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TINA ANSELMI: «De Gasperi e Togliatti capirono l’importanza della partecipazione delle donne»

Staffetta partigiana, sindacalista, prima donna ministra. Sul referendum: serve più informazione
sabato 10 giugno 2006.
 

di Gemma Contin (Liberazione, 09.06.2006)

Tina Anselmi, nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo 1927, single ante litteram. Staffetta partigiana, sindacalista delle tessitrici venete, esponente della Dc, madre nobile della democrazia italiana, parlamentare dalla V alla X legislatura. Tre volte sottosegretaria al Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, prima donna ministra, esattamente trent’anni fa, e unica al Dicastero del Lavoro, poi per due volte ministra della Sanità, e presidente della Commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2. Sua la battaglia per il voto alle donne, assieme a tante “suffraggette” di allora: cattoliche, socialiste, comuniste. In occasione del sessantesimo anniversario di quell’evento, Liberazione l’ha intervistata.

Onorevole Anselmi, sessant’anni fa le donne ottenevano la parità, almeno sul piano del diritto al voto. E il 2 giugno del 1946 scelsero la Repubblica e votarono per l’Assemblea Costituente. Lei è stata un’artefice di quella battaglia. Come se la ricorda?

Me la ricordo come una battaglia importante e divertente, anche se io non avevo gli anni sufficienti per poter votare. Ho fatto tanti di quei comizi, tante di quelle riunioni con le donne. Era una cosa stupenda. Se io penso agli incontri con le donne, a quanto erano solari, solidali, piene di vitalità e di speranza: una cosa stupenda, con tutti che si mobilitavano per andare di casa in casa. Anche i nostri clericali non si mossero contro, perché il valore di quel voto era talmente importante che anche chi era dall’altra parte non si poteva opporre. Anche perché dietro c’era De Gasperi che, interrogato su che cosa si doveva fare, rispose che bisognava salvare la repubblica. Così De Gasperi concordò con Togliatti che era opportuno far votare le donne.

Sul voto femminile ci fu dunque una convergenza tra i due capi dei massimi partiti popolari, la Dc e il Pci?

Sì, anche se c’era qualcuno che temeva che le donne sbandassero sulla destra. E invece le donne, primo: andarono a votare in tante, in una misura enorme che nessuno si aspettava; secondo: non furono affatto affascinate dai Savoia.

Anche perché ne portavano addosso i lutti e il peso di aver retto famiglie e intere comunità mentre i loro uomini erano in guerra.

Infatti. Tutti questi elementi concorsero a determinare anzitutto l’affluenza. Le donne andavano a sentire. Non era vero tutto quello che in molti dicevano: le donne non capiscono, non sanno, è inutile dargli il voto, faranno quello che decidono i mariti. Ci fu tutta una diminuzione che fu smentita proprio dal fatto che le donne votarono in un numero maggiore rispetto agli uomini, e dal fatto che le donne partecipavano, sentivano, andavano ad ascoltare e poi usavano la loro testa.

Forse però erano troppo silenziose. Non avevano ancora trovato le voci e i luoghi per dire quello che pensavano?

Però al momento del voto hanno votato. Chiaramente hanno votato in maggioranza per la Democrazia cristiana e per il Partito comunista, dando anche in questo un segnale molto forte e netto.

Si parla molto, oggi, di quote rosa, della politica che apre alle donne, anche se poi non apre affatto e le donne continuano ad essere una forza marginale nell’agenda e sullo scenario della politica. Come valuta tutto ciò?

Eppure abbiamo votato il nuovo diritto di famiglia e la legge di parità uomo-donna: due tappe che io credo siano state molto significative. Le donne andavano alla sera alle riunioni. Me lo ricordo bene perché maggio è sempre stato un mese elettorale ma le donne, specie delle campagne, in maggio di solito facevano le novene e andavano a dire il rosario. Eppure queste donne la sera andavano alle riunioni e sottolineavano, anche prendendo in giro i loro uomini, l’importanza del voto. E pensiamo anche che questo voto è stato dato in un contesto politico e sociale che ha visto 22mila donne partigiane: una cosa strabiliante. Anche se non si è mai parlato di quote rosa, questi fatti avevano un potere decisivo, dirompente.

Ed è avvenuto di nuovo con i referendum sul divorzio e per l’interruzione di gravidanza.

Nei momenti decisivi le donne hanno dimostrato di essere molto più avanti. E la loro maturità politica aveva addirittura scavalcato questi problemi. Se io penso a che cosa è arrivato, da tutto questo patrimonio, al mondo delle donne, io dico che è stato incredibile. Anche perché in quel periodo, dobbiamo confessarlo, non sono state aperte battaglie per le donne. Si continuava parlare di battaglie per la persona. Questo è tanto più significativo perché una “minoranza” nel Paese è riuscita a diventare maggioranza in Parlamento.

Quali sono le ragioni della presenza ancora insufficiente di donne nelle istituzioni e nella vita pubblica? E quali le cause per cui la politica continua ad escludere le donne, o, viceversa, perché le donne non si fanno coinvolgere dalle modalità della politica?

Questo è un problema davvero aperto. Quanto più le donne diventano classe dirigente, e alludo anche a chi ha funzioni di manager nella vita economica, tanto più è incomprensibile questa esclusione. In ogni caso, io credo che il discorso delle quote rosa è superato: su quello noi non incontreremo più le donne. Invece rimane aperto il grande tema dei servizi alla donna, alla comunità e al lavoro, perché è su quelli che il problema non è risolto.

Il 25 giugno andremo al voto per il referendum sulla riforma costituzionale chiamata “devolution”. Secondo lei che cosa succederà? E perché ai referendum c’è una bassa partecipazione?

Perché è difficile la comprensione di quello che sta avvenendo. La gente è poco informata e non sa per cosa va a votare. Ed essendo poco informata dobbiamo stare molto attenti che non vi sia una “votazione-trabocchetto”: la gente potrebbe votare sì pensando di abrogare, cioè pensando di dire no alla riforma della Costituzione. Questo è un aspetto che va spiegato molto bene perché l’esito del referendum si gioca qui.

Secondo lei c’è quindi un problema sulla tecnica del voto e uno sulla conoscenza dei contenuti, cioè sulla devolution?

Sì, e su quello bisogna che martelliamo il paese con un’informazione puntuale. Anche sul fatto che dobbiamo rendere esplicito - e questo non sarà facile - il rapporto società-istituzioni e la sua evoluzione. Io ho sempre in mente La Pira nel discorso che fece alla Camera, quando disse che la Costituzione è come una bella stoffa preziosa, ma che se non si adeguerà al cambiamento del Paese e della società rischia di diventare uno straccio logoro. Non basta la stoffa, occorre un bel modello, e questo è tutto da fare. Io sono molto preoccupata, per l’adesso e per il domani, perché i partiti non sono fuori dalla loro crisi e non sono riusciti a offrire un’alternativa al modello - chiamiamolo così - leghista. Noi qui paghiamo tutto l’arretrato culturale del fascismo che ha prodotto la paralisi dei partiti. Perché il fascismo con la liquidazione per vent’anni dei partiti ha impedito il formarsi di quel dibattito che altri paesi, come la Francia, perfino la Germania, hanno avviato per darsi almeno tentativi di soluzione alla crisi della politica.


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