All’interno di un lavoro portato avanti da più Autori, sul tema “L’India della psicoanalisi. Il subcontinente dell’inconscio” (IPOC, Milano 2014), Livio Boni, a conclusione del suo contributo specifico, dedicato a “Freud e l’India: un percorso ermeneutico lungo/un itinerario mancato”, e, in particolare, allo sforzo di fornire chiarimenti sul “dialogo con Romain Rolland” e sulla “equazione freudiana: India = misticismo”, scrive:
LA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". Alla luce di un “vecchio” lavoro di Giampaolo Lai (“Due errori di Freud”, Boringhieri, Torino 1979), di Elvio Fachinelli (“La mente estatica”, Adelphi, Milano 1989) e, mi sia consentito, di una altrettanto mia “vecchia” analisi della “provocazione” fachinelliana di portarsi oltre Freud (si cfr. “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 138-161), pur volendo accogliere l’opinione della lettura di Boni (2002/2014) sul valore della “sorprendente” testimonianza di Goetz relativa alle dichiarazioni di Freud sull’India, con tutte le implicazioni che esse hanno anche sul dialogo con Rolland, è da dire che nel testo di Goetz c’è un elemento, che sollecita attenzione e invita non a semplificare (“Questo riduzionismo - scriveva Fachinelli - non ci serve: ci serve piuttosto un adduzionismo”) ma ad “approfondire” ulteriormente la lettura della “lezione” di Freud a Goetz, proprio per fare possibilmente più chiarezza sul “percorso ermeneutico lungo" e su "l’itinerario mancato".
L’elemento è la citazione ripresa dalla ballata di Schiller - un vero e proprio “iceberg” del “mare” interno di Freud: “La Bhagavadgita è un poema grande e profondo che apre però su dei precipizi. E ancora giace sotto di me celato nella purpurea tenebra afferma "il tuffatore" di Schiller, che mai rivenne dal suo secondo temerario tentativo” (sul tema, si cfr. la brillante tesi di laurea di Malvina Celli, "La simbologia di Friedrich Schiller nella ballata "Der Taucher": amore o ambizione?", Università di Pisa 2014/2015).
Tale elemento illumina con molta forza un “impensabile” ancora da pensare: esso non è affatto “in aperto contrasto con tutto ciò che Freud afferma altrove” ma, al contrario, esprime solo e già tutto “il disagio della civiltà”, quella occidentale, nei confronti dell’altra civiltà, quella orientale in questo caso e, in particolare, dell’India.
Nel 1904-1905, a pochi anni dalla pubblicazione della Interpretazione dei sogni, avvenuta nel 1899 (con la data “1900”), e con la consapevolezza che la sua autoanalisi - interminata e interminabile - non è affatto finita, egli sa bene in quale impresa si è “tuffato”! Il motto virgiliano, “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” («Se non posso muovere gli dei superiori, muoverò quelli degli inferi»), posto ad esergo dell’opera, già dice bene a se stesso di quali e quanti pericoli e difficoltà dovrà affrontare il “conquistador” nel suo cammino.
Un’ombra lo seguirà fino alla fine: è quella di Josef Popper-Lynkeus (1838-1921), ingegnere, filantropo, e scrittore, che con le sue “Fantasie di un realista”, opera pubblicata a Vienna nel 1899, contemporaneamente a “L’interpretazione dei sogni”, che lo "tormenterà" a non rassegnarsi (“I miei rapporti con Josef Popper-Lynkeus”, 1932) e ... a non perdere il coraggio degli inizi!
Nel 1929, nel “Disagio della civiltà”, «un’opera essenziale, di primo piano per la comprensione del pensiero freudiano, nonché il compendio della sua esperienza» (J. Lacan), nella parte finale del primo capitolo, a Romain Rolland, chiudendo con modi da “animale terrestre” la porta in faccia al “suo amico oceanico” (così dalla dedica sulla copia del libro inviatagli), ripete la “lezione” data a Goetz nel 1904-1905, con altri versi dalla stessa ballata: -“(...) ancora una volta sono indotto ad esclamare con le parole del Tuffatore di Schiller: “... Es frue sich, / Wer da atmet im rosigten Licht. [... Gioisca, / Chi qui respira nella luce rosata.]” (S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, p. 208).
