LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
L’intervento del cardinale vicario di Roma al convegno promosso da Congregazione per l’Educazione cattolica e Pontificio Consiglio Giustizia e pace: «Le questioni poste dalla scienza non vanno ignorate, ma lette allargando oltre il riduzionismo i confini della ragione»
Ruini: «L’idea di uomo, frontiera globale»
«C’è un legame storico tra il riconoscimento della dignità di ogni persona e il cristianesimo» «In un mondo ormai policentrico è solo la fedeltà a questa radice a garantire il valore della libertà»
Cardinale Camillo Ruini
La «nuova questione antropologica», che in pratica riduce l’uomo ad un «semplice prodotto della natura», non può essere «ignorata» e nemmeno «ricacciata indietro». Va invece affrontata «con spirito positivo e con capacità critiche», secondo la linea tracciata da Benedetto XVI. Per questo il cardinale Camillo Ruini, intervenendo ieri alla Conferenza internazionale su «Università e Dottrina sociale della Chiesa», ha richiamato la necessità di valorizzare «il grande patrimonio dell’antropologia cristiana, teologica e filosofica», attualizzandolo e ripensandolo «in rapporto alle problematiche proprie» dell’oggi. In particolare, ha detto nella sua relazione - di cui qui sotto pubblichiamo ampi stralci - occorre mostrare «quanto sia problematica ogni riduzione della nostra intelligenza e libertà al funzionamento dell’organo cerebrale». La questione dell’uomo, infatti, «non è mai soltanto un problema oggettivo e razionale», ma investe tutta la persona e la sua vita. Inoltre, poiché tale questione «è nata in quel mondo che ha una sua essenziale matrice nel cristianesimo» e ha preso degli sviluppi che «possono mettere a rischio la fede cristiana stessa, insieme alle basi della nostra civiltà», Ruini ha auspicato che siano proprio «i popoli e le culture che hanno una loro fondamentale matrice nel cristianesimo» a dare un contributo fondamentale alla sua soluzione.
In particolare, secondo il presidente della Cei, è indispensabile ribadire «quella concezione della persona umana secondo cui chiunque abbia un volto umano possiede come tale la "dignità" e il "destino" di essere uomo». Compito tanto più importante, in un mondo secolarizzato come il nostro, in cui stanno emergendo «grandi e antiche civiltà, come quelle islamica, cinese e indiana, che tendono a ridimensionare il primato di cui negli ultimi secoli ha goduto l’Occidente». I popoli del cristianesimo, ha concluso Ruini, potranno affrontare «con speranza di successo» questo compito, «a condizione che abbiano coscienza delle proprie radici e cerchino di mantenere, o riacquistare, una genuina fedeltà» ai loro grandi principi dell’amore fraterno e della libertà. M.Mu.
L’elemento più nuovo e specifico che ha dato origine all’attuale questione antropologica è costituito dai recenti sviluppi scientifici e tecnologici che hanno dato all’uomo un nuovo potere di intervento su se stesso. Parafrasando la celebre XI tesi di Marx su Feuerbach, si può dire che non si tratta più soltanto di interpretare l’uomo, ma soprattutto di trasformarlo. Questa trasformazione però non avviene modificando i rapporti sociali ed economici, ma incidendo direttamente sulla realtà fisica e biologica del nostro essere, attraverso le tecnologie che stanno progressivamente appropriandosi dell’insieme del nostro corpo e in particolare dei processi della generazione umana, ma anche del funzionamento del nostro cervello. (...) Conviene soffermarci sull’interpretazione dell’uomo implicata in questi sviluppi. Non si tratta soltanto del rifiuto di quel dualismo antropologico che concepisce l’uomo come costituito da due sostanze, l’anima e il corpo, unite tra loro in forma soltanto accidentale. L’unità del nostro essere è qui affermata infatti in una maniera radicale e riduzionista, in quanto l’uomo stesso viene ricondotto alla sua sola dimensione corporea, in quella prospettiva naturalistica che il Concilio Vaticano II aveva già individuato riferendosi a coloro che considerano l’uomo «soltanto una particella della natura» (GS 14).
Una simile interpretazione ha dei precisi presupposti, anzitutto a livello teoretico, che non hanno alcun rapporto necessario con gli sviluppi delle scienze. Il primo di essi può individuarsi nella tendenza (...) a considerare anche l’uomo come un «oggetto», come tale conoscibile e «misurabile» attraverso le forme dell’indagine sperimentale. Tutto ciò è certamente lecito, anzi indispensabile per il progresso scientifico e tecnologico, con i grandi benefici che esso apporta, ad esempio nella cura delle malattie. Altra cosa è però dare spazio ad una specie di «scientismo di ritorno», che consideri questa come l’unica forma razionalmente valida di conoscenza del nostro essere, negando o dimenticando che l’uomo è anzitutto e irriducibilmente «soggetto», il quale, proprio nella sua soggettività, non può mai essere totalmente oggettivato e conosciuto attraverso le scienze empiriche. (...)
Arriviamo così a considerare un altro genere di correlazioni, e in certo senso di premesse, di un’interpretazione dell’uomo soltanto naturalistica: esse si pongono a livello pratico, della vita vissuta e dei modi di intenderla e indirizzarla. Sta infatti davanti a noi quel grande cambiamento dei costumi e dei comportamenti che è in atto ormai da molto tempo nei popoli che hanno la loro matrice storica nel cristianesimo. Esso riguarda, come ben sappiamo, in particolare i grandi temi della vita umana e della famiglia, ma non si limita in alcun modo a questi, abbracciando anche, ad esempio, il significato che assumono la ricerca della realizzazione di noi stessi o l’uso e il consumo dei beni di questo mondo. Si può dire che si è ormai consumato quell’approccio che ha trovato la sua espressione classica nella formula di Ugo Grozio, secondo la quale le norme fondamentali del diritto e dei comportamenti conserverebbero la loro validità etsi Deus non daretur, perché fondate nella nostra natura. Di fatto, a una prassi di vita che abbia un riferimento quanto meno implicito al cristianesimo sembra subentrarne sempre più (...) un’altra, caratterizzata dal «primato del corpo», cioè in concreto del nostro corpo, considerato come l’unica realtà per noi certa e importante. (...)
È molto interessante notare come un grande filosofo e storico del pensiero, Karl Löwith, nel libro che risale al 1941 «Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX», abbia scritto: (...) «L’immagine che sola fa dell’homo del mondo europeo un uomo è sostanzialmente determinata dall’idea che il cristiano ha di sé, quale immagine di Dio. L’affermazione che "noi tutti" siamo uomini è determinata quindi dall’umanità prodotta dal cristianesimo, in unione con lo stoicismo». Ho riportato questa pagina di Löwith perché essa mostra come vi sia un indubbio legame storico tra il riconoscimento della dignità e del destino proprio dell’uomo - e comune ad ogni uomo - e l’influenza del cristianesimo. Ciò non toglie che si tratti di riconoscere non qualcosa di estrinseco alla nostra realtà umana ed aggiunto ad essa dal cristianesimo, ma piuttosto qualcosa che fa parte del nostro essere, anche se il prenderne coscienza è avvenuto attraverso un complesso processo storico nel quale la fede cristiana ha giocato un ruolo determinante. (...)
È chiaro d’altronde come quell’interpretazione naturalistica dell’uomo che tende a collegarsi con la «nuova» questione antropologica sia decisamente incompatibile con la nostra fede, in quanto implica la negazione non solo della possibilità e del significato della vita oltre la morte ma anche, come dicevamo, della trascendenza del soggetto umano e quindi del suo essere ad immagine di Dio: in particolare di una sua intelligenza che non sia riconducibile alla conoscenza sensibile e della sua libertà, come capacità di scegliere radicata nell’essere dell’uomo stesso. Per conseguenza vengono a perdere il loro significato sia il peccato sia la redenzione attraverso la croce di Cristo.
Nello stesso tempo la «radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura» produce, come ha detto Benedetto XVI al Convegno di Verona il 19 ottobre scorso, «un autentico capovolgimento del punto di partenza» della cultura oggi dominante, «che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà». Proprio mentre si assiste alla radicalizzazione ed estremizzazione delle istanze, in sé legittime, della libertà personale, vengono infatti privati del loro fondamen to, e quindi della loro plausibilità, quel ruolo centrale e quella dignità specifica del soggetto umano (...) che costituiscono il punto di riferimento decisivo della nostra civiltà, sul piano filosofico ed etico, ma anche giuridico e politico, esistenziale e persino estetico. (...)
È evidente che la nuova questione antropologica non può essere ignorata e nemmeno ricacciata indietro (...). Si tratta piuttosto di affrontarla con spirito positivo e al contempo con capacità critiche, secondo quella linea che Benedetto XVI propone con forza e insistenza (...).
Questo «sì» si riferisce certamente anche alle scienze empiriche, che devono trovare in ambito cattolico forte sostegno e incoraggiamento. Si favorisce il loro genuino sviluppo proprio liberandole dagli «a priori» riduzionisti: in concreto questa liberazione riguarda, piuttosto che le scienze e le tecnologie in se stesse, le persone dei ricercatori, che sono coloro che possono essere direttamente condizionati da simili «a priori». (...) È di grande importanza che ci siano, e vengano adeguatamente formati e preparati, ricercatori il cui approccio culturale ed esistenziale sia appunto «largo» ed aperto, privo cioè di preclusioni nei confronti della trascendenza.
Più specificamente, una questione di rilievo determinante è quella dei rapporti tra scienze e filosofia, e - non senza la mediazione della filosofia - tra scienze e teologia. (...) Su tali basi, attraverso un lavoro convergente, potranno risultare più chiari i limiti della conoscenza empirica e la distinzione tra sapere scientifico e sapere filosofico, senza ignorare o negare però, ma al contrario incoraggiando quel rinnovato interesse che le grandi domande sull’uomo, sulla vita, sulla totalità dell’universo suscitano sempre più tra coloro che sono impegnati nella ricerca scientifica, per il fatto che proprio l’avanzare delle scienze stimola a porre problemi che debordano dai canoni metodologici delle scienze stesse (...).
È poi della più grande importan za tenere presente che la questione dell’uomo non è mai soltanto un problema oggettivo e razionale: in essa è in gioco infatti il soggetto umano come tale, con la sua intelligenza ma anche con la sua vita e con la sua libertà. Si verifica a questo proposito qualcosa di analogo a ciò che avviene quando si tratta di Dio: occorre cioè esaminare tali questioni, di suprema importanza, con tutto il rigore della nostra ragione, ma avendo al contempo sempre presente che un ruolo decisivo lo svolgono anche la nostra libertà e tutte quelle scelte in cui si concretizza l’orientamento della nostra esistenza. Meno che meno dunque, in campi come questi, vi è spazio per una pura «neutralità», ossia per una conoscenza soltanto oggettiva e non coinvolgente il soggetto. (...)
La conseguenza più rilevante di questo carattere globale della questione antropologica è che essa può essere affrontata positivamente soltanto attraverso un approccio multidisciplinare, che chiama in causa, con le scienze empiriche e con la filosofia e la teologia, la storia, il diritto, le lettere e le arti. Più radicalmente, non si tratta solo del convergere di diverse discipline, ma di un’autentica globalità, nella quale trovano spazio, insieme alle varie forme di conoscenza, il vissuto personale e sociale, con tutta la molteplicità dei rapporti e delle implicazioni che lo caratterizzano. Tra questi hanno un evidente rilievo sia le norme legislative, e in concreto la politica, sia le condizioni e gli interessi della vita sociale ed economica. In realtà, se esiste una possibilità concreta di «orientare» l’applicazione al soggetto umano delle nuove biotecnologie in modo da rispettare la sua specificità e dignità inalienabile, questa possibilità passa attraverso un grande lavoro e sforzo convergente, che dia forza effettiva a questa specificità dell’uomo nel contesto globale della nostra società e sia quindi in grado di influire realmente anche sull’operare dei ricercatori e degli specialisti.
È questo uno dei motivi per i quali diventa oggi sempre più necessaria quella collaborazione tra credenti in Cristo e persone comunque sollecite della conservazione e dello sviluppo, nell’attuale contesto storico, di un umanesimo autentico, della quale si è fatto promotore straordinariamente autorevole lo stesso Benedetto XVI. Egli ne ha offerto anche un solido fondamento storico e teoretico, particolarmente nel discorso pronunciato, ancora da cardinale, a Subiaco il 1° aprile 2005, nel quale ha proposto di capovolgere l’assioma etsi Deus non daretur e dire invece: «anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio - proseguiva - che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno». (...)
Il rapido sviluppo delle biotecnologie ha provocato un corrispondente sviluppo di quella nuova disciplina che va sotto il nome di bioetica. Essa ha l’importantissimo compito di fornire orientamenti e regole morali, in questo campo tanto delicato e nevralgico, all’agire degli scienziati e dei legislatori, ma anche delle singole persone e famiglie e finalmente della società nel suo complesso (...). In concreto la bioetica è segnata però da continue e profonde divergenze, che hanno la loro matrice nelle diverse filosofie e antropologie alle quali i suoi cultori fanno riferimento. Un esempio recentissimo è dato dalla proposta di sopprimere i neonati disabili formulata dal Collegio Reale degli Ostetrici e Ginecologi britannico in un documento indirizzato a una privata ma importante Commissione di Bioetica: questa proposta, per quanto aberrante, ha purtroppo una sua triste logica, dato che non è facile individuare una diff erenza sostanziale tra la soppressione dei neonati e quella, già ammessa in varie legislazioni, dei bambini non ancora nati ma già in grado di vivere anche al di fuori dell’utero materno. (...)
Oggi la questione antropologica assume sempre più una dimensione planetaria e quindi sul suo cammino influiscono ormai tutte le grandi tradizioni culturali e spirituali dell’umanità. Difficilmente però essa potrà imboccare quel percorso rispettoso della specificità e dignità umana che già abbiamo invocato se la spinta in questo senso non verrà anzitutto dal «mondo del cristianesimo», perché proprio in tale mondo è nata e ha preso forza quella concezione della persona umana (...) secondo il quale chiunque abbia un volto umano possiede come tale la «dignità» e il «destino» di essere uomo.
Siamo condotti così ad allargare il nostro sguardo a tematiche che potremmo definire «geopolitiche». Viviamo nel tempo della globalizzazione, ma anche dell’emergere ed affermarsi sulla scena mondiale di grandi e antiche civiltà, come quelle islamica, cinese e indiana, che tendono inevitabilmente a ridimensionare quel primato di cui negli ultimi secoli ha goduto l’Occidente. (...) In questo mondo tanto differenziato e al contempo sempre più policentrico le grandi questioni sociali e politiche sono, inseparabilmente, quella dello sviluppo e quella della pace, che nel secolo appena iniziato appare destinata ad assumere forme e dimensioni nuove e tutt’altro che facili.
Quei popoli e quelle culture che hanno una loro fondamentale matrice nel cristianesimo, e che costituiscono una parte assai rilevante del genere umano, presente sia pure in misura diversa in tutti i continenti, possiedono nel loro «codice genetico» i grandi principi dell’amore fraterno e della libertà. La loro capacità di incidenza storica è pertanto fondamentale, proprio in un mondo policentrico, per affrontare simili questioni con speranza di successo - nel quadro di un confronto interculturale destinato ad intensificarsi -, a condizione però che questi popoli abbiano coscienza delle proprie radici e cerchino di mantenere, o riacquistare, una genuina fedeltà a quei grandi principi. (...)
Benedetto XVI è intervenuto assai di recente su queste tematiche. (...) Nel discorso del 9 novembre, a conclusione dell’incontro con i vescovi della Svizzera, ha messo l’accento su una divaricazione che esiste nella sensibilità morale, specialmente delle nuove generazioni dell’Occidente: da una parte, le tematiche della pace e della giustizia per tutti appartengono certamente alla tradizione della Chiesa ma stanno diventando un insieme etico che ha grande forza e che «costituisce per molti la sostituzione o la successione della religione»; dall’altra parte la morale della vita e della famiglia viene colta in modo spesso assai controverso e in questo ambito l’annuncio della Chiesa «si scontra con una consapevolezza contraria della società». Superare una tale divaricazione, riconducendo entrambe queste dimensioni all’unità originaria dell’amore, che ha la sua sorgente in Dio e che deve trovare in noi piena e indivisa risposta, è anche la via per evidenziare e rendere concretamente efficaci i rapporti profondi che uniscono tra loro questione sociale e questione antropologica: si tratta certamente di una via ardua da percorrere, ma sappiamo che a chi confida in Dio nulla è impossibile, anche nella storia di oggi.
cardinale Camillo Ruini
* Avvenire, 18.11.2006, p. 17
In aperto dissenso con questa posizione (in fondo, atea e astuta - paradosso del politico mentitore), si cfr.
EV-ANGELO E "MALA-EDUCAZIONE"!!!
L’"URLO" DEL CARDINALE TETTAMANZI
IL PROGRAMMA DI KANT. LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
PER LA PACE E IL DIALOGO, QUELLO VERO...
RI-COMINCIARE DAL "PRINCIPIO", E DIRE DI Sì ALLA VITA E AL SAPERE!!!
LA COSTITUZIONE, LA NOSTRA "BIBBIA CIVILE"
Messaggio per la giornata mondiale della pace 2007 (12 dicembre 2006)
La persona umana, cuore della Pace
1. All’inizio del nuovo anno, vorrei far giungere ai Governanti e ai Responsabili delle Nazioni, come anche a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, il mio augurio di pace. Lo rivolgo, in particolare, a quanti sono nel dolore e nella sofferenza, a chi vive minacciato dalla violenza e dalla forza delle armi o, calpestato nella sua dignità, attende il proprio riscatto umano e sociale. Lo rivolgo ai bambini, che con la loro innocenza arricchiscono l’umanità di bontà e di speranza e, con il loro dolore, ci stimolano a farci tutti operatori di giustizia e di pace. Proprio pensando ai bambini, specialmente a quelli il cui futuro è compromesso dallo sfruttamento e dalla cattiveria di adulti senza scrupoli, ho voluto che in occasione della Giornata Mondiale della Pace la comune attenzione si concentrasse sul tema: Persona umana, cuore della pace. Sono infatti convinto che rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si prepara un futuro sereno per le nuove generazioni.
