J’accuse di René Girard
Gli intellettuali sono castratori di significato: “Dopo il linguaggio stanno decostruendo l’uomo”. Microeugenetica, un sacrificio umano. “La sessualità è il problema, non la soluzione”. Le idee spietate di un grande pensatore
Roma. Nonostante gli ottantaquattro anni, René Girard non ha perso niente della fibra di pensatore radicale, quasi terminale. Sta lavorando a un nuovo saggio su Karl von Clausewitz. Autore di opere capitali del pensiero contemporaneo come “La violenza e il sacro” e “Il capro espiatorio”, eletto fra i quaranta “immortali” dell’Académie française, René Girard è il più grande antropologo vivente insieme a Claude Lévi-Strauss.
In questa intervista al Foglio, Girard torna su quella che ha definito “la grande questione antropologica del nostro tempo”. Apre con una domanda: “Può esserci una antropologia realistica che precede la decostruzione? In altre parole: è lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? L’antropologia contemporanea, strutturalista e postmoderna, nega quest’accesso alla verità. Il pensiero attuale è la castrazione del significato. Sono pericolosi questi tentativi di mettere in discussione l’uomo”.
E’ questa l’origine, secondo Girard, dello “skandalon” della religione nell’epoca della neosecolarizzazione. “A partire dall’illuminismo, la religione è stata concepita come puro non sense. August Comte aveva una teoria precisa sull’origine della verità e il suo intellettualismo ottocentesco ricorda molto quello in voga oggi. Comte diceva che ci sono tre fasi: religiosa, che è la più puerile; filosofica e infine scientifica, la più vicina alla verità. Oggi nel discorso pubblico si mira a definire la ‘non verità’ della religione, indispensabile invece per la sopravvivenza della specie umana. Nessuno si domanda quale sia la funzione della religione, si parla solo di fede: ‘Io ho fede’. Ma poi? La teoria rivoluzionaria di Charles Darwin sperava di aver dimostrato l’inutilità di una istituzione antica quindicimila anni come la religione. Oggi ci si prova nella forma del caos genetico enunciato dal neodarwinismo. Si prenda uno scienziato come Richard Dawkins, è un pensatore estremamente violento e vede la religione come qualcosa di delinquenziale”.
La religione ha una funzione che va oltre la fede e la veridicità del dono monoteista: “La proibizione dei sacrifici umani. Il mondo moderno ha deciso che è la proibizione il non sense. La religione è tornata a essere concepita come il costume del buon selvaggio, uno stato primitivo di ignoranza sotto le stelle. La religione è invece necessaria a reprimere la violenza. L’uomo è una specie unica al mondo: l’unica che minacci la propria sopravvivenza attraverso la violenza. Gli animali durante la gelosia sessuale non si uccidono a vicenda. Gli esseri umani sì. Gli animali non conoscono la vendetta, la distruzione della vittima sacrificale legata alla natura mimetica delle moltitudini plaudenti”.
Oggi si accetta solo una definizione di violenza come pura aggressione: “E’ perché si vuole renderla innocente. La violenza umana è invece desiderio e imitazione. Il postmodernismo non riesce a parlare di violenza: la pone fra parentesi e semplicemente ne ignora l’origine. E con essa la verità più importante: la realtà è da qualche parte accessibile”.
René Girard proviene dal radicalismo francese. “Mi sono riempito la testa con le pagliacciate e il semplicismo mediocre e stupido dell’avanguardia. So bene quanto la negazione postmoderna della realtà possa condurre al discredito della domanda morale dell’uomo. L’avanguardia un tempo relegata in ambito artistico oggi si estende a quello scientifico che ragiona sull’origine dell’uomo. In un certo senso, la scienza è diventata una nuova mitologia, l’uomo che crea la vita. Così, ho accolto con grande sollievo la definizione di Joseph Ratzinger di ‘riduzionismo biologico’, la nuova forma di decostruzione, il mito biologista. Mi ritrovo anche nella distinzione dell’ex cardinale fra scienza e scientismo”.
L’unica grande differenza fra l’uomo e la specie animale è la dimensione religiosa. “E’ questa l’essenza dell’esistenza umana, è l’origine della proibizione dei sacrifici e della violenza. Dove si è dissolta la religione, lì è iniziato un processo di decomposizione. La microeugenetica è la nuova forma di sacrificio umano. Non proteggiamo più la vita dalla violenza, schiacciamo invece la vita con la violenza. Per cercare di appropriarci del mistero della vita a nostro beneficio. Ma falliremo. L’eugenetica è il culmine di un pensiero iniziato due secoli fa e che costituisce il più grande pericolo per la specie umana. L’uomo è la specie che può sempre distruggere se stessa. Per questo ha creato la religione”.
Oggi ci sono tre aree in cui l’uomo è in pericolo: nucleare, terrorismo e manipolazione genetica. “Il Ventesimo secolo è stato il secolo del classico nichilismo. Il Ventunesimo sarà il secolo del nichilismo affascinante. Aveva ragione C. S. Lewis quando parlava di ‘abolizione dell’uomo’. Michel Foucault aggiunse che l’abolizione dell’uomo sta diventando un concetto filosofico. Non si può più parlare oggi dell’uomo. Quando Friedrich Nietzsche annunciò la morte di Dio, in realtà stava annunciando la morte dell’uomo. L’eugenetica è la negazione della razionalità umana. Se si considera l’uomo come mero e grezzo materiale da laboratorio, un oggetto manipolabile e malleabile, si può arrivare a fargli qualsiasi cosa. Si finisce per distruggere la fondamentale razionalità dell’essere umano. L’uomo non può essere riorganizzato”.
Secondo Girard, oggi stiamo perdendo di vista anche un’altra funzione antropologica, quella del matrimonio. “Una istituzione precristiana e valorizzata dal cristianesimo. Il matrimonio è l’indispensabile organizzazione della vita, legata alla richiesta umana di immortalità. Creando una famiglia, è come se l’uomo perseguisse l’imitazione della vita eterna. Ci sono stati luoghi e civiltà in cui l’omosessualità era tollerata, ma nessuna società l’ha messa sullo stesso piano giuridico della famiglia. Abbiamo un uomo e una donna, cioè sempre un’opposizione. Alle ultime elezioni americane del 2006, la vera vittoria è stata del matrimonio naturale ai referendum”.
La noia metafisica dell’Europa
L’Europa è immersa in quella che l’arabista della Sorbona Rémi Brague chiama noia metafisica. “E’ una bella definizione, anche se mi pare che la superiorità del messaggio cristiano diventi ogni giorno più visibile. Quando è più attaccato, il cristianesimo brilla di maggiore verità. Essendo la negazione della mitologia, il cristianesimo splende nel momento in cui il nostro mondo si riempie di nuove mitologie sacrificali. Lo skandalon della rivelazione cristiana l’ho sempre inteso in maniera radicale. Nel cristianesimo, anziché assumere il punto di vista della folla, si assume quello della vittima innocente. Si tratta di un capovolgimento dello schema arcaico. E di un esaurimento della violenza”.
Girard parla di ossessione per la sessualità. “Nei Vangeli non c’è nulla di sessuale e questo fatto è stato completamente romanticizzato dalla gnosi contemporanea. La gnosi da sempre esclude categorie di persone e le trasforma in nemici. La cristianità è l’esatto contrario della mitologia e della gnosi. Oggi avanza una forma di neopaganesimo. Il più grande errore della filosofia postmoderna è aver pensato che potesse gratuitamente trasformare l’uomo in una macchina di piacere. Da qui passa la disumanizzazione, a cominciare dal desiderio falso di prolungare la vita sacrificando beni più grandi”.
La filosofia postmoderna si basa sull’assunzione che la storia sia finita. “Da qui nasce una cultura schiacciata sul presente. Da qui origina anche l’odio per una cultura forte che afferma una verità universale. Oggi si crede che la sessualità sia la soluzione a tutto, invece è il problema, la sua origine. Siamo continuamente persuasi da una suggestiva ideologia del fascino. La decostruzione non contempla la sessualità all’interno della follia umana. La nostra pazzia è dunque nel voler banalizzare la sessualità facendone qualcosa di frivolo. Spero che i cristiani non seguano questa direzione. Violenza e sessualità sono inseparabili. E questo perché si tratta della cosa più bella e turpe che abbiamo”.
E’ in corso un divorzio fra umanità e sintassi, realtà e linguaggio. “Stiamo perdendo ogni contatto fra il linguaggio e le regioni dell’essere. Oggi crediamo solo al linguaggio. Amiamo le favole più che in qualunque altra epoca. La cristianità è una verità linguistica, logos, Tommaso d’Aquino è stato il grande promulgatore di questo razionalismo linguistico. Il grande successo della cristianità angloamericana e dunque degli Stati Uniti si deve non a caso a straordinarie traduzioni della Bibbia. Nel cattolicesimo oggi c’è fin troppa sociologia. La chiesa è troppo spesso compromessa con le lusinghe del tempo e il modernismo. In un certo senso i problemi sono iniziati con il Concilio Vaticano II, ma risalgono alla precedente perdita dell’escatologia cristiana. La chiesa non ha abbastanza riflettuto su questa trasformazione. Come possiamo giustificare la totale eliminazione dell’escatologia persino nella liturgia?”.
Fonte: Il Foglio, 20.03.2007
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Federico La Sala
Dibattito.
Ruini: l’essere umano non è paragonabile ad animali e macchine
Intervento del cardinale Ruini su un libro del filosofo Agazzi: l’uomo è altro rispetto a natura e IA, perché è capace di speranza. La cultura attuale non riesce a coglierne la verità
di Camillo Ruini (Avvenire, martedì 26 settembre 2023
Evandro Agazzi è attualmente uno dei più importanti filosofi italiani e di certo il maggiore filosofo della scienza. A coronamento della sua molto lunga e feconda attività di studioso ha pubblicato alcuni libri, da ultimo La conoscenza dell’invisibile (2021) e Dimostrare l’esistenza dell’uomo (2023), che riassumono in forma unitaria le linee principali della sua riflessione filosofica. Cercherò qui di presentare e valutare brevemente il più recente di questi libri. Il suo titolo, “Dimostrare l’esistenza dell’uomo”, ha un sapore paradossale, perché la nostra esistenza è quanto di più evidente e immediato ci è dato conoscere. In realtà questo titolo allude al fatto che affidandosi unicamente alla scienza e alla tecnologia non si riesce a comprendere e indagare quella decisiva differenza per la quale possiamo affermare che «l’uomo non è né una macchina né un puro e semplice animale». Il libro è quindi un’antropologia filosofica. Il primo problema preso in esame è quello dei rapporti tra l’uomo e la natura: per quanto essi siano profondi non possono comportare la riduzione dell’uomo alla natura, come vorrebbe l’opinione oggi più diffusa. A parere di Agazzi vi si oppone quell’aspetto essenziale della nostra identità che è rappresentato dalla consapevolezza di essere liberi.
Il libro ritorna spesso sulla questione della libertà. Molto importante, in particolare, la distinzione tra libertà di scelta, detta anche libero arbitrio, e libertà d’azione. La prima è la libertà radicale senza la quale non potrebbero esistere né la moralità né la responsabilità. La seconda invece ammette molteplici limitazioni. Il pensiero moderno ha purtroppo identificato la libertà con la libertà d’azione e per questa via limita sempre più la nostra libertà, fino a ridurla a una pia illusione. Esito paradossale perché, proprio mentre riduce progressivamente l’uomo a un semplice essere naturale privo di libertà, la cultura moderna celebra la dignità dell’uomo e proclama un numero crescente di diritti umani. Ma, si chiede giustamente Agazzi, come si possono conciliare questa dignità e questi diritti con l’idea che l’uomo è un semplice animale, o addirittura una macchina? A mio parere questa contraddizione interna va assolutamente superata, se vogliamo aprire al futuro la nostra civiltà.
Un altro argomento molto interessante è quello della persona, più precisamente del rapporto tra uomo e persona. Agazzi ricorda anzitutto che il termine “persona” è divenuto un profondo concetto filosofico grazie all’opera dei Padri della Chiesa che lo hanno impiegato per precisare il significato dei due misteri fondamentali della fede cristiana, quello trinitario (tre Persone in una natura) e quello cristologico (una Persona in due nature). Lo spessore ontologico del concetto di persona si è poi trasferito sul concetto di uomo, fino alle varie dichiarazioni e rivendicazioni dei diritti umani che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli. Nel nostro tempo si è giunti però a teorizzare una separazione tra l’uomo e la persona, nel senso di una differenza tra il concetto di uomo e il concetto di persona, in virtù della quale non ogni uomo, per il fat-to stesso di essere uomo, sarebbe una persona. Per conseguenza la dignità e i diritti riconosciuti alla persona non vengono automaticamente riconosciuti a tutti gli uomini. Agazzi confuta con un’analisi rigorosa la possibilità di separare l’uomo dalla persona e ne deduce alcune conclusioni in ambito bioetico: l’aborto e la soppressione di embrioni umani sono inevitabilmente soppressioni di persone.
Una questione attualmente molto dibattuta è quella della cosiddetta “intelligenza artificiale”. È diffusa l’idea che essa potrebbe emulare e poi superare l’intelligenza naturale dell’uomo. In realtà tra le due esiste una differenza radicale: una proprietà fondamentale dell’intelligenza naturale è infatti l’intenzionalità, che invece non può essere presente nell’intelligenza artificiale, come Agazzi ha compreso e affermato per primo, già molti anni fa. Cosa si intende per “intenzionalità”? Si tratta di un concetto già presente nella filosofia scolastica medioevale e poi ripreso dai filosofi tedeschi Franz Brentano ed Edmund Husserl, il cui significato è essere indirizzato verso un oggetto. Essendo priva di intenzionalità l’intelligenza artificiale non è e non potrà mai essere un’autentica intelligenza. Non ha senso, quindi, chiedersi se essa potrà superare l’intelligenza umana. Ciò non toglie che l’intelligenza artificiale, in concreto i computer la cui potenza di calcolo sta crescendo vertiginosamente, renda a noi possibile risolvere problemi che senza di essa non avremmo potuto in alcuno modo affrontare.
Agazzi dedica grande attenzione e spazio al mondo della cultura. In particolare le molte pagine in cui parla della musica sono una vera ricchezza di questo libro che, occupandosi dell’esistenza dell’uomo, è «inesorabilmente approdato al tema centrale di qualunque antropologia filosofica», cioè al problema del senso della nostra esistenza, che richiede qualche comprensione della morte perché «l’escatologia costituisce il cuore di ogni antropologia». Vengono pertanto analizzati con cura i concetti di morte, vita, esistenza, immortalità, come anche quello di felicità. Da ultimo Agazzi tratta dell’esperienza del sacro, della fede come fiducia in Colui che incontriamo in tale esperienza e della speranza come caratteristica specifica della natura umana: infatti soltanto l’uomo spera. Le ultime righe del libro chiariscono definitivamente il suo significato: «Dimostrare l’esistenza dell’uomo, ossia presentare argomenti di evidenza fenomenologica (come il fatto empirico della risurrezione di Gesù e l’esperienza del sacro) per convalidare l’immagine dell’uomo come viatore (come un essere in cammino) in cui alberga la speranza (ancorata nella fede in Cristo) che dopo il viaggio in questa vita ci sarà l’approdo in una esistenza al di là della morte e del tempo».
DOC. - L’Occidente ha perso la ragione. Giulio Meotti intervista Michel Onfray *
Attraverso la finestra dell’ufficio da cui scrivo, a Caen, vedo l’Abbazia degli uomini. Se vado sul balcone, vedo l’Abbazia delle donne. A poche centinaia di metri, in linea d’aria, si trovano i bastioni del castello in cui si erge ancora un magnifico edificio, la Sala dello Scacchiere. Queste costruzioni, emblematiche dell’arte anglo-normanna, hanno mille anni e furono costruite durante il regno di Guglielmo il Conquistatore: iniziate nel 1062 e nel 1066, furono consacrate nel 1130 e nel 1077. Guardiamo indietro al XIX secolo: l’architetto catalano Gaudí iniziò la costruzione della Sagrada Família a Barcellona nel 1882, l’anno in cui Nietzsche pubblicò ‘La gaia scienza’ che annunciava la morte di Dio. Consacrata da Benedetto XVI il 7 novembre 2010, la chiesa ha atteso centotrentasette anni per la concessione edilizia... Questo Papa, per ragioni molto oscure, si è dimesso, la fine delle opere strutturali è prevista per il 2026 e quella dei lavori per il 2032! Ciò che Guglielmo il Conquistatore costruì in undici anni nell’XI secolo, gli uomini del XIX, XX e XXI secolo non l’hanno ancora finito. Non è un simbolo?”.