A ulteriore precisazione, per chi ancora possa avere qualche dubbio sul senso del suo discorso e del suo percorso, alla fine del capitolo 7 del "Disagio", richiama alcuni versi dalla canzone dell’arpista nel “Wilhelm Meister” di Goethe e commenta:
Il Conquistador comincia a deporre le armi e ammette: “(...) mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai mei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti” (op. cit., p. 280).
Nel 1930, a Freud viene conferito l’ambito “Premio Goethe”. Il riconoscimento segnava per lui, come dichiarò, la vetta più alta della sua vita. Nel “Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte”, (S. Freud, Opere, XI, Torino 1979, pp. 7-12), egli scrive: “Io penso che Goethe, a differenza di tanti altri nostri contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi”. Certamente non si sbagliava, ma forme di immaginario “prometeico”, condiviso sia con Goethe sia con gli “altri nostri contemporanei”, lo accecano ancora. I suoi “sogni” personali erano più le “fantasie” di un idealista (platonico-hegeliano ), che di un realista, alla Popper-Lynkeus e alla Rolland!
Nel 1931, alla fine dell’ultimo capitolo del “Disagio della civiltà”, dopo l’ultima frase: “Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo [...]. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.”, aggiungerà: “Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito” (op. cit., p. 280).
Nel 1938, con grandissime difficoltà, a stento riesce a lasciare Vienna e a raggiungere, sognando "Guglielmo il Conquistatore", l’Inghilterra - un’isola in mezzo all’oceano! Morirà a Londra il 23 settembre 1939.
A sua memoria e gloria, è da ricordare che, se il suo primo lavoro "L’interpretazione dei sogni" richiama alla memoria la figura di Giuseppe, e il suo lavoro di interpretatore dei sogni del Faraone, l’ultimo lavoro risollecita a riflettere su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e a proseguire il suo lavoro, quello di interpretatori e interpretatrici dei sogni dell’intera umanità. Uscire dallo Stato di minorità è possibile, non è “l’avvenire di un’illusione”. Non dimentichiamo di «coltivare il nostro giardino»!
Sul tema, nel sito, si fr.:
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
VITA, FILOSOFIA, STORIA E LETTERATURA...
BENEDETTO CROCE, LO SPIRITO DI "COLAPESCE", E LA VITA DI UN "PALOMBARO LETTERARIO". Una brillante ricognizione di Luisella Mesiano
LEARDO MASCANZONI, SALIMBENE, RICCOBALDO E LA LEGGENDA DI COLA PESCE, «Quaderni medievali», 54 (dicembre 2002), pp. 150- 162.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala (25 Aprile 2018)
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE. Tracce per una svolta antropologica ... *
NELLA DIMENSIONE CHE ESIGE ERACLITO
di Federica Montevecchi (su: Alias, 17/07/2010)
Martin Heidegger volle che la sentenza di Eraclito, «il fulmine governa ogni cosa», fosse incisa sull’architrave della porta della sua baita a Todnauberg nella Selva Nera. Le stesse parole, che costituiscono il frammento 64 dell’edizione Diels-Kranz, aprono il celebre colloquio seminariale, su Eraclito appunto, che si svolse nel semestre invernale 1966/67 all’Università di Friburgo fra Martin Heidegger e Eugen Fink. Il testo del seminario fu pubblicato in italiano nel 1992 da Coliseum, nella versione di Mauro Nobile introdotta da Mario Ruggenini, con il titolo Dialogo intorno a Eraclito. A circa venti anni di distanza da questa prima edizione, esaurita da qualche tempo, il colloquio fra Heidegger e Fink è ripresentato - corredato dalle annotazioni di Heidegger - dall’editore Laterza, nella collana «I Libri dell’Ascolto» diretta da Vittorio Tamaro, con il titolo Eraclito (a cura di Adriano Ardovino, pp. 234, € 20,00).
Il seminario, suggerito da Fink, che voleva mettere alla prova la propria interpretazione di Eraclito, fu l’ultima attività didattica di Heidegger e avrebbe dovuto includere, stando al progetto iniziale, anche una lettura dei frammenti di Parmenide. Nei fatti, invece, non fu completata neppure la lettura dei frammenti di Eraclito, tanto che Fink, nel 1970, presentando l’edizione del seminario, affermerà che il testo dato alle stampe è «un torso, un frammento su frammenti».
