"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE...
DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-8).
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO ...
DIO E’ AMORE (1 Gv., 4. 1-8).
L’amor (charitas) che muove il Sole e le altre stelle ... non ha niente a che fare con "mammona" ("caritas"), "mammasantissima", "padrini", e... "andranghatia".
SAN PIETRO ROSSO DI VERGOGNA: PAPA E CARDINALI SOTTO IL CUPOLONE DI LUCIFERO.
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
Per chi vuole approfondire, si leggano ed esplorino (o anche si stampi tutto e se ne faccia un libro) - cliccando sui titoli - gli articoli seguenti, presenti nel sito:
AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
Il vuoto della politica
di Enzo Mazzi (il manifesto, 15 gennaio 2010)
Vale anche per i fatti di Rosarno l’affermazione di Luigi Pintor richiamata domenica da Valentino Parlato: la sinistra «non deve vincere domani, ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». Non bastano le denunce e i fiumi di lacrime versate da politici, media, chiese e associazioni. Bisogna «reinventare la vita».
I fatti di Rosarno sono il sintomo di un malessere profondo che soffoca la società ormai a livello mondiale, sono quasi l’ecografia del cancro che divora la vita di tutti noi nell’intimo.
La moderna schiavitù senza regole, lo sfruttamento bestiale degli immigrati e le condizioni inumane di vita che sono loro riservate, il dominio sempre più invadente delle mafie, il nuovo squadrismo in salsa leghista, la politica dominate che fomenta le paure e le xenofobie degli autoctoni, sono realtà da denunciare e contrastare con tutte le poche forze che ci restano in questo sfascio della sinistra di rappresentanza. Ma non basta. Il tema che deve emergere con forza è la reinvenzione della vita, della politica, della economia, della cultura e perché no della religione.
Dall’inferno di Rosarno alla palingenesi? È un sogno impossibile che ci distoglie dalle cose possibili? E quali sono le cose possibili? Non avvertite tutta l’impotenza di denunce, manifestazioni e lacrime? E il vuoto della politica? Non c’è che ripartire dal quotidiano, dall’operare ogni giorno, dall’invasione di campo.
Ormai siamo tutti stranieri a noi stessi. Nella società fondata sul dominio assoluto del danaro siamo tutti neri. È il danaro, nuova divinità, che si è impossessato delle nostre anime e dei nostri corpi e ci ha privato della nostra vita e della stessa terra.
La società del benessere è ridotta a una fortezza assediata. Ma è una illusione alzar mura, installare body scanner, e rovesciar barconi. Il nemico che ci assedia non è l’immigrazione. Siamo noi nemici a noi stessi. La crisi è dentro la struttura stessa della città. Un nuovo umanesimo s’impone. Ma il suo centro non è più la città. Anzi presuppone il crollo delle mura e lo prepara. È la vendetta del sangue di Remo. Il fondamento di un nuovo patto non può che trovarsi nell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal luogo di nascita e dal colore della pelle. Il risveglio di una tale consapevolezza non è né facile né indolore. Ed è qui che si apre uno spazio significativo e caratterizzante non solo per la politica ma per il volontariato e più in generale per l’associazionismo. Purtroppo la strada più facile è quella dell’assistenzialismo. Ma è una strada scivolosa. L’assistenzialismo, comunque rivestito, non crea parità di diritti.
Chi ha a cuore l’obbiettivo dell’affermazione dei diritti di cittadinanza per tutti, come diritto pieno, comprensivo dei diritti sociali, e come diritto inalienabile della persona, non può fare a meno di impegnarsi sia sui tempi brevi della mediazione politica, per raggiungere il raggiungibile, qui e ora, sia sui tempi lunghi della trasformazione culturale, in mezzo alla gente, facendo cose concrete.
E direi che l’associazionismo più che tappar buchi e metter toppe, dovrebbe imboccare più decisamente proprio la strada della trasformazione culturale. Tendere a smontare i paradigmi culturali, ideologici e anche religiosi, che sono all’origine della discriminazione. Con pazienza infinita e con umiltà, senza tirare la pianticella per lo stelo. Ma anche con tanta coerenza e fermezza. Senza vendere mai tutto sul mercato dell’emergenza e senza sacrificare mai tutto sull’altare della mediazione politica. Ha ragione ancora una volta il nostro Pintor: l’utopia della palingenesi è l’unica realtà possibile e la stella polare di un cammino che abbia senso e che dia senso ad ogni più piccolo passo.
«La famiglia, icona di Dio»
di Benedetto XVI (Avvenire, 27.12.2009)
Cari fratelli e sorelle!
Ricorre oggi la domenica della Santa Famiglia. Possiamo ancora immedesimarci nei pastori di Betlemme che, appena ricevuto l’annuncio dall’angelo, accorsero in fretta alla grotta e trovarono “Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia” (Lc 2,16). Fermiamoci anche noi a contemplare questa scena, e riflettiamo sul suo significato. I primi testimoni della nascita del Cristo, i pastori, si trovarono di fronte non solo il Bambino Gesù, ma una piccola famiglia: mamma, papà e figlio appena nato. Dio ha voluto rivelarsi nascendo in una famiglia umana, e perciò la famiglia umana è diventata icona di Dio! Dio è Trinità, è comunione d’amore, e la famiglia ne è, in tutta la differenza esistente tra il Mistero di Dio e la sua creatura umana, un’espressione che riflette il Mistero insondabile del Dio amore. L’uomo e la donna, creati ad immagine di Dio, diventano nel matrimonio “un’unica carne” (Gen 2,24), cioè una comunione di amore che genera nuova vita. La famiglia umana, in un certo senso, è icona della Trinità per l’amore interpersonale e per la fecondità dell’amore.
