Introduzione
1. Lettera aperta al Cardinale Martini, 27 aprile 2005 ...
L’Eu-angélo non è un "messaggio" di "mammasantissima"!!!
7. LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA. UN OMAGGIO A ELVIO FACHINELLI
Federico La Sala (25.12.2009, dopo la nascita di Cristo)
CHARISMA: I COLORI DELLO SPIRITO
Un pittore teologo. Arte, emozioni, spiritualità. Tutto questo in: “CHARISMA: I COLORI DELLO SPIRITO“, una mostra straordinaria che potrete ammirare presso la chiesa ex-parrocchiale di Pozzo d’Adda, sabato 26 e domenica 27 maggio. *
L’artista Massimiliano Ferragina - Ph_Fulvio Mandrini
L’ARTISTA
Massimiliano Ferragina nasce a Catanzaro il 17 settembre 1977. Si trasferisce giovanissimo a Roma, dove si laurea in filosofia e teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. La sua espressione artistica è influenzata notevolmente sia dal suo percorso accademico, sia da un viaggio di tre mesi in Sud America e da tre formative residenze d’artista a Parigi (2005), Dublino (2011) e Copenaghen (2012). Esordisce in Italia nel gennaio 2012, con il premio Open Art, presso le sale del Bramante a piazza del Popolo (RM). I suoi numerosi progetti artistici, presenti in tutta Italia e in vari Paesi del Nord Europa, hanno sempre un profondo ed introspettivo messaggio, in cui il mondo interiore è protagonista e “motore immobile“.
Massimilano Ferragina alla conferenza di apertura della personale “Charisma: i colori dello Spirito” - Ph_Fulvio Mandrini
La sua arte e la sua formazione teologica si fondono completamente, dando forma, nella forza dei colori primari, al potente mondo spirituale di Massimiliano. Un mondo che, per mezzo dell’emozione, vuole interrogarvi, porvi domande, condurvi alla riflessione, dialogare con quello che è il vostro mondo interiore e la vostra spiritualità. La pittura di Ferragina nasce dalla preziosa radice della meditazione, che si apre in una testimonianza che diviene dialogo spirituale, che difficilmente può lasciare indifferenti.
Fiamme
Lo Spirito soffia dove vuole - Acrilico e stucco su tela Ph_Fulvio Mandrini
LA MOSTRA
La mostra “CHARISMA: I COLORI DELLO SPIRITO”, promossa dall’Arcidiocesi di Milano-Unità pastorale S. Antonio Abate SS. Redentore a cura di p. Michele M. Pirotta, è l’idea di un percorso creativo ispirato allo Spirito Santo, che irrompe nel giorno di Pentecoste nel cenacolo e infiamma i cuori degli apostoli che trovano il coraggio di alzare la testa ed annunciare quello che hanno vissuto. Quello di Ferragina è il tentativo di decifrare, dal testo biblico, lo Spirito Santo e la sua azione, per mezzo dei colori che esplodono sulla tela.
Blu
Come rombo di tuono - Acrilico e stucco su tela - Ph_Fulvio Mandrini
Il “come rombo di tuono” dell’evento di Pentecoste - così come ce lo descrive l’autore degli Atti - si può davvero percepire, quasi fisicamente, nelle spirali circolari fatte di un blu intenso, alternate a lampi che rifulgono di un giallo accecante, che paiono voler colpire proprio il nostro sguardo di osservatori.
Pentecoste - Acrilico e stucco su tela-Ph_Fulvio Mandrini
Il fuoco spirituale che discende e infiamma l’umanità degli apostoli, si concreta invece in rosse pennellate di colore sul giallo corporeo dei protagonisti, fiamme che danno nuova vita alla finitezza degli uomini, come fosse una seconda creazione.
Vieni Spirito Santo - Pointilisme acrilico - Ph_Fulvio Mandrini
Si può quindi ammirare la molteplicità delle genti e delle lingue riunite dalla forza dello Spirito, nella suggestiva galassia di punti di colore, distinti, tuttavia tenuti insieme dalla forza divina. I passi biblici o di antiche liturgie, accompagnano il percorso espositivo, quadro dopo quadro, opera dopo opera, creando un legame perfetto tra parole e immagini. Il tutto nella cornice della chiesa ex-parrocchiale, che è un edificio suggestivo, da poco restaurato, che è un luogo naturale per chi voglia dialogare con il proprio io più profondo.
Quadro3 Come lingue di fuoco. Acrilico e stucco su tela - Ph_Fulvio Mandrini
Personalmente trovo che il confronto con un’arte tanto potente, nata da un’interiorità così genuina e profonda, sia veramente un’esperienza da sperimentare. Dapprincipio forse, soprattutto se abituati alle forme dell’arte figurativa classica, si potrebbe provare un senso di straniamento, al cospetto stavolta di opere di arte sacra contemporanea. Ben presto però, l’incontro emozionale tra i mondi spirituali di Ferragina e di chi osserva le sue opere, ne chiarisce in modo naturale la comprensione, ponendo interrogativi e riempiendo di curiosità, spunti di riflessione e di quel senso di pienezza che deriva dalla contemplazione del bello. Una bellezza che, in virtù dello scambio spirituale costante, sta sì nei dipinti, ma che anche, di riflesso, vive anche dentro di noi.
Quadro4 Bagna ciò che è arido. Acrilico e stucco su tela - Ph_Fulvio Mandrini
Se volete regalarvi un tempo che sia solo per voi, a Pozzo d’Adda, alle porte di Milano, sabato 26 e domenica 27 maggio, potete perciò trovare quella vera e propria oasi che, nel nome dell’arte e della spiritualità, è pronta non solo a farvi delle domande, ma forse, a darvi anche delle risposte.
INGRESSO LIBERO
sabato 26 maggio: 10-12/15-18.30;
domenica 27 maggio: 10-12.
Tutte le foto di: Fulvio Mandrini
* FONTE: "MaQ": MILANO AL QUADRATO. (ripresa parziale, senza immagini).
Cardinale Schuster la verità sul Beato
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 13 ottobre 2012)
Si ispirò a San Carlo Borromeo e anticipò il rinnovamento del Concilio, eppure non mancarono incomprensioni nella sua vita di Beato. Il cardinale Ildefonso Schuster nel febbraio del ’45 veniva bollato come «spregiudicato imbroglione», aiutato «da un piccolo gruppo di farisei chiamati monsignori della curia». Fonte: un rapporto del Comando Speciale della guardia repubblichina. L’accusa: proteggere partigiani ed ebrei. Di lì a pochi mesi, ecco, invece, i leader della Resistenza chiedere l’«epurazione dell’arcivescovo», giudicato compromesso col fascismo. In realtà Schuster era autenticamente un santo, come documentato dal processo di beatificazione.
Domani alle 23,30 su Rai1 andrà in onda il programma dedicato al monaco che Pio XI volle alla guida della Chiesa Ambrosiana subito dopo il Concordato del ’29. Ildefonso Schuster: scommettere sull’Italia è il titolo del documentario.
Spiega Marco Simeon, responsabile Rai Vaticano: «La figura del cardinale è straordinariamente attuale perché, come De Gasperi, è simbolo di un’Italia umile e vincente che nel dopoguerra difese il patrimonio di valori indispensabile al rilancio». Sullo schermo si susseguono testimonianze d’epoca o inedite. Il successore Angelo Scola attualizza la lezione «politica» ai cattolici impegnati nella vita pubblica, il condannato a morte Indro Montanelli descrive il plotone d’esecuzione bloccato all’ultimo dall’intervento a San Vittore del porporato.
Non abbandonò mai i fedeli, rimanendo sempre a Milano sotto le bombe. Scrisse persino al re d’Inghilterra chiedendo di sospendere gli attacchi aerei sulla città e trasformò l’arcivescovado in un centro di raccolta di abiti e cibo per i bisognosi. Tentò di convincere Mussolini, il 25 aprile 1945, a consegnarsi agli alleati invece di partire verso il confine svizzero.
Con mezzo secolo di anticipo teorizzò scelte accolte solo successivamente dalla Chiesa con il Vaticano II. Riemerge dagli archivi anche la sua sfortunata battaglia al Sant’Uffizio per rimuovere dalla liturgia il riferimento ai perfidis Judaeis (come farà poi il Concilio). Finì in minoranza, malgrado il sostegno del Papa, però poi toccherà a lui tuonare contro le leggi razziali.
Shoah, don Barbareschi: innamoratevi della libertà di Paola D’Amico in “Corriere della Sera” - Milano - del 31 gennaio 2012
«Sono un prete di Milano, un prete vecchio, ma non ho ancora accettato di essere un vecchio prete. A voi ragazzi dico: innamoratevi della libertà. Il primo atto di fede che un uomo deve fare è nella sua capacità di essere una persona libera». Per la prima volta don Giovanni Barbareschi, 90 anni, prete partigiano e antifascista, «Giusto tra le nazioni» per aver contribuito a mettere in salvo oltre duemila ebrei perseguitati, prigionieri alleati e antifascisti italiani, ieri alle 18 ha messo piede nei sotterranei della stazione Centrale. E al Binario 21, dove si sta realizzando il Memoriale della Shoah, ha incontrato Liliana Segre, sopravvissuta alla deportazione, ai campi di concentramento, e dal ’96, insieme ai giovani della Comunità di Sant’Egidio, «testimone» di quegli orrori. C’è silenzio e commozione nelle navate di cemento armato, ancora per metà cantiere, mentre parla don Barbareschi. Negli anni della guerra, spiega, «ho fatto solo quello che un uomo libero avrebbe fatto. Si deve essere liberi dentro per vivere ogni giorno da uomo». Lo ascoltano in silenzio i 400 ragazzi, studenti, insegnanti, scout raccolti nell’immenso spazio in costruzione.
E l’emozione continua nel canto di un musicista rom, Jovica Jovic, che richiama la memoria del Porrjamos, lo sterminio dei Rom e dei Sinti, rinchiusi, gasati e bruciati insieme alle migliaia di ebrei e ai deportati politici. «È il testamento di mio padre - spiegherà l’uomo, quando gli applausi che hanno accolto la breve performance si saranno spenti -. Lui, che a 16 anni finì in un campo di sterminio, compose questa canzoncina e, poi, sopravvissuto alla immensa tragedia continuò a cantarla. Suonava e piangeva. E a noi bambini che ignoravamo il dramma dell’Olocausto diceva: meglio che voi non sappiate cos’è la sofferenza. Ma io non posso dimenticare».
La commemorazione organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, come da sedici anni in questo luogo, ben prima che fosse istituita la Giornata della Memoria, si trasforma in un grande momento di raccoglimento. Ci sono il rabbino emerito Giuseppe Laras, il presidente della Comunità ebraica Roberto Jarach, e il rabbino Alfonso Arbib, che scuoterà anch’egli la platea di oltre quattrocento persone qui raccolte, in piedi, al freddo. Racconta di quando il faraone per inseguire gli ebrei fuggiti dall’Egitto preparò da sé il suo carro. «L’odio folle distrugge l’andamento normale delle cose - ha spiegato Arbib -. Così l’impegno folle dei nazisti che andò oltre la razionalità». Di questo bisogna fare memoria sempre: «Per combattere l’antisemitismo bisogna riuscire ad agire sull’emozione, sui sentimenti. Ricordare che esiste un elemento irrazionale».
Canti, testimonianze, musica, applausi: il Memoriale non deve essere un museo ma un luogo vivo, avevano chiesto i promotori dell’opera. E la comunità di Sant’Egidio l’ha, infatti, trasformato in palcoscenico.
Montini, il papa ambrosiano
di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2012)
C’è un dualismo nella storia dell’Italia unita - quello fra Milano e Roma - che merita di essere colto da una varietà di punti di vista, il politico, l’economico, il culturale, ma anche dal punto di vista religioso. È un dualismo non dichiarato, ovviamente, all’interno di una compagine che si pensa e si vuole unitaria, la cattolica comunità dei battezzati. Ma è un dualismo riconoscibile sotto traccia, che oppone una polarità ambrosiana e una polarità romana. Sotto la basilica di Sant’Ambrogio, il campo magnetico di un cattolicesimo per vocazione sociale più che temporale, laico più che burocratico, dialogante più che intransigente. Sotto la basilica di San Pietro, il campo magnetico di un cattolicesimo per definizione papalino e curiale, quando pure non sempre gesuitico e antimoderno.
Il fatto che dagli ultimi due conclavi siano usciti eletti, nel 1978 e nel 2005, due pontefici stranieri, papa Wojtyla e papa Ratzinger, rischia oggi di mascherare un’evidenza che potrebbe ritornare d’attualità nel conclave a venire: la storia della Chiesa nell’Italia moderna può essere interpretata anche come una storia dei modi in cui Milano cattolica si è mossa alla conquista di Roma pontificia. O piuttosto, per dirlo con minore enfasi e maggiore esattezza: la storia della vita religiosa nell’Italia moderna può essere interpretata come una storia dei modi in cui il cattolicesimo ambrosiano ha provato ad assicurarsi una forma di egemonia nei Palazzi vaticani, e fin sul trono petrino.
Nel Novecento, i momenti chiave di questa storia hanno coinciso con i pontificati di Pio XI, dal 1922 al 1939, e di Paolo VI, dal 1963 al 1978 (con l’intervallo dei regni di Pio XII e di Giovanni XXIII, l’uno più attirato dalla polarità romana, l’altro dalla polarità ambrosiana). Sia papa Ratti sia papa Montini entrarono da arcivescovi di Milano nel conclave dal quale uscirono pontefici assumendo il nome, rispettivamente, di Pio XI e di Paolo VI. E proprio il pontificato di papa Ratti va ritenuto l’epoca decisiva per la definizione del progetto di Chiesa che papa Montini avrebbe cercato di realizzare al tempo del Concilio Vaticano II: come dimostra adesso un importante volume pubblicato dal Mulino, Mons. Montini, di Fulvio De Giorgi.
Semplificando, si potrebbe dire che De Giorgi mette in campo le figure di due grandi chierici del Novecento - oltre al bresciano Giovanni Battista Montini, il milanese Agostino Gemelli - e che analizza la loro sfida (aperta o sotterranea) per contendersi il favore di un terzo gran lombardo, appunto Pio XI. Entrambi gli sfidanti condividevano con papa Ratti il progetto di una riconquista cattolica della società italiana che si fondasse non sull’antimodernità ma sulla modernizzazione: non sul bastione di un’ideologia ma sull’impatto di una pedagogia, non sull’appello integralistico alla purezza della fede ma sull’utilità missionaria delle opere di carità, non sulla tutela difensivistica di ranghi curiali ma sull’offensiva spregiudicata di gruppi laicali, non su un rifiuto pregiudiziale della civiltà laica ma sull’auspicata formazione di una classe dirigente cattolica. Tuttavia, padre Gemelli e monsignor Montini finirono per interpretare il progetto in modi troppo diversi per riuscire complementari.
