RESISTENZA CIVILE
di ANNA BRAVO *
I. Forme di lotta
Con la significativa eccezione delle enclaves di alto prestigio e potere, non esistono nella resistenza compiti o settori dove non compaiano donne. E’ cosi’ nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell’organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, la struttura delegata a sostenere i militanti in difficolta’ e le loro famiglie. Dello schieramento resistenziale fanno parte anche le militanti dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della liberta’, l’organizzazione femminile di massa fondata nell’autunno ’43 da alcune esponenti dei partiti del Cln.
Nell’opera dei Gruppi, e in una certa misura anche delle partigiane, rientrano molte pratiche tipiche della resistenza civile, un termine oggi usato per indicare l’area dei comportamenti conflittuali delle popolazioni che in tutta l’Europa sotto dominio nazista accompagnano, a volte precedono, la resistenza armata, e che si valgono non delle armi ma di strumenti immateriali come il coraggio morale, l’inventiva, la duttilita’, le tecniche di aggiramento della violenza, la capacita’ di manovrare le situazioni, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico. Ma le donne attive in questo campo sono molte di piu’ di quelle integrate nella resistenza e riconosciute come tali.
Il punto di inizio della resistenza civile italiana sono i giorni successivi all’8 settembre, quando i tedeschi si sono ormai impadroniti dei 4/5 del paese e decine di migliaia di soldati si sbandano sul territorio cercando di sfuggire alla caccia degli occupanti. Ne nascono storie splendide, uscite dall’anonimato solo di recente. Come quella di M. S., una non piu’ giovane donna torinese di classe operaia, che non esita a accogliere e rivestire in borghese i primi militari che bussano alla sua porta, ma che subito si rende conto del carattere di massa dell’emergenza. Fa allora incetta di indumenti borghesi in tutto il quartiere, da conoscenti e vicini fino alle suore di un istituto di carita’, e trasforma la propria casa in un efficientissimo centro di raccolta dove sull’onda del passaparola gli sbandati si presentano sempre piu’ numerosi. M. S. li sfama, li fa riposare in un dormitorio improvvisato nelle cantine, li riveste da capo a piedi, preccupandosi persino di tingere in nero le scarpe militari, punto debole di ogni travestimento. Poi li accompagna uno per uno alla stazione, dove cerca di eludere i controlli polizieschi baciandoli e abbracciandoli come fossero parenti in visita (Bravo-Bruzzone 1995).
Sebbene sia raro incontrare altrettanto spirito imprenditorale e altrettanta cura per la verosiglianza, in quei giorni un numero imprecisato ma vastissimo di donne - anche se non solo di donne - si impegna in una mobilitazione che imprime il suo segno nel paesaggio. Come scrive Luigi Meneghello, uno dei maggiori protagonisti/interpreti della resistenza, si vedevano "file praticamente continue di gente (...) tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio. Abbondavano i vestiti da prete (...) Pareva che tutta la gioventu’ italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva" (Meneghello 1986).
E’ una gigantesca operazione di salvataggio, forse la piu’ grande della nostra storia (Galli Della Loggia 1991), che viene condotta in assenza di direttive politiche e in gran parte ad opera di donne cosiddette comuni; un fenomeno che non si ripetera’ piu’ con queste caratteristiche e dimensioni. Ma nei venti mesi successivi, la resistenza civile italiana prende altre forme. Tra queste, sabotaggi e scioperi per ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali perseguito dai nazisti; tentativi di impedire la distruzione di cose e beni essenziali per il dopo; lotte in difesa delle condizioni di vita; isolamento morale del nemico, una pratica decisiva per minarne la tenuta psicologica; rifiuto da parte di magistrati e altri dipendenti pubblici di prestare giuramento alla repubblica di Salo’. Spicca anche, ed e’ probabilmente l’aspetto piu’ diffuso, la protezione verso chi e’ in pericolo: basta ricordare la lunga ospitalita’ offerta ai prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizio (Absalom 1991); l’aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile in tutta Europa; e, certo non da ultimo, l’appoggio alle formazioni partigiane attraverso infinite piccole e grandi iniziative - sarebbe dunque assurdo considerare la resistenza civile come separata e contrapposte a quella armata, anche perche’ almeno in alcuni casi non di rifiuto delle armi si tratta, ma dell’impossibilita’ di procurarsele.
E’ vero invece che il termine abbracccia un ventaglio di comportamenti eterogenei, apparentati essenzialmente dal fatto di essere compiuti senza armi e ad opera di soggetti a loro volta cosi’ diversi che a accomunarli e’ quasi solo la condizione di cittadini di uno stesso paese: sono uomini di varia eta’, ceto, cultura, posizione professionale, politicizzati e non; a volte bambine e bambini; religiosi/e; ma soprattutto donne, proletarie e aristocratiche, contadine e borghesi, spinte all’esterno dalla necessita’ di provvedere a se stesse e alla famiglia e spesso piu’ capaci di esporsi, anche perche’ contano, a volte illudendosi, sul minore sospetto che tradizionalmente desterebbe la figura femminile.
Riflettono questa molteplicita’ le motivazioni: contano la fede e le indicazioni politiche, ma spesso contano di piu’ la stanchezza della guerra, la pietas cristiana, l’odio per tedeschi e fascisti, la solidarieta’, a volte l’orgoglio patriottico, di gruppo, di mestiere, ideali anarchici e antimilitaristi, spirito di insubordinazione e di avventura. L’8 settembre per le donne c’e’ una sfumatura particolare: gli sbandati sono giovani uomini in pericolo che si rivolgono loro come a figure forti e salvifiche, vale a dire materne. E proprio a causa di questa vulnerabilita’, le donne li considerano spesso figli virtuali, e per proteggerli danno vita a un maternage di massa che rappresenta una delle espressioni specificamente femminili della resistenza civile italiana.
Al suo interno spicca l’azione individuale. C’e’ chi opera in modo estemporaneo, come la parrucchiera che durante una retata nasconde un partigiano fra le clienti. Chi in modo continuativo, come la diciottenne impiegata di uno stabilimento ausiliario che va regolarmente al comando tedesco a chiedere i lasciapassare per gli operai, e regolarmente inserisce nell’elenco partigiani e qualche ebreo; se la sua collaborazione con il Cln resta informale, in altri casi il medesimo incarico puo’ portare all’inserimento negli organici, a dimostrazione di quanto sia difficile in quell’orizzonte concitato e frammentato applicare criteri omogenei.
Frutto ora di una tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte collettive sono per lo piu’ non violente, ma non sempre: lo testimoniano gli assalti ai magazzini viveri e a treni carichi di derrate o combustibili e alcune aggressioni contro esponenti e favoreggiatori di Salo’ - in quest’ultimo caso pero’ e’ difficile distinguere tra i fatti, le dicerie, le versioni amplificate.
Variano di molto le modalita’ organizzative. La mobilitazione puo’ riecheggiare le parole d’ordine dei partiti antifascisti o dei Gruppi di difesa, puo’ esserne il risultato diretto, puo’ valersi dei loro canali; altre volte - e’ il caso di M. S. - nasce da forme di concertazione informale lontane dal circuito politico e fondate su un tessuto sociale di paese, di quartiere, di parrocchia, su reti parentali, di colleganza, di amicizia.
Variano anche i risultati: si salvano persone e si vanificano i piani nazisti, come quando le donne di Carrara resistono agli ordini di sfollamento totale emanati nel luglio ’44 per garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori sgombri (Commissione pari opportunita’ Massa-Carrara 1994); si strappano miglioramenti delle condizioni di vita e si delegittimano le istituzioni di Salo’. Ma l’azione e’ in ogni caso frutto di una decisione personale non meno difficile della scelta partigiana. Cosi’ come solo una minoranza prende le armi, solo una minoranza si impegna infatti nella lotta senza armi, e sarebbe ingiusto usarla per accreditare il mito di un’unanime mobilitazione antifascista e antinazista - vale invece la pena sottolineare che da noi la solidarieta’ verso gli ebrei scatta nel momento in cui e’ chiaro che e’ la loro vita a essere in pericolo, ma anche che la Germania ha ormai perso la guerra.
Su questo sfondo, il significato della resistenza civile trova ancora piu’ risalto. Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente, vite, rapporti, cose, che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti; di un rifiuto di sottomettersi le cui conseguenze possono andare dalla denuncia alla deportazione e alla pena di morte per chi fornisca documenti falsi ai ricercati, dia aiuto a partigiani o, recita un decreto di Salo’ del 9 ottobre 1943, dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne faciliti la fuga. Alcune donne di Carrara vengono arrestate; alcune/i soccorritori dei prigionieri di guerra sono uccisi. La piemontese quindicenne Natalina Bianco, "colpevole" di aver portato viveri ai fratelli partigiani, finira’ a Ravensbruck; cosi’ la studentessa padovana Milena Zambon, attiva in una rete che fa passare in Svizzera i prigionieri alleati (Gios 1987). Del resto, nell’ordine senza diritto imposto dall’occupazione, basta un rifiuto occasionale di obbedienza a innescare ritorsioni gravi.
L’impegno nella resistenza civile puo’ dunque contare e costare quanto quello nella resistenza armata. Ma dei suoi protagonisti e del loro destino sappiamo ancora poco, e quel poco a volte emerge per caso, come avviene nel ’98 con la storia dell’agente di custodia di san Vittore Andrea Schivo, deportato e ucciso a Flossemburg per aver "agevolato i detenuti politici ebrei coi loro bambini (...) soccorrendoli con delle uova, marmellata, frutta, di tutto quanto poteva essere possibile e utile" (Laudi 1998).
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II. La resistenza e la figura femminile
Consapevoli di quanto sia importante la conflittualita’ diffusa, le forze della resistenza la sollecitano in varie forme; la considerano, pero’, piu’ un indispensabile complemento della lotta armata che l’espressione di un antagonismo che germina dalla societa’. Nelle interpretazioni allora piu’ seguite, la politica si identifica infatti con l’azione delle avanguardie organizzate, non con la transeunte iniziativa popolare; la vera battaglia contro il nazismo e’ quella che si combatte con le armi in pugno, mentre le lotte inermi e "spontanee" sono ritenute una forma minore dell’antifascismo, una componente utile ma secondaria, in qualche caso guardata con diffidenza da chi ricorda le non lontane mobilitazioni reazionarie delle masse italiane.
Quanto alle donne, la resistenza offre loro la prima occasione storica di politicizzazione democratica (Mafai 1987; Guidetti Serra 1977), e dunque le contraddizioni sono ancora piu’ forti. Sebbene la guerra sottoponga l’intera struttura sociale a tensioni fortissime, non ne smantella infatti l’impronta patriarcale: restano forti sia l’ideologia secondo cui le donne appartengono alla famiglia e al privato e sono incompatibili con la sfera pubblica e la politica, sia i luoghi comuni sull’inaffidabilita’ femminile. Partecipe di quella cultura anche se intenzionato a cambiarne molti aspetti, il movimento resistenziale da un lato teme l’"egoismo" familistico delle donne, dall’altro cerca di guadagnarle alla causa, ma soprattutto in quanto "madri e spose" (Pieroni Bortolotti 1978). Nasce da qui una prevalente ottica "continuista", che vede nell’opera delle donne il prolungamento di ruoli naturali di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla "normale" divisione degli spazi. Che a singole esponenti politiche siano assegnati incarichi di rilievo in qualcuno dei territori provvisoriamente liberati dai partigiani e amministrati dai Cln, e’ un segnale importante, ma coesiste con il fatto che in nessuna di queste zone viene riconosciuto alle donne il diritto di voto per l’elezione degli organismi di autogoverno.
Non solo: perdurano - ed e’ stupefacente se si pensa agli sconvolgimenti della guerra - l’assimilazione fra vita quotidiana e routine e quel suo risvolto simmetrico che identifica emergenza e caduta peccaminosa nel lassismo. Nessuna delle forze in campo si dimostra immune dall’uno o dall’altro stereotipo. La Chiesa rimprovera alle donne di sfuggire la domesticita’ con il pretesto della situazione eccezionale, di non saper piu’ educare cristianamente le figlie, di indulgere a sregolatezze di ogni tipo, da abbigliamenti provocanti a frequentazioni scandalose. All’estremo opposto, in una lettera della XL brigata Matteotti "alle Compagne" (Archivio centrale Udi 1996) le si invita a impegnarsi per procurare quanto necessario alla formazione, "abbandonando la vita metodica e casalinga" (sic).
Che nella lettera della Matteotti ci si rivolga alle militanti di un organismo riconosciuto dal Cln mostra che i pregiudizi non colpiscono soltanto le donne cosiddette comuni. Ne scontano gli effetti sia le donne dei Gruppi sia le stesse partigiane, gran parte delle quali sono impegnate nel lavoro logistico, un insieme di compiti complesso e pericoloso senza il quale nessun esercito potrebbe esistere. Meno che mai quello resistenziale, in cui il rapporto fra chi combatte e chi e’ impegnato in compiti di sostegno supera di molto lo standard delle truppe regolari. Eppure le partigiane vengono comunemente definite con il termine vago e miniaturizzante di staffetta, il che non esclude affatto amirazione e gratitudine, ma conferma la difficolta’ a vedere le donne fuori da un ruolo ancillare.
Quanto ai Gruppi di difesa, il loro intervento investe terreni cruciali per la vita materiale e simbolica della collettivita’ e per una prospettiva di maggiore giustizia. Basta citare le lotte di fabbrica e contro le deportazioni, la gia’ citata resistenza agli sfollamenti forzati, gli onori resi pubblicamente e collettivamente ai partigiani caduti e alle vittime dei tedeschi, la difesa intensiva delle condizioni di vita condotta con grande attenzione a principi di equita’ nella gestione delle poche risorse (Archivio centrale Udi 1995). E’ un’assunzione di responsabilita’ che mette in campo pratiche e attitudini storicamente associate alle donne e fatte proprie dal primo emancipazionismo; ma lo sforzo di trasformarle in compito politicamente riconosciuto rappresenta un passo in piu’, una opzione forte per la presenza femminile nei futuri organismi democratici. Peccato che questa potenzalita’ non trovi risposte adeguate (Rossi-Doria 1994).
