"In questo vaso cresceva l’albero con il ramo d’oro"
Il mito di Ovidio e Frazer: la scoperta a Nemi
di Francesco Erbani (la Repubblica, 17.02.2010)
NEMI È un recinto quadrato, un vaso incassato nella terra. Sul fondo un reticolo di piccoli mattoni porosi, lungo il bordo un canale sottile dove scorreva l’acqua. Siamo a Nemi, castelli romani, sulla riva settentrionale del lago che la leggenda vuole fosse lo specchio di Diana, la dea della caccia e dei giovani che si affacciavano all’età adulta.
Quel vaso, sostiene l’archeologo Filippo Coarelli, potrebbe essere l’alloggiamento dell’albero fra i cui rami ce n’era uno che un’altra leggenda racconta fosse d’oro e avesse un potere speciale: la sua storia viene narrata da autori greci e latini e poi giunge fino a James Frazer, l’antropologoe storico delle religioni che intitolò Il ramo d’oro la monumentale opera, scritta fra il 1890 e il 1915, in cui si ragionava di magia, di scienza e dell’origine sacrale della regalità. «Nel santuario di Nemi», scrive Frazer, «cresceva un albero da cui non era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno schiavo fuggitivo, se ci fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso egli aveva il diritto di battersi col sacerdote e, se l’uccideva, regnava in sua vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis ».
Frazer racconta culture primitive e rintraccia il ripetersi di alcune costanti negli usi e nei riti di diversi popoli. Il punto di partenza della sua indagine è questo lago di struggente bellezza, al centro di una conca rivestita dai colori duri e intensi di un vulcano spento.
Qui Frazer ha soggiornato e ha letto le storie, narrate da Strabone, Pausania, Ovidio e altri ancora, di quel rituale, sanguinario e magico, che affidava a un duello mortale l’investitura del rex nemorensis, sacerdote di Diana e sovrano della comunità (ma un ramo d’oro figura anche nell’ Eneide: serve a Enea per scendere nell’Ade). I candidati al duello, per sfidare il possessore del titolo, dovevano impadronirsi del ramo d’oro strappandolo da un albero sacro alla dea.
Spiega Coarelli, fino allo scorso anno professore a Perugia, una vastissima bibliografia e scavi in tutto il mondo: «In questo rituale si riconosce una struttura primitiva che richiedeva al re, capo militare oltre che politico e religioso, straordinaria efficienza fisica. Il duello serviva a confermarla e qualora questa fosse venuta meno, il re era destinato a decadere e morire». Una specie di ordalia, dunque: questo luogo sarebbe poi diventato il centro federale della lega latina, dove i rappresentanti delle comunità si riunivano per le grandi occasioni civili e religiose, e da dove scaturiva la stessa originaria identità latina. Al recinto che avrebbe ospitato il ramo d’oro si arriva inerpicandosi su una scarpata che le piogge hanno ridotto a una poltiglia di fango.
Coarelli, con Giuseppina Ghini e Francesca Diosono, scava qui da alcuni anni per riportare alla luce quel che resta del santuario dedicato a Diana, circa quattromila metri quadrati di estensione, il più grande del Lazio e, ora si può dire, il più antico. A settembre ha individuato il tempio principale all’interno del santuario.E poi siè spinto in alto, attraverso un varco che interrompe la cinta di possenti mura, percorse da grandi nicchie. Lì ha rinvenuto ambienti con fontane, terrazzamenti, una cisterna e un ninfeo.
Ma fra questi reperti e le mura si estendeva un’area dove in epoca medievale c’era stato un crollo. «Abbiamo scavato per mesi, dovevamo togliere enormi blocchi di lava», racconta Coarelli. «La posizione ci diceva che doveva esserci un edificio sacro. Ma venivano fuori solo tantissimi cocci di ceramica, di natura rituale e votiva».
Sembrava un buco nell’acqua. Ma l’archeologia è la scienza delle sorprese. Intanto i cocci risalivano alla mediae tarda età del bronzo, fra il XIII e il XII secolo a. C., (i resti più antichi del santuario sono databili al III). E questo contatto con un passato tanto remoto era come mettere le mani in un mondo mitologico: il culto di Diana è anche un culto infernale. Ma poi il vuoto faceva pensare a un luogo lasciato intatto, nel quale vigesse un divieto a costruire per ragioni sacre, per rispetto misto a timore.
L’area sembrava avesse contenuto un bosco e l’impressione veniva confermata dalla scoperta del recinto e dal fatto che questo fosse orientato in maniera da essere il punto più eminente di quel fazzoletto di verde.
Il raffronto fra l’evidenza archeologica e le fonti letterarie, fino a Frazer, ha spinto Coarelli a formulare un’ipotesi: questo è il bosco in cui si svolgeva il rituale del rex nemorensis e il recinto è l’invaso in cui sorgeva l’albero ritenuto sacro a Diana, l’albero del ramo d’oro.
Ora lo scavo è sospeso e l’area è recintata: ma questo non scoraggia strani incursori notturni che su una pietra hanno lasciato una mela circondata da ricci di castagne sistemati a corona, quasi un’offerta votiva.
Il culto di Diana in qualche modo sopravvive in curiosi riti fra il magico e il satanico, racconta Coarelli. «I carabinieri sono avvisati», spiega l’archeologo, «ma non è questo il pericolo più grave, piuttosto il fatto che la nostra ricerca è appesa a un filo: se non riusciamo a recuperare finanziamenti non sappiamo davvero come continuare. Qui si tocca con mano l’assoluto disinteresse nel quale affonda il nostro patrimonio».
Da Freud a Eliot, le influenze di un rito
di Marino Niola (la Repubblica, 17.02.2010)
SENZA Il ramo d’oro di James G. Frazer la cultura del Novecento non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi usciti nel 1890 sono uno sterminato catalogo dell’immaginario umano. Un fantastico viaggio che parte dal lago di Nemi e dall’uccisione rituale del sacerdote di Diana per mano di un uomo più giovane e forte che vuole prenderne il posto. E attraversa la mitologia degli antichi, i riti dei primitivi e le credenze dei moderni ricerca il filo che unisce il passato e il futuro dell’uomo.