La persona umana e la pace: dono e compito
2. Afferma la Sacra Scrittura: « Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò » (Gn 1,27). Perché creato ad immagine di Dio, l’individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno, capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone. Al tempo stesso, egli è chiamato, per grazia, ad un’alleanza con il suo Creatore, a offrirgli una risposta di fede e di amore che nessun altro può dare al posto suo(1). In questa mirabile prospettiva, si comprende il compito affidato all’essere umano di maturare se stesso nella capacità d’amore e di far progredire il mondo, rinnovandolo nella giustizia e nella pace. Con un’efficace sintesi sant’Agostino insegna: « Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di noi »(2). È pertanto doveroso per tutti gli esseri umani coltivare la consapevolezza del duplice aspetto di dono e di compito.
3. Anche la pace è insieme un dono e un compito. Se è vero che la pace tra gli individui ed i popoli - la capacità di vivere gli uni accanto agli altri tessendo rapporti di giustizia e di solidarietà - rappresenta un impegno che non conosce sosta, è anche vero, lo è anzi di più, che la pace è dono di Dio. La pace è, infatti, una caratteristica dell’agire divino, che si manifesta sia nella creazione di un universo ordinato e armonioso come anche nella redenzione dell’umanità bisognosa di essere recuperata dal disordine del peccato. Creazione e redenzione offrono dunque la chiave di lettura che introduce alla comprensione del senso della nostra esistenza sulla terra. Il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, rivolgendosi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 5 ottobre 1995 , ebbe a dire che noi « non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso [...] vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli »(3). La trascendente “grammatica”, vale a dire l’insieme di regole dell’agire individuale e del reciproco rapportarsi delle persone secondo giustizia e solidarietà, è iscritta nelle coscienze, nelle quali si rispecchia il progetto sapiente di Dio. Come recentemente ho voluto riaffermare, « noi crediamo che all’origine c’è il Verbo eterno, la Ragione e non l’Irrazionalità »(4). La pace è quindi anche un compito che impegna ciascuno ad una risposta personale coerente col piano divino. Il criterio cui deve ispirarsi tale risposta non può che essere il rispetto della “grammatica” scritta nel cuore dell’uomo dal divino suo Creatore.
In tale prospettiva, le norme del diritto naturale non vanno considerate come direttive che si impongono dall’esterno, quasi coartando la libertà dell’uomo. Al contrario, esse vanno accolte come una chiamata a realizzare fedelmente l’universale progetto divino iscritto nella natura dell’essere umano. Guidati da tali norme, i popoli - all’interno delle rispettive culture - possono così avvicinarsi al mistero più grande, che è il mistero di Dio. Il riconoscimento e il rispetto della legge naturale pertanto costituiscono anche oggi la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti. È questo un grande punto di incontro e, quindi, un fondamentale presupposto per un’autentica pace.
Il diritto alla vita e alla libertà religiosa
4. Il dovere del rispetto per la dignità di ogni essere umano, nella cui natura si rispecchia l’immagine del Creatore, comporta come conseguenza che della persona non si possa disporre a piacimento. Chi gode di maggiore potere politico, tecnologico, economico, non può avvalersene per violare i diritti degli altri meno fortunati. È infatti sul rispetto dei diritti di tutti che si fonda la pace. Consapevole di ciò, la Chiesa si fa paladina dei diritti fondamentali di ogni persona. In particolare, essa rivendica il rispetto della vita e della libertà religiosa di ciascuno. Il rispetto del diritto alla vita in ogni sua fase stabilisce un punto fermo di decisiva importanza: la vita è un dono di cui il soggetto non ha la completa disponibilità. Ugualmente, l’affermazione del diritto alla libertà religiosa pone l’essere umano in rapporto con un Principio trascendente che lo sottrae all’arbitrio dell’uomo. Il diritto alla vita e alla libera espressione della propria fede in Dio non è in potere dell’uomo. La pace ha bisogno che si stabilisca un chiaro confine tra ciò che è disponibile e ciò che non lo è: saranno così evitate intromissioni inaccettabili in quel patrimonio di valori che è proprio dell’uomo in quanto tale.
5. Per quanto concerne il diritto alla vita, è doveroso denunciare lo scempio che di essa si fa nella nostra società: accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia. Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?
L’aborto e la sperimentazione sugli embrioni costituiscono la diretta negazione dell’atteggiamento di accoglienza verso l’altro che è indispensabile per instaurare durevoli rapporti di pace. Per quanto riguarda poi la libera espressione della propria fede, un altro preoccupante sintomo di mancanza di pace nel mondo è rappresentato dalle difficoltà che tanto i cristiani quanto i seguaci di altre religioni incontrano spesso nel professare pubblicamente e liberamente le proprie convinzioni religiose. Parlando in particolare dei cristiani, debbo rilevare con dolore che essi non soltanto sono a volte impediti; in alcuni Stati vengono addirittura perseguitati, ed anche di recente si sono dovuti registrare tragici episodi di efferata violenza. Vi sono regimi che impongono a tutti un’unica religione, mentre regimi indifferenti alimentano non una persecuzione violenta, ma un sistematico dileggio culturale nei confronti delle credenze religiose. In ogni caso, non viene rispettato un diritto umano fondamentale, con gravi ripercussioni sulla convivenza pacifica. Ciò non può che promuovere una mentalità e una cultura negative per la pace.
L’uguaglianza di natura di tutte le persone
6. All’origine di non poche tensioni che minacciano la pace sono sicuramente le tante ingiuste disuguaglianze ancora tragicamente presenti nel mondo. Tra esse particolarmente insidiose sono, da una parte, le disuguaglianze nell’accesso a beni essenziali, come il cibo, l’acqua, la casa, la salute; dall’altra, le persistenti disuguaglianze tra uomo e donna nell’esercizio dei diritti umani fondamentali. Costituisce un elemento di primaria importanza per la costruzione della pace il riconoscimento dell’essenziale uguaglianza tra le persone umane, che scaturisce dalla loro comune trascendente dignità. L’uguaglianza a questo livello è quindi un bene di tutti inscritto in quella “grammatica” naturale, desumibile dal progetto divino della creazione; un bene che non può essere disatteso o vilipeso senza provocare pesanti ripercussioni da cui è messa arischio la pace. Le gravissime carenze di cui soffrono molte popolazioni, specialmente del Continente africano, sono all’origine di violente rivendicazioni e costituiscono pertanto una tremenda ferita inferta alla pace.
7. Anche la non sufficiente considerazione per la condizione femminile introduce fattori di instabilità nell’assetto sociale. Penso allo sfruttamento di donne trattate come oggetti e alle tante forme di mancanzadi rispetto per la loro dignità;penso anche - in contesto diverso - alle visioni antropologiche persistenti in alcune culture, che riservano alla donna una collocazione ancora fortemente sottomessa all’arbitrio dell’uomo, con conseguenze lesive per la sua dignitàdipersonaeper l’esercizio delle stesse libertà fondamentali. Non ci si può illudere che la pace sia assicurata finchénon siano superate anche queste formedidiscriminazione, che ledono la dignità personale, inscritta dal Creatore in ogni essere umano(5).
L’«ecologia della pace»
8.ScriveGiovanniPaoloIInella Lettera enciclica Centesimus annus: « Non solo la terra è stata data da Dio all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originariadibene, secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è stato donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato »(6). È rispondendo a questa consegna, a lui affidata dal Creatore, che l’uomo, insieme ai suoi simili, può dar vita a un mondo di pace. Accanto all’ecologia della natura c’è dunque un’ecologia che potremmo dire “umana”, la quale a sua volta richiede un”‘ecologia sociale”. E ciò comporta che l’umanità, se ha a cuore la pace, debba tenere sempre più presenti le connessioni esistenti tra l’ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e l’ecologia umana. L’esperienza dimostra che ogni atteggiamento irrispettoso verso l’ambiente reca danni alla convivenza umana, e viceversa. Sempre più chiaramente emerge un nesso inscindibile tra la pace con il creato e la pace tra gli uomini. L’una e l’altra presuppongono la pace con Dio. La poesia-preghiera di San Francesco, nota anche come « Cantico di Frate Sole », costituisce un mirabile esempio - sempre attuale - di questa multiforme ecologia della pace.
9. Ci aiuta a comprendere quanto sia stretto questo nesso tra l’una ecologia e l’altra il problema ogni giorno più grave dei rifornimenti energetici. In questi anni nuove Nazioni sono entrate con slancio nella produzione industriale, incrementando i bisogni energetici. Ciò sta provocando una corsa alle risorse disponibili che non ha confronti con situazioni precedenti. Nel frattempo, in alcune regioni del pianeta si vivono ancora condizioni di grande arretratezza, in cui lo sviluppo è praticamente inceppato anche a motivo del rialzo dei prezzi dell’energia. Che ne sarà di quelle popolazioni? Quale genere di sviluppo o di non-sviluppo sarà loro imposto dalla scarsità di rifornimenti energetici? Quali ingiustizie e antagonismi provocherà la corsa alle fonti di energia? E come reagiranno gli esclusi da questa corsa? Sono domande che pongono in evidenza come il rispetto della natura sia strettamente legato alla necessità di tessere tra gli uomini e tra le Nazioni rapporti attenti alla dignità della persona e capaci di soddisfare ai suoi autentici bisogni. La distruzione dell’ambiente, un suo uso improprio o egoistico e l’accaparramento violento delle risorse della terra generano lacerazioni, conflitti e guerre, proprio perché sono frutto di un concetto disumano di sviluppo. Uno sviluppo infatti che si limitasse all’aspetto tecnico-economico, trascurando la dimensione morale-religiosa, non sarebbe uno sviluppo umano integrale e finirebbe, in quanto unilaterale, per incentivare le capacità distruttive dell’uomo.
Visioni riduttive dell’uomo
10. Urge pertanto, pur nel quadro delle attuali difficoltà e tensioni internazionali, impegnarsi per dar vita ad un’ecologia umana che favorisca la crescita dell’«albero della pace». Per tentare una simile impresa è necessario lasciarsi guidare da una visione della persona non viziata da pregiudizi ideologici e culturali o da interessi politici ed economici, che incitino all’odio e alla violenza. È comprensibile che le visioni dell’uomo varino nelle diverse culture. Ciò che invece non si può ammettere è che vengano coltivate concezioni antropologiche che rechino in se stesse il germe della contrapposizione e della violenza. Ugualmente inaccettabili sono concezioni di Dio che stimolino all’insofferenza verso i propri simili e al ricorso alla violenza nei loro confronti. È questo un punto da ribadire con chiarezza: una guerra in nome di Dio non è mai accettabile! Quando una certa concezione di Dio è all’origine di fatti criminosi, è segno che tale concezione si è già trasformata in ideologia.
11. Oggi, però, la pace non è messa in questione solo dal conflitto tra le visioni riduttive dell’uomo, ossia tra le ideologie. Lo è anche dall’indifferenza per ciò che costituisce la vera natura dell’uomo. Molti contemporanei negano, infatti, l’esistenza di una specifica natura umana e rendono così possibili le più stravaganti interpretazioni dei costitutivi essenziali dell’essere umano. Anche qui è necessaria la chiarezza: una visione « debole » della persona, che lasci spazio ad ogni anche eccentrica concezione, solo apparentemente favorisce la pace. In realtà impedisce il dialogo autentico ed apre la strada all’intervento di imposizioni autoritarie, finendo così per lasciare la persona stessa indifesa e, conseguentemente, facile preda dell’oppressione e della violenza.
Diritti umani e Organizzazioni internazionali
12. Una pace vera e stabile presuppone il rispetto dei diritti dell’uomo. Se però questi diritti si fondano su una concezione debole della persona, come non ne risulteranno anch’essi indeboliti? Si rende qui evidente la profonda insufficienza di una concezione relativistica della persona, quando si tratta di giustificarne e difenderne i diritti. L’aporia in tal caso è palese: i diritti vengono proposti come assoluti, ma il fondamento che per essi si adduce è solo relativo. C’è da meravigliarsi se, di fronte alle esigenze “scomode” poste dall’uno o dall’altro diritto, possa insorgere qualcuno a contestarlo o a deciderne l’accantonamento? Solo se radicati in oggettive istanze della natura donata all’uomo dal Creatore, i diritti a lui attribuiti possono essere affermati senza timore di smentita. Va da sé, peraltro, che i diritti dell’uomo implicano a suo carico dei doveri. Bene sentenziava, al riguardo, il mahatma Gandhi: « Il Gange dei diritti discende dall’Himalaia dei doveri ». È solo facendo chiarezza su questi presupposti di fondo che i diritti umani, oggi sottoposti a continui attacchi, possono essere adeguatamente difesi. Senza tale chiarezza, si finisce per utilizzare la stessa espressione, ‘diritti umani’ appunto, sottintendendo soggetti assai diversi fra loro: per alcuni, la persona umana contraddistinta da dignità permanente e da diritti validi sempre, dovunque e per chiunque; per altri, una persona dalla dignità cangiante e dai diritti sempre negoziabili: nei contenuti, nel tempo e nello spazio.
13. Alla tutela dei diritti umani fanno costante riferimento gli Organismi internazionali e, in particolare, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che con la Dichiarazione Universale del 1948 si è prefissata, quale compito fondamentale, la promozione dei diritti dell’uomo. A tale Dichiarazione si guarda come ad una sorta di impegno morale assunto dall’umanità intera. Ciò ha una sua profonda verità soprattutto se i diritti descritti nella Dichiarazione sono considerati come aventi fondamento non semplicemente nella decisione dell’assemblea che li ha approvati, ma nella natura stessa dell’uomo e nella sua inalienabile dignità di persona creata da Dio. È importante, pertanto, che gli Organismi internazionali non perdano di vista il fondamento naturale dei diritti dell’uomo. Ciò li sottrarrà al rischio, purtroppo sempre latente, di scivolare verso una loro interpretazione solo positivistica. Se ciò accadesse, gli Organismi internazionali risulterebbero carenti dell’autorevolezza necessaria per svolgere il ruolo di difensori dei diritti fondamentali della persona e dei popoli, principale giustificazione del loro stesso esistere ed operare.
Diritto internazionale umanitario e diritto interno degli Stati
14. A partire dalla consapevolezza che esistono diritti umani inalienabili connessi con la comune natura degli uomini, è stato elaborato un diritto internazionale umanitario, alla cui osservanza gli Stati sono impegnati anche in caso di guerra. Ciò purtroppo non ha trovato coerente attuazione, a prescindere dal passato, in alcune situazioni di guerra verificatesi di recente. Così, ad esempio, è avvenuto nel conflitto che mesi fa ha avuto per teatro il Libano del Sud, dove l’obbligo di proteggere e aiutare le vittime innocenti e di non coinvolgere la popolazione civile è stato in gran parte disatteso. La dolorosa vicenda del Libano e la nuova configurazione dei conflitti, soprattutto da quando la minaccia terroristica ha posto in atto inedite modalità di violenza, richiedono che la comunità internazionale ribadisca il diritto internazionale umanitario e lo applichi a tutte le odierne situazioni di conflitto armato, comprese quelle non previste dal diritto internazionale in vigore. Inoltre, la piaga del terrorismo postula un’approfondita riflessione sui limiti etici che sono inerenti all’utilizzo degli strumenti odierni di tutela della sicurezza nazionale. Sempre più spesso, in effetti, i conflitti non vengono dichiarati, soprattutto quando li scatenano gruppi terroristici decisi a raggiungere con qualunque mezzo i loro scopi. Dinanzi agli sconvolgenti scenari di questi ultimi anni, gli Stati non possono non avvertire la necessità di darsi delle regole più chiare, capaci di contrastare efficacemente la drammatica deriva a cui stiamo assistendo. La guerra rappresenta sempre un insuccesso per la comunità internazionale ed una grave perdita di umanità. Quando, nonostante tutto, ad essa si arriva, occorre almeno salvaguardare i principi essenziali di umanità e i valori fondanti di ogni civile convivenza, stabilendo norme di comportamento che ne limitino il più possibile i danni e tendano ad alleviare le sofferenze dei civili e di tutte le vittime dei conflitti(7).
15. Altro elemento che suscita grande inquietudine è la volontà, manifestata di recente da alcuni Stati, di dotarsi di armi nucleari. Ne è risultato ulteriormente accentuato il diffuso clima di incertezza e di paura per una possibile catastrofe atomica. Ciò riporta gli animi indietro nel tempo, alle ansie logoranti del periodo della cosiddetta « guerra fredda ». Dopo di allora si sperava che il pericolo atomico fosse definitivamente scongiurato e che l’umanità potesse finalmente tirare un durevole sospiro di sollievo. Quanto appare attuale, a questo proposito, il monito del Concilio Ecumenico Vaticano II: « Ogni azione bellica che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni con i loro abitanti è un crimine contro Dio e contro l’uomo, che deve essere condannato con fermezza e senza esitazione »(8). Purtroppo ombre minacciose continuano ad addensarsi all’orizzonte dell’umanità. La via per assicurare un futuro di pace per tutti è rappresentata non solo da accordi internazionali per la non proliferazione delle armi nucleari, ma anche dall’impegno di perseguire con determinazione la loro diminuzione e il loro definitivo smantellamento. Niente si lasci di intentato per arrivare, con la trattativa, al conseguimento di tali obiettivi! È in gioco il destino dell’intera famiglia umana!