I criteri che regolano il riconoscimento della qualifica di resistente dicono molto sulla cultura e mentalita’ dell’epoca. E’ dichiarato partigiano chi ha portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata "regolarmente inquadrata nelle forze riconosciute e dipendenti dal Comando volontari della liberta’", e ha compiuto almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. A quanti sono stati in carcere, al confino, in campo di concentramento, la qualifica viene riconosciuta solo se la prigionia e’ durata oltre tre mesi. Almeno sei sono necessari nel caso di servizio nelle strutture logistiche, mentre a chi, dall’esterno delle formazioni, abbia prestato aiuti particolarmente rilevanti viene attribuito in qualche regione il titolo di benemerito. Resta dunque saldo uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua esprressione piu’ alta al diritto/dovere di portare le armi, facendo degli inermi per necessita’ o per scelta figure secondarie quanto meno sul piano simbolico. Si sancisce anche l’assoluta dominanza del legame politico - di partito, di gruppo, di organismo di massa - rispetto ad altri tipi di vincolo e mediazione. Nello stesso schieramento antifascista si fatica a prendere coscienza delle implicazioni di questo dualismo.
Vengono cosi’ esclusi molti soggetti, dai reduci dei lager agli oppositori non collegati alle formazioni ufficiali e ai partiti del Cln; e la grandissima parte delle donne. Le cifre ufficiali di 35.000 partigiane e 70.000 operanti nei Gruppi di Difesa sono ragguardevoli, a maggior ragione se si tiene conto che il desiderio/bisogno di sottrarsi ai bandi di arruolamento nelle truppe della Repubblica sociale non riguarda le donne; ma per ammissione ormai generale sottorappresentano ampiamente la presenza femminile.
Non mancano ambivalenze neppure verso le partigiane combattenti, protagoniste di una rottura tanto piu’ perturbante perche’ segue al ventennio fascista di enfasi sfrenata sulle funzioni materne. Quanto allarme cresca intorno alla figura della donna in armi e’ mostrato dalle leggende che circolano tra tedeschi e fascisti come fra la popolazione, narrando di reali o immaginarie condottiere sempre bellissime e sempre ferocissime. E’ una riemersione dei miti sulla guerriera che ha il suo rovescio nella diffidenza con cui molti guardano alle partigiane concrete, donne per lo piu’ giovani uscite dalla casa per entrare non solo nella sfera della politica, ma in quella della violenza armata, ritenuta massimamente incompatibile con la femminilita’.
Puo’ essere cosi’ anche fra i resistenti. Il coraggio con cui la dirigenza partigiana bolla come arretratezze i pregiudizi maschili (Pavone 1991) e apre alle donne, non azzera i dubbi sulla loro attitudine al combattimento ne’ i timori di promiscuita’ nelle bande, e convive con una pratica di divisione dei compiti modellata sulla gerarchia di genere. Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici (l’equivalente del vicecomandante). Il grado piu’ alto attribuito alle donne e’ quello di maggiore, che riguarda comunque una piccola minoranza; quelli piu’ diffusi, tenente e sottotenente. L’avarizia nell’assegnazione di riconoscimenti militari riguarda tutta la resistenza europea, ma nei paesi latini si arriva a casi limite: da noi una donna si vede attribuire la qualifica di soldato semplice proprio dal giovane partigiano che lei stessa aveva messo a capo di una formazione di quartiere quando esercitava in via provvisoria il comando del I settore della piazza di Torino; a un’altra classificata come partigiana semplice viene riconosciuto dal comando alleato il grado di ufficiale superiore e la liquidazione in denaro corrispondente (Alloisio-Beltrami 1981).
Nell’insieme, il modo con cui nel mondo resistenziale si guarda alle donne registra un interessante intreccio fra volonta’ ugualitaria, slanci innovativi e cedimenti ai vecchi stereotipi. Non per caso: sono in gioco la divisione sessuale dei compiti e la separazione degli spazi fra donne e uomini; nodi principali del sistema di genere resi piu’ dirompenti dalle materie che investono: partecipazione politica, uso delle armi, rapporti uomo/donna nella vita di formazione e in prospettiva nel futuro. Della complessita’ della situazione non tutti si rendono conto; su come affrontarla si danno a volte indicazioni opposte. Emerge cosi’ un quadro movimentato, dove giocano in modo decisivo le differenze culturali, politiche, geografiche, ideologiche, e le inclinazioni personali. Gioca, soprattutto, la volonta’ delle protagoniste di contrattare spazi di autonomia e di autoaffermarsi di fronte ai compagni.
E’ significativo che i Gruppi di difesa della donna insistano di continuo per sostituire il termine staffetta con definizioni professionali (informatrice, collegatrice, portaordini, infermiera) utili per superare l’immagine indistinta della donna che aiuta, da’ una mano, si presta; che invitino caldamente le militanti a esigere la presenza femminile negli organismi politici e in ogni struttura di base, a non aver paura di sbagliare, a agire di propria iniziativa, a sapersi imporre (Archivio centrale Udi 1995). E’ significativo che molte partigiane rivendichino uguali diritti e responsabilita’, e che alcune accettino di curare i compagni feriti, ma rifiutino fermamente di servirli (Bruzzone-Farina 1976).
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III. Il senso comune storiografico
Sebbene qualsiasi generalizzazione implichi una forzatura, si puo’ dire che per decenni gran parte della storiografia ha aderito alle idee-base della resistenza, presentandola come un evento quasi esclusivamente armato e identificandone la politica nei partiti e negli organismi di massa. Quanto agli stereotipi sulla femminilita’, gli storici sembrano averli vissuti in modo molto meno conflittuale e vitale che non i resistenti, tanto da aver quasi ignorato l’esperienza delle partigiane e ancor piu’ quella dei Gruppi o delle "donne comuni".
Non che della presenza femminile si sia taciuto del tutto. E’ anzi raro che non venga nominata e magari insignita di aggettivazioni iperboliche; ma, appunto, semplicemente nominata, non assunta a tema di ricerca. Nella memorialistica se ne parla come di un aiuto provvidenziale ricordato a volte con tenerezza e commozione; nei lavori di sintesi compare come lo scenario della lotta armata, quasi una componente ambientale che aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani.
Il vuoto di analisi traspare dai vuoti di linguaggio. Si parla di "contributo", un termine che marca il divario fra l’atto fondativo e il suo contorno o supporto, e lascia talmente nel vago il suo oggetto che la medesima parola viene usata per indicare l’attivita’ delle partigiane ma anche l’insieme delle pratiche femminili ritenute utili alla resistenza. Si parla di rapida politicizzazione (senza pero’ minuziosamente verificarla) oppure di umanitarismo istintivo (una categoria che andrebbe a sua volta spiegata perche’ la solidarieta’ non scatta sempre ne’ per chiunque). E, ancora, di oblativita’ femminile, vale a dire materna. Ma una maternita’ tradizionale, vincolata al privato e allo spazio domestico, e destinata a tornarci finita l’emergenza.
Il risultato e’ che un intero universo di comportamenti resta confuso nel paesaggio della guerra civile, perche’ non esistono ne’ un orizzonte simbolico capace di accoglierli, ne’ un termine che li ricomprenda e li caratterizzi. Tra alcune figure esemplari - la partigiana eroica, la madre salvifica, all’estremo opposto la spia - e le donne come massa indifferenziata, non c’e’ posto per le protagoniste concrete, che non hanno nome ne’ identita’ riconosciuta, tanto meno una fisionomia politica. Le stesse divergenze fra partigiane, fra organizzazioni femminili e al loro interno, vengono lasciate fra parentesi in una immagine di quieto unanimismo (Rossi-Doria 1994), a conferma che per gli storici il rapporto donne/politica restava a dir poco ininteressante. E’ un elemento di continuita’ con il passato che in Italia viene acuito dalla prevalenza della cultura cattolica, da una mentalita’ debitrice della tradizione contadina e dalla tendenza ancora diffusa nelle sinistre a subordinare la cosiddetta questione femminile alla soluzione dei problemi sociali.
Un destino in linea di massima simile e’ toccato alla mobilitazione disarmata dei civili e alle iniziative autorganizzate, sulle quali, all’opposto di quanto e’ avvenuto per il partigianato e i gruppi politici, c’e’ stata pochissima ricerca e riflessione. Esaltato l’aspetto di prezioso sussidio alla resistenza armata, ignorati gli elementi di autonomia e i caratteri specifici, le lotte di questo tipo affiorano dalle ricerche in ordine sparso, mentre a partire dagli anni settanta, sono spesso sussunte nella categoria delle lotte operaie e popolari e in quella di mondo contadino.
Questa "distrazione" si tramanda per decenni, dagli anni cinquanta, quando il clima di processo alla resistenza mantiene in primissimo piano la lotta armata e i suoi valori, agli anni sessanta/settanta che vedono la concentrazione sul tema della resistenza tradita e sulla radicalita’ di classe. Piu’ degli orientamenti politici e culturali di fase, pesa una forma mentale che neppure concepisce di poter estendere il titolo di resistente a chi non abbia portato le armi. Per gli Imi (i 65O.OOO militari internati in Germania dopo l’8 settembre) che rifiutano in stragrande maggioranza di arruolarsi nell’esercito di Salo’, si parla di "resistenza passiva", un termine gia’ in uso all’epoca, che per la cultura occidentale ha un segno negativo e che risulta davvero stonato. Come si fa a definire "passivo" un no opposto ai nazisti dall’interno di un campo di prigionia?
Lo scarto e’ ancora maggiore per la sistemazione storico/teorica. Sul nodo guerra di liberazione/guerra civile c’e’ stato e c’e’ tuttora un dibattito a volte aspro cresciuto intorno a un’opera spartiacque (Pavone 1991); il tema lotta armata/lotta non armata e il modello di cittadinanza uscito dalla resistenza sono rimasti - e per molti aspetti ancora rimangono - ai margini della storiografia accademica come della divulgazione.
Nell’insieme, l’esiguita’ di ricerca e celebrazione ha contribuito a dare l’idea che l’opposizione civile sia stata pressoche’ inesistente, e quella delle donne limitata a una "materna" azione di aiuto ai partigiani.
Tuttavia per le donne nella seconda meta’ degli anni settanta c’e’ una svolta. E’ allora che, in un felice interscambio con il femminismo e il nuovo interesse per gli "invisibili" della storia, alcune studiose e protagoniste denunciano, sia pure con diversa radicalita’, i limiti della resistenza e dei suoi interpreti nei confronti delle donne, rivendicando il diritto di partigiane e deportate politiche al pieno accesso alla sfera del pubblicamente memorabile (Bruzzone-Farina 1976, Guidetti Serra 1977, Pieroni Bortolotti 1978, Beccaria Rolfi-Bruzzone 1978, Alloisio-Beltrami 1981). Negli stessi anni Lidia Menapace, partigiana e militante della nonviolenza, allarga il discorso alle donne che non hanno avuto alcun riconoscimento, e che non hanno neppure pensato a chiederlo: "Se si prende come metro di misura delle donne nella resistenza questa presenza (...), come si puo’ valutare se dopo la liberazione la sua eco e il suorisultato siano stati adeguati?" (Rossanda 1979).
Grazie a questi studi, si apre la strada per nuove ricerche all’interno della storia delle donne intesa come disciplina autonoma e politicamente motivata. Una strada che in questi ultimi anni, e non solo in Italia, ha guardato sia alle partigiane sia alle donne cosiddette comuni, sia alle azioni collettive sia a quelle individuali e di piccolo gruppo, nel tentativo di comprenderne i significati rispetto al quadro complessivo e di ridefinire contenuti e confini del termine resistenza.
Perche’ il tema dell’opposizione nella societa’ guadagni spazio bisogna invece aspettare la fine del decennio successivo, quando l’irruzione della storia sociale mette fine al lunghissimo predominio dei temi politico-istituzionali, e pone le premesse per una nuova sensibilita’.
Un sommario sguardo all’oggi mostra una situazione fluida. Gli storici piu’ avvertiti concordano sull’importanza anche teorico/politica di questi temi: che senso ha, per esempio, continuare a discutere sulla dimensione numerica della resistenza riferendosi ai criteri di oltre cinquant’anni fa? Ma c’e’ anche una diffusa tendenza a ritenere la resistenza civile "affare delle donne" - le protagoniste di allora, le ricercatrici del presente - eludendone il carattere di critica generale al senso comune storiografico.
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IV. Il concetto di resistenza civile
Usato in precedenza episodicamente e senza un forte statuto storiografico, questo concetto e’ stato messo a punto alla fine degli anni ottanta dal francese Jacques Semelin, storico di formazione psicosociologica e militante della nonviolenza. Per Semelin (1993), la resistenza civile si identifica nelle iniziative conflittuali disarmate delle istituzioni politiche, professionali, religiose, o delle popolazioni, o di entrambe; e rappresenta la risposta specifica della societa’ civile contro il dominio che il nazismopretendedi esercitaresullasuavitaesulle sue strutture. Una collocazione di primo piano ha naturalmente il sostegno alla lotta armata, ma il fatto nuovo e’ che vengono assegnati un nome e una rilevanza inedita alle pratiche dell’autodifesa sociale, di cui l’autore offre una ricca casistica relativa al centro e nord Europa. Si va dai grandi scioperi minerari francesi e belgi del maggio-giugno 1941 contro il crollo dei livelli di vita, al rifiuto di aderire a qualsiasi associazione nazificata da parte di insegnanti, medici, funzionari e altri gruppi, compresi gli sportivi, che in Norvegia con il blocco di ogni attivita’ agonistica contribuiscono ad aprire gli occhi a molti giovani; dalle denunce pubbliche di alcune Chiese nazionali alle lotte della primavera-estate ’43 in Francia e Paesi Bassi contro la deportazione in Germania di centinaia di migliaia di lavoratori/trici, alla meravigliosa mobilitazione del popolo danese, che nell’ottobre ’43 riesce a portare in salvo in Svezia la grandissima maggioranza dei "suoi" ebrei.
Consapevole di muoversi su un terreno delicato, Semelin fissa chiramente alcuni punti: la resistenza civile non e’ in competizione con la lotta armata, non ricomprende qualsiasi atteggiamento conflittuale ma solo quelli dotati di un’intenzione o di una funzione antinazista, non equivale automaticamente a lotta nonviolenta, e quest’ultima non e’ un dogma da seguire in qualsiasi contesto. Ma e’ altrettanto fermo nel rivendicare la matrice comune a queste lotte e la loro autonomia, e nel confutare le interpretazione che le riducono ad appendici del movimento partigiano; proprio per questo, le analizza nei primi anni dell’occupazione, quando l’aspetto armato era ancora assente o in nuce, e insiste sulla necessita’ di valutarne le differenze alla luce delle specificita’ nazionali e di fase, come il tipo di collaborazione praticato dai governi, le tradizioni locali, le modalita’ della politica nazista, la coesione sociale preesistente, vale a dire il grado di riconoscimento nelle istituzioni e i sentimenti di appartenenza alla collettivita’. Due obiettivi gli stanno soprattutto a cuore: "demilitarizzare" la resistenza, mostrando che si puo’ lottare efficacemente in molti altri modi e su moltissimi terreni; indicare nella societa’ il luogo di un antagonismo non interamente ricomprensibile e rappresentabile dalla lotta armata, facendo dei cittadini e dei gruppi sociali non i comprimari ma i protagonisti, portatori di obiettivi propri anziche’ cassa di risonanza dello scontro partigiani/nazisti.
