i concomitanti tagli di budget che Inghilterra, Francia, Italia e altri Paesi hanno imposto alle università, una scelta, si scrive, funzionale a un progetto di mercificazione della conoscenza e precarizzazione del lavoro culturale.
A colpire di più, tuttavia, è il riferimento alle lotte dei giovani insorti nordafricani, descritte come modello da imitare. Un anacronistico rigurgito terzomondista? Basta rileggere gli articoli che gli inviati di tutto il mondo hanno dedicato agli eventi di Tunisia ed Egitto per capire che non si tratta di questo: se i giovani parigini, londinesi e romani possono identificarsi con i ragazzi del Cairo e di Tunisi è perché sanno che si tratta perlopiù di studenti laureati e neolaureati condannati alla disoccupazione, di persone che usano i social network come i coetanei europei, dei quali condividono ormai i valori culturali, e che l’impossibilità di trovare sbocchi occupazionali induce ad attraversare il Mediterraneo e approdare sulla sponda europea in cerca di migliori condizioni di vita.
È quindi del tutto comprensibile che i giovani rivoluzionari europei li considerino «rinforzi» da arruolare nelle proprie battaglie. Comprensibile ma per nulla scontato, nel senso che questa svolta ideologica è un sintomo impressionante della velocità con cui ha camminato la storia negli ultimi decenni: il ’ 68 rivendicava un’università di massa che, si sognava, avrebbe democratizzato la politica e l’economia; ora che l’università di massa minaccia di divenire una fabbrica di precari, ci si specchia nel destino dei giovani diseredati del Maghreb. Che abbia ragione la sociologa della globalizzazione Saskia Sassen quando parla di «terzomondizzazione» dell’Occidente?
Siamo una democrazia mediamente ignorante
Un’indagine del Centro per il Libro fa il punto sul mercato editoriale
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 29.03.2011)
E’ molto interessante l’indagine Nielsen sull’acquisto e la lettura di libri commissionata dal Centro per il Libro presieduto da Gian Arturo Ferrari. Il risultato più rilevante è che solo il 33 per cento della popolazione italiana (un cittadino su tre) ha acquistato almeno un libro nell’ultimo trimestre 2010. Si tratta per lo più di donne (54 per cento), di un pubblico che risiede per la maggior parte tra il centro e il Nord Italia e che ha un profilo giovane (tra i 25 e i 34 anni). La libreria resta il canale preferito (65 per cento), mentre un acquirente su dieci si rivolge a internet. In media il cittadino che compra libri ha speso circa 27 euro in tre mesi, cioè 9 euro al mese, per di più nel periodo più propizio per l’editoria, come quello natalizio, in cui il libro è anche regalo. Gli altri non hanno speso niente.
Dunque, il cittadino italiano ha sborsato in media, per i libri, 3 euro al mese. Se si va sulla lettura, le cose stanno ancora peggio: le persone che hanno letto almeno un libro in tre mesi sono meno degli acquirenti: in tutto, 16.8 milioni. Altro che crescita o decrescita del Pil, c’è un prodotto interno lordo che procede più lentamente di quello economico ed è quello culturale. Non si potrebbe immaginare niente di più catastrofico per lo sviluppo di un Paese.
L’industria editoriale, consegnata nelle mani dei supermanager, non ha dato grandi risultati. O, meglio, se le case editrici stanno economicamente meglio che in passato, il Paese è rimasto culturalmente quello di sempre se non peggio. E se si considera la situazione al sud, la situazione è ancor meno confortante: in Calabria, solo il 6 per cento della popolazione ha acquistato più di tre libri nel periodo preso in considerazione. Non si fa che parlare di ebook, ma rimane un mercato che non sfiora neanche l’uno per cento del totale.
Dunque, in attesa dell’onda digitale eternamente annunciata, parliamo di editoria cartacea. Un altro dato significativo dell’indagine Nielsen è che i libri nettamente più venduti (20 per cento del totale) sono gialli, polizieschi e thriller: cioè tutta quella massa di titoli che un tempo veniva ignorata dai sondaggi in libreria per il semplice fatto che, venendo considerata paraletteratura, finiva in edicola. Ora è la Letteratura per eccellenza. Lo stesso vale per quel 7 per cento che rientra nella categoria della narrativa rosa o d’amore. Ha ragione Ferrari (intervistato da Simonetta Fiori per la Repubblica) quando dice che «la base dei lettori italiani è vergognosamente ristretta e nessuno dà un valore sociale al libro» .