La Chiesa a tutela della trascendenza della persona umana
16. Desidero, infine, rivolgere un pressante appello al Popolo di Dio, perché ogni cristiano si senta impegnato ad essere infaticabile operatore di pace e strenuo difensore della dignità della persona umana e dei suoi inalienabili diritti. Grato al Signore per averlo chiamato ad appartenere alla sua Chiesa che, nel mondo, è « segno e tutela della trascendenza della persona umana »(9), il cristiano non si stancherà di implorare da Lui il fondamentale bene della pace che tanta rilevanza ha nella vita di ciascuno. Egli inoltre sentirà la fierezza di servire con generosa dedizione la causa della pace, andando incontro ai fratelli, specialmente a coloro che, oltre a patire povertà e privazioni, sono anche privi di tale prezioso bene. Gesù ci ha rivelato che « Dio è amore » (1 Gv 4,8) e che la vocazione più grande di ogni persona è l’amore. In Cristo noi possiamo trovare le ragioni supreme per farci fermi paladini della dignità umana e coraggiosi costruttori di pace.
17. Non venga quindi mai meno il contributo di ogni credente alla promozione di un vero umanesimo integrale, secondo gli insegnamenti delle Lettere encicliche Populorum progressio e Sollicitudo rei socialis, delle quali ci apprestiamo a celebrare proprio quest’anno il 40o e il 20o anniversario. Alla Regina della Pace, Madre di Gesù Cristo « nostra pace » (Ef 2,14), affido la mia insistente preghiera per l’intera umanità all’inizio dell’anno 2007, a cui guardiamo - pur tra pericoli e problemi - con cuore colmo di speranza. Sia Maria a mostrarci nel Figlio suo la Via della pace, ed illumini i nostri occhi, perché sappiano riconoscere il suo Volto nel volto di ogni persona umana, cuore della pace!
Dal Vaticano, 8 Dicembre 2006.
BENEDICTUS PP. XVI
(1) Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 357.
(2) Sermo 169, 11, 13: PL 38, 923.
(3) N. 3.
(4) Omelia all’Islinger Feld di Regensburg (12 settembre 2006).
(5) Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo (31 maggio 2004), nn. 15-16.
(6) N. 38.
(7) A tale riguardo, il Catechismo della Chiesa Cattolica ha dettato criteri molto severi e precisi: cfr nn. 2307-2317. (8) Cost. past. Gaudium et spes, 80.
(9) Conc. Ecum. Vat. II, ibid. n. 76.
* Avvenire, 12.12.2006
Dibattito.
Ruini: l’essere umano non è paragonabile ad animali e macchine
Intervento del cardinale Ruini su un libro del filosofo Agazzi: l’uomo è altro rispetto a natura e IA, perché è capace di speranza. La cultura attuale non riesce a coglierne la verità
di Camillo Ruini (Avvenire, martedì 26 settembre 2023
Evandro Agazzi è attualmente uno dei più importanti filosofi italiani e di certo il maggiore filosofo della scienza. A coronamento della sua molto lunga e feconda attività di studioso ha pubblicato alcuni libri, da ultimo La conoscenza dell’invisibile (2021) e Dimostrare l’esistenza dell’uomo (2023), che riassumono in forma unitaria le linee principali della sua riflessione filosofica. Cercherò qui di presentare e valutare brevemente il più recente di questi libri. Il suo titolo, “Dimostrare l’esistenza dell’uomo”, ha un sapore paradossale, perché la nostra esistenza è quanto di più evidente e immediato ci è dato conoscere. In realtà questo titolo allude al fatto che affidandosi unicamente alla scienza e alla tecnologia non si riesce a comprendere e indagare quella decisiva differenza per la quale possiamo affermare che «l’uomo non è né una macchina né un puro e semplice animale». Il libro è quindi un’antropologia filosofica. Il primo problema preso in esame è quello dei rapporti tra l’uomo e la natura: per quanto essi siano profondi non possono comportare la riduzione dell’uomo alla natura, come vorrebbe l’opinione oggi più diffusa. A parere di Agazzi vi si oppone quell’aspetto essenziale della nostra identità che è rappresentato dalla consapevolezza di essere liberi.
Il libro ritorna spesso sulla questione della libertà. Molto importante, in particolare, la distinzione tra libertà di scelta, detta anche libero arbitrio, e libertà d’azione. La prima è la libertà radicale senza la quale non potrebbero esistere né la moralità né la responsabilità. La seconda invece ammette molteplici limitazioni. Il pensiero moderno ha purtroppo identificato la libertà con la libertà d’azione e per questa via limita sempre più la nostra libertà, fino a ridurla a una pia illusione. Esito paradossale perché, proprio mentre riduce progressivamente l’uomo a un semplice essere naturale privo di libertà, la cultura moderna celebra la dignità dell’uomo e proclama un numero crescente di diritti umani. Ma, si chiede giustamente Agazzi, come si possono conciliare questa dignità e questi diritti con l’idea che l’uomo è un semplice animale, o addirittura una macchina? A mio parere questa contraddizione interna va assolutamente superata, se vogliamo aprire al futuro la nostra civiltà.
Un altro argomento molto interessante è quello della persona, più precisamente del rapporto tra uomo e persona. Agazzi ricorda anzitutto che il termine “persona” è divenuto un profondo concetto filosofico grazie all’opera dei Padri della Chiesa che lo hanno impiegato per precisare il significato dei due misteri fondamentali della fede cristiana, quello trinitario (tre Persone in una natura) e quello cristologico (una Persona in due nature). Lo spessore ontologico del concetto di persona si è poi trasferito sul concetto di uomo, fino alle varie dichiarazioni e rivendicazioni dei diritti umani che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli. Nel nostro tempo si è giunti però a teorizzare una separazione tra l’uomo e la persona, nel senso di una differenza tra il concetto di uomo e il concetto di persona, in virtù della quale non ogni uomo, per il fat-to stesso di essere uomo, sarebbe una persona. Per conseguenza la dignità e i diritti riconosciuti alla persona non vengono automaticamente riconosciuti a tutti gli uomini. Agazzi confuta con un’analisi rigorosa la possibilità di separare l’uomo dalla persona e ne deduce alcune conclusioni in ambito bioetico: l’aborto e la soppressione di embrioni umani sono inevitabilmente soppressioni di persone.
Una questione attualmente molto dibattuta è quella della cosiddetta “intelligenza artificiale”. È diffusa l’idea che essa potrebbe emulare e poi superare l’intelligenza naturale dell’uomo. In realtà tra le due esiste una differenza radicale: una proprietà fondamentale dell’intelligenza naturale è infatti l’intenzionalità, che invece non può essere presente nell’intelligenza artificiale, come Agazzi ha compreso e affermato per primo, già molti anni fa. Cosa si intende per “intenzionalità”? Si tratta di un concetto già presente nella filosofia scolastica medioevale e poi ripreso dai filosofi tedeschi Franz Brentano ed Edmund Husserl, il cui significato è essere indirizzato verso un oggetto. Essendo priva di intenzionalità l’intelligenza artificiale non è e non potrà mai essere un’autentica intelligenza. Non ha senso, quindi, chiedersi se essa potrà superare l’intelligenza umana. Ciò non toglie che l’intelligenza artificiale, in concreto i computer la cui potenza di calcolo sta crescendo vertiginosamente, renda a noi possibile risolvere problemi che senza di essa non avremmo potuto in alcuno modo affrontare.
Agazzi dedica grande attenzione e spazio al mondo della cultura. In particolare le molte pagine in cui parla della musica sono una vera ricchezza di questo libro che, occupandosi dell’esistenza dell’uomo, è «inesorabilmente approdato al tema centrale di qualunque antropologia filosofica», cioè al problema del senso della nostra esistenza, che richiede qualche comprensione della morte perché «l’escatologia costituisce il cuore di ogni antropologia». Vengono pertanto analizzati con cura i concetti di morte, vita, esistenza, immortalità, come anche quello di felicità. Da ultimo Agazzi tratta dell’esperienza del sacro, della fede come fiducia in Colui che incontriamo in tale esperienza e della speranza come caratteristica specifica della natura umana: infatti soltanto l’uomo spera. Le ultime righe del libro chiariscono definitivamente il suo significato: «Dimostrare l’esistenza dell’uomo, ossia presentare argomenti di evidenza fenomenologica (come il fatto empirico della risurrezione di Gesù e l’esperienza del sacro) per convalidare l’immagine dell’uomo come viatore (come un essere in cammino) in cui alberga la speranza (ancorata nella fede in Cristo) che dopo il viaggio in questa vita ci sarà l’approdo in una esistenza al di là della morte e del tempo».
DOC. - L’Occidente ha perso la ragione. Giulio Meotti intervista Michel Onfray *
Attraverso la finestra dell’ufficio da cui scrivo, a Caen, vedo l’Abbazia degli uomini. Se vado sul balcone, vedo l’Abbazia delle donne. A poche centinaia di metri, in linea d’aria, si trovano i bastioni del castello in cui si erge ancora un magnifico edificio, la Sala dello Scacchiere. Queste costruzioni, emblematiche dell’arte anglo-normanna, hanno mille anni e furono costruite durante il regno di Guglielmo il Conquistatore: iniziate nel 1062 e nel 1066, furono consacrate nel 1130 e nel 1077. Guardiamo indietro al XIX secolo: l’architetto catalano Gaudí iniziò la costruzione della Sagrada Família a Barcellona nel 1882, l’anno in cui Nietzsche pubblicò ‘La gaia scienza’ che annunciava la morte di Dio. Consacrata da Benedetto XVI il 7 novembre 2010, la chiesa ha atteso centotrentasette anni per la concessione edilizia... Questo Papa, per ragioni molto oscure, si è dimesso, la fine delle opere strutturali è prevista per il 2026 e quella dei lavori per il 2032! Ciò che Guglielmo il Conquistatore costruì in undici anni nell’XI secolo, gli uomini del XIX, XX e XXI secolo non l’hanno ancora finito. Non è un simbolo?”.
Spirito libero e libertario, di sinistra ma antiprogressista, vocazione anarchica alla Proudhon, ateologo più famoso di Francia ascritto dai giornali della gauche fra i “neoreazionari” per il suo frondismo a favore della civiltà giudaico-cristiana, Michel Onfray torna con “Puissance et Décadence”, quasi un seguito di quella “Decadenza” (Ponte alle grazie) che gli ha riscosso un notevole successo di pubblico. “Uno dei segni della decadenza è la sua negazione da parte dei decadenti”, racconta Onfray in questa intervista al Foglio. “Coloro che si sforzano di proclamare che tutto va meglio lo fanno secondo criteri puramente quantitativi. Non viviamo più a lungo? L’aumento dell’età media non è una prova?”. Il ritrovamento di una scatola piena di quaderni di scuola degli anni Cinquanta ha stupito Onfray: “Tra ciò che si insegnava e si imparava allora e la polenta di correttezza politica inghiottita oggi dalle classi primarie dove la priorità non è l’apprendimento della grammatica o dell’ortografia ma quella del catechismo wokista che, ad esempio, invita i bambini a cambiare sesso secondo la loro ‘scelta’ o a smistare la spazzatura in nome del cambiamento climatico che esiste da milioni di anni sul pianeta, è possibile un confronto? La condizione delle donne non è migliorata? Sì, certo, ora possono comprare bambini da donne povere che, in questa o quella parte del pianeta, vendono ovociti e affittano il loro utero. Ora possono scegliere i bambini da catalogo e possono anche approfittare dei saldi per acquistare un neonato a un prezzo d’occasione, come durante il Black Friday presso la clinica ucraina Bio TexCom nel 2021”.
Ma c’è più tolleranza. “Ma la tolleranza non è forse diventata la religione di un’epoca senza religione al punto da non tollerare più nulla al di fuori di questa tolleranza? Il pensiero unico woke è inculcato dall’Educazione Nazionale, dalle università che presenta la loro militanza come scientifica, dalla ricerca cosiddetta ‘scientifica’ che sovvenziona soldatini ideologizzati, dall’industria della cultura di massa, dai media del servizio pubblico, dal mondo della pubblicità e del cinema, dal mondo degli schermi. Tuttavia, in nome della tolleranza, chi sfugge a questa ideologia dominante passa per un uomo di destra, quindi di estrema destra, quindi fascista, quindi per un nazista che fa il gioco della famiglia Le Pen!”. Onfray ne ha anche per il Vaticano. “La chiesa del Vaticano II rinuncia al sacro per trasformarsi in dispensatore di moralità moralizzante. Allo stesso modo in cui Diderot giudicò il crollo del cristianesimo notando che la produzione di ostie era crollata nel suo secolo, si può dedurre che il cristianesimo, che non è più in grado di completare una cattedrale in tre secoli, è in uno stato di morte cerebrale. Nelle sue lezioni di filosofia della storia, Hegel ha messo in luce la dinamica delle civiltà. Tutti conoscono i dipinti sublimi della grotta Chauvet, gli allineamenti preistorici dei megaliti, le piramidi egizie, l’agorà greca, il foro romano, le cattedrali europee. Tutto questo testimonia che le civiltà nascono, crescono, vivono, conoscono un momento di acme, poi iniziano una discesa che si rivela una caduta prima della scomparsa e della sostituzione con un altro momento tra una civiltà che si allontana e un’altra che arriva”. Cosa annuncia la nostra civiltà? Cosa dice di ciò che la seguirà? “Potrebbero esserci ancora degli sconvolgimenti per questo occidente minacciato da altre civiltà: in questa lotta dovremo fare i conti con la Cina confuciana, l’Africa animista, l’India indù o la Turchia musulmana, che stanno sviluppando strategie per la propria cancellazione dell’occidente giudaico-cristiano. Aggiungo che la demografia testimonia nel senso di questa abolizione dell’Europa giudaico-cristiana a favore di un territorio dove l’Islam sarà la religione dominante”. Onfray cita De Gaulle che disse a Malraux: “‘Nessuna civiltà ha posseduto un tale potere e nessuna è stata così estranea ai suoi valori. Perché conquistare la Luna, se è per suicidarsi?’. Malraux e De Gaulle videro che con il maggio ’68 il crollo della nostra civiltà stava precipitando. Entrambi cercarono di reagire”. Quale crisi culturale stiamo vivendo? L’opinione pubblica è consapevole della crisi antropologica? “No e una cosa del tutto normale, come la morte di una regina quasi centenaria, è semplicemente la fine di un mondo perché le civiltà sono mortali, nessuno dovrebbe ignorarlo poiché Paul Valéry ha formulato chiaramente la diagnosi. La nostra civiltà giudaico-cristiana ha duemila anni, si unirà alla civiltà greco-romana nel cimitero delle rovine delle civiltà morte accanto alle civiltà di Assur, Sumer, Babilonia, Egitto, ecc. Dobbiamo far posto a una nuova civiltà che sarà probabilmente quella del transumanesimo inventato sulla costa occidentale degli Stati Uniti”. Secondo Onfray siamo nella profezia ontologica di Michel Foucault ne “Le parole e le cose”: “‘Mettere fine all’uomo’. Questo nuovo Uomo Nuovo è una creatura sintetizzata nell’opera di Sade: senza Dio, senza anima, senza libero arbitrio, senza moralità, senza umanità, è un eroe delle ‘120 giornate di Sodoma’, una specie di macchina del desiderio post-cristiana che non teme né Dio né il diavolo, che non crede né al paradiso né all’inferno, né al bene né al male”. Non ci sono qua e là sacche di resistenza a questa postmodernità ? “Niente resiste alla morte... Quando un uomo muore, è stato reso possibile da una stirpe di cui porta in sé le eredità e lo rende possibile con i suoi discendenti. Il wokismo e la cancel culture che preparano il terreno alla continuazione mantengono dalla civiltà che essa distrugga un grande dispositivo: quello dell’ingranaggio della colpa, della confessione, della resipiscenza, della rigenerazione. E’ l’orizzonte dell’ambientalismo che permea la nostra fine di civiltà”.
Nel libro attacca la maternità surrogata. Che significarto ha? “Nichilismo: quando l’essere umano diventa una cosa trasformata in merce, è perché l’eugenetica governa. Acquistare figli, affittare uteri, commercializzare ovociti e spermatozoi, abortire fino al termine per motivi psicosociali come si è votato in Francia all’Assemblea Nazionale, è istituire una franca eugenetica che ricorda il peggio del XX secolo!”. Qual è l’obiettivo finale della teoria del genere? “Artificializzare la vita e distorcerla, cancellare la natura a beneficio della cultura, in modo che questo artificio possa essere manipolato intellettualmente e venduto commercialmente. Se non c’è più né uomo né donna, né maschile né femminile, ma solo progetti di essere uomo o donna, a seconda dell’ora del giorno e del momento della vita, allora che dire del pene e della vagina, dello sperma e delle uova: Sono solo costrutti culturali? Questo nichilismo della carne si smentisce poiché il cambio di sesso passa attraverso la terapia ormonale, abbinata alla chirurgia, il che dimostra che sono gli ormoni ad aprire la strada, cioè una sostanza naturale, anche quando viene sintetizzata in laboratorio”. Eppure, l’occidente è oggi difeso da molti. “L’occidente è un pianeta, l’Europa giudeo-cristiana e i suoi satelliti: le Americhe, l’Australia, la Nuova Zelanda e tutti coloro che vivono secondo il principio di questa defunta Europa costruita dal cristianesimo. Come un bambino sopravvive alla morte dei suoi genitori sublimandoli, questa Europa morta continua a vivere in California dove, pensando ai boss della Gafam, a Musk, il futuro del pianeta si gioca attraverso il transumanesimo”. Intanto prolifera una nemesi storica della civiltà europea: l’islam... Ma lei scrive che i conquistatori rilevano solo un’area che è già morta. “L’islam fa il lavoro di ripulire l’Europa decadente”, ci dice Onfray. “Spinge e fa cadere un muro già incrinato e pieno di fessure. I musulmani che portano avanti un progetto di sostituzione della civiltà, cioè i dottrinari dell’islamismo, sono meno forti nelle loro stesse forze che nella nostra debolezza. Gli islamisti si accontentano di essere d’accordo con la nostra cricca nichilista: la prendono in parola. ‘Non perdi occasione per dire che sei detestabile, in quanto colonialisti, fascisti, petainisti, vichysti, antisemiti, collaborazionisti? Hai perfettamente ragione, ecco perché ti odiamo’, dicono gli islamisti”.