Si offre in questo modo un solido terreno di unita’ a grandi lotte, comportamenti sparsi e a volte dati per scontati, episodi altamente creativi - e’ cosi’ ad esempio per i momenti di resistenza vissuti nella situazione estrema del Lager con la creazione di strutture politiche clandestine e piu’ spesso attraverso lo sforzo di contrastare l’esperimento di controllo totale dei comportamenti perseguito dall’ideologia concentrazionaria. Per quanto riguarda l’Italia, trovano identita’ e visibilita’ innanzitutto i nostri deportati/e, gli Imi, ma anche molti soggetti imprevisti: come quegli impiegati/e pubblici che all’indomani dell’8 settembre riempiono centinaia di fogli di via con i nomi degli sbandati, per farli viaggiare verso casa come se fossero in regolare licenza (Ferrandi 1994); o quei dipendenti comunali romani che, ben prima di essere coordinati dal Cln, organizzano un ingegnoso sistema per procurare ai ricercati una "regolare" falsa identita’, scegliendo per il domicilio edifici bombardati e evacuati, per il luogo di provenienza irraggiungibili comuni a sud del fronte, per gli stati di famiglia numeri d’ordine di serie anteguerra; e, ancora, quei loro colleghi/e che insieme agli sterratori del Verano disseppelliscono le bare dei fucilati cui i nazisti vietano di apporre segni di riconoscimento, le aprono, prendono nota delle ferite, dei tratti fisici, dei vestiti, e le contrassegnano perche’ possano essere identificate in futuro (Lunadei 1996).
Per descrivere la parte avuta dalle donne in questa guerra, il concetto di resistenza civile e’ uno sfondo propizio. Lo e’ per la loro amplissima partecipazione; per gli strumenti, che sono quelli comunemente associati al femminile, resi piu’ visibili dall’assenza delle armi; per i contenuti, che mostrano come fra tedeschi/fascisti e strati di popolazione esista un contenzioso su temi cruciali dell’esistenza collettiva e pertinenti ai ruoli e all’esperienza delle donne, per esempio il diritto a condizioni vitali minime, l’atteggiamento dei militari verso i civili, la tutela dei piu’ deboli, il rispetto dovuto ai morti, i limiti che il conflitto non deve oltrepassare. Lo e’ anche per le motivazioni, dove non si stabiliscono gerarchie fra quelle politiche e quelle di altra natura, che del resto non affiorerebbero senza un precedente disconoscimento della legalita’ fascista e senza l’individuazione almeno embrionale di una legittimita’ altra. Lo e’ soprattutto se si tiene conto di come le caratteristiche dell’Italia del ’43-’45 modellino il conflitto e l’azione sociale.
L’8 settembre il paese esce da vent’anni di un regime che ha frantumato l’opposizione, infiltrato le strutture sociali e avviato la "nazionalizzazione" delle masse; i sentimenti civici, gia’ storicamente deboli, sono sbriciolati, le risorse miserrime; le vecchie istituzioni statali hanno perduto ogni credibilita’, mentre i partiti e le nuove organizzazioni di massa mancano di radicamento, quadri, mezzi, conoscenze, una condizione che di per se’ circoscrive il loro ruolo nella mobilitazione popolare (ma anche la loro capacita’ di direzione sulle prime bande).
Si capisce cosi’ perche’ la resistenza civile italiana appaia particolarmente discontinua, meno strutturata, meno "politica" di quanto non sia in Francia, Danimarca, Olanda. Perche’, in altre parole, siano tanto importanti quelle iniziative informali e di piccolo raggio che spesso sono state ricomprese nella categoria seducente quanto vaga di spontaneita’, quei gia’ ricordati comportamenti fondati su parentele, quartiere, caseggiato, parrocchia, comunita’, precisamente gli ambiti in cui le donne sono storicamente piu’ presenti e autorevoli: donne che hanno saputo far continuare la vita nei tre anni di guerra ricavandone esperienza e consenso sociale, molto spesso madri dotate di un solido potere nella famiglia e di un’influenza particolarmente forte sulla condotta dei figli.
Non si tratta di esaltare l’"impoliticita’", ma di ribadire come proprio questa accentuata compresenza di iniziative solitarie, di gruppo, di massa, questo affiancarsi di reti politiche e di forme di concertazione diverse rappresenti una delle ricchezze della nostra resistenza civile. E’ anche cio’ che rende complicato definirla, perche’ e’ complicato valutare l’incidenza di ciascuna modalita’, soprattutto dell’accordo informale, che puo’ a volte coincidere con il legame politico, a volte essere utilizzato per mascherarlo; che, soprattutto, ha lasciato ben poche tracce nella documentazione. L’importante e’ assumere questi e altri problemi come oggetti storiografici di spicco, parte eminente di un movimento che non e’ ne’ il braccio disarmato della lotta partigiano ne’ un sottoprodotto dei partiti, e neppure un limbo inorganizzato, impolitico, istintuale.
Se si pensa alla difficolta’ degli storici a superare un’interpretazione "maternalista", e alla difficolta’ delle stesse donne a pensarsi fuori dai ruoli familiari e di cura, si tratta di un passo decisivo. Si potrebbe anzi dire che la resistenza civile si addice alle donne, e viceversa, tanto che rischiano di essere lasciate in ombra la sua componente maschile e persino l’esperienza delle partigiane combattenti.
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V. Resistenza civile e resistenza delle donne
Dopo essere state le prime a misurarsi con il concetto, (alcune) storiche hanno pero’ messo in guardia da una identificazione troppo stretta fra resistenza civile e resistenza delle donne. Sgombrare il campo dalla gerarchia armati/inermi e’ solo un primo passo. Se anche nella resistenza civile le donne, numerosissime nelle realta’ di base, raramente prendono parte ai processi di consultazione e decisione, e ancora piu’ raramente sono cooptate nelle leadership, non e’ solo perche’ un’organizzazione clandestina o semiclandestina non puo’ rispettare criteri di avvicendamento della dirigenza, ne’ regolari meccanismi di confronto e controllo. Conta anche il pregiudizio sulle capacita’ politiche femminili, che non viene smontato di per se’ dalla scelta non armata o addirittura nonviolenta.
Ma persino ai livelli piu’ informali agiscono strutture in cui le donne possono scomparire. Innanzitutto la famiglia, che nell’Europa occupata e’ il bersaglio delle deportazioni, dello sfruttamento diffuso, del terrore, e nello stesso tempo un luogo primario di iniziativa e reclutamento; lo e’ tanto piu’ facilmente in Italia, data la particolare forza e estensione dei legami familiari.
Puo’ allora succedere che una donna, spinta e legittimata a esporsi in nome e per tramite della famiglia, venga assorbita dalla sua immagine di unita’ organica, di soggetto unitario che "compare" come protagonista in sua vece, mentre la figura di moglie e madre torna a sovrastrare quella della resistente, e la sua iniziativa a essere classificata come contributo.
Non solo: se ci si attenesse alla formulazione originaria del concetto di resistenza civile, lo stesso numero delle donne considerate attive scemerebbe radicalmente. Semelin riservava infatti quel termine alle iniziative tendenzialmente di massa e organizzate, preferendo nel caso di piccoli gruppi sparpagliati la categoria piu’ debole di disubbidienza o dissenso. Lo stesso vale per quella modalita’ largamente femminile rappresentata dall’azione solitaria, su cui pesa per di piu’ il debole riconoscimento assegnato per decenni alla lotta individuale, vista come surrogato poco pregevole di quella collettiva.
E’ un paradosso della resistenza civile antinazista usare pratiche associate al femminile, e uno stile politico e modelli organizzativi tipicamente maschili.
Anche in questo universo bisogna allora mettersi in cerca dei luoghi e modi delle donne per farli emrgere laddove non trovino visibilita’ e per distinguerli dallo sfondo che potrebbe offuscarne le caratteristiche. Tra queste, una delle piu’ evidenti e’ la capacita’ di "usare" una contraddizione tipica del tempo di guerra, in cui sfumano i confini gia’ mutevoli tra sfera privata e sfera pubblica e nello stesso tempo si rafforza il legame simbolico che identifica la femminilita’ con la prima, la mascolinita’ con la seconda. Molte azioni nascono proprio nella zona a statuto incerto fra pubblico e privato e si realizzano grazie a rapporti a loro volta di confine. Donne - una minoranza di donne - scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso tempo abitazioni e centri di resistenza. Stringono relazioni a partire dalla vita quotidiana trasformandole in circuiti magari provvisori di inziativa antinazista. Coinvolgono parenti e vicine. Frequentano i mercati facendo insieme spesa e propaganda politica. E sistematicamente fanno del riferimento al privato e al familiare il massimo strumento di diversione e manipolazione del nemico: contrabbandano le riunioni per incontri amicali, trasformano una militante politica in una parente sfollata, un ricercato in figlio, marito, amante - come la brava moglie torinese che per proteggere un antifascista sorpreso a casa sua dichiara di avere una relazione amorosa con lui, e affronta il processo e la perdita della rispettabilita’ (Bravo-Bruzzone 1995). Fanno di un libro il contenitore per una rivoltella, del proprio corpo il nascondiglio di documenti, di un fiore un simbolo o un segnale. Assumono la maschera della ragazzina ingenua o della giovane bella e svagata.
Il fatto e’ che molte hanno intuito uno dei punti deboli del nemico, il bisogno di sottrarsi momentaneamente al clima di muro contro muro per godere di un simulacro di rapporti svincolati dalla guerra: fame di privato, si potrebbe chiamare. E di questa intuizione fanno un uso sapiente, spostando nell’universo delle armi le armi della sfera privata e personale: seduzione, capacita’ di recitare piu’ ruoli, appello agli affetti, fragilita’ esibita, impudenza calcolata, spesso la tattica del piccolo dono - un pezzo di pane bianco, una sigaretta - offerto al nemico in segno di pace. C’e’ precisamente questo raffinato gioco delle apparenze alla base degli episodi infinite volte narrati di donne che superano i posti di blocco con le loro sporte piene di volantini o munizioni - piene di politica e di guerra - esibendo i simboli della routine domestica o della femminilita’ inoffensiva.
A venire in primo piano e’ soprattutto il registro materno. Puo’ essere il maternage individuale o di massa che tutela le vite in pericolo. Puo’ essere il lavoro di cura indirizzato ai resistenti dall’interno e dall’esterno delle formazioni partigiane, o l’assistenza alle popolazioni promossa da gruppi femminili. Puo’ essere l’uso tattico dei simboli della maternita’, o il richiamo al suo carattere universale, in nome del quale si autolegittimano l’intervento presso tedeschi e fascisti per ottenere un rilascio o la rinuncia a una rappresaglia, ma anche la sfida, la riprovazione, lo scoppio di collera vendicativa in cui riaffiora il tradizionale diritto delle madri a insorgere in difesa della comunita’ (Bravo 1991).
E’ altrettanto importante guardare a organizzazioni come i Gruppi di difesa, sia per il loro programma di affermazione di diritti e opportunita’, sia perche’ una struttura politica interessata a rivendicare la titolarita’ delle iniziative femminili rappresentava gia’ un argine all’assorbimento delle donne nella famiglia e un tramite per valorizzare le iniziative sparse: nelle Direttive dei Gruppi del novembre 1944 che invitano alla mobilitazione per impedire la partenza dei treni destinati alla Germania, "liberare i soldati nelle caserme" e "nelle carceri i detenuti condannati alla deportazione", ci si richiama esplicitamente all’8 settembre come modello da seguire e come patrimonio femminile.
Nonostante la maggior attenzione di questi ultimi anni, lo stato della ricerca non permette una valutazione definitiva. Segnala piuttosto che e’ urgente mettere insieme una casistica piu’ ampia, senza rinunciare allo spartiacque dell’intenzione e della funzione antinazista ma valutando in quale modo fossero vissute dalle donne di allora; che’ e’ importante rendere visibili le rotture e le continuita’, le tradizioni di saperi femminili attivate nel faccia a faccia con la guerra, senza cedere alla mitizzazione del materno, ma senza dimenticare che si tratta di un fatto e di un simbolo troppo ricchi e complessi per prestarsi a un’interpretazione univoca.
Quanto al concetto di resistenza civile, pur avendo una storia in larga parte autonoma dal discorso di genere, ha gia’ dato molto, innanzitutto spostando alcune storie importanti dalla memoria privata a quella publica: la vicenda di M. S. e’ rimasta per tutti questi decenni affidata al ricordo della figlia; la diciottenne procacciatrice di lasciapassare non riteneva neppure di aver fatto la resistenza. Quel concetto resta percio’ uno dei riferimenti piu’ importanti, anche per la duttilita’ con cui si e’ aperto al confronto con gli studi delle donne, in particolare a proposito dell’azione individuale. Forse, e’ proprio da questo interscambio che possono venire gli insegnamenti piu’ limpidi per la coscienza contemporanea. E’ infatti attraverso la figura femminile, tradizionale simbolo della condizione inerme e della vocazione alla pace, che trovano il massimo di verosimiglianza l’idea che anche per gli indifesi e’ possibile opporsi, e la prospettiva di una lotta accessibile a molti piu’ soggetti, dalla madre di famiglia al prete al nonviolento, ma anche a chi ha un’eta’ anziana, o e’ infermo, magari fisicamente inetto. "Fai come me" e’ un invito che il resistente civile puo’ estendere enormemente al di la’ di quanto possa fare il partigiano in armi; e che appunto per questo testimonia come anche l’aspettare, non vedere, non "immischiarsi", sia stata una questione di scelte.
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Nota bibliografica
J. Semelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La Resistenza Civile in Europa. 1939-1943, Sonda, Torino 1993.
M. Alloisio, G. Beltrami, Volontarie della liberta’, Mazzotta, Milano 1981.
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B. Guidetti Serra, Compagne, Einaudi, Torino 1977.
