di Wladimiro Settimelli *
Con voce calma e limpida aveva alzato una mano, guardando fisso l’uomo che, in piedi, girava e rigirava intorno ad una domanda . Per Tina Anselmi, era chiaro che non voleva e non intendeva rispondere. Lei allora, con aria grave aveva detto: «Signor generale, si vergogni. Lei è tenuto, per rispetto alle istituzioni, a rispondere alla domanda che lo ha fatto. E’ un soldato della Repubblica italiana e noi qui rappresentiamo proprio la Repubblica. Si ritenga agli arresti e si accomodi fuori di qui. I carabinieri lo accompagnino nell’altra stanza a riflettere. Quando deciderà di rispondere sarà di nuovo libero».
Nell’aula di Palazzo San Macuto dove si svolgevano le audizioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, per qualche minuto si era fatto un gran silenzio. Noi cronisti, al piano di sotto, collegati con la Tv a circuito chiuso, eravamo subito schizzati via per avvertire i giornali. La Anselmi, quel giorno, aveva arrestato un generale che stava mentendo e non voleva dire la verità su certe operazioni dei servizi segreti in rapporto a Licio Gelli.
Quell’inchiesta difficile, dura e clamorosa, faceva venire a galla farabutti, mestatori, ladroni e spioni che avevano attentato alla democrazia, orientando la vita politica in senso reazionario e golpista. La guida: massoneria e servizi segreti deviati, uomini politici senza ritegno e senza vergogna, generali e ammiragli felloni, capi dei servizi di sicurezza, industriali, banchieri, giornalisti, alti magistrati che operavano in base al «piano di rinascita democratica» messo insieme da Gelli.
Ecco: a lei, alla partigiana Tina Alselmi, alla montanara testarda e limpida, era stata affidata l’inchiesta su tutto quel fango fatto di miliardi e di «poteri forti», di spie e di uomini pubblici arroganti e prevaricatori, anche del suo stesso partito. Lei aveva accettato l’incarico con l’intenzione di andare fino in fondo, in nome del popolo italiano e della democrazia.
Cosi’, il cronista, per più di due anni, si era trovato ad incontrare la Anselmi mattina e sera, all’ora di pranzo e alla fine della giornata. L’aveva anche cercata per telefono mille volte per chidere notizie o chiarimenti o l’aveva incontrata nei corridoi di Palazzo San Macuto. Così, piano, piano, aveva finito per conoscerla un po’, soltanto un po’. Ma aveva imparato che per la parlamentare dc, quello, dopo tanti anni di vita politica anche come ministro, era l’incarico più gravoso e difficile che era stata chiamata ad assolvere. E aveva imparato che di lei, gli italiani potevano avere totalmente fiducia perché non avrebbe nascosto niente nei cassetti e non avrebbe protetto proprio nessuno, se non la democrazia e la Repubblica. Sarebbe, in quei due anni generiskapoteket.com, diventata la nemica principale di Licio Gelli e dei suoi tirapiedi e avrebbe chiesto alla magistratura di intervenire ogni volta che fosse stato necessario. Avrebbe chiamato a spiegare quello che era accaduto, chiunque, anche a costo di farsi tantissimi nemici. E in quei due anni se ne sarebbe fatti di nemici. Eccome. Alla fine l’avrebbero messa da parte anche i suoi. Così è stato, ma lei non ha mai protestato, non si è fatta mai avanti e non ha chiesto nulla. E’ tornata tranquillamente alle sue montagne, ai nipoti, agli amici ai colleghi di partito locali. Tutti quelli che, insomma, le hanno sempre voluto bene.
Non si lasciava facilmente andare ai racconti dei segreti che stava piano piano tirando fuori. Tanto-diceva - io non ho da far carriera da nessuna parte e non cerco pubblicità. Un giorno, nel corridoio di San Macuto, le avevo chiesto di raccontare come era diventata partigiana. Lei, con un sorriso mesto e a bassa voce aveva risposto: «Non era stata una scelta difficile. Vede, un giorno, tutta la mia classe di ragazzine era stata portata, in centro, sulla piazza per vedere qualcosa. Non sapevamo che cosa.
I “repubblichini” andavano avanti e indietro e ci accompagnavano. Arrivammo nello slargo e vedemmo. O se vedemmo. A ogni albero c’erano dei ragazzi appesi per il collo. Impiccati. Erano partigiani. La mia compagna di banco mi teneva la mano, in silenzio. Poi, aveva cominciato a urlare ed era corsa verso uno degli alberi, alzando le braccia come per afferrare qualcosa. L’impiccato di quell’albero era il suo fratello maggiore. Non ho mai dimenticato quella mattina, quella scena e tutto quell’orrore. Da allora diventai partigiana e ogni giorno portavo i messaggi, le armi, le comunicazioni segrete. Sono qui a San Macuto anche per quei ragazzi».
Il racconto era finito e la Anselmi aveva già raggiunto le scale... Licio Gelli l’ha sempre considerata la sua nemica più terribile. Non voleva mai neanche pronunciarne il nome. Diceva: «E’ stata quella lì a mettere sotto accusa i generali e i servizi segreti... Non ha avuto rispetto per nessuno». Non sapeva che complimento stava facendo a quella donna rude e massiccia che veniva dalle montagne. Chiusa, ma anche ironica e autoironica, al punto di ridere lei stessa dei suoi modi bruschi e poco complimentosi. Era duro occuparsi ogni giorno di Calvi, Pazienza, di Gino Birindelli, Pietro Longo, Vito Miceli, Angelo Rizzoli Fabrizio Cicchitto, Silvio Berlusconi, Massimo De Carolis, Giuseppe Santovio, Maletti, Umberto Federico D’Amato e tutti gli altri. Ed era duro per lei occuparsi dei suoi colleghi di partito coinvolti in storie non certo pulite.
Come credente, diventava serissima, quando si imbatteva nei conti all’estero del Vaticano o nelle manovre di monsignor Marcinkus. Ma andava avanti. Certo che andava avanti. Un giorno l’ho vista felice, raggiante. In Piazza Montecitorio, davanti alla Camera, un gruppo di turisti italiani l’avevano riconosciuta e si erano messi ad applaudirla gridando: «Tina vai avanti, vai avanti. Non ti fermare». Conservava con cura ogni messaggio di solidarietà che riceveva. E anche le lettere anonime piene di insulti.
Nella relazioni finale della Commissione parlamentare d’inchiesta, a proposito di Berlusconi, che allora non era nessuno, ma comunque risultava iscritto alla P2, aveva scritto :«Ma come ha fatto questo signore ad ottenere, senza offrire in cambio nessuna garanzia concreta, decine di miliardi di fido dal Monte dei Paschi?». Gli uomini di Gelli nella grande banca, questa era la verità, avevano davvero lavorato bene.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.03.07, Modificato il: 25.03.07 alle ore 15.05
TINA ANSELMI "DE GASPERI E tOGLIATTI CAPIRONO L’IMPORTANZA DELLA PARTECIPAZIONE DELLE DONNE"
Tina Anselmi, prima ministra donna nella storia repubblicana
di Caterina Segata (Il Mulino, 29 luglio 1976)
Il 29 luglio 1976 Tina Anselmi viene nominata ministra del Lavoro e della Previdenza Sociale nel terzo governo Andreotti, prima donna nella storia della Repubblica italiana. Una data che rappresenta una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione femminile in Italia, un percorso lento e sofferto verso una parità di genere che ancora oggi non si può certo dire sia un traguardo raggiunto nella famiglia, nel lavoro e nella vita politica.
Nei quarant’anni successivi a quella nomina, la quota di donne ministre è sempre stata minoritaria; mai una donna è stata presidente della Repubblica né presidente del Consiglio dei ministri, e in alcuni ruoli chiave dei governi le donne sono state finora assenti o quasi.
Tina Anselmi nella sua autobiografia, Storia di una passione politica, scritta nel 2006 insieme ad Anna Vinci, invita alla perseveranza: “Io ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, come lo dicevo alle filandiere del Veneto nel dopoguerra, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere, se viene meno la nostra vigilanza. Noi non possiamo abdicare, dobbiamo ogni giorno prenderci la nostra parte di responsabilità, perché solo così le vittorie che abbiamo ottenuto diventano permanenti” (p. 87).
La storia di Tina Anselmi è quella di una donna perseverante sin dall’adolescenza. Di una ragazza di diciassette anni partigiana, staffetta della Brigata autonoma Cesare Battisti, coraggiosa e forte, che dall’esperienza della guerra, della morte e della lotta contro il nazifascismo prese il coraggio per un impegno politico fondato sui valori della libertà e della democrazia. Quella storia ci racconta di una donna nata nel 1927 a Castelfranco Veneto e poi vissuta per gran parte della sua vita attiva a Roma, al fianco di Moro e Zaccagnini, suoi punti di riferimento insieme a De Gasperi. Ci racconta di una nomina a ministra meritata e motivata da un lungo percorso politico: sindacalista, incaricata nazionale dei giovani della Dc nel 1950, nel 1951 nel Consiglio nazionale del partito, eletta deputato nel 1968, Sottosegretaria al lavoro nel quinto governo Rumor e nel quarto e quinto governo Moro in continuità da marzo 1974 alla nomina a ministra. Un percorso che proseguirà con alti e bassi: la riforma sanitaria, la legge sulla parità nel lavoro, la riforma del diritto di famiglia ma anche gli anni di piombo, il rapimento Moro a pochi giorni dal suo secondo incarico ministeriale alla Sanità, gli attentati, le uccisioni che colpirono la classe dirigente di allora, fino all’incarico da lei considerato il più difficile a capo della Commissione parlamentare sulla P2 assunto il 9 dicembre 1981 e terminato il 10 luglio 1983, ben oltre i sei mesi inizialmente previsti dalla legge che la istituiva.
Nel libro La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi (Chiarelettere, 2016), sono riprodotti gli appunti che lei prendeva nel corso delle audizioni in commissione e negli incontri successivi, a partire da quello con Nilde Iotti il 30 ottobre 1981, in cui l’allora presidente della Camera le propose di assumere la presidenza della commissione inquirente. Ma riemergono alla memoria grazie alle pagine dei sui diari anche documenti come l’intervento di Tina Anselmi alla Camera dei deputati il 9 gennaio 1986, oltre ai contributi di Dacia Maraini, Giovanni Di Ciommo (segretario della commissione di inchiesta) e Giuliano Turone, il magistrato che insieme a Gherardo Colombo dispose la perquisizione che portò al ritrovamento dell’elenco degli aderenti alla P2, oltre 900 nomi riportati in appendice al libro. Quei diari ci riportano a tratti un mondo surreale, per quanto tristemente noto.
L’immagine che traspare è quella di una persona laboriosa, sobria, dedicata; quel genere di persona che fa la differenza attraverso l’impegno e il lavoro, intenta a bere un calice amaro: guardare in faccia e ascoltare le voci di uomini - pochissime le donne - che raccontano una storia parallela alla vita democratica, coperta, segreta, fatta di sotterfugi, di doppi giochi, di commistione tra potere politico, finanziario, imprenditoriale, giudiziario; guardare in faccia l’ombra, i depistaggi, le bugie, le macchine del fango, per portare alla luce i rischi per lo Stato. Suonano forti le parole dette alla Camera il 9 gennaio 1986 a poco meno di tre anni dalla conclusione dei lavori della Commissione: la Loggia P2 è stata un sistema sofisticato e occulto di controllo, condizionamento e manipolazione della democrazia.