A leggere quanto un Montini poco più che ventenne scriveva sul giornale degli studenti cattolici bresciani, «La Fionda», negli anni successivi alla Grande Guerra, si tocca con mano come la sua generazione - il futuro Paolo VI era nato nel 1897 - fosse uscita segnata dal conflitto mondiale quand’anche non avesse conosciuto il trauma della trincea. Con il Gemelli ultrapatriottico del 1915- 18 il giovane Montini condivideva un’idea di Chiesa così volontaristica e militante da indurre De Giorgi a parlare di «arditismo cattolico». Dopodiché, all’indomani della marcia su Roma, la disfatta stessa di quel Partito popolare del quale il padre di Montini, Giorgio, era stato cofondatore e deputato, avrebbe persuaso il figlio della necessità di combattere per la riscossa della Chiesa scendendo direttamente nell’arena sociale d’Italia, e traducendo in opportunità religiosa l’atrofia politica indotta dal regime fascista.L’autore di Mons. Montini non esita a qualificare il pontificato di papa Ratti come un esperimento di «modernizzazione totalitaria».
Ma De Giorgi ha cura di distinguere, nell’entourage di Pio XI, ciò che rese monsignor Montini rappresentativo di una sensibilità di minoranza rispetto alla sensibilità di maggioranza rappresentata da padre Gemelli. Alleati nel sostegno dell’ambiziosissima creatura di quest’ultimo, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, oltreché del sodalizio laicale di vita consacrata dei Missionari della Regalità di Cristo; uniti anche nell’impegno per la milizia laica di massa dell’Azione cattolica, di contro alla centralità ecclesiale della Curia, Gemelli e Montini si trovarono divisi dal problema dell’atteggiamento verso il regime: indulgente (ai limiti del complice) l’approccio dell’uno, severo (ai limiti del refrattario) quello dell’altro.
Una prima crisi intervenne nel 1933. Montini fu costretto a dimettersi dalla guida della Fuci, la Federazione universitaria dei cattolici italiani, rimpiazzato da un fiduciario di Gemelli che offriva al fascismo ben migliori garanzie di osservanza. Ma la crisi spiritualmente più grave intervenne nel 1938. Allora - ormai da braccio destro del cardinale Pacelli ai vertici della Segreteria di Stato vaticana - Montini dovette riconoscere una volta per tutte le implicazioni politiche e morali del programma gemelliano di una riconquista cattolica dell’Italia da compiersi a costo di sottoscrivere le peggiori derive del fascismo, dall’invasione militare dell’Abissinia alla persecuzione legale degli ebrei.
Prudente di carattere e inoltre di mestiere, da diplomatico della Santa Sede, Montini tenne per sé un appunto del 9 aprile 1939 dove, a proposito delle leggi razziali e dell’atteggiamento di Pio XII (papa Pacelli, fresco successore di Pio XI), stava scritto: «Bisogna che il Papa non tema di deplorare apertamente ciò che secondo il Vangelo e la legge naturale lo è» (deplorabile). Ma Montini non aveva atteso né la deriva imperialista né quella antisemita del regime per consegnare alla rivista «Azione fucina», nel 1931, un giudizio trasparente su Benito Mussolini e sul culto degli italiani per il Duce. «Avvicinati, sono uomini» coloro che «la parola dice grandi»: «come noi, deboli e caduchi, e forse (se s’ha da sostenere che la moralità dei grandi non dev’essere così rigida come quella dei piccoli) inferiori e degeneri».
A differenza di Gemelli, insomma, il Montini degli anni Trenta rifiutò di lasciarsi incantare dall’«umanità superiore» della civiltà fascista e decise di investire tutto sulla «superiore umanità», su una «civiltà dell’amore». Lasciata la presidenza della Fuci, si diede a un lavoro culturale di lunga lena per le case editrici Morcelliana e Studium, mentre prese a tessere - nel solco dell’umanesimo integrale di Jacques Maritain - una rete di "montiniani" provenienti dai quattro angoli d’Italia e promessi a bell’avvenire politico dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale: uomini di fede e di scienza che si chiamavano Alcide De Gasperi, Guido Gonella, Giorgio La Pira, Aldo Moro.
Ancora dopo la guerra, nel 1954, le resistenze del cattolicesimo romano al cattolicesimo ambrosiano di monsignor Montini si sarebbero tradotte in un suo allontanamento dei Sacri Palazzi, in quella specie di giubilazione che fu la sua nomina ad arcivescovo di Milano: tanto che un padre Gemelli ormai malato e inacidito avrebbe potuto ironizzare su di lui come su «un transatlantico che si era venuto a incagliare nel Naviglio». Ma alle secche del Naviglio monsignor Montini si sarebbe gloriosamente sottratto nel 1963: per rientrare a Roma da papa, e per spingere la Chiesa cattolica - sulla scia di Giovanni XXIII - verso un dialogo nuovo con la modernità.
Monsignor Barbareschi il ribelle per amore
di Marco Garzonio (Corriere della Sera/Milano, 7 dicembre 2011)
Oggi, quando il sindaco Pisapia consegnerà la medaglia d’oro del Comune a monsignor Giovanni Barbareschi, in un attimo Milano stabilirà un ponte ideale lungo quasi settant’anni. Sì, perché il servizio di don Barbareschi alla città ebbe inizio il 10 agosto 1944. Aveva 22 anni e Schuster lo inviò in piazzale Loreto a far opera di pietà tra i quindici partigiani fucilati dai nazifascisti. In nome del cardinale benedì le vittime, ricompose i corpi ammucchiati, cercò nelle tasche i messaggi da recapitare a famiglie e compagni. Fu ordinato sacerdote tre giorni dopo e all’indomani della celebrazione della prima messa, a Ferragosto, era rinchiuso a San Vittore.
La motivazione del riconoscimento dice ora dei duemila partigiani ed ebrei salvati da don Barbareschi. I numeri contano, ma sono solo la parte più evidente di un’azione e di un pensiero che han consentito a Milano di non lasciarsi travolgere dalla crudeltà della guerra e di trovare la via del riscatto, della speranza, della Liberazione.
Già perché quel giovane prete poté far ciò che fece in quanto aveva compiuto una scelta: essere «ribelle per amore». Questo era il motto suo e degli altri 174 sacerdoti ambrosiani attivi nella Resistenza. Wojtyla ebbe a dire, ricordando «Il Ribelle», la rivista clandestina di cui don Barbareschi fu redattore (oggi è l’unico superstite): «Resistettero non per opporre violenza a violenza, odio contro odio, ma per affermare un diritto e una libertà per sé e per gli altri, anche per i figli di chi allora era oppressore. Per questo furono martiri ed eroi».
Grazie alla forza di tale amore per l’uomo e per i valori che esso comunque reca in sé, dopo il 25 aprile don Giovanni sottrasse fascisti e tedeschi a rappresaglie e vendette. Nel corpo e nell’anima portava i segni dei 72 giorni a San Vittore e poi della prigionia nel campo di Fossoli (da cui era riuscito a fuggire mentre i nazisti stavano per trasferirlo in un lager), dei rischi, delle fatiche, dei lutti. Ma non c’era tempo per recriminazioni: bisognava guardare avanti, pensare e lavorare per la ricostruzione morale, prima che materiale, di Milano e dell’Italia. La riconciliazione è nell’animo, non nelle rivisitazioni storiche.
Quasi subito mise lo spirito con cui l’esperienza lo aveva forgiato nell’educazione dei giovani, come un fratello maggiore, che accompagna e aiuta a trovare dentro di sé il senso della vita: affetti, lavoro, impegno civile. Ha formato generazioni intere don Giovanni. Si dedicò agli scout, poi ai liceali, al Manzoni, e agli universitari nella Fuci. Intanto si spese in alcune occasioni che han contribuito a creare la Milano odierna. Collaborò alla Missione di Milano con cui Montini rivoluzionò l’approccio della Chiesa ambrosiana alla modernità (un passaggio cui s’è rifatto il cardinale Scola nel suo ingresso in diocesi). Vennero riabilitati uomini scomodi e sgraditi al Sant’Uffizio (così don Barbareschi riprese il sodalizio con Turoldo l’amico, poeta e protagonista della Resistenza e della Corsia dei Servi). E assistette in ospedale nell’ultimo mese di vita don Gnocchi, testimone del suo lascito morale: il prete che era partito volontario per l’avventura della Russia con i ragazzi del Gonzaga, al ritorno aveva trasformato delusione e rabbia per l’inganno del fascismo dedicandosi al recupero delle piccole vittime della guerra, i «mutilatini». Diede avvio alla grande opera che ora porta il suo nome, Fondazione don Carlo Gnocchi, centro d’eccellenza che da Milano s’è irradiato in 30 località del Paese, luogo della riabilitazione fisica e psichica, metafora di rinascita del corpo e dell’anima.
Martini comprese lo spirito del resistente per amore, e nel realizzare la famosa «Cattedra dei non credenti» volle al suo fianco don Barbareschi. Questi fu il braccio destro del cardinale per anni nel far dialogare intellettuali, scrittori, scienziati, artisti, uomini di governo affinché ciascuno si ponesse in ascolto delle ragioni dell’altro e cercasse un fine superiore, oltre le appartenenze.
Alla città venne allora offerto un esempio di convivenza, accoglienza, lavoro gomito a gomito in vista del bene comune. Fu una pedagogia collettiva dopo gli Anni di piombo e la Milano da bere, perché la città potesse crescere, dare il meglio di sé, mettere a frutto il capitale di ideali, tradizioni, operosità, che la sua gente reca inciso nell’intimo grazie ad Ambrogio. In nome del patrono domani il sindaco consegnerà la medaglia d’oro a monsignor Barbareschi (90 anni tra due mesi), con memoria gratacerto per quel che lui è stato e ha fatto, ma anche come pegno di fiduciosa, condivisa attesa per ciò che la città tutta può essere quando ascolta sé stessa, si ritrova, si riconcilia col suo cuore fattivo, generoso, solidale: antico e sempre nuovo. Incalzata magari da crisi epocali, anticipo e sprone di virtù quotidiane (si spera!).
«Solo gli ingiusti non vogliono essere giudicati»
di Roberto Monteforte (l’Unità, 18 aprile 2011)
«Perché ci sono ingiusti che non vogliono farsi giudicare?». È la domanda risuonata ieri, Domenica delle Palme, all’interno del Duomo di Milano. È l’arcivescovo della città, il cardinale Dionigi Tettamanzi che non si fa scrupolo di chiamare le cose con il loro nome. Chiede il coraggio della verità nei giorni che precedono e preparano alla Pasqua. Che le cose siano chiamate con il loro vero nome. Che non si sfuggano le responsabilità. Che non si cerchi «in modo subdolo, superbo e violento» di manipolare la verità.
Non fa nomi e neanche allusioni indirette, ma non serve. Le sue parole sono parse un richiamo a chi, come il premier Silvio Berlusconi, si ritiene al di sopra di ogni legge e di ogni codice morale e fa di tutto proprio per sfuggire al giudizio dei magistrati. Il porporato, che a breve lascerà la guida della diocesi più grande d’Europa, con mitezza ma determinazione mette a nudo egoismi e ipocrisia.
Partendo dal Vangelo di Giovanni che presenta Gesù come re «umile e mite, e insieme come il re che dona tutto se stesso per amore e che, proprio così, annuncia la pace» invita tutti a chiedersi come quel messaggio vada situato «nella nostra situazione storica». Indica tre drammatiche emergenze: giustizia, guerra e immigrazione.
Ma le sue parole hanno di certo incontrato la sensibilità dei tanti milanesi che turbati dalla perdurante guerra aperta del premier ai magistrati, non hanno scordato i giudici che proprio a Milano hanno pagato con la vita la loro coerenza e integrità morale al servizio della giustizia.
Sono domande semplici e dirette quelle poste da Tettamanzi. «Perché ci sono uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come “guerra” le loro decisioni, le scelte e le azioni violente? Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni? E ancora: perché tanti vivono arricchendosi sulle spalle dei paesi poveri, ma poi si rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria e vengono da noi chiedendo di condividere un benessere costruito proprio sulla loro povertà?».
È con questa realtà, che rende «paradossali» i giorni che viviamo, che invita a fare i conti. Sollecita un coraggioso esame di coscienza su cosa «nel vissuto quotidiano» ispira «i nostri pensieri, i sentimenti, i gesti»: una domanda «di dominio superbo, subdolo, violento», oppure è «l’attenzione, disponibilità e servizio agli altri e al loro bene? ». Occorre avere coraggio per ammetterlo e cambiare. «La vera potenza sta nell’umiltà, nel dono di sè, nello spirito di servizio» osserva.
Chissà se il premier Berlusconi, impegnatissimo a riproporre i valori cristiani nelle scuole pubbliche, è pronto ad ascoltare le parole del suo vescovo. O il «crociato» Bossi.
Bisogna avere fede nella giustizia
intervista a Dionigi Tettamanzi,
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 14 marzo 2011)
Non è stato facile convincere il cardinale Dionigi Tettamanzi a rilasciare questa intervista: da un lato era affascinato dal tema, dall’altro intimorito. Va da sé che questa titubanza, sorprendente in un uomo tra i più coraggiosi e limpidi della Chiesa cattolica, ha finito per accrescere la simpatia nei suoi confronti. Il resto lo hanno fatto un calore umano e una bonomia sapida e terragna, sì che l’incontro è durato ben più a lungo del previsto. Con un’amabile coda finale a base di chiacchiere e caffè.
Eminenza, la domanda d’avvio è sempre la stessa. Credere, credenza, fede: come si articolano queste parole nella nostra società?
«Mentre ogni credenza rimanda a una convinzione profonda che determina poi un preciso impegno di vita, l’odierno pullulare di opinioni va nella direzione opposta. Mettendo a dura prova il credente. Il rischio è duplice: da un lato si assiste a una crescente difficoltà di orientamento, dall’altro al rinserrarsi dogmatico delle diverse credenze. Io penso invece che momenti di profondo cambiamento, come quello attuale, debbano essere colti come sfide positive. Come stimolo a una sorta di purificazione delle proprie verità, a una interrogazione sui convincimenti più intimi che animano le nostre azioni».
Che differenza c’è, se c’è, tra fede e credenza?
«La fede, per sua definizione, allude a qualcosa di chiaro, preciso. Mentre la credenza indica un sentimento molto più vago, indefinito».
In cui il soggetto non si mette totalmente in gioco?
«Potremmo dire così: la credenza implica in qualche modo l’impossessamento di un ideale, o di un Dio, che finisce per essere messo al proprio servizio. Chi è animato dalla fede, invece, consegna se stesso all’altro, abbandona l’idea di dominio sulla realtà. Impossessamento nel primo caso, spossessamento nel secondo: un’esperienza ben più difficile».