Questa Bibbia dell’antropologia ha avuto un’influenza decisiva sulla psicanalisi, sulla poesia, sulla letteratura e sul cinema contemporanei.
A cominciare da Siegmund Freud che ammetteva di dovere all’opera di Frazer l’idea dell’uccisione del padre che sta al cuore di Totem e tabù. Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra pensando alla pagina frazeriana sull’assassinio rituale del re congolese Chitombé. E la Terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi dell’uomo moderno si può considerare una vertigionosa parafrasi poetica del Golden bough.
Fino ad Apocalypse Now dove Coppola dedica un memorabile primo piano al libro di Frazer che sta sul tavolo di Marlon Brando. Prima che venga ucciso come un antico sacerdote di Nemi. Chiudendo così un cerchio millenario.
LA SFIDA SIMBOLICA. Una citazione *:
[...] Come ci ricorda l’antropologo James Frazer, quando un sovrano diventava troppo potente o accumulava troppe ricchezze, i primitivi procedevano all’uccisione rituale del re, perché la sua potenza gettava nell’impotenza qualsiasi diversa regolazione dei rapporti all’interno della tribù che non fosse quella prevista dal sovrano. Se la potenza rappresentata da una nazione, da un capo religioso o politico diventa l’unico ordine del mondo, o delle credenze non altrimenti interpretabili, o dei rapporti di potere non modificabili, allora si prepara il terreno alla sfida simbolica, la quale, come sempre avviene quando si chiudono tutte le possibilità di dialogo e di interlocuzione, si esprime nel gesto violento che, come sappiamo, è il sintomo del collasso della parola [...]
Il ramo d’oro dell’Aldilà L’antropologo scozzese indaga i riti funebri primitivi: la paura dei morti è all’origine del pensiero religioso
di Alessandro Defilippi (La Stampa, TuttoLibri, 06.02.2016)
Con un’operazione coraggiosa Il Saggiatore ripropone “La paura dei morti nelle religioni primitive, uno dei testi meno conosciuti di James Frazer. Frazer, antropologo sociale, segnò con i suoi studi i decenni a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Esponente del pensiero eurocentrico o meglio anglocentrico in un’epoca in cui il canto Rule Britannia risuonava tra i continenti, a Frazer spetta un posto centrale tra i grandi ispiratori dello spirito del tempo, al fianco di Freud e di Marx.
Eppure il grande antropologo «da scrivania» è oggi quasi dimenticato. Da scrivania perché Frazer non operò mai sul campo, come poi fecero i suoi successori. E questo fu uno dei motivi per cui venne aspramente criticato da Ernesto De Martino all’epoca della controversa pubblicazione de Il ramo d’oro, la sua opera capitale, dedicata al sacrificio del re sacro e al valore culturale della sua morte rituale, nella mai abbastanza rimpianta Collana Viola di Einaudi, curata appunto da De Martino e da Cesare Pavese.
Questa riedizione italiana de La paura dei morti nelle religioni primitive ci permette di ricordare quanto potente sia stata l’influenza di Frazer sulla cultura contemporanea, in particolare su quella letteraria. Freud s’ispirò a lui per una delle sue opere più discusse, Totem e tabù, mentre Thomas Stearns Eliot scrisse uno dei suoi capolavori, La terra desolata, sotto l’influenza de Il ramo d’oro. Lo stesso libro che compare, in epoca più recente, accanto al misterioso Kurz in Apocalypse Now, la rilettura che Francis Ford Coppola fece di Cuore di tenebra di Conrad. E pare che Conrad stesso avesse scritto il suo lungo racconto pensando al sacrificio del re descritto da Frazer. Un intreccio complesso e continuo, dunque, di cui in Italia fu alfiere Cesare Pavese, che da Frazer fu profondamente affascinato, soprattutto nella stesura dei suoi Dialoghi con Leucò. De Il ramo d’oro, Pavese scrisse in una lettera a De Martino: «E’ il libro che mi ha convertito all’etnologia e resta sempre un ottimo repertorio».
Repertorio è forse la parola più adatta per definire anche questo testo, che raccoglie due cicli di conferenze che Frazer tenne al Trinity College di Cambridge tra il 1932 e il 1933. La messe di dati, di racconti, di «storie» verrebbe da dire, narrativamente parlando, che l’autore accumula nel testo, è impressionante. Il filo conduttore, come già indicato dal titolo, è il timore dei morti, la paura, potremmo dire, dei fantasmi, degli spiriti, dimostrata da un’ampia scelta della letteratura specialistica. L’ipotesi di Frazer è che le credenze riguardo la vita dopo la morte e i riti funerari siano legati al timore nei confronti delle «anime» dei defunti e che questo sistema di tradizioni e di riti sia all’origine del pensiero religioso. L’assunto, nell’intenzione dell’autore, è avvalorato dagli innumerevoli esempi presentati.
Il problema, a occhi contemporanei, è il metodo: viene costruita una teoria, di stampo evoluzionistico ed eurocentrico e si adattano a essa i fatti, andando contro quello che Popper definì poi il principio di falsificabilità. In quest’ottica, la civiltà occidentale - verrebbe da dire, leggendo Frazer, quella britannica - è il punto più alto di un’evoluzione che porta dalla magia, vista come un imperfetto e abortito tentativo di scienza, alla religione e infine alla scienza vera e propria.
Gli assunti di Frazer furono smentiti dall’antropologia successiva, in particolare da Lévi-Strauss e da Marcel Mauss, ma i suoi libri restano ancora oggi nell’immaginario collettivo come un immenso serbatoio di credenze e di narrazioni.