La potremmo immaginare stanca, smarrita e disillusa, ma invece la ritroviamo salda nei suoi principi, perseverare nello sforzo e nell’impegno, spronare ancora negli anni a seguire le persone all’impegno e alla determinazione, anche in politica. Fede e ragion di Stato e un percorso lungo nelle istituzioni, di cui con ogni probabilità vedeva e si teneva salda ai punti di forza pur non negando i punti di debolezza. Emblematiche a questo proposito le parole di apertura dell’intervento parlamentare che sottintendono quanto e cosa Tina Anselmi si aspettasse davvero dalla classe politica che la stava ascoltando: “Onorevole Presidente, Onorevoli colleghi, signor Ministro, voglio esordire osservando che la vicenda della Loggia massonica P2 è stata per lungo tempo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica [...]; com’è altrettanto indubbio che, successivamente alla relazione, nessuno dei temi politici che in essa venivano enucleati e analizzati è stato oggetto di ulteriore riflessione e dibattito”.
Quei diari hanno il grande pregio di raccogliere le parole delle persone e cercare di dare il nome, che hanno, alle cose. Uno sforzo preciso, che richiama doti di coerenza tra pensiero e azione e appunto di perseveranza nell’azione politica anche davanti a un potere declinato al maschile che offre di sé la peggiore delle immagini.
Il valore che Tina Anselmi riconosceva alla libertà della persona e alla possibilità di autodeterminazione appare declinato nella sua vita politica con la moderazione, la laicità e l’accettazione della diversità di opinioni e di visioni del mondo, in una regolata e rispettosa dialettica democratica. Una fiducia nella forza delle istituzioni democratiche incrollabile e una buona dose di gioia di vivere: “Io non sono una che rimugina sul passato. O si lamenta. Fortunatamente la gioia di vivere mi è sempre stata alleata. Ieri come oggi. Chissà, oggi anche di più. Oggi che sono vecchia” (Storia di una passione politica, cit., p. 142).
Protagonisti.
Tina Anselmi e la conquista della sanità
Si deve alla prima donna ministro della Repubblica l’avvio, nel 1978, di quel Sistema sanitario nazionale che oggi è sottoposto alla più grande prova della sua storia
di Alberto Guasco (Avvenire, sabato 28 marzo 2020)
(Non) ci voleva il covid- 19 per costringere una repubblica impaurita, senza memoria e senza padri, a ricordarsi d’aver avuto, tra le altre, una madre come Tina Anselmi (1927- 2016). Sì, la partigiana “Gabriella”, dal 1944 iscritta alla Democrazia cristiana. La sindacalista attentissima alla condizione femminile. La deputata (1968-1992) e la prima donna ministro (1976) in Italia. La presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2 (1981-1984).
Soprattutto, il ministro della Sanità grazie alla cui “ferma determinazione” - così l’8 marzo 2018 il presidente Mattarella - il 23 dicembre 1978 nacque il Servizio sanitario nazionale. Tributi sinceri, ma forse tardivi verso una donna tutta d’un pezzo, non manovrabile (furono i colleghi a soprannominarla “Tina vagante”), amica della Iotti e di Pertini, ma ai tempi della Commissione P2 ostacolata da fuori e da dentro il suo partito, che alla fine la mise cinicamente da parte. E nel 2004, addirittura schernita da chi redasse la voce a lei dedicata nel volume Italiane, con un livore di riporto le cui ragioni porterebbero lontano. Peraltro, dietro alla firma della Anselmi sulla legge 833/1978 si possono intravedere i diversi tempi della storia unitaria del nostro Paese.
Il trapassato remoto dell’Italia liberale falcidiata dalle malattie infettive, a cui il 22 dicembre 1888 Francesco Crispi, insieme all’igienista Luigi Pagliani, diede la prima legge Sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica. Il passato remoto dell’Italia giolittiana e fascista, che nel Testo unico delle leggi sanitarie (uscito nel 1907 e rivisto nel 1934) lasciò più o meno invariata l’ossatura piramidale della Crispi-Pagliani, dal vertice (la Direzione generale e il Consiglio superiore di sanità) alla base (i medici condotti o ufficiali sanitari a capo degli istituti comunali d’igiene), consegnandola nel 1945 all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica. Poi, dopo la grande tragedia, il passato prossimo, la Costituzione, articolo 32: «La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti ». È una norma così rivoluzionaria che l’Italia, prima a riconoscerla in Europa, aspetta trent’anni per applicarla. Infine, c’è il presente. Cioè gli anni Settanta, in cui - settima legislatura (1976-1979), governi Andreotti III, IV e V - si concentra l’attività ministeriale della Anselmi. Certo, sono gli Anni di piombo, ma anche di altro. Ad esempio, dallo Statuto dei lavoratori in avanti, il decennio delle più grandi conquiste sindacali che la storia della repubblica ricordi.
In questo senso, nel 1977, quasi a suggello d’un lungo impegno politico-sindacale, è il ministro del lavoro e della previdenza sociale del governo Andreotti III, Tina Anselmi, a firmare la legge 903 sulla Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. Oppure, gli anni Settanta sono il decennio delle riforme sociali, del divorzio, del nuovo diritto di famiglia, dell’aborto legale. E nel 1978 la Anselmi, che da deputata ha votato contro il progetto di legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, da ministro della Sanità del governo Andreotti IV ne firma il testo, mostrando a tutti cosa significhi il termine “laicità dello Stato”. E nello stesso anno sua è la firma sulla legge in merito agli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, meglio conosciuta come legge Basaglia. Infine, sempre nel 1978, la Anselmi affronta la riforma della Sanità. È una legge divenuta indifferibile non solo di fronte alla crisi finanziaria delle mutue, le vecchie assicurazioni sanitarie di categoria (che lo stato scioglie, accollandosene i debiti) ma anche alla sfida dell’effettiva attuazione dell’articolo 32 della Costituzione. Anzi, è una riforma voluta perché, tramite i suoi principi cardine (la globalità delle prestazioni, l’universalità dei destinatari e l’uguaglianza del trattamento) il sistema ne garantisca il più importante: la tutela della dignità e della libertà della persona.
Per più d’una ragione, arrivare alla creazione del Ssn non è semplice. Ad esempio, perché la riforma tocca grossi interessi di potere e di pecunia, e perciò suscita più d’una opposizione da parte degli enti sanitari privati. Ma anche perché, scomparso Moro e in fase discendente la parabola della solidarietà nazionale, a più d’un membro della Dc la riforma pare il frutto d’una eccessiva collaborazione con i comunisti, pronti a essere rispediti nel campo dell’opposizione a vita. In ogni caso ha ragione il medico e deputato Dc Bruno Orsini, quando durante la discussione della legge afferma che l’istituzione del Ssn è «il punto di arrivo di un lungo processo e il punto di partenza per un lungo, difficile, ulteriore cammino». Quello verso il futuro, cioè verso di noi. D’altronde oggi, a quarantadue anni e svariati ritocchi di distanza, quella riforma - nata da un accordo tra avversari capaci di parlarsi in nome d’un antico patto - si mostra per quello che è: una tra quelle più capaci di incidere sulla società italiana.
Nessuna mitizzazione, ma è pur sempre vero che, sottoposto agli assalti del covid-19, il sistema ha retto con una capacità superiore alle attese, ivi inclusi esempi di altissimo valore umano, medico e civile. E tutto ciò nonostante i tagli - o gli investimenti in calo: il litigio è aperto - del quindicennio precedente. Ecco un argomento da mettere a tema fin d’ora, senza rinviarlo a un dopo che avrà già la sua pena. D’altra parte, questi giorni hanno allo stesso tempo mostrato le fragilità del sistema e la necessità di riformarlo, a livello di finanziamento e di struttura, mettendolo in grado d’affrontare i bisogni d’una popolazione sempre più vecchia o stati d’emergenza come quello presente. In questo senso, vale ancora l’antico avvertimento della Anselmi secondo cui «le conquiste raggiunte non sono mai per sempre ». A chi resta il compito di rafforzarle o di distruggerle
La legge 180
Compie 40 anni la legge Basaglia, che rese i matti «cittadini»
di Peppe Dell’Acqua *
È il 16 novembre 1961 quando il giovane Basaglia entra nel manicomio di Gorizia. Vede non solo la violenza delle porte chiuse e delle contenzioni. Vede “da filosofo” una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Ci sono più di 600 internati, senza più volto senza più storia. Vede la mostruosità dell’istituzione totale: i cancelli, le chiavi, le porte chiuse, i letti di contenzione ma, quello che angoscia più di ogni altra cosa Basaglia, è l’orrore dell’assenza. Non c’è più nessuno.
Gli internati sono tutti appiattiti nella stessa grigia identità, tutti invisibili. Basaglia è costretto a mettere tra parentesi la malattia, la diagnosi, il grigiore di anni d’internamento. Messa tra parentesi la malattia, persone, storie, relazioni, memorie riaffiorano. I cittadini compaiono sulla scena.
Per incontrare le persone bisognò aprire le porte, abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Tutti cominciarono a chiamarsi per nome. Divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile un altro modo di curare e di ascoltare: il malato e non la malattia, le storie singolari e non la diagnosi, la possibilità di vivere e di abitare la città.
Sabato 13 maggio 1978: Aldo Moro è stato ucciso da pochi giorni dalle BR. Una giovanissima partigiana, Tina Anselmi, democristiana, presiede con autorevolezza i lavori della commissione che sta discutendo la legge dei manicomi. Si interroga se i malati di mente siano cittadini, se possano godere dei diritti costituzionali. La legge che avrebbe chiuso i manicomi restituisce così prima di tutto diritto, cittadinanza, dignità alle persone che hanno la ventura di vivere una malattia mentale. Non più la pericolosità, ma la cura nel rispetto della libertà di ognuno. Tina Anselmi, quel giorno, affermò “semplicemente” che l’articolo 32 della Costituzione valeva per tutti, anche per i matti. A maggior ragione per i matti.
Quaranta anni di Legge Basaglia
Il giovane Aldo Moro aveva fatto parte della Costituente. Aveva discusso con Calamandrei, con Togliatti, con La Pira l’art. 32 e ne era stato l’estensore. Al secondo capoverso così recita: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». L’attenzione alla persona umana avrà formidabili conseguenze nel garantire i diritti fondamentali nella nostra democrazia. In quei giorni terribili Aldo Moro, prigioniero senza diritti e condannato a morte, costruiva la via d’uscita.
I matti diventavano cittadini. La legge 180 compie 40 anni, la Costituzione 70. Bisognerà conservare gelosamente la memoria.
Arriviamo all’ottobre 2010. Una Commissione parlamentare denuncia la condizione di vita dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari del nostro Paese. Che fare dopo aver visto tanto orrore? Chiesero consiglio al Presidente Napolitano, tornarono in quei luoghi, documentarono tutto e mostrarono il video al Presidente. Di fronte a tanta violenza i corazzieri non riuscirono a trattenere le lacrime.
Il vecchio Presidente, inaspettatamente, nel messaggio di Fine anno del 2012 parlò degli Ospedali psichiatrici giudiziari, pronunciando parole dolorose: «Luoghi orrendi non degni di un Paese appena civile». Così ricominciò il viaggio di Marco Cavallo, la scultura di legno e cartapesta che aveva abbattuto le mura del manicomio di Trieste nel 1977, diventando emblema della liberazione. Marco Cavallo arrivò nelle periferie degli OPg: non c’era più tempo. Bisognava liberare tutti da quel tormento. Il 30 maggio 2014 la legge per chiudere tutti gli istituti fu approvata. Il 27 gennaio 2017 l’ultimo internato lasciava l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto.