Le tredici sessioni in cui si articolò la discussione, alla quale parteciparono tredici persone fra studenti e invitati, vennero trascritte volta per volta, senza l’ausilio di alcun registratore, letteralmente e integralmente.
Il risultato non è tanto un confronto fra due diversi interpreti, ma, dice Heidegger, un ‘parlare con Eraclito’ e, attraverso di lui, con un’intera tradizione che, già dall’antichità, non si è sottratta alla provocazione rappresentata dai Greci. Esempi degli interrogativi di fondo dell’esistenza e dell’enigma riguardante la nascita della ragione, i pensatori greci più antichi - Presocratici o sapienti, a seconda che si voglia adottare le espressioni rispettivamente di Hermann Diels o di Giorgio Colli - sono specchi: quanto più ci avviciniamo a loro tanto più vediamo il nostro riflesso. A seconda della ‘storia razionale’ nella quale li integriamo - e questo accade già a partire da Aristotele - essi assumeranno significati molteplici, restando comunque sempre altro da ciò che di loro possiamo dire: essi costituiscono il momento inaugurale del pensiero della civiltà occidentale, nel quale la ‘verità’ della nostra origine diventa inscindibile dall’origine della nostra ‘verità’, l’ambito del conoscere non facilmente distinguibile dalla sfera del riconoscere, cioè della proiezione retrospettiva.
Tutto ciò vale particolarmente per Eraclito le cui parole, stando a Diogene Laerzio, avrebbero fatto dire a Socrate che ci sarebbe voluto un tuffatore delio per poterle riportare alla luce dalle oscure profondità. E su queste parole si sono cimentati, nei secoli, in molti: basti pensare, fra gli altri, a Platone - che nel Sofista annovera Eraclito fra quelle Muse ioniche capaci di mostrare la connessione fra l’uno e i molti -, a Hegel - che nelle Lezioni sulla storia della filosofia afferma: «non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» -, a Hölderlin - che, attraverso Eraclito, legge l’inscindibilità di unione e separazione -, e ancora, a Nietzsche - che nei frammenti eraclitei vede l’espressione della visione tragica del mondo, del conflitto sotteso a ogni creazione e allo stesso logos.
Va da sé che pure Heidegger e Fink, in sintonia con la tradizione filosofica tedesca, che affronta il pensiero più antico proiettando nella Grecia anzitutto se stessa, la propria specificità filosofica, accolgono la sfida di Eraclito ben prima di questo seminario. L’eco eraclitea, infatti, è costante nell’opera di entrambi e si mostra, ad esempio, nell’idea heideggeriana dell’intermittenza di qualcosa che apparendo come mondo al tempo stesso si nasconde come senso. Se in questa idea è implicita la nota sentenza eraclitea «la natura ama nascondersi», nella metafora di Fink del gioco che gioca con l’uomo e il mondo, ossia con coloro che lo stanno giocando, sono evidentemente sottintese le parole di Eraclito «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo».
Queste rispettive posizioni filosofiche si riflettono naturalmente nel seminario, dove Heidegger e Fink, tuttavia, cercano di assumere ruoli ben definiti. È lo stesso Fink a caratterizzare il ruolo di Heidegger nei termini di una ‘direzione spirituale’, che si declina in interventi brevi, chiarificatori, interrogativi, ma anche ammonitori rispetto a tutto ciò che potrebbe limitare la possibilità di giungere «nella dimensione che esige Eraclito», come ad esempio approcci di tipo esclusivamente filologico e storiografico, oppure l’uso di termini ritenuti troppo risonanti, quali diradamento e tempo, se non ormai inadeguati, come il temine essere. Fink, invece, assume il compito di presentare una provvisoria interpretazione dei frammenti eraclitei che garantisca una base di discussione e possa essere idonea a collocare i partecipanti al seminario «entro una certa comunione nel linguaggio interrogante». E tuttavia il tentativo di recuperare Eraclito è destinato a fare i conti con una distanza storica e ontologica abissale, come mostrano le frequenti domande di Heidegger - destinate a contenere, nei partecipanti, le cristallizzazioni concettuali, che sono da ricondursi, come viene ricordato, alla filosofia successiva di Aristotele -, oppure l’affermazione che nel seminario si sta presentando un’interpretazione non più metafisica di testi non ancora metafisici: fra il ‘non più’ e il ‘non ancora’ è tuttavia possibile sentire l’eco dell’esperienza di pensiero di Eraclito, che obbliga continuamente a riflettere sui criteri attraverso i quali si è articolato il pensiero occidentale, quindi a considerare la possibilità di pensare in altro modo.