Ma perché rileggere oggi Frazer? Al di là del valore scientifico della sua opera, egli ci permette di immergerci in quella che fu la temperie culturale del secolo scorso, con il suo eurocentrismo, almeno fino alla seconda guerra mondiale. Frazer, che si considerava un erede di Charles Darwin, aveva dell’umanità un’idea positivistica ed evoluzionistica, e fu un esempio perfetto dell’atteggiamento britannico nei confronti del resto del mondo, che nei suoi libri appare, Grecia e Italia comprese, come un luogo ancora preda del pensiero magico. Dalla magia alla scienza, abbiamo detto, scienza che, come affermato nelle prime pagine di questo libro, forse un giorno coronerà «la lunga serie delle sue vittorie sulla Natura con la scoperta delle origini della vita». C’è paradossalmente molto di magico, in questo tipo di considerazioni e c’è tutta quella tendenza, ancora diffusa anche nel mondo occidentale, a considerare i fenomeni dal punto di vista delle teorie e a una sorta di fede nelle «magnifiche sorti e progressive» della scienza stessa. Sorti di cui, in questo crepuscolo del mondo occidentale che sembriamo attraversare, è lecito dubitare, sebbene a esse si debba affidare il nostro benessere e forse la nostra stessa sopravvivenza come specie.
Un secolo fa usciva il capolavoro di James Frazer che indagava sui riti e sulla forza della sovranità e che influenzò psicanalisi, filosofia, letteratura e cinema
di Marino Niola (la Repubblica, 17.11.2015)
Senza “Il ramo d’oro” di Frazer la cultura moderna non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi, iniziati nel 1890 e terminati giusto un secolo fa, negli ultimi mesi del 1915, sono un fantastico viaggio attraverso mitologia e magia, credenze e rituali di tutti i tempi e di tutto il mondo, alla ricerca della sorgente delle nostre istituzioni politiche e religiose. Del filo evolutivo che unisce passato e futuro dell’uomo. Muovendosi arditamente tra i popoli antichi e quelli primitivi. E facendosi beffe dell’eurocentrismo della sua epoca.
Il risultato è un monumentale compendio dell’antropologia evoluzionista. Uno strepitoso Grand Tour dell’immaginario che parte dall’Italia. Dalle sponde boscose del lago di Nemi, dove si trovava il tempio di Diana Nemorensis, la dea del bosco sacro. Proprio questo significa la parola latina “nemus”. A fondarlo era stato Oreste, fuggito dalla Grecia dopo aver ucciso la madre Clitemnestra. A custodirlo era il cosiddetto re nemorense, una singolare figura di sovrano e sacerdote, signore degli uomini ma anche della natura, della cui energia era il rappresentante terreno. Come del resto tutti gli antichi sovrani, il cui ruolo aveva una potenza misteriosamente magnetica, numinosa e magica insieme.
Insomma una carica politica, ma anche una carica elettrica. Proprio per questo gli era permesso tutto tranne che mostrarsi debole, ammalato, invecchiato. Ecco perché il rituale del tempio obbligava il rex ad una prova di forza periodica. Un duello mortale con un pretendente al sacerdozio. Era necessario però che lo sfidante entrasse nell’area consacrata in una notte di tempesta, quando la natura è al massimo dello scatenamento, e strappasse un ramo dorato dall’albero sacro a Diana. Era questo il ramo d’oro. Lo stesso che Enea aveva impugnato durante la sua discesa agli inferi.
Il vincitore diventava il nuovo re della selva. Fino al prossimo duello. Una successione per mezzo della spada che mette a nudo le due metà del potere: eccezione e istituzione, forza e diritto, caos e ordine, legittimità e potenza. L’uccisione del re debole e sconfitto - che in molti popoli studiati da Frazer prende addirittura la forma di un regicidio di Stato - serve in realtà a preservare il ruolo del sovrano, l’uomo che rappresenta la collettività, dalla debolezza del corpo che lo incarna. Come dire che la capacità di difendersi e di offendere, di rendere funzionale la violenza, è la materia prima della leadership. La grande lezione di Frazer sta nell’aver fatto affiorare, esempi alla mano, questa trama oscura della potenza che nessuna legittimazione è in grado di far sparire, né di razionalizzare. Quella che gli antichi chiamavano la Regola di Nemi è, insomma, la legge del più forte. O, come avrebbe detto Carl Schmitt, lo stato di eccezione che diventa norma. Col giovane che fa fuori il vecchio. È la cultura che imita la selezione naturale, trasformando la physis in polis.
Questa Bibbia dell’antropologia ha influenzato tutto il Novecento. Sigmund Freud ammetteva di dovere proprio a Frazer l’idea dell’uccisione del padre che sta al cuore edipico di Totem e tabù. Un filosofo come Ernst Cassirer era decisamente ispirato dai venti animistici che soffiano sul Ramo d’oro quando scriveva la Filosofia delle forme simboliche. E Henri Bergson ci trovò una sorta di motore di ricerca per la teoria dello slancio vitale che è alla base della sua Évolution creatrice. Un poeta come Yeats cercava nello zibaldone frazeriano il filo che lo riconducesse alle matrici epiche della poesia. E David H. Lawrence, l’autore di L’amante di Lady Chatterley, dichiarava senza mezzi termini il suo debito verso il padre di tutti gli antropologi. Mentre Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra ispirandosi in toto alla pagina frazeriana che racconta l’assassinio rituale del re africano di Chitombé. E, last but not least, La terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi della civiltà occidentale, che si può considerare una vertiginosa variazione poetica sul Ramo. Con al centro la mitica figura del re pescatore, il sovrano morente la cui malattia contagia la terra trasfor-mandola in una landa arida e senza vita.