M. Mafai, Pane nero, Mondadori, Milano 1987.
F. Pieroni Bortolotti, Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia-Romagna: 1943-1945, Vangelista, Milano 1978.
Archivio centrale Udi, I Gruppi di difesa della donna. 1943-1945, Ed. Archivio centrale Udi, Roma 1995 (presenta l’inventario e un’ampia scelta dei materiali 1943-’45 dei Gruppi).
A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Sorie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995.
L. Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1986.
G. Ferrandi, Una ricerca sulla "resistenza civile" in Trentino, in Atti del convegno La lotta non armata nella resistenza, Centro studi difesa civile, Roma, Quaderno n.1, 1994.
E. Galli Della Loggia, Una guerra "femminile?", in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991.
R. Absalom, La strana allenza: prigionieri alleati e contadini dopo l’8 settembre 1943, Firenze, Olschki 1991.
Commissione pari opportunita’ Massa-Carrara, A Piazza delle Erbe!, Provincia di Massa-Carrara 1994.
P. Gios, Dal soccorso ai prigionieri inglesi ai campi di sterminio, Associazione Volontari della liberta’, Padova 1987.
S. Laudi, Un giusto, in "Ha Keillah", 3, 1998.
A. Rossi-Doria, Le donne sulla scena politica, in Storia dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1994.
C. Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralita’ nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbruck, Einaudi, Torino 1978.
S. Lunadei, Donne a Roma 1943-1944, Cooperativa Libera stampa, Roma 1996.
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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino" (anno XII)
Numero 22 del 22 gennaio 2011
[Nuovamente riproponiamo il seguente saggio di Anna Bravo (che nuovamente ringraziamo per avercelo messo a disposizione) originariamente pubblicato come voce "Resistenza civile", in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, 2 voll., Einaudi, Torino 2000-2001]
LA MANIFESTAZIONE
L’urlo di piazza del Popolo
"Rispetto per le donne"
Grande partecipazione all’iniziativa ’Se non ora quando?’. Un grande striscione firmato dalle Donne del Sud: "non chiamatemi escort, sono una puttana. Non chiamatemi puttana, sono una schiava". Tanti i cartelli anti-Berlusconi: "Non contro Ruby ma contro i rubacuori’’ e ’Io, donna cattolica, dico basta: Berlusconi vai via’ *
Un boato ha scosso Piazza del Popolo. E’ stato "l’urlo dell’indignazione" come l’hanno chiamato le organizzatrici della manifestazione ’Se non ora quando?’. Un minuto di silenzio durante ha avvolto la piazza stipata all’inverosimile in un’atmosfera irreale. Al via dell’attrice Isabella Aragonese, da piazza del Popolo è partita l’incitazione a cui la piazza ha risposto "Adesso". Poi un enorme striscione lasciato scendere dalla terrazza del Pincio con la scritta: "Vogliamo un Paese che rispetti le donne" e l’urlo liberatorio delle decine di migliaia di persone, stipate in una piazza troppo piccola per contenerle tutte.
Un gruppo di giovani attrici, salite sul palco di piazza del Popolo a Roma, ha letto una serie di e-mail a sostegno della manifestazione. Lettere di donne contro "il modello unico", contro "la superficialità" e "perché le donne non sono stupide e hanno deciso di reagire a tante cose che hanno ferito la nostra sensibilità". Sono messaggi inviati da giovani, meno giovani, madri e precarie. Sul palco sono state invitate da Isabella Ragonese che presentandole ha ricordato che in Italia "la cultura è un po’ come le donne: molto forte, ma deve sempre combattere".
Domina la piazza un grande striscione firmato dalle Donne del Sud: "non chiamatemi escort, sono una puttana. Non chiamatemi puttana, sono una schiava". E proprio sotto lo striscione si sono alternate iniziative, la più partecipata delle quali è stato un coro gospel. Anche la musica scelta per animare la piazza, in attesa che sul palco comincino gli interventi, è all’insegna dell’orgoglio femminile: da Respect di Aretha Franklin a pezzi più recenti come quelli di Siouxsie and the Banshees.
Nella sovrastante piazza del Pincio, il flash mob è culminato con la comparsa del gigantesco striscione fucsia. Poi dal palco è stato chiesto un minuto e mezzo di silenzio, che la piazza ha rispettato rigorosamente. Al termine l’urlo liberatorio. Poi, dalla terrazza del Pincio, i manifestanti si sono diretti in corteo verso piazza del Popolo.
Intanto, dietro uno striscione con la scritta "Sul nostro corpo nessuna strumentalizzazione, diritti e welfare per tutte", un centinaio di donne ha sfilato per le strade del centro per "esprimere la loro solidarietà alle ’sex workers’ e per rivendicare i diritti delle donne". Le manifestanti, partite da piazza Barberini, hanno raggiunto il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, dove hanno "rispedito al mittente la legge 40, il collegato sul lavoro e la legge Tarsia", scritte su un pacco regalo. Le donne esponevano oggetti rossi come pailettes, ombrellini e magliette. Tra gli striscioni alcuni recitavano: "Cervelli in fuga dal bunga bunga", "No ricerca-no Viagra’, ’We want power not Berlusconi’, ’Non abbiamo Fede e neanche lo vogliamo’. "Non esiste divisione tra donne perbene e donne per male", hanno spiegato le manifestanti, le quali hanno raggiunto piazza del Popolo, per poi muoversi di nuovo in corteo verso Trastevere
Striscioni. La fantasia si è come al solito scatenata attingendo a piene mani dall’attualità. Così, ad esempio, c’è chi lega il caso Ruby alla rivolta in Egitto inalberando un cartello con scritto ’Silvio, riporta la nipote da Mubarak’, mentre in un altro si legge ’Io sono la nipote di... mio zio’.
Due grandi scope, una professionale da operatore ecologico e l’altra più domestica tengono teso uno striscione con la scritta ’Scopiamoli via’. Vicino un cartellone con la scritta ’Donna non contro Ruby ma contro i rubacuori’. Sempre sul tema altre scritte, come ’Io, donna cattolica, dico basta: Berlusconi vai via’, ’La dignità delle donne salverà il nostro Paese’, ’Sono una donna, non sono una Santa... nche.
Un Tricolore reca al centro sulla fascia bianca l’effige di un porcellino nella quale si può riconoscere una caricatura del premier, mentre sulle bande verde e rossa è scritto ’Questa non è la mia bandierà. Un altro cartello fa riferimento alla manifestazione organizzata ieri da Giuliano Ferrara direttore de ’Il Foglio’, in favore di Berlusconi: il giornalista ex ministro è ritratto a torso nudo con la scritta latina ’Mutatis mutandi’, e dal latino si passa alla lingua inglese con un cartello ’double facè che su un lato reca la scritta ’Women do it better’ (ovvero, ’le donne lo fanno meglio’) e sull’altro ’Kick him out’, cioè ’Cacciatelo’, dove il riferimento è ovviamente diretto al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Un coro spontaneo è partito della piazza poco prima dell’inizio della manifestazione. Le donne che riempiono piazza del Popolo hanno intonato l’Inno di Mameli. E con l’aumentare delle persone hanno fatto anche la loro comparsa altri cartelli e striscioni: "Fatti non fummo a viver come brute", "Basta!", "Altre idee di donne, altre idee di uomini per un’altra idea di Italia". Tanti i riferimenti a Silvio Berlusconi: "Per lui in amore l’età non costituisce legittimo impedimento", "Ancora con la clava, ancora nella giungla se le donne fanno un bunga bunga", "Berlusconi indegno, dimettiti!".
SOLIDARIETA’ CON LE DONNE
di don Aldo Antonelli
Cosa possiamo fare noi uomini, se non vergognarci e solidarizzare con loro, le donne?
Tra noi, i promotori e i fruitori di tanto degrado, attacchisce in maniera infestante l’uso delle donne che, nell’altra sponda, trova rispondenza in una minoranza disponibile!
Ecco il messaggio di solidarietà che ho inviato a tutte le donne che domani manifesteranno la loro ribellione.
Felice e triste giorno quello di oggi.
Triste perché è umiliante il fatto stesso di dover rivendicare quella dignità della donna che dovrebbe essere un prerequisito di ogni Paese che si voglia dire civile.
Felice perché nel silenzio omertoso della società distratta voi avete il coraggio di gridare la vostra rabbia e, insieme, la ripulsa contro una politica che fa strame di voi stesse, delle vostre bellezze, dei vostri corpi e della vostra dignità.
Purtroppo il modello maschile che ci viene mostrato dalla politica è triste ed è il terreno in cui crescono le violenze sulle donne.
Il mercante che ci governa e i mercenari che lo supportano continuano a bollare di moralismo questa vostra battaglia di rivendicazione di dignità.
Ma noi tutti sappiamo bene che non è tanto un problema di morale quanto, appunto, una questione di dignità. Quella dignità che non conosce chi compra e vende le persone, le usa e le getta, le ricatta e le concussa. Dignità del tutto estranea a chi, drogato dal potere e dall’avere, non conosce altro che la maschera di se stesso e i suoi cloni.
Questa di oggi non è una battaglia di partito, ma una battaglia di civiltà!
Aldo Antonelli
VITA DA STREGHE
di Giorgia Vezzoli *
Parlo nel tempo dell’umanità corrotta,
dell’infanzia violata e dei corpi artefatti.
Parlo nel tempo di chi elemosina le briciole di una quotidiana certezza,
come fiere che si divorano per la stessa pietanza,
e tacciono
per non essere cacciate dalla mensa del padrone.
Parlo nel tempo della coscienza infetta,
ammorbata dai veleni, dai mercati,
dalla disinformazione,
che ha perduto la capacità di discernere e che non sa distinguere
gli occhi che mentono da quelli che implorano.
Parlo nel tempo degli ubriachi,
di chi si fa denudare dei propri diritti, che furono un tempo
pretesi e combattuti.
Parlo nel tempo di chi non porge rispetto e non conosce memoria,
dove ogni tragedia della Terra è un monito
che grida il dolore di chi non c’è più.
Parlo di un tempo che non a me dovrà rendere conto
ma ai figli schiavi della propria menzogna,
a quelli mancati delle sue prossime generazioni
e a quelli ammazzati dal proprio silenzio.
*
Questa mattina mi sono alzato alle 5,30 ed ho pregato con questa poesia, salmo laico da un mondo laido (don Aldo Antonelli).
L’INIZIATIVA
La voce delle donne scende in piazza
"Per la dignità di tutte e tutti"
La manifestazione nazionale, nata dopo la vicenda Ruby che coinvolge il premier, è prevista per il 13 febbraio in 117 città. -Ha raggiunto oltre 50mila sottoscrizioni. A presentare l’iniziativa del comitato ’Se non ora quando?’ anche il segretario Cgil Camusso, la parlamentare Fli, Perina e la regista Comencini
di KATIA RICCARDI *
ROMA - C’è una linea sottile che separa moralismo e buon senso, mobilitazione e protesta, offesa e ferita. Che divide la libertà sessuale dalla prostituzione e dalla corruzione. Le donne camminano con grazia su questa linea rossa. Ne conoscono bene il confine, sanno gestire l’equilibrio. Non è dunque da una ferita che è nato il comitato ’Se non ora quando? 1’, ma da una presa di coscienza che durante la conferenza stampa sulla manifestazione nazionale, organizzata per il 13 febbraio in 117 città 2, la regista Francesca Comencini ha spiegato così: "Il nostro Paese è stato seppellito lentamente dalla neve. Una neve fatta di immagini e precedenti che ha lentamente sotterrato tutto, addormentato tutto. Lo ha fatto in silenzio, e ci ha portato a quanto oggi stiamo vivendo. Leggendo, subendo. Ci siamo ritrovate a casa mia una sera, donne diverse ma preoccupate nello stesso modo, per i nostri figli, per noi, per una totale mancanza di rispetto, per una mancanza di politiche per le donne, per un messaggio che sta passando e che è sbagliato. E ci siamo dette: come ci siamo trovate a questo punto? Quando è successo? Se non ora, quando cominciare a fare qualcosa per svegliarci?". E scuotere la neve.
SPECIALE Video-Audio 3 - Spot Comencini 4 "Dico basta" 5 - 90 FOTOGALLERIE 6 - VIDEOAPPELLI 7 *
Così è nato il comitato. Ha unito donne diverse, di diverse età, con lo scopo comune di non essere retoriche, di non passare per bacchettone, di mobilitarsi per intraprendere un cammino, e in grado di mantenere l’equilibrio cambiando il messaggio che imperversa nel regno. Che così fan tutte. Che c’è la sfera pubblica e quella privata, che il mondo è mondo e l’uomo è uomo. Che "meglio così che gay". Eppure c’è una differenza tra Berlusconi e berlusconismo. Tra maschio e maschilismo. Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, l’ha evidenziata nel suo intervento. "Da quando abbiamo cominciato a muoverci, il nostro messaggio è passato, si è espanso, allargato, ha preso forma. Si parla sempre delle ’ragazze’ eppure non si parla mai della domanda maschile per le ’ragazze’. E’ la base su cui si sorvola, quella che passa nell’indifferenza. Ma è come guardare il dito senza vedere la luna. Perché il messaggio che sta arrivando è proprio questo. Noi, adesso, abbiamo solo deciso di smettere di occuparci del dito. Ormai è evidente che se va bene, le donne sono oggetto di discussione, se va male sono direttamente l’oggetto. Se non ora quando, ma quando torneremo a un’Italia normale?".
Al tavolo erano sedute donne con storie diverse, ad unirle era il loro tono. L’impegno di una mobilitazione che avrebbero preferito non dover affrontare. Mentre l’Europa va avanti e ci guarda con stupore. Dopo anni di lotta, dopo più vecchie battaglie, le donne del comitato erano pronte a spiegare le basi di un pensiero perfino troppo ovvio per essere al riparo da nemici, spallucce e facili definizioni. Flavia Perina, parlamentare Fli e direttore del Secolo d’Italia, ha parlato da "donna di destra". "Sia chiaro, qui nessuna di noi fa parte di una stessa scuola di pensiero. Ci muoviamo oltre gli slogan, oltre le idee politiche. Ma il problema che ci circonda è politico, non morale. Qui sta iniziando a passare l’idea che la rappresentanza femminile nel mondo politico si sia fatta avanti attraverso wild party, balletti, sesso. Si avvicinano alla politica persone che non ne erano mai state interessate. Quello di cui un tempo era accusato il mondo dello spettacolo, ormai è una pratica diffusa, anche in campi dove non era così. Cade l’etica pubblica dietro un pesantissimo ’così fan tutte’. Ma non è così e così non deve essere", conclude.