Ma se, mentre scrivi, la battaglia è persa, perché combatterla? “Quello che accadrà è già scritto in due libri: ‘1984’ di Orwell e ‘Il mondo nuovo’ di Huxley. Non possiamo dire di non essere stati avvisati”. E Putin? “E’ uno choc religioso, se non teologico, intraeuropeo, una sorta di guerra di civiltà dello spazio geografico europeo che si oppone a tre modi di essere cristiani: cattolici, protestanti, ortodossi. L’Europa oggi è di ispirazione protestante, come gli Stati Uniti. Il cattolicesimo protesta visibilmente con Papa Francesco, un gesuita che lavora per il cosmopolitismo, l’immigrazione e il multiculturalismo”. Perché restare in Normandia ? “Mille anni di radicamento... discendo da un vichingo arrivato dal nord, probabilmente la Danimarca, mille anni fa. E’ una regione semplice e umile che non lascerò”. Ricorre all’immagine del Titanic. “La barca si muove a un ritmo che non può prevenire la collisione con l’iceberg. Le percussioni sono inevitabili. Il capitano non può fare nulla per ostacolare il destino della sua nave: spegnere i motori, fare retromarcia, girare il più possibile a sinistra o a dritta, niente aiuterebbe, il Titanic sta per speronare la montagna di ghiaccio alla deriva nel mare. E’ inevitabile. La nostra civiltà si sta dirigendo verso il suo destino che è il naufragio. Ci sono diversi modi per reagire: panico, urla, pianti, lacrime, percosse, la natura umana che prende il sopravvento, l’uomo che mostra, sotto una vernice fragile, di essere davvero un lupo per il suo prossimo. Ciò che sembrava civiltà e cortesia, moralità e cortesia non dura più di cinque minuti di fronte alla catastrofe. Vediamo nascere dal vortice di panico dei falsi profeti che vociferano che bisogna calmarsi: loro hanno la soluzione, loro sono la soluzione. Sono uomini provvidenziali: devi ascoltarli e tutto andrà bene. Ci sono le barche, andiamo con ordine, e finché obbediamo salveranno tutti, salveranno il mondo. Una voce lucida fa notare che le barche a remi non basteranno... L’uomo provvidenziale grida che non si devono ascoltare gli uccelli del malaugurio, che le Cassandre siano gettati in mare come un priorità. Se per caso ci fosse una sola possibilità per salvarsi dal naufragio, sarebbe da scappare. Tuttavia, non ce n’è. Una civiltà non muore per colpa di chi se ne impossessa, ma perché i conquistatori entrano in una zona già morta, intellettualmente corrotta, spiritualmente marcia, culturalmente brulicante di vermi, moralmente decomposta. Nessuno conquista mai altro che rovine. La pulsione di morte ha ucciso la pulsione di vita. Baciamo il cobra sulla bocca”.
E ancora: “La scuola che indottrina fin dalla tenera età, ricerca che non trova altro da fare che adornarsi delle piume della scienza per svolgere l’opera di custode della vera fede. Dobbiamo guardarci dagli inganni. La logica del cavallo di Troia permette agli attori della decadenza di avanzare con la scusa dei buoni sentimenti. L’ecologia urbana, che ignora tutto ciò che riguarda la natura e i suoi legami con il cosmo, si rivela l’ala armata dell’ibridazione, compresa la sessualità, ibridazione e cosmopolitismo, che dissolvono nel loro acido ciò che restava della comunità a vantaggio di una giustapposizione di individualità narcisistiche, egoiste, ignoranti ma, ciò che conta, consumistiche, con la morte”. Il prossimo transatlantico sarà quello del transumanesimo? “Siamo nel mezzo: il Titanic sta affondando, la prossima nave è all’orizzonte. Resta, intanto, l’azione girondina che è la costruzione della resistenza alle metastasi del nichilismo. Cominciare a far sì che la decadenza non ci attraversi sarebbe già molto. La Boétie ci ha insegnato che la nostra servitù è volontaria”.
* Fonte: "informazione corretta (ripresa parziale senza immagini).
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
USCIRE DAL SONNAMBULISMO E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO.... *
Etica & Società. L’imago Dei non abita più in noi?
Che ne è della persona in questo scorcio del nuovo secolo? Possiamo ancora riferici a essa, al concetto variegato che la esprime, oppure è divenuta una parola senza senso?
di Vittorio Possenti (Avvenire, sabato 29 febbraio 2020)
Che ne è della persona in questo scorcio del nuovo secolo? Possiamo ancora fare ricorso a essa, e al concetto ricchissimo che la esprime, oppure è divenuta un richiamo usurato e da lasciare da parte, perché non possiede più un senso? È un evento su cui meditare che nel corso dell’ultimo secolo il riferimento alla persona sia diventato universale, “ecumenico”, nella cultura filosofica, teologica e nelle scienze umane e sociali in Occidente, e poi in contesti assai più ampi. -Sempre più si ricorre, spesso solo in modo retorico, all’idea di persona, ma con il risultato che i suoi contorni sono diventati plurimi, sfuggenti, irriconoscibili, e quella che non pochi hanno considerato un passepartout universale o una chiave d’oro che apre tutte le porte, solleva invece immensi problemi che toccano in profondità la condizione umana. -L’esser-persona concerne tutti indistintamente, e secondo l’idea che ne viene formata vita e civiltà prendono cammini molto diversi, e anche il nostro destino singolo ne è segnato.
Per un certo tempo la poderosa diffusione dell’idea di persona ha potuto costituire un elemento di cui rallegrarsi per coloro che l’avevano adottata e coltivata assiduamente, senza però perdere la capacità di un attento discernimento che diventa ogni giorno più necessario. In effetti il diffondersi del termine “persona” e del lessico personalistico è andato di pari passo con una preoccupante vaghezza del loro contenuto; discorso analogo vale per l’idea di “dignità della persona” cui si fa un richiamo tanto inflazionato quanto confuso.
Ma l’orecchio esperto riesce a udire nel frastuono sulla persona un’altra musica: l’intento di decostruirne la nozione, intendendola quasi solo come una finzione giuridica, oppure più radicalmente di dissolverne la sua stessa realtà, riportando la persona a una maschera dell’impersonale. Decostruzione che prende origine in Francia dove, secondo l’antiumanesimo di Michel Foucault, l’uomo è solo un’invenzione delle scienze umane, destinato a sparire molto presto. E da lì si è diffusa in vari contesti, Italia compresa: nell’assunto si annida quella che spesso ho chiamato “filosofia del Neutro”, una delle massime espressioni del nichilismo moderno-contemporaneo.
La dialettica in corso tra umanesimo e antiumanesimo comporta l’esplosione della “questione antropologica” che si è prepotentemente affiancata alle questioni pubbliche che prendono il nome di “questione istituzionale democratica” e “questione sociale”: esse hanno dato almeno in Occidente il tono a due secoli di storia. Rispetto a queste problematiche la questione antropologica presenta caratteri più radicali ed è destinata a diventare sempre più pervasiva.
L’uomo è messo in questione tanto nella sua base biologica e corporea quanto nella coscienza che forma di se stesso. E ciò non soltanto astrattamente, ma praticamente, perché le nuove tecnologie, e non solo quelle della vita, incidono sul soggetto, lo trasformano, tendono a operare un mutamento nel modo di intendere nozioni centrali dell’esperienza di ognuno: essere generato oppure prodotto, nascere, vivere, procreare, cercare la salute, invecchiare, morire ecc.
Si tratta di trasformazioni di nuclei sensibilissimi che hanno interessato migliaia di generazioni e che costituiscono il tessuto fondamentale dell’esperienza umana in tutti i luoghi e tempi. La generazione umana rischia di passare dal procreare al fare, andando verso un soggetto progettato in serie, fabbricato, col rischio di non avere volto proprio.
La controversia sull’humanum è incandescente e onnipresente. Oltre quarant’anni fa Giovanni Paolo II sosteneva qualcosa che vale tuttora: «La verità che dobbiamo all’uomo è innanzi tutto una verità sull’uomo stesso» (Puebla, 28 gennaio 1979). La verità sull’uomo non può essere soggetta a votazione ma pazientemente rimeditata e fatta circolare nella cultura.
Oggi gli orizzonti prevalenti nella cultura in ordine alla persona sono sopratutto il funzionalismo e il riduzionismo. Nel primo essa è vista e ricondotta a un insieme di funzioni e/o di capacità, di cui ci si contenta di stendere vari elenchi senza andare al nucleo intimo che fa la persona. Nel riduzionismo essa è intesa come una parte, sia pure rilevante ma sempre parte, della madre-natura, secondo una posizione di esplicito naturalismo in cui l’essere umano non sporge oltre il suo grembo. Bisogna certo fare pace con la natura, senza però pensarci solo come risolti nella madre-terra, ma come esseri che abitano il mondo simbolico: linguaggio, mito, religione, arte. Ma anche l’antropocentrismo moderno, che aveva alzato l’uomo al di sopra del cielo, conserva posizioni.
In questo incandescente crocevia storico-spirituale a condurre il gioco è la rivoluzione tecnologica che domina il mondo: robotica, mediatica, digitale e informatica, biopolitica, intelligenza artificiale, potenziamento umano. Essa impone i suoi ritmi forsennati che non consentono momenti meditativi. Siamo trascinati senza requie da un vento che spira da ogni luogo e trascina ogni contesto, senza pause e moratorie, e coinvolti in processi giganteschi, mentre diversi sostengono che occorre abbattere le barriere tra l’umano, l’animale, la macchina.
A mio avviso il settore in cui la situazione risulta maggiormente compromessa è quello bioetico-biopolitico dove il tecnicamente possibile tende a diventare moralmente lecito a priori: si può pensare alla nuova legge bioetica in discussione in Francia, di cui è appariscente il carattere fortemente libertario e centrato sulle pretese degli adulti. Tutto ciò accade proprio quando vi è più alto bisogno di una nozione non mistificata di persona, della verità sulla persona cui non si può rinunciare. Per non essere trascinati passivamente dalla tempesta del “progresso” e dalle insidie del nichilismo è necessario riprendere contatto con una visione integra dell’esser-persona, che può provenire dal pensiero ontologico e dalla religione. In merito si ergono come irti ostacoli la pregiudiziale postmetafisica e la progressiva cancellazione dell’imago Dei dal perimetro dell’umano: essa nega all’essere umano la sua costitutiva apertura verso l’alto. Si avverte dolorosamente la carenza di un atteggiamento contemplativo, particolarmente arduo in un’epoca dominata dalla fretta e da un’ansia (ansia di prestazione e ansia di consumo) che colpisce tutti, e che annienta lo spazio meditativo e contemplativo, da cui può sorgere un orientamento sapiente. Non rinunciamo alla persona, rimettiamola al centro secondo tutta la verità che essa include.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’”ECCE HOMO” (E LA “CORONA DI SPINE”)! IN MEMORIA DI LEONZIO PILATO E DI PONZIO PILATO.
IL MESSAGGIO EVANGELICO, LA COSTITUZIONE, E IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, ATEO E DEVOTO. LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
CRISTIANESIMO E ILLUMINISMO AMBROSIANO: USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’ (I. KANT)!!! "San Tommaso parlava non a caso di "autoexusia", ovvero della capacità di "tenersi in mano". Soltanto chi è davvero padrone di se stesso, sa consegnarsi al bene, al vero, al bello" (Dionigi Tettamanzi)
LA GIUSTIZIA E’ IL SALE DEL CRISTIANESIMO E DELLA DEMOCRAZIA. CHE IL VATICANO E BENEDETTO XVI LO RICORDI. Intervista a Dionigi Tettamanzi di Franco Marcoaldi
Allegato: La partita del dopo Tettamanzi (di Aldo Maria Valli)
Tra Ratzinger e il diavolo
di GIAN ENRICO RUSCONI (LA Stampa, 17/7/2007)
Nel suo «discorso pubblico» un cardinale afferma che la Chiesa è rimasta l’unica istituzione in Italia in grado di difendere la famiglia. Raccoglie l’applauso del pubblico.
Applaudono in prima fila anche quelli che la Conferenza episcopale italiana certifica come i «veri laici», includendovi pure gli agnostici che di Dio, di Cristo o della storia della Chiesa non sanno quasi nulla, ma stanno dalla parte della Chiesa contro la (presunta) deriva lassista e illuministica della società contemporanea e contro l’islamismo strisciante.
In effetti, oggi il consenso alla Chiesa può fare a meno di qualunque informazione e competenza teologica. L’età post-secolare si presenta anche come l’età dell’impoverimento del quadro teologico, quantomeno nell’ambito del discorso pubblico che sta a cuore alla Chiesa di oggi. Conosco le seccate obiezioni di quanti mi accusano di essere disinformato non solo del fervore delle nicchie teologiche specializzate, ma anche dei libri che ogni anno escono in Italia e che sono esposti nelle vetrine delle grandi librerie laiche. In realtà si tratta per lo più di opere di dottrina morale o di esegesi biblico-evangelica, dove i riferimenti teologici sono soltanto di supporto e funzionali alle raccomandazioni morali. Si confonde la letteratura religiosa edificante con la riflessione teologica. Un sintomo grottesco è stato quello di uno zelante cardinale che in occasione della festa di Natale (evento fondante della teologia dell’incarnazione) non ha trovato di meglio - nel clima dell’offensiva contro «le coppie di fatto» - che parlare della grotta di Betlemme come del luogo in cui c’era la «vera famiglia».
Nell’attuale ritorno del classico tema «ragione e fede», che rimette in circolazione i non meno classici motivi contrapposti, chi esce perdente è la ragionevolezza. È sconfitto cioè chi non vuol «vincere», chi non intende imporre le sue convinzioni ma vuole creare una comunità di cittadini che si parlano seriamente, partendo dalla constatazione che su alcune «verità» importanti non c’è possibilità di convergenza tra differenti convinzioni. Eppure è necessario creare un ragionevole modo di vivere insieme. Solo la ragionevolezza (che viene diffamata come relativismo) può costruire una società di cittadini maturi.
In questo contesto va collocato anche uno dei motivi-guida del pensiero di Papa Ratzinger: la razionalità della fede. La strategia ratzingeriana conferma e insieme tenta di controbattere l’impoverimento teologico nella comunicazione pubblica della Chiesa, di cui parlavo sopra. Quello della razionalità della fede è il tema centrale nella complessa attività espressiva del Pontefice, che pure spazia negli ambiti più diversi. Oggi polarizza l’opinione pubblica soprattutto attorno al recupero delle forme della traditio cristiana. Ma anche la reinvenzione della tradizione (tale è la Messa in latino) rientra nello sforzo di trovare attraverso le antiche radici greco-latine la ratio cristiana. Questa tematica lascia con discrezione sullo sfondo i grandi temi teologici della redenzione, della colpa originale, della salvezza o della dottrina trinitaria, che sono diventati troppo ostici e difficili da spiegare a un pubblico religiosamente deculturalizzato come l’attuale. Si concentra su argomenti apparentemente più accessibili e universali come la «natura /natura umana» e appunto «la razionalità».
Parte decisiva dell’operazione ratzingeriana che declina il discorso religioso con le categorie del logos e della ragione, è il richiamo all’originaria ellenizzazione del cristianesimo. Con questo concetto si intende l’operazione culturale con la quale, tra il II e il IV secolo, gli esponenti più qualificati della Chiesa in formazione hanno strutturato, tramite categorie prese dalla tradizione platonica, i dogmi originari del cristianesimo - non senza profondi traumi e laceranti conflitti. Ma Ratzinger non si cura di quei conflitti: a lui preme presentare l’ellenizzazione come riuscito e insuperabile modello del rapporto tra ragione e fede.
Il tema dell’ellenizzazione / disellenizzazione del messaggio cristiano - fortemente sviluppato nella lezione di Ratisbona - ha colto di sorpresa e impreparati i commentatori cattolici nostrani. Ha provocato invece una vivace reazione polemica nel mondo protestante tedesco e americano e, in generale, là dove esiste ancora una cultura storica e religiosa degna di questo nome.
Da noi invece i commentatori del discorso papale continuano a elogiare soltanto l’argomento (certamente centrale) che l’autentica ragione religiosa è nemica della violenza, non solo della violenza maldestramente attribuita all’Islam con l’infelice citazione dell’imperatore bizantino poi chiarita, ma anche della violenza del nichilismo contemporaneo e dello scientismo, da cui discenderebbe il disprezzo dei valori dell’uomo.
Ma se si esamina attentamente l’argomentazione di Ratzinger si arriva presto alla conclusione che il suo bersaglio non è lo scientismo, bensì la razionalità scientifica stessa, vista come riduzione dell’orizzonte della vera ragione che si proietta verso il trascendente. Insomma la vera ragione per il Papa è «la ragione della fede», quella «che s’interroga su Dio».
A questo punto viene il dubbio se Ratzinger, nonostante la sua dichiarata ammirazione per la conoscenza scientifica, non ne disconosca di fatto l’essenziale. Che la ragione sia limitata lo sappiamo da sempre, in modo sistematico nell’età moderna a partire da Kant, verso il quale Ratzinger invece formula un giudizio sorprendentemente negativo. Ma se Ratzinger accetta l’autonomia della logica e della ricerca scientifica soltanto in una logica di subalternità alla ragione religiosa, se nega alla scienza la capacità autonoma di conoscenza sull’uomo e sulla natura, nega di fatto l’essenza stessa della ragione moderna.