L’andamento del seminario è scandito soprattutto dal tema dell’unità fra opposti, che ricorre in tutti i frammenti eraclitei e rimanda al problema fondamentale dell’appartenenza (Verhältnis) di uno e molti-tutto, en e panta. I numerosi esempi di fenomeni descritti da Eraclito - come pace e guerra, fame e sazietà, giovani e vecchi, mortali e immortali - mostrano a un tempo l’opposizione fra diversi e la loro unità, e cioè il fatto che lo stesso sia anche altro, i molti-tutto siano anche uno: «la difficoltà - dice Heidegger - consiste nello scorgere in che modo lo en mostri all’improvviso un altro carattere», nel capire come Eraclito possa vedere, nell’esperienza comune a tutti basata sull’opposizione e sulla distinzione, sempre l’uno e un unico logos.
Detto altrimenti, la convivenza degli opposti, che caratterizza l’universo greco più antico già a partire dalle prime cosmologie fino ad arrivare all’opposizione delle proposizioni nell’argomentazione dialettica, rilancia costantemente l’enigma della polarità o, stando al seminario, l’enigma di come il determinato sia ad un tempo «l’unità che riunisce».
La risposta di Heidegger e Fink si concentra sul legame fra l’uno e i molti-tutto, legame che viene inteso appunto come Verhältnis, giustamente tradotto con appartenenza, intendendo con tale termine non una relazione di possesso fra due oggetti né un rapporto di reciprocità, ma il trattenersi dell’uno e dei molti-tutto nella «stabilità dell’apertura», la «tenuta (Verhalt) dell’essere e del mondo». È la stessa cosa infatti che, nella separazione da se stessa, si tiene unita e si custodisce perché - viene precisato nella sessione undicesima - appartenere e tenere «significano in primo luogo il custodire, tenere in serbo e accordare nel senso più ampio»: questo è del resto il logos nel suo significato proprio di raccolta e di presenza di ciò che è stato raccolto. E evidente che tutto ciò permette di aprire lo spazio a un pensare che contrasti la concezione ingenua secondo la quale l’uno viene pensato come un contenitore in cui sono racchiusi i molti-tutto e soprattutto l’idea, che diventerà una delle matrici del pensiero occidentale, secondo la quale il molteplice è un dispiegarsi e un decadere del semplice.
Nell’ultima sessione del seminario Heidegger chiede a Fink qual era il senso dell’affermazione con cui aveva aperto il loro colloquio comune con Eraclito, e cioè che i Greci «significano per noi un’immane provocazione». Fink risponde che si tratta della provocazione «a capovolgere, una buona volta, l’orientamento del nostro pensiero», a disfarsi di tutto l’apparato concettuale costruito sul bisogno, che Hegel ha incarnato in maniera paradigmatica, del pacificante appagamento di ciò che è pensato e conciliato per tornare a pensare, vale a dire a sentire, secondo Heidegger, «l’assillo dell’impensato nel pensato» e, come esorta Periandro di Corinto, ad avere cura del tutto in quanto tutto.
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE?!: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
Il conformismo degli intellettuali durante la Grande Guerra
A parte rare eccezioni, come Zweig, poeti e filosofi gareggiarono nell’incitamento all’odio
di Paolo Isotta (Il Fatto, 25.10.2018)
Fra poco cadrà il centenario della fine dell’immane massacro militare della Prima guerra mondiale: il 4 novembre capitolò l’Impero austro-ungarico, l’11 quello germanico. L’incredibile rimonta di Vittorio Veneto si dovette a un genio militare napoletano, Armando Diaz, visto che fino a quel momento lo stratega di fiducia dei Savoia, il piemontese Cadorna, aveva concepito la guerra solo come una macelleria fine a se stessa; in questo la classe militare inglese e francese non fu da meno. E sarebbe bene, per non dimenticare - sempre che a qualcuno l’insegnamento della storia oggi interessi - che si rivedessero tre meravigliosi films che denunciano in modo tragico e spietato la macelleria: Per il re e per la patria di Losey, Orizzonti di gloria di Kubrick e Uomini contro di Rosi: il suo più bello, insieme con Le mani sulla città.