Inutile spiegare che la manifestazione non è fatta per giudicare altre donne, non è contro altre donne, o per dividere le donne in buone e cattive. Come ha sostenuto invece oggi il sottosegretario al ministero della Salute Eugenia Roccella sul Giornale: "L’appuntamento in piazza del 13 febbraio rischia di essere una manifestazione di alcune donne contro altre donne", riproponendo quella divisione netta fra la donna "angelo del focolare" e la "prostituta" che proprio il femminismo degli anni ’70 rifiutava, rispolvera Roccella in un’inaspettata esegesi del movimento delle donne. La risposta è nei fatti. Oltre alle adesioni che sul sito della petizione 8 hanno raggiunto 51.500 firme in meno di una settimana, con 23 mila contatti al giorno sul blog e 15 mila nella pagina di Facebook, alla manifestazione hanno derito anche le "lucciole", perché vogliono "contaminare" la piazza con la loro partecipazione. Perché rifiutiamo la divisione patriarcale "tra donne per bene e donne per male". Ad annunciarlo è stata Pia Covre, storica leader del Movimento per i diritti civili delle prostitute: "Ci saremo - ha spiegato - perché non accettiamo che il nostro Paese sia trascinato nel fango da una classe politica che ci ha ridotti a una democrazia degenerata. Perché non accettiamo di essere usate, infangate e strumentalizzate per la restaurazione di una morale sessuale stantia che soffoca le aspirazioni e le libertà di ogni donna".
La mobilitazione è trasversale, raccoglie sensibilità e orientamenti diversi. E’ un invito a tutti gli uomini che non vogliono essere l’altra faccia di una stessa mediocre medaglia. Nicoletta Dentico, presidente di Filomena la rete delle donne 9, parla con enfasi, e ribadisce. "Questa manifestazione non è nata contro Berlusconi. Smettiamo di farci colonizzare la mente da quell’uomo. Noi ci rivolgiamo anche agli uomini, agli amici delle donne. Dove sono anche loro? La nostra piazza, la mobilitazione, non è così differente da quelle delle donne arabe, africane, maghrebine. Non ci illudiamo di stare meglio". Restiamo il secondo Paese, dopo Malta, con il maggior numero di disoccupate donne, i problemi vanno oltre le veline e i bunga bunga e se Arcore è servito a risvegliare un orgoglio preso da altre cose, non resta questa la sola minaccia. "Siamo donne fiere e orgogliose. Chiediamo dignità e rispetto per noi e per tutte. Per questo non ci devono essere simboli politici o sindacali nei nostri cortei", ha concluso Dentico, dopo gli interventi di Licia Conte, Titti Di Salvo, Francesca Izzo, Serena Sapegno, e l’attrice Lunetta Savino.
Tra i giornalisti presenti molti erano stranieri. Sono colpiti, rassicurati da un risveglio finalmente arrivato. Chiedono come facciamo, che in Svezia non è così, che in Inghilterra non sarebbe possibile, che negli Stati Uniti ci sono precedenti ben meno gravi. Eppure. "E’ difficile tenere la testa alta al Parlamento", dice Silvia Costa, parlamentare europea per il Pd. "Ma il fatto è che in altri paesi non si sarebbe neanche arrivati alla magistratura per capire che abbiamo superato un confine, importante, di etica pubblica". Un giornalista svedese chiede: "Perché tanta paura di essere accusate di moralismo? In fondo non ne farebbe male un po’".
* Per doc. e approfondimenti, clicca ->: la Repubblica, 08 febbraio 2011
SE NON ORA, QUANDO?
APPELLO ALLE DONNE ITALIANE A PARTECIPARE A UNA GIORNATA DI MOBILITAZIONE IL 13 FEBBRAIO *
In Italia la maggioranza delle donne lavora fuori o dentro casa, crea ricchezza, cerca un lavoro (e una su due non ci riesce), studia, si sacrifica per affermarsi nella professione che si e’ scelta, si prende cura delle relazioni affettive e familiari, occupandosi di figli, mariti, genitori anziani.
Tante sono impegnate nella vita pubblica, in tutti i partiti, nei sindacati, nelle imprese, nelle associazioni e nel volontariato allo scopo di rendere piu’ civile, piu’ ricca e accogliente la societa’ in cui vivono. Hanno considerazione e rispetto di se’, della liberta’ e della dignita’ femminile ottenute con il contributo di tante generazioni di donne che - va ricordato nel 150esimo dell’unita’ d’Italia - hanno costruito la nazione democratica.
Questa ricca e varia esperienza di vita e’ cancellata dalla ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale, offerta da giornali, televisioni, pubblicita’. E cio’ non e’ piu’ tollerabile.
Una cultura diffusa propone alle giovani generazioni di raggiungere mete scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici.
Questa mentalita’ e i comportamenti che ne derivano stanno inquinando la convivenza sociale e l’immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione. Cosi’, senza quasi rendercene conto, abbiamo superato la soglia della decenza.
Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignita’ delle donne e delle istituzioni. Chi vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose, lo faccia assumendosene la pesante responsabilita’, anche di fronte alla comunita’ internazionale.
Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignita’ e diciamo agli uomini: se non ora, quando? e’ il tempo di dimostrare amicizia verso le donne.
L’appuntamento e’ per il 13 febbraio in ogni grande citta’ italiana.
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Prime firmatarie: Rosellina Archinto, Gae Aulenti, Silvia Avallone, Maria Bonafede, Suor Eugenia Bonetti, Giulia Bongiorno, Margherita Buy, Susanna Camusso, Licia Colo’, Cristina Comencini, Silvia Costa, Titti Di Salvo, Emma Fattorini, Tiziana Ferrario, Angela Finocchiaro, Inge Feltrinelli, Anna Finocchiaro, Donata Francescato, Rosetta Loy, Laura Morante, Claudia Mori, Michela Murgia, Flavia Nardelli, Valeria Parrella, Flavia Perina, Marinella Perrone, Amanda Sandrelli, Lunetta Savino, Clara Sereni, Gabriella Stramaccione, Patrizia Toja, Livia Turco, Lorella Zanardo, Natalia Aspesi, Letizia Battaglia, Associazione Dinuovo...
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Per adesioni e informazioni: e-mail: mobilitazione.nazionale.donne@gmail.com ; sito:
http://senonoraquando13febbraio2011.wordpress.com/
SE NON ORA QUANDO?
DOMENICA 13 FEBBRAIO, ORE 14,30 - PIAZZA CASTELLO. *
Anche a Milano, come in molte altre città italiane, domenica 13 febbraio le donne scenderanno in piazza per rispondere all’appello nazionale “Se non ora quando?”, intorno al quale si stanno mobilitando in centinaia di migliaia in tutto il Paese.
A organizzare l’appuntamento milanese saremo ancora noi,le stesse promotrici della grande manifestazione di sabato 29 gennaio in Piazza della Scala, per dire con decisione che “Un’altra storia italiana è possibile”.
Dando continuità a quel primo momento di mobilitazione, ci ritroveremo alle 14,30 in Piazza Castello, ancora una volta con le sciarpe bianche,
Con noi in piazza ci saranno personalità del mondo della cultura, dello spettacolo e della società civile.
Per adesioni e informazioni: milano13febbraio@gmail.com
* UNIONE FEMMINILE NAZIONALE - MILANO
LA RIBELLIONE DELLE DONNE PER LA RINASCITA MORALE E CIVILE DELL’ITALIA
Ordine del giorno approvato al Comitato direttivo nazionale della FLC CGIL il 25/26 gennaio 2011 *
Noi donne della FLC CGIL, insegnanti e ricercatrici della scuola e dell’università, dirigenti scolastiche, educatrici e operatrici dei settori formativi, vogliamo ribellarci al degrado morale, politico, istituzionale e culturale in cui sta cadendo il nostro paese. Il Presidente del Consiglio è il massimo responsabile di questa situazione con i suoi comportamenti da padrone assoluto che compra persino la dignità delle persone.
Le donne, specie se sole, straniere e senza appoggio, sono le vittime di questi comportamenti. Nessuna solidarietà né politiche di inclusione, ma, come è tipico di padroni e satrapi, "concessioni e regalie" in cambio di umilianti servizi. Donne che finiscono con l’apparire un prodotto culturale del berlusconismo e somiglianti al presunto utilizzatore finale, tanto sono plagiate e smarrite.
Diciamo a queste donne che non c’è generosità nei comportamenti del Presidente del Consiglio verso di loro, né sentimenti né ammirazione, ma solo violenza e ricatto, arroganza del denaro e del potere.
Nell’Italia reale noi donne studiamo, aspiriamo ad avere un impiego e se lavoriamo lo facciamo con impegno, serietà, professionalità e competenza portando avanti lavoro, famiglia e il pesante fardello, scaricato sulle nostre spalle dalla crisi sociale ed economica. Nell’Italia reale la metà di noi ha smesso di cercare lavoro perché la politica fallimentare di questo governo ci ha sbattuto la porta in faccia, togliendoci persino la speranza. Nell’Italia reale le famiglie sono sole.
Questa società controlla le persone e soprattutto le donne attraverso il loro corpo, "introiettando" un prototipo di perfezione fisica come unico mezzo per ottenere il successo, sostiene Foucault. Noi donne della Conoscenza ci ribelliamo a questo sfruttamento continuo dell’immagine e del corpo femminile che si può vendere e acquistare per soddisfare i capricci del potente di turno e del continuo dileggio delle nostre persone.
Noi lavoratrici e lavoratori dell’educazione, della ricerca e dell’istruzione siamo impegnati tutti i giorni nello sforzo di formare cittadini liberi, rispettosi della dignità dell’altro, di far passare valori etici e civili nello spirito della Costituzione, principi di solidarietà ed eguaglianza nello spirito della dichiarazione dei diritti dell’uomo e delle donne per costruire un mondo di pari opportunità, di pace e di civiltà. Per dare un futuro migliore ai giovani e una speranza al Paese.
I principi di onestà e decoro richiamati dalla Costituzione sono il fondamento del nostro lavoro di educatrici e di lavoratrici. Ma sono ignorati dal Presidente del Consiglio che offre ai giovani un pessimo esempio illudendoli che si possa migliorare la propria condizione senza studio e lavoro, ma trovandosi un potente da compiacere.
Il Presidente del Consiglio deve dimettersi per indegnità morale e per liberare il paese da una guida imbarazzante. L’Italia merita di recuperare la credibilità e la dignità che la sua storia e la sua cultura le hanno consegnato.
L’Italia, patria di grandi educatori ed educatrici come Maria Montessori, deve mandare a casa questo
* FLC CGIL
“il sogno tradito delle donne partigiane”
di Liliana Cavani (la Repubblica, 7 febbraio 2011)
Quando ho fatto il documentario "La donna della Resistenza" (1965) intervistando varie partigiane ho scoperto con sorpresa che avevano combattuto (fisicamente) per un mondo dove la donna avesse avuto emancipazione. Erano contadine, operaie, intellettuali (ricordo Ada Gobetti) e ciascuna con le sue parole mi disse che aveva rischiato la vita per una "palingenesi" sociale (ricordo questa frase) che prevedeva il riconoscimento della parità della donna. Una sopravvissuta a Dachau e un’altra ad Auschwitz mi dissero che durante la guerra erano persuase che il loro sacrificio avrebbe contribuito a dare uno scossone alla vecchia cultura. E in effetti le donne ottennero nel dopoguerra il diritto al voto (in Svezia lo ottennero 40 anni prima). Ma la vera rivoluzione culturale che le donne antifasciste speravano di ottenere non avvenne mai neanche col Sessantotto anche se di certo aprì molte teste.
Del resto la storia della donna Italiana salvo punte rarissime (spesso a merito dei Radicali) è tra le meno emancipate del mondo occidentale. La cosa che mi stupisce è che questo accada in un Paese che ha un grande e popolare culto di Maria (vergine), una ragazza di duemila anni fa che con il suo FIAT ha affrontato con coraggio l’avventura culturale e spirituale più spericolata che si possa immaginare.
Oggi la fonte comunicativa più influente sul costume è quella dei media, specialmente tv e Cinema. Ebbene a mio parere i media oggi propagano (consci o meno) per gran parte il Regresso in atto nel Paese. La famosa frase "la donna sta seduta sulla sua ricchezza" è propalata in tutto il suo significato nei programmi tv e nel Cinema più popolare. Vale a dire che con la testa la donna non ci fa nulla, non va da nessuna parte, in nessun Consiglio di Amministrazione, in nessuna posizione dove sia necessaria preparazione e intelligenza.
Come può accadere tutto questo in un Paese che in percentuale è il più cristiano d’Europa, che non ha mai avuto un governo comunista (vale a dire materialista) ma ha avuto una scuola con le ore di religione? Sta di fatto che accade e fra le cause penso alla cultura-maschia del Ventennio che ha pervaso la generazione dei nostri nonni e si è trasmessa ai nostri padri per cui la donna (se non è tua madre tua figlia o sorella) è in primis oggetto di piacere. Oggetto che si prende o si compra e ci si vanta.
E l’uomo è uomo soprattutto se si fa donne gratis o pagate che sia. E la donna è donna se per cultura e costume considera la seduzione il mezzo più diretto per essere presa in considerazione e per trovare orizzonti di carriera. Questa cultura-maschia di marca fascista connessa alla tradizione paternalistica plurimillenaria è la cultura corrente. E a causa di queste ragioni così radicate non deve stupirci (e infatti molti italiani non si stupiscono) se chi ha la più alta carica del Governo fa i comodi suoi. "Beato lui!" diceva un intervistato dalla tv. Ma l’Italia non è un Paese sperduto oltre le valli del Pamir.
Siamo un Paese inserito in un Occidente che dalla rivoluzione francese in poi ha preteso dai suoi rappresentanti o regnanti comportamenti di probità in linea con quello che gli Stati si aspettano dai cittadini. Il rispetto massimo della dignità della donna è tra i requisiti. Nell’Occidente dove in media la cultura è laica il costume è politica. E cultura laica significa pari diritti uomo e donna.