La liturgia odierna propone il celebre episodio evangelico di Gesù dodicenne che rimane nel Tempio, a Gerusalemme, all’insaputa dei suoi genitori, i quali, stupiti e preoccupati, ve lo ritrovano dopo tre giorni mentre discute con i dottori. Alla madre che gli chiede spiegazioni, Gesù risponde che deve “essere nella proprietà", nella casa del suo Padre, cioè di Dio (cfr Lc 2,49). In questo episodio il ragazzo Gesù ci appare pieno di zelo per Dio e per il Tempio. Domandiamoci: da chi aveva appreso Gesù l’amore per le “cose” del Padre suo? Certamente come figlio ha avuto un’intima conoscenza del Padre suo, di Dio, una profonda relazione personale permanente con Lui, ma, nella sua cultura concreta, ha certamente imparato le preghiere, l’amore verso il Tempio e le Istituzioni di Israele dai propri genitori.
Dunque, possiamo affermare che la decisione di Gesù di rimanere nel Tempio era soprattutto frutto della sua intima relazione col Padre, ma anche frutto dell’educazione ricevuta da Maria e da Giuseppe. Qui possiamo intravedere il senso autentico dell’educazione cristiana: essa è il frutto di una collaborazione sempre da ricercare tra gli educatori e Dio. La famiglia cristiana è consapevole che i figli sono dono e progetto di Dio. Pertanto, non li può considerare come proprio possesso, ma, servendo in essi il disegno di Dio, è chiamata ad educarli alla libertà più grande, che è proprio quella di dire “sì” a Dio per fare la sua volontà. Di questo “sì” la Vergine Maria è l’esempio perfetto. A lei affidiamo tutte le famiglie, pregando in particolare per la loro preziosa missione educativa.
L’inciucio
È cosa non buona e ingiusta
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 20.12.2009)
Ho letto con molto interesse l’articolo del nostro collaboratore Alexander Stille (figlio di tanto padre) pubblicato venerdì scorso su Repubblica. Spiega perché chi si opponga alla politica del Pdl non può che concentrare le sue critiche su Silvio Berlusconi. Non è questione di distinguere la parola "nemico" dalla parola "avversario", la parola "odio" dalla parola "opposizione". Su queste differenze lessicali potremmo (inutilmente) discutere per pagine e pagine senza cavarne alcun risultato, come pure potremmo discutere sulla personalizzazione degli scontri politici in altri paesi.
Negli Stati Uniti per esempio lo scontro personalizzato è una prassi durissima e assolutamente normale. Basta ricordare (ed è appena un anno fa) la polemica senza esclusione di colpi tra Obama e Hillary Clinton durante le primarie, quella tra Gore e Bush nella corsa alla Casa Bianca, la campagna dei giornali che portò alle dimissioni di Nixon e Bill Clinton ad un passo dall’"impeachment" all’epoca dello scandalo Lewinsky.
Eppure in nessuno di quei casi i protagonisti avevano mai personalizzato su di sé il partito o la parte politica che rappresentavano come è avvenuto per Silvio Berlusconi. Ma chi lo ha detto meglio di tutti e con maggiore attendibilità è stato Denis Verdini. Il suo non è un nome molto noto, eppure si tratta d’un personaggio di primissimo piano: è il segretario del Pdl, il numero uno dei tre coordinatori di quel partito e soprattutto il co-fondatore di Forza Italia.
Quando Berlusconi decise di scendere in campo nell’autunno del 1993, affidò la costruzione del partito ai due capi di Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per il gruppo Fininvest, nelle persone di Dell’Utri e di Verdini. Il primo è da tempo distratto da altri affanni; Verdini è invece nel pieno del suo impegno politico.
Nell’articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. «Lui ha costruito la figura del leader moderno - scrive Verdini - anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti. Ma anche i "media" non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade».
Segue l’elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell’Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.
Quest’articolo è infinitamente più preoccupante delle esagitate denunce e liste di proscrizione lanciate da Cicchitto in Parlamento, da Feltri e da Belpietro sui loro giornali e dai vari "pasdaran" del berlusconismo di assalto. Verdini l’ha scritto il 18 dicembre quando già Berlusconi era tornato ad Arcore ed aveva avviato la politica del dialogo con l’opposizione. Esso contiene dunque con lodevole chiarezza le condizioni di quel dialogo, con l’ovvio preliminare che essi comportano e cioè il salvacondotto in piena regola riguardante i processi del premier. Da qui dunque bisogna partire, tutto il resto è pura chiacchiera.
* * *
I giornali di ieri hanno dato notevole risalto alla battuta di D’Alema sull’utilità ed anzi la necessità, in certi momenti della vita politica, di far ricorso agli "inciuci". La parola "inciucio" denomina un compromesso malandrino tra parti politiche avversarie, un compromesso sporco e seminascosto che contiene segrete pattuizioni e segreti benefici per i contraenti, nascosti al popolo-bue.
Per esemplificare la sua battuta sull’utilità dell’inciucio D’Alema ha citato la decisione di Togliatti di votare, nell’Assemblea costituente del 1947, per l’inclusione del Concordato nella Costituzione italiana. Ma l’esempio è stato scelto a sproposito: la costituzionalizzazione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa non fu affatto un inciucio ma un trasparente atto politico con il quale il Pci, distinguendosi dal Partito socialista e dal Partito d’azione, dichiarò la sua contrarietà a mantenere viva una contrapposizione tra laici e cattolici.