Dal momento che nel mio scorso articolo ho raccontato per brevi tratti dell’estate da me trascorsa con Stefan Zweig, debbo tornare al Mondo di ieri. I capitoli centrali di queste Memorie - Memorie dello spirito europeo stesso - sono dedicati ai prodromi della guerra e ai suoi anni. La definizione di “guerra civile europea”, ripresa con tanta fortuna da Ernst Nolte, si deve a Zweig. I grandiosi capitoli vanno ricordati anche in relazione al tema del comportamento degli “intellettuali”: la vergogna suscitò nel corso del conflitto, pagine alte e dolenti, più che indignate, del nostro Maestro, e a sua volta suscitò un celebre libro del 1927, Il tradimento dei chierici, nel quale Julien Benda stigmatizza il ruolo degli uomini di cultura, traditori della loro missione: comprendere e far comprendere, giusta l’etimo intelligere.
Zweig ben conosce i poderosi interessi economici che, nella loro crescente e vertiginosa accumulazione, sono la “struttura” dello scoppio della guerra. Ma egli ha chiara la coscienza che a un certo punto la faccenda sfuggì di mano alle stesse diplomazie che la trattarono. L’Italia, non interventista, avrebbe dovuto restare neutrale, e le trattative condotte da Giolitti - chiamato “traditore” dai forsennati - ci avrebbero garantito di più di quel che miseramente ottenemmo col Trattato del Trianon. Gl’interessi di pochi, in primis i Savoia, ci spinsero nel conflitto. E qui non si può che ricordare la sentenza di Sofocle, il dio fa prima uscire di senno coloro che vuol distruggere. Vale anche per tutto il corso del conflitto.
I più alti spiriti europei che per tutta la guerra si adoperarono per la pace immediata sono, oltre il pontefice Benedetto XV, Zweig e Romain Rolland, un grande storico della musica e romanziere francese. Vennero equamente definiti “traditori” dal proprio paese, e andarono vicino all’impiccagione; allo stesso modo che il Papa era il nemico principale di tutti gli schieramenti e il messaggio sull’inutile strage venne censurato in ogni nazione belligerante. Zweig, da un lato, Rolland, dall’altro, si trovarono soli quando tentarono di far firmare un manifesto incitante alla pace. Fra i pochi fratelli spirituali da loro trovati, Benedetto Croce. Non uno aderì; e i poeti, i romanzieri, i filosofi, gareggiarono nell’infamia, nell’incitamento all’odio, nell’inneggiare alla guerra come “sola igiene del mondo”.
La pagina più nera della vita di Gabriele D’Annunzio e di Thomas Mann è proprio qui. Ma se il sommo poeta italiano rischiò la vita e si riscattò coll’impresa pacifica del lancio dei manifestini su Vienna, poi con quella di Fiume, il grande romanziere di Lubecca lo supera in blateramento, e giunge a negare la stessa cultura latina: la base ideologica dell’incitamento all’odio. Mutato il vento, Mann ritrattò; ma continuò a detestare Zweig. La vicenda mostra una terribile verità: l’uomo di cultura, o intellettuale, è labile e dipendente dal potere, oggi persino più che sotto il despotismo di Augusto. È quasi solo servo: per sua natura. Dobbiamo venerare i pochi che non lo sono.
L’ultimo canto di Zweig, suicida per amore di libertà
di Paolo Isotta ( Il Fatto Quotidiano, 22. IX. 2018 *
Il 22 febbraio 1942, a Petropolis, triste località di villeggiatura a settanta chilometri da Rio de Janeiro, Stefan Zweig si uccise con la moglie. Aveva sessantun anni. Era stanco di fuggire. Viveva a Salisburgo; con l’Anschluss il terrore nazista l’aveva costretto a peregrinare. Inghilterra, Stati Uniti, Brasile. Non ne poteva più. Ancora pareva che la Germania potesse vincere; la morte voleva per il Maestro essere anche un segno di rivolta; ma Zweig era coscienza così alta che, se fosse vissuto, avrebbe parimenti denunciato i bombardamenti alleati, Amburgo, Dresda, Vienna, Hiroshima.