Di conseguenza se non è neanche pensabile avere una specie di harem da cittadino lo è ancora di meno per la più alta carica politica. Il fatto che il consenso al premier a quanto pare sia sempre alto è il sintomo del nostro Regresso con tutte le vecchie porcherie che si porta dietro. È in atto un furto di Progresso. Hanno ragione le donne democratiche che per la prossima manifestazione hanno in mente una maglietta con scritto "Mi riprendo il mio Futuro". Un Futuro che è stato interrotto.
Donne: 13 febbraio mobilitazione nazionale
Una mobilitazione in tutte le città italiane domenica 13 febbraio per ridare dignità alle donne: se non ora quando? L’iniziativa più politicamente trasversale non si potrebbe perché quello che emerge dalle carte dei pm della Procura di Milano sul caso Ruby, "un modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni. Chi vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose, lo faccia assumendosene la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità internazionale".
Ci sono tra le altre, le firme di Francesca e Cristina Comencini, Rosellina Archinto, Gae Aulenti, delle scrittrici Silvia Avallone e Michela Murgia, Lorella Zanardo e Rosetta Loy, Clara Sereni e Valeria Parrella, l’on. Pdl Giulia Bongiorno e del Pd Anna Finocchiaro, il segretario della Cgil Susanna Camusso, l’editrice Inge Feltrinelli, il direttore del Secolo d’Italia Flavia Perina, le attrici Margherita Buy, Angela Finocchiaro, Laura Morante, Lunetta Savino, Maria Bonafede della chiesa Valdese e Suor Eugenia Bonetti, Licia Colò, Claudia Mori.
La mobilitazione, che è partita oggi (per le adesioni e informazioni l’indirizzo mail è mobilitazione.nazionale.donne@gmail.com) nasce dalla consapevolezza che in Italia la maggioranza delle donne lavora fuori o dentro casa, crea ricchezza, cerca un lavoro (e una su due non ci riesce), studia, si prende cura delle relazioni affettive e familiari, scrivono le firmatarie.
per le adesioni e informazioni l’indirizzo mail è
mobilitazione.nazionale.donne@gmail.com
La ribellione degli uomini
di Gad Lerner (la Repubblica, 2 febbraio 2011)
Il maschio italiano schierato con le donne che si ribellano all’offesa della loro dignità? Tale è la sfida allo stereotipo del vitellone nazionale, da esporlo come minimo a sospetti e ironie. Il furbacchione si trincera dietro alle suore e alle femministe solo ora che c’è di mezzo Berlusconi, altrimenti... È roso dall’invidia per il maturo dongiovanni; si ricicla bacchettone dopo aver predicato la libertà sessuale; spia dal buco della serratura il bottino che mai riuscì a procacciarsi, traduce la frustrazione in moralismo. E avanti di questo passo: quasi dovessimo coprirci di ridicolo, noi uomini, per solidarizzare con le nostre concittadine in un paese noto ormai come il più misogino dell’occidente. Afflitto non a caso dal più alto tasso europeo d’inattività femminile (una donna su due non trova o non cerca lavoro, dato Istat 2009). Per non parlare della loro emarginazione dal potere politico.
Scatta poi un istinto atavico, più nel profondo del maschio intimidito e attratto dall’esuberanza femminile. Se quelle ragazze si offrono al desiderio del potente per trarne vantaggi, non sarà la loro una sottomissione finta? Le fameliche "lupe di Arcore" (copyright di Francesco Merlo) meritano forse di essere considerate vittime, o ha ragione piuttosto chi le addita al pubblico ludibrio come "veline ingrate"? Così i cd di Mariano Apicella imbottiti di banconote da cinquecento euro, al termine dei festini di Arcore, incoraggiano un vile rovesciamento di responsabilità, addossando alla spregiudicatezza femminile - "lei ci stava, vostro onore, trattasi di donna dai facili costumi!" - il marchio della colpa. Un falso alibi che però funziona da millenni.
Forse è venuto il momento di riconoscere che anche il maschio italiano sta subendo nella sua identità sessuale i contraccolpi della pornocrazia, divenuta caratteristica pubblica di una classe dirigente di puttanieri. Non a caso il disagio è avvertibile particolarmente fra i giovani maschi che vivono la delicata scoperta dell’eros in un contesto culturale stravolto da una tale inedita ostentazione del mercimonio. È soprattutto fra loro che si affaccia con timidezza la presa di distanze: io non vivo così il mio bisogno di relazione amorosa; desidero un altro tipo d’incontro con le mie coetanee.
Che idea dell’amore può suggerire ai giovani maschi italiani la notizia di quelle cene in cui tre settantenni, resi interessanti solo dal loro status, si trastullano con venticinque ragazze di mezzo secolo più giovani di loro? A tutti, nell’adolescenza, sarà capitata la fantasia di fare l’amore con le bellezze viste in televisione. Ma poi subentra una fase più matura, la fatica della scoperta individuale della femminilità. Contraddetta dalla visione di questa sessualità immatura per cui il potente si ricostruisce in casa, scimmiottando per capriccio lo spettacolino televisivo, la fantasia adolescenziale del dominio maschile esercitato grazie alla forza del denaro. È la trasposizione privata, ma esibita pubblicamente come credenziale di prestigio, di un’ossessione che serializza il corpo femminile plastificato.
Bambole di carne precocemente rifatte per somigliarsi tutte e corrispondere a un gusto che si distanzia dall’autenticità femminile fino a precipitare nella parodia. Altro che libertà sessuale. È la stessa bellezza dell’amore, la ricerca del piacere nella reciprocità, a subire un attentato. Tanto da provocare nei maschi frustrazione, caduta del desiderio, pulsioni sopraffattrici, mortificazione dell’eros nella virtualità del porno.
Solo in questo senso possiamo riconoscere che siamo vittime anche noi dell’offesa alla dignità della donna. Certo ha ragione suor Rita Giaretta di Caserta quando denuncia la legittimazione giunta dai vertici del potere istituzionale alla schiavitù della vendita del corpo (non solo, ma principalmente femminile) fino ai gradini più bassi della scala sociale. E s’indigna, suor Rita, per il cinismo con cui la parte maschile della nostra società sembra accettarla come norma. Ma proprio perché tale abitudine è cementata da una cultura popolare di massa di cui le televisioni di Berlusconi sono da decenni le volgari battistrada - e di cui le sue abitudini private rappresentano la caricatura parossistica - anche la reazione può e deve essere femminile e maschile insieme.
Ben lungi dalla sessuofobia, la rivolta femminile coinvolge gli uomini in un progetto di dignità comune che è la base della civiltà. Il partito dell’amore è stata la più beffarda truffa politica del premier indagato per favoreggiamento della prostituzione minorile. Ma la faticosa costruzione dell’amore, come ci ricordano pure i nostri più bravi cantautori, è l’intima fatica per cui vale la pena di vivere.
«L’omelia con l’Unità per riflettere sul degrado»
di Toni Jop (l’Unità, 3 febbraio 2011)
Scandalo! Il prete ha letto l’Unita’in chiesa! Dagli al prete “comunista” che dal pulpito dichiara di essere d’accordo con quella comunista di Concita De Gregorio, prete spudorato, prete politicizzato. Come le toghe? Basta non essere d’accordo col premier del bunga bunga, denunciarne la triste abitudine di monetizzare le donne per essere comunisti?
Il ciclone è partito da Mogliano, anzi meno, dalla chiesa di una piccola frazione di questo centro schiacciato con qualche mollezza nella pianura padana a pochissimi chilometri da Venezia. Campanili e nebbia, governo leghista. Qui, raccontava un giornale locale, don Giorgio Morlin avrebbe letto questo quotidiano - l’Unita - nella sua chiesa, domenica scorsa e poi avrebbe distribuito stralci dell’appello del direttore alle donne perché tengano alta la dignità che Berlusconi sta provvedendo a radere al suolo.
Una fedele non l’avrebbe presa bene e si sarebbe chiesta stupefatta: ma siamo in chiesa oppure ad un comizio? Segue coda sterminata di commenti, di prese di posizione, qualche insulto, molti apprezzamenti, il tutto a pioggia in mille blog che hanno trovato pane per i loro denti.
Ma com’è andata? Ecco don Giorgio, il temerario che ha disturbato i sonni di una terra qui e la perbenista e codina, ha la sua età, sopra i settanta, parroco da quaranta, lungo corso: «Ma chi ha scritto che avrei letto l’ Unita’in chiesa?»,
Perché, non è vero?
«No che non è vero, ho semplicemente detto che ero d’accordo con quel che scriveva in quell’editoriale la vostra direttrice, mi sembrava e mi sembra bello, davvero, importante, l’ho comunicato ai fedeli perché mi pare che dobbiamo mettere assieme forze e intelligenze per combattere una morale che massacra le donne e di conseguenza anche gli uomini anche se non se ne accorgono».
Ma ha distribuito brandelli di quell’intervento fuori dalla chiesa?
«Sì, e non è la prima volta che lo faccio, è utile, è mio costume».
Lo sa che la accusano di essere comunista?
«Ma va là, non mi piace tutto questo clamore, non me lo aspettavo, non so nemmeno chi lo ha innescato, io no di sicuro, forse quella falsità sulla lettura dell’Unità in chiesa. Io sono un prete, un prete che appartiene alla sua Chiesa, nient’altro, altro che prete rosso... Su questa vicenda si è espresso anche Bagnasco, io ho seguito la sua pista, magari rendendola più concreta, sa io sono parroco, mica vescovo».
Giusto, ma andiamo avanti: qualcuno le ha telefonato, scritto o altro?
«Guardi, la Curia non mi ha detto proprio nulla, tanta gente mi ha chiamato per darmi solidarietà. Ho detto grazie, ma è il paese che ne ha bisogno...».
Sì, ma il sindaco qui a Mogliano è leghista, l’avrà visto, incontrato...
«Ecco, sì mi ha detto più o meno così “Giudicherà la popolazione sui suoi interventi”. Criptico, no?».
Non c’è male. On line il fiume dei commenti non è così criptico, anzi, o di qua o di là e con grande
slancio. Così, una delle battute più cliccate e più decise
in favore di don Giorgio viene proprio da un
altro prete, Franco Barbero, sentite: «Quello che ha fatto don Giorgio non è solo cosa buona ma
anche doverosa e davvero non sono accettabili le censure che stanno piovendo sulla sua testa...»,
ma la Chiesa non è così esplicita nella condanna di questa giostra che umilia le donne... «La Chiesa
gerarchica è ipocrita, pecca di ipocrisia diplomatica; c’è poi la Chiesa reale, quella che tiene
assieme tanti vescovi, preti, parroci, fedeli; un doppio versante sempre acceso. Ma questo ora conta
meno del fatto che noi tutti uomini e donne abbiamo bisogno disperato della dignità delle donne,
questo va affermato, questa sarà la mia Messa. Vede, io sono felice di essere prete che non ha
reddito, semino dignità e libertà. Viva Don Giorgio e viva le donne».
Don Barbero condivide la
gioia della comunità di base di Pinerolo. Che bellissima chiesa.
Preparare il domani
di Concita De Gregorio *
Come funamboli, camminiamo in bilico sul baratro. Applaudiamo le urla sguaiate, collezioniamo sconcezze come fossero figurine dell’album, salutiamo da lontano l’amico Mubarak asserragliato nel castello, osserviamo più da vicino la foto che mostra l’uomo alla guida del paese mostrare a dieci fanciulle le sue doti meccaniche, anche quelle un acquisto. Involgarita, impoverita, svillaneggiata e dal resto del mondo irrisa l’Italia confida nella saggezza di un vecchio presidente, ultimo garante di un tempo ormai sbiadito, quello delle regole e dell’onore, della dignità e del dovere. Il tempo in cui le donne, da sole, vedove di guerra o “vedove bianche” di uomini ingoiati dalla fatica e dal lavoro crescevano quattro, sette, dieci figli e li mandavano a scuola, insegnavano loro ad aiutarsi a vicenda e a cavarsela da soli, la responsabilità, l’impegno, la fatica. Sono ancora qui quelle donne, sono qui i loro figli ormai adulti, padri a loro volta. Non hanno tempo per la politica, o ne hanno disprezzo.
Pensano che passerà. Qualcuno, indebolito dalla chimera costante della fortuna del bingo, della corruzione e della furbizia, ha ceduto alla tentazione. Non sarà per sempre però. È un’illusione, e sarà duro il risveglio. Durissimo per tutti. È a loro che ci dobbiamo rivolgere. Non a chi già sa: a chi non ha potuto o voluto sentire. Alle ragazze che si prostituiscono per comprare il fuoristrada dobbiamo spiegare che possono, certo, se vogliono, ma che c’è anche un altro modo per vivere. Un modo che consente di lavorare anche a 40, a 50 e a 60 anni, quando non ci sarà più nessuno a chieder loro di ballare. Dobbiamo mostrarglielo, dobbiamo pretendere un governo che lo mostri e che lo renda possibile. Che renda giustizia a chi “preferisce di no”, come preferirono di no alcuni grandi uomini e donne in passato. Dobbiamo parlare ai chi pensa non mi riguarda, a chi dice meglio un uomo oggi che una gallina domani: dobbiamo preparare il domani, invece. Dobbiamo farlo per i bambini che oggi hanno dieci anni e di cui vogliamo vedere crescere i figli qui, in Italia, non vogliamo essere orfani dei nostri nipoti. Svendere il nostro paese a chi ha più denaro per comprarlo.
Dobbiamo, ciascuno come può, con i mezzi che ha, fare la nostra parte perché sia smascherato il tranello così efficace della propaganda che dice siete tutti uguali, siamo tutti uguali. Che riduce il pensiero ad opposte fazioni e depotenzia le parole mettendoci sopra, prima di ascoltarle, le etichette. Quelli che strillano che se un articolo de l’Unità viene letto in chiesa, in dieci cento chiese, sono i preti da cacciare: non si chiedono cosa dicono, quelle parole, non le ascoltano. Dobbiamo tornare a farci ascoltare da tutti, ed esultare ogni volta che una persona distratta o lontana da noi, anche solo una, ricomincerà ad esercitare la virtù del dubbio. Dubitare anche noi. Tornare a vivere in un paese in cui il confronto e lo scontro di idee, di proposte, di progetti e di programmi sia tale per cui ciascuno possa convincere della bontà dei suoi temi l’altro, cambiare idea se del caso, uscire dalle trincee in cui vogliono che restiamo asserragliati, indiani contro cow boy. Capire, ascoltare, parlare, ascoltare di nuovo. Il paese, l’altra Italia - quella che non passa in tv - vuole questo, ci chiede questo. Facciamolo. Le donne e gli uomini, nelle piazze e nelle case, dovunque possiamo.