Si può non concordare con quella posizione; del resto la sinistra ha sempre privilegiato le lotte sociali rispetto alle cosiddette libertà borghesi, iscrivendo tra queste anche la laicità che non fu mai un cavallo di battaglia del Pci. Si può non condividere ma, lo ripeto, l’inciucio è tutt’altra cosa e D’Alema lo sa benissimo.
Credo di sapere perché D’Alema ha scelto di usare quel termine così peggiorativo: vuole stupire, gli piace esser citato dai "media", è una civetteria di chi, essendo molto sicuro di sé, sfida e provoca e si diverte.
È fatto così Massimo D’Alema. I compromessi gli piace descriverli, teorizzarli, talvolta anche tentarne la realizzazione, annusarne il cattivo odore, sicuro che se gli riuscisse di farli sarebbe comunque lui a guidarli verso l’utilità generale perché lui è più bravo degli altri. In realtà non è riuscito a metterne in pista nessuno. Ma la sua provocazione ha suscitato preoccupazioni nel suo partito e parecchie reazioni. Si è dovuto parlare di lui per l’ennesima volta. Sarà contento perché era appunto ciò che voleva.
I suoi contraddittori hanno deciso che bisognerà spostare il tiro sui problemi economici ai quali il governo ha dedicato pochissima attenzione. Sarà su di essi che si svolgerà il grande confronto tra la sinistra e la destra.
È vero, il governo non ha fatto nulla, la nostra "exit strategy" dalla crisi è del tutto inesistente e farà bene l’opposizione e il Pd a darsene carico, ma il centro dello scontro non sarà questo. Il centro dello scontro l’ha indicato Verdini, sarà sullo smantellamento della Costituzione. Sul passaggio dallo Stato di diritto allo Stato autoritario.
* * *
Berlusconi vuole il dialogo. Che cosa vuol dire dialogo? Lo spiega quasi ogni giorno sul Foglio Giuliano Ferrara. Lo spiegano gli editorialisti terzisti "ad adiuvandum": dialogo vuol dire mettersi d’accordo sul percorso da seguire e poi attuarlo con leale fedeltà a quanto pattuito. Insomma un disarmo. Unilaterale o bilaterale? Vediamo.
Berlusconi chiede: la legge sul legittimo impedimento come strumento-ponte che lo metta al riparo fino al lodo Alfano attuato con legge costituzionale; rottura immediata tra Pd e Di Pietro; riforme costituzionali e istituzionali secondo lo schema Verdini. In contropartita Berlusconi promette di parcheggiare su un binario morto la legge sul processo breve e di "riconoscere" il Pd come la sola forma di opposizione. Va aggiunto che Berlusconi non pretende che il Pd voti a favore della legge sul legittimo impedimento; vuole soltanto che essa non sia considerata dal Pd come un ostacolo all’accordo sulle riforme.
Vi sembra un disarmo bilaterale? Chiaramente non lo è. Chiaramente sarebbe un inciucio di pessimo odore.
In una Repubblica parlamentare il dialogo si svolge quotidianamente in Parlamento. Le forze politiche presentano progetti di legge, il governo presenta i propri, il Capo dello Stato vigila sulla loro costituzionalità, i presidenti delle Camere sulla ricevibilità di procedure ed emendamenti nonché sul calendario dei lavori badando che anche i progetti di legge formulati dall’opposizione approdino all’esame parlamentare.
Non si tratta dunque di un dialogo al riparo di occhi indiscreti ma d’un confronto aperto e pubblico, con tanto di verbalizzazione.
Quanto alla richiesta politica di rompere con Di Pietro, non può essere una condizione in vista di una legittimazione di cui il Pd non ha alcun bisogno e che la maggioranza non ha alcun titolo ad offrire. Come risponderebbe Berlusconi se Bersani gli chiedesse di rompere con la Lega? Che non è meno indigesta di Di Pietro ad un palato democraticamente sensibile ed anzi lo è ancora di più?
La conclusione non può dunque essere che l’appuntamento in Parlamento. Il punto sensibile è l’assalto alla Costituzione repubblicana. Ci sarà un referendum confermativo poiché sembra molto difficile una riforma condivisa. A meno che il premier non receda dai suoi propositi che, nella versione Verdini, sono decisamente eversivi. Uso questa parola non per odio verso chicchessia ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia.
La farsa della pace
di MICHELE BRAMBILLA (La Stampa, 16/12/2009)
Com’era facilmente prevedibile, siamo già qui a officiare il funerale del «normale e civile confronto» invocato dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il «normale e civile confronto» in Italia rientra a pieno titolo fra tutte le più belle cose cantate da Fabrizio De Andrè: vivono solo un giorno, come le rose.
Un giorno in cui s’è dato sfoggio a tutta quella retorica che è lì, nel vocabolario dei politici, sempre pronta a essere riesumata. La retorica per la quale la condanna è sempre ferma; la solidarietà piena; lo sdegno unanime; l’aggressione vile; la spirale pericolosa; la preoccupazione profonda; il monito severo. Quanto fossero sinceri certi buoni propositi, lo abbiamo visto già ieri. L’«auspicato dialogo» (altro termine-totem) centrato «sulla politica e sui problemi della gente», piuttosto che sugli attacchi personali, è ripreso a colpi non di fioretto, ma di cannone.
Non è nostra intenzione fare una classifica per stabilire chi s’è rivelato più incontinente. Tuttavia non può non colpire un fatto. Nelle ore successive al ferimento del premier, è stato il centrodestra a reclamare a gran voce - e a ragione - un abbassamento del livello dello scontro. Sarebbe stato quindi ovvio attendersi un comportamento che desse immediatamente il buon esempio. E invece si è partiti da un attacco del Giornale, già lunedì mattina, che ha parlato di «una regia dietro la violenza» in un articolo che ha indotto Pier Ferdinando Casini a sporgere querela. E stiamo parlando di Casini: non di un incendiario.