Fino ad Apocalypse Now, il film che Francis Ford Coppola trasse dal capolavoro conradiano trasferendone la scena in Vietnam. E che costituisce un’autentica summa del frazerismo novecentesco. Una discesa nelle profondità dell’umano che mette insieme Conrad e l’Inferno di Dante, la Terra desolata di Eliot e la leggenda del Graal, fino alla cultura psichedelica degli anni Sessanta. E su tutti James George Frazer, vera chiave di volta del film. Addirittura dichiarata dal regista che inquadra due libri sul tavolo del colonnello Kurtz, il rex nemorensis dell’esercito americano, interpretato da Marlon Brando. Uno è il Ramo d’oro e l’altro è Dal rito al romanzo di Jessie Weston, a sua volta ispirata all’opera di Frazer.
Il regista tesse una tela di ragno che cattura il sentimento del tempo, i bagliori apocalittici che illuminano la conclusione del se- colo breve, il tramonto di una storia esausta. In questo senso il colonnello Kurtz è due persone in una. Ha due corpi e due anime, proprio come gli antichi re divini di cui parla il Ramo d’oro. L’ufficiale, sfiancato dalla guerra, non rappresenta solo se stesso, ma anche la malattia contagiosa dell’Occidente imperialista, che sta trasformando il mondo in una terra desolata.
L’ex soldato modello, che ormai prende ordini solo dalla giungla, si è trasformato in un signore della vegetazione e regna sulla foresta tra Vietnam e Cambogia, proprio come il re sacerdote regna sul bosco della dea cacciatrice. E come prescrive la Regola di Nemi, Kurtz va incontro al destino senza opporre resistenza. Del resto l’esecuzione, affidata al capitano Willard, ha le cadenze di un rito.
A confermarlo è la colonna sonora, con la voce di Jim Morrison che canta The End. La canzone parla di un uomo perso in una “roman wilderness of pain”, una desolata terra romana. E di un “ancient lake”, un lago antico. Come in un lampo si chiude un cerchio millenario. L’antico lago dei Doors e quello di Diana si rivelano una sola regione dell’anima.
L’antropologo. Le visioni degli indigeni Kanak e Dayak
La morte non è la fine ma «in paradiso» vanno solo i guerrieri
di Adriano Favole (Corriere della Sera, La Lettura. 07.02.2016)
Uno dei più celebri scambi di battute nella storia dell’antropologia avvenne agli inizi del XX secolo, dalle parti di Houailou, un piccolo villaggio della Nuova Caledonia (Melanesia, Pacifico occidentale). Maurice Leenhardt, pastore protestante ed etnologo francese, interrogava i suoi allievi kanak chiedendo loro se l’insegnamento più importante ricevuto dai missionari cristiani fosse l’esistenza dell’ ésprit («spirito»? «anima»?) . Dopo averci a lungo pensato, Boesou Eurijisi, un vecchio pagano divenuto pastore, rispose: «L’ ésprit ? Bah! Voi non ci avete portato l’ésprit. Conoscevamo già l’esistenza dell’ ésprit. Ciò che ci avete portato è piuttosto il corpo» (Maurice Leenhardt, La structure de la personne en Mélanésie, Stoa, 1970).
Questo episodio è interessante da molti punti di vista: l’esegesi più diffusa vuole che Boesou si riferisse all’introduzione, da parte degli occidentali, di una concezione «individuale» della persona e del suo corpo, di contro alla visione relazionale, plurale o «dividuale» della persona kanak e melanesiana. Ma a che cosa avrà veramente pensato Boesou quando utilizzava il francese ésprit? Leenhardt suggerisce che il termine nativo kanak ko, «l’ ésprit qui affermato, corrisponde all’ influsso ancestrale mitico e magico». E come traduciamo noi in italiano il francese: con «spirito»? con «anima»? con «soffio vitale»? Anna Paini, una delle più autorevoli studiose delle culture oceaniane, sottolinea inoltre la problematica traduzione del francese ésprit in inglese: spirit? mind? (Il filo e l’aquilone, Le Nuove Muse, 2007).
Lo studio antropologico dell’«anima», nelle sue innumerevoli declinazioni culturali, è insieme affascinante, scivoloso e terribilmente problematico. Affascinante perché consente una esplorazione delle modalità con cui l’essere umano ha immaginato il destino della persona oltre la morte e la stessa articolazione della persona. Si può dire al proposito che tutte le società e le religioni ritengono che un qualche aspetto dell’essere umano permanga oltre la morte fisica. Un mito raccolto di recente non lontano dal villaggio di Houailou, narra che, subito dopo la morte e all’imbrunire, l’«anima» del defunto risale le acque del torrente più vicino fino alla cima della montagna. Di qui, seguendo la linea di cresta che taglia in due l’intera isola, essa raggiunge un altro torrente e si lascia trasportare fino al mare, davanti a uno scoglio da cui, si dice, si apra l’accesso al mondo sottomarino dei defunti. Questi sentieri dell’anima segnano anche oggi il paesaggio di luoghi a cui si deve accedere con circospezione e cautela.
La letteratura antropologica ci mette tuttavia in guardia dalle molte «trappole» in cui rischia di farci cadere la nozione di «anima» (ecco gli aspetti scivolosi e problematici). La prima trappola è costituita dal fatto che, in molte culture, «ciò che rimane» della persona non è un’essenza imperitura, ma può a sua volta, come il corpo, essere destinato alla dissoluzione. Un mito dell’isola polinesiana di Futuna narra che, alla morte, l’«anima» comincia un lungo pellegrinaggio verso un certo numero di divinità caratterizzate da una progressiva perdita di capacità senzienti: dèi privi di un occhio, dèi del tutto privi di vista e poi divinità mute e sorde. Il cammino dell’anima è qui un viaggio a ritroso verso il nulla, con l’eccezione (come spesso accade) delle anime dei guerrieri, che trovano invece una collocazione stabile nel Pulotu , il mondo dei morti in cui si danza e si mangia senza sosta.