Spirito libero e libertario, di sinistra ma antiprogressista, vocazione anarchica alla Proudhon, ateologo più famoso di Francia ascritto dai giornali della gauche fra i “neoreazionari” per il suo frondismo a favore della civiltà giudaico-cristiana, Michel Onfray torna con “Puissance et Décadence”, quasi un seguito di quella “Decadenza” (Ponte alle grazie) che gli ha riscosso un notevole successo di pubblico. “Uno dei segni della decadenza è la sua negazione da parte dei decadenti”, racconta Onfray in questa intervista al Foglio. “Coloro che si sforzano di proclamare che tutto va meglio lo fanno secondo criteri puramente quantitativi. Non viviamo più a lungo? L’aumento dell’età media non è una prova?”. Il ritrovamento di una scatola piena di quaderni di scuola degli anni Cinquanta ha stupito Onfray: “Tra ciò che si insegnava e si imparava allora e la polenta di correttezza politica inghiottita oggi dalle classi primarie dove la priorità non è l’apprendimento della grammatica o dell’ortografia ma quella del catechismo wokista che, ad esempio, invita i bambini a cambiare sesso secondo la loro ‘scelta’ o a smistare la spazzatura in nome del cambiamento climatico che esiste da milioni di anni sul pianeta, è possibile un confronto? La condizione delle donne non è migliorata? Sì, certo, ora possono comprare bambini da donne povere che, in questa o quella parte del pianeta, vendono ovociti e affittano il loro utero. Ora possono scegliere i bambini da catalogo e possono anche approfittare dei saldi per acquistare un neonato a un prezzo d’occasione, come durante il Black Friday presso la clinica ucraina Bio TexCom nel 2021”.
Ma c’è più tolleranza. “Ma la tolleranza non è forse diventata la religione di un’epoca senza religione al punto da non tollerare più nulla al di fuori di questa tolleranza? Il pensiero unico woke è inculcato dall’Educazione Nazionale, dalle università che presenta la loro militanza come scientifica, dalla ricerca cosiddetta ‘scientifica’ che sovvenziona soldatini ideologizzati, dall’industria della cultura di massa, dai media del servizio pubblico, dal mondo della pubblicità e del cinema, dal mondo degli schermi. Tuttavia, in nome della tolleranza, chi sfugge a questa ideologia dominante passa per un uomo di destra, quindi di estrema destra, quindi fascista, quindi per un nazista che fa il gioco della famiglia Le Pen!”. Onfray ne ha anche per il Vaticano. “La chiesa del Vaticano II rinuncia al sacro per trasformarsi in dispensatore di moralità moralizzante. Allo stesso modo in cui Diderot giudicò il crollo del cristianesimo notando che la produzione di ostie era crollata nel suo secolo, si può dedurre che il cristianesimo, che non è più in grado di completare una cattedrale in tre secoli, è in uno stato di morte cerebrale. Nelle sue lezioni di filosofia della storia, Hegel ha messo in luce la dinamica delle civiltà. Tutti conoscono i dipinti sublimi della grotta Chauvet, gli allineamenti preistorici dei megaliti, le piramidi egizie, l’agorà greca, il foro romano, le cattedrali europee. Tutto questo testimonia che le civiltà nascono, crescono, vivono, conoscono un momento di acme, poi iniziano una discesa che si rivela una caduta prima della scomparsa e della sostituzione con un altro momento tra una civiltà che si allontana e un’altra che arriva”. Cosa annuncia la nostra civiltà? Cosa dice di ciò che la seguirà? “Potrebbero esserci ancora degli sconvolgimenti per questo occidente minacciato da altre civiltà: in questa lotta dovremo fare i conti con la Cina confuciana, l’Africa animista, l’India indù o la Turchia musulmana, che stanno sviluppando strategie per la propria cancellazione dell’occidente giudaico-cristiano. Aggiungo che la demografia testimonia nel senso di questa abolizione dell’Europa giudaico-cristiana a favore di un territorio dove l’Islam sarà la religione dominante”. Onfray cita De Gaulle che disse a Malraux: “‘Nessuna civiltà ha posseduto un tale potere e nessuna è stata così estranea ai suoi valori. Perché conquistare la Luna, se è per suicidarsi?’. Malraux e De Gaulle videro che con il maggio ’68 il crollo della nostra civiltà stava precipitando. Entrambi cercarono di reagire”. Quale crisi culturale stiamo vivendo? L’opinione pubblica è consapevole della crisi antropologica? “No e una cosa del tutto normale, come la morte di una regina quasi centenaria, è semplicemente la fine di un mondo perché le civiltà sono mortali, nessuno dovrebbe ignorarlo poiché Paul Valéry ha formulato chiaramente la diagnosi. La nostra civiltà giudaico-cristiana ha duemila anni, si unirà alla civiltà greco-romana nel cimitero delle rovine delle civiltà morte accanto alle civiltà di Assur, Sumer, Babilonia, Egitto, ecc. Dobbiamo far posto a una nuova civiltà che sarà probabilmente quella del transumanesimo inventato sulla costa occidentale degli Stati Uniti”. Secondo Onfray siamo nella profezia ontologica di Michel Foucault ne “Le parole e le cose”: “‘Mettere fine all’uomo’. Questo nuovo Uomo Nuovo è una creatura sintetizzata nell’opera di Sade: senza Dio, senza anima, senza libero arbitrio, senza moralità, senza umanità, è un eroe delle ‘120 giornate di Sodoma’, una specie di macchina del desiderio post-cristiana che non teme né Dio né il diavolo, che non crede né al paradiso né all’inferno, né al bene né al male”. Non ci sono qua e là sacche di resistenza a questa postmodernità ? “Niente resiste alla morte... Quando un uomo muore, è stato reso possibile da una stirpe di cui porta in sé le eredità e lo rende possibile con i suoi discendenti. Il wokismo e la cancel culture che preparano il terreno alla continuazione mantengono dalla civiltà che essa distrugga un grande dispositivo: quello dell’ingranaggio della colpa, della confessione, della resipiscenza, della rigenerazione. E’ l’orizzonte dell’ambientalismo che permea la nostra fine di civiltà”.
Nel libro attacca la maternità surrogata. Che significarto ha? “Nichilismo: quando l’essere umano diventa una cosa trasformata in merce, è perché l’eugenetica governa. Acquistare figli, affittare uteri, commercializzare ovociti e spermatozoi, abortire fino al termine per motivi psicosociali come si è votato in Francia all’Assemblea Nazionale, è istituire una franca eugenetica che ricorda il peggio del XX secolo!”. Qual è l’obiettivo finale della teoria del genere? “Artificializzare la vita e distorcerla, cancellare la natura a beneficio della cultura, in modo che questo artificio possa essere manipolato intellettualmente e venduto commercialmente. Se non c’è più né uomo né donna, né maschile né femminile, ma solo progetti di essere uomo o donna, a seconda dell’ora del giorno e del momento della vita, allora che dire del pene e della vagina, dello sperma e delle uova: Sono solo costrutti culturali? Questo nichilismo della carne si smentisce poiché il cambio di sesso passa attraverso la terapia ormonale, abbinata alla chirurgia, il che dimostra che sono gli ormoni ad aprire la strada, cioè una sostanza naturale, anche quando viene sintetizzata in laboratorio”. Eppure, l’occidente è oggi difeso da molti. “L’occidente è un pianeta, l’Europa giudeo-cristiana e i suoi satelliti: le Americhe, l’Australia, la Nuova Zelanda e tutti coloro che vivono secondo il principio di questa defunta Europa costruita dal cristianesimo. Come un bambino sopravvive alla morte dei suoi genitori sublimandoli, questa Europa morta continua a vivere in California dove, pensando ai boss della Gafam, a Musk, il futuro del pianeta si gioca attraverso il transumanesimo”. Intanto prolifera una nemesi storica della civiltà europea: l’islam... Ma lei scrive che i conquistatori rilevano solo un’area che è già morta. “L’islam fa il lavoro di ripulire l’Europa decadente”, ci dice Onfray. “Spinge e fa cadere un muro già incrinato e pieno di fessure. I musulmani che portano avanti un progetto di sostituzione della civiltà, cioè i dottrinari dell’islamismo, sono meno forti nelle loro stesse forze che nella nostra debolezza. Gli islamisti si accontentano di essere d’accordo con la nostra cricca nichilista: la prendono in parola. ‘Non perdi occasione per dire che sei detestabile, in quanto colonialisti, fascisti, petainisti, vichysti, antisemiti, collaborazionisti? Hai perfettamente ragione, ecco perché ti odiamo’, dicono gli islamisti”.
Ma se, mentre scrivi, la battaglia è persa, perché combatterla? “Quello che accadrà è già scritto in due libri: ‘1984’ di Orwell e ‘Il mondo nuovo’ di Huxley. Non possiamo dire di non essere stati avvisati”. E Putin? “E’ uno choc religioso, se non teologico, intraeuropeo, una sorta di guerra di civiltà dello spazio geografico europeo che si oppone a tre modi di essere cristiani: cattolici, protestanti, ortodossi. L’Europa oggi è di ispirazione protestante, come gli Stati Uniti. Il cattolicesimo protesta visibilmente con Papa Francesco, un gesuita che lavora per il cosmopolitismo, l’immigrazione e il multiculturalismo”. Perché restare in Normandia ? “Mille anni di radicamento... discendo da un vichingo arrivato dal nord, probabilmente la Danimarca, mille anni fa. E’ una regione semplice e umile che non lascerò”. Ricorre all’immagine del Titanic. “La barca si muove a un ritmo che non può prevenire la collisione con l’iceberg. Le percussioni sono inevitabili. Il capitano non può fare nulla per ostacolare il destino della sua nave: spegnere i motori, fare retromarcia, girare il più possibile a sinistra o a dritta, niente aiuterebbe, il Titanic sta per speronare la montagna di ghiaccio alla deriva nel mare. E’ inevitabile. La nostra civiltà si sta dirigendo verso il suo destino che è il naufragio. Ci sono diversi modi per reagire: panico, urla, pianti, lacrime, percosse, la natura umana che prende il sopravvento, l’uomo che mostra, sotto una vernice fragile, di essere davvero un lupo per il suo prossimo. Ciò che sembrava civiltà e cortesia, moralità e cortesia non dura più di cinque minuti di fronte alla catastrofe. Vediamo nascere dal vortice di panico dei falsi profeti che vociferano che bisogna calmarsi: loro hanno la soluzione, loro sono la soluzione. Sono uomini provvidenziali: devi ascoltarli e tutto andrà bene. Ci sono le barche, andiamo con ordine, e finché obbediamo salveranno tutti, salveranno il mondo. Una voce lucida fa notare che le barche a remi non basteranno... L’uomo provvidenziale grida che non si devono ascoltare gli uccelli del malaugurio, che le Cassandre siano gettati in mare come un priorità. Se per caso ci fosse una sola possibilità per salvarsi dal naufragio, sarebbe da scappare. Tuttavia, non ce n’è. Una civiltà non muore per colpa di chi se ne impossessa, ma perché i conquistatori entrano in una zona già morta, intellettualmente corrotta, spiritualmente marcia, culturalmente brulicante di vermi, moralmente decomposta. Nessuno conquista mai altro che rovine. La pulsione di morte ha ucciso la pulsione di vita. Baciamo il cobra sulla bocca”.
E ancora: “La scuola che indottrina fin dalla tenera età, ricerca che non trova altro da fare che adornarsi delle piume della scienza per svolgere l’opera di custode della vera fede. Dobbiamo guardarci dagli inganni. La logica del cavallo di Troia permette agli attori della decadenza di avanzare con la scusa dei buoni sentimenti. L’ecologia urbana, che ignora tutto ciò che riguarda la natura e i suoi legami con il cosmo, si rivela l’ala armata dell’ibridazione, compresa la sessualità, ibridazione e cosmopolitismo, che dissolvono nel loro acido ciò che restava della comunità a vantaggio di una giustapposizione di individualità narcisistiche, egoiste, ignoranti ma, ciò che conta, consumistiche, con la morte”. Il prossimo transatlantico sarà quello del transumanesimo? “Siamo nel mezzo: il Titanic sta affondando, la prossima nave è all’orizzonte. Resta, intanto, l’azione girondina che è la costruzione della resistenza alle metastasi del nichilismo. Cominciare a far sì che la decadenza non ci attraversi sarebbe già molto. La Boétie ci ha insegnato che la nostra servitù è volontaria”.
* Fonte: "informazione corretta (ripresa parziale senza immagini).
STORIA, STORIOGRAFIA, E FILOSOFIA:
PONZIOPILATO, CHRISTINE DE PIZAN, E LA FILOLOGIA AL SERVIZIO DELLA COSMOTEANDRIA TERRESTRE.
Alcune note in #memoria di #Franca Ongaro Basaglia. *
A) LA DIGNITÀ DELL’UOMO: «ECCE HOMO». PONZIO PILATO «disse loro: "Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa". Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro: "«Ecco l’uomo» (gr. ««ἰδοὺ ὁ ἄνθρωπος - idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)". Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono: "Crocifiggi! Crocifiggi!" Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa". Gli risposero gli Ebrei: "Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio"» (Gv. 19, 4-7).
B) UNA QUESTIONE DI #LANA "CAPRINA" (NON DI "#AGNELLO", NON DI "#ARIETE"). ALLA LUCE DELL’ATTENZIONE ALLE PAROLE DI PONZIO PILATO, si comprende meglio anche il significato delle parole di CHRISTINE DE PIZAN, l’autrice della “Città delle dame”: «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “#metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “#metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “#HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, Dalla parte del torto, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
C) MATEMATICA E #ANTROPOLOGIA: "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia, #Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi editore, 1978, p. 89).
N. B. - RENE’ GIRARD , L’#AGNELLO DI #DIO, E L’#INTERPRETAZIONEDEISOGNI (S. #FREUD, 1899): la"Menzogna romantica e verità romanzesca" (1961), il "Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" (1978), e "Il capro espiatorio" ( "Le bouc émissaire", 1982).
Parola di Girard: "Qualche lettore potrà obiettare che il Nuovo Testamento non ricorre mai all’espressione «capro espiatorio» per indicare Gesù come la vittima innocente di una frenesia mimetica collettiva; questo è vero, ma ciò avviene solo perché le Scritture cristiane dispongono di un’espressione equivalente, e anzi superiore a «capro espiatorio», vale a dire #agnello di #Dio. Questa immagine elimina gli attributi negativi e sgradevoli del capro, e pertanto corrisponde meglio all’idea della vittima innocente ingiustamente sacrificata" (cfr. René Girard, "Vedo cadere Satana come la folgore". Adelphi, Milano 2001, p. 203).
Girard accoglie la tradizionale interpretazione del messaggio evangelico e non tiene conto né di Marx, né di Nietzsche, né di Freud. Sulla lunga durata della tradizione #critica dimentica quanto ha scritto Freud nel #Disagiodellaciviltà (1929) sulla #fondazione del cattolicesimo da parte di san Paolo e, infine, fa dell’agnello un bel #caproespiatorio!
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FILOLOGIA, STORIA, E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (E DEI SEGNI):
LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), IL "DE PACE FIDEI" DI NICCOLO’ CUSANO (1453), E LA "MADONNA SALTING" DI ANTONELLO DA MESSINA (1460).
Un segnavia per "arrivare" a Eleusis nel prossimo 2023.
ARTE E SOCIETÀ: LA MADONNA SALTING. A mio parere, l’influenza maggiore sulla produzione della "Madonna #Salting" di Antonello da Messina appare decisamente essere di scuola fiamminga. Tuttavia, essendo Antonello originario di Messina, forse, è da riguardare con particolare attenzione il senso simbolico della melagrana già aperta in mano al Bambino e, insieme, del cinturino annodato intorno al corpo del Figlio con i due fiocchetti (due piccole "#melagrana"), messi in una zona di chiara evidenza, che rimandano decisamente ai frutti del melograno in via di maturazione e alla fecondità della Madre, tutta vestita e "punteggiata" da infiniti "chicchi".