Ieri mattina poi, alla Camera, il capogruppo del Pdl Cicchitto ha dato dei mandanti morali al gruppo editoriale Repubblica-Espresso e ad «alcuni pm», e del «terrorista mediatico a Marco Travaglio». Anche Travaglio farà querela. Era stato tirato in ballo pure da Capezzone e dal condirettore del Giornale Sallusti, e ieri ha risposto loro su Il Fatto ricordando, a proposito di «normale e civile confronto», Berlusconi che dà dei «coglioni» agli italiani che non votano per lui; «l’uso criminale della tv» attribuito a Enzo Biagi; Sgarbi che dà degli «assassini» ai pm di Milano e Palermo; il pedinamento del giudice Mesiano; le false accuse al direttore di Avvenire Dino Boffo «di essere gay» e a «Veronica Lario di farsela con la guardia del corpo».
Insomma à la guerre comme à la guerre. Di Pietro, tanto per guardare anche dall’altra parte, era stato uno dei primi, già domenica sera, a ignorare l’appello ad abbassare i toni. Però ieri quando lui ha cominciato a parlare alla Camera, l’intero gruppo del Pdl ha lasciato l’aula: e non è un bel modo per gettare acqua sul fuoco. Così come benzina, e non acqua, ha gettato subito dopo sul fuoco il parlamentare dell’Idv Barbato, che ha definito il Pdl «popolo della mafia». Altri titoli di ieri. Il Giornale: «La Bindi? L’avevo detto: è più bella che intelligente»; «E Travaglio insiste: Si può odiare il premier»; «Bersani dagli insulti alle lacrime di coccodrillo». Perché ce n’è anche per il Pd: «La famiglia di Tartaglia ha detto di aver sempre votato per il Pd. Coincidenza pure questa?». Titoli visti, invece, su Libero: «In Italia si respira guerra. E la colpa è dei compagni»; «Le toghe tirano due statuette».
Intendiamoci. Il centrodestra ha ragione quando dice che da tempo contro Berlusconi s’è scatenata una caccia all’uomo che travalica ogni legittima critica politica. A quest’uomo vengono addebitati tutti i mali possibili e immaginabili, terremoti compresi. Resta però bizzarro invocare una tregua a Berlusconi sanguinante e infrangerla a Berlusconi ricoverato.
Il timore è che nessuno dei due «partiti» abbia intenzione di deporre le armi. Ieri un editoriale su Repubblica di Aldo Schiavone terminava con questa affermazione: «Non abbiamo bisogno di intelligenze "al di sopra delle parti", né abbiamo bisogno di edulcorare le nostre asprezze». Schiavone definisce simili atteggiamenti come «finzioni» e «ipocrisie». Sarà. Ma crediamo di non sbagliare se diciamo che in Italia c’è una maggioranza che vorrebbe una politica meno da ring, e che vorrebbe giudicare fatto per fatto, idea per idea, senza essere prigioniera di due curve di ultrà che rinunciano a pensare con la propria testa. È l’Italia che ha conservato non solo modi civili, ma anche uno sguardo senza pregiudizi sulla realtà
Dossetti. La Costituzione come bussola
di Maurizio Chierici (il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2009)
Domani è l’anniversario della morte di don Giuseppe Dossetti, memoria cancellata dagli uragani di questi giorni. Dossetti (13 febbraio 1913 - 15 dicembre 1996) collaboratore e avversario di De Gasperi; Dossetti uno dei padri della Costituzione.
Nel ’95 quando Berlusconi annuncia all’Italia che cosa ha in mente dopo aver demolito la vecchia Repubblica, Dossetti abbandona l’esilio spirituale nelle montagne della Giordania. Torna a Bologna. Raccoglie i costituzionalisti con un discorso drammaticamente confermato. Parla di una “mitologia sostitutiva” con la quale il liberismo della destra ha aperto il conflitto costituzionale.
Raniero La Valle, direttore dell’Avvenire d’Italia a Bologna negli anni segnati dal lavoro comune tra il cardinale Lercaro e Dossetti; La Valle, analizza la “mitologia sostituiva” che tendeva a sostituire la sovranità popolare “col mito antidemocratico, anzi idolatrato, di un potere da conservare ad ogni costo e contro ogni ragione e interesse del paese” mediante la sollecitazione di forme plebiscitarie per “ridurre il consenso del popolo sovrano all’applauso del popolo sovrano”. Dossetti ricordava il senso della sovranità del popolo custodito dalla Costituzione, che si vorrebbe cambiare stravolgendo “la volontà popolare che ha, come normale espressione, la sua rappresentanza nelle assemblee del Parlamento”, e normale garanzia le istituzioni che vegliano sulla Carta Magna: presidente della Repubblica e Corte costituzionale.
Dossetti era talmente preoccupato da girare l’Italia per lanciare l’allarme. Ogni sera la sua voce, e aveva 81 anni. Denunciava che “alla Costituzione ancora formalmente e sostanzialmente vigente si sono volute opporre ipotetiche norme di una mitica Costituzione ancora non scritta, del tutto immaginarie, sulla semplice base di deduzioni ricavate solamente dalla legge elettorale maggioritaria, deduzioni del tutto infondate e senza nessun precedente in qualunque ordinamento costituzionale”. Gennaio 1995. Quindici anni dopo il cammino dei cambiamenti passa per le tv, madri della patria.