Che cosa significa per lei credere in Dio?
«Provo a dirglielo in termini telegrafici, nudi. Significa non tanto fare riferimento a un essere assoluto e trascendente, ma a un essere che ha un nome, un volto, un cuore. Significa credere a qualcuno che mi intercetta, mi accompagna, mi provoca, mi consola. E mi costringe a comportarmi diversamente. La fede, insomma, più che un concetto è un incontro, una comunione. E questo non vale soltanto per il cattolico o il cristiano».
Come mai certi aspetti più squisitamente teologici della fede cattolica (la resurrezione dei morti, la verginità di Maria), sono stati messi progressivamente da parte?
«Nelle forme più popolari di credenza si tendono a sottolineare alcune verità che rispondono meglio a certi bisogni immediati. Pertanto altre verità, più provocatorie, che mettono in questione la vita di ciascuno e la spingono in direzioni più impervie, tendono a oscurarsi o addirittura ad essere dimenticate. Ma la fede cristiana è un complesso armonico e unitario di verità. Dunque sceglierne una e tralasciarne un’altra, vuol dire venir meno a quella rivelazione di cui, grazie alla fede, siamo stati messi a parte. Attenzione però a non trascinare l’intero problema del credere a un livello puramente concettuale. Detto altrimenti: la fede è sì verità, ma prima ancora è vita».
Qualche tempo fa fece una battuta polemica: «È meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo».
«Un po’ di polemica non guasta. Basta aprire le pagine del Vangelo e si vedrà che il nostro Signore non la disdegnava affatto. Quanto a quella frase, è stata attribuita a me, ma io l’ho presa di sana pianta da un padre della Chiesa, Sant’Ignazio di Antiochia. Il quale ci invita a diffidare di chi dice di essere cristiano senza esserlo, perché così facendo strumentalizza per altri fini il bene più prezioso di cui disponiamo: la fede, appunto. C’è poi un altro padre della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, il quale sostiene che non c’è alcun bisogno di annunciare il Vangelo. Se la fede vive nei gesti piùumili e semplici del buon cristiano, lui stesso diventa Vangelo: un Vangelo vivente».
La fede dunque è tale solo se si incarna nei comportamenti concreti. Dovrebbe valere anche per la Chiesa. Talvolta invece si ha l’impressione che a muovere la Chiesa non sia la parola, magari "scandalosa" del Vangelo, ma altre logiche: politiche, utilitaristiche, mondane.
«Come diceva Sant’Agostino, anche la Chiesa ha bisogno di una sua quotidiana purificazione. La tentazione non riguarda solo il singolo, ma l’intera comunità. E la Chiesa, talvolta, corre il rischio di adattarsi a una situazione data, anziché seguire il dettato evangelico. Quasi che si trattasse di qualcosa di irraggiungibile, che sta al di sopra delle nostre umane possibilità. Ma noi dobbiamo pensare a Cristo: quello è il nostro modello, quella la nostra legge. Quella la strada lungo cui camminare».
E non avremmo bisogno, oggi più che mai, di quella certa parola "scandalosa"?
«Non so se per lei è scandalosa a sufficienza, ma a me preme molto la parola sobrietà. Perché l’eccesso e il successo, spesso e volentieri intrecciati tra loro, ormai prevalgono regolarmente sulla misura. Eppure la misura è l’unica realtà che soddisfa l’individuo, creando uno spazio di autentica attenzione verso l’altro. Tali modelli di comportamento, spesso inutilmente invocati per chi riveste posti di responsabilità, sono invece molto più diffusi di quanto non si creda tra la gente comune. C’è tutto un mondo che purtroppo non riesce a esprimersi con la propria voce, capace di atti piccoli ma a modo loro prodigiosi. Se quei segni di speranza fossero maggiormente conosciuti, ne trarremmo tutti un grande beneficio. Tanti anni fa, nel mio discorso di insediamento alla diocesi di Milano, ho parlato dei diritti dei deboli, che non sono affatto diritti deboli. Il sale della democrazia è la giustizia. Ogni tanto sarebbe opportuno ricordarlo».
Nel suo libro su San Carlo, lei parla con ammirazione di un uomo, un santo, capace allo stesso tempo di obbedire e comandare.
«Sono due termini che solitamente vengono distinti o addirittura contrapposti. Ma San Tommaso parlava non a caso di "autoexusia", ovvero della capacità di "tenersi in mano". Soltanto chi è davvero padrone di se stesso, sa consegnarsi al bene, al vero, al bello. Soltanto chi sa obbedire, è capace di comandare se stesso. Aggiungo che la credibilità di chi riveste un ruolo di comando è direttamente proporzionale alla sua capacità di esercitare l’autorità non a proprio favore, ma per qualcosa di più grande, universale».
Per un laico, un agnostico, risulta molto problematico il legame tra fede e libertà.
«Se c’è una dimensione totalmente disinteressata, e dunque libera, è proprio quella della fede. Soltanto chi pensa alla libertà come puro arbitrio, può ritenere che la fede renda schiavi. La fede non è un ossequio ai comandamenti, un mero sì verso i precetti. È un’energia che ci rende liberi, in verità. Avendo insegnato a lungo teologia morale, aggiungo che per me libertà e responsabilità sono termini che viaggiano di conserva. Se non viviamo con orgoglio la necessità di rispondere a qualcosa o a qualcuno, non saremo mai davvero liberi».
C’è stato un momento preciso in cui ha sentito la chiamata del Signore?
«No, non c’è stato. Non ho avuto nessuna folgorazione. Ho preso coscienza adagio adagio di quale sarebbe stato il mio cammino. Temo di deluderla, così come ho deluso tutti quelli che mi hanno rivolto la medesima domanda, ma la mia chiamata a Cristo è avvenuta nella più assoluta normalità».
Via Padova, la città in cui speriamo
editoriale (www.chiesadimilano.it, 16 febbraio 2010)
Quanto accaduto nei giorni scorsi in via Padova è un episodio grave e bisognoso di approfondimento. L’aggressione e la morte di un giovane, il conflitto etnico tra bande rivali, le reazioni violente che ne sono seguite, denunciano una situazione da leggere nella sua complessità con lucidità di giudizio e senza fermarsi al cono d’ombra dei fatti delittuosi. L’uccisione si colloca in uno scenario di diffuso disagio sociale che, complice l’indifferenza di chi avrebbe potuto intervenire prima ma non lo ha fatto, perdura da tempo ed è destinato a rimanere tale fintantoché non si deciderà insieme di voltare pagina e ristabilire le condizioni per una normale e costruttiva convivenza civile.
La prima parola è la ferma condanna della violenza. Non accettiamo di assistere inermi a questa spirale di aggressività: morire in questo modo è, oltre che drammatico, assurdo. Nemmeno vogliamo addomesticare il cuore e i sensi all’abitudine per la violenza posta quotidianamente sotto i nostri occhi; continuiamo a operare per l’edificazione di una città aperta e umana, capace di coniugare sicurezza e integrazione.
Abbiamo ascoltato in questi giorni interventi istituzionali limpidi, capaci di richiamare con severità ed equilibrio ai valori che fondano la convivenza, ma anche al consueto e triste gioco politico di parte, nel quale i problemi reali vengono puntualmente sacrificati sull’altare della ricerca del consenso elettorale. I media con alcuni servizi hanno cercato di entrare con discrezione ed intelligenza nella situazione concreta del quartiere e dei suoi abitanti, mentre con altri hanno offerto spettacolarizzazioni non rispettose della verità dei fatti e delle persone. Sembra per questo necessario mantenere quella pacata ragionevolezza che, consapevole della gravità dell’accaduto, non desiste dal ricercare la giusta misura delle cose e non si lascia prendere dall’emotività, dai giudizi affrettati e dall’illusione che esistano soluzioni drastiche e immediate per risolvere i conflitti.
Dieci anni fa proprio in via Padova l’uccisione di un gioielliere e di un tabaccaio coronavano nel sangue una tristissima stagione di violenza e degrado per il quartiere e per l’intera città. Allora criminali e vittime erano italiani: in qualche modo i nuovi arrivati si sono sostituiti ai delinquenti locali. A ben vedere il problema principale non riguarda, quindi, solo la criminalità organizzata, ieri, o l’immigrazione non governata, oggi, ma anche il degrado del tessuto civile del quartiere.
Quando un territorio, un lembo di città non è governato con lungimiranza, ma abbandonato alle logiche infernali dell’incuria, della lacerazione, della prepotenza diventa facilmente terreno di coltura per le patologie più gravi del disagio sociale.
Per quanto riguarda le sfide dell’immigrazione, da tempo la Chiesa Ambrosiana cerca di promuovere un’articolata riflessione e indicare alcune linee costruttive. Risuonano oggi come molto opportune le parole pronunciate dall’Arcivescovo nel Discorso di S. Ambrogio del 2008: «Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l’originalità della propria identità».
Da parte dei milanesi occorre riconoscere in questi anni un preoccupante calo della tensione morale e civile e la conseguente fatica a trasmettere la solidità di un ethos pubblico condiviso e normativo. Non è forse ancora più necessario oggi tornare a conoscere, rispettare, apprezzare le regole, i valori, il senso delle istituzioni e delle tradizioni civili? Su quale base comune costruire altrimenti una convivenza coi nuovi arrivati?
Se cresce ormai positivamente la consapevolezza che la via da percorrere è quella dell’integrazione, resta ancora equivoco il senso da attribuire a questa espressione. Per alcuni coincide sostanzialmente con l’“adeguamento integrale” di altri ai nostri modi: di parlare, di vivere, di agire, di consumare... In buona sostanza con l’omologazione. In realtà un’autentica integrazione suppone anzitutto conoscenza, dialogo, ascolto a partire dalla riscoperta delle proprie radici, così che le diverse componenti dell’unico corpo sociale possano contribuire, ciascuna con la propria originalità, al bene comune e al volto di una città migliore.
L’albero buono si riconosce dai frutti buoni, ma di fronte a frutti cattivi occorre scendere in profondità e risanare le radici: ripartire dalla famiglia. Essa, come sottolinea Benedetto XVI, «è un fondamento indispensabile per la società e per i popoli, e anche un bene insostituibile per i figli. È nel focolare domestico che s’impara a vivere veramente, a valorizzare la vita e la salute, la libertà e la pace, la giustizia e la verità, il lavoro, la concordia e il rispetto» (Discorso al VI Incontro Mondiale delle Famiglie di Città del Messico). A tutte le famiglie, italiane o immigrate, occorre assicurare quanto è necessario a una vita dignitosa, per sé e i propri cari, e così assolvere al proprio compito sociale: casa, scuola, lavoro, assistenza per bambini, anziani, disabili e malati. Non sarebbe tempo di prendere in seria considerazione l’urgenza dei ricongiungimenti familiari?
In particolare le prime vittime di una politica paralizzata dalla ricerca del consenso e poco audace nel progettare, realizzare, governare la “metropoli” del presente e del futuro sono le giovani generazioni. C’è forse vera differenza fra il disagio violento, tribale e rancoroso delle gang etniche e quello più narcisistico, autodistruttivo e spietato dei giovani “bene”? La sfida educativa nei confronti dei giovani, ancora più acuta nel contesto della seconda generazione di immigrati, è davvero centrale per le famiglie e per le altre agenzie educative. Giustamente la riflessione dei sacerdoti del decanato di Turro, in cui è situata via Padova, sottolinea la preziosità dei luoghi di educazione giovanile come le scuole, gli oratori e le comunità cristiane. Realtà già presenti, ma bisognose di ulteriore sostegno. Perché non promuovere per davvero un “esercito” di educatori piuttosto che di militari?
Partiamo dal riconoscimento e dal sostegno dei molti segni di speranza e delle diverse realtà vive del quartiere: i cittadini che scelgono positivamente di abitarvi, le comunità cristiane con le loro attività, le forze politiche, sociali e culturali che mantengono un legame col territorio, i commercianti, le scuole, le associazioni di volontariato.
Segno di speranza è anche la Messa celebrata per il Decanato domenica 7 febbraio dal Cardinale Tettamanzi insieme a più di 1500 persone. Chi vi ha partecipato ha potuto sperimentare un momento di autentico entusiasmo popolare, il ritrovato orgoglio di abitare il quartiere, la bellezza della fede e dei legami di fraternità che essa genera.
Insomma, non un gesto isolato, ma la rivelazione di quel volto autentico della città per cui vale la pena lottare, amare e vivere, al quale si richiamava quel giorno l’Arcivescovo concludendo la sua omelia: «Di fronte a una società che ne è povera, la comunità cristiana si presenti invece come il luogo nel quale la speranza continuamente sorge e viene offerta, a tutti e a ciascuno, attraverso la testimonianza di un amore misericordioso».
Il Papa, Ruini e la rivolta degli atei devoti
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2010)
Sulla Curia attonita è calata la parola di Benedetto XVI in difesa di Bertone e di Vian. Ma ora è la rivolta degli atei devoti. Ferrara sbeffeggia il comunicato e il Giornale irride: “Il Papa fuori dalla grazia di Dio”.
Eccoli i rimasugli imprevisti e velenosi del lungo regno del cardinal Ruini, che dopo il crollo della Dc pensò di posizionare la Chiesa al centro del gioco politico. Scegliendosi alleati in campo cosiddetto “laico”, difensori improvvisati di un cristianesimo senza Cristo, araldi dell’identità cattolica d’Italia nel nome di un Vangelo agitato come libretto di Mao. Contro gli “uomini di Bertone” lancia frecciate sprezzanti Giuliano Ferrara, evangelista del pensiero ratzingeriano e infaticabile combattente a fianco delle gerarchie ecclesiastiche contro la 194 o i Dico o il testamento biologico.
La smentita vaticana, motteggia, è “squillante e molto tardiva”, di una “violenza verbale inconcludente”, stilata per “silenziare e mettere alla gogna l’informazione laica, libera, amica che denuncia il fattaccio”.
Doveva succedere prima o poi. Se la Chiesa, durante il ventennio ruiniano, è stata gestita come soggetto partitico, manovrata come un Comitato centrale per organizzare astensioni ai referendum, animare manifestazioni di piazza contro disegni di legge, intimidire governi... doveva finire che i mass media la considerassero alla stregua di un partito come gli altri, con le sue fazioni e i suoi intrighi, e che gli “alleati” di ieri si lanciassero a gettare benzina sulle divisioni interne come succede nel teatrino politico.
L’iperpoliticizzazione ruiniana ha condotto la Chiesa a perdere la sua “diversità”. Perché una cosa è combattersi nei ranghi ecclesiali su temi come il Concilio, il negazionismo, la sessualità, il rapporto con l’islam, altro è lasciare che venga proiettata l’immagine di corvi che portano pacchi maleodoranti di nido in nudo.