Se qualcuno mi avesse detto, quando ho cominciato a lavorare, che i manicomi criminali sarebbero stati chiusi lo avrei preso per pazzo.
Maggio 2018, sono passati 40 anni dalla riforma Basaglia. Di fronte a conquiste luminose e a tante persone che riescono a farcela, ancora capita di dover fronteggiare l’abbandono, le porte chiuse, le contenzioni, le morti per psichiatria. Ma questa, lo sappiamo, è una storia senza fine. È utopia, ci hanno sempre detto.
Utopia é qualcosa che si può solo sognare. Ma, come recitava il Cantastorie collettivo nato nel ’77 per i Centri di Salute mentale h24 a Trieste, «utopia è che il ghetto più non ci sia, che muri e reti buttiamo via. E quante cose possiamo ancora fare se ci mettiamo tutti insieme a sognare?».
* Il Sole-24 Ore, Domenica, 13 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini e allegati).
L’integrità scomoda di Tina Anselmi
La Commissione sulla P2 le costò l’isolamento e l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibilità con cui la condusse
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 02.11.2016)
ORA che Tina Anselmi è morta tutti si ricordano di lei e ne esaltano la figura politica ed umana, il ruolo importante che ha avuto nella costruzione della democrazia italiana fin dalla sua origine, con la Resistenza, e successivamente con il lavoro nel sindacato e poi, da politica e ministra, con il sostegno attivo alla parità tra le donne e gli uomini, al diritto alla salute tramite l’istituzione del servizio sanitario nazionale. E, ancora, come presidente della Commissione di indagine sulla P2, che le costò l’isolamento e poi l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibile integrità con cui la condusse e la tenacia con cui continuò a chiedere che se ne traessero le conseguenze sul piano giudiziario e politico. Quell’ostracismo che prima la fece emarginare dalla politica e poi è diventato un lungo oblio.
Per molti, troppi anni ci si è dimenticati di lei, ben prima che la malattia la costringesse a chiudere i suoi ponti con il mondo. È vero che ad ogni elezione presidenziale, a partire dal 1992, qualche gruppo della società civile ha fatto il suo nome come possibile candidata. Ma è sempre rimasta una cosa puramente simbolica, senza alcuna eco, e tanto meno sostegno, non solo nei partiti, a partire dal suo e dai suoi colleghi di un tempo tuttora ben insediati nei gangli del potere, ma anche nei giornali e nei media e in parte anche nel movimento delle donne.
Non veniva neppure nominata quando si evocava ritualmente quel gruppo di persone che si amava definire “riserva della nazione” - tutti rigorosamente del sesso “giusto”, anche se non tutti avevano e hanno un curriculum umano e politico dello suo spessore. Non l’hanno fatta neppure senatrice a vita, cosa che io, che non sono mai stata democristiana, trovo personalmente non solo una ingiustizia, ma uno scandalo nei confronti di una persona alla quale la democrazia italiana è molto debitrice e che avrebbe più che meritato di occupare un ruolo designato per chi ha “illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Non l’avrà illustrato in campo scientifico, artistico o letterario, ma sociale sicuramente sì.
Non ci hanno pensato né Ciampi né Napolitano, i due presidenti che avrebbero potuto farlo e dai quali ci si sarebbe aspettati la sensibilità necessaria per deciderlo. Rimane il sospetto che non lo abbiano fatto perché era non solo una donna, caratteristica che nel nostro Paese continua ad essere una debolezza quando si tratta di trovare figure rappresentative, ma perché la sua storia politica, proprio per le sue caratteristiche di autonomia e integrità, la rendeva scomoda. Meglio lasciarla nell’oblio.
La sua rimozione dalla narrazione pubblica è talmente riuscita che, quando Elsa Fornero venne designata ministra del Lavoro nel governo Monti, molti, anche nei media, parlarono di prima donna a capo di quel dicastero, dimenticando che c’era stata, molti anni prima, appunto Anselmi, in un periodo altrettanto difficile e quando non era affatto scontato per una donna trattare da pari a pari con i colleghi di governo, con i rappresentanti sindacali e delle imprese.
La riparazione, parziale, a questo lungo oblio è avvenuta solo pochi mesi fa, quando le è stato dedicato un francobollo. Chissà che cosa avrebbe detto, quando era ancora lucida e piena di ironia, di questa monumentalizzazione ex post e quando ormai era fuori gioco, lei che ancora pochi anni fa aveva ammonito: «Lo ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere. Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta noi donne impegnate in politica e nei movimenti femminili e femministi, noi parlamentari con responsabilità nei partiti e nel governo eravamo ancora pioniere. Questa parola fa pensare che in seguito saremmo diventate più numerose e avremmo contato di più. Purtroppo, certe speranze sembrano non aver dato i frutti che avevano in serbo». Aggiungo che per lei «contare di più» non significava solo “esserci”, ma lavorare per migliorare la qualità sia della vita delle persone sia della democrazia.
Un’amica e una compagna
Tina Anselmi partigiana
di Luciana Castellina (il manifesto, 02.11.2016)
Un’epoca in cui l’organizzazione giovanile democristiana era fortemente influenzata dalla sua corrente di sinistra e fra noi giovani comunisti e loro ci si annusava sospettosi ma anche interessati. Ho ancora fra le foto che conservo in un pannello sulla mia scrivania quella di una cena - a Trento - in occasione del loro congresso cui io avevo assistito come «ospite» per conto della nostra federazione.
Siamo ambedue giovanissime, Tina solo due anni più di me, abbastanza per aver partecipato in prima persona alla Resistenza nel suo trevigiano, con il nome di battaglia Gabriella. Entrò nelle sue file - mi raccontò - dopo aver assistito all’ assassinio di 31 partigiani. Diventammo quasi amiche, io credo che ci siamo sentite in qualche modo «compagne», se a questa parola si dà il significato dovuto e che tutt’ora io le do: non la comune appartenenza ad una organizzazione, ma a un comune sentire. Perché così è stato con Tina.
Un giorno la invitai a pranzo a casa e la presentai a mia figlia che aveva pochissimi anni. Quando le dissi che era democristiana Lucrezia mi guardò inorridita: dei democristiani lei aveva sempre sentito dire il peggio e non capiva come fosse possibile che una di loro mettesse piede a casa nostra e conversasse con me come una persona normale. Io e Tina, dello sguardo scandalizzato e perplesso di mia figlia ridemmo di cuore, Lucrezia rimase invece a lungo diffidente.
Poi lei diventò deputata, mentre io rimasi a lungo militante delle organizzazioni povere della sinistra: la Fgci, l’Udi, poi il manifesto. La cosa aveva riflessi ferroviari: la incontravo spesso, nel mio girovagare, alla stazione di Padova e lei mi diceva: «Vien, vien, che tiro zo un leto». E così venivo ospitata nel suo vagon-lit , evitando lo scomodissimo sedile dello scompartimento cui il mio biglietto mi destinava.
Non voglio dire qui che tutti i dc erano come Tina. Purtroppo no. Lei è stata una persona davvero speciale, ma che aveva comunque un tratto analogo a quello di un settore di quel maledetto partito che tanto abbiamo - e giustamente - combattuto. Una sua ala popolare e in qualche modo anticapitalista. No, non ho certo nostalgia della Dc, né del compromesso storico, che purtroppo fu un’intesa con ben altra Dc. (Ma forse anche voi lettori vi ricorderete che Luigi Pintor per molti anni metteva sempre un postscriptum ai suoi editoriali, per dire, sconsolato: «Moriremo democristiani». All’ultimo, ricordo, aveva aggiunto: «Magari»).
Anche se i miei ricordi personali di Tina sono precedenti al suo ingresso nei governi Andreotti, vorrei aggiungere che sono stata molto contenta quando è diventata ministro. Come capo del dicastero della sanità, Tina contribuì infatti non poco a dare esito positivo alla lunga lotta per l’istituzione in Italia del Servizio sanitario nazionale.
Se posso aggiungere una considerazione che si riferisce ad una questione politica calda, il referendum costituzionale (cosa che di solito non si fa nel contesto di una commemorazione funebre) vorrei aggiungere che quella vittoria popolare, fu possibile, come altre in quegli anni - statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, ecc. - perché c’erano spazi per l’espressione dei conflitti e canali affinché trovassero riflesso nelle istituzioni.
La forza dell’opposizione sociale, accompagnata alla presenza di una forte minoranza in parlamento a quella strettamente legata ai movimenti di lotta, consentì quella dialettica democratica che sfociò in compromessi anche molto avanzati (e che non a caso oggi siamo qui a difendere coi denti). Alla democrazia - e dunque alla società - non serve un esecutivo reso efficiente dall’assenza di intralci - ma un conflitto tanto forte da imporre un dialogo. Certo il dialogo con Tina è stato altra cosa che quello con Andreotti. Ma lei era una «compagna».
È morta Tina Anselmi, prima donna ministro della Repubblica italiana*
E’ morta la scorsa notte, nella sua casa di Castelfranco Veneto, Tina Anselmi. Fu la prima donna ad aver ricoperto la carica di ministro della Repubblica, nominata nel luglio del 1976 titolare del dicastero del Lavoro e della Previdenza sociale in un governo presieduto da Giulio Andreotti. Anselmi, eletta più volte parlamentare della Democrazia Cristiana, aveva 89 anni.
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 22.06.2016)
Come si può dimenticare la donna di Roma città aperta , il film di Roberto Rossellini, che corre corre, insegue il camion su cui i nazisti stanno portando via il suo uomo, grida «Francesco, Francesco» e finisce a terra falciata dalle mitragliatrici? Pina, la popolana, e Anna Magnani, l’attrice, sono tutt’uno in quella scena tragica che settant’anni dopo seguita a far male al cuore. La ricorda il bel libro Donne della Repubblica edito dal Mulino, opera di più autrici, Claudia Galimberti, Cristiana di San Marzano, Paola Cioni, Elena Di Caro, Chiara Valentini, Maria Serena Palieri, Francesca Sancin, Lia Levi, Federica Tagliaventi, Elena Doni. Qualcuna di loro, il vecchio gruppo di «Controparola», ha scritto nel libro più di un saggio su personaggi che hanno lasciato un segno nel Novecento: donne le autrici, donne le protagoniste, politiche, scrittrici, attrici e anche donne al centro di fatti che ebbero un rilievo nel far progredire il bigotto costume dell’epoca.
Come scrive Dacia Maraini nell’introduzione: «Il nostro sembra un Paese che prova sollievo nel dimenticare il passato, quasi ci fosse da vergognarsi, soprattutto quando si tratta di stabilire dei punti di riferimento etici, socialmente riconoscibili, che possano fare da modello per le prossime generazioni».
La memoria smarrita. Le donne di questi ritratti o, meglio, racconti verità, si sono impegnate nel nome della dignità, della giustizia, dell’eguaglianza e rappresentano il simbolo dei momenti alti del Paese, la minoritaria lotta clandestina contro il fascismo, la Resistenza partigiana, la Costituzione del ’47. Si sono poi impegnate per creare la tessitura necessaria alle leggi che hanno emancipato la comunità, i diritti di cittadinanza, il divorzio, l’eguaglianza non ancora del tutto raggiunta tra uomo e donna. Il libro serve anche a far capire come la lotta per la libertà e per il progresso sociale e civile non debbano mai avere sosta. Ci si immalinconisce se si fa un paragone tra la forza, la cultura, il coraggio di donne come Ada Gobetti, Camilla Ravera, Nilde Iotti, Tina Anselmi e le ministrine di oggi, insipide ma arroganti, attente, sembra, soprattutto al colore del loro tailleur.