IPOTESI: QUESTIONE CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA). Dato che il quadro è del 1460 circa, forse, potrebbe essere una "indicazione" di un discorso ancora sul nascere, di un dibattito all’ordine del giorno sul problema del Figlio, cioè sul tema decisivo dell’epoca (la caduta di Costantinopoli è del 1453 e il cardinale Niccolò Cusano cerca la via della pace della fede, nel 1453)": il nodo è proprio quello del Figlio (... e del "Presepe", e del "Natale"), quello dell’interpretazione teologico e antropologica della figura di Cristo (un tema ancora all’ordine del giorno), in un’ottica ecumenica.
CONSIDERATO CHE la "Dotta Ignoranza" di Cusano (1440) è del tutto segnata dalla tradizione filosofica e scientifica aristotelico-platonica (come sarà ancora per gli aristotelici dell’epoca di Galileo Galilei), la figura e il tema del bambino-homunculus è la parola chiave per comprendere non solo la teologia e l’anatomia dell’epoca, ma anche l’arte e l’antropologia, forse, è OPPORTUNO "RIPENSARE COSTANTINO": "IN HOC SIGNO VINCES". Proprio la caduta di Costantinopoli (1453), infatti, porterà l’Europa a svegliarsi dal letargo, a muoversi militarmente, e a prendere sotto la guida della Spagna la strada della riconquista (Granada,1492), della cacciata dei Mori e degli Ebrei (1492), della conquista dell’America (1492), e dell’avvio della prima globalizzazione teologico-politica del Pianeta Terra.
A) ANTONELLO DA MESSINA, "MADONNA SALTING".
B) BOSCH (1453-1516), ALL’ESCORIAL (1593). "Il Giardino delle delizie (o Il Millennio) è un trittico a olio su tavola (220×389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.[...]".
C) ELEUSIS 2023. Una delle capitali europee della cultura del 2023 è Eleusi: una buona opportunità storica per ripensare la figura della Terra-Madre, Demetra, della figlia, Persefone, e del tema dei misteri eleusini, e, al contempo, anche del melograno, e della melagrana, dell’agricoltura, delle stagioni, ecc.
Giornata mondiale della filosofia
Philodiffusione #6
L’essere umano del futuro
di SILVIA CAPODIVACCA ("La ricerca", Philodiffusione #6, 15 NOVEMBRE 2022)
L’essere umano del futuro è il tema della giornata mondiale della filosofia 2022, il 17 novembre. Promossa dall’UNESCO, la giornata ricorda il valore della filosofia come disciplina e pratica quotidiana, in grado di trasformare la società.
È noto che, come quello di altre specie animali, anche il corpo umano è sottoposto a un processo di continua rigenerazione cellulare. Se della crescita e ricrescita costante di unghie, peli e capelli possiamo avere una indiscutibile attestazione empirica e della capacità del tessuto cutaneo di rinnovarsi abbiamo imparato a beneficiare fin dalle prime sbucciature che ci siamo procurati durante l’infanzia, è più impressionante sapere che le cellule dello scheletro hanno una durata di circa un decennio, che l’età metà di un tessuto muscolare è di 15 anni e che i globuli bianchi (responsabili del sistema immunitario, quindi con funzione protettiva verso l’esterno) sono cellule che hanno una vita di appena qualche ora, periodo dopo il quale lasciano posto ad altre analoghe che svolgano il medesimo ruolo. Complessivamente, nasciamo con cellule nuove di zecca, ma nel corso di qualche decennio le parti che avremo conservato (e che comunque si saranno ampiamente modificate durante la crescita) rappresentano una percentuale irrisoria rispetto a quelle che invece non sono più le stesse.
Impossibile non rimandare al celebre paradosso della nave di Teseo che chiede: l’imbarcazione del celebre eroe greco è ancora identificabile come tale dopo che, nel corso di innumerevoli vicissitudini e mitiche avventure, ogni sua parte è stata sostituita? Il rovello logico apre, più in generale, alla questione dell’identità e della permanenza degli enti nel tempo che, parlando di ‘essere umano del futuro’ (tema della giornata mondiale della filosofia 2022), non possiamo non tenere in considerazione. Con questo titolo probabilmente si intende alludere alla rivoluzione digitale e alle conseguenze che essa sta avendo anche sul piano antropologico.
Se teniamo conto dei formidabili progressi tecnologici degli ultimi decenni e della legge di Moore, secondo la quale sono prevedibili miglioramenti esponenziali nella funzionalità e nelle prestazioni dei microcircuiti che costituiscono la base dei dispositivi tecnologici, possiamo immaginare che nel futuro l’uomo sarà pressoché inintelligibile dall’essere che noi oggi conosciamo e siamo. Si prevedono innesti tecnologici sempre più invasivi della nostra fisiologia e, se qualche decennio fa - complice un certo immaginario fantascientifico - si parlava di cyborg, cioè di organismi cibernetici, oggi la filosofia è chiamata a confrontarsi seriamente con il trans- e post-umanismo, correnti di pensiero sempre più accreditate anche in ambito accademico, che predicano l’antichità dell’uomo biologico a favore dell’insorgenza di un ente che sarà naturale almeno tanto quanto artificiale.
Per questo individuo, la distinzione tra natura e cultura non significherà nulla e probabilmente anche il linguaggio dovrà adeguarsi a questa forma di vita ibrida, per la quale non avrà più senso ricorrere al concetto di ‘uomo’, potenzialmente troppo distante da trasformazioni e concatenamenti antropico-macchinici via via più audaci.
Di fronte a questo scenario le reazioni sono diversificate: alcuni mostrano un entusiasmo incontenibile di fronte alle “magnifiche sorti e progressive” che ci attendono in un avvenire ormai non troppo remoto; altri, all’opposto, criticano radicalmente la perdita di identità, accusando come immorale, sbagliata, e depauperante il genuino spirito della nostra specie un’evoluzione che la conduca al di là di se stessa. Si tratterebbe, secondo i sostenitori di quest’ultima visione, di una sorta di autogol evoluzionistico o della conseguenza di un drammatico effetto boomerang, per cui gli apparati che si spera possano aiutarci e potenziarci finiranno per annientare la nostra natura profonda e, con essa, estinguere la possibilità della nostra stessa esistenza.
Lo spunto con cui abbiamo aperto questo piccolo spazio di discussione ci mostra tuttavia la questione da un’altra prospettiva e pone l’accento sul fatto che, in senso forte, il concetto di identità non è propriamente applicabile neanche al soggetto più tradizionalmente inteso, costantemente coinvolto in un camaleontico processo di crescita e di trasformazione che lo colloca sempre ‘altrove’ rispetto al nucleo del sé. «Je est un autre», diceva Rimbaud, poi ampiamente ripreso da Lacan: l’alterità non è l’inferno (come invece per Sartre), ma il cuore stesso dell’io, ciò che fonda il suo essere. La biologia ce lo conferma e forse è questa la lezione che dovremmo trarre dal presente per poter affrontare al meglio il nostro futuro, a prescindere dalla sua specifica configurazione, che in nessun senso possiamo dare per scontata e che sarà frutto di azioni e scelte scientifiche, ma anche politiche, economiche, sociali e culturali, oltre che ambientali che faremo oggi e nei prossimi anni.
Ricordarci che perennemente diversa è la carne di cui siamo fatti e che è impossibile parlare di ‘io’ se non per astrazione dalla concreta realtà fattuale è infatti un esercizio di umiltà da cui possiamo imparare molto e che serve a farci ristabilire la giusta proporzione del nostro ruolo nel mondo. Se si indebolisce il senso dell’‘io’, invece che ad aggrapparci all’idea astratta e limitata del ‘sé’ siamo portati giocoforza ad adottare una visione plurale, a occuparci cioè della complessità di un ‘noi’ collettivo all’interno del quale l’essere umano esercita un ruolo ma non per forza un predominio, una funzione ma non un’egemonia. E questo, al di là di qualsivoglia pronostico futurologico, avrebbe delle conseguenze positive per tutti sul piano scientifico, ma anche politico, economico, sociale e culturale, oltre che ambientale.
In occasione della Giornata mondiale della filosofia, Loescher editore ha dedicato una pagina in cui raccoglie risorse, materiale, video e libri per approfondire: si trova qui.
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’ “8 SETTEMBRE”, LA “CORONA-VIRUS”, E UNA “PACE PERPETUA”. Ora il “capro espiatorio” siamo noi, l’intero genere umano ...
ALLA LUCE DEL FATTO che i “vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito della messa”, che a “Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose”, “per CARITA’, UN LAICO ILLUMINISTA” (cfr. Mario Pezzella, “Sarà un 8 settembre ?”: http://www.leparoleelecose.it/?p=37917) può pure compiacersi di “quanto la fede religiosa sia diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità”, MA NON PUO’ CONTINUARE A “DORMIRE”, A PENSARE COME SE FOSSE TUTTO COME “PRIMA” E RIPROPORRE LA STESSA “MINESTRA” :
SE NON SAPPIAMO ANCORA che cosa significa “pensare dentro l’emergenza”, forse, è bene CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO” (http://www.leparoleelecose.it/?p=37854#comment-426632), E CERCARE DI CAPIRE COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA SUA LEZIONE.
A DISTANZA DI SECOLI, e dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Lacan e dopo Foucault (il Foucault di “Che cosa è l’Illuminismo?”, 1983/1984), continuiamo a non capire che il “capro espiatorio” non è un caprone (cfr. “Note per una riflessione storiografica”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908), ma un montone, un ariete, venuto a portarci in salvo (cfr.:“Necessità di “pensare un altro Abramo”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5269 ), non a “sacrificarsi” per noi!!! Al contrario, oggi, l’intero genere umano, “noi stessi” ci apprestiamo a fare da “capro espiatorio” - e, pronti per la “pace perpetua” (cfr. Fine della Storia o della “Preistoria”?: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1612), abbiamo già messo sulla “nostra” testa la “corona” del sacrificio!
Il capro espiatorio
di Pier Aldo Rovatti (*)
La nostra storia ha prodotto ininterrottamente capri espiatori. Minoranze, intere popolazioni, gruppi sociali e comportamenti sono stati stigmatizzati. La storia recente e contemporanea conosce vicende quasi impensabili come la persecuzione e l’eliminazione di milioni di ebrei durante il regime nazista, ma poi c’è un intero tessuto che continua a innervare il presente, anche là dove l’evoluzione sociale e il progresso materiale avrebbero dovuto cancellarlo, dallo stigma che ancora pesa sui folli o che non ha cessato di discriminare gli omosessuali e perfino le donne.
Oggi l’esempio più clamoroso è costituito dai migranti, sui quali riversiamo le nostre ansie considerandoli spesso alla stregua di orde barbariche che invadono la civile società in cui crediamo di vivere. Ma gli esempi possono moltiplicarsi, dalla paura che ormai ovunque possa celarsi un terrorista al semplice disagio con cui sperimentiamo la prossimità di chi ci appare diverso da noi e dunque capace di disturbare la nostra presunta identità.
Capri espiatori possono dunque essere intere popolazioni o anche singoli atteggiamenti, drammatici fenomeni sociali che si esprimono con un clamore generale oppure insidiosi fenomeni individuali che possiamo verificare nell’ambito ristretto e quotidiano delle nostre vite. Parlo di “capri espiatori” perché questa espressione, che ci arriva dalla notte dei tempi, non solo mantiene un senso fruibile nella sua esplicita chiarezza, ma anche perché, se ci fermiamo un momento a riflettere sulla sua provenienza e le sue implicazioni, ci può aiutare a orientarci dentro i nostri stessi problemi. La festività pasquale ci ha appena ricordato un indizio collegato al mondo cristiano e precisamente alla figura di Gesù Cristo che si sacrifica perché attraverso di lui i credenti rimettano le loro colpe. Al posto di un ispido caprone abbiamo in questo caso un grazioso ma altrettanto innocente agnellino a esercitare la funzione di animale simbolico.
L’ispido caprone o capro appare molto prima nelle parole della Bibbia intitolate al “Levitico”, cioè nel fondo della cultura ebraica e della sua mitologia. Se andiamo a leggere queste parole, scopriamo che in origine i capri sono due, uno il cui sacrificio ha una funzione espiatoria e un altro che svolge il ruolo di “emissario” e viene mandato a perdersi nel deserto, come se non bastasse la cerimonia dell’espiazione dei peccati o delle colpe degli uomini e occorressero quindi un supplemento e uno sdoppiamento, un prolungamento dell’espiazione affidata appunto a un emissario che porti con sé e disperda nello spazio e nel tempo queste colpe.
Ricordando l’origine dell’espressione, balza agli occhi che il significato che oggi le attribuiamo è molto distante, quasi antitetico. È sparita ogni pratica positiva di espiazione attraverso un tramite simbolico e al suo posto troviamo invece l’attribuzione della colpa a un altro soggetto che automaticamente diventa il colpevole. Costui viene caricato di ogni colpa grazie a un’identificazione abnorme. Il capro non era un soggetto o un insieme di soggetti da degradare, era invece un animale simbolico completamente innocente dotato di un formidabile potere espiatorio: esso era supposto possedere un’efficacia reale sullo sviluppo della presa di coscienza di se stessi. Oggi, il cosiddetto capro espiatorio è la vittima prescelta, il colpevole che sta al posto nostro, il nemico sul quale possiamo proiettare ogni male.
Rimando chi volesse entrare nella complessità della questione a un saggio che è ormai diventato un “classico” in proposito, Il capro espiatorio (titolo originale Le bouc émissaire) di René Girard, pubblicato nel 1982 (e tradotto da Adelphi nel 1999). A questo libro si è anche ispirato lo scrittore Daniel Pennac: “Malaussène”, il personaggio da lui inventato per costruirci attorno una serie di romanzi, comici e al tempo stesso seri, ambientati in un quartiere popolare di Parigi, è un capro espiatorio di professione. Pennac arriva anche a immaginare che in un ipermercato vi sia un ufficio dove la clientela possa liberamente esternare le sue lamentele a un funzionario (appunto Malaussène) che è lì proprio per dar ragione a tutti e assumersi ogni colpa. È un contrappasso letterario e sorridente di quanto accade nella dura realtà dei giorni nostri. Tra l’altro, dopo un lungo silenzio, Pennac riprende la sua saga con Il caso Malaussène, annunciato ora da Feltrinelli.
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AUT AUT - IL SAGGIATORE. uscito su "Il Piccolo", 21 aprile 2017 (ripresa parziale).
L’IMITAZIONE, L’EMULAZIONE, E IL PARADOSSO DELLA RIPETIZIONE “ORIGINALE” ... *
“La mimesi è l’atto di riprodurre il modello secondo le regole. L’emulazione è la spinta dell’anima mossa all’ammirazione” (Dionigi di Alicarnasso, “Sull’imitazione”).
IMITAZIONE E INDIVIDUAZIONE. “Se in campo filosofico il peccato originale dell’imitazione è consistito nella minaccia portata all’idolo del libero arbitrio ovvero all’ego del cogito cartesiano, altrettanto sacrilego risultò in ambito psicoanalitico l’attentato ai fondamenti pulsionali della psiche. Nel pensiero freudiano l’imitazione era confinata alla fase infantile o altrimenti alla psicologia delle masse, mentre nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung tale facoltà si trovava a contrastare il fine ultimo di ogni esistenza umana, ovvero l’individuazione: “L’uomo ha una facoltà che per gli intenti collettivi è utilissima, e dannosissima per l’individuazione, quella di imitare”. Nella dichiarazione di Jung risulta comunque superata una concezione volta a relegare l’imitazione ai primi stadi dello sviluppo psichico e, ad onore del vero, lo stesso Freud aveva intuito già nel 1895, in Progetto di una psicologia, il valore imitativo delle percezioni sensoriali sussistere ben oltre l’infanzia. A questa intuizione ancorava le proprie ricerche, a metà degli anni Sessanta, il già citato Eugenio Gaddini grazie al quale è stato infine possibile riconoscere nell’imitazione una struttura permanente, una forma relazionale stabile [..]”. BIOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Le radici stanno nel fatto - come scrive Aristotele nella “Poetica”, capitolo secondo - che “coloro che imitano imitano persone che agiscono” e - come “Vittorio Gallese, membro del team parmense cui si deve la scoperta dei neuroni specchio, ha avuto modo di ribadire” - che “il meccanismo funzionale alla base di un modello dell’intersoggettività neuroscientificamente fondato consiste nella “simulazione incarnata” (embodied simulation): “Prima e al di sotto della lettura metarappresentazionale della mente si trova l’intercorporeità - la mutua risonanza di comportamenti sensoriali e motori significativi dal punto di vista intenzionale”.
