CRISTIANESIMO E ILLUMINISMO AMBROSIANO: USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’ (I. KANT)!!! "San Tommaso parlava non a caso di "autoexusia", ovvero della capacità di "tenersi in mano". Soltanto chi è davvero padrone di se stesso, sa consegnarsi al bene, al vero, al bello" (Dionigi Tettamanzi)

LA GIUSTIZIA E’ IL SALE DEL CRISTIANESIMO E DELLA DEMOCRAZIA. CHE IL VATICANO E BENEDETTO XVI LO RICORDI. Intervista a Dionigi Tettamanzi di Franco Marcoaldi - a c. di Federico La Sala

Che differenza c’è, se c’è, tra fede e credenza? (...) «Potremmo dire così: la credenza implica in qualche modo l’impossessamento di un ideale, o di un Dio, che finisce per essere messo al proprio servizio. Chi è animato dalla fede, invece, consegna se stesso all’altro, abbandona l’idea di dominio sulla realtà. Impossessamento nel primo caso, spossessamento nel secondo: un’esperienza ben più difficile».
giovedì 17 marzo 2011.
 

[...] Qualche tempo fa fece una battuta polemica: «È meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo».
-  «Un po’ di polemica non guasta. Basta aprire le pagine del Vangelo e si vedrà che il nostro Signore non la disdegnava affatto. Quanto a quella frase, è stata attribuita a me, ma io l’ho presa di sana pianta da un padre della Chiesa, Sant’Ignazio di Antiochia. Il quale ci invita a diffidare di chi dice di essere cristiano senza esserlo, perché così facendo strumentalizza per altri fini il bene più prezioso di cui disponiamo: la fede, appunto. C’è poi un altro padre della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, il quale sostiene che non c’è alcun bisogno di annunciare il Vangelo. Se la fede vive nei gesti piùumili e semplici del buon cristiano, lui stesso diventa Vangelo: un Vangelo vivente» [...]



Bisogna avere fede nella giustizia

intervista a Dionigi Tettamanzi,

a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 14 marzo 2011)

Non è stato facile convincere il cardinale Dionigi Tettamanzi a rilasciare questa intervista: da un lato era affascinato dal tema, dall’altro intimorito. Va da sé che questa titubanza, sorprendente in un uomo tra i più coraggiosi e limpidi della Chiesa cattolica, ha finito per accrescere la simpatia nei suoi confronti. Il resto lo hanno fatto un calore umano e una bonomia sapida e terragna, sì che l’incontro è durato ben più a lungo del previsto. Con un’amabile coda finale a base di chiacchiere e caffè.

Eminenza, la domanda d’avvio è sempre la stessa. Credere, credenza, fede: come si articolano queste parole nella nostra società?

«Mentre ogni credenza rimanda a una convinzione profonda che determina poi un preciso impegno di vita, l’odierno pullulare di opinioni va nella direzione opposta. Mettendo a dura prova il credente. Il rischio è duplice: da un lato si assiste a una crescente difficoltà di orientamento, dall’altro al rinserrarsi dogmatico delle diverse credenze. Io penso invece che momenti di profondo cambiamento, come quello attuale, debbano essere colti come sfide positive. Come stimolo a una sorta di purificazione delle proprie verità, a una interrogazione sui convincimenti più intimi che animano le nostre azioni».

Che differenza c’è, se c’è, tra fede e credenza?

«La fede, per sua definizione, allude a qualcosa di chiaro, preciso. Mentre la credenza indica un sentimento molto più vago, indefinito».

In cui il soggetto non si mette totalmente in gioco?

«Potremmo dire così: la credenza implica in qualche modo l’impossessamento di un ideale, o di un Dio, che finisce per essere messo al proprio servizio. Chi è animato dalla fede, invece, consegna se stesso all’altro, abbandona l’idea di dominio sulla realtà. Impossessamento nel primo caso, spossessamento nel secondo: un’esperienza ben più difficile».

Che cosa significa per lei credere in Dio?

«Provo a dirglielo in termini telegrafici, nudi. Significa non tanto fare riferimento a un essere assoluto e trascendente, ma a un essere che ha un nome, un volto, un cuore. Significa credere a qualcuno che mi intercetta, mi accompagna, mi provoca, mi consola. E mi costringe a comportarmi diversamente. La fede, insomma, più che un concetto è un incontro, una comunione. E questo non vale soltanto per il cattolico o il cristiano». Come mai certi aspetti più squisitamente teologici della fede cattolica (la resurrezione dei morti, la verginità di Maria), sono stati messi progressivamente da parte?

«Nelle forme più popolari di credenza si tendono a sottolineare alcune verità che rispondono meglio a certi bisogni immediati. Pertanto altre verità, più provocatorie, che mettono in questione la vita di ciascuno e la spingono in direzioni più impervie, tendono a oscurarsi o addirittura ad essere dimenticate. Ma la fede cristiana è un complesso armonico e unitario di verità. Dunque sceglierne una e tralasciarne un’altra, vuol dire venir meno a quella rivelazione di cui, grazie alla fede, siamo stati messi a parte. Attenzione però a non trascinare l’intero problema del credere a un livello puramente concettuale. Detto altrimenti: la fede è sì verità, ma prima ancora è vita».