Il degrado politico anni Novanta allarmava Dossetti. Quando nel 1991 i nostri soldati vanno per la prima volta a “difendere i sacri confini” fuori dai nostri confini bombardando Saddam Hussein, guerra del Golfo, rompe per la prima volta un silenzio lungo 30 anni. Lo strappo alla Costituzione disegnata dopo il fascismo gli sembrava intollerabile. Viveva ormai lontano dalla politica che lo aveva visto antagonista a De Gasperi. Assieme a La Pira, Ardigò, Andreatta, quel gruppo bolognese dove Prodi stava crescendo, si era illuso di creare un movimento cattolico nel quale morale e cultura disegnassero una società di partecipazione comunitaria. Laica e slegata alle influenze vaticane.
Utopia troppo severa; avevano vinto gli “altri”. E Dossetti si ritira negli studi monastici sulle colline di Bologna (Monte Sole attorno alla Marzabotto del massacro nazista), e poi lungo il Giordano. Ed ecco il silenzio si rompe nell’incontro con una giornalista in una baracca di Ma’hin, monte Nepo dove Mosè aveva sfiorato la terra promessa.
Accetta le domande con qualche esitazione. Preferisce rispondere scrivendo: “Credo sia meglio, dopo tanto tempo. Se poi lo desidera possiamo parlarne, ma la sostanza non cambia”. Leggo ad alta voce i foglietti che mi allunga. Dossetti ascolta le sue parole con le mani intrecciate, come pregasse. “Dal momento che questa guerra, contro ogni speranza di ragionevolezza, è deplorevolmente scoppiata, credo di dover osservare il silenzio in modo ancor più rigoroso. Ma c’è una volontà più forte: attestare il nostro ascolto e una nostra attenzione verso non poche rivendicazioni islamiche di questa congiuntura. Ecco perché restare qui, mentre gli eserciti si affrontano, non può non essere rispettoso, umile e pacifico, non solo nelle intenzioni anche nei comportamenti. Dice il salmo 33- 14-15 ‘Preserva la lingua del male, le labbra da parole bugiarde. Fa il bene, cerca la pace e perseguila”. Ho l’impressione che non si persegua la pace quando le parole restano equivoche e anche bugiarde. “Come italiano e antico costituente, potrei aggiungere che molte menzogne si sono pronunciate nel Parlamento di Roma. Per giustificare la partecipazione di nostre forze aeronavali, si è fatto dire all’articolo 11 della Costituzione ciò che non corrisponde né alla lettera, né al suo spirito”. Articolo 11 la cui stesura lo aveva impegnato nella mediazione tra De Gasperi e Togliatti.
“C’è una decisione delle Nazioni Unite...”, provo a ricordargli, rompendo l’accordo delle domande scritte. “Si è preteso di collegare l’interpretazione a una finzione verbale e al ristabilimento di una legalità internazionale. Troppe volte in passato questa Carta non è stata strumento di legalità. E la guerra di oggi rischia di diventare illimitata nel fine come nei mezzi. L’Onu dà l’impressione di averla abbandonata a se stessa. Non ne controlla gli sviluppi e affida il conflitto all’arbitrio, per così dire tecnico, di una delle due parti in contesa”. Nel salutare due parole: “Non so se sono un vero uomo di pace, ma spero di avvicinarmi alla speranza per diffondere la pace che è un bene universale”.
Illusione che non convince Livio Caputo: prima di diventare sottosegretario del Berlusconi Uno, governava gli esteri del Corriere. “Cosa c’entra la Costituzione con la guerra?”. Insomma, Dossetti vecchio impiccio fuori dal mondo.
Ma Ugo Stille e Giulio Anselmi dedicano a Dossetti un grande titolo di terza pagina. E il mattino dopo Il Giornale diretto da Montanelli commenta la riflessione di Dossetti col disprezzo di Nicola Matteucci: “Aveva taciuto trent’anni, poteva continuare”. Poi è venuto l’Afghanistan e la Baghdad che sappiamo. Imbarazzo superato, Costituzione adattata ai buoni rapporti internazionali. Possiamo partecipare a ogni guerra preventiva nel rispetto della nostra Carta fondamentale. Ma non basta: purtroppo la Carta lega le mani a chi governa. Si vuole allargare lo strappo per cambiare la vita di tutti. Meno uno. Protagonisti gli stessi nomi. Solo Dossetti è la memoria della speranza.
Die Zeit, Hamburg - n° 51/2009 - Editoriale
http://www.zeit.de/2009/51/Meinung-Italien
trad. José F. Padova
L’ultima battaglia del Patriarca
La fine di Berlusconi sembra farsi più vicina. Paradossalmente anche la mafia potrebbe approfittarne.
Quanto a lungo si reggerà Berlusconi? Quanto a lungo rimarrà ancora al potere? La domanda si pone dopo ogni nuovo scandalo. Losche faccende di sesso, imputazioni per corruzione, adesso perfino le concrete accuse di un pentito di mafia che sostiene come Berlusconi abbia avuto già nel 1993 contatti con Cosa Nostra siciliana. Le accuse suonano sempre più drammatiche, le bordate di Berlusconi contro una congiura comunista suonano sempre più trite e ritrite. Sempre più spesso egli minaccia nuove elezioni. La sua ultima speranza per restare al potere è la convinzione degli italiani che non vi siano alternative a Berlusconi.
Questa convinzione si sta sgretolando. Certamente l’opposizione di centro-sinistra del Partito Democratico offre come sempre un quadro rattristante. Durante otto mesi interi essa è rimasta senza guida, si è inceppata nel momento preciso in cui le avventure sessuali di Berlusconi hanno lasciato l’Italia in balia del ridicolo davanti dell’opinione pubblica mondiale.