“COME NASCONO I BAMBINI”. SE è VERO, COME è VERO CHE “Al di là delle formidabili oscillazioni del concetto di imitazione e delle sue varianti terminologiche nel corso di secoli di elaborazione dapprima filosofica, poi specificamente estetica e infine teorico letteraria, le teorie della mimesi paiono dispiegare, oltre ad una coerenza non sempre evidente ma di lungo periodo, una spiccata propensione ad oltrepassare i confini disciplinari”, PER NON PERDERSI NEL LABIRINTO delle infinite ramificazioni è bene riprendere il filo delle varie teorie dalla stessa dimensione biologica e antropologica della vita umano-sociale: la NASCITA!
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? “J’accuse” di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE. CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VENTICINQUE SECOLI DI LETARGO ... *
Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso
di Emanuele Zoppellari Perale (il Tascabile, 26.11.2019)
Due anni fa Roberto Calasso diagnosticò la condizione che viviamo come “l’innominabile attuale”, predominio del pensiero secolare e dei suoi limiti a scapito del sacro. Il libro di tutti i libri si muove, in direzione contraria, verso le storie che compongono l’Antico Testamento.
Già ne L’innominabile attuale l’autore sembrava voler parlare “a chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione - o, più precisamente, la superstizione - della società”. Ora, in un continente di templi vuoti e storie deboli, Calasso torna a quelle storie forti che per millenni hanno riempito i templi. Muovendosi da questa prospettiva, Il libro di tutti i libri segue con coerenza i fili del discorso che il suo autore è andato intessendo da quasi quarant’anni: il mito ( Le nozze di Cadmo e Armonia ; Ka), il sacrificio (L’ardore), l’elezione (K.), il passaggio dalla dieta frugivora all’imitazione dei carnivori (Il cacciatore celeste).
Ma il suo campo d’indagine, questa volta, è tra i più enigmatici. La Bibbia, ineguagliata per clamorose omissioni e contraddizioni inspiegabili, resta infinita, tuttora ineludibile e sconvolgente. Di fronte alle sue storie, i “secoli contati” che E.M. Cioran attribuiva al cristianesimo e al religioso in generale parrebbero ancora lontani. Non a torto Goethe lo definì, appunto, “il libro di tutti i libri”, da cui qualsiasi altro parte per poi tornarvi, e nella cui lettura, dedalo iniziatico, invitava a perdersi e ritrovarsi di continuo.
Le nozze di Cadmo e Armonia si apre con una frase di Sallustio, “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, valida anche in questo caso. Lo sguardo di Calasso non è insensibile alla filologia - come altrimenti affrontare un libro composto da una collezione di testi ebraici arrivataci passando tramite il greco dei Settanta al latino della Vulgata fino al volgare in cui la leggiamo? - e ciononostante evita di rimanere invischiato nella pedante miopia di erudizione e accademismo. Tiene conto, altresì, del dato storico: gli Ebrei rientrati a Canaan dall’Egitto non sconfissero davvero Gerico - dicono gli archeologi - ma la trovarono già distrutta, e la vicenda di Mosè non ha riscontro in fonti esterne alla Bibbia, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa. Importa poco: non si tratta di una ricostruzione storica di fatti accertati. Qui è il racconto a parlare, ed è al sapore massimo di ogni sua parola che si rivolge l’attenzione come metodo critico - persino e soprattutto nei suoi interstizi, nei suoi punti di rottura, nelle pieghe del testo e in ciò che implicano o presuppongono, in ciò che la narrazione omette, o ripete ossessivamente.
La lettura della Bibbia secondo Calasso è a sua volta un invito a rileggere la Bibbia al di là o a prescindere dalle sue innumeri interpretazioni, seguendone il mŷthos e considerandola un intreccio favoloso e unitario (la “fiaba delle fiabe” di Cristina Campo), una biblioteca sterminata ma essenzialmente coesa in cui tutte le storie sono “sinottiche e simultanee” e tutti i versetti collegati a ciascun altro versetto, perché ogni cosa è sullo stesso piano.
Si pensi che di frequente nel testo ebraico i periodi si aprono con la congiunzione vav, spesso tradotta “così”, che meglio corrisponderebbe al nostro “e”. È il potere della paratassi: permette di dire, non di spiegare. E la Bibbia, più che spiegare, capire o consolare, vuole raccontare.
E che cosa racconta questa storia, che secondo una tradizione ebraica il suo autore, il Dio Iahvè, avrebbe avuto come figlia unica e amatissima all’alba di ogni tempo, e che avrebbe dondolato sulle ginocchia, prima di donarla a Mosè e al suo popolo, purché questo non dimenticasse mai di riservargli uno spazio? Ebbene, racconta principalmente di eletti.
L’elezione è un avvenimento innaturale, un sovvertimento dell’ordine delle cose. La storia che Dio vuole scrivere supera, ribalta e nega la legge naturale di necessità con cui si svolgono ordinariamente le cose - legge che, tuttavia, Dio stesso ha creato. È un paradosso che la Bibbia enuncia in più punti, ma a cui saggiamente non intende fornire una spiegazione.
Innanzitutto, coloro che Iahvè sceglie, coloro che riempie di grazia, non sono necessariamente - anzi, non sono pressoché mai - scelti per merito. Il caso del patriarca Abramo è paradigmatico: in 75 anni, scrive Calasso,
non aveva fatto altro che seguire il padre. Nulla lo distingueva, se non aver sposato una donna molto bella, senza averne avuto figli. E ancora viveva al seguito del padre [...] Abramo non era re né sacerdote [né] capofamiglia. E non si faceva notare neppure per devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvè.
O si prenda suo nipote Giacobbe. Aveva raggirato il fratello Esaù, aveva ingannato il padre Isacco per ottenere la sua benedizione, aveva truffato e mentito per avere ciò che desiderava da chiunque avesse incontrato e se l’era sempre cavata, col sotterfugio o con la fuga. Eppure è l’unico, in tutta la Bibbia, a cui si spalancano le porte dell’invisibile, nella forma di una scala che sale ai cieli.
Né Abele, né Isacco, né Giacobbe, né Giuseppe, né Salomone furono primogeniti, mentre nel loro mondo la primogenitura - fatto naturale e indelebile - garantiva un vantaggio e un onore perpetui. Iahvè stesso volle per Sé i primogeniti, per esempio quando li reclamò con l’ultima piaga d’Egitto, la più letale. E ciononostante, i Suoi protagonisti non sono primogeniti, anzi, scavalcano il diritto naturale stabilito dalla primogenitura. La legge a cui obbediscono, o meglio, la legge che li ha scelti, si beffa della legge di necessità che vincola questo mondo. La loro legge è di quell’altro, ed è la grazia. Gli ultimi saranno i primi, si è detto in seguito.
Non la legge di natura, dunque, ma nemmeno l’ordine stabilito da opere e meriti. Qual è infatti il merito di Abele, che sacrificò gli animali, rispetto al demerito di Caino, che sacrificò i frutti della terra? Quale il merito di Sem, figlio di Noè e progenitore degli Ebrei, rispetto al demerito di suo fratello Iafeth, presumibilmente un giusto, che tuttavia non fu scelto? Regna soltanto il puro arbitrio di Dio, cui Abramo dovette obbedire quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco, benché gli fosse stato promesso che proprio tramite Isacco sarebbe passata la sua infinita stirpe. Qui sta la “differenza irriducibile” della Bibbia: è una storia che, prima di ogni altra cosa, non segue leggi a noi comprensibili.
Per questo essere ‘scelti’ è quanto di più terrificante possa avvenire, poiché l’elezione determina l’esclusione dell’ordine naturale delle cose e l’appartenenza esclusiva all’invisibile. La Bibbia parla di “terrore dell’elezione”. Essere scelti significa che la propria storia non è più soltanto propria: è essenzialmente di Dio, e tramite essa passa una storia più grande, insondabile, i cui limiti si estendono oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi nostra capacità di pensare una storia.
“Se la grazia agisse soltanto come favore e non come condanna” - si legge nel libro -, se non persistesse inspiegato “il mistero della fortuna dei malvagi e delle sofferenze dei giusti”, vivremmo un mondo
La Bibbia di Calasso racconta precisamente quest’altra macchina, che ci lascia nello sconcerto come un roveto che arde senza consumarsi, e di fronte alla quale il mondo secolare e scientifico impallidisce.
Saul, per esempio, sapeva bene che essere eletti non significa avere il favore di Iahvè. Un giorno suo padre l’aveva mandato a cercare due asine smarrite. Persosi lungo la strada, aveva incontrato Samuele, un “veggente”. Questi certo poteva mostrargli la via di casa, e invece scelse di rivelargli che era destinato a diventare il primo re d’Israele. “Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui” commenta Calasso. “Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente, come quando camminava per sentieri sconosciuti alla ricerca delle asine del padre, annoiato, distratto. [...] Ormai nulla di simile sarebbe accaduto nella sua vita”. La sua storia non era più la sua. Serviva a una storia più grande, in cui lui doveva addirittura interpretare una parte negativa.
La Bibbia non tace che sia una sensazione tremenda, e afferma inoltre che vivere come eletti sotto lo sguardo perenne di Dio sia la massima oppressione. È la condanna e il privilegio del popolo ebraico, ed è ciò che più di tutto lamenta Giobbe, a cui l’incessante attenzione divina toglie il fiato. Kafka una volta
Anche ciò che è sacro oscilla tra ciò che deve essere preservato e ciò che viene allontanato o, come suggerisce la parola stessa, sacrificato. L’essere sacro è l’essere eletto, auratico e inestimabile (“The temple is holy” dice il Canto XCVII di Ezra Pound “because it is not for sale”). “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe [...] non appartengono più a se stessi, perdono ogni pretesa di autosufficienza. È il contrario di ciò che accade nel mondo secolare”. Dopotutto, se non si riconosce l’invisibile, nulla più può essere fatto sacro.
Questa storia di eletti che Iahvè scrive nel mondo si serve di due meccanismi: il divieto e la sua infrazione. E il primo a infrangere i divieti divini è Iahvè stesso. Il più grande nemico di idoli e tentativi di rappresentare il divino creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, come il primo di tutti gli idoli. A Davide non perdonò mai di aver mandato Uria a morire in guerra per prendere sua moglie Betsabea, eppure è da Betsabea che nacque Salomone, ed è da Salomone che passa la genealogia da cui venne, un giorno, Gesù. Dio proibisce e condanna, ma la storia che vuole raccontare necessita del male e della trasgressione, e questo, dalla nostra prospettiva, pare inaccettabile.
Perché Dio dovrebbe operare contro Se stesso e la propria parola? Forse perché, su questa via né regolare né “aequa” (così nella Vulgata), non potevano esserci “una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti - o altrimenti salvifici - sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia”, racconto che viola le regole umane e persino le regole divine accessibili all’essere umano.
Sta qui il nesso per comprendere quello che è forse il passaggio più sconvolgente della Bibbia, ossia, tra Antico e Nuovo Testamento, il superamento dell’ordine sacrificale col sacrifico unico di Dio a Dio stesso. In precedenza, nel Tempio di Gerusalemme e prima ancora, il sacrificio riscattava la vita con la vita. “Ciò che faceva [...] di quei quadrupedi l’unico oggetto regolare delle offerte era [il fatto che erano] vivi. Se il debito era la vita, non poteva essere saldato se non con altra vita. Sempre insufficiente, certo. Perciò gli olocausti andavano ripetuti”.
Poi, secondo il racconto, qualcosa avvenne per cui non sarebbe più stato necessario sacrificare, e il sangue di un unico eletto, questa volta un “essere divino”, sarebbe bastato per l’eternità. Ma così facendo la salvezza contraddiceva o quantomeno abrogava le ancestrali leggi della Tōrāh sulla necessità del sacrificio. E ancor più sconvolgente è il fatto, ben compreso da Simone Weil, che l’“Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Nell’allusione al Nuovo Testamento, che rimane distante, oggetto - forse - di un’opera futura, Il libro di tutti libri si muove all’ombra di questa domanda impervia e scandalosa, la domanda delle domande, incapace di risposta e per questo in grado di far tremare l’innominabile attuale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
di Pierpaolo Antonello (Doppiozero, 15 Novembre 2015)
È sempre difficile ricostruire il profilo intellettuale di un pensatore. In modo particolare se si tratta di qualcuno che come René Girard ha seguito un percorso poco convenzionale, improntato a una libertà esistenziale e di riflessione non comuni, in bilico fra due continenti e fra diversi campi di discussione disciplinare, senza mai tentare di aderire a un profilo accademico propriamente definibile.
Nonostante i tributi che la stampa internazionale gli sta riservando in questi giorni, dopo la sua morte avvenuta a Stanford lo scorso 4 novembre, all’età di 91 anni, Girard è stato per lungo tempo un pensatore “inattuale”. E se in Italia la sua ricezione è stata quanto mai ampia e pronta, quasi più che in Francia, nel contesto globale, e soprattutto nel mondo anglosassone, Girard è rimasto un pensatore “periferico”, conosciuto soprattutto all’interno dei dipartimenti di letteratura, e con pochissima visibilità mediatica. Una delle ragioni è che Girard non è mai stato vittima delle mode intellettuali del momento, anzi ne ha sempre preso le distanze come forma profilattica del pensiero (in un’intervista con Daniel Lance, sottolineava che se la teoria mimetica diventasse di moda sarebbe la sua fine, perché “la moda non dura, la moda è la falsa intelligenza”).
L’unico istante di adiacenza con le tendenze teoriche più avanzate della sua epoca (l’organizzazione del simposio internazionale The Languages of Criticism and the Sciences of Man del 1966, evento che ha introdotto negli Stati Uniti il post-strutturalismo) ha prodotto di fatto il libro meno omologo e più sorprendente rispetto al clima culturale coevo: La violenza e il sacro, dove Girard ritornava alle origini del mito e della tragedia per farne una teoria sulla violenza sistemica dell’uomo e sulle sue forme di rappresentazione e ritualizzazione.
Non crediamo che la vita di una persona possa essere letta interamente alla luce delle opere che ha costruito o delle idee che ha prodotto, creando ex-post una sorta di self-fulfilling prophecy, di profezia autorealizzante. La casualità degli eventi ha sempre una riserva di creatività che sfugge a qualsiasi piano. Nondimeno ci sono tracce di una disposizione personale e intellettuale che hanno consentito la maturazione di un certo tipo di pensiero.
Figlio di una famiglia borghese e intellettuale del sud della Francia (il padre era direttore della biblioteca e del museo di Avignone e conservatore del Castello dei Papi), pienamente adattato alla sua vita provinciale, ha sempre mostrato una certa refrattarietà per i centri di prestigio culturale, mal sopportando il clima parigino durante gli anni dell’Università (del resto vissuto in una fase critica come quella della Guerra), disertando poi l’Europa per appartarsi in una serie di college americani (Indiana, Bryn Mawr, Buffalo, Johns Hopkins, e infine Stanford) che gli hanno garantito non solo una certa autonomia intellettuale ma anche uno sguardo prospettico rispetto alle discussione teoriche e filosofiche che animavano il dibattito europeo.
Come ha detto Michel Serres nella sua prolusione per l’insediamento di Girard all’Accademia di Francia nel dicembre del 2005, il loro pensiero è stato segnato in profondità da “un’adolescenza di guerra, da una giovinezza di Guerra”. La decisione di partire per gli Stati Uniti è stata dettata dal bagaglio di morte che Girard si era lasciato alle spalle in Europa: “Le emozioni profonde proprie alla nostra generazione ci restituirono un corpo di violenza e di morte. Le vostre pagine emanano dalle vostre ossa, le vostre idee dal vostro sangue; in lei, la teoria sgorga dalla carne” (Il tragico e la pietà, p. 59). L’immaginario apocalittico evocato dai suoi ultimi libri, soprattutto nel suo ultimo Portando Clausewitz all’estremo, è debitore certamente di un ripensamento dell’escatologia cristiana, ma anche del ricordo del panorama di morte e distruzione che l’Europa del Novecento è stata in grado di produrre, e che sembra riaffacciarsi minacciosamente nel contesto globale odierno.