Qualche tempo fa fece una battuta polemica: «È meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo».

«Un po’ di polemica non guasta. Basta aprire le pagine del Vangelo e si vedrà che il nostro Signore non la disdegnava affatto. Quanto a quella frase, è stata attribuita a me, ma io l’ho presa di sana pianta da un padre della Chiesa, Sant’Ignazio di Antiochia. Il quale ci invita a diffidare di chi dice di essere cristiano senza esserlo, perché così facendo strumentalizza per altri fini il bene più prezioso di cui disponiamo: la fede, appunto. C’è poi un altro padre della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, il quale sostiene che non c’è alcun bisogno di annunciare il Vangelo. Se la fede vive nei gesti piùumili e semplici del buon cristiano, lui stesso diventa Vangelo: un Vangelo vivente».

La fede dunque è tale solo se si incarna nei comportamenti concreti. Dovrebbe valere anche per la Chiesa. Talvolta invece si ha l’impressione che a muovere la Chiesa non sia la parola, magari "scandalosa" del Vangelo, ma altre logiche: politiche, utilitaristiche, mondane.

«Come diceva Sant’Agostino, anche la Chiesa ha bisogno di una sua quotidiana purificazione. La tentazione non riguarda solo il singolo, ma l’intera comunità. E la Chiesa, talvolta, corre il rischio di adattarsi a una situazione data, anziché seguire il dettato evangelico. Quasi che si trattasse di qualcosa di irraggiungibile, che sta al di sopra delle nostre umane possibilità. Ma noi dobbiamo pensare a Cristo: quello è il nostro modello, quella la nostra legge. Quella la strada lungo cui camminare».

E non avremmo bisogno, oggi più che mai, di quella certa parola "scandalosa"?

«Non so se per lei è scandalosa a sufficienza, ma a me preme molto la parola sobrietà. Perché l’eccesso e il successo, spesso e volentieri intrecciati tra loro, ormai prevalgono regolarmente sulla misura. Eppure la misura è l’unica realtà che soddisfa l’individuo, creando uno spazio di autentica attenzione verso l’altro. Tali modelli di comportamento, spesso inutilmente invocati per chi riveste posti di responsabilità, sono invece molto più diffusi di quanto non si creda tra la gente comune. C’è tutto un mondo che purtroppo non riesce a esprimersi con la propria voce, capace di atti piccoli ma a modo loro prodigiosi. Se quei segni di speranza fossero maggiormente conosciuti, ne trarremmo tutti un grande beneficio. Tanti anni fa, nel mio discorso di insediamento alla diocesi di Milano, ho parlato dei diritti dei deboli, che non sono affatto diritti deboli. Il sale della democrazia è la giustizia. Ogni tanto sarebbe opportuno ricordarlo».

Nel suo libro su San Carlo, lei parla con ammirazione di un uomo, un santo, capace allo stesso tempo di obbedire e comandare.

«Sono due termini che solitamente vengono distinti o addirittura contrapposti. Ma San Tommaso parlava non a caso di "autoexusia", ovvero della capacità di "tenersi in mano". Soltanto chi è davvero padrone di se stesso, sa consegnarsi al bene, al vero, al bello. Soltanto chi sa obbedire, è capace di comandare se stesso. Aggiungo che la credibilità di chi riveste un ruolo di comando è direttamente proporzionale alla sua capacità di esercitare l’autorità non a proprio favore, ma per qualcosa di più grande, universale».

Per un laico, un agnostico, risulta molto problematico il legame tra fede e libertà.

«Se c’è una dimensione totalmente disinteressata, e dunque libera, è proprio quella della fede. Soltanto chi pensa alla libertà come puro arbitrio, può ritenere che la fede renda schiavi. La fede non è un ossequio ai comandamenti, un mero sì verso i precetti. È un’energia che ci rende liberi, in verità. Avendo insegnato a lungo teologia morale, aggiungo che per me libertà e responsabilità sono termini che viaggiano di conserva. Se non viviamo con orgoglio la necessità di rispondere a qualcosa o a qualcuno, non saremo mai davvero liberi».

C’è stato un momento preciso in cui ha sentito la chiamata del Signore?

«No, non c’è stato. Non ho avuto nessuna folgorazione. Ho preso coscienza adagio adagio di quale sarebbe stato il mio cammino. Temo di deluderla, così come ho deluso tutti quelli che mi hanno rivolto la medesima domanda, ma la mia chiamata a Cristo è avvenuta nella più assoluta normalità».


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  STATO E CHIESA: A MILANO LA RESISTENZA DELLO SPIRITO AMBROSIANO ("CHARITAS"), A ROMA LA RESTAURAZIONE DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI "MAMMONA" ("CARITAS"). Una ’cecità’ inaudita e una crisi epocale. Note e appunti per i posteri

-  FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.


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