Non sono io a dirlo, ma Jürgen Habermas, che i cattolici additano volentieri come il partner laico ideale del discorso religioso, fraintendendo e trasfigurando il suo colloquio con l’allora cardinale Ratzinger (in realtà si è trattato di un dialogo finto, dettato da reciproca cortesia intellettuale). Ebbene il Pontefice - ha scritto Habermas - «ha dato al vecchio dibattito sulla ellenizzazione e disellenizzazione del cristianesimo una svolta inattesa nel senso di una critica alla modernità.
Con questo, ha fornito anche una risposta negativa alla domanda se la teologia cristiana deve tenere conto delle sfide della ragione moderna, post-metafisica». Ogni possibilità di dialogo viene annientato alla radice.
DIBATTITO La postmodernità ha posto l’esigenza di riportare la fede nel discorso pubblico Come ha dimostrato l’ultima discussione tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger. I due concordano sulla necessità di scommettere sulla religione perché nelle attuali società secolarizzate essa può far crescere coscienza normativa e solidarietà civile
Processo all’Illuminismo
Ma sul futuro pesa la «razionalità plurale» espressa da Rorty e Vattimo e simbolizzata dal labirinto (Eco e Borges) e dal rizoma
di Rosino Gibellini (Avvenire, 12.07.2007)
Alle origini della postmodernità vi è l’annuncio della «morte di Dio» di Nietzsche, che toglie il fondamento ultimo alla realtà; i «sentieri interrotti» di Heidegger nei confronti di una teoria generale dell’essere; e la svolta verso il pluralismo del linguaggio di Wittgenstein. La concettualità della postmodernità è stata introdotta in filosofia dal filosofo francese Jean-François Lyotard con La condizione postmoderna (1979), caratterizzata come fine dei grands récits, dei megaracconti del progresso e delle mete finali del divenire storico; e ha inoltre i suoi filosofi in Jacques Derrida con il «decostruzionismo» e con il pensiero della «differenza»; in Gianni Vattimo con il «pensiero debole»; in Richard Rorty con il «neopragmatismo». La postmodernità come ricerca di una razionalità plurale ha i suoi simboli nel rizoma (Deleuze e Guattari), nel labirinto (Borges e Eco), e nella rete senza centro.
Un esempio illuminante di questo percorso è il dibattito, avvenuto in Europa in anni recenti, sul futuro dell’illuminismo. Subito dopo il secondo conflitto mondiale Adorno e Horkheimer pubblicavano la Dialettica dell’illuminismo (1947), nella quale i due filosofi francofortesi mostravano come il processo storico dell’illuminismo si era mutato nel suo contrario, in una universale alienazione in quanto la ragione storica si è fatta ratio del dominio sull’uomo e sulla natura.
A quarant’anni (1947-1987) dalla pubblicazione di quell’opera, che poneva in termini nuovi il dibattito sull’illuminismo e sulla sua storia degli effetti, un gruppo di eminenti studiosi ha voluto ripercorrere la «dialettica dell’illuminismo» nell’opera Il futuro dell’illuminismo (1988). Per Habermas, si tratta di individuare il «nucleo razionale» dell’illuminismo, al di là delle ambiguità storiche: questo nucleo razionale è un lascito da conservare e da sviluppare per affrontare in nuovi problemi, «che, semmai, possono esser risolti solo alla luce del sole, solo con la cooperazione, solo con le ultime gocce di una solidarietà pressoché dissanguata». Nell’ambito di questa revisione critica hanno portato il loro contributo anche i teologi Metz e Moltmann, i principali rappresentanti della teologia politica europea. Per Moltmann, la cultura dell’illuminismo «non è minacciata dall’esterno, ad esempio, dalla "sindrome conservatrice", o dalle "controrivoluzioni religiose", o dalle profezie della "fine dell’epoca moderna", o dal "postmoderno", o dalla New Age, bensì dalle contraddizioni dello stesso illuminismo».
Le «tre grandi contraddizioni» sono: a) il contrasto strutturale tra il progresso del Primo Mondo e la miseria e povertà del Terzo Mondo: «O riesce alla cultura dell’illuminismo di portare i popoli del Terzo Mondo alla libertà politica, alla giustizia sociale e all’autonomia culturale, oppure essa distrugge i due terzi dell’umanità. Per questo essa deve per così dire saltare se stessa, ossia la sua forma europea»; b) il sistema del terrore nucleare, per cui l’epoca moderna, minaccia di capovolgersi in in epoca della fine; c) la crisi ecologica, in cui è andata a sbattere la civiltà tecnico-scientifica dell’illuminismo, che rischia di portare al collasso della natura. Scrive Moltmann: «La cultura dell’illuminismo potrà conservare i suoi ideali e adempiere alle sue promesse in alleanza con il cristianesimo».
Si va dunque delineando un nuovo rapporto tra ragione e fede e può essere emblematica la discussione intervenuta tra il teologo Joseph Ratzinger e il filosofo Jürgen Habermas nel gennaio 2004, che ha avuto vasta eco internazionale, soprattutto dopo l’elezione del cardinal Ratzinger a Papa con il nome di Benedetto XVI. Nel suo discorso di Monaco di Baviera, e nella sua analisi, Habermas ripropone la questione già posta dal filosofo Böckenförde, che in un saggio del 1967 constatava che lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire.
Habermas riprende questo tema, che ora, in filosofia della politica, va sotto il nome di «teorema Böckenförde». È una previsione che aveva, in altra forma, già espresso Romano Guardini in La fine dell’epoca moderna (1950): «Il non-credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare all’"usufrutto" che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato». Secondo Habermas, una società democratica per mantenersi ha bisogno della solidarietà del cittadino, ma tale solidarietà potrebbe esaurirsi «a causa di una secolarizzazione destabilizzante della società». Sorge allora la questione, evocata da Böckenförde: dove può attingere la società democratica secolare, che fonda autonomamente se stessa da se stessa, ispirazione e forza per mantenere questo indispensabile tessuto connettivo?
C’è un fatto visibile, che si impone all’attenzione: la religione persiste; e per Habermas, essa deve essere assunta come una «sfida cognitiva». Non si tratta solo, da parte della filosofia politica, di prendere atto del fatto di questa persistenza, ma di assumerlo positivamente come «sfida cognitiva», in quanto la religione e le religioni hanno la capacità di «alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini». Ma è necessaria un’operazione di traduzione dei «contenuti di significato» della religione in termini universalmente comprensibili e recepibili nel discorso pubblico, per incorporarli nel discorso pubblico al servizio della società.
La società democratica è secolare, e rimane tale, ma può attingere linfa dalla religione; non subordina a sè la religione, non la passa in eredità (come nel caso di Bloch), la rispetta nella sua alterità di sapere rilevato, ma attinge da essa ciò che è traducibile in linguaggio pubblico, uninversalmente comprensibile. Un esempio di questa traducibilità è l’affermazione biblica secondo la quale l’uomo è stato creato a immagine di Dio, che Kant ha tradotto nel linguaggio filosof ico a tutti comprensibile, della dignità dell’essere umano, da considerare sempre come fine e mai come mezzo.
Habermas, come si era espresso nel grande discorso di Francoforte 2001, dal titolo di risonanze hegeliane, Fede e sapere, all’indomani dell’abbattimento delle Twin Towers, è preoccupato per una «secolarizzazione distruttiva»; per una «secolarizzazione che deraglia»; per «l’entropia delle scarse risorse» concettuali e spirituali; e, insieme, per le previsioni di «scontro di civiltà» come esito del confronto nel pluralismo di culture e religioni. E avanza questa proposta nell’intento di mediare tra la tesi del fondamentalismo e dell’integralismo, che nega la società secolare; e la tesi del secolarismo (Blumenberg, Löwith), che, nella tolleranza, relega la religione nella sfera del privato.
La proposta di Habermas riconosce alla religione una funzione pubblica: «La frontiera di quello che la religione può portare nella vita sociale del nostro tempo è una frontiera da esplorare nel dialogo a due».
Il cardinale Ratzinger, nel suo discorso di Monaco di Baviera (2004), manifesta un «forte accordo con quanto ha esposto Habermas su una società «post-secolare», sulla disponibilità ad apprendere e sull’autolimitazione da entrambi i lati, e avanza la proposta di «una necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una l’altra».
La proposta di Ratzinger, certo, va oltre la proposta di Habermas della «sfida cognitiva». Ma entrambe le proposte convergono nella valorizzazione della religione per la sfera pubblica nel nuovo contesto della società post-secolare.
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Teologia
La riflessione su Dio nel XX secolo
Pubblichiamo in questa pagina ampi stralci della nuova Appendice, «Il passo del Duemila in teologia», in margine al volume di Rosino Gibellini «La teologia del XX secolo» (Queriniana, pagine 752, euro 39,00). Quest’opera propone una ricostruzione globale della storia del pensiero cristiano del Novecento nei suoi momenti più significativi, nelle sue tematiche più impegnative, nei testi essenziali che ne scandiscono il percorso. Rosino Gibellini (nella foto), teologo e filosofo, è fondatore e direttore della Biblioteca di teologia contemporanea dell’Editrice Queriniana.
UNA BELLA E LUCIDA RIFLESSIONE, MA "PRE-COPERNICANA", E "PRE-FACHINELLIANA" !!! (fls)
di Umberto Galimberti (“la Repubblica”, 19.01.2007)
Eugenio Scalfari, sull’“Espresso” del 18 gennaio, interviene su un tema che entrambi consideriamo molto importante e che potrebbe essere formulato così: che ne è della nostra identità, oggi, in cui assistiamo all’indebolirsi di tutte le appartenenze territoriali, culturali, religiose, ideologiche, familiari, di genere, sessuali, che finora hanno costituito il perimetro, all’interno del quale, si è costituita, è cresciuta, ha preso forma la nostra identità?
Non stiamo diventando anime perse, senza punti di riferimento, che vagano come naufraghi nel mare di quella malintesa libertà che, svincolata da tutte le appartenenze, ritrova se stessa nella semplice possibilità di revocare tutte le scelte, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti, senza la possibilità di costruire una vera biografia?
Entrambi conveniamo che questa è la tendenza del nostro tempo, determinata dai processi di de-territorializzazione indotti dalla globalizzazione e dai processi migratori; dal relativismo culturale conseguente alla conoscenza delle altre culture resa possibile dall’enorme espansione dei mezzi di comunicazione; dal relativismo religioso per cui, chi aderisce a una fede oggi non giudica miscredente e tanto meno combatte chi aderisce ad altre fedi, preferendo, alla posizione di Ratzinger, quella relativista del vescovo del Quattrocento Niccolò Cusano, che giudicava le diverse religioni una semplice variazione di riti dell’unica religione (“una religio in varietate rituum”).
Ancora, entrambi conveniamo che forse incominciano a trovare concreta attuazione i principi illuministici della libertà individuale e della tolleranza in ordine alle modalità di convivenza che possono assumere la forma della famiglia nucleare, allargata o di fatto, in ordine all’appartenenza di genere e all’orientamento sessuale, su cui più non pesano le condanne sociali di un tempo con conseguenti pratiche di emarginazione. Ma se è vero che, da che mondo è mondo, l’identità di ciascuno è stata determinata dalle reti delle proprie appartenenze che la definivano e la identificavano, che ne è della nostra identità oggi che tutte le appartenenze si indeboliscono, si smarginano, si contaminano, diventano ciascuna permeabile all’altra?
Io vedo nell’abbattimento dei confini, entro cui la storia finora ha “confinato” popoli e individui, una grande occasione in ordine non solo a una maggior attuazione del concetto di “tolleranza”, su cui anche Eugenio Scalfari, conoscendo la matrice illuminista del suo pensiero, credo convenga, ma anche la possibilità offerta a tutti di costruire una propria identità senza la comoda protezione dell’appartenenza, e quindi un esser-se-stessi senza che nessun dispositivo territoriale, culturale, religioso, possa davvero codificarci.
Su questo punto Scalfari muove due obiezioni che vanno al cuore del problema. La prima è che “costruire un’identità deprivata delle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia”, perché le appartenenze non sono solo comodi rifugi per chi non è in grado altrimenti di darsi un’identità, ma sono quelle basi culturali che, trasmesse da generazioni a generazioni, consentono a ciascuno individuo di non partire ogni volta da zero, e soprattutto di non “appiattirsi sul presente” che, senza passato e senza futuro, o come dice Scalfari “senza storia” finisce col non sapere come orientarsi, e soprattutto col non avere alcun punto di riferimento che non siano le occasioni del presente.
Vero. Ho sempre in mente un mio bravissimo studente, che dopo essersi laureato in Filosofia con un’ottima tesi, mi chiese se poteva concorrere per un dottorato. Alla mia osservazione che un dottorato in Filosofia non gli avrebbe dato, rispetto alla laurea, maggiori occasioni per inserirsi nel mondo del lavoro, mi rispose: “Lo so, ma almeno per tre anni faccio quello che mi piace e quindi sto bene”. Appiattimento sull’assoluto presente, perché la formula del passato, che premiava con una carriera accademica i migliori, oggi non trova più attuazione, e il futuro non appare più come una promessa, ma come un’incognita, quando non come una minaccia. La storia, fatta di presente, passato e futuro, sembra abbia perso la sua capacità di costruire identità, sostituita in questo dalla tecnica, che ha risolto l’identità di ciascuno nella sua “funzionalità” all’interno degli apparati di appartenenza che si incaricano di distribuire identità. Del resto che significato ha quel gran circolare di biglietti da visita, dove l’identità di ciascuno è data dalla sua collocazione all’interno dell’apparato di appartenenza, e dove il proprio nome e cognome acquista rilievo solo a partire dalla funzione che all’interno dell’apparato ciascuno svolge?
Nell’assegnare identità e appartenenza la tecnica ha sostituito la storia. E questo non è un inconveniente da poco perché, mentre la storia è percorsa dall’idea di “progresso” che porta in sé quel tratto “qualitativo” tendenzialmente indirizzato al miglioramento delle condizioni umane, la tecnica segue solo linee di “sviluppo” che segnano un incremento “quantitativo” molto spesso afinalizzato. Non ci sarebbe infatti tanta inquietudine, tanto stress, tanto consumo di psicofarmaci, tante domande circa il senso della propria esistenza, se un fine, uno scopo, un’idea, un ideale, un valore facesse la sua comparsa nell’età della tecnica. Nasce da qui quel risveglio religioso che fa contenti gli uomini di fede, i quali promettono un senso al di là della terra. Ma è su questa terra che, sia io sia Scalfari, vorremmo trovare tracce di sensatezza, magari potenziando la cultura e quindi la scuola, dove la cultura si trasmette, affinché l’uomo non si rassegni a diventare un semplice ingranaggio nel meccanismo della tecnica, per giunta con qualche inconveniente e qualche inadeguatezza rispetto alle macchine che quotidianamente utilizza (Günther Anders, L’uomo è antiquato).
E qui si affaccia la mia seconda proposta che invita ciascuno di noi, nel desertificarsi di tutte le appartenenze, a riprendere l’antico messaggio dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. A questo proposito Eugenio Scalfari interviene obiettando che, dopo aver seguito per molto tempo questo invito, è giunto alla conclusione (che potrebbe far impallidire tutti gli psicoanalisti) che questa conoscenza di sé è di fatto impossibile perché, scrive opportunamente Scalfari dall’alto della sua biografia: “Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l’io, la nostra mente a capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il “sé”, cioè l’essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell’inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza”.
Se la psicoanalisi facesse tesoro di queste considerazioni avrebbe una buona occasione per riattivare il proprio pensiero, oggi un po’ pigro e stantio, abbandonare la propria pretesa, talvolta eccessiva, di trasformare o cambiare la condizione di quanti a lei si rivolgono, e indirizzare la conoscenza di sé là dove Nietzsche la indica: “Diventa ciò che sei”. Prendi coscienza, nei limiti che ti è consentito, delle tue potenzialità e delle tue non idoneità, sviluppa le prime e rinuncia alle seconde, evitando di sognare di poter diventare ciò che non sei, perché attratto dai modelli che questa società ti propone e che non ti corrispondono. “Diventa ciò che sei” potrebbe essere allora il modo di costruire un’identità nel deserto delle apparenze dovuto al defilarsi della storia, e nella coercizione in quell’appartenenza a cui la tecnica ci costringe, senza che noi ci si possa davvero identificare.
Riconosco che le mie, più che proposte, sono possibili vie d’uscita dal dominio incontrastato che la tecnica e l’economia, e non più la storia, sembrano esercitare nella nostra epoca. E perciò ringrazio Eugenio Scalfari per aver prestato attenzione a questo tema, che a me pare alla base delle ansie e anche dei dissesti esistenziali dell’uomo d’oggi. E di essere intervenuto con osservazioni perfettamente mirate che hanno consentito di approfondire il problema venendo così incontro all’inquietudine del nostro tempo in cui, per dirla con Hölderlin: “Più non son gli dèi fuggiti, e ancor non sono i venienti”.
IN LUNGHE CATENE DIFFICILI DA SPEZZARE
di AUGUSTO CAVADI *
Per diventare misogino, essere cattolico non e’ necessario. Ma aiuta. Non e’ necessario: infatti i rudimenti della concezione della donna come maschio quasi perfetto me li ha impartiti un padre miscredente, laico, socialista (pre-craxiano: nenniano). Ma aiuta: infatti, quando - con stupore e disappunto da parte dei miei genitori - sono entrato nell’associazionismo cattolico, ho ben presto misurato la distanza fra la rivoluzionarieta’ di certe asserzioni ed il conservatorismo della pratica quotidiana. Da una parte il papa scriveva che l’essere umano puo’ considerarsi "imago Dei" solo in quanto coppia; dall’altra, si dava (e si da’) per scontato che una persona di sesso femminile non possa presiedere una comunita’ celebrante. Il mio esodo - progressivo, ma inarrestabile - dalla cultura cattolica passo’ per un episodio preciso. Un prete piu’ anziano di me - peraltro tra i piu’ preparati della sua generazione - volendo esprimere con forza il suo dissenso da una mia opinione, trovo’ spontaneo apostrofarmi con un inequivoco: "Ma hai proprio un cervello da femmina!". Obiettai solo, con un sorriso amaro, che speravo di averne meta’ femminile e meta’ maschile: in modo che, junghianamente, sarei potuto essere "completo".