Un tale degrado d’immagine non si era mai visto in epoca contemporanea. E il verminaio è stato prodotto proprio da coloro che la strategia ruiniana aveva eletto come punta di diamante dell’inf luenza cattolica in partibus infidelium.
Gli elefantini allegramente neo-integralisti, “alla laica”, il cardinale Ruini, da presidente della Cei, se li era bene allevati. Facevano da pendant perfetto agli arditi ciellini. Gli ossequienti alla Ferrara tornavano utili per dare smalto al Comitato Scienza e Vita (sapiente mix di cattolici e agnostici), messo in piedi dietro le quinte dall’allora dirigenza Cei, per imporre la linea astensionista al referendum sulla fecondazione assistita.
Tornavano utili per predicare contro le “stragi” dell’aborto e buttare bombe intellettuali contro l’I l l u m i n ismo, nell’esaltazione delle perenni “radici cristiane” dell’Italia e dell’E u ro p a Nel 2006 al convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona il cardinal Ruini incoraggiò Benedetto XVI all’e l ogio degli atei devoti, portati in palmo di mano perché erano testimoni dell’“insuf ficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’e t ica troppo individualista”. Elogiati perché sensibili alla “gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà”. Erano - s c a ndì Benedetto XVI - una “grande opportunità” che la Chiesa italiana doveva “cogliere”.
Si è visto. In queste settimane la “grande opportunità” ha armato la canizza assieme ai ciellini e ai falchi ruiniani contro l’Osservatore Romano per mettere al tappeto il cardinale Bertone. E adesso che il Papa (malvolentieri, peraltro) è dovuto intervenire di persona, Ferrara demolisce il comunicato, smontandone la “violenza verbale inconcludente ” e accusando nuovamente Vian di avere avvalorato la “cacciata di uno stimato giornalista cattolico” come Boffo. Mentre il G i o rnale, in passato estremamente rispettoso nei confronti della Chiesa, invita il Papa a informarsi “in tre minuti” della fondatezza della condanna per molestie di Boffo. In questo girotondo di bande il mondo dei fedeli cattolici appare ferito, disgustato e disorientato.
Alcuni punti fermi sono tuttavia acquisiti. La “velina”, che Feltri pubblicò l’agosto scorso, è nata in ambienti cattolici milanesi: avversari di Boffo per la concentrazione di potere avvenuta nelle sue mani come zar del sistema mediatico cattolico (Avvenire, la televisione della Cei, la rete delle radio cattoliche) e come portavoce politico di Ruini ormai in pensione. La “velina” è stata spedita in primavera, con buste e francobolli vaticani, all’indirizzo di circa duecento vescovi. Sarebbe morta nei cassetti se Feltri non l’avesse messa in pagina per punire Boffo, reo di avere criticato su Avvenire Berlusconi per l’affare escort. Il paradosso è che Boffo, solo premuto dalla base cattolica e con l’assenso del nuovo presidente della Cei Bagnasco, aveva attaccato il premier. Prima dello scandalo aveva sempre seguito la linea Ruini favorevole al centro-destra. Anche Bertone, il “nemico” di Ruini, è peraltro favorevole al centrodestra. Perciò fece intervenire ai primi di settembre Vian con un’intervista al Corriere della Sera per bacchettare l’Avvenire: proprio per salvaguardare i buoni rapporti istituzionali con Berlusconi. Un gioco degli specchi.
Emarginato Boffo, si sono mossi ora a gennaio gli atei devoti e manipoli ciellini e ruiniani per “ridare l’onore” all’ex direttore dell’Avvenire e mettere in difficoltà Bertone diventato troppo potente in Vaticano. Ma nel polverone del campo di battaglia si stagliano alcuni fatti precisi. Feltri dichiara chiuso il caso e annuncia che non “rivelerà” nomi. (E Berlusconi, con le elezioni incombenti, dichiara d’i mprovviso di essere tanto dispiaciuto per gli attacchi portati a Boffo a mezzo stampa).
Bagnasco continua in silenzio la sua “linea pastorale” né con Bertone né con Ruini. E lo scarno comunicato Cei testimonia la volontà di non mettere neanche un dito nel verminaio. I grandi porporati della Chiesa italiana - Scola, Sepe, Tettamanzi, futuri protagonisti del Conclave - tacciono, per mostrarsi superiori a queste miserie. E i cardinali di Curia stranieri sospirano: “Robe tutte italiane”.
Camillo De Piaz, un prete sulla frontiera
intervista a Camillo De Piaz a cura di Paolo Tognina
in “voce evangelica” , trascrizione dell’intervista apparsa in “segni dei tempi” RSI del 26 gennaio 2008
Frate servita tiranese, amico di padre Davide Turoldo, figura di spicco della Resistenza e del dopoguerra a Milano, legato alla stagione del Concilio
Giuseppe Gozzini ha scritto recentemente un libro su di lei, intitolandolo “Sulla frontiera”. Che cosa rappresenta per lei, la frontiera?
La frontiera per me rappresenta due cose apparentemente contrastanti tra loro. Da una parte, la separazione, e dall’altra qualcosa da attraversare.
La spinta ad attraversare le frontiere, i confini, è dunque sempre stata tra le sue caratteristiche, fin dagli anni in cui era a Milano?
Appena finita la guerra, a Milano è nato il centro culturale Corsia dei Servi, promosso e fondato da padre Davide Turoldo, da me e da alcuni amici nostri. Un centro culturale con una libreria aperta al pubblico, con attività editoriali, dove si organizzavano dibattiti e incontri. Noi ci siamo sempre rifiutati, ed è stata dura, di far parte dell’associazione dei circoli e dei centri cattolici, perché ci ponevamo, ed eravamo ed operavamo all’interno del dibattito culturale generale, non volevamo starne fuori. Questa è stata una cosa caratterizzante la Corsia dei Servi. Anche questo, naturalmente, non senza critiche e scontri.
Chi erano i promotori della Corsia dei Servi?
C’ero io, c’era Davide Turoldo, però insieme a noi, a parità di condizioni, c’era un gruppo di laici, e di laiche. La grande Lucia Pigni, ad esempio. Noi siamo stati degli anticipatori, a nostro rischio e pericolo, di quello che sarebbe stato poi il concilio e tutto quello che sta intorno al concilio.
Il vostro voler operare all’interno del dibattito generale, oltre le frontiere, anche politiche, coinvolgendo anche i laici, non è stato visto di buon occhio...
No, nel 1954 è giunto a Davide un ordine del Sant’Uffizio, che lasciasse non solo Milano, ma l’Italia. La famosa espressione del cardinale Ottaviani: “Fatelo circolare”. E ha dovuto andare. Ha vissuto un po’ di tempo in Austria e poi a Londra. Poi ha girato un po’. Gli è servito, però. Ha girato un po’ il mondo. Invece a me è l’ordine di lasciare Milano, che veniva anche in quell’occasione dal Sant’Uffizio, è capitato dopo, nel 1957.
Come ha reagito a quell’ordine, allora?
Il mio priore provinciale, del quale ero amico, mi ha lasciato scegliere. A quel punto io mi sono sentito perso e mi sono detto: “Torno al mio paese, torno a Tirano”. E sono tornato a Tirano.
Non ha mai pensato di andarsene, di lasciare la chiesa?
Turoldo, e anche io, siamo sempre rimasti dentro. Anche negli anni in cui ci sono stati molti esodi. Anni difficili, anni critici. Davide era durissimo con chi abbandonava. Se si usa la parola obbedienza si capisce poco, ma la sua caratteristica dominante era la fedeltà. Il grande padre domenicano Clerissac, diceva che ciò che distingueva il vero religioso era anche la sua capacità di soffrire non soltanto “pour l’eglise”, ma anche “par l’eglise”. Fedeltà e libertà, giustamente viste e concepite, vanno assieme. Davide è stato un esempio di grande libertà proprio in quanto era fedele. Queste sono cose difficili da far capire alla mentalità dominante dei nostri giorni, che non riesce a vedere assieme le due cose, mentre vanno assieme.
Lei, come anche padre Turoldo, è stato un precursore di alcuni sviluppi avvenuti nella chiesa con il concilio e ha vissuto con entusiasmo gli anni del concilio. Quali erano i tratti salienti, le novità maggiori portate dal concilio?
Se andiamo a vedere i testi del concilio, prendiamo la Lumen Gentium, che è il testo sulla chiesa, vediamo che mette al centro dell’organismo ecclesiastico il “popolo di Dio”, quello che viene chiamato lì per la prima volta il “popolo di Dio”. Tutto il resto viene di conseguenza: l’apparato, i vescovi, il papa stesso. Prima viene il popolo di Dio. È molto importante, questo: è stata chiamata la rivoluzione copernicana. Ed è quella che negli anni successivi viene un po’ esorcizzata. E il culmine di questa esorcizzazione del concilio avviene con l’attuale pontificato.
Quali conseguenze può avere il rovesciamento delle priorità nell’organizzazione della chiesa indicato dal concilio?
Bisogna ritornare a concepire lo stesso papato come un primato tra gli altri. Non l’unico primato. Quindi anche un ridimensionamento di quello che ha finito col diventare il papato, soprattutto in questi ultimi tempi. Non per niente uno dei grandi teologi del concilio, Karl Rahner, parlava di “papolatria”. Questo poi è diventato più evidente con alcuni papati. Io l’ho poi anche scritto, un po’ pericolosamente, a proposito del papato polacco, che era come se sulla scorta di Luigi XIV dicesse “l’eglise c’est moi”. Il re diceva “la France c’est moi”, lui diceva “l’eglise c’est moi”. E non è vero.
Lei appartiene all’ordine dei Servi di Maria. Quali tratti caratterizzano questo ordine?
Quello che caratterizza gli ordini nati nel Duecento, come quello al quale appartengo, dei Servi, è la completa reversibilità dei mandati. Nell’ordine servita sono vivi quattro di quelli che sono stati priori generali: sono tornati a essere dei semplici frati. Questa è una distinzione importante col resto del mondo ecclesiastico. E questi ordini poi partivano dal basso della società. Lo indicano anche iloro nomi: minori, minimi, servi. Siamo lontani da certi movimenti dei nostri anni, facciamo pure i nomi: Opus Dei, o Comunione e Liberazione - Opus Dei più a livello mondiale, Comunione e Liberazione più a livello italiano o anche svizzero - che fanno un altro percorso. Loro partono dal punto di vista che la società moderna è scristianizzata. E allora cosa si fa? La si occupa, la si occupa occupando i posti di potere. È quello che stiamo vedendo, no? Un’altra cosa che caratterizza gli ordini nati nel Duecento è la povertà: non tanto intesa nel senso letterale di povertà, ma nel senso di rinuncia alla proprietà personale. Cioè, c’è la comunione dei beni. Anche il voto di obbedienza, vuol dire sottrarsi alle servitù a cui si va incontro vivendo nel mondo. Cioè, è in funzione della libertà.
È ancora attuale la proposta di questi ordini?
Secondo me questi ordini mantengono e hanno in serbo una loro grande attualità. Anche se col prevalere di quegli altri che ho nominato sono stati messi un po’ in quarantena.
Lei ha spesso denunciato la debolezza della classe politica italiana. E ne ha attribuito la causa, almeno in parte, alla chiesa. Come vede il rapporto tra fede e politica?
La mancanza di valore etico nella politica italiana, secondo me dipende anche dalla invadenza della chiesa. E questo è un problema che mette in causa la chiesa. La politica deve avere un suo habeas corpus etico che non può essere surrogato dalla chiesa. Ciò non vuol dire che la politica non possa avere ispirazioni provenienti dal cristianesimo, però autonomamente, perché se la chiesa pretende di essere l’unica ispiratrice etica, abbiamo il disastro che abbiamo in Italia.
Oggi sembra prevalere, nelle chiese, come in tutta la società, un ripiegamento sulla propria identità; c’è un rafforzamento, in chiave spesso difensiva, delle identità. Come valuta lei questo fenomeno?
Il prevalere della sindrome dell’identità può diventare pericoloso. Gesù non dice a un certo punto: “Rinneghi se stesso”, cioè, “rinneghi la propria identità”? Lo so che dico una cosa grossa, ma è questo il punto. Oggi bisognerebbe invece parlare delle co-identità, le identità viste assieme. E non un’identità contro le altre, come fa ad esempio la Lega. Guardiamo all’Italia: in realtà gli italiani non sono mai stati veramente razzisti. Magari i settentrionali prendevano in giro i meridionali, e viceversa. Ma non era proprio razzismo. Oggi, per la prima volta, anche l’Italia rischia di diventare preda di un movimento xenofobico.
Il cattolicesimo come reagisce a queste spinte xenofobe?
Almeno a livello concettuale, cattolico è l’esatto opposto di razzista. Cattolico vuol dire universale, universalista. E questo è presente anche in certi risultati concreti seguiti al concilio. Ad esempio, non si dice più la chiesa di Tirano, o la chiesa italiana, ma si dice la chiesa di Dio che è in Tirano, che è in Italia. Cioè, questa capacità, sapienza, in fondo anche misteriosa, di coniugare assieme l’incarnazione locale con l’universalità, è tipica della tradizione cristiana, ed eminentemente della tradizione cattolica. Malgrado le derive che ci sono state e che ci possono ancora essere.
Come valuta il movimento ecumenico, che tra l’altro, nella chiesa cattolica, si è imposto proprio con il concilio Vaticano secondo?
È da una vita che mi sono occupato di ecumenismo. Però vedo anche i limiti di un certo ecumenismo che rischia di finire in qualcosa di semplicemente diplomatico - un coltivare buoni rapporti - mentre credo che debba essere qualcosa di più. Un sentire in proprio anche le posizioni degli altri, viverle. Quindi al di là del semplice dialogo, l’ecumenismo è qualcosa di più profondo, è il ritrovarci assieme, dalla stessa parte. Ed è anche una valorizzazione delle differenze come una ricchezza. Le differenze sono una ricchezza, non una povertà. Le disuguaglianze sono una povertà, ma non le differenze. Vedo le varie confessioni religiose, per restare in tema di ecumenismo, come sorgenti, come acque che vanno a finire nello stesso invaso. Alla fine sarà così. Anche perché, ci si può dire, il mondo si aspetta questo. Volere o no, manifestamente o no, se lo aspetta
(intervista a cura di Paolo Tognina; vedi anche il documentario* di Paolo Tognina dedicato a Camillo de Piaz, diffuso da RSI LA1, nella rubrica “segni dei tempi”)
* http://la1.rsi.ch/segnideitempi/welcome.cfm?idg=0&ids=3120&idc=25752
Camillo De Piaz, il braccio destro di padre Turoldo
di Aldo Bonomi (Corriere della Sera, 1 febbraio 2010)
È morto Camillo De Piaz, frate servita che molti ricorderanno, con il suo passo indietro da suggeritore, accanto alla figura imponente del suo sodale padre David Maria Turoldo. Era nato il 24 febbraio 1918 e aveva molte cose da raccontare. Lui, Premio Curiel per la Resistenza, protagonista di quel crogiuolo operoso e fecondo di incontri milanesi tra cattolici e comunisti durante la Resistenza. Lui, frate cattocomunista come è stato sempre segnato, dava interpretazioni sottili di quell’incontro tra le due culture del ’900 che cambiava e mutava la sua Milano. Ne faceva testimonianza anche, con gli incontri tra la Corsia dei Servi, l’associazione culturale da lui animata, e la Casa della Cultura allora diretta da Rossana Rossanda. Erano tempi di sperimentazioni che avrebbero portato poi a elaborazioni politiche alte, fino al compromesso storico tra Aldo Moro e Enrico Berlinguer.