Un romanzo che ho appena letto, Gli ultimi giorni di Stefan Zweig, di Laurent Seksik, apparso in italiano per Gremese, ricostruisce in modo preciso e appassionante. L’ultima sua opera, scritta proprio in Brasile e apparsa postuma, è una delle sue più belle: Die Welt von Gestern, Il mondo di ieri (conviene leggerla nella limpida traduzione di Lavinia Mazzucchetti, 1945, traduttrice anche di Mann: non si lavora più così!), è una rievocazione della Vienna avanti la Prima Guerra, ove la Germania, l’Austria, la Boemia, e un finissimo cosmopolitismo ebraico capace di coltivare anche le memorie imperiali, si uniscono in uno dei più affascinanti crogiuoli della morente Europa. Musil, Roth, Mahler, Schönberg, Trakl... Chi ama la civiltà e l’arte non può leggerlo senza commuoversi per la bellezza e la finezza di ricordi personali e universali.
Al mondo ebraico Zweig s’era dedicato in modo marginale. Egli è uno dei più grandi cantori della civiltà, intesa nel senso della Kultur, contrapposta alla “civilizzazione”. È un narratore di qualità, ma le opere che gli diedero la fama sono prevalentemente storiche, oppure di narrazione biografica di grandi personalità. Se ho trascorso la passata estate con Sciascia, ho vissuto questa con lui. È amore antico: la sua biografia di Fouché, lo spretato assassino degli annegamenti di Nantes, poi ministro di polizia di Napoleone, una serpe ripugnante, la lessi a quindici anni.
L’esser un grande scrittore, se gli valse un enorme successo, ha determinato la sfortuna di Zweig presso gli storici burocratici, in ispecie quelli dell’università. Egli si documenta come il più accanito professionista; ma il grandioso soffio della sua narrazione, coinvolgendo l’anima dei protagonisti, le recondite cause del loro agire, la natura politica della religione, la comunanza dello spirito entro la stessa epoca (quel che si chiama il Zeitgeist, lo “Spirito del Tempo”), che avvolge la politica come le arti e la filosofia, supera l’episodicità dei fatti e si volge al loro significato. Così, per l’esser storico insieme e poeta, taluno lo giudica un dilettante.
Balzac, Nietzsche, Dickens, Händel, Dostoevskij, Verlaine, Proust, Freud, Byron, Maria Stuarda, Maria Antonietta (una delle più profonde opere sulla Rivoluzione Francese che io conosca), Erasmo ... Ognuna di queste biografie merita d’esser letta per l’arte e il contenuto rivelatorio; ed è prodigioso che il Maestro sia riuscito, insieme con tanta narrativa, a mantener un livello inalterabilmente alto in una tale mole di produzione.
Un piccolo libro, ripubblicato da Castelvecchi nel 2015, mi è particolarmente caro: Castellio contro Calvino. Narra di come il cosiddetto riformatore religioso, in realtà un oscuro despota ammantato dello stesso orrore di Hitler, conquista un paese instaurandovi un terrore simile a quello staliniano e nazista. E della persecuzione fatta contro un medico spagnolo, Michele Serveto, arrostito a fuoco lento a Ginevra per “deviazioni teologiche”. E del tentativo di un santo e dotto uomo, Sebastiano Castellio, di opporre a Calvino la forza della ragione. Già sconfitto, sfuggì al rogo solo per esser morto prima che lo acchiappassero. È un altissimo canto contro il fanatismo religioso in genere, contro la religione come strumento di dominio di anime oscure e torbide, contro la religione come mezzo per opprimere, contro la religione protestante come instrumentum regni.
Poi Zweig principiò a scrivere la storia del contravveleno, quella del filosofo del dubbio e della tolleranza, Montaigne. Ma preferì lasciarla incompiuta e morire.
MAGGIO 68. LA BRECCIA. E. Morin: «una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro ... una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo...»
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino (La Stampa, 13.05.2018)
Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suo Insegnare a vivere (uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».