Una seconda trappola è legata al fatto che non necessariamente l’anima è un principio di «individuazione», ma può presentarsi in una forma plurale - Platone docet ! I dayak del Borneo, a cui Robert Hertz dedicò a inizio Novecento un celebre studio (Contributo a uno studio sulla rappresentazione collettiva della morte, «Année Sociologique», 1907) ritenevano che l’essere umano possedesse due diverse anime. La salumpok liau o «midollo dell’anima» costituiva un tratto rappresentativo della personalità; la liau krahang era invece l’«anima corporale», rappresentativa delle anime delle ossa, dei capelli, delle unghie, ecc. La morte separava le due anime e il lungo percorso del lutto che preparava il funerale definitivo (a volte a distanza di anni) aveva come obiettivo la ricongiunzione delle due anime. «Le rappresentazioni che riguardano la sorte dell’anima - scriveva Hertz - sono per natura vaghe e fluttuanti: non bisogna cercare di imporre loro dei contorni troppo definiti».
Plurali, destinate a dissolversi o a un continuo vagabondare tra la dimora dei morti e quella dei viventi - come nel celebre caso dei Trobriandesi studiati da Bronislaw Malinowski e di molti altri casi di «reincarnazione» - le anime non sono necessariamente una qualità esclusiva dell’umano. Non solo perché anche altri esseri viventi possono essere dotati di un’anima - nella Bibbia il termine ebraico nèfesh viene applicato per la prima volta proprio agli animali (Genesi 1, 20) -, ma perché in molte culture aspetti di quella che noi chiamiamo «natura», alberi, rocce, fiumi, partecipano della persona umana.
Autori come Philippe Descola (Oltre natura e cultura, Seid, 2014) ed Eduardo Viveiros de Castro (A inconstância da alma selvagem, e outros ensaios de antropologia, Cosac Naify, 2002), a partire dai loro studi sulle società dell’Amazzonia, propongono un approccio che potremmo definire «neo-animista».
Le credenze, un tempo assai diffuse in molte società frequentate dai missionari e dagli antropologi secondo cui gli esseri viventi sarebbero dotati di «anime» o «spiriti vitali» al pari degli esseri umani, vengono oggi reinterpretati in una chiave ecologico-culturale, a sottolineare che il confine e la stessa opposizione tra natura e cultura è fortemente problematica. Molti termini nativi che vennero tradotti con «anima» indicavano spazi di sovrapposizione, intreccio e «partecipazione» tra l’universo delle persone umane e quello delle altre persone viventi.
Anima. La vita e le opere
Da qualche tempo il riduzionismo domina le discussioni filosofiche e scientifiche
La questione del rapporto tra corpo e spirito risale agli sciamani delle steppe asiatiche, attraversa la Grecia classica e arriva ai papati recenti
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 07.02.2016)
C’è un termine che torna con frequenza crescente nei dibattiti odierni: riduzionismo. È la tesi che tutti i fenomeni possano essere ricondotti a una base materiale comune e inseriti in una stessa trama causale. La realtà è unica, è quella fisica e può essere spiegata per mezzo delle leggi che governano l’universo. L’idea nasce e prende forza agli albori della modernità: sempre più decisamente, le nuove scoperte scientifiche mostravano che la realtà ha un suo ordine intrinseco, determinato, autonomo. Non c’era più bisogno di pensare a un ente esterno e immateriale per spiegare l’esistenza di questo sistema incredibilmente ricco e complesso, regolato da leggi di causa ed effetto.
Di questo meccanismo anche noi, fino a prova contraria, facciamo parte. Per quali ragioni si dovrebbe sostenere che per l’uomo queste leggi non valgano? Se vogliamo capire chi siamo ci dobbiamo occupare delle nostre proprietà fisiologiche, di cellule, neuroni e sinapsi; non di altro. Con un linguaggio più semplice, lo aveva già detto anche Nietzsche, tutt’altro che disinteressato agli sviluppi delle scienze: «Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro». La tesi è ragionevole; e le conseguenze dirompenti, perché l’immagine dell’uomo, di cosa siamo, cambia in modo radicale.
Diventa problematico parlare di libertà ad esempio, come aveva già osservato Spinoza, un altro figlio della rivoluzione scientifica. Se anche per noi valgono le leggi fisiche, la nostra libertà non è diversa dalla pietra che, cadendo, pensasse di cadere di propria volontà e a proprio piacimento. Un’intuizione filosofica, che gli esperimenti di Benjamin Libet sembrano confermare: prima ancora di diventare consci della scelta che faremo, appare che le nostre cellule cerebrali si sono già attivate in un senso piuttosto che in un altro. Il libero arbitrio è un’illusione, dunque? Sì, rispondeva deciso il solito Nietzsche, e illusoria era pure la pretesa di parlare di responsabilità. Se non siamo liberi, perché distinguere tra buone e cattive azioni? «È assurdo lodare e biasimare la natura e la necessità». Vale per la pietra che cade, vale per le azioni che compiamo.
Sono idee affascinanti, che aprono nuovi scenari. Ma ancora manca la prova decisiva: ancora non si è dimostrato in modo incontrovertibile che l’uomo è un essere «a una dimensione», che rientra interamente in un sistema causale determinato, con tutto quello che ne consegue. E se invece ci fosse in noi qualcosa di irriducibile rispetto al corpo, non interamente vincolato alle leggi fisiche? Che le scienze non possono cogliere perché non fa parte del loro campo d’indagine? Thomas Nagel, filosofo della New York University, ha azzardato una tesi del genere in Mente e cosmo (Raffaello Cortina), suscitando un vespaio. Ma non è certo il primo ad averci provato. Quel qualcosa di irriducibile ha un nome, in uso da secoli: è l’anima. La storia comincia da lontano.