Eppure, al di fuori delle strutture partitiche si è formata un’opposizione extraparlamentare. Vi è fra i primi la Chiesa, la quale, ed è una novità nella storia del dopoguerra, si posiziona sempre più apertamente contro il premier. Vi sono gli intellettuali, che hanno taciuto anche troppo a lungo. Un appello dello scrittore Roberto Saviano a Berlusconi perché si sottoponga ai processi che lo riguardano è stato già sottoscritto da 500.000 cittadini. Migliaia di scolari e studenti hanno di nuovo protestato anche quest’autunno contro il governo. Centinaia di migliaia di giovani si sono riuniti sabato a Roma in un «No-Berlusconi Day» organizzato dai blogger. La gaia protesta, organizzata attraverso Internet, ha fatto apparire ancora più vecchio il patriarca Berlusconi ferito a morte. Perfino il suo mezzo di comunicazione di massa, la televisione, per mezzo della quale egli tiene in scacco l’Italia, seducendola e anestetizzandola da così lungo tempo, appartiene a ieri.
Le iniziative della generazione Internet dimostrano che la cultura della protesta in Italia non è ancora del tutto soffocata. D’altra parte, dal punto di vista dell’appartenenza politica a partiti, essa non è più univocamente classificabile come un tempo. Alla manifestazione a Roma i richiami a Gianfranco Fini suonavano ad alto volume. Proprio Fini, il presidente della Camera e vice di Berlusconi, è nello stesso tempo il suo più tagliente critico. Dall’estero intanto egli riceve molto sostegno. Nel suo partito è ancora attaccato, poco tempo fa è stato minacciato di espulsione. Ma l’uomo, che un tempo ha definito Mussolini «il più grande statista del XX secolo», si presenta ora come difensore delle istituzioni democratiche contro il suo primo ministro. Un neofascista “purificato” come portabandiera della democrazia. Questo è l’Italia oggi. Ed è forse l’unica chance del Paese.
Tuttavia il ruolo di Fini è incomprensibile. Il suo atteggiamento è autentico o recita soltanto la parte del critico, per la quale Berlusconi stesso lo ha scelto? Molte cose fanno pensare che Fini non voglia aspettare altri tre anni prima di poter prendere il potere nel [suo] partito e nel Paese. Egli intuisce che potrebbe essere troppo tardi per lui e per il suo progetto: quello del distacco dalla cultura autoritaria [del capo, del Führer], tanto antidemocratica quanto anacronistica, e della costruzione di un partito conservatore, moderno e indirizzato all’Europa.
Perché non soltanto attorno a Berlusconi si stringe il cappio, ma anche intorno all’Italia. Da 15 anni in questo Paese si tratta soltanto di Berlusconi, la politica non conosce alcun tema diverso, in ogni caso neppure Berlusconi stesso. Il quale non conosce limiti, neppure quelli della Costituzione. Berlusconi, mentre erode e indebolisce le istituzioni, gioca anche nelle mani della mafia. Questo è il grande pericolo per l’Italia, ed è reale. Per salvare la propria pelle, il premier vuole ora fare accorciare i tempi di svolgimento dei processi e con questo anche di quelli contro la mafia. Ciò significherebbe consegnare il Paese ai boss per gli interessi del capo del governo - se glielo si concede.
A lungo i gregari di Berlusconi hanno approfittato di lui sotto ogni aspetto, lui ha offerto loro denaro, influenza e potere. Adesso costoro intuiscono di essersi cacciati in un vicolo cieco. E cercano vie di scampo. Ma probabilmente l’ultima battaglia del patriarca lascerà in eredità anche per loro un cumulo di macerie. Il berlusconismo presumibilmente non finisce con una autodepurazione, urgentemente necessaria, ma di puro esaurimento. Resta indietro un Paese politicamente logorato, che molti già hanno abbandonato. Infatti, nonostante le azioni dei blogger e le dimostrazioni studentesche, negli anni scorsi hanno voltato le spalle all’Italia tanti giovani laureati come mai prima d’ora. I migliori abbandonano un Paese sfinito.
Conterrà Lodo, immunità, carriere separate, riforma del Csm
L’obiettivo è di andare a un unico referendum per l’intero pacchetto
Senato, per salvare Berlusconi
il Pdl presenta una super-legge
E con la finanziaria sono a rischio i fondi per le intercettazioni
di LIANA MILELLA *
ROMA - Regalo di Natale per Silvio Berlusconi. Garantito per la prossima settimana. Un anticipo dei botti di Capodanno. Con la "sorpresa" che il premier ha sempre desiderato e tante volte annunciato: un nuovo scudo congela-processi per le alte cariche, l’immunità parlamentare con il ritorno al vecchio articolo 68 della Carta, la separazione delle carriere dei giudici e la conseguente riforma del Csm. Una sola legge, d’iniziativa parlamentare, per non coinvolgere direttamente il governo. Con l’obiettivo finale di andare a un unico referendum in cui giocare la faccia del presidente del Consiglio. Fuori dal pacchetto, attraverso una legge ordinaria, un inasprimento delle attuali norme, che risalgono all’88 dopo il referendum, sulla responsabilità civile dei giudici, e la riforma elettorale del Csm, per la quale i tempi sono ormai strettissimi, al punto che si scoglie un certo scetticismo nel Pdl sull’effettiva possibilità di farcela in vista della consultazione tra le toghe (luglio 2010).