Si era ritirato a Tirano in Valtellina, dove è morto, nel convento di fronte alla Basilica dopo gli anni 50, quando lui e Turoldo erano stati allontanati da Milano come frati scomodi, vivendo da pendolare tra il locale, un borgo alpino di confine e il globale, si direbbe oggi, di una Milano plasmata e cambiata dal boom economico e dalla rinascita postbellica. Con cui aveva mantenuto reti lunghe ed alte di frequentazione. Con quella borghesia ambrosiana dei Pirelli, più con Giovanni che con Leopoldo, dei Cederna, l’amica Camilla e il Vittorini del Politecnico. Borghesia e intellighentia che faceva fabbriche e si poneva l’interrogativo forte dell’intreccio tra economia, cultura e coesione sociale. A noi, ragazzotti sessantottini che scrivevamo sui muri del palazzo valtellinese dei Cederna «Borghese illuminato non inganni il proletariato» spiegava paziente il ruolo delle élite e di una borghesia interrogata dal motto weberiano «la proprietà obbliga». Obbligo per quelli che stanno in basso, nella società. Gli ultimi a cui dava voce e visibilità alla Corsia dei Servi dove si raccontava il venire avanti di una città che accoglieva i tanti che facevano esodo da sud a nord al lavoro nel «fabbricone» raccontato da Testori e dalla poesia disperante dell’amica Alda Merini.
Camillo aveva attenzione anche ai dannati della terra. Attraverso le reti della teologia della liberazione faceva racconto dei territori lontani, l’Algeria, l’America Latina... La Corsia non era solo racconto degli ultimi, era snodo di quel cattolicesimo postconciliare animato da Camillo e Mario Cuminetti a Milano, e da padre David, emblematicamente collocato a Sotto il Monte, la piccola Gerusalemme di Giovanni XXIII. Dialogando tenacemente con il farsi e il mutare della società. Con il suo sviluppo. Discutendone con Giuseppe De Rita.
Per dirla con il cardinale Martini, quella di padre Camillo è una storia di vita da cristianesimo di minoranza che si fa nella relazione e nella contaminazione convinto, come è sempre stato e come ci insegnava citando Levinàs che «l’identità non sta nel soggetto ma nella relazione». È la sintesi del suo romanzo di formazione che molti hanno letto e vissuto con lui. Rimane un Camillo privato, intimo. Quello che scendendo da Carona, il piccolo comune dove aveva avuto origine la sua famiglia, ti stupiva con il suo poetico entusiasmo per i tronchi delle betulle illuminate nella notte dai fari dell’automobile. Non per nulla era amico e gli piaceva scoprire poeti, pittori e scrittori. Da farne un’altra storia. Oggi mi basta ricordarlo e raccontarlo come un frate poeta che ha attraversato e ci ha raccontato il ’900.
Addio a De Piaz Frate e partigiano
di Goffredo Fofi (l’Unità, 1 febbraio 2010)
Alle tre di notte di ieri domenica, è morto a Madonna di Tirano in Valtellina, dove era nato nel 1918 e dove nel 1957 era stato costretto a tornare a vivere da un diktat della curia milanese, padre Camillo De Piaz, frate dell’ordine dei Servi di Maria. De Piaz non era un cognome da nobili e Camillo ci teneva a dirlo: significa “di Piazzo”, un villaggio non lontano da dove è nato, figlio di un falegname-contadino morto quando lui aveva otto anni. In collegio aveva conosciuto un ragazzo della sua età che sarebbe diventato padre Davide Turoldo, amico di tutta una vita, scomparso molto prima di lui, e insieme essi furono i protagonisti di una grande stagione del cattolicesimo italiano, o meglio, della minoranza più autenticamente cristiana all’interno della Chiesa cattolica. Più d’espressione e di battaglia padre Davide, più di pensiero Camillo.
A Milano, aveva preso parte alla Resistenza nel Fronte della Gioventù, che raggruppava cattolici e comunisti, socialisti e liberali, ed era stato vicino a Eugenio Curiel, ucciso dai nazifascisti due mesi prima della Liberazione. Nel 1973, Enrico Berlinguer doveva premiare Camillo (mi scuso di chiamarlo per nome, ma è così che l’ho chiamato da quando l’ho conosciuto, tantissimi anni fa) con la medaglia Curiel, e in quell’occasione egli aveva voluto presentarsi in tonaca, come gli accadeva di fare molto di rado. L’attività della Corsia dei Servi a Milano - gruppo e libreria tuttora attivi, anche dopo la scomparsa di due magnifici animatori come Mario Cuminetti e Lucia Pigni, nella sede di via Tadino che fu data alla Corsia dalla Cisl dopo che era stata sloggiata dalle adiacenze della centralissima piazza San Babila, a due passi dalla Casa della Cultura - è stata fondamentale nella vita civile, culturale e politica della città sin dal primo dopoguerra, luogo d’incontro tra i più straordinari negli anni della ricostruzione.
Di lì sono passati Dossetti e don Zeno, Dolci e Vittorini, Fortini e Balbo, Camilla Cederna e Testori, padre Balducci e Santucci, su fino a Grazia Cherchi e a molti dei “Piacentini” e a tanti non credenti a fianco dei credenti, uniti da comuni idealità sociali.
C’è un bellissimo libro che si può dire sia stato scritto a quattro mani da Camillo con Giuseppe (Beppe) Gozzini che lo ha firmato (e che, prima di diventare membro dei “Quaderni rossi” e animatore di gruppi operai all’Alfa Romeo dopo il ‘68, fu il primo obiettore di coscienza cattolico, quello per cui don Milani rischiò la galera per aver scritto in sua difesa L’obbedienza non è più una virtù). Il libro si intitola Sulla frontiera, lo ha edito Libri Scheiwiller nel 2006 ed è facilmente rintracciabile: un dialogo serrato attraverso il quale è possibile ricostruire le vicende del meglio della cultura cattolica italiana più radicale, illuminando i suoi legami con la Francia, le nuove tensioni portate dalla teologia della liberazione, il grande apporto dato da questa cultura al Concilio e le amarezze provocate in essa dal dopo Concilio.
Camillo parlava molto chiaro, e non ha mai esitato a criticare aspramente Comunione e Liberazione e ogni altro uso della religione a scopi politici. In una intervista a “Una città” del 2005 diceva: «La dimensione della laicità è profondamente radicata nel cristianesimo e direi anche nella tradizione biblica, La Bibbia è fondamentalmente una storia che si svolge in questo mondo. Dio dopo la creazione si ritira, ed è come se dicesse: il mondo è vostro, ora tocca a voi gestirlo».
Ho frequentato Camillo assiduamente, quando scendeva a Milano, anche perché la libreria di via Tadino a cui faceva capo era a mezza strada tra casa mia e la redazione di “Linea d’ombra” e vi passavo davanti più volte al giorno e, quando c’era, era l’occasione di lunghe chiacchierate e giri d’orizzonte. Di recente, ho preso parte ai festeggiamenti per il suo 90° compleanno, a Milano, credo la sua ultima discesa nella città. Ormai non si muoveva più da Madonna di Tirano, aveva problemi alla vista, e i suoi contatti col mondo erano Radio3 e le telefonate degli amici. Era diventata un’abitudine chiamarlo ogni qualche domenica per lunghe chiacchierate affettuose in cui voleva sapere di tutto, dalla situazione politica ai libri letti agli amici incontrati. Le telefonate più belle sono, nel mio ricordo quelle che gli facevo immancabilmente ogni 25 aprile, così come ho fatto da anni a tutti gli amici che avevano fatto la Resistenza, Nuto Revelli, Bianca Guidetti Serra, Lalla Romano e tanti dai nomi non noti. Ben pochi di loro restano in vita, ma proprio per questo vanno, i vivi onorati, i morti, ricordati. Anche perché di frati come padre Camillo De Piaz non ne restano in giro molti, nell’Italia di oggi.
L’arcivescovo di Milano lancia l’allarme sulla situazione del nostro Paese
"Alcune sortite di figure istituzionali hanno leso le istituzioni stesse"
Tettamanzi: "Un clima politico denso di veleni e sospetti" *
MILANO - L’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, lancia un allarme sullo stato della vita pubblica nel nostro Paese. "Preoccupanti episodi di corruzione morale, aggressività politica e accanimento mediatico - dichiara - hanno generato un clima politico denso di veleni e sospetti e un pesante crollo di fiducia dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni".
Secondo Tettamanzi, anche "alcune sortite da parte di figure istituzionali non hanno talora mancato di contribuirvi con pronunciamenti indebiti, che più che stigmatizzare mali personali o strutturali, sono andati a ledere l’immagine e l’autorevolezza delle istituzioni stesse". "Viviamo tempi difficili per le istituzioni repubblicane - prosegue il ragionamento - numerosi segnali d’allarme sono tristemente risuonati in questi mesi".
Intervevendo al trentanovesimo piano della nuova sede della Regione Lombardia per benedire la statua della Madonnina, l’Arcivescobo spiega che "il gesto che noi compiamo vuole essere un semplice ma significativo segno di un cammino da percorrere in direzione opposta, di uno stile di correttezza e limpidità da ritrovare: le istituzioni, pur con tutti i limiti dell’umana fragilità, sono fondamento e garanzia della comune convivenza".
* la Repubblica, 31 gennaio 2010
«Conoscere la Chiesa per comunicarla»
Tettamanzi: la necessità di parlare del bene. Direttori a confronto
DI ANNALISA GUGLIELMINO (Avvenire, 24.010.2010).
Tre direttori di tre grandi quotidiani nazionali e un cardinale. Una sociologa esperta di cultura della comunicazione. E mezzo mondo del giornalismo milanese pigiato nel salone del Circolo della Stampa di corso Venezia. Così Milano ha celebrato il suo San Francesco di Sales, patrono degli operatori dell’informazione: tutti davanti alla domanda: «Come comunicare la Chiesa?». E quanto la Chiesa è «spettacolarizzata», «strumentalizzata » e perfino «banalizzata»? Dalla capitale italiana dell’editoria, e dalla metropoli che tutti i giorni ha motivi per finire in prima pagina o “fare notizia”, l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi ha considerato come «all’origine di tante immagini distorte che della Chiesa appaiono sugli strumenti di comunicazione c’è la mancata conoscenza di cosa essa sia».
Al tradizionale dibattito organizzato dalla Curia in collaborazione con l’Ucsi (Unione cattolica della stampa italiana) della Lombardia hanno partecipato i direttori di Corriere della sera, Repubblica e Avvenire. Dopo il saluto dei presidenti dell’Associazione lombarda e dell’Ordine dei giornalisti, Giovanni Negri e Letizia Gonzales, è toccato ai direttori dei giornali sviluppare un’(auto)analisi del rapporto tra media e Chiesa.
«La Chiesa è spesso chiamata a svolgere una supplenza d’identità, a volte di tipo civile, e di custodia dei valori - per il direttore del “Corriere”, Ferruccio De Bortoli -. A volte si è mossa come un partito, dopo aver rinunciato all’idea di un partito unico cattolico. Ma il suo ruolo e la sua attenzione nei confronti delle minoranze, la Chiesa come è nel quotidiano, non è mai sottolineato abbastanza ».
Puntando il dito contro «il deserto culturale che la Chiesa ha davanti in Italia» il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, la vede come «una minoranza» che «sa di essere parte, ma insieme pretende di essere gruppo di pressione».
Una «vulgata » per il direttore di Avvenire, quella di una Chiesa «che parli solo alla politica». Per i cattolici, ha sottolineato Marco Tarquinio, «c’è qualcosa che nessuna maggioranza può negare: il rispetto della vita e della persona». Dove c’è un dolore «lì c’è un cristiano». E la Chiesa continua il suo compito sul territorio, «al di là di tanti titoli sui giornali, spesso troppo allegri».
Ai giornalisti Tettamanzi ha indicato «la necessità» di parlare del «bene », di rispettare «la dignità umana », di cercare con la Chiesa - ha aggiunto sulla scorta della relazione della sociologa della Cattolica Chiara Giaccardi - di un «patto comunicativo ». D’altronde la Chiesa, ha concluso il cardinale, è quella che il Concilio (ieri citato più volte da tutti gli interlocutori) ha descritto «nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina».
Tettamanzi: la Chiesa comunica stando in mezzo alla gente
di Andrea Galli (Corriere della Sera, 24 gennaio 2010)
Ma, mettiamo, avesse fatto il mestiere del giornalista? «Come ha detto un rabbino, il Signore ci ha dato una bocca e due orecchie, e dunque bisogna ascoltare almeno il doppio di quanto si parla. E io, da arcivescovo, sto in mezzo alla gente per sentire istanze, registrare sofferenze». Che, poi, vorrebbe dire fare il buon cronista. E, forse, anche il buon uomo di Chiesa. In fondo, dice il cardinale Dionigi Tettamanzi senza voler suggerire confronti, o magari sì, se «in certi temi come l’immigrazione il giornalismo è superficiale», questa Chiesa «deve vivere non per occupare il più possibile gli spazi mediatici» ma «per dedicarsi in modo privilegiato a chi è più povero».
Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, la definisce «annotazione degli indizi», ed è l’azione quotidiana «dei nostri missionari e volontari che, in ogni parte del mondo, ci fanno da antenne, riferiscono i fatti». Non a caso di San Francesco di Sales, patrono (la ricorrenza cade oggi) dei giornalisti, si ricorda il gran viaggiare per predicare e l’invio, quando proprio non poteva arrivarci, dei «manifesti», a modo loro, anzi a buon diritto, antesignani della stampa. I «manifesti» avevano un obiettivo: informare.
«Comunicare la Chiesa. Una, santa, cattolica?» ci si è chiesti ieri in un dibattito al Circolo della stampa. Discussione, analisi, confronto sulla parola di Dio e l’informazione; i fedeli che sono anche cittadini e, dunque, elettori; le omelie e i problemi del Paese, un Paese in cui, dice il direttore di Repubblica Ezio Mauro, «la Chiesa ha davanti a sé un deserto culturale», a causa di una sinistra «piena di ex di qualsiasi cosa» e di una destra che «guarda più al comando che ai comandamenti». E il giornalismo? Ha conservato un ruolo? Se sì, quale? E qual è il rapporto con la Chiesa? Ancora Mauro ricorda la «funzione pubblica del giornalismo», il suo dovere di «indagare la realtà».