Le prime attestazioni della credenza che ci sia qualcosa in noi che sfugge alle normali leggi dello spazio e del tempo si perdono in un passato remoto, nelle steppe dell’Asia centrale. È il mondo degli sciamani, dotati di poteri magici con cui staccano il loro io dal corpo per fare esperienze precluse ai più. Incubazioni rituali, simulazioni di morte, stati di estasi che liberano l’anima dai vincoli corporei e la guidano in un viaggio iniziatico, rivelandole i segreti dell’universo, il presente, il passato, il futuro. Sono storie bizzarre, che diventano interessanti quando si depurano degli aspetti folcloristici. Quando cioè se ne appropriano Socrate e Platone, inventando la coscienza, facendo dell’anima la sede delle nostre decisioni autonome e responsabili.
Il discorso si sottrae al contesto sapienziale, si presenta davanti alla città, si fa morale. Nel Fedone Platone racconta l’ultimo giorno di vita del maestro. Socrate è in prigione, in attesa di bere la cicuta: ma se non è scappato, spiega agli amici, se resta lì seduto a parlare, non è perché i suoi muscoli e i suoi nervi sono disposti in un certo modo. È lì perché ha deciso così, perché gli è parso giusto accettare il verdetto - ingiusto - degli ateniesi. Nervi e ossa sono importanti, ma Socrate è anche altro, soprattutto altro. È la sua anima, libera. Socrate ha scelto: poteva anche scegliere altrimenti, e per questo può essere apprezzato o criticato. Nessuno si sognerebbe di giudicare la pietra che cade. Ci sono le cose e le persone, la differenza sta nell’anima.
Tutto diventa ancora più interessante con Aristotele e il problema dell’intelligenza. Il tentativo, antiplatonico, è far rientrare il discorso dell’anima nella trattazione biologica, disinnescando ogni velleità metafisica. L’anima è la vita di un corpo, è un corpo che vive. Certo. Ma il dubbio rimane. Davvero tutto può essere ricondotto al corpo? Tutti i nostri pensieri, il flusso di idee dell’intelletto sono solo la conseguenza di impulsi fisici? È la domanda di Nagel, a cui Pascal ha già risposto senza esitazione: «Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: è impossibile, è di un altro ordine». Anche Aristotele alla fine concorda e, quando alza lo sguardo sull’universo, la sua intuizione diventa sublime.
Perché anche il principio ultimo, da cui tutto dipende, è pensiero; pensiero senza materia, nient’altro che pensiero. Il pensiero è vita; ed è all’origine di tutto. «Pensiero che pensa se stesso», così Aristotele definisce Dio. «In principio era il logos , il verbo»: così inizia il Vangelo di Giovanni. L’uomo, «irriducibile a una semplice particella della natura» (Giovanni Paolo II), è l’interlocutore libero e intelligente di Dio. Senza trascurare le differenze (gli ateniesi risero quando Paolo parlò della resurrezione dei corpi), tra filosofia greca e cristianesimo le linee di continuità non mancano: lo diceva Nietzsche («il cristianesimo, platonismo per il popolo») e lo ha ripetuto Ratzinger a Ratisbona. Da Cartesio ai Cugini di Campagna, l’anima diventa patrimonio comune, uno strumento indispensabile per analizzare quella cosa sfuggente che siamo, nella sua specificità. Siamo sicuri che sia arrivato il momento di sbarazzarsene?
L’ultimo grande filosofo greco è stato Plotino; di certo vince il premio per la tesi più bizzarra. Il nostro vero «io» è una parte dell’anima mai discesa nel corpo, che risiede eternamente nel mondo delle idee, assorta nella contemplazione delle realtà più alte. Pensiero puro, insomma. Assurdità? Teologicamente neanche troppo: è la versione filosofica del paradiso. Basta pensare ai beati di Dante, il cui unico desiderio, realizzato, è proprio quello di vedere Dio - vale a dire conoscere il significato ultimo delle cose; comprendere il senso (e la bellezza) dell’esistenza, nostra e di tutto il resto. Per Plotino non c’è neppure bisogno di aspettare l’aldilà: la beatitudine è possibile qui e ora. È come un’aria satura di gas: non si vede, ma è lì; il nostro pensiero è come la fiamma che l’accende; l’esplosione e l’incendio - la fiammella che si ricongiunge al fuoco, il nostro pensiero che s’identifica in Dio e vede tutto con i suoi occhi - ecco la felicità.
Non si tratta di sola teologia. Le tesi di Plotino sembreranno pure bizzarre, ma sono attuali e molto concrete. Per la prima volta si mette in discussione l’identificazione tra noi e la nostra coscienza. Il nostro vero io è qualcosa di cui non sempre, quasi mai anzi, siamo consapevoli, ma che comunque è alla base dei nostri pensieri e delle nostre azioni. Assurdità? Ma non è stato Sigmund Freud a insegnare che una parte decisiva della nostra vita si svolge al di là della soglia della consapevolezza?
Alla luce delle nuove scoperte scientifiche, non diceva cose molto diverse neppure Edoardo Boncinelli nella «Lettura» del 24 gennaio, quando spiegava che anche le regioni subcorticali del cervello, di cui non siamo coscienti, concorrono a determinare in modo essenziale ciò che siamo e ciò che facciamo. La nostra è l’epoca più adatta a sviluppare la tesi di Plotino. Senza sottovalutare le differenze, perché la prospettiva è ribaltata, il riduzionismo rovesciato: con Freud e con la scienza siamo ricondotti verso una dimensione fisiologica, verso una miriade di processi neuronali. Con Plotino il nostro «io» va nella direzione opposta, perdendosi in un ordine intelligibile, forse divino. Non c’è mai fine alla fantasia dei filosofi, penseranno molti. Sempre che siano fantasie, però, perché il mistero del pensiero ancora non è stato risolto. Insomma, chi siamo noi, veramente? O meglio, che cosa è «io», sempre che esista?