Sarà vero che per migliorare le cose basterebbe che lo Stato investisse 10 milioni l’anno per un quindicennio? Se così fosse, scordiamoci ogni sogno di gloria. Visto che gli investimenti sulla cultura diminuiscono a vista d’occhio. Dice Ferrari che l’unico momento storico in cui lo Stato unitario si è prodigato per allargare la lettura è stato il ventennio fascista: non è un esempio valido, perché bisogna valutare che tipo di libri promuoveva. Fatto sta che, nel dubbio, la nostra democrazia, a giudicare da tutto, si accontenta di avere cittadini mediamente ignoranti.
In Italia il 50% degli adulti non possiede un computer, né sa usare le mail.
Ecco la fotografia di un Paese che non conosce la grammatica del futuro
Quasi il 50 per cento degli adulti non possiede un pc né utilizza la Rete, non sa mandare una mail o pagare un bollettino online.
Un dato enorme se paragonato agli Stati Uniti e al resto d’Europa. Ma per fortuna tra i ragazzi sotto i 20 anni le proporzioni si invertono, e i "nativi digitali" sono perfettamente in linea con le competenze tecnologiche dei loro coetanei stranieri
"Scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, ma anche resistenze culturali".
Problema non solo generazionale: la categoria meno "connessa" è quella delle donne
I più giovani svolgono un ruolo di supplenza: sono loro a insegnare a padri e nonni
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 3.11.2011)
Non sanno mandare una e-mail, né fare una ricerca su Google, non prenotano viaggi né tantomeno utilizzano l’home banking. Non sanno scaricare un modulo né riempirlo online, non frequentano l’e-commerce né i siti degli enti e degli uffici, ignorano Skype e Wikipedia, e se proprio devono consultare Internet (o magari compilare il Censimento) chiedono aiuto ai figli adolescenti o addirittura bambini. C’è un pezzo d’Italia adulta, over 40, trasversale alle regioni e alla geografia, agli studi e alle professioni, più femminile che maschile, che non sa più "né leggere né scrivere". Non conosce cioè il nuovo alfabeto digitale della vita quotidiana, e rischia in pochi anni (cinque, dieci al massimo, dicono gli esperti di nuovi linguaggi e nuovi media) di essere espulsa non solo dall’universo del sapere, quanto dall’accesso ormai sempre più online delle funzioni di ogni giorno.
Si chiama "analfabetismo digitale", ed è uno dei tre analfabetismi censiti dall’Ocse per descrivere chi oggi, nel primo come nel quarto mondo, è a rischio di emarginazione per mancanza di competenze. Un rischio ben presente nel nostro paese, dove gli analfabeti "totali" ormai non sono più dell’1,5% della popolazione, ma dove quasi il 50% degli italiani adulti non possiede un computer né utilizza Internet. Un dato enorme se paragonato al resto d’Europa e soprattutto agli Stati Uniti. Se però i genitori e i nonni arrancano, e ci pongono agli ultimi posti per "connessioni" alla Rete, è invece dai piccoli e piccolissimi che arriva la spinta opposta, in avanti, con ritmi quasi travolgenti: i digital kids made in Italy ma anche immigrati, nella fascia d’età che va dai 6 ai 10 anni, e soprattutto dagli 11 ai 17 anni, corrono velocissimi, apprendono da soli, sperimentano, conoscono e governano Internet esattamente come gli adolescenti di tutto il mondo cablato, stesse opportunità e stessi rischi inclusi. Una rivoluzione al contrario, dal basso verso l’alto, ma così accelerata da far temere che tra breve nella stessa famiglia e tra più generazioni si parleranno linguaggi sideralmente lontani.
Un po’ come avvenne negli anni del primo dopoguerra e dell’alfabetizzazione di massa, in cui furono i bambini che imparavano l’italiano a scuola ad insegnare a leggere e a scrivere ai nonni, i quali parlavano dialetti ormai incomprensibili ai nipoti, come ha ricordato un recente convegno a Torino dedicato ai nuovi analfabetismi e al maestro Manzi di "Non è mai troppo tardi". E infatti la presenza di pc è sensibilmente più alta nelle famiglie dove ci sono bambini e ragazzi, il 68,1% contro il 54,9%.
«Ma rispetto ad allora spiega Paolo Ferri, docente di Teorie e tecniche dei Nuovi Media all’università Bicocca di Milano e autore del saggio "Nativi digitali" il tempo dell’apprendere per non restare tagliati fuori dalla vita di tutti i giorni, si è drasticamente accorciato. Nel giro di 5, al massimo 10 anni, non avere la connessione ad Internet, non saperlo usare, porterà ad una frattura radicale tra chi potrà avere accesso al lavoro e chi no, ai concorsi, all’università, ma anche al semplice destreggiarsi tra un bollettino da pagare e una visita medica da prenotare.