La carrellata di questo libro è lunga e appassionata. Da Anna Magnani (Lia Levi), sciantosa, pescivendola e poi grande interprete - vinse nel 1955 l’Oscar per La rosa tatuata - donna ribelle, attrice di se stessa, a Teresa Noce, uno dei ritratti più belli del libro (Paola Cioni). Sembra una storia ottocentesca, la sua: la povertà inimmaginabile, la senza scuola che ama la cultura e sa conquistarla con lo studio appassionato, l’indipendenza di giudizio, la testardaggine, la durezza, la coerenza, la coscienza che per la sinistra l’unità è essenziale. La bambina che nasce in un miserrimo quartiere di Torino all’inizio del secolo passato conosce via via Gramsci, Togliatti, Terracini, è in prima linea nella lotta antifascista, partecipa alla Guerra civile spagnola, è fra i Francs-tireurs et Partisans della Resistenza francese e con la Liberazione approda al Comitato centrale e alla direzione del Pci che anni dopo la espelle. (Era la moglie di Luigi Longo, il vicesegretario, che si è risposato a San Marino con l’inganno ed è lei, divorziata a sua insaputa, a venire accusata dai burocrati del partito di aver violato le regole). Completamente emarginata, scrive libri. Fino alla morte, sola.
Un altro bel ritratto è quello di Tina Anselmi (Eliana Di Caro ed Elena Doni). Veneta di Castelfranco, il padre socialista, decide il suo destino nel 1944 quando - aveva 17 anni - fu obbligata dai nazifascisti ad assistere con i compagni di scuola all’impiccagione agli alberi in un viale del paese di giovani partigiani catturati sul Grappa. Diventa un’animosa staffetta partigiana. Poi si laurea in Lettere all’Università Cattolica, giovanissima dc, i suoi maestri sono De Gasperi, Dossetti, Moro, Zaccagnini. Deputata nel ’68, ministra del Lavoro nel ’76 (è sua la legge sull’eguaglianza di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), ministra della Sanità nel ’78, la sua grande avventura politica è la presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2, associazione segreta di cui hanno fatto parte ministri, capi dei Servizi segreti, generali dei Carabinieri e della Finanza, banchieri, magistrati, direttori di giornali e della Rai, parlamentari, esclusi i comunisti, i radicali, l’allora Pdup: i giudici istruttori di Milano sono arrivati a Gelli indagando sulla mafia in Sicilia e sull’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli. Dall’81 all ’84 Tina Anselmi regge la presidenza con rigore, la sua relazione finale, ineccepibile, rivela la presenza di uno Stato ombra che ha operato contro la legge e la Costituzione e rappresenta ancora «un pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico».
Viene almeno ringraziata la donna intemerata che sa reggere quella Commissione parlamentare? È messa invece da parte anche dal suo partito che le toglie il collegio dove è stata eletta da decenni. Viene insultata da più parti, vilipesa, offesa con un astio che sembra nascere dalle viscere più oscure. Si minimizza. La P2? Un normale comitato d’affari, «un club di gentiluomini» (Berlusconi), un falso complotto, una caccia alle streghe. (Anche se dall’inchiesta emergono connessioni con le stragi che hanno dilaniato il Paese e con le irrisolte questioni che hanno messo in pericolo la Repubblica democratica, da piazza Fontana all’Italicus al Banco Ambrosiano). Ultima a infierire, nel 2004, è una biografia indecente e gonfia d’odio a lei dedicata nel dizionario Italiane , tre volumetti editi dalla Presidenza del Consiglio e dall’allora ministra delle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo. Ne hanno viste tante queste donne del Novecento. Mai assenti, mai indifferenti, sempre partecipi. Spesso hanno rischiato la vita. Le autrici le raccontano con amabilità, con rigore, senza retorica. Forse con un po’ di invidia.
P2, se la storia si ripete
Licio Gelli. Il referente più importante della destra americana dopo la Liberazione. Quel giorno del 1988 a Villa Wanda, quando il Venerabile negava i rapporti con la banda neofascista di Tuti
di Sandra Bonsanti (il manifesto, 17.12.2015)
Era il 27 dicembre del 1947 e a Palazzo Giustiniani Enrico De Nicola, firma la Costituzione italiana. Accanto a lui, in piedi, Alcide De Gasperi e, fra i due, un giovane di 25 anni con una cartella in mano che contiene una copia della nostra Carta. E’, senza forse, il momento più sacro della nostra nascita come Repubblica democratica. Ma il giovane che assiste si chiama Francesco Cosentino, si iscriverà presto alla loggia P2 e con Licio Gelli, una decina di anni dopo la firma solenne di De Nicola, contribuirà alla stesura del “Piano di Rinascita”, documento programmatico della loggia segreta.
Ho sottoposto quella foto che compare su tutti i libri di storia a chi allora conobbe Cosentino: non c’è alcun dubbio, è proprio lui. Ed è questo un particolare tanto inquietante quanto sconosciuto e per niente studiato. Oggi che cerchiamo di fare bilanci sulla P2 io non ho ancora risposte. Se non quella che sin dall’inizio della nostra Repubblica c’era qualcosa che già si agitava nel sottobosco della politica. Tra i sostenitori della Costituzione, c’era già chi era pronto a tradirla con un progetto di «rivitalizzazione del sistema» e ritocchi costituzionali «successivi al restauro delle istituzioni fondamentali».
Questa foto che un giorno mi rendeva tanto fiera, mi pare oggi violentata dal dubbio. Non credo che la commissione P2 abbia sottolineato questo aspetto, ma forse non conosco tutti gli atti prodotti. In sostanza si potrebbe dire che la Repubblica italiana nacque già insidiata dall’interno, da subito. E alla luce di tutto il resto che sappiamo ormai della loggia di Gelli, dei progetti del Venerabile e dei suoi fratelli, verrebbe da concludere che non poteva che andare così, negli anni. E cioè il crearsi e il perpetrarsi di quella malattia che Norberto Bobbio aveva individuato dai primi giorni della scoperta degli elenchi: «Ciò che in un regime democratico è assolutamente inammissibile è l’esistenza di un potere invisibile, che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente, sotto altri connivente, che si avvale del segreto non proprio per abbatterlo ma neppure per servirlo. Se ne vale principalmente per aggirare o violare impunemente le leggi».
Come può difendersi la Repubblica? Si domandava Bobbio. E la sua era come sempre una risposta geniale: «L’unico modo di difendere le istituzioni democratiche è quello di fare quadrato attorno a coloro che non hanno mai avuto la tentazione di sprofondare nel sottosuolo per non farsi riconoscere. Sono molti, per fortuna, ma devono avere il coraggio ed agire di conseguenza».
Mi occupavo di lui da quindici anni almeno, ma non lo avevo mai visto né sentito. Dall’aprile del 1981, quando scoppiò la vicenda P2, era stato sempre in fuga o in prigione. Dunque, quel 21 aprile del 1988 eravamo i primi ad incontrarlo a Villa Wanda: dico noi perché erano due fotografi del Venerdì di Repubblica ad avere un appuntamento per un servizio. Io ero una sorpresa. Lasciai la redazione romana con Giampaolo Pansa che mi raccomandava: «Chiamalo Commendatore..!».
Disubbidii subito rivolgendomi a lui con un sonoro e quasi insultante «signor Gelli». «Ho bagnato di lacrime i suoi articoli», mi disse appena mi presentai. Mi accusava di non aver mai dato la sua versione dei fatti e io gli rispondevo forse un po’ aggressiva: «Ma lei perché è scappato? Di cosa aveva paura?».
Più trascorre il tempo e più mi rendo conto di quanta parte di storia italiana sia passata per Villa Wanda. E ora che lui è morto e Arezzo è diventata improvvisamente la città al centro della polemica politica italiana e si cerca di fare dei bilanci, non resta che ammettere una cosa molto semplice: Licio Gelli è stato il referente più importante degli accordi firmati all’indomani della Liberazione tra gli americani e gli alleati italiani.
L’Italia doveva assicurare una obbediente e efficace difesa dal blocco sovietico e soprattutto che il Pci fosse tenuto lontano dal governo del Paese. Gelli è stato l’alleato più fedele della destra americana e dei suoi servizi segreti. Questo ha comportato l’essere a conoscenza delle vicende più inquietanti e drammatiche della strategia della tensione e anche conoscere e proteggere alcuni responsabili di quei fatti. Inoltre Gelli ha avuto una conoscenza più che diretta di quali personaggi politici italiani sapessero e tacessero. Con ognuno di loro ha avuto per tanti decenni una sorta di patto del silenzio.
Comunque in quel colloquio mi resi conto che non avrebbe mai smentito la conoscenza dei capi politici della Dc, ma gli unici personaggi da cui era interessato a prendere le distanze erano i neofascisti toscani delle cellule di Mario Tuti e di Arezzo, che lui aveva invece incoraggiato e finanziato. Badava a ripetere: «Ma le pare che io che ho convocato tre generali dei carabinieri qui a casa mia, avrei perso del tempo con quei ragazzi?».
Ci si chiede in queste ore se sia veramente finita: se la storia della P2 si chiuda qua oppure no, se ci sia dell’altro, e altri personaggi ancora sconosciuti. Finita mi pare che non sia. Tanto più che ex piduisti, alcuni dei quali molto vicini al Venerabile, sono ancora vivi e vegeti e attivissimi. C’è ad esempio Luigi Bisignani che, giovane giornalista dell’Ansa andava ogni mattina all’hotel Excelsior a fare la rassegna stampa al Venerabile. Ci sono gli epigoni di quella “banda della Magliana”, incrocio fra servizi segreti e criminalità comune che vennero agli onori della cronaca con la fuga a Londra e la morte sotto il Ponte dei Frati Neri del banchiere piduista Roberto Calvi e che oggi spiccano nei racconti di Roma Capitale. E c’è la strana storia del generale Mario Mori che in uno dei processi siciliani per la trattativa tra Stato e Mafia è stato indicato come uno che reclutava adepti per la loggia P2.
Infine, difficile negare che restano in piedi alcuni progetti di quello che fu il “Piano di Rinascita” e che Gelli spiegò nei dettagli nella sua intervista al Maurizio Costanzo sul Corriere della Sera del 1980. La critica alla Costituzione nata dalla Liberazione è ancora quella che si fa oggi per giustificare le riforme del governo. Parola per parola. La storia si ripete, almeno quella della P2.
“Ma i vertici della P2 sono rimasti nascosti”
Parla l’ex giudice Giuliano Turone: troppe vicende ancora da chiarire
di Paolo Colonnello (La Stampa, 17/12/2015)
Milano
«Grande Burattinaio» o semplice «burattino»? Il mistero di Licio Gelli, morto l’altra sera ad Arezzo, rischia di rimanere sepolto per sempre nella sua stessa tomba. «Gelli in un certo senso non era né “burattino” né “burattinaio”. Meglio: più che altro fu un “burattinone”, custode e notaio di un meccanismo che garantiva a un certo potere la possibilità che le grandi decisioni venissero prese passando per percorsi deviati, paralleli, occulti...».