«Conosci te stesso», intimava l’oracolo di Delfi. Fosse facile. Il mondo in cui viviamo è complicato e noi lo siamo ancora di più; ognuno si sforza di capire e cerca di dire la sua. Forti dei loro successi, gli scienziati indicano il cammino con esperimenti sempre più precisi. I filosofi sollevano dubbi sulla direzione presa: davvero questi esperimenti riescono a cogliere tutta la realtà? Davvero ciò che non è conoscibile scientificamente non esiste? I teologi puntano il dito da un’altra parte. Ci si confronta, si discute, spesso si litiga. A volte vien da pensare che il rumore delle nostre urla arrivi fin nei posti più remoti dell’immenso universo che ci circonda. Dove magari siede qualche divinità annoiata, grata di poter assistere allo spettacolo di questi esseri curiosi, sempre in cerca di se stessi.
di Piero Stefani (Corriere della Sera, La Lettura, 07.02.2016)
Che cosa avvenga a un essere umano quando i suoi occhi si chiudono all’esistenza terrena è domanda che non trova risposta nell’esperienza di alcun vivente. Si tratta di un’affermazione talmente scontata da risultare dicibile solo se sostenuta da qualche richiamo culturale evocando «il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna»; forse, per essere più amletici di Amleto, perché quel paese semplicemente non c’è. Tuttavia quando, sgombrate le impalcature psicologiche e le convenzioni sociali, si è assaliti nel proprio intimo da «questo problema», esso è posto pensando a se stessi o a chi ci è caro, e non a Shakespeare.
Per qualcuno l’interrogativo trova risposta certa; per altri invece l’aldilà resta, per dirla con Rabelais, il «grande forse». Si tratta di un pensiero non estraneo neppure alla Bibbia. Anche nel libro sacro qualche volta le domande prevalgono sulle risposte. Per il Qohelet (3,21) è certo che tutti ci incamminiamo verso la polvere, mentre è problematico se la ruach (come tradurre? «spirito», «alito vitale», «soffio»?) dell’uomo salga verso l’alto e se quella delle bestie sprofondi verso il basso.
«Forse», «chissà». La prospettiva, per qualcuno, può suonare anomala e consegnabile soltanto a un libro strano come il Qohelet . Un’eccezione, o forse una concessione che dice allo scettico: guarda che nella Bibbia c’è un angolino anche per te. In effetti nella Scrittura ci si imbatte anche in risposte, tuttavia esse non sono univoche. Una prospettiva però è certa: la domanda sul «dopo» si collega con quella relativa all’«origine».
In una delle prime pagine della Bibbia si legge che «il Signore Dio, dopo aver plasmato l’uomo con la polvere del suolo, gli soffiò nelle narici un alito di vita (nishmat chayyim) e l’uomo divenne vivente (nefesh chayiah)» (Genesi 2,7). In Occidente c’è una memoria lunga del fatto che il «biologico» non trovi in se stesso la spiegazione della propria origine e debba, quindi, rimandare a un alito di vita primordiale che viene dal di fuori. Tracce di simili convinzioni si riscontrano persino nelle righe finali dell’ Origine delle specie di Charles Darwin.
L’antropologia biblica non conosce il dualismo anima-corpo. In essa non c’è spazio per la visione del neoplatonico Celso, secondo la quale l’anima è opera di Dio mentre in base alla natura non c’è differenza tra la nostra corporeità e quella di un pipistrello, di un verme o di una rana.
Di norma nella Bibbia ci si riferisce a una concezione tripartita e relazionale dell’essere umano articolata in tre dimensioni: carne (ebraico, basàr; greco sarx ), anima (ebraico, nefesh ; greco, psyche ), spirito (ebraico, ruach; greco, pneuma). Altrettanto consueto è affermare che l’essere umano è (non ha) carne, anima e spirito. Visto nella prospettiva della sua caducità è «carne», colto nel suo affermarsi come essere vitale è «anima», scorto nella sua dimensione relazionale con l’altro da sé - a iniziare da Dio - è ruach (in questo caso intesa come spirito e non come respirazione). È dunque solo lo spirito a distinguere gli esseri umani dagli altri animali?
Nella cultura occidentale la comunanza genetica tra uomini e animali è letta, ormai da quasi due secoli, eminentemente in chiave evolutiva: noi deriviamo da loro. Questa precedenza oggi viene a volte interpretata come indice di un cammino ancora da percorrere per gli uni e per gli altri. Di quest’ultimo parere è il teologo e analista junghiano Eugen Drewermann il quale, nel suo piccolo saggio Sull’immortalità degli animali (Castelvecchi, 2013), sostiene che, in base ai risultati raggiunti dalla psicoanalisi e dall’etologia, non è possibile respingere l’idea che uno solo sia il flusso vitale che dapprima ha reso possibile il nostro diventar uomini a partire dal mondo animale e che ora continua a svilupparci come esseri umani. Quella comune appartenenza, che in altre culture si esplica nella generale partecipazione al ciclo senza fine delle reincarnazioni, qui viene riferita a una forza evolutiva spirituale destinata a dar luogo a una universale quanto immediata immortalità. A lungo la fede nata dalla Bibbia è stata, però, vissuta secondo parametri diversi da quelli prospettati da Drewermann.
La morte individuale intesa come evento unico e irripetibile è una eredità biblica passata alla civiltà occidentale; ciò non equivale affatto a sostenere che questo solco sia indelebile; al giorno d’oggi ci sono anzi molti segni che vanno in direzione opposta. In ogni caso, fino a quando si tiene ferma l’unicità della morte, la riacquisizione vitale della pienezza umana è obbligata a presentarsi come una riappropriazione del sé compiuta in virtù della forza esterna dello spirito. Esso però deve trovare una corrispondenza interna capace di recepirlo.
Lo snodo è tutto qua. Occorre una forza che viene dal di fuori capace di relazionarsi con noi e noi con essa. A tutto ciò il lessico biblico diede il nome di ruach o di pneuma.
Vito Mancuso, in un suo libro intitolato Questa vita (Garzanti, 2015), afferma che, come tutti gli altri corpi fisici, anche il nostro organismo è energia+informazione. A differenza di tutti gli altri esseri, quelli umani si articolano però su tre livelli: corpo, psiche e spirito. Siamo corpi al pari delle pietre, siamo anima al pari degli animali (l’etimo qui non è ingannevole); tuttavia la vita umana, allorché energia e informazione producono un’ulteriore crescita, attinge a un terzo livello tradizionalmente denominato «spirito».