E se sono diversi i tempi e i modi, oggi come ieri ci troviamo di fronte al problema di alfabetizzare una popolazione adulta, nell’assenza totale, da parte delle istituzioni, di una agenda digitale». In una fascia d’età strategica, quella tra i 45 e i 54 anni in cui si è nel pieno della vita produttiva, nel nostro paese soltanto il 53,0% degli italiani (dati Istat 2010) afferma di conoscere la Rete, e soltanto il 55,9% possiede un computer a casa. E il problema è più femminile che maschile, sono soprattutto le donne che non lavorano ad avere pochissime conoscenze tecnologiche. Nella stessa classe anagrafica negli Stati Uniti la connessione è invece dell’83%, e anche salendo con gli anni verso quella terza età dove i nipoti insegnano ai nonni i giochi e i trucchi del web, le connessioni Usa degli over 70 raggiungono il 45% contro il 12% dell’Italia.
«Ho imparato ad usare il computer grazie a mia nipote e ad un corso in parrocchia confessa Adele, 74 anni per poter leggere le mail di mio figlio che vive in Brasile e vedere sempre aggiornate le foto della sua famiglia. Poi però ho utilizzato queste nuove competenze per navigare, come dicono i ragazzi, e adesso partecipo a diversi forum e leggo le notizie».
«Noi scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, nella diffusione della banda larga, ma anche una resistenza culturale. Quegli stessi adulti così restii ad usare un pc vivono invece incollati al telefonino aggiunge Ferri basti pensare che in Italia ci sono 150 milioni di sim card attive. Certo, c’è anche chi pensa che questa dipendenza dalla Rete sia dannosa, che se ne possa fare a meno, che comprima le capacità di apprendimento dei bambini.
In realtà i digital kids hanno imparato perfettamente a far convivere il mondo analogico con quello digitale, e i dati Ocse-Pisa dimostrano come i bambini con accesso alle tecnologie siano 50 punti più avanti, nel rendimento scolastico, dei coetanei che non le utilizzano». E l’elemento da sottolineare è che il divario tecnologico riguarda le generazioni e non le "razze", come si legge nel saggio "Profilo degli adolescenti immigrati di seconda generazione", pubblicato dal Cnel nella primavera scorsa. Tra i 15 e i 17 anni circa il 90% di questi adolescenti arrivati in Italia nella primissima infanzia, utilizza Internet con percentuali identiche a quelle dei ragazzi italiani. Ed è bella la testimonianza di Roxana, 40 anni, peruviana, badante e madre di una teenager: «Mia figlia adesso è in Italia, siamo state dieci anni lontane. È venuta per studiare: la prima cosa che ho fatto mettendo insieme due stipendi è stata quella di comprarle un computer. Così adesso mi insegnerà anche a parlare via Internet con i nostri parenti in Perù».
Certo, si può diventare schiavi del mezzo, come avverte con severità Benedetto Vertecchi, e il primo linguaggio «deve essere sempre e solo quello alfabetico, simbolico, concettuale, altrimenti non si impara a pensare, altrimenti avremo una generazione che usa più le dita che la testa». Che senso ha, si chiede Benedetto Vertecchi, «mettere le lavagne interattive nelle classi e poi smantellare i laboratori di fisica e di chimica, o regalare un computer ad un bambino di 5 anni e poi non digitalizzare le biblioteche?».
La discussione è aperta. Ed è giusto non enfatizzare i presunti saperi tecnologici, se poi, come scrive il fisico Paolo Magrassi nel divertente libro "Digitalmente confusi", (FrancoAngeli), buona parte di quei saperi servono per «scaricare filmati da youtube, youporn o redtube», o magari per connettersi e cercare amici su Facebook, insomma per pura evasione, andando poi a far la fila alla posta per pagare i bollettini o le tasse, ignorando quindi i vantaggi della vita online.
Tutto vero, ma in realtà, aggiunge Massimo Arcangeli, direttore dell’Osservatorio della lingua italiana Zanichelli, «il problema per una volta non è dei giovani che stanno riorganizzandosi su modelli cognitivi nuovi, con una trasformazione inarrestabile, una grammatica nuova, ma degli adulti, della loro fatica ad imparare, della loro resistenza ai nuovi linguaggi». Perché se il rischio dei digital kids è quello di strutturare menti «più sintetiche che analitiche, e di avere una memoria troppo breve e immediata, è vero anche che il loro approccio al sapere oggi viaggia su connessioni diverse, inedite, e non è più possibile parlare di queste competenze come di una cultura di serie B». Ma al di là del giudizio sulla "conoscenza", il tema è assai più concreto. Per coloro che oggi sono fuori dal world-wide web, per quel 47% di over cinquantenni che non frequenta né utilizza la Rete, dice Arcangeli «se non si trova un canale di alfabetizzazione di massa, attraverso la televisione, attraverso i corsi serali, proprio sul modello di quel famoso "Non è mai troppo tardi", il rischio concreto è quello di ritrovarsi in una manciata di anni ai margini della società».