Così racconta Giuliano Turone, oggi scrittore e attore di teatro, ma all’epoca, insieme all’ex pm Gherado Colombo, uno dei due giudici istruttori che scoprì e rivelò le trame della P2 cavandoli dal nascondiglio di Castiglion Fibocchi. Per capire chi era Gelli, il venditore di materassi diventato «maestro venerabile» di una loggia massonica «segreta», la Propaganda 2, alla quale risultarono iscritti potenti di ogni tipo all’inizio degli Anni 80, bisogna fare un lungo salto nel tempo, fino al patto di Yalta che divise il mondo in due blocchi, assegnando all’Italia un posto di confine. «Altrimenti non si può capire nulla della sua storia e del suo ruolo», spiega Turone. Un «burattinone» al servizio di chi? «Gelli rispondeva a una logica che andava al di là della sua persona.
La relazione di Tina Anselmi, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, a un certo punto parlò della P2 come di una doppia piramide: una era la base solida, quella che trovammo noi con gli elenchi degli iscritti P2 a Castiglion Fibocchi; poi c’era la piramide superiore, quella più occulta, la cui lista probabilmente è rimasta nascosta in qualche giardino di Montevideo».
Chi faceva parte di questo “meccanismo superiore” che muoveva i fili di Gelli?
«Noi arrivammo a Gelli investigando sull’omicidio Ambrosoli e sul finto sequestro Sindona. La documentazione relativa al nascondiglio segreto di Gelli ci arrivò all’ultimo momento grazie agli americani “buoni”, che a loro volta avevano incriminato Sindona negli Usa. Vi fu un’enorme collaborazione a quell’epoca, primi Anni 80, tra il nostro ufficio istruzione e la Procura di Brooklyn... Sembra un film, ma non lo è».
Se c’erano gli americani «buoni», c’è da supporre vi fossero quelli «cattivi»...
«C’erano quelli ossessionati dal fattore “K” e dall’esigenza di tenere in vita quest’incubo del comunismo e della guerra tra i blocchi per continuare a muoversi nell’ombra. Gelli rispondeva a queste logiche».
Dunque «il Venerabile» si porta nella tomba ancora dei segreti?
«Le cose che non sono state chiarite sono ancora una caterva. Pensiamo ad esempio alla strage di Bologna, vicenda per la quale Gelli e uomini dei servizi piduisti furono condannati per depistaggio. Ci sono stati tre giovanotti condannati, ma probabilmente ci sono responsabilità di altri rimaste nel buio».
Gelli ha mandato messaggi fino all’ultimo: come quando comparve in tv rivendicando i diritti d’autore sui progetti politici dell’ex premier Berlusconi, che non a caso fu tra gli iscritti della P2.
«Sì, Gelli rivendicava i diritti d’autore sul cosiddetto Piano di Rinascita Democratica che riteneva applicabile da Berlusconi: bavagli per la stampa, autonomia limitata della magistratura... Ma siamo sempre lì: non è che Gelli fosse il deus ex machina di tutto, diciamo che gestiva certe esigenze politiche, alcune delle quali passarono anche da quel famigerato “piano”».
Il suo ex collega Gherado Colombo ha sostenuto che se l’inchiesta sulla P2 non fosse stata portata a Roma - e lì lasciata ad ammuffire per anni -, Mani Pulite sarebbe emersa con dieci anni d’anticipo. Concorda?
«Certamente se la documentazione che portammo alla luce fosse stata investigata adeguatamente, certe verità, certe storture del sistema, sarebbero emerse ben prima».
Giuliano Turone: "Ma di quella loggia lui era il notaio, non la vera mente"
Il giudice che scoprì l’archivio: "Nelle carte che trovammo c’erano i misteri della storia d’Italia. Per questo ne facemmo tre copie subito"
di EMILIO RANDACIO (la Repubblica, 17 dicembre 2015)
MILANO. Ma chi e stato Licio Gelli? Cosa ha rappresentato il gran Maestro della Loggia Massonica P2? Per rispondere, forse, non ci sono parole migliori se non quelle di Giuliano Turone, il giudice di Milano che insieme a Gherardo Colombo, nel marzo del 1981 ordinò alla Guardia di Finanza di perquisire Castiglion Fibocchi, dove venne trovata la lista della P2. Gelli? "Il grande notaio di un sistema di potere occulto".
Cosa ricorda di quel giorno, dottor Turone?
"Quando la Finanza ci chiamò per dirci cosa aveva trovato, la nostra prima reazione fu di estrema attenzione, perché non pensavamo di trovare tutto quel materiale. Stavamo indagando sull’omicidio di Ambrosoli e sul rapimento "fasullo" di Michele Sindona. I contatti tra il banchiere e Arezzo erano stretto, e da qui la perquisizione".
Cosa venne sequestrato quel giorno?
"Una quantità di carte impressionante. C’erano le liste della P2, certo, ma non solo. C’erano buste sigillate con la sigla di Gelli che contenevano documenti con dentro i misteri della storia d’Italia, molti dei segreti di cui Gelli era il grande custode".
Fino a quel giorno cosa si sapeva della loggia P2?
"Si sapeva che esisteva una loggia di cui faceva parte sia Gelli che Sindona, ma non di questa importanza. Quando abbiamo scoperto che nell’elenco comparivano ministri e capi dei Servizi, abbiamo deciso di comunicarlo a Palazzo Chigi".
Quando avete scoperto l’importanza di quel ritrovamento, cosa avete fatto?
"Il giorno stesso abbiamo deciso di trasferire immediatamente a Milano le carte per fotocopiarle una a una in tre copie, tutte autenticate a mano da un cancelliere. Ci sono voluti giorni per completare il lavoro. Ricordo che per evitare depistaggi o sottrazioni, chiudemmo tutte le copie in tre diverse casseforti dell’ufficio istruzione. In agosto, l’inchiesta passò per competenza a Roma, ma nessuno, poi, riuscì mai a smentire nulla sulla genuinità di quei documenti".
Ma cosa è stata la P2, da quello che avete scoperto attraverso la vostra inchiesta?
"Uno strumento principe per creare meccanismi di potere occulti che prendeva decisioni di rilievo per le sorti del Paese. Questo non lo diceva solo la nostra inchiesta milanese, ma fa anche parte delle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi".
E Licio Gelli e stato il direttore di questo strumento?
"Gelli era il custode, non il grande capo. Lui era stato designato come il notaio di questo meccanismo".
Chi aveva interesse che il potere venisse gestito in questo modo occulto?
"Bisogna ricordare cosa è stato questo paese nel dopoguerra. Dallo sbarco degli alleati in Italia, c’é stata una sorta di investitura da parte degli americani in Sicilia, di uomini di Cosa nostra. Sono stati insediati anche sindaci che appartenevano a Cosa nostra e alla ’ndrangheta. Questo perché c’era il timore che l’Italia diventasse un paese sotto il controllo di Mosca. Gli Usa, in questo senso hanno obiettivamente rafforzato Cosa nostra, che era intimamente collegata sia a Sindona che a Gelli. Dalle carte di processi dei primi anni ’90, sappiamo che Licio Gelli dialogava con i capi palermitani della mafia".
“Io, partigiana tra i piduisti”
intervista a Tina Anselmi
a cura di Enzo Biagi
in “il Fatto Quotidiano” del 28 novembre 2013 (intervista a “Linea diretta” in onda su Rai 1 il 20 marzo 1985)
Signora Anselmi, come è maturata la sua decisione di combattere la dittatura di Mussolini?
L’aver scoperto nel mio Paese e in quelli vicini cos’era la dittatura e che cosa il fascismo e il nazismo volevano portare nella nostra società. Un giorno a scuola mi obbligarono ad andare a vedere dei ragazzi che erano stati presi come ostaggi ed erano stati impiccati. Avevo 16 anni e ho incontrato la morte barbara e disumana, lì ho capito che non potevo rimanere indifferente perché nessuno di noi era più padrone della propria vita, dovevamo fare qualcosa per cambiare in meglio le cose, così, con alcuni compagni, decidemmo che fatti simili non dovevano più accadere.
I ragazzi di oggi sanno cosa vuol dire regime?
Credo poco. Molte volte mi sento dire dai ragazzi, dopo che abbiamo fatto insieme una conversazione o un dibattito dove si è parlato della mia esperienza di staffetta: “Perché queste cose non ce le avete dette prima, perché non ci avete fatto scoprire che se non prendevate in mano il Paese voi giovani, allora diciottenni, ventenni, non vi sarebbe stato un futuro per noi?”. Allora gli italiani commisero l’errore di non ribellarsi subito al dittatore, oggi di pensare che il ventennio non possa mai più tornare.
La prima donna ministro
Signora Anselmi lei è stata la prima donna ministro, ha cominciato al lavoro e poi è passata alla sanità. Quando ha iniziato a fare politica pensava di avere tanto successo?
No, assolutamente. Ho cominciato quando c’era da rischiare facendo la partigiana, poi via via si sono aperte altre occasioni e altre possibilità.
Sono i partiti che non favoriscono l’entrata delle donne in politica o sono le donne che non si danno abbastanza da fare?
C’è una certa difficoltà a convincere le donne a entrare attivamente nella politica, questa difficoltà è dovuta anche alla durezza della selezione, alla durezza dell’impegno politico, alle difficoltà che le donne trovano nei meccanismi interni dei partiti, non tanto per potersi candidare, ma soprattutto per poter riuscire a essere elette. Questo è il vero problema. C’è anche una certa resistenza nelle stesse donne a dare la preferenza a un’altra donna, anche se poi, parlando in termini generali, la donna riconosce che ce ne vorrebbero di più in politica perché la politica possa essere fatta in modo migliore. Le donne, dottor Biagi, visto che abbiamo parlato di Resistenza, di guerra partigiana, sono state fondamentali, non lo dice solo la storia, lo dicono i militari che sono vissuti al loro fianco.
È vero che i peggiori nemici si hanno nel proprio partito?
Credo di sì.
La commissione sulla Loggia P2
Lei ha presieduto la commissione sulla Loggia P2, che è al centro di polemiche durissime. Montanelli ha scritto: “In mano alla signora Anselmi resta solo il cicaleccio di portineria”. Vuol dirmi un po’ di questi pettegolezzi?
Non credo che quello che abbiamo fatto si possa ridurre a pettegolezzo: è l’esperienza più dura della mia vita politica.
Pensa che gli aderenti alla P2 volessero abbattere lo Stato, modificarlo secondo i loro modelli o fare degli affari e proteggere le loro carriere?
Probabilmente alcuni hanno aderito alla P2 per essere garantiti nella loro carriera, qualcuno per fare affari, ma la Loggia di Gelli non è una combriccola di malaffare, perché è presente nei servizi segreti e negli organi di informazione.
Può riassumere quelli che sono i risultati dell’inchiesta sulla P2.