D’altro canto Girard decise di abbandonare immediatamente il suo primo lavoro negli Stati Uniti (presso la biblioteca delle Nazioni Unite a New York), per il solo fatto di avervi trovato un suo compagno di università, un chartistes. Questo bastò a fargli optare per un luogo più appartato come Bloomington, in Indiana, dove cominciò il suo dottorato in storia e le sue prime esperienze di insegnamento. La sua refrattarietà per lo snobismo elitario di certi circuiti e culti culturali come solo la Francia sa produrli, assieme alle sbornie mimetiche, imitative, tipiche delle mode culturali, pronte a metter in quarantena autori per seguire la fad del momento, ha facilitato questa presa di posizione esistenziale e prospettica.
Girard è troppo consapevole delle dinamiche della mimesi negativa, troppo dentro testi rivelatori come quello di Stendhal, di Flaubert o di Proust, per non ammettere il suo legame e la sua dipendenza dal contesto culturale d’origine e per non capire le ragioni reattive del suo atteggiamento intellettuale. Malgrado il suo essersi posto spesso e volentieri controcorrente, è senza dubbio visibile l’appartenenza a una generazione intellettuale da cui Girard ha preso, trasformato e restituito, un pensiero che progressivamente si è strutturato in un sistema coerente (con risultati che comunque nemmeno Girard stesso ha trovato del tutto soddisfacenti). Come ha sottolineato Chris Fleming, “l’orientamento intellettuale del suo lavoro ha un debito marginale con le correnti principali del pensiero del Ventesimo secolo - marxismo, strutturalismo, fenomenologia, hegelianismo e freudianesimo - e tuttavia è stato sviluppato attraverso un coinvolgimento intenso e sostenuto con queste”.
Alla mitezza generale della persona ha sempre fatto da contraltare una certa vis polemica, una foga reattiva che ha messo sulla graticola autori capitali come Freud, Lévi-Strauss, Nietzsche o Deleuze (si pensi agli ultimi due capitoli di La violenza e il sacro, o a quella recensione feroce a l’Antiedipo di Deleuze e Guattari che gli costò una sorta di scomunica da parte di Foucault). A questo si è unita una “cocciutaggine” ossessiva nel difendere i principi di base della sua intuizione: l’imitazione come architrave cognitiva e sistemica dell’essere umano in quanto animale sociale; e il meccanismo dell’espulsione espiatoria come principio di coesione interna rispetto a convulsioni e disordini sociali e politici. Questa fedeltà non era diretta alla difesa strenua di una “sua” teoria, ma alla individuazione di una verità storica e esistenziale che continuava ostinatamente a non venire adeguatamente considerata (“Il capro espiatorio non è una teoria, è un fenomeno oggettivo nel senso proprio e tradizionale del termine”).
La sua “inattualità” si è rivelata profondamente lungimirante e preveggente, perché ostinatamente certa di avere prodotto un discorso che riguardava la verità dell’uomo e della sua storia. Per questo si è sempre distanziato energicamente da tutte quelle posizioni filosofiche che tendessero ad annullare un rapporto forte e significativo con la realtà (“Il rifiuto della realtà nella filosofia d’oggi è la cosa più stupefacente che si possa immaginare”).
Per più di un ventennio il paradigma postmoderno ha potuto svolgere tutto il suo corso senza intaccare minimamente le posizioni di Girard che, anzi, nel mezzo di questa temperie culturale, si è isolato in una assoluta fedeltà alla sua lettura mimetica dei testi letterari e del testo biblico (Il capro espiatorio, L’antica via degli empi, Shakespeare: Il teatro dell’invidia, Vedo Satana cadere come la folgore): questa fedeltà ne ha sancito, in ambito teorico e critico, una sorta di compartimentalizzazione, o di dimenticanza, dopo il relativo successo dei primi libri, che è stata rivista e rimossa dopo gli avvenimenti del 11 settembre, concedendo il giusto riconoscimento a un pensatore che non ha fatto che parlare di due temi che la storia sta riportando prepotentemente alla ribalta delle cronache e delle discussioni teoriche contemporanee: la violenza e il religioso.
Girard ha commesso due “peccati capitali” all’interno dell’ortodossia discorsiva filosofica e intellettuale europea del secondo Novecento: credere nella scienza e credere nel cristianesimo, dove inoltre la conciliazione di queste due ‘fedi’ ha lasciato perplessi anche i suoi interlocutori filosofici più simpatetici (Castoriadis e Vattimo due casi). Il fatto di proporre un’ipotesi sui processi di ominizzazione della specie umana che prendesse spunto da un approccio evolutivo e darwiniano è sembrata a molti o troppo ambiziosa o incongruente con la discussione epistemologica del secondo Novecento, pronta a discreditare la scienza come “mitema”. Da una parte non c’è in Girard un scientismo ingenuo. È assolutamente consapevole dei contenuti ideologici propri della ricerca scientifica.
L’accantonamento per quasi un secolo di un argomento centrale come l’imitazione, sostenuto dalla convinzione romantica dell’assoluta autonomia individuale dell’uomo rispetto a desideri e scelte, è sempre stato un chiaro segno dei pregiudizi interni all’operare scientifico (o del suo rimosso, come scrive nel libro su Shakespeare: “L’importanza dei fenomeni psichici [è] proporzionale alla resistenza che oppongono alla loro rivelazione”). Questo del resto “è il modo tipico in cui la ricerca moderna procede. Si sposta da un pregiudizio all’altro, ma li distrugge man mano che la ricerca stessa procede”. Da questo punto di vista affidarsi alla scienza rimane un gesto di umiltà metodologica rispetto alla tendenza auto-referenziale del linguaggio filosofico e delle sue pratica discorsive, e un desiderio di affidarsi a strumenti che garantiscano meglio di altri un ancoraggio a un principio evidenziale di realtà. E non è un caso se il pensiero di Girard venga ora avvicinato e commentato non solo da filosofi o teologi, ma da psicologi come Andrew Meltzoff o Scott Garrels, da neuroscienziati come Vittorio Gallese, da antropologi come William Durham, Mel Konner o Douglas Frye, da archeologi come Ian Hoddle, da scienziati politici come Richard Sakwa o Elisabetta Brighi. Anche per questo, Girard trattava la teoria mimetica come un fatto esterno alla propria concettualizzazione, non considerandola come patrimonio personale ma parte di un dibattito, di una discussione collettiva. La sicurezza che dimostrava nel sostenere le proprie tesi era tale che era in grado di accettare qualsiasi sollecitazione, qualsiasi critica, qualsiasi appunto, perché sapeva che questo alla fine avrebbe contribuito a chiarire aspetti della teoria non ancora tenuti in dovuta considerazione, perché l’ipotesi mimetica ha uno spettro di applicabilità storico-culturale e disciplinare così ampio e pervasivo che Girard ha sempre saputo di non essere in grado di sostenerla da solo.
Per quanto riguarda il Cristianesimo, il discorso è analogo: la fedeltà a un Dio che si incarna, e che attraverso la sua morte pone in luce “le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”, ancora una volta testimonia il desiderio di ancorarsi a una dimensione realistica e demistificatoria nel confronto con l’evidenza storica e fenomenologica. “Sono gli stessi Vangeli a cumulare i valori della rivelazione e della scienza”, sostiene Girard. E anche per questo, pur parlando di religione, non si pone mai sul piano astratto della teologia metafisica, ma di una antropologia cristiana che trova nel testo evangelico la sua ispirazione più autentica in quanto incarnata: riprendendo le parole di Simone Weil, Girard ricorda come il Vangelo sia innanzitutto una teoria dell’uomo, un’antropologia più che una teoria su Dio, una teologia. Anche per questo il Cristianesimo, in quanto religione storica e antropologicamente fondata, è alla base di quell’“istinto” realista che Auerbach vedeva informare la cultura letteraria e testuale occidentale. Quell’affidamento a una realtà storica tangibilmente, creaturalmente, dolorosa che percorre la storia della letteratura, della pittura, del cinema occidentali.
È inoltre problematico il tentativo che si è fatto in campo critico di isolare una parte “accettabile” delle ricerche di Girard - quelle del primo periodo apparentemente estranee a qualsiasi intento “apologetico” - da tutte quelle degli anni ’80 e ’90, da Il capro espiatorio in avanti, poiché marcatamente viziate dall’aperta confessione di fede, e dal primato dato da Girard al cristianesimo nello sviluppo anti-vittimario della cultura occidentale. Se è vero che elementi della teoria mimetica hanno un campo di applicabilità molto ampio, in discipline molto diverse come l’economia o la psicologia, proprio per la loro formulazione del tutto immanente, in realtà bisogna rilevare la circostanza che Girard è riuscito a dire tutto quello che ha detto grazie alla potenza interpretativa del modello scelto: il cristianesimo e le sue declinazioni evangeliche sono state usate come un potentissimo strumento ermeneutico e scientifico. In questo senso l’equazione appare chiara: se il tipo di conoscenza offerta dalla Bibbia è totalmente irrilevante, lo è anche il pensiero di Girard nella sua interezza.
Da questo punto di vista, preoccupazione intellettuale e preoccupazione morale sono state sempre strettamente legate per Girard. Il titolo del suo primo libro, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), è in questo senso eloquente: in quella dicotomia esplicita fra menzogna e verità, fortemente connotata in senso moralistico, alla menzogna dell’individualismo romantico, Girard contrapponeva la verità espressa dai romanzi moderni riguardo alle varie schiavitù interindividuali a cui l’auto-divinizzazione dell’uomo contemporaneo si era consegnato. Questa polarità (verità/menzogna) verrà poi ritradotta nei lavori successivi, da La violenza e il sacro in poi.
La tensione rivelatrice della sua focalizzazione ermeneutica si spostava sul binomio mito/realtà, due termini più consoni ad abbracciare il principio epistemico di base della prospettiva girardiana (per cui anche nel caso del primo libro la dialettica insisterebbe fra la trasfigurazione mitica dell’oggetto del desiderio, soggetto alle pressioni sussultorie dei vari modelli/rivali che ci circondano, e il realismo del romanzo, capace di svelare il carattere mitico del desiderio metafisico).
Il passo successivo del percorso teorico girardiano è di fatto uno delle più importanti rivoluzioni concettuali dell’ultimo secolo. Sostenere la referenzialità del mito è quanto di più scandaloso possibile nel clima intellettuale e accademico contemporaneo. Girard ha inteso de-mitificare la mitologia, evitando di renderla l’arcadia poetica del mondo (con buona pace di Roberto Calasso), e riconsiderandola invece proprio attraverso una categoria che la modernità, e il cristianesimo, ci ha aiutato a costruire: il realismo. Pensare ai miti come trasfigurazione di eventi reali, come deposito immaginifico di un momento fondativo della comunità primitiva marcato da forme di vittimizzazione collettiva, di espulsioni reali e simboliche, forma di risoluzione economica di eventi certamente traumatici.
Proprio negli anni in cui l’antropologia moderna entrava nella sua fase di nihilismo più spinto, Girard si sbarazzava di ogni esitazione “politicamente corretta” e di ogni preconcetto rousseuiano, facendo, delle culture “primitive” o “mitiche”, i nostri interlocutori diretti, perché hanno affrontato come noi, e in modo certamente più traumatico e immediato, il problema della violenza, della discriminazione sociale e delle forme di linciaggio collettivo.
In testi fondamentali come Il capro espiatorio, la cultura ‘mitica’ viene prepotentemente restituita alla nostra storia come un vagito di un pensiero sociale e antropologico sulla ricomposizione del legame comunitario in momenti di crisi; sulla costruzione del sacro come forma di liberazione provvisoria del male - a volte esogeno, spesso del tutto endogeno - che periodicamente infesta la comunità, e che richiede un intervento farmacologico: la proiezione finzionale di una credenza condivisa collettivamente sulla colpevolezza di uno o più individui (spesso designati da segni differenziali) che vengono eliminati, espulsi o uccisi, perché l’intera comunità ricostituisca una sua salute sociale, rinsaldando i rapporti reciproci.
Il capro espiatorio in questo senso decostruisce qualsiasi ideologia o mitologia fondativa. Ogni racconto fondativo, anche in epoca storica, è in qualche misura di carattere mitico. Ogni storia delle origini vive su alcuni miti depurati delle loro negatività. Il mito della rivoluzione francese, come il mito della resistenza, dove le eventuali atrocità commesse passano in secondo piano o vengono giustificate all’interno del contesto storico e rinarrate dai vincitori (cioè dai nuovi persecutori). Tutta la storia moderna è fatta di atti fondativi la cui violenza viene edulcorata dalle ricostruzioni storiche ufficiali: scusata, giustificata, santificata in nome dell’organismo politico o sociale su cui viene costruita.
Che la logica sacrificale sia ancora operativa nella nostra contemporaneità è un fatto talmente visibile che non serve nemmeno discuterne. E l’escalation della conflittualità globale è lì a ricordarcelo. In questo tentativo di capirne la genesi e le possibili convulsioni, la lettura dei libri di René Girard certamente ci accompagnerà ancora per molto.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico....
Inedito.
René Girard: non siate nuovi sacrificatori
di Laurent Linneuil e Guillaume De Tanoüarn *
In volume 4 interviste all’antropologo Girard morto nel 2015. “Nessuna fede deve essere troppo fiera di sé e deve chiedersi se è degna della Rivelazione che ha ricevuto Vale anche per i cristiani"
L’esegesi classica, nella lettura di Adamo ed Eva, insiste sul peccato d’orgoglio mentre lei sposta questa lettura sul piano del desiderio mimetico...
È facile trovare nei testi evangelici il fatto che Satana è omicida fin dall’inizio: «Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio» (Giovanni 8, 44). Nel capitolo 8 Giovanni ci fa vedere l’inizio della cultura, ci dice: «Voi vi credete figli di Dio, ma siete evidentemente figli di Satana poiché non sapete nemmeno come respingerlo. Vi credete figli di Dio in una sequela naturale senza sospettare di rimanere nel sacrificio». Ma questi testi non sono mai veramente letti. Cosa rimprovera Giovanni agli ebrei? In cosa si distingue dal giudaismo ortodosso in questo rimprovero? Queste le vere domande...
Rimprovera agli ebrei di valorizzare la loro comprovata filiazione...
Sì, senza vedere la loro propria violenza, senza vedere il peccato originale in certo modo. «Il nostro padre è Abramo». Gesù gli dice: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (Giovanni 8, 39). Ora, è la verità che rende liberi. Questa porta a mostrare come il peccato originale, anche se non è il caso di definirlo, è legato alla violenza e al religioso come è nelle religioni arcaiche o nel cristianesimo deformato dall’arcaismo di cui nella storia non giunge a trionfare totalmente. Mi guardo bene dal definire il peccato originale.
Quello che appare molto sorprendente è il fatto che nella Bibbia non si conosce la ragione per la quale Abele è preferito a Caino...
Potrebbe esserci, paradossalmente, una ragione visibile nell’islam. Abele è colui che sacrifica gli animali e siamo in questa fase: Abele non ha voglia di uccidere suo fratello forse perché sacrifica gli animali e Caino è agricoltore. E qui non ci sono sacrifici animali. Caino non ha altro mezzo d’espellere la violenza che uccidere suo fratello.
Ci sono testi davvero straordinari nel Corano che dicono che l’animale inviato da Dio ad Abramo per risparmiare Isacco è lo stesso animale ucciso da Abele per impedirgli di uccidere suo fratello. È affascinante e mostra che il Corano sul piano biblico non è insignificante. È molto metaforico ma di una potenza incomparabile. Mi colpisce profondamente.