Ma che sia un’indagine accurata, a fondo, insistita, si raccomanda Tettamanzi. Sui problemi della società, il cardinale vede una stampa che rischia di «essere affrettata, sensazionale», con la conseguenza di ledere «la dignità delle persone». Comunque sì, è vero, Tettamanzi cerca di stare sempre in mezzo alla gente; a dibattito finito, eccolo sostare tra il pubblico, indugiare, appunto ascoltare. Però siccome dev’essere tra un’oretta in un posto e tra due in un altro, quasi quasi quelli dello staff lo tirerebbero per la tonaca, «eminenza, su, andiamo!»...
Prima di andare, lo fermano i giornalisti, che tornano sul solito tema: gli immigrati e Milano. «Accogliere», dice stavolta Tettamanzi, «significa non solo aprire le braccia ma anche collaborare con chi viene accolto affinché l’immigrazione implichi un reale e completo cammino d’integrazione».
La grande tradizione ambrosiana, ricorda il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, vede la «legalità non disgiunta dall’accoglienza» e per accoglienza si intendono anche «gli straordinari, quotidiani esempi di aiuto verso i più poveri, gli emarginati, i diversi». Aiuti che forse non sempre si vedono, o vengono mostrati. Sarà colpa dello scadimento della «dimensione etica del giornalismo» che, dice de Bortoli, ha perso «l’umiltà dell’osservare»? E del resto, negli ultimi tempi, su giornali e televisioni, quanto è ancor più cresciuta quella «rappresentazione mutilata e strumentalizzata della realtà» riscontrata da Chiara Giaccardi, docente universitaria di antropologia dei media?
C’è un un’ultima domanda, la pone e deposita Tettamanzi, e qualcuno prima o poi dovrà rispondergli: «Perché i giornalisti non riescono proprio mai a parlare di qualcosa di bello e di buono che pure esiste?».
Il coraggio e la solidarietà
di Giangiacomo Schiavi (Corriere della Sera/Milano, 7 gennaio 2010)
Per essere una città aperta non basta ricevere chiunque, da qualunque parte arrivi: bisogna saper accogliere, integrare, avere una cultura e un’identità, bisogna saper dare e anche prendere. Il cardinale Tettamanzi lo ricorda nel giorno dei migranti, con il Duomo gremito e due piccoli che suonano un violino: sono rom, e sciolgono il ghiaccio dal cuore di Milano.
Non hanno gli occhi spaventati dei bambini portati via dal campo nomadi di via Rubattino, ma come loro cercano in questa città uno sguardo solidale, un’attenzione diversa dal rancore e dall’ostilità. Tra noi ci sono buoni e cattivi, dice un ragazzo filippino, ma siamo visti come dei diversi: alcuni di noi non possono nemmeno andare a scuola. Aggiunge una giovane ecuadoregna: «Ti chiedo aiuto, caro don Dionigi, vorrei che papà e mamma mi insegnassero le cose che li hanno resi felici nella vita».
È nel suo simbolo più caro che bisogna cercare Milano. È nel Duomo e nel cardinale che la città si ritrova e fa sentire quell’umanità che a volte sembra smarrita. Sono crollate le vecchie ringhiere a Milano, quelle che intorno alle case portavano una solidarietà attiva, soprattutto nel bisogno. Ma non le abbiamo mai del tutto sostituite, per rendere meno difficile o tragica la sopportazione dei disagi, degli stenti, delle miserie della vita ai meno fortunati, che oggi sono sempre più stranieri, immigrati, e fra questi donne e bambini.
Non siamo riusciti a trovare qualcosa, come scriveva anni fa il grande Giovanni Testori, «che ci aiuti ancora a sopportare, non solo non facendo del male al prossimo nostro, ma facendosi reciprocamente del bene. Parole vecchie, usate, anzi, abusate? Ma non invecchiano, e turpemente, assai prima l’altre, quelle con cui abbiamo stabilito, come nostra corona, non già la milanese passione, bensì la nuova milanese indifferenza?».
È contro l’indifferenza che predica generosamente e con coraggio da mesi il cardinale Tettamanzi. Per farci guardare i poveri di Milano, gli immigrati, i senzatetto, gli emarginati, i disoccupati, oltre l’impressione del fastidio: invitandoci a riconoscere in loro una dignità e un’umanità troppe volte calpestata. Purtroppo ci sono cuori che non vogliono aprirsi, ha ripetuto ieri il cardinale, sfidando un’altra volta il muro di gomma che sembra avvolgere Milano. Ma richiamando anche i genitori migranti ai loro doveri, invitandoli a portare avanti i progetti educativi per la nuova società nella quale hanno scelto di vivere. Vanno aiutati a diventare nuovi milanesi.
Bisogna far emergere il meglio in ciascuno di noi, ha detto Tettamanzi. E cogliere i segnali di speranza e di fiducia che si vedono negli occhi dei bambini. Il violino dei piccoli rom in Duomo è anche questo. È una domanda forte, per tutti: cosa c’entrano i bambini con la sofferenza?
Tettamanzi: più sobrietà contro la crisi
«Sei milioni di euro per i disoccupati»
di Paolo Foschini (Corriere della Sera/Milano, 2 gennaio 2010)
Opporsi al «dominio della logica economica» e alla «costrizione al consumo». Sviluppare «un nuovo stile di vita». Non in nome di un pauperismo fine a se stesso, ma per accordare «valore a una qualità della vita responsabile e sostenibile»: così il cardinale Dionigi Tettamanzi, ieri in Duomo.
E monsignor Gianfranco Bottoni, responsabile delle relazioni ecumeniche e interreligiose per la Diocesi, accogliendolo all’altare lo ha esortato a «non temere le critiche che nascono dall’ignoranza della parola di Dio» e provenienti da «chi si dice cristiano senza esserlo».
Il riferimento agli attacchi che il cardinale aveva subito in dicembre da parte della Lega non è stato esplicito: ma evidente quanto basta.
Dopodiché, a chiusura di un anno in cui l’esortazione alla «solidarietà» sociale e a un recupero di «sobrietà» come via d’uscita dalla crisi ha rappresentato la sua principale insistenza, l’arcivescovo di Milano ha deciso di riproporre il medesimo tema- e con forza ancora maggiore- quale primo comandamento anche per l’anno che verrà. E se «sobrietà» è stato uno dei termini-chiave scelti dallo stesso presidente Giorgio Napolitano per il suo discorso agli italiani la sera di San Silvestro, Tettamanzi ha ripetutamente citato il papa per estendere il concetto dall’economia all’ambiente: «Il degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi, gli stili di vita, nonché i modelli di consumo e di produzione dominanti».
Così, dopo aver rilanciato appena una settimana fa il mantenimento del Fondo Famiglia-lavoro inaugurato da lui a Natale dell’anno scorso e che ormai ha toccato i sei milioni di donazioni, il cardinale ha scelto il pulpito della messa di Capodanno celebrata ieri in Duomo per ribadire che la crisi non è finita e che limitarsi a sognare una ripresa dei consumi non solo non basta ma potrebbe persino essere controproducente. «Solidarietà e sobrietà- ha detto - sono due parole purtroppo in controtendenza nell’odierna società, ma del tutto decisive per risolvere i problemi dell’umanità e per adottare stili di vita coerenti con il vero Pace- è stata preceduta da un corteo della comunità di Sant’Egidio per ricordare le ventidue guerre in corso nel mondo e caratterizzata dall’incontro col Consiglio di tutte le chiese cristiane di Milano.
E il cardinale, riprendendo Benedetto XVI, ha sottolineato a sua volta come la via che porta alla pace passa anche attraverso il rispetto dell pianeta e dell’ambiente: di qui il monito non solo a «non spadroneggiare nei confronti delle persone e della natura » ma a « rispettare e promuovere la libertà altrui».
Il coraggio di creare un universalismo forte
di Khaled Fouad Allam (Il Sole-24 Ore, 27 dicembre 2009)
Il dibattito sulla proposta di legge sulla cittadinanza è appena iniziato alla Camera. È una questione complessa e difficile; la discussione è ricca e articolata, ma nessuno è in grado di offrire ricette miracolose. La sua complessità è legata al fatto che la questione della cittadinanza va oltre la questione dei diritti perché il contesto odierno è diverso da quello degli anni 70: mondo e individui sono cambiati. Su binari paralleli sono in atto globalizzazione e ricomposizioni identitarie; il dibattito sulla cittadinanza è essenzialmente un dibattito sulla società. Le società si interrogano sul significato di nazione, sul rapporto tra diritto e cultura, sul rapporto tra religione, diversità culturale e territorio, sul significato della democrazia: la cittadinanza interroga il divenire delle società a livello nazionale ed europeo.
Il contesto odierno è affine a quello di cui parlò Alexis de Tocqueville in L’ancien régime et la révolution: siamo nell’entre-deux, non siamo più nel prima ma non siamo ancora nel dopo, non c’è più l’ancien régime ma non è ancora la rivoluzione. Le tradizioni locali e nazionali tendono a misurarsi con la mondializzazione, il mondo in cui viviamo è decentrato perché le metropoli accolgono il mondo intero, diverse culture, tradizioni, certezze e incertezze. Per nessuno è facile governare tutto ciò, perciò oggi la cittadinanza non può più essere valutata come in passato.
I territori non sono più isolati, ma si viaggia su internet e attraverso le moderne autostrade; popoli e culture si confrontano; ma come trasformare tutto ciò in una comunità di destino? Come integrare il cinese, il musulmano, lo srilankese, mentre manca una cultura mondiale, manca una riformulazione dell’universalismo in cui il pianeta sia in grado di identificarsi, manca certo una riflessione profonda sul piano giuridico e sul piano culturale. Anche sul piano giuridico: nel caso dell’islam, è necessaria una riflessione sui diritti, in particolare sul diritto di famiglia, relativamente al quale la globalizzazione ha scardinato le antiche percezioni. La globalizzazione può avere una virtù pedagogica, spingendo le società più timorose del cambiamento verso una riformulazione giuridica e culturale, ad esempio nel rapporto tra uomini e donne.
Viviamo un tempo in cui il processo di globalizzazione induce a radicalizzare molte posizioni in un ripiegamento di tipo comunitario; le identità tendono a diventare sistemi di difesa di fronte alle nuove paure, alle insicurezze. Il risultato è che, sul piano legislativo, in quasi tutti i paesi europei le legislazioni sulla cittadinanza si avviano verso posizioni restrittive; s’instaura il dubbio sulla fedeltà degli individui alla nuova nazione d’appartenenza, e l’integazione è rimessa in causa Non parlerò del caso dell’islam perché ormai sembra che la questione integrazione riguardi esclusivamente i musulmani: secondo una tradizione storiografica che risale a Henri Pirenne, l’islam non sarebbe integrabile. Ma allora mi chiedo quale sia la soluzione: quella di cacciare tutti i musulmani come fece Isabella di Castiglia nel 1492, oppure ripetere ciò che è accaduto agli inizi degli anni 90 nell’ex Jugoslavia?
L’integrazione non è mai stata un processo facile, ma non abbiamo scelta. Gli esseri umani devono inventare la nuova comunità di destino: sentirsi italiano ed europeo non è impossibile per chi non vi è nato; si può benissimo amare Pergolesi e allo stesso tempo la musica indiana o quella araba; e si può amare sinceramente il paese di cui si è deciso volontariamente di diventare cittadino. Perché questo divenga il sentire condiviso, si deve creare una nuova cultura che ora non c’è.
Il silenzio degli intellettuali italiani mi preoccupa, troppo spesso tendono a rinuncia e pessimismo. Il risultato è che continuiamo a creare sacche di marginalità, creiamo cittadini che hanno paura di portare il proprio nome. I1 nuovo secolo ha bisogno d’altro: di coraggio e speranze per affrontare le difficoltà e le contraddizioni del nuovo mondo.
Chiesa e secolarizzazione
La vocazione messianica
di Giorgio Agamben (Il Regno-attualità., n.22, 2009, p.784-786) *
L’ indirizzo di saluto di uno dei testi più antichi della Tradizione ecclesiale, la Lettera ai Corinzi di Clemente, comincia con queste parole: «La Chiesa di Dio che si trova a Roma alla Chiesa di Dio che si trova a Corinto». La parola greca paroikousa, (tradotta nell’originale francese «en séjour», letteralmente «in soggiorno », e resa nella versione corrente italiana con «che si trova»; ndt) indica il soggiorno dell’esilio, del colono o dello straniero, in contrapposizione al dimorare del cittadino, che si dice in greco katoikein. Paroikein, vivere in esilio, definisce sia l’abitare del cristiano nel mondo sia la sua esperienza del tempo messianico.
È un termine tecnico, o quasi tecnico, poiché la Prima lettera di Pietro (1,17) chiama il tempo della Chiesa ho chronos tes paroikias: il tempo della parrocchia, si potrebbe tradurre, purché ci si ricordi che parrocchia qui significa «soggiorno da straniero».
Il termine «soggiorno» non dice nulla riguardo alla durata cronologica. Il soggiorno della Chiesa sulla terra può durare - e di fatto è durato - secoli e millenni, senza che ciò cambi alcunché della speciale natura della sua esperienza messianica del tempo. Ci tengo a sottolineare ciò, contro un’opinione spesso ripresa dai teologi, a riguardo del preteso «ritardo della parusia». Secondo questa opinione, che mi è sempre sembrata quasi blasfema, quando la comunità cristiana delle origini, che attendeva il ritorno del Messia e la fine dei tempi considerandoli imminenti, si è resa conto che vi era un ritardo di cui non si vedeva la fine, avrebbe allora cambiato orientamento per darsi un’organizzazione istituzionale e giuridica stabile. Ossia avrebbe smesso di essere paroikein, di soggiornare da straniero, e si sarebbe disposta a katoikein, a dimorare da cittadino, come tutte le altre istituzioni di questo mondo.
L’esperienza del tempo messianico
Se fosse vero, ciò implicherebbe che la Chiesa avrebbe perduto l’esperienza del tempo messianico che le è consustanziale. Il tempo del Messia, come vedremo, non è un periodo cronologico, ma innanzitutto una trasformazione qualitativa del tempo vissuto. E in questo tempo qualcosa come un ritardo cronologico - come si dice di un treno che è in ritardo - non è nemmeno concepibile. Esattamente come l’esperienza del tempo messianico è tale per cui è impossibile dimorarvi, così qualcosa come un ritardo non si può produrre. È ciò che Paolo ricorda ai tessalonicesi: «Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore viene come un ladro di notte» (1Ts 5,1-2).