L’"editto di Bonn" del Cavaliere si traduce subito in una zampata parlamentare, in una sfida all’opposizione, in una manovra sulle riforme che straccia, sin dal suo esordio, ogni possibilità di dialogo con il centrosinistra. C’è già, in nuce, una sfida al Quirinale che, a ogni occasione, raccomanda "riforme condivise". Ma nel pacchetto prenatalizio non c’è nulla che può far presagire possibili intese con il Pd, visto che Bersani e Violante hanno chiuso le porte a riforme che non siano "complessive". Il no di Di Pietro è scontato. L’unico margine resta con l’Udc su scudo e immunità. Tra i berluscones l’ordine è mettere da parte gli indugi e lanciare un segnale molto forte, "inondando il Parlamento con una raffica di riforme".
Il lavorio in corso tra gli esperti giuridici del Pdl di Camera e Senato lascia intendere che il "pacco dono" arriverà a metà settimana. Al Senato la riforma costituzionale, alla Camera il resto. Con un intreccio a tenaglia con il processo breve e il legittimo impedimento. Una strategia ben chiara. Andare avanti, subito dopo le feste, con le due leggi ordinarie e iniziare il confronto su quelle costituzionali. Al premier, per via dei due processi milanesi aperti (Mills e Mediaset), sta soprattutto a cuore la norma che può bloccare le sue convocazioni a palazzo di giustizia. Sarà la "legge ponte" che apre la via al nuovo lodo Alfano bis, rimodellato dal vice capogruppo al Senato Gaetano Quagliariello, sulla sentenza della Consulta. Un testo che, per evitare uno stop dal Quirinale e dalla stessa Corte, conterrà le indicazioni puntuali degli impegni istituzionali che possono giustificare di saltare un’udienza ma con l’obbligo di una certificazione da parte degli uffici. Dovrà essere un testo inappuntabile quello che rivede l’articolo 420 del codice di procedura penale soprattutto in rapporto al processo breve. Perché, se da un lato il governo sponsorizza un dibattimento rapido per tutti i cittadini, dall’altro non può costruire una norma irragionevole per allungare a dismisura i tempi del processo per premier, ministri, parlamentari.
Il pacchetto costituzionale, almeno stando per il momento alla pagina dell’indice, non riserva sorprese. Il nuovo lodo, dopo la bocciatura di quello firmato da Alfano, è una necessità imprescindibile per Berlusconi. Prevederà il congelamento dei dibattimenti per le alte cariche. Con l’immunità il premier si augura di acchiappare il pieno consenso dei suoi parlamentari che non potranno più dire quanto lamentano adesso, che si lavora ormai solo per lui. La separazione delle carriere e del Csm è il leit motiv di questa e della precedente legislatura di Berlusconi. Il quale dovrà comunque fare i conti con Fini e con la Bongiorno. Anche se ormai il suo input è raggiungere comunque il risultato.
Come dimostra il caso delle intercettazioni: mentre la legge è ormai bloccata da mesi al Senato, ecco che il Pdl ricorre a un escamotage per legare lo stesso le mani dei pm. Crea un capitolo di bilancio ad hoc, il 1363, "spese di giustizia per l’intercettazione di conversazioni e comunicazioni", che toglie a quello abituale, il 1360 ("spese di giustizia"), gli ascolti. Peccato che con il primo i magistrati potevano mettere un telefono sotto controllo tutte le volte che era necessario farlo. D’ora in avanti dovranno prima chiedere se ci sono ancora fondi a disposizioni. Di fatto un colpo all’azione penale obbligatoria perché, pur di fronte a un reato, i pm non potranno far nulla per mancanza di soldi.
© la Repubblica, 13 dicembre 2009
Mosca apprezza, invece, l’impegno di Benedetto XVI sui «valori tradizionali cristiani» e intende arrivare presto al disgelo con il Vaticano: «Siamo alleati nella stessa sfida contro un’aggressiva secolarizzazione, quindi un incontro tra il Patriarca e il Pontefice è possibile e auspicabile, a condizione che cattolici e ortodossi non cerchino di sottrarsi i credenti».
Le istituzioni più forti degli uomini
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 13/12/2009)
Non è escluso che dal grande chiasso che regna ai vertici del governo nasca, taciturno ma testardo, un attaccamento più intenso degli italiani alle istituzioni e alla carta costituzionale su cui poggiano le istituzioni. Il politico che se ne sente ingabbiato e vuole liberarsene continuerà magari a esser applaudito, per la spavalderia che esibisce e per il ruolo di vittima che recita. Ma in parallelo con questo consenso, fatto di adorazione e indolenza, è probabile che si rafforzi proprio la pianta che il leader vorrebbe disseccare: la pianta, rara in Italia, che quando attecchisce dà come frutto il senso delle leggi e dello Stato. C’è qualcosa nel chiasso della presente legislatura che ricorda i dipinti dell’espressionismo tedesco, durante la Repubblica di Weimar: volti stravolti da eccitazioni, maschere che sogghignano, città sghembe che urlano senza più ordine. Kurt Tucholsky scrisse che il precipizio «spettrale» cominciava con l’uomo che mette l’Io in primo piano (politico o scrittore, giornalista o imprenditore).
Hitler era un uomo così, e l’Io che accampava era la sua persona e qualcosa di più nascosto, torbido: l’Io della nazione, del Popolo illimitatamente sovrano. «L’Io di per sé non esiste», scrive Tucholsky fin dal 1931: «Quest’uomo non esiste; in realtà egli è solo il chiasso, che produce». Il frastuono coesiste da tempo con il rispetto italiano delle istituzioni, a ben vedere. La seduzione e il carisma di Berlusconi hanno alcune qualità inossidabili, ma non meno incorruttibili sono stati, lungo gli anni, l’ammirativa affezione per i garanti della Costituzione e l’adesione dei cittadini all’equilibrio fra i poteri. Sono stati molto popolari Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi. Lo è Giorgio Napolitano. Anche l’adesione agli organismi di garanzia non scema, come dimostrano i sondaggi favorevoli al Csm e alla Consulta. La lezione sulla Costituzione che Scalfaro tenne nel 2008 all’Auditorium di Roma riscosse un successo vasto.