Ci sono scene altrettanto confrontabili nell’Odissea, è straordinario. Quelle del Ciclope. Come si scappa dal Ciclope? Mettendosi sotto la bestia. E allo stesso modo che Isacco tasta la pelle di suo figlio per riconoscere, crede, Giacobbe, così il Ciclope tasta l’animale e sente che non è l’uomo che cerca e che vorrebbe uccidere. In un certo modo il gregge di bestie del Ciclope è ciò che salva. Si ritrova la stessa cosa nelle Mille e una notte, molto più tardi, nel mondo dell’islam e questa parte della storia del Ciclope scompare, non è più necessaria, non ha più alcun ruolo, ma nell’Odissea c’è un’intuizione sacrificale molto significativa.
Lei ha detto che questo aspetto di denunzia dell’omicidio fondatore nel discorso di Gesù è stato decisamente mal compreso: vi si legge spesso dell’antisemitismo. Per quale ragione l’evento del cristianesimo, se è stato così mal compreso, non ha provocato uno scatenamento della rivalità mimetica?
Si può dire che questo sfocia in scatenamenti di rivalità mimetica, in opposizione di fratelli nemici. La principale opposizione di fratelli nemici nella Storia è proprio tra ebrei e cristiani. Ma il primo cristianesimo è dominato dalla Lettera ai Romani che dice: la colpa degli ebrei è molto reale, ma è la vostra salvezza. Soprattutto, non andate vantandovi voi cristiani. Siete stati innestati grazie alla colpa degli ebrei. Compare l’idea che i cristiani potrebbero rivelarsi del tutto indegni della Rivelazione cristiana così come gli ebrei si sono rivelati indegni della loro rivelazione. Credo profondamente che sia qui che bisogna cercare il fondamento della teologia contemporanea. Il libro di monsignor Lustiger, La Promesse, è ammirevole proprio in ciò che afferma sul massacro degli Innocenti e la Shoah. Bisogna riconoscere che il cristianesimo non ha di che vantarsi. I cristiani ereditano da san Paolo e dai Vangeli allo stesso modo che gli ebrei ereditano dalla Genesi e dal Levitico e da tutta la Legge. Ma non lo hanno compreso poiché hanno continuato a combattersi e a disprezzare gli ebrei.
Hanno continuato a essere nell’ordine sacrificale. Ma la Cristianità non è una contraddizione in termini? Una società cristiana è possibile? I cristiani non sono sempre dei contestatori dell’ordine di Satana e dunque dei marginali?
Sì, hanno ricreato l’ordine sacrificale. Storicamente è fatale e direi allo stesso tempo necessario. Un passaggio troppo brusco sarebbe impossibile e impensabile. Abbiamo avuto duemila anni di storia e questo è fondamentale.
Il mio lavoro ha rapporto con la teologia, ma ha anche rapporto con la scienza moderna che tutto storicizza. Mostra che la religione dev’essere storicizzata: essa fa degli uomini esseri che restano sempre violenti ma che diventano più sottili, meno spettacolari, meno prossimi alla bestia e alle forme sacrificali come il sacrificio umano. Potrebbe essere che si abbia un cristianesimo storico che sia una necessità storica.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico, sembra che siamo oggi in un periodo cerniera: sia che apra direttamente sull’Apocalisse, sia che ci prepari un periodo di comprensione più grande e di tradimento più sottile del cristianesimo. Non possiamo fermare la storia e non ne abbiamo il diritto.
Per lei l’Apocalisse è la fine della storia...
Sì, per me l’Apocalisse è la fine della storia. Ho una visione il più tradizionale possibile. L’Apocalisse è l’avvento del Regno di Dio. Ma si può pensare che ci siano ’piccole o semiapocalissi’ o crisi, vale a dire periodi intermedi...
In un certo senso il cristianesimo è il primo e insuperato «illuminismo». Il sacrificio, esito della “rivalità mimetica” messa in luce da René Girard nei suoi studi come stigma della violenza delle religioni primitive, viene smontato e abbattuto dalla morte di Cristo sulla croce. Cristo muore perché deve morire, come migliaia e migliaia di vittime innocenti prima di lui, ma così prende la parola per la vittima, e svela l’ingiustizia della morte dell’innocente.
Il volume «Girard. Oltre il sacrificio», edito da Medusa (pagine 112, euro 13), raccoglie quattro interviste al grande studioso delle religioni e dei miti, morto nel 2015.
Anticipiamo alcuni brani da una conversazione uscita sulla rivista “Certitude” nel 2005.
La magia del Ramo d’oro da Freud a Jim Morrison
Un secolo fa usciva il capolavoro di James Frazer che indagava sui riti e sulla forza della sovranità e che influenzò psicanalisi, filosofia, letteratura e cinema
di Marino Niola (la Repubblica, 17.11.2015)
Senza “Il ramo d’oro” di Frazer la cultura moderna non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi, iniziati nel 1890 e terminati giusto un secolo fa, negli ultimi mesi del 1915, sono un fantastico viaggio attraverso mitologia e magia, credenze e rituali di tutti i tempi e di tutto il mondo, alla ricerca della sorgente delle nostre istituzioni politiche e religiose. Del filo evolutivo che unisce passato e futuro dell’uomo. Muovendosi arditamente tra i popoli antichi e quelli primitivi. E facendosi beffe dell’eurocentrismo della sua epoca.
Il risultato è un monumentale compendio dell’antropologia evoluzionista. Uno strepitoso Grand Tour dell’immaginario che parte dall’Italia. Dalle sponde boscose del lago di Nemi, dove si trovava il tempio di Diana Nemorensis, la dea del bosco sacro. Proprio questo significa la parola latina “nemus”. A fondarlo era stato Oreste, fuggito dalla Grecia dopo aver ucciso la madre Clitemnestra. A custodirlo era il cosiddetto re nemorense, una singolare figura di sovrano e sacerdote, signore degli uomini ma anche della natura, della cui energia era il rappresentante terreno. Come del resto tutti gli antichi sovrani, il cui ruolo aveva una potenza misteriosamente magnetica, numinosa e magica insieme.
Insomma una carica politica, ma anche una carica elettrica. Proprio per questo gli era permesso tutto tranne che mostrarsi debole, ammalato, invecchiato. Ecco perché il rituale del tempio obbligava il rex ad una prova di forza periodica. Un duello mortale con un pretendente al sacerdozio. Era necessario però che lo sfidante entrasse nell’area consacrata in una notte di tempesta, quando la natura è al massimo dello scatenamento, e strappasse un ramo dorato dall’albero sacro a Diana. Era questo il ramo d’oro. Lo stesso che Enea aveva impugnato durante la sua discesa agli inferi.
Il vincitore diventava il nuovo re della selva. Fino al prossimo duello. Una successione per mezzo della spada che mette a nudo le due metà del potere: eccezione e istituzione, forza e diritto, caos e ordine, legittimità e potenza. L’uccisione del re debole e sconfitto - che in molti popoli studiati da Frazer prende addirittura la forma di un regicidio di Stato - serve in realtà a preservare il ruolo del sovrano, l’uomo che rappresenta la collettività, dalla debolezza del corpo che lo incarna. Come dire che la capacità di difendersi e di offendere, di rendere funzionale la violenza, è la materia prima della leadership. La grande lezione di Frazer sta nell’aver fatto affiorare, esempi alla mano, questa trama oscura della potenza che nessuna legittimazione è in grado di far sparire, né di razionalizzare. Quella che gli antichi chiamavano la Regola di Nemi è, insomma, la legge del più forte. O, come avrebbe detto Carl Schmitt, lo stato di eccezione che diventa norma. Col giovane che fa fuori il vecchio. È la cultura che imita la selezione naturale, trasformando la physis in polis.
Questa Bibbia dell’antropologia ha influenzato tutto il Novecento. Sigmund Freud ammetteva di dovere proprio a Frazer l’idea dell’uccisione del padre che sta al cuore edipico di Totem e tabù. Un filosofo come Ernst Cassirer era decisamente ispirato dai venti animistici che soffiano sul Ramo d’oro quando scriveva la Filosofia delle forme simboliche. E Henri Bergson ci trovò una sorta di motore di ricerca per la teoria dello slancio vitale che è alla base della sua Évolution creatrice. Un poeta come Yeats cercava nello zibaldone frazeriano il filo che lo riconducesse alle matrici epiche della poesia. E David H. Lawrence, l’autore di L’amante di Lady Chatterley, dichiarava senza mezzi termini il suo debito verso il padre di tutti gli antropologi. Mentre Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra ispirandosi in toto alla pagina frazeriana che racconta l’assassinio rituale del re africano di Chitombé. E, last but not least, La terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi della civiltà occidentale, che si può considerare una vertiginosa variazione poetica sul Ramo. Con al centro la mitica figura del re pescatore, il sovrano morente la cui malattia contagia la terra trasfor-mandola in una landa arida e senza vita.
Fino ad Apocalypse Now, il film che Francis Ford Coppola trasse dal capolavoro conradiano trasferendone la scena in Vietnam. E che costituisce un’autentica summa del frazerismo novecentesco. Una discesa nelle profondità dell’umano che mette insieme Conrad e l’Inferno di Dante, la Terra desolata di Eliot e la leggenda del Graal, fino alla cultura psichedelica degli anni Sessanta. E su tutti James George Frazer, vera chiave di volta del film. Addirittura dichiarata dal regista che inquadra due libri sul tavolo del colonnello Kurtz, il rex nemorensis dell’esercito americano, interpretato da Marlon Brando. Uno è il Ramo d’oro e l’altro è Dal rito al romanzo di Jessie Weston, a sua volta ispirata all’opera di Frazer.
Il regista tesse una tela di ragno che cattura il sentimento del tempo, i bagliori apocalittici che illuminano la conclusione del se- colo breve, il tramonto di una storia esausta. In questo senso il colonnello Kurtz è due persone in una. Ha due corpi e due anime, proprio come gli antichi re divini di cui parla il Ramo d’oro. L’ufficiale, sfiancato dalla guerra, non rappresenta solo se stesso, ma anche la malattia contagiosa dell’Occidente imperialista, che sta trasformando il mondo in una terra desolata.
L’ex soldato modello, che ormai prende ordini solo dalla giungla, si è trasformato in un signore della vegetazione e regna sulla foresta tra Vietnam e Cambogia, proprio come il re sacerdote regna sul bosco della dea cacciatrice. E come prescrive la Regola di Nemi, Kurtz va incontro al destino senza opporre resistenza. Del resto l’esecuzione, affidata al capitano Willard, ha le cadenze di un rito.
A confermarlo è la colonna sonora, con la voce di Jim Morrison che canta The End. La canzone parla di un uomo perso in una “roman wilderness of pain”, una desolata terra romana. E di un “ancient lake”, un lago antico. Come in un lampo si chiude un cerchio millenario. L’antico lago dei Doors e quello di Diana si rivelano una sola regione dell’anima.
Addio a René Girard, denunciò l’origine violenta della società
Antropologo e filosofo, accademico di Francia, ha insegnato negli Stati Uniti
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 6.11.2015)
Ultranovantenne, si è spento René Girard, e con lui se ne va un’altra figura centrale delle scienze sociali del Secolo breve. Nonché uno di quegli intellettuali francesi che hanno dominato il dibattito culturale del secondo Novecento, portando nelle università statunitensi le teorie e le metodologie dello strutturalismo (e del post-strutturalismo), re-impacchettate Oltreoceano con l’etichetta di French Theory. Nato ad Avignone il giorno di Natale del 1923, fece - nemo propheta in patria - una carriera accademica quasi tutta a stelle strisce, tra Duke University, Johns Hopkins e Stanford, fino ad ascendere infine, nel 2005, al ristrettissimo «club» (un autentico Olimpo) degli «immortali» dell’Académie française.
Girard, che aveva esordito come archivista-paleografo, è stato un pensatore eclettico ed estremamente influente, in grado di attraversare gli steccati disciplinari nello sforzo di fondare un’antropologia volta all’interpretazione generale e «razionalistica» dei comportamenti dell’umanità, mettendo insieme critica letteraria, psicologia, etnologia e studio delle religioni. Ed è proprio il fenomeno religioso, letto sulla scorta di Durkheim e di Freud (che tanto hanno pesato sulla sua formazione, ma dai quali poi si separò, diventando altresì l’antagonista di Claude Lévi-Strauss), a risultare al centro delle sue riflessioni, che muovono dall’intuizione del desiderio mimetico e «triangolare», esplicitata nel libro seminale del 1961 Menzogna romantica e verità romanzesca.
Il desiderio si rivela appunto «triangolare» dal momento che tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato si colloca un mediatore - il modello - che indica gli oggetti verso cui indirizzarlo. Ma è anche, piuttosto di frequente, un rivale; e Girard approda così all’altra idea fondamentale, quella della rivalità mimetica, tra capro espiatorio e cristianesimo (al quale si converte) che fa saltare la struttura omicidiaria delle società antiche con il paradigma della vittima innocente (Gesù Cristo).
«Intellettualmente» cristiano (poiché il sacro e le istituzioni religiose assicurano la coesione della società) e, al tempo stesso, «Darwin delle scienze umane», come lo celebra la «sua» Università di Stanford; se difatti la teoria della selezione naturale delle specie costituisce il fondamento razionale per la comprensione della varietà delle forme di vita, col meccanismo vittimario lo studioso francese ha inteso offrire il principio esplicativo razionale e unitario della pluralissima diversità delle forme sociali e culturali dell’umanità.
Il «girardismo» (ipotesi non suscettibile di verifica empirica a causa dei tempi lunghissimi, precisamente come il darwinismo) rappresenta dunque, per molti versi, un’estensione della biologia al dominio sociale, che ha peraltro trovato un insperato e insospettabile sostegno nella scoperta scientifica dei neuroni specchio. E Girard, per rimanere nel grande regno della natura (citando un suo editore italiano, Roberto Calasso, che citava a sua volta Isaiah Berlin), è stato uno degli ultimi «porcospini» che sanno, impareggiabilmente, «una sola grande cosa». A giorni uscirà Il tragico e la pietà (Edizioni Dehoniane, Bologna), il suo libro con un altro «grande di Francia», Michel Serres.
Addio René Girard, l’ultimo degli umanisti
È morto a 91 anni lo studioso che rilesse i miti fondando la teoria del capro espiatorio
di Roberto Esposito (la Repubblica, 6.11.2015)
Che René Girard sia stato uno dei pensatori più profondi e originali del nostro tempo è un’evidenza innegabile. Spostatosi dalla Francia in America, insegnando a lungo nelle università John Hopkins e Stanford, dove è morto mercoledì a 91 anni, ha attraversato tutti campi del sapere umanistico, dalla critica letteraria all’antropologia, alla filosofia, influenzando anche gli studi di psicoanalisi e l’esegesi biblica. S
i può dire che la sua possente energia ermeneutica scaturisca, come un fascio di luce intensa e penetrante, da una intuizione originaria, continuamente rielaborata attraverso l’analisi dei testi più vari, capace di fornire una interpretazione unitaria dell’intera esperienza umana. Si tratta di qualcosa da sempre sotto gli occhi di tutti, ma, come spesso accade, proprio per questo rimasta a lungo celata, che Girard riconduce al carattere mimetico del desiderio.
Come fin dalla sua prima grande opera, Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani 1965), egli riconosce nei romanzi di Stendhal e di Flaubert, di Proust e di Dostoevskji, che il desiderio ha una struttura non binaria, ma triangolare. Diversamente da quanto pensava Freud - che pure, con Lévi-Strauss e a Durkheim, è stato forse l’autore che lo ha più influenzato - Girard ritiene che il desiderio umano non sia rivolto direttamente al proprio oggetto, ma passi per la mediazione di un terzo termine, costituto dal desiderio dell’altro. Come si desume anche dall’esperienza comune, tanto più nella società dei consumi, noi desideriamo quello che gli altri desiderano e precisamente per questo motivo.
Ciò significa che la società è naturalmente preda di una violenza insostenibile, la quale può essere fronteggiata solo da un potente dispositivo immunitario, che Girard individua nel sacrificio vittimario di un capro espiatorio. Tutti contro uno, uno al posto di tutti. La violenza, concentrata su un’unica vittima, mette in salvo l’intera comunità, proteggendola dalla sua naturale tendenza all’autodistruzione.