«Venire (erchetai)» è al presente, proprio come il Messia è chiamato nei Vangeli ho erchomenos, colui che viene, che non cessa di venire. Un filosofo del XX secolo, che aveva ascoltato la lezione di Paolo, lo ripete a suo modo: «Ogni istante è la porta stretta attraverso la quale può passare il Messia» (W. Benjamin).
È dunque della struttura di questo tempo, che è il tempo del Messia come lo descrive Paolo, che vorrei trattare. Un primo malinteso che occorre evitare a questo riguardo è quello di confondere il tempo e il messaggio messianici con il tempo e il messaggio apocalittici.
L’apocalittica si situa nell’ultimo giorno, il giorno della collera: vede la fine dei tempi e descrive ciò che vede. Il tempo che vide l’Apostolo, al contrario, non è la fine dei tempi. Se si volesse esprimere con una formula la differenza fra il messianico e l’apocalittico, si dovrebbe dire che il messianico non è la fine dei tempi, ma il tempo della fine. Messianico non è la fine dei tempi, ma la relazione di ogni istante, di ogni kairos, con la fine dei tempi e con l’eternità. Così ciò che interessa Paolo non è l’ultimo giorno, l’istante nel quale il tempo finisce, ma il tempo che si contrae e che comincia a finire. O, se si preferisce, il tempo che resta fra il tempo e la sua fine.
Una trasformazione radicale dell’esistenza
La Tradizione giudaica conosceva la distinzione tra due tempi o due mondi: l’olam hazzeh, ossia il tempo che va dalla creazione del mondo sino alla sua fine, e l’olam habba, il tempo che viene dopo la fine del mondo. Questi due termini, nella loro traduzione greca, sono presenti nel testo delle epistole: ma il tempo messianico, il tempo che l’Apostolo visse e il solo che gli interessa, non è né l’olam hazzeh né l’olam habba: è il tempo che resta fra questi due tempi, quando si verifica nel tempo la cesura dell’avvenimento messianico (il quale, per Paolo, è la risurrezione).
Come possiamo rappresentarci questo tempo? In apparenza,
se lo si trasferisce come si fa in geometria con
un segmento su una linea, la definizione che ho dato ora
il tempo che resta fra la risurrezione e la fine del tempo
non pone difficoltà. Ma è tutt’altra cosa se lo si cerca
di pensare sul piano dell’esperienza del tempo che
questo implica. Va da sé infatti che vivere nel «tempo
che resta» o vivere il «tempo della fine» non possono che
significare una trasformazione radicale dell’esperienza e
anche della rappresentazione abituali del tempo. Non è
più la linea omogenea e infinita del tempo cronologico
profano (rappresentabile ma vuoto di qualunque esperienza),
né l’istante puntuale e altrettanto impensabile
della sua fine. Ma non è nemmeno un semplice segmento
prelevato sul tempo cronologico e che andrebbe dalla
risurrezione alla fine del tempo. È un tempo che pulsa
all’interno del tempo cronologico, che lo lavora e lo tra-
sforma dall’interno. È, da una parte, il tempo che il tempo
impiega per finire, dall’altra il tempo che ci resta, il
tempo di cui abbiamo bisogno per fare finire il tempo,
per giungere alla meta, per liberarci della nostra rappresentazione
ordinaria del tempo.
Mentre quest’ultima, in quanto tempo entro il quale crediamo di essere, ci separa da ciò che siamo e ci trasforma in spettatori impotenti di noi stessi, al contrario il tempo del Messia, in quanto tempo operativo (kairos) nel quale cogliamo per la prima volta il tempo (il chronos), è il tempo che noi stessi siamo. È chiaro che questo tempo non è un altro tempo, che avrebbe il suo luogo in un altrove improbabile e venturo. È, al contrario, il solo tempo reale, il solo tempo che abbiamo, e fare esperienza di questo tempo implica una trasformazione integrale di noi stessi e del nostro modo di vivere.
È ciò che Paolo dice in un passaggio straordinario, che è forse la più bella definizione che egli abbia dato della vita messianica: «Vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve (ho kairos synestalmenos esti: il verbo systello indica sia il fatto di calare le vele sia il modo in cui un animale si abbassa caricandosi per spiccare un salto); d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente» (1Cor 7,29-31).
Qualche riga prima, Paolo aveva detto, a proposito della vocazione messianica: «Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione!» (1Cor 7,20-21). Hos me, «come se non» ci dice ora che il senso ultimo della vocazione messianica è di essere la revoca di ogni vocazione. Proprio come il tempo messianico trasforma dall’interno il tempo cronologico, così la vocazione messianica, grazie a l’hos me, al «come se non», è la revoca di ogni vocazione, che cambia e vuota dall’interno ogni esperienza e ogni condizione fattuale per aprirle a un nuovo uso.
È un punto importante, poiché ci permette di pensare correttamente questa relazione fra le cose ultime e le cose penultime che definisce la condizione messianica.
Può un cristiano vivere soltanto di cose ultime? Un grande teologo protestante, Dietrich Bonhoeffer, ha denunciato la falsa alternativa fra radicalismo e compromesso, che parte per entrambi i casi dal separare nettamente le realtà ultime e le realtà penultime, quelle cioè che definiscono la nostra condizione sociale e umana di tutti i giorni. Ora, come il tempo messianico non è un altro tempo, ma una trasformazione del tempo cronologico, così vivere le cose ultime è prima di tutto vivere in modo altro le cose penultime.
La vera escatologia forse non è altro che la trasformazione
dell’esperienza delle cose penultime. Poiché le
realtà ultime hanno prima luogo dentro le penultime,
queste - contro ogni radicalismo - non si possono semplicemente
rifiutare; ma - per la stessa ragione, e contro
ogni possibilità di compromesso - le cose penultime non
si possono considerare come ultime. È con il verbo katargein
che non vuol dire «distruggere», ma rendere
inoperante, letteralmente «dis-operare» - che Paolo
esprime la relazione fra ciò che è ultimo e ciò che non lo
è. La realtà ultima disattiva, sospende e trasforma la
realtà penultima, ma è tuttavia al suo interno che essa
entra in gioco interamente.
Ciò permette di comprendere la situazione propria del Regno in Paolo. Al contrario della corrente rappresentazione escatologica, va ricordato che per lui il tempo del Messia non può essere un tempo futuro. L’espressione con la quale indica questo tempo è sempre «ho nyn kairos», il tempo dell’adesso. Come scrive in 2 Cor 6,2: «[Idou nyn] Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!». Paroikia e parousia, soggiorno da straniero e presenza del Messia, hanno la stessa struttura che è espressa in greco con la preposizione para: quella di una presenza che distende il tempo, di un già che è anche un non ancora, di un ritardo che non è un rimando a più tardi, ma uno scarto e una disgiunzione all’interno del presente, che ci permette di cogliere il tempo.
Si vede bene dunque che l’esperienza di questo tempo non è qualcosa che la Chiesa possa scegliere di fare o di non fare. Non vi è Chiesa, se non in questo tempo e per mezzo di questo tempo.
La Chiesa e i segni dei tempi
Che ne è di questa esperienza del tempo del Messia, nella Chiesa di oggi? Infatti il riferimento alle cose ultime sembra a tal punto sparito dal discorso della Chiesa, che si è potuto dire non senza ironia che la Chiesa di Roma ha chiuso l’Ufficio escatologico. Ed è con un’ironia senza dubbio ancora più amara che un teologo francese ha potuto scrivere «si attendeva il Regno ed è arrivata la Chiesa». È un’immagine potente, sulla quale dovremmo riflettere.
Considerando quanto detto sopra sulla struttura del tempo messianico, è chiaro che non si tratta di rimproverare alla Chiesa il compromesso in nome del radicalismo. Non si tratta nemmeno, come ha fatto il più grande teologo ortodosso del XIX secolo, Fëdor Dostoevskyi, di presentare la Chiesa di Roma sotto la figura del Grande inquisitore. Si tratta di un’altra cosa, ossia della capacità della Chiesa di cogliere ciò che Matteo 16,3 chiama i segni dei tempi, ta semeia ton kairon.
Quali sono questi segni, che il Vangelo oppone al vano
desiderio di interpretare l’aspetto del cielo? Se la storia
è penultima in riferimento al Regno, questo - si è visto
ha il suo luogo prima di tutto e sopra tutto nella
storia. Vivere nel tempo del Messia esige dunque la capacità
di leggere i segni della sua presenza nella storia,
di riconoscere nel suo corso il sigillo dell’economia della
salvezza. Agli occhi dei padri - ma anche per i filosofi
che hanno riflettuto sulla filosofia della storia, che è e resta
(anche in Marx) una disciplina essenzialmente cristiana
la storia si presentava come un campo di tensioni,
percorso da due correnti opposte: la prima - che Paolo,
in un celebre ed enigmatico passaggio della Seconda
lettera ai Tessalonicesi, chiama to catechon - che ritiene
e differisce senza sosta la fine del mondo lungo la linea
del tempo cronologico, infinito e omogeneo; l’altra che,
mettendo in tensione l’origine e la fine, non cessa di interrompere
e portare a termine il tempo. Chiamiamo
legge o stato la prima polarità, votata all’economia, ossia
al governo infinito del mondo; e chiamiamo Messia
o Chiesa la seconda, la cui economia - l’economia della
salvezza - è essenzialmente finita.
Una comunità umana non può sopravvivere se queste
due polarità non sono compresenti, se non esiste fra di esse
una tensione e una relazione dialettica.
Ora, è esattamente questa tensione che oggi è spezzata. A mano a mano che la percezione dell’economia della salvezza nel tempo storico si appanna nella Chiesa, si vede l’economia stendere il proprio dominio cieco e derisorio su tutti gli aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo, l’esigenza escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna sotto una forma secolarizzata e parodistica nei saperi profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in tutti i campi delle catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e d’emergenza permanente che i governi del mondo proclamano oggi è proprio la parodia secolarizzata del perpetuo aggiornamento del giudizio ultimo nella storia della Chiesa.
All’eclissi dell’esperienza messianica del compimento della legge e del tempo corrisponde un’ipertrofia inaudita del diritto, che pretende di legiferare su tutto, ma che tradisce con un eccesso di legalità la perdita di ogni vera legittimità. Qui e ora affermo, misurando le parole: oggi sulla terra non vi è più alcun potere legittimo, e i potenti del mondo stessi sono tutti rei di illegittimità. La giuridicizzazione e l’economicizzazione integrale dei rapporti umani, la confusione fra ciò che possiamo credere, sperare, amare e ciò che siamo tenuti a fare o a non fare, dire o non dire segna non soltanto la crisi del diritto e degli stati, ma anche e soprattutto quella della Chiesa. Poiché la Chiesa non può vivere se non tenendosi, in quanto istituzione, in relazione immediata con la fine della Chiesa.
E - non bisogna dimenticarlo - nella teologia cristiana vi è una sola istituzione che non conoscerà la fine e il dissolvimento: ed è l’inferno. Qui si vede bene - mi sembra - che il modello della politica di oggi - che aspira a un’economia infinita del mondo - è propriamente infernale. E se la Chiesa spezza la sua relazione originale con la paroikia, essa non può che perdersi nel tempo.
Ecco perché la domanda che pongo, senza di certo avere alcuna autorità per farla se non quella di un’abitudine ostinata a leggere i segni dei tempi, si riassume in questa: si deciderà la Chiesa a cogliere la sua occasione storica e a riprendere la sua vocazione messianica? Poiché il rischio è che essa stessa sia trascinata nella rovina che minaccia tutti i governi e tutte le istituzioni della terra.
Giorgio Agamben*
* Il contributo del filosofo Giorgio Agamben, docente di Filosofia teoretica all’Istituto universitario di architettura di Venezia, qui proposto in una nostra traduzione dal francese, è stato pronunciato presso la cattedrale di Notre-Dame a Parigi l’8.3.2009.
Tettamanzi, messa a San Vittore
“In cella offesa la dignità umana”
di Zita Dazzi (la Repubblica/Milano, 27.12 2009)
Senza cercare pubblicità, prima di Natale, il cardinale Dionigi Tettamanzi aveva voluto entrare a San Vittore per benedire le celle. Una visita che lo ha profondamente colpito e addolorato, tanto che ne ha voluto parlare nell’omelia della messa di mezzanotte, in Duomo. E in questo frangente tanto solenne non ha usato aggettivi scelti a caso, dicendosi «sconvolto» per lo «squallore intollerabile» a cui si è trovato di fronte.
«Le condizioni abitative che ho potuto rilevare in tante celle sono offensive della dignità umana», ha raccontato l’arcivescovo nel silenzio della cattedrale gremita. «Ho provato tanta pena, anzi un vero e proprio sconcerto per quanto ho visto con i miei occhi - ha continuato. Non posso dimenticare le parole di un detenuto “Sì, la giustizia deve fare il suo sacrosanto percorso e al colpevole la pena è dovuta, ma le condizioni abitative, nelle loro più elementari esigenze, non possono essere ingiustamente offensive della dignità personale di chiunque. E concludeva ‘In questo modo ci strappano via la nostra dignità umana!».
Non c’erano autorità cittadine ad ascoltarlo alla messa in Duomo, ma certo l’appello così accorato a fare «gesti di solidarietà» per cercare di rimediare e di portare conforto in una situazione così difficile, ha sicuramente toccato il cuore di molti fedeli. «Penso che tutti - ha poi spiegato, a margine della liturgia - e non solo il sistema generale delle carceri, ma anche le persone che in qualche modo devono sentire il carcere non come un corpo estraneo alla vita sociale, devono fare qualcosa in più perché queste condizioni siano davvero migliorate».
Gli stessi carcerati «sentono viva la realtà di una giustizia autentica perché la sentono sulla propria pelle, non la rifiutano - ha aggiunto - perché chi è consapevole di un errore, di uno sbaglio, di un’offesa fatta alla società, sa che la pena è dovuta e che è proporzionata con la gravità di quanto commesso». Nonostante questo, ha sottolineato il cardinale, i carcerati desiderano «essere trattati in questo cammino faticosissimo della loro vita nel rispetto della dignità umana».
Il giorno di Natale, l’arcivescovo è tornato a San Vittore, a celebrare la rituale messa, in un clima di
grande commozione e partecipazione. Rivolgendosi ai detenuti assiepati dietro le sbarre, il cardinale
riferendosi anche allo striscione con scritto “Abbiamo sete di una giustizia autentica” appeso a
un muro della “rotonda” dove l’arcivescovo ha celebrato la Messa - ha sottolineato che «la cosa
più bella è che voi volete essere uomini di giustizia. So che è paradossale ma è possibile coltivarla
anche qui in carcere».
Durante la visita, allietata dal canto del coro del reparto tossicodipendenti, gli sono state consegnate lettere e messaggi personali di ringraziamento e di richiesta di conforto. «Un rientro nella vita sociale dove il perimetro deve essere ospitale per tutti - ha risposto l’arcivescovo - perché la più grande etnia che fonda e spiega tutte le altre etnie particolari è quella umana».