È una conferenza che andrebbe riascoltata: la maniera in cui l’ex Presidente racconta la scrittura intellettualmente elettrizzante della Carta, le visioni profetiche che essa contiene, fa rivivere un testo che non è affatto vecchio e che in pieno frastuono non andrebbe modificato. Ricordo in particolare il passaggio sui diritti della persona: per la prima volta in Italia, dice Scalfaro, lo Stato non li concede né si limita a garantirli, ma li riconosce. I diritti precedono i governi e le Carte, e davanti a essi gli uni e le altre «si inchinano». Ricordo anche quel che disse a proposito del referendum del 2006 sulla riforma costituzionale del governo Berlusconi. Gli italiani dissero no non solo alla devoluzione ma anche, con forte maggioranza (più del 60 per cento), a un Premier dotato di poteri esorbitanti, compreso quello che scioglie le Camere e che la Carta affida al Capo dello Stato. Istituzioni e carte costituzionali hanno questo, di specialmente prezioso: durano più degli uomini, dei governi, delle campagne elettorali, dei sondaggi.
Sono lì come una tavola fatta di pietra, conferiscono stabilità a quel che nell’alternarsi democratico delle maggioranze necessariamente è votato all’instabilità. È significativo che non solo le nazioni uscite dalla dittatura si siano messe come prima cosa a riscrivere le Carte, ma che anche l’edificio europeo abbia anteposto la permanenza delle istituzioni all’impermanenza degli uomini, dopo le guerre del ’900. Jean Monnet, che dell’Europa fu uno degli artefici, venerava in particolar modo le istituzioni. Citando il filosofo svizzero Henri Frédéric Amiel scrive nelle Memorie: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si trasformi gradualmente» (Cittadino d’Europa, Guida 2007, i corsivi sono miei).
Questo vuol dire che grazie alle istituzioni non cambia la natura dell’uomo (missione impossibile e, se tentata, deleteria) ma il suo comportamento: il progresso di cui è capace l’uomo vive e si trasmette solo attraverso le istituzioni che egli sa darsi. Per alcuni, le istituzioni e le costituzioni hanno una forza così potente - la forza del Decalogo - da sostituire identità controverse come la nazione o l’identità etnica. Non sono Habermas e le sinistre ad aver inventato il concetto, non a caso tedesco, di patriottismo costituzionale. Lo coniò negli Anni 70 un conservatore, Dolf Sternberger: per l’allievo di Hannah Arendt, il patriottismo costituzionale era «una sorta di amicizia per lo Stato» (Staatsfreundschaft): amicizia che Weimar non aveva posseduto a sufficienza. L’adesione italiana alle istituzioni e alla Costituzione ha radici più forti che ai tempi di Weimar. Ha una resilienza a quell’epoca sconosciuta. Uomini come Scalfaro e Ciampi, nella Germania di allora, non avrebbero avuto la popolarità che hanno oggi in Italia.
Per Sternberger, il patriottismo costituzionale era l’unica identità possibile per un paese ridotto a mezza nazione dal nazionalismo etnico, la dittatura e la guerra. Una condizione che si diffonde, con la mondializzazione: tutte le nazioni hanno, nel globo, sovranità dimezzate. L’altro concetto formulato da Sternberger è quello di democrazia agguerrita. Alle violazioni delle leggi e agli abusi d’un singolo potere, la democrazia deve rispondere anche con la forza. In guerra si difende con le armi; in pace con le istituzioni, le leggi, le corti, perché queste si decompongono meno rapidamente e facilmente di un uomo o una maggioranza. Le istituzioni nascono quando l’uomo scopre il male, fuori e dentro di sé. Quando il politico, spinto esclusivamente da volontà di potenza, mostra di non tollerare confini e non riconosce, sopra di sé o al proprio fianco, poteri che frenino i suoi abusi. Quando smette, dice Ciampi, di essere compos sui: pienamente padrone di sé (intervista al Corriere della Sera, 11-12-09).
Limiti e contrappesi sono necessari anche quando l’espansione della volontà di potenza s’incarna nel popolo e nelle sue maggioranze: il popolo non ha innocenza e anch’esso può divenire despota, insofferente ai limiti. La democrazia che gli attribuisce sovranità assoluta non è già più democrazia. Anche questa è una lezione del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo sono state escrescenze della democrazia, e tutte son partite dall’idea che il popolo-sovrano sia compos sui per natura. L’idea che l’uomo sia naturalmente buono è di Rousseau, e tende a squalificare sia il controllo esterno delle istituzioni sia il controllo interiore della coscienza, scriveva nel 1924 un altro filosofo conservatore, Irving Babbitt: «Con la scomparsa di questo controllo, la volontà popolare diventa solo un altro nome dell’impulso popolare» (Babbitt, Democracy and Leadership, 1924). Quel che avvince gli italiani, negli ultimi capi di Stato, è l’attitudine o comunque l’aspirazione a fissare uno standard, a farsi custodi non notarili ma perfezionisti della Costituzione.
Nel dizionario Battaglia, lo standard è «la norma riconosciuta o il criterio o l’insieme di norme o di criteri a cui devono fare riferimento o a cui si devono uniformare attività, servizi, comportamenti, metodi operativi o di lavorazione, e in base ai quali sono valutati». Quando vengono meno gli standard i popoli tendono a guardare non verso l’alto ma verso il basso, e il chiasso che ne esce si fa spettrale come nelle parole di Tucholsky.