Secondo quanto l’autore teorizza nel suo libro più conosciuto, La violenza e il sacro (Adelphi 1980), la vittima, scelta per le sue caratteristiche somatiche, e magari anche razziali, insieme catalizza la crisi e restaura la pace, acquisendo così uno statuto sacrale. Per millenni la civiltà si è riprodotta attraverso la ripetizione di quest’evento sacrificale, raccontato da tutti i grandi miti - naturalmente dal punto di vista dei persecutori. Come ancora nel cuore del Novecento hanno ripetuto i nazisti, assumendo a vittima sacrificale un intero popolo, solo la sua distruzione avrebbe sanato il mondo da una malattia mortale. Ma in questa storia di sangue Girard individua una svolta decisiva nel Cristianesimo.
I Vangeli raccontano un mito sacrificale in apparenza non diverso dagli altri. Anche nel caso della Crocifissione, un uomo, che si proclama Dio, è circondato da una folla che lo colpisce a morte, ricostituendo il proprio equilibrio intorno al suo corpo deriso e violato. Ma con la differenza rilevante che questa volta il racconto è condotto dal punto di vista della vittima.
Da quel momento, allorché sulle “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” - è il titolo di un altro libro di Girard (Adelphi 1983) - si squarcia il velo, tutto è destinato a cambiare. Ciò non significa che la violenza sia finita. Anzi, una volta crollato l’ordine sacrificale, la minaccia che pesa sugli uomini si è ancora più estesa. Ma con essa si è estesa anche la consapevolezza dell’incantesimo che ci tiene prigionieri e dunque anche la possibilità di poterlo, un giorno, spezzare. Quella che Girard ha costruito è un’ipotesi che non pretende di essere positivamente verificata secondo un metodo scientifico. Ma che ha dalla sua non solo un singolare fascino, ma anche una potenza esplicativa difficilmente contestabile.
Oggi che il sapere va sempre più frantumandosi, la forza dell’opera di Girard è quella di una sintesi che riesce a conferire un significato unitario, anche se non tranquillizzan- te, all’intera storia umana. Più che contenerla, si può dire che questa sia contenuta dalla violenza di un desiderio mimetico che oppone fra loro gli uomini, tutti alla caccia delle medesime prede. L’unico modo per uscirne sarebbe quello di vincere quest’istinto, aprendoci alla logica cristiana dell’amore.
Certo, non sono poche le obiezioni che si possono rivolgere a questa straordinaria costruzione intellettuale. Da quella, di ordine storico, che la civiltà cristiana non ha certo prodotto un numero di vittime minore rispetto ad altre esperienze, a quella, di tipo teologico, che il sacrificio del Figlio resta da troppi punti di vista all’interno della logica del sacrificio.
Il presupposto del pensiero di Girard è che una forma di reale demitizzazione sia impossibile. Ciò che si può fare è rovesciare il mito, rintracciando nel suo fondo oscuro una diversa luce. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà, senza provare in qualche modo a dimenticarla o a negarla. Un’opera come quella di Girard ci ha costretto a confrontarci con i tratti più enigmatici della nostra condizione.
Un diffidente che preferiva Don Chisciotte ai filosofi
di Roberto Calasso (la Repubblica, 06.11.2015)
Di René Girard si può dire che è stato l’ultimo dei grandi “ricci”, secondo la parola di Archiloco, su cui Isaiah Berlin ha intessuto una mirabile divagazione. Il “riccio”, a differenza della molteplice “volpe”, ha un’idea fondamentale, da cui trae un filo inesauribile di pensiero. Così Girard è stato capace di sviluppare un singolo pensiero - quello del “desiderio mimetico” - sino alle estreme conseguenze, coinvolgendo in successione alcuni grandi romanzieri dell’Ottocento, i Vangeli, Shakespeare, Clausewitz e toccando, fra l’uno e l’altro degli immani intervalli che separano questi continenti, una quantità di altri temi. Primo fra tutti quello che subito viene evocato dal suo nome: il capro espiatorio, su cui Girard ha scritto pagine che non si dimenticano.
Girard era un uomo roccioso, spigoloso, diffidente - con buone ragioni - sia della filosofia che dell’antropologia. Il vero terreno amato era per lui la letteratura, soprattutto quella dove l’intreccio è essenziale. Quindi il romanzo ottocentesco. Ma anche Shakespeare e Cervantes. Credo che Girard abbia detto, da qualche parte, che tutta la sua opera è nata da una copia del Don Chisciotte che leggeva da bambino.
Girard apparve sulla scena negli anni in cui fiorivano a Parigi, con eccessiva abbondanza, quelli che venivano definiti maîtres à penser. Fu un atto di alta saggezza, da parte sua, quello di fissare la sua base di vita negli Stati Uniti e non a Parigi. La sua fisiologia intellettuale lo rendeva piuttosto inadatto al clima ondivago degli ultimi decenni del secolo scorso. Così ebbe la fortuna di non essere mai veramente di moda.
Eppure la sua opera, se confrontata con quella di altri maîtres à penser, e petits maîtres à penser, che sono stati in voga negli stessi anni, ha la certezza di rimanere viva, perché Girard è uno di quei rari scrittori che, anche contrastandoli, si dovrebbe esser sempre felici di incontrare.
LA NOVITÀ DEL CRISTIANESIMO RISPETTO ALLE ANTICHE RELIGIONI: UN INEDITO DEL GRANDE STUDIOSO
Girard Quando Cristo rovesciò i miti
di René Girard (Avvenire, 05.04.2009)
Non è nelle Scritture, né nella teologia che si radica il mio interesse per il cristianesimo. Quest’interesse, per quanto strano possa sembrare, proviene dal darwinismo. La teoria evoluzionista suppone che la cultura umana si sia sviluppata a partire da ciò che chiamiamo la «cultura animale». Si può elaborare una genesi plausibile di ciò che «non è animale» nella nostra propria cultura? Questo «supplemento» che fa di noi degli uomini? Possiamo supporre che l’ominizzazione sia cominciata quando le rivalità mimetiche sono divenute così intense che la relazione di dominanza animale è crollata. L’umanità è sopravvissuta, probabilmente, poiché i divieti religiosi sono emersi abbastanza presto per impedire alla nuova specie di autodistruggersi.
Ma come spiegare questa emersione? Per comprendere ciò che è accaduto, i nostri soli indizi sono le narrazioni che raccontano la nascita dei culti ai quali esse appartengono. Si suole chiamarle miti fondatori o miti delle origini. Essi cominciano in genere con il racconto di una crisi distruttrice. Nel mito di Edipo la peste, altrove un mostro cannibale. Dietro questi temi si nasconde ciò che Hobbes chiama «la guerra di tutti contro tutti»: esplosioni di rivalità abbastanza intense da distruggere intere comunità. La sete di vendetta si concentra su un numero sempre più ristretto d’individui. Alla fine, la comunità fa blocco contro uno solo, colui che chiamo il capro espiatorio. Il gruppo si riconcilia attorno a quest’unica vittima, a un costo che pare miracolosamente basso.
Il problema che i pensatori razionalisti hanno cercato invano di risolvere attraverso l’ipotesi del contratto sociale, quello dell’origine delle società umane, si risolve così senza intenzione umana, nel momento in cui la «crisi mimetica» è al suo apice. Il carattere incosciente del linciaggio è splendidamente illustrato dalla frase di Gesù sulla Croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Questa frase deve essere interpretata in modo letterale. Poiché se i miti riconoscessero i fatti, l’innocenza del capro espiatorio diverrebbe visibile, e la violenza perderebbe la sua efficacia catartica. Le comunità arcaiche erano certamente abbastanza distanti le une dalle altre. Quando uno straniero faceva la sua comparsa, ci si riuniva attorno a lui con grandi speranze. Il minimo gesto imprevisto da parte sua poteva provocare il panico, e una condanna a morte. In che modo i divieti religiosi compaiono?
Possiamo supporre che, nelle comunità arcaiche, non appena il linciaggio catartico metteva fine alla crisi mimetica, un nuovo dio emergesse. E ogni volta che uno scontro esplodeva, le comunità, marcate dalla prova delle rivalità passate, rendevano impossibile ogni contatto fra le persone in questione. Ogni ripresa delle violenze era interpretata come l’espressione della collera del dio e, in virtù del suo prestigio, i divieti apparivano; divieti che, poco a poco, si erigevano in un sistema più o meno coerente e definitivo. Col tempo, la paura che questi divieti ispiravano si è probabilmente ridotta, e con essa il potere che essi avevano d’impedire le trasgressioni.
Di fronte a questo pericolo, le comunità arcaiche hanno freneticamente ricercato una nuova protezione contro la loro propria violenza. Poiché esse non avevano dimenticato la grande catarsi che le aveva salvate da una crisi anteriore, esse si sono probabilmente chieste se una nuova catarsi fosse riproducibile reinterpretando il processo della crisi, linciaggio compreso. Molti riti sacrificali cominciano così da disordini provocati, che gli antropologi hanno proprio definito come «crisi simulate». Due cose suggeriscono che la religione (divieti e rituali) è in tal modo l’origine e l’essenza della cultura umana: non se ne trova la minima traccia nelle culture animali; nessuna cultura umana ne è totalmente priva.
Due antiche e potenti religioni, la religione greca e la religione indù, svilupparono una comprensione incompleta, ma profonda, dei sistemi arcaici nella loro diversità come nella loro unità fondamentale - sistemi che rinascono regolarmente dalle loro ceneri, ma falliscono nell’eliminare, una volta per tutte, le rivalità mimetiche. Non è un processo identico che si svolge nei Vangeli, lo stesso linciaggio che sfocia nella stessa divinizzazione?
Si tratta di un fatto che la maggioranza dei cristiani non ha osato approfondire, temendo che la confessione di queste evidenti somiglianze potesse far crollare l’edificio della loro fede. Hanno avuto torto, poiché un paragone spinto fra i Vangeli e la mitologia volgerebbe a vantaggio del cristianesimo. I miti prendono il linciaggio collettivo molto sul serio. Pensano che le vittime hanno davvero commesso i crimini di cui sono accusate. I Vangeli credono al contrario all’innocenza totale di Gesù e la proclamano. Mentre, nei miti, si presume che le vittime abbiano commesso i crimini di cui sono accusate, nella tradizione biblica e cristiana questo verdetto è spesso invertito. Laddove i miti arcaici si schierano dal lato della folla, e incitano i loro lettori a fare lo stesso, i più grandi testi della Bibbia invertono il procedimento, e prendono partito per i capri espiatori, in delle situazioni che, nel mondo pagano, avrebbero condotto all’elaborazione di un nuovo mito.
La Passione di Cristo è un’illustrazione decisiva di questo capovolgimento. La Bibbia opera dunque una rottura radicale rispetto alla mitologia, poiché nell’Antico Testamento, e ancor più spettacolarmente nei Vangeli, la supremazia della folla, che risale alle origini dell’umanità, è finalmente capovolta. (traduzione di Daniele Zappalà) _____________________________________________________________________ Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL DISAGIO ALLA CRISI DI CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.
INTERVISTA.
«Il cristianesimo è l’unico vero antidoto alla crescita del fanatismo, anche religioso»: parla il grande filosofo francese
Girard: ma Dio non è violento
Dice l’antropologo: «I capri espiatori sono finiti: o scegliamo la non violenza oppure la guerra nucleare, il terrorismo, i disastri ambientali generati dall’uomo finiranno per distruggerci»
DA PARIGI FRANÇOIS D’ALANÇON *
I «capri espiatori» sono finiti. La violenza non ha più scusanti. O si sceglierà la nonviolenza, oppure la guerra nucleare, il terrorismo, i disastri generati dall’uomo distruggeranno il mondo. Non ha mezzi termini René Girard, 85 anni, l’intellettuale franco-americano (ha insegnato e vive a Stanford) reso famoso dai suoi studi sulla violenza «religiosa» e dalla teoria del capro espiatorio, secondo cui la rivelazione evangelica manifesta agli uomini una verità radicalmente alternativa sulla violenza.
Professor Girard, che senso dà al comandamento «Non uccidere»?
«Le religioni arcaiche si fondavano sull’appello all’omicidio e ai sacrifici rituali per risolvere il problema della violenza ristabilendo l’unità della comunità contro una vittima. È ciò che ho chiamato il fenomeno del capro espiatorio. Quando l’omicidio riesce, la vittima acquisisce un considerevole prestigio, i capri espiatori vengono divinizzati a causa della loro virtù riconciliatrice. Le religioni arcaiche sono fondate sull’illusione che quei capri espiatori siano dei, perché stabiliscono una certa pace tra gli uomini. È questa pace che si rinnova immolando vittime umane o animali deliberatamente scelti a tale scopo. Il comandamento della Bibbia rompe categoricamente con questa pratica. Il cristianesimo ci insegna che essa è un’illusione, un trucco che usiamo con noi stessi. Tutte le grandi scene della Bibbia vanno nel senso dell’abolizione o della diminuzione della violenza contro l’uomo, sul modello del mancato sacrificio di Isacco nell’Antico Testamento, sostituito all’ultimo momento da un montone. Nella passione di Cristo è esattamente l’inverso, l’assassinio religioso è per la prima volta categoricamente rifiutato. Cristo si offre come vittima per rivelare la verità agli uomini. Invece di sacrificare altri - l’atteggiamento normale degli uomini -, Cristo si offre come vittima per rivelarsi agli uomini così com’è, cioè completamente estraneo alla violenza».
L’Antico Testamento e i Vangeli sono gli unici testi-base che condannano l’omicidio e la vendetta?
«Penso siano gli unici a condannare l’assassinio religioso. La condanna dell’omicidio nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo non è un’invenzione dell’umanesimo occidentale, ma un’invenzione cristiana. L’umanesimo si è mostrato ancora più impotente del cristianesimo a metterla in pratica perché oggi siamo in un universo che rischia ad ogni istante di autodistruggersi».
Il mondo globalizzato moderno è pronto a intendere il messaggio cristiano di riconciliazione e di rinuncia alla violenza?
«Oggi la verità diventa più esplosiva, anche se pochissimi individui si convertono. La nostra civiltà è più creatrice e potente che mai, ma anche più fragile e più minacciata poiché non dispone più della protezione del religioso arcaico. In nome del desiderio di benessere e progresso, gli uomini producono i mezzi per autodistruggersi. Il nostro mondo è minacciato e del tutto impotente a prendere precauzioni per evitare i pericoli più immediati come il riscaldamento climatico, le manipolazioni genetiche o la proliferazione nucleare».
Il terrorismo islamico è una nuova tappa della crescita degli estremismi, un ritorno all’arcaico?
«La crescita degli estremismi si serve dell’islamismo. Il possesso dei mezzi di distruzione più perfezionati è un segno del ritorno all’arcaico. L’islam ha tentato di regolare la violenza attraverso la sua forte capacità di organizzazione; il mondo islamico non si identifica con lo scatenamento di una violenza a cui noi saremmo estranei. Tuttavia penso che il cristianesimo abbia una visione più profonda della violenza ».
Per rinunciare alla violenza, l’uomo deve rinunciare al desiderio?
«Il cristianesimo dice che l’uomo deve desiderare Dio. Oggi, gli individui intelligenti e ambiziosi sembrano rivolti all’accrescimento del potere e alla ripetizione degli errori del passato. I testi apocalittici dei Vangeli annunciano precisamente che gli uomini soccomberanno alla loro violenza. È la fine del mondo permessa attraverso gli uomini. Il paradosso è che l’umanità è più scettica che mai in un’epoca in cui sa di avere tutti i mezzi per distruggersi. Da parte loro, i cristiani interpretano spesso il cristianesimo come una semplice filosofia ottimista e, col pretesto di rassicurare, ne danno soltanto una versione edulcorata. Sarebbe meglio mettere in guardia le persone e risvegliare le coscienze addormentate, anziché negare i pericoli. Noi viviamo contemporaneamente nel migliore e nel peggiore dei mondi. I progressi dell’umanità sono reali. Le nostre leggi sono migliori e ci uccidiamo meno gli uni gli altri. Allo stesso tempo, non vogliamo vedere le nostre responsabilità nelle minacce e nelle possibilità di distruzione che pesano su di noi. I testi cristiani, in particolare i testi apocalittici, si adattano in maniera impressionante alla realtà attuale, ovvero una confusione tra i cataclismi generati dalla natura e i disastri causati dagli uomini, una confusione tra il naturale e l’artificiale. Nel ciclone che ha devastato New Orleans, non si poteva più distinguere la responsabilità della natura da quella degli uomini».
Non è troppo tardi per rimediare?