Ma la tappa a San Vittore, era solo l’inizio di una lunga giornata di visite pastorali. Ospite della comunità di Sant’Egidio, Tettamanzi ha conosciuto prima i rom reduci dallo sgombero di via Rubattino, poi una comunità cinese del quartiere Sarpi, infine un circolo di anziani. Incontri che si sono svolti tutti in un clima di grande fraternità. «Ho voluto portare la mia solidarietà - è stato il commento finale - ma devo dire che sono loro che portano a me la loro solidarietà, perché mi accolgono. Vorrei capovolgere un po’ le cose».
Nessun accenno negli incontri pubblici del 25 ai recenti attacchi subiti da parte della Lega nord, anche se in un punto dell’omelia della notte ha rimarcato: «Quanto è necessaria oggi questa pace! Non solo per tanti popoli tuttora sconvolti dalla guerra, ma anche per il nostro paese provato da continue tensioni e scontri verbali, forzature bugiarde e ipocrite, strumentalizzazioni inaccettabili e violenze morali e fisiche».
Il regalo di Natale? Più fiducia ai giovani
.....contro il declino della Chiesa e della società
di Carlo Maria Martini (Corriere della Sera 24.12. 2009)
Natale è avvertito da molti come il tempo dei buoni sentimenti. Si stemperano le tensioni e l’animo sembra incline a guardare la realtà di oggi e di domani con occhi più benevoli. E tuttavia molti non riescono, neppure in questi giorni, a riconoscere che possono esistere motivi di fiducia.
È vero che i Vangeli, in alcuni passi, non ci fanno intravedere un futuro dell’umanità caratterizzato dalla fede e dall’amore. Piuttosto ci mettono di fronte a prospettive di crescente decadenza morale e spirituale. Una parola misteriosa di Gesù, tramandataci dal Vangelo di Luca (18,8), ci scuote e ci fa tremare: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». A questo interrogativo, che certo non lascia molto adito alla speranza, si aggiungono frasi come questa: «Per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà» (Mt 24,12).
Ma vi sono tanti di noi che non aspettano soltanto questi ultimi tempi per vedere la decadenza della fede, perché ritengono di riconoscerla presente già nei nostri giorni, a cominciare dalla decadenza dei giovani. C’è un modo di parlare di essi che ci appare senza speranza e senza remissione: i giovani sono abulici, indifferenti, svogliati, viziosi, dediti solo al divertimento, alle sostanze eccitanti o all’alcol.
Non è questa l’impressione che io ho dei giovani di oggi. Anzitutto non uso volentieri la categoria «giovani», categoria puramente biologica, che non dice di per sé nulla sulla realtà di queste persone. Preferisco guardarli più da vicino. Allora mi sembra di riconoscere tre tipi di giovani: quelli alla deriva, i giovani che pensano e i giovani che decidono.
La prima categoria è composta da coloro che si lasciano trascinare dalla massa e da qualunque proposta di successo o di godimento. Rimangono passivi. Per questi giovani, finché restano in tale situazione, sembra non vi sia altro da fare se non cercare di scuoterli dal loro torpore.
Una seconda categoria è costituita invece dai giovani pensosi. Sono quelli che si pongono delle domande, che hanno un’inquietudine nel cuore, che cercano qualche cosa. Sono molti di più di quanti noi immaginiamo.
Avendo ricevuto ormai da tanti anni moltissime lettere dai giovani, vedo che parecchi di loro si presentano come spensierati e gaudenti, ma nella realtà sono pensierosi e preoccupati, vivono forti momenti di angoscia. Dopo una serata di divertimento in cui magari hanno brillato per la loro capacità di far divertire il gruppo, ritornano a casa nelle prime ore del mattino chiedendosi: che senso ha la mia vita? Io che ci sto a fare qui?
Questi sono giovani che hanno bisogno di una mano amica, di chi li sappia comprendere, di chi sia disponibile a entrare in dialogo con loro. Sono giovani che guardano agli adulti con molta attenzione. A seconda della testimonianza che ricevono e degli esempi che vedono, possono acquistare fiducia e coraggio oppure cadere nel pessimismo.
C’è poi una terza categoria, quella dei giovani decisi. Ne ho conosciuti molti. Non sono necessariamente credenti, alcuni di loro non frequentano molto la chiesa. Ma hanno nel cuore dei valori forti e sanno sacrificarsi per essi. Sono i giovani che troviamo nelle varie iniziative di volontariato, che si decidono presto per una vita di dedizione agli altri. Sono giovani che, secondo la felice espressione di Benedetto XVI, hanno saputo «osare l’amore». Il Papa li invita a non desiderare «niente di meno per la vostra vita che un amore forte e bello, capace di rendere l’esistenza intera una gioiosa realizzazione del dono di voi stessi a Dio e ai fratelli» (Giornata mondiale della gioventù 2007).
A questi giovani dico: voi siete una minoranza, ma una minoranza qualificata, capace di guidare e di trascinare altri. L’avvenire è sempre stato di minoranze forti, non di masse passive attratte solo dal gusto di ciò che piace.
Questi giovani vanno aiutati, sostenuti, incoraggiati. Con loro si può guardare avanti, ma a condizione che si lasci loro il giusto spazio, sia di azione che di parola, e che siano riconosciuti come veri protagonisti del nostro vivere sociale.
I grandi valori entrano nell’insieme della personalità attraverso il cuore, la mente e le mani. Attraverso il cuore quando si parla al loro anelito di qualcosa di più grande. Attraverso la mente quando vengono a contatto con le convinzioni profonde nella ricerca sul trascendente. Ma valori veri si trasmettono anche con le mani: ciò avviene quando questi giovani accettano di sacrificarsi per gli altri. Essi danno grande speranza, e si oppongono al declino della Chiesa e della società. Il Natale ci riporta a questa fiducia in ciò che è nuovo, in ciò che viene ora nel mondo. Facciamo sì che questa fiducia sia condivisa da molti.
Gli Ayatollah iraniani e la Chiesa di Lepanto
di Walter Peruzzi
giovedì 7 gennaio 2010
“Coloro che stanno dietro all’attuale sedizione”, ha detto un rappresentante della guida suprema Khamenei riferendosi agli oppositori del governo iraniano, “sono nemici di Dio e la legge è molto chiara su quella che deve essere la punizione”, cioè la morte.
Ayatollah cattolici di ieri...
Sono parole singolarmente assonanti con quelle che pronunciava la Chiesa fin quando durò l’Inquisizione, cioè finché i papi la sbaraccarono non certo per loro meditata scelta ma perché costretti dai prìncipi illuminati e da Napoleone (fu lui a chiudere nel 1808 i forni di Siviglia dove ancora si bruciavano gli eretici).
“Amico di Dio”, dichiarava il Santo Uffizio nel 1605, “è chi uccide i nemici di Dio”. Peggio ancora: mentre gli ayatollah iraniani definiscono la pena di morte una “punizione”, quelli italiani - con ipocrisia tutta cattolica - la definivano “un favore” fatto agli eretici “perché toglieva loro la possibilità di continuare ad abusare della grazia, aumentando le proprie responsabilità davanti a Dio” (cardinal Clemente Dolera, XVI secolo).
Anche la vendetta consumata dal governo in Iran contro i parenti degli oppositori richiama quella codificata dalle costituzioni papali che imponevano la confisca dei beni degli eretici e l’esclusione da incarichi pubblici per i “figli e i nipoti degli eretici, dei loro sostenitori, difensori e favoreggiatori” (Ad extirpanda, 1265 e sgg.).
... e di oggi
“Altri tempi” si dirà, e si dice, a chi ricorda questi trascorsi della Chiesa. Senonché la continuità con quei tempi viene continuamente riaffermata dalla Chiesa di Roma definendo, come fa il segretario di stato cardinal Bertone, “la grande battaglia di Lepanto, momento cruciale della vita della Chiesa” (3 febbraio 2008); o riportando in auge, come fa Benedetto XVI, il messale del papa che quella battaglia promosse; e soprattutto seguitando a venerare gli ayatollah di allora, elevati all’onore degli altari e indicati come “esempio”ai fedeli, cui insegnano che l’omicidio a fin di bene può essere una virtù (1).
A marcare la doppia continuità della Chiesa di oggi con gli ayatollah dell’Inquisizione e con quelli dell’attuale repubblica iraniana, sta inoltre la convinzione che tocchi al potere religioso fare e giudicare le leggi statali, benché oggi non sia più possibile al papa, diversamente che ai papi dei secoli scorsi o agli ayatollah iraniani, colpire con la morte i trasgressori. Comune ad ayatollah passati o presenti, cattolici o islamici, è l’aspirazione ad instaurare una teocrazia, indipendentemente dalle forme in cui vi possano esercitare il potere.
Giovanni Paolo II nel 1994 condannò la risoluzione del Parlamento europeo favorevole alle unioni di fatto omo ed etero in quanto conferiva valore istituzionale a “comportamenti devianti, non conformi al piano di Dio”. Benedetto XVI briga ogni giorno perché in Italia non siano approvate le leggi sulla fecondazione assistita o sulle coppie di fatto, siano riviste o abrogate quelle sull’aborto e il divorzio, siano privati i cittadini della possibilità di decidere sulla propria morte. E il Vaticano si batte all’Onu per impedire la depenalizzazione dell’omosessualità e le legislazioni contro l’omofobia.
La Chiesa di oggi condivide con quella di ieri e con i fondamentalisti islamici anche la singolare concezione della libertà religiosa non come libertà per i singoli di professare la religione (o non-religione) che credono ma come diritto delle religioni a essere tutelate contro le critiche o - come disse Benedetto XVI il 4 dicembre 2005 - contro il “predominio culturale dell’agnosticismo e del relativismo”. Si veda a questo proposito la mozione presentata dagli stati islamici all’Onu contro la “diffamazione delle religioni” e la legge varata quasi nello stesso periodo dalla cattolica Irlanda contro la blasfemia (2).
Cattolicesimo “reale” e cattolicesimo “scalzo”
Proprio la continuità fra Chiesa del Vaticano II e Chiesa dell’Inquisizione dà fondamento al confessionalismo strumentale degli atei devoti, che tuonano in difesa dei crocifissi, o dei leghisti, che oppongono alla Chiesa “buonista” di Tettamanzi quella “crociata” di Lepanto e di Pio V, alla moschea il presepe.
La Lega, certo, mira a imporre la sua egemonia culturale sul territorio (e non solo nella fantomatica padania), e su una destra berlusconiana priva di valori. Mira quindi ad annettersi il cattolicesimo, rimodellandolo in chiave razzista, etnicizzandolo, per renderlo fruibile ai propri fini politici. Di esso tende a cancellare tutte le sfumature o i motivi “evangelici” che permettono alla Chiesa di essere “universale”, fino a ridurlo a una serie di simboli esteriori indistinguibili dai culti falso-celtici o dalla tradizione di cavalieri che bivaccano nei prati di Pontida a base di polenta e gorgonzola, sognando di navigare verso Lepanto.
E tuttavia, sia il cattolicesimo più formalmente ossequioso e supremamente indifferente degli atei devoti, sia quello più rozzo e carnevalesco della Lega, ricevono legittimazione dal Vaticano. Non avrebbero né spazio né adepti se non fossero trattati dalla Chiesa gerarchica con un silenzio fra omertoso e ammiccante, che lascia a pastori di seconda fila, o sconfessati, il predicozzo salvafaccia sull’accoglienza dei migranti e sulla moralità di “papi”, riservando ai colloqui felpati fra sua eminenza e sua eccellenza, fra Bertone e Letta, i patti che contano e che assicurano alla Chiesa privilegi economici, leggi ad hoc, o bocciatura di leggi non ad hoc; promettendo alle destre, per quanto ci si riesca, i voti delle parrocchie.
Questi accordi lasciano intravedere dietro l’ostentata chiesa “degli ultimi” quella predominante “del potere”, la chiesa intollerante e infallibile delle crociate, dei roghi, di Lepanto, della tradizione neppure scalfita dai brevi balbettii del Vaticano II; una chiesa che pur sapendo, tacendo e sfumando per non urtare troppo altre sensibilità presenti nel gregge e fra alcuni pastori, seguita a venerare santi impresentabili del passato o freschi di giornata (3); una chiesa che per non metterli o toglierli dagli altari, così confessandosi umana e fallibile (in questo e in molto altro), diabolicamente persevera nell’errore.
Quello sfrontatamente manipolato dai leghisti o dai poligami del Family day, è perciò alla fine un cattolicesimo ben più “reale” del cattolicesimo “scalzo” che gli fa da schermo ad uso dei poveri (compresi i poveri di spirito estasiati dalle beatitudini) e si traveste da nonna, come il lupo di cappuccetto rosso, “per mangiarli meglio”...
w.p.
(1) Papa Ratzinger ha definito “grande uomo di Chiesa”, di cui seguire l’esempio, S. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, che fece arrestare in Svizzera un centinaio di protestanti, benché ivi vigesse libertà di culto, costringendoli ad abiurare con le torture e bruciando sul rogo gli irriducibili. Nel cinquecentesimo anniversario della nascita di Pio V - responsabile della strage dei valdesi di Calabria, di aver messo a morte eretici, giornalisti e gay, della crociata di Lepanto, dell’invio di truppe contro gli Ugonotti; della repressione degli anabattisti, della ghettizzazione degli ebrei -, papa Wojtyla ha auspicato che la ricorrenza “sia motivo di benedizione per tutta la Chiesa”. Benedetto XVI si è augurato che “il suo esempio e la sua intercessione” incoraggino a realizzare l’autentica vocazione cristiana.
(2) Sulla risoluzione presentata nel novembre 2009 dall’Organizzazione degli stati islamici all’assemblea dell’ONU contro “la diffamazione delle religioni” vedi www.dialogo.org. A inizio 2010 in Irlanda è stata emanata una legge per cui diventa reato punibile con multe fino a 25.000 euro la blasfemia - cioè “pubblicare o esprimere contenuti volgarmente offensivi o insultanti in relazione ad argomenti sacri a qualsiasi religione” (“La Stampa”, 3/1/2010).
(3) Citiamo fra gli esempi le beatificazioni di criminali come Stepjnac o di Pio XII, le cui complicità col regime nazista, documentate dal cattolico John Cornwell ne Il papa di Hitler, sono efficacemente illustrate sul sito “Movimento operaio” da Antonio Moscato (http://antoniomoscato.altervista.org/; vedi: Presunto silenzio, cliccabile dalla home page).
Dal Blog di Walter Peruzzi : http://cattolicesimo-reale.blogspot.com/2010/01/gli-ayatollah-iraniani-e-la-chiesa-di.html
* Il Dialogo, , Giovedì 07 Gennaio,2010 Ore: 18:52