Sì, certo, anche perché il Parlamento quando ne discuteremo, giudicherà anche sulla base della documentazione che abbiamo allegato alle dichiarazioni. Mi auguro che condivida il giudizio che la Commissione, a larghissima maggioranza, ha dato. La P2 è un pericolo per le istituzioni democratiche avendo occupato dall’interno centri di potere essenziali della vita del nostro Paese, al fine di deviare, di condizionare la vita politica del nostro Paese. Quando un Paese non vive nella trasparenza delle istituzioni è un Paese che rischia la condanna di non essere democratico e di avere il cittadino senza potere. Diceva John Kennedy: “Fin quando un solo cittadino si sentirà inutile quel Paese non avrà democrazia”. Bisogna che la democrazia mobiliti tutti, donne e uomini. La mia valutazione, che è stata quella della Commissione, è che c’è del torbido da togliere, ci sono delle ombre che vanno eliminate. La P2 è è evidentemente che gli obiettivi erano politici. Questo fa della P2 non solo uno scandalo, ma un fenomeno che deve essere guardato con più attenzione e responsabilità.
Avete riscontrato difficoltà?
La Commissione ha incontrato grandi difficoltà. Mi auguro che attorno al nostro lavoro tacciano le polemiche e vi sia una mobilitazione per andare oltre alla nostra indagine, che proprio a causa delle polemiche e delle resistenze politiche, non è riuscita, secondo il mio modesto parere, a chiarire tutto. Ci sono stati dei silenzi che non dovevamo subire.
Secondo lei chi erano le figure dominanti in quella associazione?
Le figure dominanti sono quelle che hanno composto il gruppo di comando: Gelli, Ortolani e altri personaggi, che rappresentano alcuni di quei silenzi di cui ho detto prima, la loro versione sulla vicenda non l’abbiamo potuta raccogliere, ma come la relazione ha detto, dietro a questi uomini c’erano certamente altre persone che si sono servite di loro.
Chi è Licio Gelli?
Un avventuriero che è riuscito ad accumulare una grande ricchezza, potere, amicizie molto solidali. Un abile direttore generale, soprattutto in tema di pubbliche relazioni, non gli darei altre responsabilità.
Perché si è sentita la necessità di rendere pubblici gli elenchi di tutti i massoni delle logge coperte?
Questa è stata una decisione presa all’unanimità dalla Commissione. Lo si è fatto, prevedendo la pubblicazione alla fine dei lavori, per due motivi: il primo perché non venisse mescolato questo secondo elenco con quello con i nominativi degli appartenenti alla P2; il secondo perché l’articolo 18 della Costituzione vieta la formazione di società segrete. La Commissione ha ritenuto doveroso segnalare la loro esistenza al Parlamento per rispetto della Costituzione. Lei sa che due mesi fa c’è stata una sentenza delle sezioni riunite della Corte di Cassazione che ha dichiarato illegittima l’appartenenza a logge segrete richiamandosi proprio all’articolo 18 e non solo alla legge di scioglimento della P2?
Quello che io trovo strano, nella vicenda P2, è che siano stati coinvolti dei politici del suo partito, questo vale anche per i comunisti e i socialisti, per i loro principi, per le affermazioni di fede in particolare per i democristiani, perché stare nella massoneria e contemporaneamente dall’altra parte lo ritengo una grande contraddizione.
Infatti, c’è un articolo dello statuto della Dc che dichiara inconciliabile l’appartenenza al partito con l’appartenenza alla massoneria.
Comunque si è usato un trattamento diverso per i politici coinvolti rispetto agli altri.
Bisognerebbe chiederlo ai responsabili dei singoli partiti. Per quanto riguarda la nostra Commissione, noi abbiamo usato un trattamento per certi aspetti più severo nei confronti dei politici, perché sono stati sentiti in seduta pubblica, per il loro ruolo prima di tutto devono rispondere al Paese.
Cosa pensa della fuga di Licio Gelli?
È la dimostrazione del potere che ha la P2, nonostante che qualcuno abbia tentato di minimizzarlo. Gelli e la P2 sono ancora forti, godono di troppe solidarietà, troppe complicità e la fuga dimostra che c’è chi ha interesse che Gelli non parli. La fuga gli ha permesso di sottrarsi alla Commissione oltre all’autorità giudiziaria.
Aldo Moro, Enrico Berlinguer e il partito
Il politico per lei esemplare è Aldo Moro e di Berlinguer, ha detto, conserva il ricordo di un largo sorriso. Vedeva qualcosa in comune tra questi due personaggi?
Qualcosa in comune certamente: la severità e la serietà con cui svolgevano i loro compiti, la passione per il loro Paese. Persone che hanno cercato sempre di legare il loro partito alla storia delle masse popolari del nostro paese cercando di dare a esse un potere effettivo nelle istituzioni democratiche.
Le critiche la feriscono? Lei si è trovata al centro di tante discussioni in questo ultimo periodo.
Mi feriscono quando le critiche sono chiaramente faziose e non motivate, quando invece sono motivate, naturalmente ci rifletto perché sono convinta che nella critica può esserci un elemento di verità.
Oggi bisogna ancora resistere?
Bisogna sempre resistere, non bisogna mai dimenticare che la libertà è una conquista di ogni giorno. Senza la libertà non può esserci democrazia, e quando accade significa che i cittadini non si assumono la responsabilità. La grandezza della Resistenza è stata nel fatto che essa ha reso ognuno responsabile e questo ha portato alla libertà.
Due donne, due Italie: da Tina alla Pitonessa
di Maurizio Chierici
in “il Fatto Quotidiano” del 6 agosto 2013
Nella notte fatale a Berlusconi la Tv manda in onda due trasmissioni, una segue l’altra: fanno capire alle generazioni disoccupate com’è cambiata l’Italia. Programmate chissà quando, si intrecciano nell’ora fatale.
Rai 3, Linea notte: Maurizio Mannoni vuol sapere cosa può succedere dopo il diluvio. Segue il documentario di Anna Vinci dedicato a Tina Anselmi, memoria perduta nel tempo, ma i tempi si ripropongono e i protagonisti non cambiano. Quasi un faccia a faccia sullo stesso racconto criminale. “Voglio salvare la democrazia mutilata da una sentenza infame”: Daniela Garnero, in politica Santanchè, è l’idealista dal cuore straziato. Si batterà sino all’ultima barricata per trascinare l’indignazione del popolo italiano. E democrazia diventa una parola di gomma. La si tira dove conviene. Dieci minuti dopo ecco l’Anselmi protagonista di una democrazia normale. Sobria, mai vanitosa, lontana dalle comparsate: “Io, io, io”. “Per renderla concreta ogni giorno dobbiamo prendere la nostra parte di responsabilità con spirito di servizio e modestia di comportamento. Siamo solo al servizio della gente”. Buonsenso da maestra di campagna. Aveva 17 anni quando dalle forche del suo paese pendono i ragazzi impiccati dai nazisti. Non si nasconde: subito staffetta partigiana aspettando il ritorno di un amore che dalla guerra di Russia non tornerà. Laurea alla Cattolica di Milano, militanza sindacale e politica fino a diventare il primo ministro donna della storia d’Italia.
Lavoro e poi Sanità: dobbiamo a lei il servizio nazionale. A 52 anni guida la commissione parlamentare che condanna le manovre minacciose degli iscritti alla P2 di Licio Gelli (Berlusconi e Cicchitto fra i numerari). Impegno terribile nella rete delle complicità massoniche, militari e poteri nascosti, trame che disegnano una presidenzialismo autoritario.
La conclusione fotografa l’Italia della P2 che si prepara a diventare l’Italia di oggi. E a 52 anni (stessa età dell’Anselmi presidente della commissione) Daniela Garnero (Santanchè) punta il dito contro gli orribili colpevoli dell’orribile ingiustizia: comunisti che non si arrendono mai. Qualche giustificazione ce l’ha. Biografia diversa dall’impegno di Tina mai proprietaria di locali notturni.
Post fascista per vocazione (An di La Russa), la Santanchè litiga con Fini e naufraga nella Destra di
Storace pura come un giglio: “Per far carriera a Berlusconi non la do”. Trova inutile il voto delle
donne al Cavaliere fino a quando, 2008, abbandona Storace per pellegrinare ad Arcore. A volte, le
coincidenze: l’anno prima la sua società Visibilia diventa l’agenzia alla quale Paolo Berlusconi
affida la raccolta pubblicitaria de Il Giornale. Ma le affinità elettive preesistevano. Quei voltafaccia
disinvolti. 1989, c’è ancora il Muro di Berlino mentre il patron di Milano 2 schifato dalla politica
“corrotta alla quale mai si sarebbe concesso” fa sapere al Corriere che “i comunisti sono perbene.
Con loro già lavoro, lavorerò sempre di più perché di loro mi fido”. L’Anselmi del bel racconto di
Anna Vinci (le ha dedicato tanti libri anche se nell’ultimo cambia tragedia: La mafia non ha lasciato
tempo, Rizzoli); l’Anselmi, non si sarebbe intenerita ai piagnistei di uno così. Ma i Figli della Lupa
onorevoli e giornalisti - e le Giovani Italiane dell’uomo che fa il forte piagnucolando, non si
rassegnano alla sciagura del perdere le poltrone ed uscire dai libri paga. La differenza tra le due
donne, e le due italie, è solo questa.
Tina Anselmi compie 84 anni
Fiori tricolori e auguri dal Pd
Un mazzo di fiori tricolori ed un messaggio di auguri è stato inviato dalle senatrici del gruppo del Pd a Tina Anselmi che compie 84 anni. «Carissima Tina - si legge nel messaggio - ti pensiamo con grande affetto nel giorno del tuo compleanno augurandoti giorni buoni e sereni. Ti sentiamo vicina nel nostro impegno quotidiano per il nostro Paese e per la Repubblica che tu hai difeso con tutte le tue forze, per la dignità e il valore delle donne che tu hai rappresentato e rappresenti con grande autorevolezza. Un abbraccio da tutte noi». In calce al messaggio di auguri le firme delle 33 senatrici del Partito Democratico.
P2 ieri come oggi il piano (riuscito) del venerabile Licio Gelli
Una rete di “amici degli amici” piazzati nei luoghi che contano, da governo e Parlamento a giornali e televisione
di Maurizio Chierici (il Fatto, 12.06.2011)
TRENT’ANNI FA LA SCOPERTA DELLA P2 cambia la storia d’Italia, almeno lo si sperava. Era l’Italia dei democristiani, dei comunisti, dei socialisti e dei fascisti aggrappati alla nostalgia dei giorni neri. Trent’anni dopo viviamo nel Paese dei post fascisti, post comunisti, post democristiani, post socialisti, non ancora dei post piduisti perché gli uomini della P2 restano impegnati a realizzare il programma disegnato da Licio Gelli: regressione della democrazia agli statuti regi con oligarchie che svuotano la Carta costituzionale. La storia lontana accompagna coi suoi veleni i nostri giorni; storia che si nasconde ai ragazzi chiamati a disegnare il futuro. Dimenticata dai libri di scuola, dibattiti della politica e grandi pagine del passato richiamate nelle rievocazioni tv con l’impegno di oscurare la memoria che imbarazza. I protagonisti cresciuti all’ombra di Gelli minimizzano, irridono, ripiegandola in un evo da cancellare. Ecco perché ricordiamo come è cominciata e come continua e quali sono le radici della crisi che angoscia la speranza delle generazioni rese inconsapevoli da un sistema che si regge sul silenzio.
IL TERREMOTO DEL BANCO AMBROSIANO
Quel 21 maggio 1981, giovedì, un terremoto sveglia Milano. Sette protagonisti dell’alta finanza finiscono nelle prigioni di Lodi: da Roberto Calvi, Banco Ambrosiano, a Carlo Bonomi a Mario Valeri Manera. Coinvolta anche la Banca Cattolica del Veneto ma Massimo Spada, presidente decaduto, è un vecchio malato e il procuratore Gerardo D’Ambrosio concede gli arresti domiciliari. Hanno trafugato all’estero capitali importanti attorno alla trama del finto rapimento d iMichele Sindona e dell’assassinio del dottor Giorgio Ambrosoli, eroe borghese che scavava negli affari della mafia e della loggia P2. Reazione della Borsa “composta“, nessun trasalimento.