* l’Unità, 4 febbraio 2011
La vera libertà supera i rischi del moralismo
di Emma Fattorini (Corriere della Sera, 7 febbraio 2011)
Tante amiche che stimo hanno contestato la proposta di esprimere pubblicamente il proprio sdegno. Le argomentazioni più pertinenti le hanno espresse sul sito femminista donnaltri.it. Due sono critiche circostanziate e condivisibili, quella di moralismo e di strumentalizzazione. Mentre altre due obiezioni mi lasciano alquanto perplessa e riguardano la natura della prostituzione e il concetto di libertà femminile della donna che offre il suo corpo. Sulla strumentalizzazione solo poche parole.
La furia che vede in Berlusconi il male assoluto - mentre, purtroppo è la massima espressione di un clima generale -, nasconde i limiti di una certa opposizione che non riesce a scalzarlo politicamente e si nasconde, letteralmente, dietro le toghe o le sottane dei magistrati, della Chiesa e, ora, delle donne. Usando la Chiesa e le donne di chiesa, mai altrimenti prese in considerazione, sempre ignorate e che rispuntano, invece, come risorse al momento del bisogno. E qui non ci sarebbe niente di nuovo se non fosse che anche e proprio una simile strumentale miopia ci ha portati a questo punto.
L’accusa di moralismo va presa molto sul serio: non solo perché è profondamente sbagliato dividere le donne «perbene» da quelle «permale» , - contravvenendo al principio di fondo del femminismo sulla libertà del soggetto femminile - ma perché qui il pensiero di alcune donne, fatto in libertà, sine glossa, coglie un punto che riguarda tutti e tutte. Il moralismo è stato ed è veramente il peccato mortale e la causa reale dell’esaurirsi progressivo di quella parte della cultura di opposizione che si è consumata internamente proprio consolandosi con il moralismo. Un vero e proprio surrogato di quella che un tempo era una vera diversità morale, il moralismo è stato innalzato a vessillo mentre, in un lento processo di metabolizzazione, una certa opposizione ha finito con l’interiorizzare, anche inconsapevolmente, gli stessi modelli che demonizzava.
Molti contribuiscono a fare, del moralismo, quello spirito del tempo, speculare e incongruo all’assoluta decadenza morale. Certo un male minore, rispetto al degrado attuale, ma che, come tutte le emozioni e i sentimenti non autentici, è insinuante perché mitridatizza, assuefa e si limita a ri-pulire le coscienze. Ma, così come prendere sul serio i danni del moralismo consente di porci il problema morale, altrettanto prendere sul serio la libertà ci permette di distinguerla dal libertinismo. Questo è veramente il punto in discussione: la libertà del soggetto femminile.
Intangibile è la libertà di scegliere il bene e il male, quella che ci fa essere uomini e donne. Lì sta la nostra origine, lì la nostra caduta, lì, in quella scelta, la nostra irriducibile libertà. E cosa c’è di diverso per le donne? Quale è, secondo loro, la scelta «giusta» ? E, ancora, come fare a tradurre le scelte morali che cambiano nel tempo? Accettarle per come sono, solo perché esprimono un cambiamento della soggettività femminile? E, altrimenti, come fa una donna a capire cosa è male o non è più male? O, addirittura, come dicono alcune: «A noi non interessa questa domanda perché la scelta morale si risolve e si esaurisce tutta nella libera e soggettiva scelta femminile consapevole»? Non sono assolutamente d’accordo con questo ragionamento, né teoricamente né sul piano pratico.
Non sono d’accordo con questo «indifferentismo». Intanto perché la «scelta» (?) di prostituire il proprio corpo non avviene mai nel vuoto pneumatico della soggettività. Non solo, ovviamente, per la moltitudine di disgraziate che fuggono dall’inferno dei mondi disperati ma anche e non di meno per quella zona grigia, sempre più in crescita, di prostituzione «consapevole» che coinvolge proprio la soggettività femminile.
Non basta dire che è un affare degli uomini e delle loro miserie il fatto che le donne si offrano chi per arrotondare, chi per migliore il proprio status, chi per comprarsi la borsa Prada, chi per aiutare i maschi di famiglia, padri, fratelli, cognati, secondo una antica tradizione italiana (i primi appassionati amplessi della innamoratissima Claretta Petacci erano associati a suppliche per favorire gli uomini di famiglia, mentre la favorita contemporanea chiede un avanzamento di carriera politica per se stessa.) Non si tratta di colpe morali ma di capire le novità: non più solo quelle relative alle polimorfe forme della sessualità maschile, insieme compulsive e mai coinvolte nella relazione. Ma occorre vedere anche l’orgogliosa disinvoltura con la quale sempre più donne non si limitano a «lavorare con il corpo» ma lo considerino una vera e propria fortuna, un miraggio.
Cambiano solo le forme della perenne accoppiata sesso e potere o c’è qualcosa di nuovo? E, infine, non «giudicare» la prostituzione deve significare che quello è davvero un «lavoro» come un altro? Da tempo le donne discutono di tutto ciò e certo dobbiamo continuare a farlo coinvolgendo gli uomini.
Ma quando ho sentito alcuni studenti, nel liceo di mio figlio, discutere sulla inutilità che quella loro compagna, così bella, dalle gambe così lunghe, continuasse a studiare greco, e li ho sentiti ragionare sullo «spreco» di quelle loro compagne - quasi sempre molto carine e molto più brave di loro -ad «andare così bene a scuola» ho pensato che non fosse sbagliato firmare quell’appello dai rischi moralistici.
E quando una mia laureanda, bellissima anche secondo i canoni estetici di Arcore, la quale si consuma sulle ricerche d’archivio, con una prospettiva del tutto incerta, mi ha chiesto quale sia la vera libertà per la donna, io le ho risposto che non tutte le scelte sono uguali. Perché penso di avere, senza alcuna spocchia di superiorità, ma molto semplicemente, il dovere di testimoniare una strada concreta alle mie studentesse. «Le disgraziate si sono vendute per una lira, per un grembial» recitavano le dolenti parole dei canti del primo socialismo, «né puttane né madonne, solo donne» gridavano le femministe negli anni Settanta. E ora? Cosa diciamo ora ai nostri figli e alle nostre studentesse?
Le donne dicono basta. Se non ora, quando?
di Michela Marzano (la Repubblica, 31.01.2011)
Bella immagine dell’Italia! Per chi sembrava ossessionato dall’idea che ci si poteva fare all’estero del nostro Paese, accusando alcuni intellettuali di "tradire l’Italia" con i propri libri e i propri articoli, il risultato è eccellente. Perché ovunque, ormai, non si parla d’altro che delle serate "bunga-bunga" del nostro premier. Di Ruby e di Iris. Di seni e di raccomandazioni. Di prostitute minorenni "ricoperte d’oro" per tenere la bocca chiusa... Bella immagine della donna. Ma anche dell’Italia, che per anni ha chiuso gli occhi di fronte al baratro in cui le donne stavano precipitando. Perché ormai non si tratta nemmeno più della semplice trasformazione della donna in un corpo-immagine, ma della sua progressiva e inevitabile riduzione ad un corpo "usa e getta". Ormai ci siamo. Di nuovo impigliati nelle patetiche reti degli Arcana Imperii: segreti, corruzione, orge. Forse è per questo che non si può più restare zitti, e che nei prossimi giorni ci saranno numerosi appuntamenti per dire "basta". Basta, lo diranno tra gli altri Eco, Saviano e Zagrebelsky il 5 febbraio a Milano, durante la manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia. Basta, lo ripeterà il giorno dopo il Popolo Viola. Basta, lo dirà la Procura di Milano, lo scandiranno tantissime donne, in tutte le città italiane, il 13 febbraio... Il re è ormai nudo. Se non scendiamo in piazza ora per difendere dignità, uguaglianza e rispetto, quando?
Negli ultimi anni, sembra di aver assistito ad un film X senza fine. Un interminabile film pornografico in cui tutto si riduce a "ripetizione", "performance" e "accumulazione". In cui uomini e donne sono perfettamente complementari: attività e passività; potere e disponibilità. In cui si moltiplicano le scene dove "i maschi si accaniscono su un pezzo di carne femminile", per usare le parole di John B. Root, il celebre produttore francese di film X, quando descrive la propria "opera". In cui "una vale l’altra", l’una "scaccia" l’altra, e nessuna, in fondo, conta granché. Perché sono solo gingilli intercambiabili. E quando qualcuna non serve più, c’è subito una new entry. Peccato, però, che non si tratti di una semplice fiction. Peccato che sia la fotografia, questa volta non ritoccata dal nostro premier, dell’Italia di oggi...
Ed è inutile che qualche moralista da strapazzo commenti cinicamente che tutto ciò non è altro che il risultato della liberazione sessuale, la conseguenza inevitabile dell’io sono mia. Perché quando le donne si sono battute per rivendicare la libertà di disposizione del proprio corpo, lo scopo era quello di riappropriarsi del proprio destino, di diventare attrici della propria vita, di evitare che altri decidessero al posto loro come vivere, cosa fare, come comportarsi. Ma affinché la libertà non resti solo un valore astratto e non si trasformi, col tempo, in una nuova forma di "servitù volontaria", come spiegava già nel XVI secolo il filosofo francese Etienne de La Boétie, è necessario organizzare le condizioni adatte al suo esercizio, prima tra le quali l’uguaglianza. Se le donne non hanno gli stessi diritti che hanno gli uomini e se non hanno la possibilità materiale di farli valere, automaticamente non possono essere libere di scegliere ciò che vogliono o di realizzare ciò che desiderano. Che libertà esiste allora in un paese che tratta le donne come merce, che le umilia quando si ribellano, che le "ricopre d’oro" quando si prostituiscono ancora minorenni perché tacciano?
Dal "sii bella e stai zitta" siamo arrivati al "venditi e taci": dimenticati di essere una persona, spogliati, fammi gioire ed io farò di te una donna ricca e famosa! Se fai la brava, potresti anche ottenere un seggio in parlamento... Non c’è bisogno di essere filosofi per rendersi conto del ricatto. Per capire quanto disprezzo circonda oggi la donna. Come se, nonostante tutte le battaglie fatte nel corso degli anni Sessanta e Settanta per garantire alla donna uguaglianza e dignità, per liberarla dal giogo millenario della sottomissione e dell’inferiorità, la donna non potesse essere altro che un oggetto di cui l’uomo deve poter disporre a piacimento. "Tutto" è semplice. "Tutto" va da sé. Inutile perdere tempo con ridicole manfrine...
Quello che ognuno di noi fa nella propria camera da letto, col proprio uomo o con la propria donna, non riguarda nessuno. Ma quando la sessualità diventa una tangente, quando si utilizza il proprio potere per fare della donna un giocattolo, quando si pensa di farla franca perché in fondo le donne non contano niente... allora è in atto un processo di disintegrazione della società. Perché, per parafrasare Albert Camus, il valore di una società dipende anche da come vengono trattate le donne. Dall’immagine che se ne ha. Dal margine di manovra di cui dispongono. Come giudicare allora un paese in cui, trattando la donna come una semplice merce, vengono umiliare tutte coloro che si battono quotidianamente per difendere la propria dignità, per acquisire le competenze necessarie per ottenere posti di responsabilità, per mostrare che sono efficienti e affidabili? "Più è disperata meglio è, per lui", avrebbe detto Nicole Minetti, oggi indagata con il premier per induzione alla pornografia. Bella lezione di civiltà per le nostre giovani!
Ma ormai il tempo del silenzio è finito. Perché le donne che si indignano sono sempre più numerose e vogliono farlo sapere. E molte si stanno mobilizzando per la manifestazione del 13 febbraio in tutte le città italiane. Le organizzatrici hanno d’altronde ragione: se non ora, quando? Nonostante le intimidazioni. Nonostante le derisioni. "È tutta colpa della gnocca", sproloquiava Il Giornale qualche mese fa. "Scusi in che senso?" chiedevo a Feltri recentemente durante una puntata dell’Infedele. Ma l’Italia di oggi è ancora questo. Cambiare le carte in tavola. Far passare gli aguzzini per le vittime. Colpevolizzare di nuovo, e sempre, le donne. Dopo aver rubato loro l’anima. Dopo averle ridotte a "corpi usa e getta". Allora sì, è il momento di reagire e di trasformare l’indignazione in azione. Se non ora, quando?
Donne, ora si va in piazza
Oltre 60mila firme all’appello on line dell’Unità
Domani a Milano con una sciarpa bianca Il 13 febbraio mobilitazioni in tutta Italia *
Superato il giro di boa delle 60mila firme in una settimana su Unita.it, le “madri, nonne, figlie, nipoti” chiamate a raccolta da Concita De Gregorio su queste pagine scendono in strada a manifestare. L’appuntamento è per domani, sabato 29 gennaio alle 15, in piazza della Scala, a Milano. Un assaggio di quella che sarà la mobilitazione nazionale il 13 febbraio, "Se non ora quando", a cui l’Unità aderisce con il direttore Concita De Gregorio.
Una mobilitazione, quella di Milano, per ridare dignità all’Italia, come scrivono le promotrici: «Con un simbolo da condividere: una sciarpa bianca del lutto per lo stato in cui versa il Paese. E uno slogan: ‘Un’altra storia italiana è possibile’. Ci saremo con le nostre facce. Appuntandoci sulla giacca una fotocopia della nostra carta di identità con su scritto chi siamo: cassaintegrate, commesse, ricercatrici precarie, artiste, studentesse, registe, operaie e giornaliste». Un appuntamento che anticipa, dunque, la grande giornata di mobilitazione indetta per il 13 febbraio in tutte le grandi città italiane. «Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato - scrivono le promotrici - legittima comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni. Chi vuole continuare a tacere lo faccia assumendosene la pesante responsabilità. Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando?»
All’appello si può aderire inviando una mail a
mobilitazione. nazionale.donne@gmail.com.
Tra le firmatarie: il segretario della Cgil Camusso, le parlamentari Turco, Bongiorno e Perina.
* l’Unità 28.01.2011
Le suore: fermiamo lo scandalo
di Maria Pia Bonanate (FamigliaCristiana.it, 28 gennaio 2011
Le religiose italiane sono indignate e sofferenti per quanto sta accadendo attorno all’immagine della donna, ridotta a merce per uso sessuale, umiliata ed offesa nella sua dignità di persona. E questo proprio in quel contesto istituzionale dal quale dovrebbe provenire la difesa e la promozione del mondo femminile, la valorizzazione delle sue qualità umane e sociali, professionali, di quel “genio femminile” esaltato da Giovanni Paolo II . È un grido forte e commosso che giunge da più parti, in particolare dalle comunità e dalle case di accoglienza dove decine di suore lavorano sulla strada per aiutare le donne in difficoltà ad uscire da quella condizione di schiave del sesso nella quale tantissime sono finite contro la propria volontà, ingannate e minacciate.