«Stiamo arrivando a un mondo in cui ci troveremo posti davanti all’alternativa cristiana, il regno di Dio o la distruzione totale, la riconciliazione o niente. Gli uomini cercano scappatoie per non vedere ciò che è loro imposto, per non essere pacifici, per non incontrare l’altro. Il cristianesimo è l’unica utopia che dica la verità su questa situazione. O gli uomini la realizzeranno rinunciando alla violenza, o si autodistruggeranno. Sarà la violenza assoluta oppure la pace».
(per gentile concessione del quotidiano francese «La Croix»)
* Avvenire, 30.08.2008
Girard: sperare oltre l’apocalisse
«Va ribaltato lo schema di von Clausewitz sulla guerra necessaria: ci porterebbe all’olocausto. Ma per questo serve il cristianesimo: la religione contro la violenza, come ha ricordato papa Ratzinger a Ratisbona»
DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ (Avvenire, 27.11.2007)
«Il genio di Clausewitz è nell’aver anticipato in modo inconsapevole una legge divenuta planetaria». Una legge terribile che rischia oggi più che mai di condurre l’umanità nel fondo di un baratro, sostiene il grande antropologo francese René Girard nel suo ultimo saggio Achever Clausewitz, in forma di dialogo con l’amico ed editore Benoît Chantre già al centro di un intenso dibattito in Francia, anche per la radicalità e il carattere a tratti cupo delle tesi sviluppate.
Fin dagli anni Sessanta, quando comparve Menzogna romantica e verità romanzesca, ogni opera di Girard è una sorta di evento. Ma quest’ultimo saggio è ben diverso dalle avvolgenti galoppate esegetiche, fra grande letteratura sacra e profana, che hanno reso celebre l’antropologo. A chiarirlo, fin dalle prime righe introduttive, è lo stesso Girard: «Il presente libro è un libro strano. Si presenta come un’escursione sul fronte della Germania e dei rapporti francotedeschi nel corso degli ultimi due secoli. Esso avanza allo stesso tempo cose mai dette con la violenza e la chiarezza che esigono. La possibilità di una fine dell’Europa, del mondo occidentale e del mondo nel suo insieme. Questo possibile è oggi divenuto reale. È dire se si tratta di un libro apocalittico».
Parole terribili che anticipano tesi terribili, sia pur fortemente temperate nella parte finale dal senso della speranza cristiana mai esternato prima da Girard con tanto impeto. È proprio alla fine che il testo prende a tratti le parvenze dell’intimo diario, quasi del testamento intellettuale, di un credente: «Tutti i miei libri sono stati scritti nell’orizzonte cristiano. È la mia conversione che mi ha messo sulla pista mimetica ed è la scoperta del principio mimetico che mi ha convertito».
Dall’inizio alla fine, il saggio sottende proprio la celebre ’teoria mimetica’ di Girard, quella secondo cui l’abbandono dello stato animale da parte dell’uomo è legato a una straordinaria capacità di imitazione dei propri simili. La stessa articolata teoria che esplora i meccanismi arcaici del sacro, fondati sul sacrificio, per poi evidenziare l’inaudita novità rispetto ad essi della Rivelazione cristiana.
Ma questa volta, per Girard, non si tratta di trovare segni del principio mimetico nelle narrazioni bibliche o romanzesche. L’antropologo si dice fin dalle prime pagine ’folgorato’ dalla lettura del celebre trattato militare Della Guerra: l’opera a cui l’ufficiale prussiano Carl von Clausewitz aveva dedicato gli ultimi anni della propria vita e che sarà pubblicata solo postuma, nel 1832.
È questa lettura che offre a Girard l’occasione di ’calare’ gli assiomi della propria teoria mimetica nei meandri più tormentati della storia europea, a cominciare dalla ’rivalità mimetica’ all’insegna della violenza che all’epoca napoleonica contagiò in modo fulminante Prussia e Francia. Lo stesso virus che avrebbe poi partorito due guerre mondiali sul suolo europeo. La spaventosa ’legge planetaria’ trovata da Clausewitz è proprio quella del ’duello’ e della violenza che si autoalimenta ciecamente fino a vanificare ogni possibile ’contenimento’ politico o diplomatico.
Girard vuole dunque ’finire’ Clausewitz, nel duplice senso di completarne il pensiero per rivelarne l’orribile attualità all’epoca del possibile olocausto atomico, ma anche di «dare un colpo di grazia» a questa stessa logica dell’orrore che la forza della Rivelazione cristiana può ancora arginare.
Nella turbinosa argomentazione di Girard, Dante finisce per ’dialogare’ col grande lirico tedesco Friedrich Hölderlin, Hegel con Pascal, Baudelaire con Heidegger e tanti altri. Ma sulla ’danza’ girardiana nutrita di illuminanti corrispondenze culturali, domina un duplice pressante sentimento. Da una parte, il senso d’urgenza verso le catastrofi annunciate ad esempio dall’odierna rivalità fra Stati Uniti e Cina, così come dall’esplosione del terrorismo di matrice islamica: in particolare, «con la novità totale della situazione in cui siamo entrati dopo l’11 settembre 2001». E dall’altra, la speranza del cristiano «nella forza morale e storica della Chiesa, fondata sulla ’verità fondamentale’ di cui è portatrice».
Dice infatti Girard: «Di fatto, penso che l’idea dell’Europa si è rifugiata in Vaticano, più che a Parigi, Berlino, Vienna o Mosca», difendendo così la convinzione che l’autentica cultura europea sia oggi più che mai intrisa del messaggio cristiano.
L’antropologo sottolinea poi a più riprese il carattere storico, nel segno della riconciliazione col mondo ebraico, della visita di Giovanni Paolo II in Terra Santa «che chiude il secondo millennio dell’era cristiana».
Sul finire, un fraseggio illuminato dalla speranza cristiana ruba sempre più spazio ai toni ’apocalittici’ dell’intellettuale, convinto di aver intravisto il peggio a venire dietro le tesi di Clausewitz. Un appassionato paragrafo è dedicato all’analisi del ’Discorso di Ratisbona’ di Papa Ratzinger, di cui Girard difende la coerenza e sottolinea il carattere profetico: «Benedetto XVI ha detto ciò che deve dire un Papa, e l’ha fatto con coraggio. Ha detto che alla guerra della ragione contro la religione potrebbe succedere quella della religione contro la ragione, se non vi prestiamo attenzione». E conclude: «Completare Clausewitz significa investirsi anima e corpo in questa guerra essenziale che la verità dichiara alla violenza».
Giovani artisti in concorso per dire no al razzismo
di Gaia Rau *
L’arte come linguaggio della lotta al razzismo e alla discriminazione. Partendo dai giovani, perché si facciano portatori di una nuova cultura della convivenza e della solidarietà. È un’idea semplice ma precisa quella che sta alla base dell’iniziativa L’arte di non discriminare, organizzata da Arci e Meeting Internazionale Antirazzista e presentata all’Accademia delle Belle Arti di Roma il 21 marzo, data che, dal 1967, rappresenta per le Nazioni Unite la Giornata Mondiale contro il Razzismo.
Si tratta di un concorso (patrocinato dai ministeri dell’Università e della Ricerca, della Pubblica Istruzione e della Solidarietà Sociale, oltre che dal Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità e dall’Anci), aperto a tutti gli studenti di licei artistici, istituti d’arte e accademie, i quali, entro il prossimo 21 maggio, sono invitati a presentare un’opera (un quadro, una scultura, un’illustrazione, e chi più ne ha più ne metta) che prenda spunto dal tema della lotta al razzismo. I lavori giudicati migliori a livello regionale saranno esposti al Meeting Antirazzista che si terrà a Cecina (Livorno) la terza settimana di luglio. È prevista poi un’ulteriore selezione, a livello nazionale, il cui superamento permetterà a tre vincitori di esporre le proprie creazioni ad Alessandria d’Egitto, alla Biennale dei Giovani Artisti.
Un’occasione, secondo gli organizzatori del concorso, per allargare gli spazi di partecipazione su una problematica importante come quella del razzismo, che difficilmente, tuttavia, “buca gli schermi”. L’invito è quello di trarre spunto dalla vita quotidiana, dalla gente in carne ossa che ogni giorno, nell’Italia che si autodefinisce “terra di accoglienza”, subisce ingiustizie e discriminazioni. Perché il razzismo, nella nostra società, non è un’idea astratta, ma una realtà concreta, che colpisce i “diversi”, siano essi migranti, portatori di handicap, gay, o lesbiche. Realtà della quale sono responsabili, spesso, le stesse istituzioni, come sottolinea Filippo Miraglia, responsabile immigrazione per l’Arci: «Basta pensare che in Italia un immigrato non può votare per eleggere il proprio sindaco, non può concorrere per il pubblico impiego, e non può, soprattutto, entrare nel Paese legalmente, ma è praticamente obbligato a passare da un percorso di illegalità che veicola, necessariamente, il razzismo».
Per il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, il concorso è «un’iniziativa importante, perché pone il problema del razzismo non solo come nodo di discussione, ma come ulteriore forma di comunicazione tra le persone che non si esprime solo attraverso le parole». Il razzismo, ha spiegato Ferrero, è «un problema grave, che non diminuisce col tempo». E che risorge, oggi, come forma di «guerra tra i poveri», nella quale «il colore, la provenienza e le differenze in generale diventano recriminazioni per stabilire chi ha un certo diritto e chi no». Secondo il ministro, poi, altrettanto preoccupante è il problema dell’identità, perché «il razzismo è appiattire una persona a un solo aspetto della sua identità, impedendo lo sviluppo, attraverso l’incontro e la convivenza, di una personalità plurale e multisfaccettata».
A parlare sono poi gli artisti, gli stessi che parteciperanno al concorso in qualità di giurati. Come Ennio Calabria, pittore che ha fatto dei temi sociali, oltre che dei sentimenti e dell’amore, il centro della propria arte. Per Calabria il razzismo è soprattutto «il fallimento della capacità creativa del pensiero», in un’epoca come quella contemporanea, caratterizzata dallo «spaesamento» e dalle trasformazioni costanti, in cui si dovrebbe «guardare in basso» per poter capire davvero le esigenze della società. E poi Maria Rosa Jijòn, ecuadoriana, fotografa e artista del video, ma prima ancora migrante e rappresentante di un’associazione di donne immigrate, Candelaria, al quinto Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. Che spiega come l’arte, oggi, non sia più relegata alle istituzioni, ai musei, alle accademie, ma si esprima per strada, nella vita quotidiana, nelle persone e nelle situazioni concrete e viventi. Le stesse da cui i giovani talenti che presenteranno le proprie opere dovranno trarre ispirazione.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.03.07, Modificato il: 21.03.07 alle ore 16.39
ANTROPOLOGIA · Un saggio critico di Mondher Kilani
Vittime sacrificali sull’altare della pace
di Alberto Burgio (il manifesto, 06.09.2008)
La buona critica passa per lo straniamento. Implica la produzione di punti di vista che permettono sguardi alternativi, spiazzamenti di prospettiva. In questo senso la buona critica è rovesciamento , proprio come la dialettica. Un esempio di buona critica è l’ultimo libro di Mondher Kilani, antropologo culturale, professore a Losanna, noto al pubblico italiano soprattutto per avere collaborato con René Gallissot e Annamaria Rivera alla nuova edizione (2001) de L’imbroglio etnico , tra i più lucidi contributi della recente letteratura antirazzista. Argomenti di Guerra e sacrificio sono le pratiche sacrificali, i loro contesti e i loro corredi simbolici.
La tesi centrale è netta: l’assunto corrente secondo il quale i sacrifici sarebbero appannaggio delle culture «primitive» è destituita di fondamento. I sacrifici persistono nella pratica sociale e politica della modernità. Non sono alcunché di primordiale. Non costituiscono eredità dell’arcaico. Rappresentano a pieno titolo liturgie della civilizzazione.
Menzogna e dissimulazione
Tra civilizzazione e violenza sussistono insomma relazioni non meno intime di quelle che caratterizzano le culture premoderne. Ed è subito evidente qui un primo nesso tra sacrificio e razzismo, che l’ideologia corrente rappresenta come «barbarie» e che è invece un portato della modernizzazione. Quanto alle violenze sacrificali, Kilani osserva che è semmai tipico delle culture «primitive» disporre pratiche compensatorie della violenza perpetrata nei confronti delle vittime, animali compresi.
E i conti tornano, se pensiamo che l’empatia col vivente (la pitié ) è un tratto cruciale dell’antropologia positiva di quel formidabile critico della modernità che fu Jean-Jacques Rousseau. A ben guardare, oggi i sacrifici dilagano. Costituiscono aspetti essenziali della costituzione materiale della politica, purché li si sappia riconoscere al di là di rappresentazioni rituali necessariamente mutanti. Si apre così il discorso centrale dell’analisi: la questione del rapporto tra sacrificio e guerra, che l’antropologia apologetica (eurocentrica) suole impostare in termini alternativi (e autoassolutori).
Anche a questo proposito la critica opera un rovesciamento, suggerendo di leggere nel conflitto bellico l’ apoteosi del sacrificio e demistificando le retoriche della guerra come strumento di giustizia o di democrazia. Emergono a tal fine insospettati elementi di continuità tra guerra e sacrificio e denominatori comuni, a cominciare dalle strategie di dissimulazione tese ad accreditare la guerra quale mezzo di pace, così come il sacrificio reclama per sé funzioni conciliative e riparatorie.
Kilani dedica al tema pagine importanti e convincenti, concentrate su un aspetto-chiave del discorso pubblico - il paradossale gioco linguistico tra menzogna e dissimulazione - scandagliato a fondo e con originalità anche da un bel libro uscito in questi giorni presso DeriveApprodi, La fabbrica del falso di Vladimiro Giacché ( il manifesto del 30 Luglio).
Vittime senza diritti
Non sottraendosi alla sfida di produrre un’ipotesi definitoria coerente con il proprio lavoro critico, Kilani propone di considerare sacrificio ogni violenza che laceri un quadro di regole per negare diritti alla vittima e de-umanizzarla. Torna qui il nesso con il razzismo (che è, nella sua essenza, disumanizzazione). Ma soprattutto il sacrificio - cifra della guerra - diviene così una chiave per leggere la stessa violenza immanente ai processi sociali e alle logiche della riproduzione.
Cos’altro sono, se non vittime di liturgie sacrificali all’altezza dei tempi, gli scarti che le nostre società riproducono in continuazione, i soggetti a vario titolo esclusi dalla cittadinanza e per questa via di fatto de-umanizzati? Lungi dal rimanere confinata nella rassicurante oleografia dell’arcaico, la «ragione sacrificale» rivela così tutta la propria inquietante attualità. Forse non è un caso che leggendo questo libro vengano alla mente svariati episodi del nostro passato recente.
Come non rammentare, per far solo esempio, il ruolo svolto dal sacrificio nel lessico politico-economico coniato in occasione della conversione compatibilista del sindacato, che affidò alla moderazione salariale (ai «sacrifici», appunto) il compito di garantire lo «sviluppo» del Paese, cioè un gigantesco drenaggio di ricchezza in pro dei redditi da capitale, azzerando via via tutte le conquiste strappate dal movimento operaio tra gli anni Sessanta e Settanta? Sacrifici, dunque, quali messe in scena nobilitanti della violenza bellica, politica e sociale della modernità «avanzata».
Nondimeno, Kilani affida testardamente alla politica il compito di neutralizzare la violenza sacrificale riattivando la dimensione razionale del dialogo e del negoziato. Introducendo il libro, Annamaria Rivera gli obietta che tale riscatto della politica implicherebbe tuttavia il ripudio della sintassi guerresca («la logica dell’opposizione amico/nemico») che sembra ormai pervaderla.
Il discorso si apre qui, come ognun vede, su scenari teorici di smisurato rilievo. Evocarli è l’ultimo merito di questo libro. Che ci ha fatto venire in mente - potenza dell’inattuale - quella pagina del Libro delle svolte in cui il grande e dimenticato Bertolt Brecht definisce i classici (Marx, Engels e Lenin) «i più compassionevoli tra tutti gli uomini» proprio perché «non esitavano a contrapporre la violenza alla violenza».
LIBRI , MONDHER KILANI , GUERRA E SACRIFICIO, DEDALO , PP. 168 , EURO 15