La speculazione sapeva delle segrete cose e aveva metabolizzato in tempo le manette. Ma é l’informazione a fare i conti. I piani di Gelli prevedono la sparizione della Rai in favore di un’egemonia privata; pianificano una catena fedeledigiornaliguidatidalCorrieredellaSera.Alla grande notizia il Corriere dedica il grande titolo e l’articolo di fondo. Un po’ sotto racconta dell’ordine di cattura che insegue Gelli. Nei suoi cassetti nascondeva documenti protetti dal segreto di Stato come il rapporto-Cossiga sullo scandalo Eni-Petromin. Quali mani glielo hanno passato? E perché?
L’avvenimento che fa tremare il governo di Arnaldo Forlani (democristiano) lo racconta Antonio Padellaro, ma la direzione del Corriere sembra distratta: titolino a una sola colonna: “Nella notte, dopo una giornata di dubbi e ripensamenti, il presidente del Consiglio decide di rendere di dominio pubblico gli elenchi sulla loggia P2 trasmessi al governo dai giudici milanesi. Si tratta di uomini politici, industriali, alti burocrati, alti militari, giornalisti: tutti hanno subito smentito”. Forlani resiste da settimane: se i nomi escono il suo governo cade, troppi amici coinvolti. Inventa una commissione di tre saggi ai quali affidare “il delicato compito di accertare eventuali responsabilità”. Ma l’inquietudine attraversa i partiti di governo e alla fine Forlani si arrende alle richieste della sinistra che ha mano libera perché nessun comunista risulta affratellato a Gelli.
Le pagine interne del Corriere annunciano il vertice dei leader di maggioranza per decidere l’opportunità delle dimissioni di ministri e militari che brillano nell’elenco fatale. Subito, Silvano Labriola, presidente dei deputati socialisti, prova a mettere i cerotti: promuove un’iniziativa per denunciare “l’uso arbitrario dei poteri da parte dei magistrati inquirenti”. I furori contro la magistratura, che poi ritroveremo con Silvio Berlusconi, cominciano così. La scelta del Corriere di nascondere fin dove possibile l’identità dei protagonisti è l’ultima difesa di un giornale con editore,direttore,unpo’difirme,nell’elencodei 963 affiliati.
Lo racconta il giornalista Raffaele Fiengo: presiedeva il comitato di redazione - la rappresentanza sindacale interna al giornale - sbalordito dalla rivelazione che sgualcisce la credibilità del primo quotidiano d’ Italia: “Non potevamo non pubblicare i nomi anche se nell’elenco c’erano il direttore Franco Di Bella, amministratori e proprietà, Maurizio Costanzo e Roberto Gervaso: insomma, tanti”. Il titolo insinua il dubbio della disperazione:“PresuntalistadellaLoggiaP2”.Ma per i lettori quasi impossibile leggerne i nomi. Caratteri formica, invisibili. Pagina grigia, righe gremite.
La presenza di Di Bella crea agitazione e fino all’ultimo momento non si sa se il giornale andrà in edicola. Palazzo Chigi diffonde l’elenco a un’ora impossibile per rimpicciolire l’effetto tv nelle notizie della notte, tentativo di limitare i danni che certe voci delCorriereprovanoarilanciare: “Se non ci fosse il nome del direttore sarebbe meglio...”. Accanto ad ogni protagonista dell’azienda, la smentita: Angelo Rizzoli, editore, “si duole di essere al centro di un gioco al massacro”. Di Bella ripete che “30 anni di giornalismo pulito alla luce del sole cancellano da soli qualsiasi militanza in oscure e segrete logge”. E poi l’indignazione dei personaggi legati alla casa editrice: Maurizio Costanzo, Paolo Mosca. Arriva da Roma il disprezzo di Fabrizio Cicchito, ala radicale della sinistra lombardiana del Psi: “Il gioco al massacro prosegue”. Spiegando e implorando comprensione, un po’ alla volta si arrendono.
Maurizio Costanzo confessa il piduismo in tv a Giampaolo Pansa. Gelli ancora non gli perdona di aver picconato il muro della fratellanza. Se il povero Corriere sospira, gli altri giornali raccontano senza riverenze: Repubblica, l’Espresso, il Panorama di Lambertio Sechi e La Stampa, che affida a Luca Giurato (oggi show man televisivo) lo sconvolgimento di Via Solferino. Indro Montanelli sfuma: “Una volta ho incontrato Gelli accompagnato da un amico. Cercavo finanziamenti per il Giornale. Impressione modesta, magliaro inaffidabile. Mediocre, un po’ ridicolo.Nonpuò avere immaginato un intrigodi questa dimensione, sempre che la dimensione venga confermata“. Forse è proprio Gelli ad accostarlo a Berlusconi. Le fantasie si perdono nel caos delle ipotesi. Montanelli sembra non sapere del Forlani che per due mesi prova a nascondere i nomi: “Li ha voluti pubblicare battendo i pugni sul tavolo e dobbiamo essergliene grati”. Dedica un’intera pagina all’intervistaalmaestronascostotraArgentinaed Uruguay (ma forse era solo a Ginevra). La firma è di Renzo Trionfera, massone non piduista.
FORSE DUEMILA AFFILIATI
Venerabile ricercato che attacca: “La lista è falsa”, e in un certo senso ha ragione. Perché la commissione di Tina Anselmi raccoglie testimonianze che raddoppiano il gruppo degli affiliati, forse duemila, forse di più: purtroppo il nuovo elenco non si trova. Chissà chi lo ha fatto sparire. Le parole di Gelli attraversano le abitudini politiche degli ultimi 30 anni: veri colpevoli i magistrati che inventano crimini inesistenti. Se altri si lasciano andare, Berlusconi non si arrende. Querela due giornali che parlano della militanza P2. Giura il falso in tribunale e la Corte d’appello di Venezia “ritiene che le sue dichiarazioni non rispondano a realtà”. Non si è arruolato(comegiura)pocoprimadelsequestro delle liste per dare una mano all’amico Gervaso in difficoltà al Corriere della Sera. Gervaso passeggiava nei corridoi di Via Solferino a braccetto dell’editore col passo sorridente di un vicerè.
Berlusconi chiede di far parte della P2 appena comincia il ’78. La ricevuta dell’iscrizione prova un primo versamento di 100 mila lire. Poco dopo comincia a scrivere sul grande giornale. Gli articoli arrivano alla direzione con titolo e sommario e l’ordine di una collocazione di rispetto. Appena Di Bella se ne va e il presidente Sandro Pertini impone ad Alberto Cavallari di diventare direttore per “restituire al Corriere la dignità che merita”, Cavallari proibisce la collaborazione di ogni piduista: pulizia non facile con, negli uffici accanto, editore e amministratore delegato, Bruno Tassan Din, cuore di tenebra della loggia, sempre al loro posto, mentre una strana ribellione accende una parte della redazione. Il redattore Vittorio Feltri, portavoce dei craxiani, arringa le assemblee invitando alla rivolta. Appena Cavallari è costretto a lasciare e le redini passano a Piero Ostellino, torna la firma di Berlusconi nelle pagine dell’economia. Comincia a nascere l’Italia che elezioni e referendum di questi giorni provano a mandare in pensione.
Mino Pecorelli, (tessera P2) annota nel diario le visite a Milano2 assieme a Gelli e Umberto Ortolani, finanziere della loggia. Ricorda l’ospitalità squisita del Cavaliere. Diventa “il pasticciere“ per i dolci che accolgono gli ospiti. Li accompagna nei parcheggi sotterranei dove langue Telemilano. “Se avessi le possibilità potrei fare concorrenza alla Rai...”. Lo interrompe Ortolani: “Per i capitali non è un problema: sono in Svizzera“. Pecorelli è il giornalista che ondeggia tra servizi e logge segrete. Viene assassinato in redazione mentre preparava un dossier dedicato a Giulio Andreotti. La sentenza della corte di Venezia condanna il Cavaliere per falsa testimonianza. Ma un’amnistia cancella la pena, fedina penale immacolata e nel ’94 può diventare presidente del Consiglio.
DOSSIER E RICATTI
Inchiesta «P4», arrestato Luigi Bisignani
Il faccendiere alla detenzione domiciliare.
La Procura
di Napoli «indagini di ampio respiro» *
MILANO - È stato arrestato il faccendiere Luigi Bisignani, nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. Già iscritto alla Loggia P2, condannato a tre anni e 4 mesi nel processo Enimont, e coinvolto nell’inchiesta Why Not del pm Luigi De Magistris, a Bisignani vengono contestati ricatti, corruzione e concussione. La richiesta di detenzione ai domiciliari, oltre che per Bisignani, è stata fatta anche nei confronti del senatore Pdl ed ex magistrato Alfonso Papa. In questo caso la richiesta di arresto è stata inoltrata al Parlamento. Indagato anche un carabiniere.
APPALTI GESTITI DALLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO - Sin dai tempi di Craxi ritenuto uno degli uomini più potenti d’Italia, Bisignani è stato arrestato in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare su richiesta della Procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta sulla P4. Tra i filoni d’indagine ci sono anche gli appalti gestiti dalla presidenza del Consiglio.
DOSSIER E RICATTI - L’indagine, condotta dai pm della Procura di Napoli Francesco Curcio e Henry John Woodcock, cerca di fare luce su un sistema informativo parallelo, quella che per i magistrati potrebbe essere una vera e propria associazione per delinquere finalizzata alla gestione di notizie riservate, appalti e nomine, in un misto, secondo l’accusa, di dossier e ricatti, anche attraverso interferenze su organi costituzionali. Oltre alla gestione di notizie riservate, l’inchiesta intende chiarire ogni aspetto in merito, appunto, ad appalti, nomine e finanziamenti. Nelle ultime settimane sono stati ascoltati come testimoni numerosi parlamentari e vertici istituzionali, compresi quelli dei servizi segreti tra cui il generale Adriano Santini presidente dell’Aise (Agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna)
LA PROCURA: «INDAGINI DI AMPIO RESPIRO» - La Procura di Napoli definisce l’inchiesta sulla cosidetta P4 come «di ampio respiro». In una nota a firma del procuratore aggiunto Franco Greco, coordinatore della sezione reati contro la Pubblica amministrazione si spiega: «Il nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Napoli ha eseguito un’ordinanza custodia cautelare emessa dal Gip per il reato di favoreggiamento personale nei confronti del dirigente e consulente aziendale Luigi Bisignani. Le indagini da cui è derivata la misura cautelare agli arresti domiciliari - spiega Greco -, inseribili in contesto investigativo di ampio respiro e che ha interessato numerose persone, hanno riguardato l’illecita acquisizione di notizie e di informazioni, anche coperte da segreto, alcune delle quali inerenti a procedimenti penali in corso nonché di altri dati sensibili o personali al fine di consentire a soggetti inquisiti di eludere le indagini giudiziarie ovvero per ottenere favori o altre utilità»
Fiorenza Sarzanini
* Corriere della Sera, 15 giugno 2011
Dalla P2 alla P4. il triste Paese dei poteri paralleli
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 22.06.2011)
In un punto cruciale, che ricordo ancora, della relazione di maggioranza della Commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2 presieduta da Tina Anselmi, pur con tutte le integrazioni che compongono l’enorme materiale in centoventi volumi (di cui quella chiamata oggi P4 non può costituire, ad avviso di storico, che l’ultima reincarnazione) si scrive che quella associazione fu «il punto culminante della strategia della tensione e della successiva emarginazione del Miceli e del Maletti, massimi responsabili dei servizi segreti in quel momento».