So che certe distinzioni risultano fastidiose o, per lo meno, farraginose. Ma non sempre si possono evitare. Per esempio, quella suggerita da un’acuta fucilata di Nietzsche (recentemente definito da Rene’ Girard il piu’ grande teologo dopo san Paolo): c’e’ stato un solo cristiano ed e’ morto sulla croce. Che, tradotto in altri termini, significa: una cosa e’ stata la "buona notizia" annunziata dal maestro nomade di Galilea ed un’altra la dottrina cattolica (e, piu’ in generale, cristiana) che si e’ sviluppata a partire da quel seme. La psicanalista e teologa protestante Hanna Wolff lo ha spiegato in uno dei quattro o cinque libri che mi hanno cambiato la vita (Gesu’, la maschilita’ esemplare, Queriniana, Brescia 1985): il Nazareno (per quanto possiamo cogliere da un’esegesi accurata dei quattro vangeli) ha saputo accettare il femminile dentro di se’ e, proprio per questo, non aver paura del femminile fuori di se’. Egli ha dunque rotto con la tradizione patriarcale precedente, ma la sua rottura e’ stata tanto eclatante che i discepoli non sono riusciti a reggerla: e, subito dopo la sua morte, hanno attivato processi di normalizzazione. Col risultato che, dopo la breve parentesi gesuana, l’antifemminismo ha ripreso vigore, si e’ fatto senso comune e ha improntato di se’ l’occidente cristiano.
Se ci chiediamo se questa mentalita’ della disparita’ ontologica e psicologica fra maschi e femmine (dura a destrutturarsi persino oggi, dopo decenni di femminismo teorico e militante) spieghi, da sola, l’impressionante catena di violenza contro le donne, non possiamo che rispondere negativamente. Che cosa, allora, trasforma una cultura maschilista in pratiche prevaricatrici? Ho l’impressione che entri in gioco non questo o quell’altro fattore, bensi’ un groviglio - difficilmente solubile - di fattori. Tra cui primeggia una connotazione peculiare dell’immagine femminile agli occhi di noi uomini: la diversita’. Sin da bambino, il pianeta-donna ha esercitato nei miei confronti una duplice, contraddittoria, forza: di attrazione e di paura, di curiosita’ e di diffidenza, di desiderio e di minaccia. Per ragioni varie, che solo in minima parte potrei attribuire a meriti miei, maturare come persona ha significato - tra l’altro - sciogliere questa ambiguita’ e lasciar prevalere, di fronte ad ogni diversita’ (le donne, ma anche gli omosessuali, gli immigrati di colore, i portatori di handicap fisici e psichici...), il sapore della familiarita’ rispetto al sentimento di estraneita’. Ovviamente, familiarita’ non equivale ad omologazione. Avvertire cio’ che, in radice, accomuna non implica cecita’ riguardo alle differenze che interpellano le nostre certezze.
Qui, forse, uno dei bivi decisivi. C’e’ chi accetta la sfida della diversita’ (e, nel caso di maschi, del femminile come metafora di ogni diversita’) per mettersi in gioco, per riaffermare alcune convinzioni ma anche liberarsi da pregiudizi e da errati giudizi; e c’e’ chi non la regge e, per quanto sta in lui, tenta di sopprimerla. Non e’ un caso che, di solito, le idiosincrasie s’inanellino in lunghe catene difficili da spezzare: misoginia, omofobia, razzismo... E’ di per se’ evidente che questa mentalita’ sia - gia’ a livello ideologico - violenta. Ma, poiche’ in genere il diverso e’ piu’ debole (fisicamente, economicamente, militarmente...), il pensiero omologante ha mille occasioni per farsi gesto prepotente: stupro, derisione, schiavizzazione... Quando un soggetto allergico alla diversita’ si impossessa - sessualmente o socialmente - dell’altro, ha la sensazione di aver risolto molti problemi in un solo colpo: da una parte ha soddisfatto attrazione, curiosita’, desiderio; dall’altra ha cancellato dal proprio orizzonte ogni fonte di paura, di diffidenza, di minaccia. Ma, proprio nella misura in cui riesce a fagocitare e a spazzar via ogni alterita’, egli desertifica il piccolo mondo che lo circonda e costruisce da se’ la prigione dell’isolamento. Ecco un punto nevralgico: chi progetta ed esercita violenza, nonostante le intenzioni, si condanna alla solitudine. Come i signorotti medievali, deve scavare fossati sempre piu’ profondi per distanziarsi dagli estranei: ma, con cio’, trasforma in gabbie dorate il suo stesso castello. Sara’ proprio perche’ amo la solitudine come opzione, ma la detesterei se la sperimentassi in tempi e modi non programmati, che mi viene abbastanza facile sottrarmi alla tentazione di usare violenza. Cio’ non significa, purtroppo, che di fatto non sia stato troppe volte violento - nel corso della vita - con persone diverse da me per indole, formazione e prospettive (quali, per esempio, delle donne con cui ho condiviso tratti di strada importanti): ma ogni volta che non ho saputo gestire il conflitto, provocando nell’altro/a la decisione di fuggire, l’ho considerata - nonostante le apparenze - una mia sconfitta.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 80 del 5 maggio 2007 - articolo apparso su "Mezzocielo", anno XV, n. 1, 2007, dal titolo originale "Un uomo davanti al pianeta donna"
Messaggio del Pontefice letto in Vaticano. "La corsa al nucleare getta ombre minacciose sull’umanità". Appello a tutti i cristiani: "Siate strenui difensori della dignità della persona e dei diritti umani"
Il Papa: "Eutanasia e aborto sono attentati alla pace" *
CITTA’ DEL VATICANO - Benedetto XVI denuncia "lo scempio" che nella nostra società si fa del "diritto alla vita". Nel messaggio per la Giornata mondiale della Pace, che si celebra il primo gennaio 2007, Papa Ratzinger parla con dolore delle morti silenziose "provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia". E si chiede: "Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?"
Il testo, letto questa mattina in Vaticano dal cardinal Raffaele Martino e da monsignor Giampaolo Crepaldi, presidente e segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, affronta diversi temi. Pensando in modo speciale ai bambini vittime di soprusi e violenze da parte di adulti senza scrupoli, il messaggio è stato titolato ’’La persona umana, cuore della pace’’.
I pericoli per la pace, dalle diseguaglianze sociali al terrorismo. "Se si pone la persona umana al centro del sistema sociale e dei rapporti culturali e religiosi si riesce più facilmente a garantire la pace che ora nel mondo è sottoposta a numerosi pericoli e sfide costituite dalla violazione dei diritti umani, dalle disuguaglianze sociali e di genere, dal terrorismo, dal pericolo nucleare, dagli attentati alla vita con la fame, l’aborto, l’eutanasia, la sperimentazione sugli embrioni, il degrado ecologico", scrive Benedetto XVI.
Libano, violato il diritto internazionale. Durante il recente conflitto che ha scosso il Libano del sud non è stato osservato l’obbligo di proteggere la popolazione civile e dunque è stato violato il diritto internazionale umanitario, denuncia il Papa nel suo messaggio, ricordando la necessità per gli stati di rispettare anche in caso di guerra il diritto internazionale umanitario.
Corsa al nucleare, ombre minacciose sull’umanità. "Purtroppo ombre minacciose continuano ad addensarsi all’orizzonte dell’umanità", dice ancora Benedetto XVI. Non cita mai apertamente l’Iran o la Corea del Nord ma le sue parole non possono che essere lette in questo contesto quando parla della corsa al nucleare da parte di alcune nazioni: "Suscita grande inquietudine" la "volontà, manifestata di recente da alcuni Stati, di dotarsi di armi nucleari". "Ne è risultato ulteriormente accentuato - si legge nel messaggio - il diffuso clima di incertezza e di paura per una possibile catastrofe atomica. Ciò riporta gli animi indietro nel tempo, alle ansie logoranti del periodo della cosiddetta guerra fredda".
Rispetto e intesa fra religioni e culture. Benedetto XVI propone poi il rispetto ’’della grammatica scritta nel cuore dell’uomo dal divino suo Creatore’’ in base alla quale è possibile trovare una base comune di intesa tra religioni e culture. Infatti, sostiene il Papa, ’’il riconoscimento e il rispetto della legge naturale costituiscono anche oggi la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti. E’ questo un grande punto di incontro e, quindi, un fondamentale presupposto per un’autentica pace’’.
E’ importante - rileva inoltre papa Ratzinger - questo convenire di culture, religioni e non credenti sul riconoscimento della legge naturale anche nei riguardi della persona umana, dal momento che persistono nel mondo concezioni riduttive dell’uomo che mettono in serio pericolo i suoi diritti fondamentali, non negoziabili e, quindi, la pace stessa.
Appello ai cristiani: difendete i diritti umani. Ogni cristiano sia "un infaticabile operatore di pace" oltre che uno "strenuo difensore della dignità della persona umana e dei suoi inalienabili diritti". Papa Ratzinger conclude il messaggio con un "pressante appello" al popolo di Dio. "Non venga quindi mai meno il contributo di ogni credente - scrive - alla promozione di un vero umanesimo integrale, secondo gli insegnamenti delle Lettere encicliche ’Populorum progressio’ e ’Sollicitudo rei socialis’, delle quali ci apprestiamo a celebrare proprio quest’anno il 40esimo e il 20esimo anniversario".
Come ogni anno, il testo e’ stato inviato a tutti i vescovi del mondo e sara’ recapitato dai nunzi a tutti i capi di Stato e di governo, accreditati presso il Vaticano, ma attraverso opportuni canali sarà fatto pervenire pure a quei paesi che non hanno relazioni diplomatiche con la S.Sede.
Distribuito in italiano, inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, il messaggio sarà tradotto in altre lingue dalle rispettive conferenze episcopali, e anche in arabo.
* la Repubblica, 12 dicembre 2006.
apertura
Benedetto XVI a tutto campo sui temi della guerra e dei diritti. Legando a un unico filo della vita da difendere l’atomica e gli embrioni
di Mimmo de Cillis*
Papa Ratzinger è un fiume in piena. Nel messaggio annuale per la Giornata mondiale della pace, che la chiesa celebra il primo gennaio, Benedetto XVI spazia a 360° fra argomenti come pace, guerra, terrorismo, uguaglianza, ecologia, diritti umani, e ancora persona, aborto, eutanasia, visione dell’uomo e concezione di Dio. Negli ultimi tempi il papa ha proposto discorsi densi, che toccano temi di attualità e finiscono per catalizzare l’attenzione dei mass media. Ratzinger non ha timore di intervenire su temi che stanno monopolizzando l’attenzione dei governi e dell’opinione pubblica. Il messaggio per la Giornata mondiale della pace rappresenta la magna charta per l’impegno della Santa sede, e della chiesa tutta, sulle questioni della pace e della giustizia.
E’ un documento che offre le linee direttrici per un anno intero. In quello per il 2007, presentato ieri, Ratzinger ribadisce che pace e giustizia hanno l’origine primaria in una sana visione della persona («un pensiero forte»); nel tenere ferma la sua centralità e il suo valore assoluto, fondato su una dignità di matrice trascendente, cioè sull’immagine del creatore. Per questo il messaggio titolato «Persona umana, cuore della pace» tocca temi come il diritto alla vita, l’aborto e l’eutanasia, questioni che, a prima vista, sembrerebbero avere poco a che vedere con la pace.
La pace, scandisce Ratzinger, è «dono e compito», cioè dipende un po’ da Dio e un po’ dall’uomo. Dio l’ha scritta nella natura attraverso una «grammatica trascendente», cioè un insieme di regole che, se rispettate, portano il genere umano all’armonia; oppure, se violate, al caos e alla prevaricazione. Questa grammatica è la «legge naturale», la teoria dei «diritti naturali», cavallo di battaglia su cui gioca l’intero impianto filosofico-antropologico cristiano, e in particolar modo quello proposto dal Ratzinger filosofo e teologo. Una legge, a detta del papa, «iscritta nelle coscienze» (dunque per riconoscerla non bisogna essere necessariamente credenti), che nel contempo «rispecchia il progetto sapiente di Dio». Questo insieme di norme, riconoscibili con la pura razionalità, non devono dunque apparire una coartazione, ammonisce il papa, rivolgendosi, in qualche modo, anche ai non cristiani: è questo infatti il «terreno fecondo» su cui impostare un dialogo fra cristiani, fedeli di altre religioni e non credenti.
Il primo diritto, argomenta Ratzinger, è quello alla vita, «un dono di cui il soggetto non ha la completa disponibilità». La pace presuppone, infatti, il riconoscimento di valori e realtà «non disponibili», cioè su cui l’uomo stesso non ha completo potere. Ecco l’aggancio con «lo scempio che si fa nella nostra società: accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia». Il pontefice sembra strabuzzare gli occhi quando si chiede: «Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace? L’aborto e la sperimentazione sugli embrioni costituiscono la diretta negazione dell’atteggiamento di accoglienza verso l’altro, indispensabile per instaurare durevoli rapporti di pace».
Il discorso si sofferma poi sulla necessaria uguaglianza fra persone (e sulle disuguaglianze come sorgenti di conflitto), sull’ecologia, che non è solo «della natura», ma anche «umana» e «sociale», nel senso che se l’umanità violenta la creazione si autodistrugge. Anche questa violenza è frutto di una «idea disumana di sviluppo», e quindi il circolo si chiude: Ratzinger torna a indicare una corretta visione dell’uomo e anche una giusta concezione di Dio, che esclude ogni possibile ricorso alla violenza.
Ma la pace non «è messa in questione solo dal conflitto tra le ideologie», bensì anche «dall’indifferenza per ciò che costituisce la vera natura dell’uomo». Una concezione «debole» della persona, sottolinea il papa, indebolisce tutto l’impianto dei diritti umani, rende cioè più facile esporre l’uomo all’arbitrio della violenza e della sopraffazione. Anche i diritti umani, dunque - che pongono alcuni valori assoluti, come la dignità inalienabile dell’individuo - dovrebbero avere un fondamento assoluto («nella natura stessa dell’uomo») e non relativo (il pericolo del relativismo è sempre dietro l’angolo).
Dai diritti umani al «diritto umanitario internazionale» il passo è breve: qui Ratzinger indica l’urgenza di applicarlo sempre, in tutti i contesti belligeranti (ricordando il Libano), e cita il pericolo di una nuova corsa al nucleare, foriera di una catastrofe, parlando di «ombre minacciose che continuano ad addensarsi all’orizzonte dell’umanità», chiedendo l’immediato smantellamento degli ordigni. Un messaggio a tutto tondo, insomma, dall’embrione alla guerra nucleare. Papa Ratzinger non lascia passar nulla.
*Lettera22
* il manifesto, 13.12.2006
I VESCOVI E IL PAESE
«Anche in una visione puramente laica, l’inviolabilità della vita è l’unico, irrinunciabile principio da cui partire per garantire a tutti giustizia, uguaglianza e pace», afferma il testo diffuso ieri
Il messaggio della Cei per la «Giornata» del 2007
«L’amore vero per la vita, non falsato dall’individualismo, è incompatibile con l’idea del possesso indiscriminato che induce a pensare che tutto sia "mio"» «Guardiamo ai giovani con speranza. Serve un “sì” lungimirante e forte a sostegno della famiglia, fondata sul matrimonio, delle nuove generazioni e dei più disagiati»
Il Consiglio Episcopale Permanente Della Conferenza Episcopale Italiana
«Amare e desiderare la vita» è il titolo del Messaggio del Consiglio episcopale permanente della Conferenza episcopale italiana per la 29ª «Giornata per la vita», che la Chiesa italiana celebrerà il 4 febbraio 2007. Pubblichiamo il testo integrale del Messaggio.
Non si può non amare la vita: è il primo e il più prezioso bene per ogni essere umano. Dall’amore scaturisce la vita e la vita desidera e chiede amore. Per questo la vita umana può e deve essere donata, per amore, e nel dono trova la pienezza del suo significato, mai può essere disprezzata e tanto meno distrutta. Certo, i giorni della vita non sono sempre uguali: c’è il tempo della gioia e il tempo della sofferenza, il tempo della gratificazione e il tempo della delusione, il tempo della giovinezza e il tempo della vecchiaia, il tempo della salute e il tempo della malattia... A volte si è indotti spontaneamente ad apprezzare la vita e a ringraziarne Dio, «amante della vita» (Sap 11,26), altre volte la fatica, la malattia, la solitudine ce la fanno sentire come un peso.
Ma la vita non può essere valutata solo in base alle condizioni o alle sensazioni che la caratterizzano nelle sue varie fasi; essa è sempre un bene prezioso per se stessi e per gli altri e in quanto tale è un bene non disponibile. La vita, qualunque vita, non potrà mai dirsi «nostra». L’amore vero per la vita, non falsato dall’egoismo e dall’individualismo, è incompatibile con l’idea del possesso indiscriminato che induce a pensare che tutto sia «mio»; «mio» nel senso della proprietà assoluta, dell’arbitrio, della manipolazione. «Mio», ossia ne posso fare ciò che voglio: il mio coniuge, i miei figli, il mio corpo, il mio presente e il mio futuro, la mia patria, la mia azienda, perfino Dio al mio servizio, strumentalizzato fino al punto da giustificare, in suo nome, omicidi e stragi, nel disprezzo sommo della vita.