Il grande displuvio tra la concezione biblica e quella evolutiva sta nel fatto che per la Scrittura la ruach è non già un potenziamento interno, ma una forza che viene al vivente dall’esterno. Essa, lungi dall’essere un prodotto potenziato di energia+informazione, va piuttosto paragonata all’alito di vita insufflato all’inizio.
Lo spirito è una realtà posta al principio e alla fine dell’esistenza terrena. Quando parla dell’«uomo vivente» la Bibbia parla di una creazione diretta non mediata da alcuna evoluzione (affermazione, quest’ultima, che solo i fondamentalisti ritengono risolutiva del tema teologico incentrato sui rapporti tra fede e scienza).
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, La Lettura, 07.02.2016)
Verso la fine del VII secolo, il vescovo di Toledo, Giuliano, compilò una vasta antologia di testi degli antichi Padri della Chiesa latina sul destino dell’anima dopo la morte. Il suo intento era confortare un amico malato, Idalio vescovo di Barcellona, che sentiva prossimo l’arrivo della fine. Nei fatti, il Prognosticon futuri saeculi , che si traduce con «Preannuncio del mondo che verrà», divenne uno dei testi più conosciuti e diffusi nel Medioevo.
Raccogliendo pagine dagli scritti di Cipriano, vescovo di Cartagine alla metà del III secolo, di Agostino, di Gregorio Magno e di altri ancora, Giuliano di Toledo si sforza di offrire risposte coerenti alle domande che angosciavano i cristiani dei suoi giorni: cosa accade all’anima quando si muore? Le anime dei defunti rimangono in rapporto con le cose di questo mondo? E soprattutto, cosa accade nel lungo intervallo di tempo che separa il momento della morte individuale dal giorno, terribile ma ancora lontano, del Giudizio universale, quando si consumerà il destino irreversibile di ciascuno e l’anima sarà restituita al corpo rigenerato per la beatitudine o la condanna eterna?
Proprio dall’antologia di Giuliano (che si può leggere nella recente traduzione di Tommaso Stancati per l’Editrice Domenicana Italiana di Napoli) prende avvio il saggio di Peter Brown Il riscatto dell’anima (Einaudi), che ripercorre il formarsi dell’immaginario escatologico del cristianesimo occidentale tra il III e il VII secolo, assumendo però un punto di vista particolare: quello del rapporto tra le ricchezze di quaggiù e il destino delle anime di lassù, se si vogliono utilizzare le parole di Gesù che, nel Vangelo di Luca, ammonisce a vendere ciò che si possiede e darlo in elemosina per costruire un tesoro nei cieli.
Nel mondo antico, la gloria dell’immortalità era riservata solo a pochi spiriti eletti, i filosofi, i grandi legislatori, gli eroi; la morte non cancellava, anzi in qualche misura ribadiva, la gerarchia sociale presente sulla Terra. Il cristianesimo introduce invece quella che Brown definisce una «democrazia delle anime», anzitutto riconoscendo a ciascun uomo, a prescindere dalla sua condizione, una propria natura spirituale, testimoniata appunto dall’anima individuale; poi, assegnandole la possibilità di guadagnarsi la salvezza e conseguire così l’immortalità.
Se nei primi tre secoli la condizione di marginalità o addirittura di persecuzione rendeva la scelta stessa di essere cristiani meritevole della ricompensa celeste nel giorno del Giudizio, o addirittura nel caso dei martiri nel momento stesso della morte, a partire dal IV secolo il problema inizia a porsi in termini profondamente diversi. Agostino non si preoccupa di chi è veramente buono (i martiri e i santi) o di chi è intrinsecamente malvagio: i primi godranno del paradiso, i secondi sono destinati all’inferno. Ma che dire di coloro che non sono né abbastanza buoni, né abbastanza cattivi, ovvero della grande maggioranza dei cristiani comuni? Come potranno purificarsi dai loro peccati, una volta defunti e in attesa del Giudizio?
Proprio intorno a interrogativi del genere si determina un significativo cambiamento nell’uso cristiano della ricchezza. Fino a questo momento, l’elemosina elargita ai poveri serviva al credente per obbedire al comando di Gesù e prepararsi un posto in cielo. Ora, invece, l’anima del defunto resta bisognosa anche nell’aldilà: beneficare i poveri sulla Terra contribuisce a riscattare le anime nei cieli.
Così la Chiesa assume un ruolo centrale nella gestione della ricchezza, a mezzo tra cielo e terra. I beni offerti per il sostentamento degli indigenti o per l’edificazione degli edifici di culto rappresentano una sorta di cambiale che il donatore, ricco o meno che sia, potrà incassare dopo la sua morte sotto forma di preghiere e di intercessioni; a sua volta, la Chiesa si fa garante della conservazione e del corretto uso dei beni ricevuti, che divengono un vero «patrimonio dei poveri».
Naturalmente in questo processo si intrecciano in forma tutt’altro che lineare dibattiti teologici, mutamenti culturali, trasformazioni sociali. Ancora alla fine del VI secolo, l’idea antica secondo cui l’immortalità era riservata alle anime elette, questa volta però martiri e santi, riemergeva nelle parole di un membro del clero di Tours secondo cui nel caso dei peccatori - ovvero della stragrande maggioranza dei cristiani - andavano prese alla lettera le parole rivolte da Dio ad Adamo: «Polvere sei e polvere ritornerai». Nessuna offerta, nessuna preghiera poteva redimere le anime comuni. Ma era ormai aperta la strada che avrebbe portato ai grandi possedimenti ecclesiastici, alla comparsa del purgatorio, nella seconda metà del XII secolo, e «alla somma Divina Commedia di Dante Alighieri» - conclude Brown.