Due religiose, Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, responsabile dell’Ufficio AntiTratta dell’USMI (Unione Superiore Maggiori d’Italia) e Rita Giarretta, fondatrice di “Casa Rut” che accoglie le ragazze e le mamme che cercano di sottrarsi al dominio della criminalità organizzata, hanno deciso di dare voce alle centinaia di consorelle di 75 congregazioni che operano in 110 strutture per dare protezione e speranza alle donne che sono state devastate dallo sfruttamento sessuale , per offrire loro la possibilità di ricostruire la loro vita distrutta e un futuro.
«A nome di tutte queste religiose che nel nostro Paese, ogni giorno, con coraggio e dedizione, non curanti dei rischi e della fatica, senza cercare pubblicità, consensi e tornaconto, ma semplicemente guidate dall’amore e dal rispetto vero per la persona, si chinano sulle donne ferite dallo sfruttamento sessuale per aiutarle a guarire, manifestiamo dolore e profondo disagio per la figura della donna offerta in questi giorni dalle cronache dei media che ci portano a pensare che siamo ancora molto lontani dal considerarla per ciò che veramente è e non semplicemente un oggetto o una merce da usare a piacimento per uso personale. E ci chiediamo: Che immagine stiamo dando della donna e del suo ruolo nella società e nella famiglia?».
Suor Eugenia Bonetti denuncia: «In questi ultimi tempi si è cercato di eliminare la prostituzione di strada perchè dava fastidio e disturbava il nostro pudore, abbiamo voluto rinchiuderla in luoghi meno visibili, ma non ci rendiamo conto che una prostituzione del corpo e dell’immagine della donna è diventata ormai parte integrante nei nostri programmi, notizie televisive, alla portata di tutti e che purtroppo educa allo sfruttamento, al sopruso, al piacere, al potere, non curanti delle dolorose conseguenze sui nostri giovani che vedono solo modelli da imitare. La donna è diventata soltanto una merce che si può comperare, consumare, per poi liberarsene come "usa e getta"».
Suor Rita Giarretta, che con tre cnsorelle è impegnata, giorno e notte, da anni, a Caserta, in un
territorio, assediato dalla camorra, in ginocchio per il suo degrado ambientale, sociale e culturale,
dove le vittime del commercio sessuale, che arrivano da paesi lontani, sono sempre più giovani e
portano i segni di violenze e di crudeli schiavitù, si dice sconcertata e indignata: «Sconcertata come
da ville del potere alcuni rappresentati del Governo, eletti per cercare e fare unicamente il bene del
nostro Paese, soprattutto in un momento così grave di crisi generale, offendano e deturpino,
umilino, l’immagine della donna. Ci inquieta un potere esercitato in maniera così sfacciata e
arrogante che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro e di promesse intrecciano corpi
trasformati in oggetti di godimento. Di fronte a tale e tanto spettacolo l’indignazione è tanta!
Come
non andare con la mente all’immagine di un altro "palazzo" del potere dove 2000 anni fa, al potente
di turno, incarnato dal re Erode, il Battista gridò con tutta la sua voce: "Non ti è lecito, non ti è
lecito!"».
Il grido della coraggiosa religiosa che si è fatta ‘presenza amica’, accanto a tante sfortunate giovani straniere “per offrire loro il pane della speranza, il pane della vita e il profumo della dignità”, si rivolge anche a quel mondo maschile che in questi giorni reagisce tiepidamente, o non reagisce proprio, a fatti così gravi: «Davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i maschi? Poche sono le voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un grande bisogno di liberazione».
Si è unita alle religiose l’on. Silvia Costa , che il 2 giugno 2009 aveva lanciato un appello “Per una Repubblica che rispetti le donne”, dove aveva denunciato il loro uso e abuso nei media e in politica, degradandone l’immagine a oggetto di consumo sessuale ed aveva raccolto 25 mila firme.
Oggi, dopo avere ricordato come la maggioranza delle donne in Italia “lavora, crea ricchezza, cerca lavoro, studia , si sacrifica per affermarsi nella professione che ha scelto, si prende cura delle relazioni affettive e familiari,occupandosi dei figli, mariti, genitori anziani”, lancia un nuovo appello: «Una cultura diffusa propone alle nuove generazioni di raggiungere scintillanti mete e facili guadagni, offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici... Senza rendercene quasi conto, abbiamo travolto la soglia del comune senso della decenza. Il modello di vita e di relazione tra donne e uomini , ostentato dalla figura che occupa uno dei vertici dello Stato, induce un corrompimento delle coscienze di cui si avverte ormai la terribile profondità. Chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore del nostro comune sesso e di non assistere passivamente allo scempio della loro e della nostra dignità. E diciamo agli uomini: Se non ora, quando?».
Proiezione del film-documentario "BANDITE", di Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini, della rassegna "LA FORZA DELLA MEMORIA" IV Ed. - GIORNATA DELLA MEMORIA 2011 - alle 21,00 del 31/1/2011 c/o ARCI Martiri di Turro - Milano - Ingresso gratuito *
Desideriamo invitarvi a partecipare alla proiezione del film-documentario “BANDITE”, di Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini, Italia, 2009, 51’, terzo appuntamento della rassegna "LA FORZA DELLA MEMORIA" IV. Ed. - realizzata nell’ambito delle iniziative per il GIORNO DELLA MEMORIA 2011 , organizzata dall’Associazione La Conta in collaborazione con la Sezione ANPI Martiri di Viale Tibaldi, con l’Istituto Pedagogico della Resistenza ed il Circolo ARCI Martiri di Turro di Milano, che avrà luogo, con ingresso gratuito con tessera Arci, lunedì 31 gennaio 2011, alle ore 21,00 al Circolo ARCI Martiri di Turro - Via Rovetta 14 a Milano.
In particolare il film documentario “BANDITE”, è la testimonianza dell’esperienza di tante donne che dal 1943 al 1945 hanno partecipato, come partigiane combattenti, alla Resistenza ed alla Liberazione. Parteciperanno alla serata Alessia Proietti, regista del film e Donatella Adamo, grafica del film che ci racconteranno il loro ricerche effettuate per al realizzazione del film nonché Angela Persici, Presidente dell’Istituto Pedagogico della Resistenza di Milano che ci parlerà dei contributi dati delle donne alla Resistenza.
Film/documentario “Bandite” di Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini, Italia 2009, 51’
Nel contesto della Resistenza italiana, il documentario indaga l’esperienza delle donne che dal ’43 al ’45 hanno combattuto nelle formazioni partigiane, rivoluzionando il loro ruolo tradizionale e divenendo protagoniste della storia. In un racconto corale, donne di diverse estrazioni sociali, culturali e politiche, esprimono attraverso le interviste la consapevolezza di una lotta che va oltre la liberazione dal nazifascismo e che segna un momento decisivo nel percorso di emancipazione femminile. Il vissuto di queste donne ribelli si intreccia agli interventi delle storiche che ne sostengono la trama con le loro analisi e indagini di genere, alle pubblicazioni clandestine dell’epoca e alle immagini di repertorio, delineando così il contesto storico in cui quella lotta si è sviluppata e il riflesso di essa nel mondo attuale. Le partigiane hanno dato vita alla Repubblica, conquistato la cittadinanza, ma la piena uguaglianza, le pari opportunità, gli obiettivi da esse perseguiti si possono veramente ritenere raggiunti?
* Associazione La Conta [laconta@interfree.it]
Un’altra storia italiana è possibile
E adesso tocca alla piazza
Sabato a Milano donne e uomini con una sciarpa bianca in segno di lutto contro lo squallore di una classe dirigente senza più etica e regole *
Dopo la rivolta del web, le oltre 40mila adesioni arrivate sul sito dell’Unità, adesso è la volta della piazza. L’appuntamento è fissato a Milano per sabato prossimo, alle 15, in piazza della Scala. Scrivono le promotrici dell’iniziativa: «Le moltissime adesioni che continuano ad arrivare all’appello “Mobilitiamoci per ridare dignità all’Italia”, sottoscritto da donne e uomini, partito da Milano e dalla Lombardia, insieme alla richiesta arrivata spontaneamente da centinaia di donne di una presa di parola pubblica, ci hanno indotto a lanciare la proposta di una manifestazione a Milano. Con un simbolo da condividere: una sciarpa bianca del lutto per lo stato in cui versa il Paese.
Uno slogan: Un’altra storia italiana è possibile.
Ci saremo con le nostre facce. Appuntandoci sulla giacca una fotocopia della nostra carta di identità con Piccoletta di Beatrice Alemagna der, cosa riuscita in pieno.
Sarebbe bene analizzare il triste episodio del così detto Bunga Bunga come un ennesimo comportamento, da parte del nostro premier, da antistatista. Negli ultimi anni ad essere danneggiata e stata la NOSTRA DEMOCRAZIA e non la sua vita privata. Ma certo, lui se ne infischia della DEMOCRAZIA, è scomodo essere considerati tutti uguali verso lo Stato
su scritto chi siamo: cassaintegrate, commesse, ricercatrici precarie, artiste, studentesse, registe, operaie e giornaliste, per dire la forza che rappresentiamo, a dispetto dell’immagine di una rappresentazione che non ci corrisponde. Perché vogliamo che la risposta a tutto questo fosse politica molto prima che giudiziaria. Quel che accade del nostro Paese offende le donne, ma anche gli uomini, che non si riconoscono nella miseria della rappresentazione di una sessualità rapace e seriale, nello squallore di una classe dirigente che ha fatto dell’eversione di ogni regola e del sovvertimento di qualunque verità il suo tratto distintivo».
Le mail di adesione vanno inviate a: manifestazione29gennaio@gmail.com
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Tra le prime firme pervenute: Ileana Alesso; Paola Bentivegna; Ivana Brunato; Iaia Caputo; Adriana Cavicchioli; Arianna Censi; Fulvia Colombini; Marina Cosi; Ilaria Cova; Chiara Cremonesi; Marilisa D’Amico; Ada Lucia De Cesaris; Piera Landoni; Elena Lattuada; Paola Lovati; Marina Piazza; Patrizia Quartieri. Seguono decine di altre.
Spazio dell’Unione Femminile:: Corso di Porta Nuova 32 Milano::Agenda
Venerdì 28 gennaio, ore 18.30
SETTE VITE COME I GATTI
Sono passati quarant’anni dalla stagione iniziale del Movimento femminista e le donne sono cambiate. Nel mutamento si manifestano ambivalenze e contraddizioni.
Carmen Leccardi ed Eleonora Cirant dialogano con Alessio Miceli e Umberto Varischio a partire dal libro di Barbara Mapelli Sette vite come i gatti. Generazioni, pensieri e storie di donne nel contemporaneo. Prefazione di Carmen Leccardi, Stripes Edizioni, Rho (MI) 2010. E’ presente l’autrice.
Unione Femminile Nazionale
C.so di Porta Nuova, 32 - 20121 Milano
Tel./fax 02/6572269
Strappi e mimose
di Ida Dominijanni (il manifesto, 05.02.2011)
Per quanto tecnica sia la formula, l’aggettivo «irricevibile» con cui Napolitano ha respinto al mittente e rinviato alle camere il decreto sul federalismo ha un suono ben più forte dello strappo procedurale cui si riferisce. Irricevibile è un governo che disprezza il parlamento e prescinde dal Quirinale, irricevibile è una maggioranza di nominati arroccata nel bunker del suo padrone, irricevibile è un capo di governo che usa sistematicamente la scena internazionale per denigrare «la Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure», irricevibile è lo stesso capo di governo che su quella stessa scena difende, unico in Occidente, lo zio - anch’esso di sua nomina - della propria favorita, irricevibile è una prassi istituzionale fondata per metodo e sistema sullo scontro fra i poteri dello Stato. Se ne contano almeno nove al calor bianco, in tre anni, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, su questioni di procedura e di merito. È un segno, e non l’ultimo, che la situazione è da tempo oltre il livello di guardia.
Perché allora, con le pinze, si tiene ancora? Perché in campo c’è una sola strategia riconoscibile, nei suoi tratti devastati e devastanti: quella di un raìs in pieno delirio di onnipotenza («sono l’unico soggetto universale a essere tanto attaccato», ha detto di sé ieri testualmente il premier) e deciso a resistere, resistere, resistere a tutti costi, nessuno escluso. Senza limiti, perché non ne conosce. Senza vergogna, perché non ne ha. Senza tema di smentite, perché la sua capacità di scambiare il vero col falso è segno non più di manipolazione bensì di negazione della realtà. Intorno a questa maschera, solo una corte di figuranti asserviti che finiscono col restituirle lo scettro anche quando potrebbero sfilarglielo, alla Bossi o alla Maroni per capirci. Dall’altra parte, una strategia felpata, una ricerca di alleanze senza selezione e senza seduzione, una promessa di liberazione senza desiderio. Il risultato è una paralisi che si alimenta di una lacerazione al giorno, una rivelazione all’ora, uno scandalo al minuto, senza che la tela si strappi davvero e mentre chiunque non faccia parte dello zoccolo duro del raìs si chiede: com’è possibile?
È possibile, perché c’è un fantasma lì dietro la scena, che nessuno vuole davvero vedere. Berlusconi lo rimuove, i suoi avversari lo scansano in attesa della foto del peccato o della prova del reato, e tutti quanti pensano di parlare, ancora, di «politica» (federalismo, fisco e quant’altro), come se, per citare Gustavo Zagrebelsky, le notti di Arcore non fossero la notte della Repubblica. Lo sappiamo, i numeri in parlamento sono quelli che sono. Ma la democrazia parlamentare non esclude altre forme dell’azione politica, e non domanda nemmeno che si resti in parlamento a recitare una farsa. Una società stremata da vent’anni di berlusconismo merita qualcosa di più della promessa di una parodia del Cln. O di una raccolta di firme offerta l’8 marzo come un mazzo di mimose dal segretario del Pd «alle nostre donne». Non siamo di nessuno, non amiamo le mimose né tantomeno, per citare stavolta Luisa Muraro, chi conta di usarci come truppe ausiliarie di una politica inefficace.