Se siamo attenti, qualcosa dentro di noi ci avverte che la vita è il bene supremo sul quale nessuno può mettere le mani; anche in una visione puramente laica, l’inviolabilità della vita è l’unico e irrinunciabile principio da cui partire per garantire a tutti giustizia, uguaglianza e pace. Chi ha il dono della fede, poi, sa che la vita di una persona è più grande del percorso esistenziale che sta tra il nascere e il morire: ha origine da un atto di amore di Colui che chiama i genitori a essere «cooperatori dell’amore di Dio creatore» (Familiaris consortio n. 28). Ogni vita umana porta la Sua impronta ed è destinata all’eternità. La vita va amata con coraggio. Non solo rispettata, promossa, celebrata, curata, allevata. Essa va anche desiderata. Il suo vero bene va desiderato, perché la vita ci è stata affidata e non ne siamo i padroni assoluti, bensì i fedeli, appassionati custodi.
Chi ama la vita si interroga sul suo significato e quindi anche sul senso della morte e di come affrontarla, sapendo però che il diritto alla vita non gli dà il diritto a decidere quando e come mettervi fine. Amandola, combatte il dolore, la sofferenza e il degrado - nemici della vita - con tutto il suo ingegno e il contributo della scienza. Ma non cade nel diabolico inganno di pensare di poter disporre della vita fino a chiedere che si possa legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà. Né si accanirà con terapie ingiustificate e sproporzionate. Nei momenti estremi della sofferenza si ha il diritto di avere la solidale vicinanza di quanti amano davvero la vita e se ne prendono cura, non di chi pensa di servire le persone procurando loro la morte.
Chi ama la vita, infatti, non la toglie ma la dona, non se ne appropria ma la mette a servizio degli altri. Amare la vita significa anche non negarla ad alcuno, neppure al più piccolo e indifeso nascituro, tanto meno quando presenta gravi disabilità. Nulla è più disumano della selezione eugenetica che in forme dirette e indirette viene sempre più evocata e, a volte, praticata. Nessuna vita umana, fosse anche alla s ua prima scintilla, può essere ritenuta di minor valore o disponibile per la ricerca scientifica. Il desiderio di un figlio non dà diritto ad averlo ad ogni costo. Un bambino può essere concepito da una donna nel proprio grembo, ma può anche essere adottato o accolto in affidamento: e sarà un’altra nascita, ugualmente prodigiosa.
Il nostro tempo, la nostra cultura, la nostra nazione amano davvero la vita? Tutti gli uomini che hanno a cuore il bene della vita umana sono interpellati dalla piaga dell’aborto, dal tentativo di legittimare l’eutanasia, ma anche dal gravissimo e persistente problema del calo demografico, dalle situazioni di umiliante sfruttamento della vita in cui si trovano tanti uomini e donne, soprattutto immigrati, che sono venuti nel nostro Paese per cercare un’esistenza libera e dignitosa. È necessaria una decisa svolta per imboccare il sentiero virtuoso dell’amore alla vita. Non bastano i «no» se non si pronunciano dei «sì», forti e lungimiranti a sostegno della famiglia fondata sul matrimonio, dei giovani e dei più disagiati.
Guardiamo con particolare attenzione e speranza ai giovani, spesso traditi nel loro slancio d’amore e nelle loro aspettative di amore. Capaci di amare la vita senza condizioni, capaci di una generosità che la maggior parte degli adulti ha smarrito, i giovani possono però talora sprofondare in drammatiche crisi di disamore e di non-senso fino al punto di mettere a repentaglio la loro vita, o di ritenerla un peso insopportabile, preferendole l’ebbrezza di giochi mortali, come le droghe o le corse del sabato sera. Nessuno può restare indifferente.
Per questo, come Pastori, vogliamo dire grazie e incoraggiare i tanti adulti che oggi vivono il comandamento nuovo che ci ha dato Gesù, amando i giovani come se stessi. Grazie ai genitori, ai preti, agli educatori, agli insegnanti, ai responsabili della vita civile, che si prendono cura dei giovani e li accolgono con i loro slanci entusiasti, ma anche con i loro problemi e le l oro contraddizioni. Grazie perciò a quanti investono risorse per dare ai giovani un futuro sereno e, in particolare, una formazione e un lavoro dignitosi.
Sì, la vita umana è un’avventura per persone che amano senza riserve e senza calcoli, senza condizioni e senza interessi; ma è soprattutto un dono, in cui riconosciamo l’amore del Padre e di cui sentiamo la dolce e gioiosa responsabilità della cura, soprattutto quando è più debole e indifesa. Amare e desiderare la vita è, allora, adoperarsi perché ogni donna e ogni uomo accolgano la vita come dono, la custodiscano con cura attenta e la vivano nella condivisione e nella solidarietà.
Roma, 21 novembre 2006 Memoria della Presentazione della Beata Vergine Maria
* Avvenire, 21.11.2006
Scola: il valore dell’esistenza si scopre nell’incontro con l’altro
Un appello a ragazzi, educatori e genitori: lo ha rivolto il patriarca di Venezia analizzando i recenti «episodi di violenza e bullismo»
Da Venezia Francesco Dal Mas (Avvenire, 21.11.2006)
Ancora una volta, i veneziani, ai piedi della Madonna della Salute, come accade da secoli, per sciogliere l’antico voto. E riscoprire il valore della vita.
È stata la raccomandazione del patriarca Angelo Scola, lunedì sera, a migliaia di giovani in pellegrinaggio da San Marco alla Basilica della Salute e ieri nella solenne concelebrazione in santuario. Raccoglie - e rilancia - una domanda di tanti ragazzi, il cardinale. Magari di quegli stessi ragazzi che si rendono protagonisti di episodi di bullismo o di violenza. «Dove trova consistenza la mia vita?», «cosa la fa degna, carica di valore?», sembrano chiedersi questi giovani.
Ed ecco la risposta di Scola: «Il valore della mia vita si scopre solo e sempre nell’incontro con l’altro, con gli altri, nel reciproco riconoscimento della necessità del tu, di ogni tu per il mio io».
«Solo l’armonica ed ordinata sinfonia di un "noi" compie l’io e lo libera dal rischio del branco e della banda», ricorda il patriarca ai ragazzi, ma anche ai loro genitori, agli insegnanti, insomma agli adulti. Costruire comunità così sinfoniche non è facile, ma non impossibile: «dipende da adulti che siano uomini e donne tendenzialmente riusciti». È un concetto che non si stanca mai di ripetere, il cardinale. E lo fa anche davanti ad una folla di fedeli che la Basilica non riesce a contenere. «Non si è padri e madri, infatti, se non si continua ad essere figli, se non ci si lascia educare dal Padre in Cristo Gesù nella Chiesa nostra madre a prendere sul serio il nostro bisogno umano: vivere una vita degna, certi del suo significato positivo, e perciò impegnati con pazienza e tenacia a costruirla, senza paura del sacrificio».
Esemplifica il cardinale: «Chiediamoci con sincerità: il proliferare di rapporti affettivi deboli che si succedono con grande rapidità senza lasciar traccia, non favorisce forse una certa incapacità di riconoscere il valore della propria persona e di quella altrui?». Insiste Scola: «Rapporti che non durano - male che intacca le nostre stesse famiglie - sono forse in grado di indicare ai nostri figli la strada dell’amore che ama per primo, gratuitamente?». E ancora: «In una società in cui si decide che far sacrifici per mettere al mondo dei figli o addirittura per tenere in vita qualcuno è privo di senso, come stupirci se la modalità normale di affrontare la vita tende a prescindere da qualsiasi idea di sacrificio?».
Mentre parla il patriarca ha davanti le immagini di queste settimane in cui «siamo stati particolarmente colpiti dagli episodi di violenza e bullismo che si sono ripetuti nelle nostre città». Episodi che riguardano ogni ceto sociale, «non potendo così essere riconducibili né ultimamente spiegabili solo a partire da un’analisi delle condizioni socio-economiche in cui vivono i ragazzi e i giovani implicati».
Ai piedi della Madonna della Salute, non è il caso di interrogarsi sulle cause, quanto sui cambiamenti che questi «tristi episodi» impongono. Non ha dubbi il patriarca: «La violenza fisica e morale, soprattutto verso i più deboli, unita alla smania di contare ad ogni costo, sono da condannare e da arginare con energia e decisione». «Tuttavia - puntualizza - la nostra condanna non può negare che questi atteggiamenti celino da parte dei giovani anche una precisa domanda: "dove trova consistenza la mia vita?", "cosa la fa degna, carica di valore?". Né loro né noi, infatti, possiamo affrontare l’esistenza quotidiana se non ne riconosciamo il valore; ma perché questo avvenga non basta deciderlo a partire da noi stessi».
Quel desiderare la vita che è gioia e coraggio
di Marina Corradi (Avvenire, 22.11.2006)
Nel febbraio del 1917 una nave statunitense recante le insegne della Croce rossa fu silurata nelle acque della Manica dai sottomarini dell’esercito tedesco, convinto che a bordo si trovassero truppe dirette in Europa. Sulla “Sussex” non c’erano soldati, ma invece civili malati, vecchi e bambini. Mentre la nave colpita imbarcava acqua e i passeggeri impazziti si gettavano sulle scialuppe, una vecchia suora notò una madre sola con tre bambini, la più piccola dei quali aveva pochi mesi di vita. Nella mischia di chi lottava per salvarsi la vita, la vecchia suora trovò il tempo di avvolgere stretta la neonata in un paio di lunghe calze di lana, dentro le quali fu passata di braccia in braccia fin dentro una scialuppa. Nella notte rigidissima della Manica in febbraio, quella lana salvò probabilmente la vita alla bambina, in tempi in cui non esistevano gli antibiotici, e forse gliela allungò, giacché questa storia ce l’ha raccontata quella stessa scampata, che era figlia di italiani, e oggi ha 90 anni, e figli e nipoti. Quanto alla vecchia suora, la madre della neonata non seppe mai, nella calca, se si era salvata o no. Singolare comunque, sul ponte di una nave che sta affondando, quando morire sembra più probabile che sopravvivere, quel gesto di protezione per una figlia d’altri, mai vista prima, e, fra tutti, la più piccola. Quasi, in quel momento di destino angoscioso e incerto, un voler salvare la vita più giovane, appena all’aurora, come dicendo che non era quel mare livido e gelido, e la guerra e la morte, l’ultima parola.
Questa storia di una guerra lontana ci è tornata in mente a un passo del messaggio della Conferenza episcopale italiana per la prossima giornata della vita, che cade il 4 febbraio 2007. «La vita va amata con coraggio. Non solo rispettata, promossa, curata, allevata. Essa va anche desiderata. Il suo vero bene va desiderato, perché la vita ci è stata affidata e non ne siamo i padroni assoluti, bensì i fedeli, appassionati custodi».
Non solo rispettare, allevare, curare, ma desiderare la vita. Altrimenti, si potrebbe essere solo come bravi coltivatori, attenti al terreno, all’acqua e al sole. Desiderare è di più, è spiare i germogli e compiacersi dei frutti maturi. È non aver paura nemmeno delle zolle nere e spaccate di novembre, certi che proprio lì sotto, nell’apparente trionfo della morte, rinasceranno i semi. E, quindi, è saper stare anche accanto a uno che sta morendo, senza lasciarsi prendere dalla disperazione, senza che quello ci legga in faccia che non c’è alcun senso, in quelle sue ultime ore.
Ha scritto la filosofa ebrea Hannah Arendt che «Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono fatti per morire ma per incominciare». Non per morire, ma per incominciare. Quando nasciamo e quando moriamo. È questo eterno nostro cominciare, ciò che dobbiamo, oltre che curare, desiderare. Esserne «appassionati custodi». Come quella suora sulla Manica, quella sconosciuta di quasi cent’anni fa.
Alle radici della questione antropologica: Novecento in bilico tra tecnica e persona
Oggi l’antropologia filosofica non è più d’impronta idealistica, esistenzialistica o psicoanalitica: assistiamo invece alla ripresa del positivismo naturalista
di Vittorio Possenti *
Scienza e filosofia rischiano di perdere di vista la persona in un atteggiamento che spesso le ha condotte lungo i sentieri dell’ideologia e del riduzionismo. Per coloro che non accettano quest’esito è tempo di «raddrizzare la barca» e di riprendere a meditare sulla persona: il tentativo è stato avviato in varie scuole filosofiche del Novecento, con esiti incerti in rapporto ai numerosi eventi di grande portata che si parano sul cammino. Si avverte l’urgenza di una rinascita personalista dinanzi agli immensi poteri mediatici, economici, militari, scientifici che spesso si accaniscono nel diminuire l’uomo, nel farne un essere asservito, umiliato, offeso.
Da tempo si è imposta la «questione antropologica»: l’uomo è messo in questione tanto nella sua base biologica e corporea quanto nella coscienza che forma di se stesso. E ciò non soltanto astrattamente, ma praticamente, perché le nuove tecnologie della vita incidono sul soggetto, lo trasformano, tendono ad operare un mutamento nel modo di intendere nozioni centrali dell’esperienza di ognuno: essere generato oppure prodotto, nascere, vivere, procreare, cercare la salute, invecchiare, morire. Si tratta di trasformazioni di nuclei sensibilissimi che hanno interessato migliaia di generazioni e che costituiscono il tessuto fondamentale dell’esperienza umana in tutti i luoghi e tempi. Il rapporto tra Persona e Tecnica costituisce uno dei temi più complessi dell’epoca.
Sembra che quanto più le scienze cercano di stringere da presso la conoscenza dell’uomo, tanto più questa si divincoli e sfugga alla presa dei saperi scientifico-analitici. La sfida si era già dispiegata dinanzi all’occhio di Pascal: «Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa comunicazione che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze astratte non si addicono all’uomo, e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondirne lo studio, che gli altri con l’ignorarle. Ho perdonato agli altri di saperne poco, ma credevo almeno di trovare molti compagni nello studio dell’uomo. Sbagliavo: son meno ancora di quelli che studiano le matematiche».
Con questo pensiero Pascal propone la domanda antropologica pochi anni dopo l’infausta separazione cartesiana fra pensiero-mente e corpo-estensione, secondo cui l’io risiede nel pensiero e il corpo - affidato alla contingenza - è pronto per essere attribuito alla regia della scienza e ad entrare nell’area del dominio tecnico. Il presupposto di non poche utilizzazioni recenti delle scoperte genetiche e biologiche può venire individuato nel dualismo cartesiano. La semplicistica divisione dei compiti fra scienza e filosofia - alla scienza la res extensa e alla filosofia il pensiero - è diventata un ostacolo al sapere, in specie a quello vertente sulla vita che si rifiuta a essere ridotta a mera estensione. L’antropologia filosofica attuale non è più d’impronta idealistica o esistenzialistica o psicoanalitica. Accade invece una ripresa del positivismo col suo correlato quasi necessario che è il naturalismo: ciò comporta che l’antropologia filosofica appartenga alle scienze della natura. L’assunto era presente in filoni dell’illuminismo del Settecento e Destutt de Tracy lo attesta scrivendo nei suoi Eléments d’Idéologie: «L’ideologia è una parte della zoologia, ed è soprattutto nell’uomo che tale parte è importante e merita di essere approfondita»...
In filosofia il Novecento è stato il secolo del personalismo coi suoi numerosi corifei della persona. Un elenco incompiuto include i nomi di Max Scheler, Paul Landsberg, Adolf Reinach, Emmanuel Mounier, Jacques Maritain, Romano Guardini, Paul Ricoeur, Emmanuel Lévinas, Vladimir Solov’ëv, Karol Wojtyla, Martin Buber. Il personalismo non è però un’invenzione del Novecento, ma originariamente della Patristica, del Medioevo cristiano e dell’Umanesimo: qui sono state elaborate le idee fondamentali sulla persona e dischiuso come nuovo guadagno il suo spazio di realtà. E se è vero che il personalismo del Novecento talvolta toglie qualcosa a questa tradizione, d’altra parte vi aggiunge non poco per quanto concerne lo sviluppo delle scienze sull’uomo, i diritti umani, la giustizia e l’eguaglianza, il fatto che la dignità, inerente ad ogni persona, deve essere difesa concretamente per tutti. Oggi il personalismo egualitario con il corteo dei diritti umani costituisce la base solida per edificare la pace e il cosmopolitismo politico, in cui le unità fondamentali di rilevanza ontologica, morale e politica sono le persone.
* AVVENIRE, 07.12.2006. Anticipiamo ampi stralci dell’introduzione di Vittorio Possenti al suo ultimo saggio, «Il principio-persona», in uscita per Armando editore (pagine 256, euro 20,00).
SCIENZA
La visione tecnica che domina le società democratiche occidentali pretende di dire l’ultima parola sulle origini e le ragioni della vita. Nel discorso per la Festa del Redentore il Patriarca di Venezia mette in luce i punti di forza della religione e della filosofia nella ricerca, anche oggi, del senso dell’esistenza
L’anima? Non è più un tabù, ma una chance per le neuroscienze *
Fino a ieri l’ipoteca della fede sembrava complicare il lavoro agli scienziati che studiavano la mente e la coscienza. Oggi è diventato chiaro a molti che la razionalità ha forme molteplici che non sono riducibili unicamente ai paradigmi della scienza, ma trovano nello «spirito» un sostegno decisivo per la comprensione dell’umano e della realtà. Non tutto si può spiegare meccanicamente con la biochimica del cervello
I cultori delle neuroscienze convinti che la comprensione del cervello rappresenti la svolta epocale più radicale (una rivoluzione più grande di quelle copernicana, darwiniana e freudiana) affermano a chiare lettere non solo che la nozione di vita è assai complessa, ma anche che vita è un termine troppo generico ed applicabile ad un insieme di processi. A tal punto che lo spirito di vita e la vita sarebbero concetti «intorno a cui gli scienziati hanno cessato da tempo di interrogarsi» (V.S. Rachamandran, Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, p. 98).