Un’affermazione di questo genere, fatta trent’anni fa al termine di una lunga inchiesta parlamentare seguita all’irruzione delle forze dell’ordine a Castiglion Fibocchi per iniziativa dei magistrati Turone e Colombo, rende giustizia o dovrebbe renderla a quegli italiani e sono tanti ormai crediamo che seguono oggi le cronache giudiziarie che hanno al centro il cosiddetto lobbista (ma, a differenza che negli Stati Uniti questa figura non esiste nell’ordinamento giuridico italiano) Luigi Bisignani. Quest’ultimo era quello che, non si sa perché, scriveva ad esempio la lettera dell’ex direttore generale della Rai Mauro Masi per licenziare il conduttore Michele Santoro e che incontrava ogni giorno ministri e alti dignitari dell’attuale governo e della maggioranza parlamentare guidata dall’onorevole Berlusconi.
Potremmo continuare per molte pagine su questo aspetto ma vale la pena sottolineare piuttosto che cosa significhi la grande familiarità con gran parte del potere politico ed economico e la sua capacità di spingere nomine e influire su quello che devono fare i vertici di enti, dipartimenti e imprese pubbliche e private nel nostro Paese.
Il che significa a mio avviso creare condizioni di facile sovvertimento delle procedure di legge, interferenze molto gravi nel funzionamento di poteri e di organi costituiti secondo le regole normali, costituire un potere parallelo e magari più efficace di quelli previsti dalla Costituzione repubblicana e dalle leggi dello Stato.
Insomma una volta, anche tra storici, si parlava, a torto o a ragione, di “doppio Stato” ma oggi il degrado della crisi italiana può spingere a considerare superate quelle espressioni e parlare piuttosto, in maniera più realistica, di commistione crescente e molto pericolosa di affari, politica ed economia. Di disordine politico e istituzionale dovremmo aggiungere che potrebbe spingere ancora di più nel baratro un Paese già afflitto da una grave crisi economica, sociale e morale. Di qui l’allarme che si è creato nell’opinione pubblica democratica che si trova di fronte a uno scandalo diverso dai tanti che emergono spesso, per disonestà dei singoli o di gruppi, e configura piuttosto un ennesimo attentato alla democrazia e alla vita politica e culturale
"Quella mano della P2 e i mandanti mai trovati"
Ciampi: "Dimenticata la relazione Anselmi"
di Giorgio Battistini (la Repubblica, 03.08.2009)
ROMA - «Ricordo perfettamente», dice Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica nel settennato precedente a quello di Giorgio Napolitano. «Ricordo quei giorni del ‘93. Ero da poco stato eletto presidente del Consiglio in un momento non facile. C’era un clima molto teso dopo le bombe di Firenze, Milano, Roma. Quando presi la parola sul palco per ricordare la bomba alla stazione di Bologna di oltre un decennio prima cominciò la contestazione».
Fischi, grida, che cos’altro?
«Ostilità varie, diffuse. Che però si placarono quasi subito. E partì un applauso non a me ma all’istituzione che rappresentavo: la presidenza del Consiglio».
Ieri però a Bologna il clima era ben diverso. Spazientito dal rito delle celebrazioni, dalla passerella delle autorità che sfilano davanti alla tv. Un’insofferenza che ricordava i cupi funerali all’indomani della strage, poche bare sul sagrato di san Petronio, Pertini che appoggia il braccio su quello del sindaco Zangheri, i fischi in piazza per Craxi e Cossiga. Stesso clima?
«No, qualcosa è cambiato. La gente che protesta chiede la verità su una vicenda che tanto dolore ha provocato. Io capisco quel desiderio di conoscere la verità»
Per quella strage tra gli altri è stato condannato in tribunale a Bologna un alto funzionario dello Stato imputato di depistaggio delle indagini. Lo Stato depistava lo Stato? Ma allora hanno ragione quelli che hanno parlato, per la lunga tragedia italiana che ha insanguinato parte del dopoguerra, di "guerra civile a bassa intensità"?
«Non sono in grado di entrare nei particolari delle indagini. Quella cerimonia è capitata in un periodo davvero speciale. Ricordo l’entusiasmo del ‘93 per l’accordo sul costo del lavoro. Poi la lunga serie di attentati in nottata. Ero a Santa Severa, rientrai con urgenza a Roma, di notte. Accadevano strane cose. Io parlavo al telefono con un mio collaboratore a Roma e cadeva la linea. Poi trovarono a Palazzo Chigi il mio apparecchio manomesso, mancava una piastra. Al largo dalla mia casa di Santa Severa, a pochi chilometri da Roma incrociavano strane imbarcazioni. Mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge che istituiva per loro il carcere duro. Chissà, forse lo volevano morbido, il carcere».
C’era uno strano clima in quei giorni, strane voci, timori diffusi...
«E forse anche qualcosa di più. Alle otto di mattina del giorno dopo il ministro dell’Interno Nicola Mancino e io riferivamo in Parlamento. Poco dopo ci fu l’anniversario della strage di Bologna. Una celebrazione sotto la canicola. Quando cominciai a parlare la piazza iniziò a rumoreggiare. Poi ci fu l’applauso per gli scomparsi. Più tardi incontrai i familiari delle vittime».
Avvertiva anche lei l’ombra di qualcosa, di qualcuno nei palazzi del potere che remava contro l’Italia?
«Certo anch’io mi chiedo come mai la grande, lunga complessa inchiesta della commissione parlamentare sulla loggia P2 guidata da Tina Anselmi a Palazzo San Macuto abbia avuto così poco seguito. Ricordo quei giorni, ricordo che l’onorevole Anselmi era davvero sconvolta. Mi chiamò alla Banca d’Italia (ero ancora governatore) e mi disse "lei non sa quel che sta venendo a galla". Lei, la Anselmi, il suo dovere lo compì. Non credo però che molti uomini della comunicazione siano andati a fondo a leggere quelle carte. Il procuratore Vigna sapeva quel che faceva».
In quasi trent’anni ancora non si sa nulla dei mandanti. Né si sospetta nulla?
«La violenza purtroppo era ed è diffusa in Europa. Penso alla Spagna, alla Grecia. Anche adesso la violenza continua a manifestarsi, talvolta si prendono gli esecutori, quasi mai i mandanti nell’ombra. Penso all’indagine dei giudici Vigna e Chelazzi (purtroppo scomparso) nel ‘93-’94: avevano trovato gli esecutori, ma non i mandanti. Ricordo però che di mezzo c’era spesso la mafia che si batteva per modificare la legge sul carcere duro».
Che cosa le è rimasto di quei giorni, a distanza di tanto tempo?
«E’ una materia vissuta molto dolorosamente e con grande partecipazione, mentre resta forte il desiderio di conoscere tutta la verità. In quelle settimane davvero si temeva anche un colpo di Stato. I treni non funzionavano, i telefoni erano spesso scollegati. Lo ammetto: io temetti il peggio dopo tre o quattro ore a Palazzo Chigi col telefono isolato. Di quelle giornate, quel che ricordo ancora molto bene furono i sospetti diffusi di collegamento con la P2».
Perché è viva la Resistenza
di Enzo Collotti (il manifesto, 25.04.2007)
Che cosa resta del 25 aprile? Domandarselo è più che legittimo, nel frastuono e nella confusione della vita politica italiana in cui la fretta dei politici di cambiare pelle concede poco spazio alla riflessione sulle modalità dei cambiamenti e sul loro rapporto con le costanti della nostra storia che sono le linee guida dalle quali non si può derogare senza smentire le origini stesse della Repubblica.
E’ chiaro che a oltre sessant’anni da quel 25 aprile del 1945 non è riproducibile l’intensità con la quale la mia generazione ha vissuto il giorno della liberazione, dopo la lunga attesa dei giorni dell’occupazione nazista e dell’oppressione della Repubblica sociale nutrita non solo dalla Resistenza ma anche dalle aspettative per il futuro. Il ricambio delle generazioni comporta anche una diversa sensibilità nello sguardo con il quale si percepiscono i fatti storici costitutivi del nostro patto civile di collettività e non possiamo impedire che le nuove generazioni rivivessero con la distanza di oltre mezzo secolo, e quindi con un distacco non solo temporale, i momenti fondativi della Repubblica democratica.
E’ altrettanto inevitabile che oggi, salvo rarissime eccezioni, il personale politico proveniente per esperienza diretta dalla Resistenza sia di fatto scomparso dalla scena pubblica, mentre anche la maggior parte degli indicatori ci significano (a cominciare dalla scuola), che la stessa memoria familiare appartiene ormai a un passato irrevocabilmente superato. Mai come in un frangente di questa natura si deve avere coscienza che la sopravvivenza di quelli che chiamiamo i valori della Resistenza è affidata alla persistenza e alla continuità della memoria, che non è un prodotto spontaneo della somma delle memorie individuali ma un processo collettivo, sollecitato da una pluralità di soggetti, istituzionali e non.
Nel primo cinquantennio repubblicano i partiti politici - nati dall’esperienza dei comitati di liberazione - furono tra i soggetti collettivi naturali strumenti di trasmissione di quella tradizione, insieme a una pluralità di enti della vita associativa che concorrevano a compenetrare la società di quei valori e ideali. La lacerazione di quel tessuto politico e associativo, in questa infinita transizione italiana, ha disperso un patrimonio politico-culturale che fa fatica a ricostituirsi e identificare le sedi stesse del suo insediamento sociale. I partiti politici anche nelle nuove configurazioni, la scuola, l’associazionismo rimangono le sedi privilegiate per custodire e alimentare questa memoria, in una prospettiva ormai di lunga durata ma anche come risvolto di una prassi operativa, nella misura in cui sono valori della Resistenza i vincoli pratici e le regole che devono governare la nostra convivenza e ispirano la nostra direzione di marcia. Soltanto se continuiamo a essere consapevoli di quanto è stata aspra la lotta per sottrarci alla dittatura fascista e nazista, per restituirci le libertà democratiche e consentirci l’elaborazione della Costituzione, restituiremo alla Resistenza il significato di un evento storicamente motivato nel suo naturale contesto temporale e epocale e ridaremo ai valori della Resistenza con la loro materiale evidenza il senso della loro attualità e della loro permanente necessità.
Il 25 aprile rimane un fatto fortemente simbolico, uno di quei punti fermi dei quali ogni collettività ha bisogno come punto di riferimento, ma non è principalmente sui miti e sui riti che si deve alimentare la memoria della Resistenza. Essa sarà viva se gli indirizzi politici saranno improntati a quei valori essenziali per i quali in Italia e in Europa migliaia di uomini e donne hanno sacrificato la loro esistenza per rivendicare la propria autonoma responsabilità e il diritto di partecipazione, il rispetto della dignità dell’uomo, l’aspirazione alla giustizia sociale e all’eguaglianza, l’utopia di una Europa pacifica e pacifista. Una tavola di valori che si trova scritta nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, italiana e europea, il libro che vorremmo fosse letto dalle generazioni più giovani.