La fede cristiana, non complica ulteriormente le cose pretendendo che, per descrivere compiutamente la vita umana, si debba parlare non solo di mente e di cervello, ma anche di spirito (anima) e per di più di spirito individuale intimamente legato ad una carne destinata a risorgere? Rispondere a queste e simili domande in termini il più possibile adeguati è diventata una questione stantis vel cadentis per la fede cristiana.
Accogliere la sfida contenuta in questa provocazione è diventata ancor più una questione di vita e di morte per l’etica da quando William Safire ha coniato il termine «neuroetica» per indicare quell’insieme universale di risposte biologiche, connaturate al nostro cervello, da dare ai dilemmi di natura etica.
È decisamente positivo il fatto che siamo usciti dall’epoca in cui le scienze vietavano di «porre la domanda delle domande». Esse stesse non temono ormai di parlare, in qualche modo, di verità. La tecnoscienza, che non esclude di poter fornire spiegazioni per tutto il processo evolutivo, macro e micro - dal Big-Bang fino all’insorgere della prima cellula di vivente - sembra voler farsi carico di quelli che una volta erano i contenuti dell’etica filosofica e della religio. Taluni cultori delle neuroscienze affermano addirittura che «il nostro cervello vuole credere» (M.S. Gazzaniga, La mente etica, Codice edizioni, p. XVII) e quindi si apre uno spazio per una religiosità riconosciuta come fenomeno di una qualche rilevanza sociale. Essi dicono: pur sapendo che «di fronte ad un conflitto morale reagiamo di fatto in modi molto simili guidati da reti neurali o da sistemi di rinforzo comuni al nostro cervello» (ibid., 158) non si può evitare di confrontarsi col fatto che, almeno fino ad oggi, le persone, quotidianamente, vivono e muoiono in nome delle loro credenze religiose. Ci dividono le nostre teorie religiose e morali, ma la "mente etica" ci unirà e ci salverà!
La concezione tecnoscientifica della vita umana e della sua storia è divenuta assai rilevante nelle democrazie avanzate soprattutto dell’Occidente. Se la democrazia plurale si costruisce autonomamente solo su procedure, è però la tecnoscienza (non più le religioni e le filosofie) a volerci dire che cos’è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l’Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza. In questa visione delle cose non v’è più posto per l’anima, la risurrezione della carne, la vita eterna.
Ci si può anzitutto porre una domanda. Una simile visione della realtà è per l’autentico profitto della stessa tecnoscienza?
Conviene anzitutto rilevare che la tecnoscienza fa leva su una visione del reale che consente la progressiva scoperta solo di ulteriori stati di cose, ma non quella di ulteriorità di senso rispetto a quello definito dall’impresa scientifica. Riaffiora qui obiettivamente il rischio, che ogni autentica impresa scientifica deve invece scongiurare, di una nuova forma di riduzionismo (non di corretta "riduzione") che finisce per produrre inedite, potenti varianti di scientismo, che in ogni sua forma, da quelle più rozze a quelle più raffinate, è fondato su una triplice ingiustificata identificazione: «ciò che è» è «ciò che è conoscibile»; «ciò che è conoscibile» è «ciò che è conoscibile s cientificamente»; «ciò che è conoscibile scientificamente» è «ciò che è conoscibile mediante la scienza empirica». Così che, in definitiva, solo le scienze, e in specie quelle empirico-sperimentali, ci danno la conoscenza di ciò che è.
Non la scienza astrattamente intesa, ma l’uomo di scienza non può però eludere la domanda: l’orizzonte della ragione umana oltrepassa o no l’orizzonte della ragione scientifica?
Esistono almeno due buoni motivi per rispondere positivamente. Anzitutto i processi umani, gli stati e le operazioni della mente quali intenzionalità, comportamento, cognizione, libero arbitrio non sono come tali oggetto possibile dell’indagine scientifca, che al più può analizzare solo le loro condizioni fisiche o psichiche. Non mancano conferme a questa affermazione da parte dei più recenti studi legati alle scienze cognitive. Inoltre vi è il problema dell’organismo che tiene in collegamento tali strutture, del perché esse svolgano la loro funzione, del come si siano formate. Emerge con forza già a questo livello la questione dell’Io (Self), che dovrà nella sua complessa articolazione (continuità, unità, corporeità, azione volontaria) trovare spiegazione. E i cultori delle neuroscienze sono ben lungi dall’aver dimostrato che questa sia correlabile con una qualche funzione neuronale od area cerebrale.
In secondo luogo esistono forme di razionalità differenti dalla razionalità scientifica. Il logos umano, infatti, pur essendo uno, si esercita ed è produttivo secondo plurime forme teoriche, pratiche ed espressive - come già affermava Aristotele - che oggi possiamo identifcare in almeno cinque forme differenziate ed irriducibili di razionalità (cfr. i diversi gradi del sapere di Maritain e le diverse forme della conoscenza secondo Lonergan): teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica). Per questo Benedetto XVI molto opportunamente non cess a di invocare il rispetto dell’"ampiezza" della ragione, articolata nella pluralità delle sue capacità e funzioni, e quindi né arbitraria, né indifferenziata pena la caduta nella frammentazione del senso.
Anche quando le neuroscienze fossero in grado di descrivere il come gli stati neuronali del cervello si colleghino a tutti i fenomeni che, per intenderci, chiameremo spirituali, resterebbe intatta la questione del che cosa essi siano in realtà. Anche ammesso un rapporto di causalità tra stati neuronali ed emozioni, operazioni ed opzioni spirituali, tale confronto non potrebbe mai escludere, ma piuttosto suggerire l’esistenza di un principio che muove l’Io (Self) nella sua relazione profonda verso il Sé e verso l’altro. Come escludere che la biochimica del cervello descriva solo una dimensione del complesso comportamento spirituale di un essere che vive dell’insopprimibile unità duale di anima e di corpo?
Se la biochimica del cervello risponderà alla domanda su che cosa sono il libero arbitrio, l’arte, su chi siamo noi, allora la grande questione della natura dell’Io e della vita - e alla fine dell’anima - troveranno una spiegazione in cui il problema della natura dell’io non svanirà affatto, ma solo sarà risolto da una pura lettura tecnoscientifica, che comunque dovrà mostrare la sua sufficienza. Oppure la biochimica del cervello, come personalmente ritengo occorra concludere, potrà solo dire sempre meglio il come del suo nesso con la mente, lasciando spazio ad altri procedimenti razionali per indagare il che cosa della mente stessa oltre che del bios.
Questo che cosa, da quando l’uomo esiste, non è mai stato messo da parte semplicemente perché irresistibilmente l’uomo, a partire dalla domanda che lo costituisce, «alla fine chi mi assicura definitivamente?», sempre lo ripropone. È la sua dimensione spirituale, l’anima e il destino immortale di tutta la persona, che impone all’uomo la domanda sulla natura della mente e attraverso di essa sulla sua natura tout- court.
VENEZIA
Tutta la Laguna nel segno del Redentore
Ogni anno in occasione della Festa del Redentore, festa religiosa e civile di Venezia e cara a tutte le terre venete, il Patriarca di Venezia rivolge alla città e non solo un discorso che mette in luce le sfide più urgenti per gli uomini e le donne di oggi di fronte alla realtà contemporanea. Negli anni questo appuntamento ha toccato le questioni del meticciato di civiltà, della nuova laicità, dell’educazione e della scuola nel nostro Paese, fino ad approdare, nel discorso che il Cardinale Angelo Scola (foto sopra) leggerà questa sera, al tema del rapporto tra l’anima e le scienze. Il discorso del Redentore sarà ripreso in un filo diretto radiofonico in onda sulle radio del circuito nazionale «In Blu» domani, dalle 11 alle 12, al quale parteciperanno tra gli altri il filosofo Emanuele Severino, l’astronomo Guido Chincarini, il matematico Giorgio Israel, l’imprenditore Polegato, il filosofo Francesco Botturi.
* Avvenire, 15.07.2007
IL DIBATTITO
Neuroscienze, quante sfide al pensiero
Da Venezia Maria Laura Conte (Avvenire, 17.07.2007)
Ma che c’entra un cardinale con le neuroscienze? Non dovrebbe occuparsi d’altro un vescovo nel giorno della Festa del Redentore e nel suo discorso rivolto alla città e divenuto ormai una tradizione consolidata? L’obiezione che ha aperto il vivace dibattito radiofonico in onda sul circuito delle radio Inblu di ieri mattina, dedicato al tema del discorso del Patriarca di Venezia di quest’anno, «Infrangere il tabù dell’anima per giovarci delle scienze», pronunciato domenica sera e pubblicato su Avvenire, ha trovato subito la pronta risposta di Francesco Botturi, filosofo: «Un cardinale si occupa di queste cose perché queste cose si occupano di lui». Un vescovo come ogni persona e di buon senso, ha osservato Botturi, si rende conto che oggi «le neuroscienze, come tendenza della cultura e della riorganizzazione culturale che è in atto, si stanno occupando sempre più dell’uomo come tale e della sua identità». Oggi è come se le categorie usate normalmente nella fede cristiana fossero emarginate o sostituite, per cui per il filosofo è tempo di affrontare la domanda di fondo: «Che valore hanno ancora termini fondamentali della tradizione cristiana come il tema dell’anima? Le tecnoscienze aprono spazi inediti sull’intervento tecnico sull’uomo e ancora più vastamente sembrano stabilire una svolta epocale del rapporto tra natura e cultura. Questo è il punto serio che va affrontato».
Anche «allargando la ragione», tema ripreso da Emanuele Severino: «La filosofia - ha richiamato il filosofo - ha sempre mostrato che la ragione ha una larghezza essenzialmente maggiore del sapere scientifico e qui la Chiesa fa bene a rivendicare qualcosa che solo l’ingenuità di alcuni scienziati nega. I problemi e le difficoltà emergono poi sui contenuti di questa ragione». Una «larghezza» nella quale su muove nel suo mestiere quotidiano di cosmologo e astronomo Guido Chincarini, per il quale «la scienza non può in realtà spiegare la fede né dare spiegazioni razionali delle religioni, così come la fede e la religione non possono condizionare il procedimento scientifico». Ma restano come realtà tremendamente necessarie alla vita umana che, per Chincarini, devono convivere e interessarsi l’una dell’altra. Anche perché, per quanto irruento sia il progresso delle neuroscienze, secondo Giorgio Israel, matematico, resterà sempre qualcosa di non riducibile a pure questioni di processi di numeri o materia: «C’è un pericolo mediatico: si fa credere tutti i giorni di aver scoperto il gene di questo e quello e di aver spiegato tutto. In realtà si è descritto, ma non si è spiegato nulla. Le neuroscienze possono descrivere cosa accade nel mio cervello quando penso, ma di qui a dire che quello che accade nel mio cervello sia la causa dei miei pensieri, questo non solo non è stato dimostrato, ma è indimostrabile». Per questo le neuroscienze per il matematico sono destinate al fallimento, perché il loro progetto di ricostruire su basi materiali tutte le manifestazioni del pensiero presume comunque una base di carattere metafisico, quindi è di fatto auto-contraddittorio.
Come è carica di contraddizioni la promessa di felicità che si pretende dalla tecnoscienza: «Il problema - ha rilevato Alberto Strumia, teologo e fisico-matematico - è mettere a fuoco la connessione tra il grado di vivibilità delle nostre società e i principi metafisici e antropologici su cui esse si fondano». Perché secondo Strumia le cause dell’invivibilità delle nostre società stanno nei nodi teorici che riguardano la ragione umana e la concezione dell’uomo. Per pensare il quale - è tornato ad approdare qui il dibattito - è impossibile eludere la dualità anima-corpo.
DIALOGHI
I nodi insoluti dell’evoluzione: a confronto ieri a Torino il paleoantropologo Fiorenzo Facchini e il genetista Guido Barbujani
Da scimmia a uomo: l’enigma del «salto»
Lo scienziato cattolico: «Tra l’animale e l’uomo c’è un salto ontologico, uno scarto dove Dio emerge come concausa»
Dal Nostro Inviato A Torino Edoardo Castagna (Avvenire, 22.09.2007)
Basta poco, basta mettere da parte per un attimo gli steccati ideologici, per riportare il confronto tra credenti e non credenti nei proficui binari di un dialogo pacato e costruttivo. Ne hanno dato un ottimo esempio ieri, a Torino Spiritualità, l’antropologo e sacerdote Fiorenzo Facchini e il genetista dichiaratamente non religioso Guido Barbujani, che al Teatro Gobetti si sono confrontati su «Evoluzionismo, darwinismo e Intelligent Design: storie di prospettive e contrasti».
Un dialogo che ha fatto emergere le differenze che permangono tra la prospettiva religiosa e quella che non guarda al trascendente, ma senza degenerare in battaglie campali condite dalle fin troppo facili accuse di oscurantismo che, trito ritornello, i laicisti più scaldati non si stancano di lanciare contro chiunque non si rassegni a consegnare, come loro, l’uomo e il mondo al dominio del cieco caso. Facchini ha subito puntualizzato la distanza tra l’evoluzione, «fatto appurato anche se dalle modalità non ancora del tutto chiarite», e l’evoluzionismo, «dottrina costruita sull’evoluzione e che la inserisce in una visione dell’uomo e del mondo che non è più derivata esclusivamente da aspetti scientifici». Allo stesso modo, ha puntualizzato, «un conto è la creazione, evento che si raggiunge non con la scienza, ma con la filosofia; e un conto è il creazionismo, una certa visione della creazione che può sì essere, quale la sostengo io, aperta all’evoluzione, ma può anche chiudersi a riccio, come certe posizioni americane, o quasi, come nel caso dell’Intelligent Design, sempre di matrice statunitense. Alla fine, anche questa posizione si riporta a un creazionismo puro».
Puntualizzazioni, queste, che Barbujani sottoscrive senza remore, aggiungendo anzi che «l’evoluzionismo è figlio di Darwin, ma non è Darwin che, per esempio, era privo degli strumenti genetici che oggi abbiamo a disposizione. Analogamente, l’Intelligent Design oggi proposto negli Usa è una versione aggiornata del vecc hio creazionismo, che si puntella su quegli aspetti ancora oscuri del mondo naturale sostenendo che la scienza non potrà mai arrivare a spiegarli. E che quindi rimandano a un Progettista intelligente».
Una posizione, questa, della quale lo stesso Facchini sottolinea la pericolosità, «sia filosoficamente sia religiosamente. Perché se si riduce Dio a un ruolo di esplicazione degli attuali limiti della scienza, un domani, quando l’indagine umana avrà colmato qualche lacuna, il divino verrebbe relegato ancor più ai margini. Qui si confondono i piani, mentre le lacune scientifiche non si colmano con la religione. Non soltanto l’Intelligent Design non è scienza, ma rende anche un cattivo servizio alla religione. Tutto questo, fermo restando che è più che legittimo affermare che Dio ha un progetto sulla creazione. Semplicemente, si tratta di un altro piano».
Che quella sull’Intelligent Design sia più una questione politica che scientifica, lo conferma il genetista dell’Università di Ferrara, lamentando il pessimo clima che il dibattito, «malamente importato in Europa», ha generato: «I rapporti tra evoluzione e cattolicesimo, anzi, sono sempre stati ottimi, da Teilhard de Chardin in giù. Ricordiamo la famosa lettera di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze, dove assumeva l’evoluzione come un dato di fatto. Poi, accanto a questo, ci sono le domande sul bene, sul male, sulla finalità: qui la scienza non ha nulla da dire, è il campo della filosofia e della teologia». È a questo punto che Facchini rilancia la sua proposta di concentrare la riflessione non sul pericoloso e dubbio concetto di «disegno intelligente», ma su quello più ampio di «progetto superiore» [proposto per la prima volta su Avvenire del 2 agosto scorso, ndr]: «Un progetto che non si limita alla natura, ma che abbraccia l’intera progettualità divina sul creato».
Un’apertura al trascendente sulla quale Barbujani, scienziato non religioso, ammette lealmente di non aver nulla da dire, riconoscendo anzi che «sono domande profondamente insite nella nostra mente». Facchini procede a sviluppare la sua argomentazione, ricordando come «tra l’uomo e l’animale c’è un salto ontologico: noi non possiamo derivare nella nostra totalità, con la nostra spiritualità, dalle grandi scimmie. Qui c’è uno scarto, qui emerge Dio come concausa dell’evento-uomo. C’è una discontinuità irriducibile, ed è la cultura. Quando Darwin negò un simile salto, parlando piuttosto di semplice differenza di grado, sconfinò nell’ambito della filosofia». Barbujani conferma che «la scienza non ha elementi per testare eventuali salti ontologici», ma obietta: «Le differenze tra uomo e animale paiono sempre meno evidenti, abbiamo evidenze di "cultura" anche tra le scimmie superiori. È difficile tracciare una linea netta tra noi e gli altri animali, anche se non ci sono dubbi sulla disparità quantitativa tra la nostra cultura e la loro».
Il problema però, ha ribattuto Facchini, è intendersi su che cosa si debba intendere per "cultura": «Oggi parte degli scienziati tende a estendere questo concetto, includendoci tutto ciò che non è geneticamente determinato: così facendo, la si può rintracciare anche tra gli animali. Ma questa definizione di cultura umana non coglie quanto c’è di specifico nell’uomo: la capacità di progettare, e la capacità di elaborare simboli». Eccole, le differenze di prospettiva tra una scienza ispirata al trascendente e una che non lo è. Nette e marcate. Ma che non hanno nessun bisogno di aggredire per affermarsi.