AL DI LA’ DELLA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO. Al di là della paura della "gioia eccessiva" ....
Il corpo che gode
di FELICE CIMATTI *
La psicoanalisi è morta, o comunque moribonda. È morta perché, nonostante il suo “successo”, ormai è stato largamente rimosso il suo nucleo bollente, che è fatto di godimento autistico e di sessualità. Gli psicoanalisti, oggigiorno, scrivono di “amore”, “legge”, “desiderio”, “relazione”, “oggetto”, “maternità”, “intersoggettività”, “empatia” (elenco che potrebbe essere allungato ancora molto): parlano di tutto, ma proprio di tutto (talvolta anche di come votare), ma non parlano più di sesso e di inconscio. Ma una psicoanalisi che non parla di questo, di che cosa può propriamente parlare? Da questo punto di vista il prezzo che la psicoanalisi ha dovuto pagare per il suo “successo” sembra essere stato di rimuovere la propria stessa ragion d’essere. Per non parlare della sempre più forte tentazione moralistica.
Facciamo un solo esempio, ma illuminante: la questione della gestazione per altri (GPA), al centro di accese discussioni nella società contemporanea, perché rimette in questione assetti ritenuti eterni della famiglia borghese eterosessuale e mononucleare (sulle tante varianti storiche di quell’entità che noi chiamiamo “famiglia” ha scritto un libro esemplare Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa). Si prenda il caso dell’articolo apparso sul quotidiano di sinistra “Liberation” nell’estate del 2015, scritto da una figura significativa della psicoanalisi francese, Marilia Aisenstein; un intervento che già dal titolo ci fa capire quanto tempo sia passato da Freud: “Un enfant à quel prix?”. Aisenstein scrive, sul quotidiano fondato fra gli altri da Jean-Paul Sartre, che «trop souvent, le désir d’un enfant “à tout prix” me paraît, lui, marqué par la collusion entre une forte pression sociale et un désir personnel anachronique de la petite fille qui veut un bébé pour elle, doublée d’un déni du temps qui passe».
Non si rendono conto, queste quarantenni che si ostinano a volere un figlio, che sono vecchie e che il loro desiderio “collude” con la pressione sociale? E che cos’è questa negazione «du temps qui passe»? Memento mori, si sente sullo sfondo. Dopodiché la psicoanalista francese ci spiega anche che cos’è «un véritable désir d’enfant»: ovviamente «le résultat de l’amour qui unit deux êtres». E se si vuole un figlio da sola/o? Aisenstein non soltanto ci ricorda compiaciuta che il tempo passa, ma anche come dovremmo passarlo, quel tempo, se volessimo un figlio. Ma in nome di chi parla, Marilia Aisenstein? Nell’articolo, subito sotto il titolo e accanto al nome dell’autrice, è ben evidenziato «membre de la Société psychanalytique de Paris». È la voce della psicoanalisi. Ma sembra quella di un prete. Tanti cari saluti all’ateo Freud.
In un articolo che compare sul sito ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana, lo psicoanalista Pietro Rizzi, commentando e riprendendo l’articolo di Aisenstein, scrive: «Se il desiderio di un figlio, e la sua nascita, può legittimamente far sentire alla neo-madre di aver realizzato il compito immemoriale di proseguire la specie, esso può anche produrre, nella odierna temperie di negazione/oblio della storia, un’esperienza di auto-creazione narcisistica, a metà tra la fantascienza e la magia».
L’articolo di Rizzi è pieno di interessanti osservazioni, tuttavia si pone per lui lo stesso problema che si pone per Aisenstein: qual è il titolo “scientifico” - per non parlare di titolo “morale” - della psicoanalisi per giudicare se un desiderio è “legittimo” oppure no, se è “narcisistico” oppure no? E chi stabilisce che alla donna spetta il «compito immemoriale di proseguire la specie»? Se un giorno alla riproduzione pensassero delle macchine (uno scenario neanche troppo futuribile, esplorato nell’interessantissimo La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, scritto dal giurista e genetista Henry Greely)? E non poteva mancare, infine, un classico del discorso psicoanalitico contemporaneo, il mortifero riferimento al lutto; infatti è «il lutto, [la] necessaria premessa di una maternità consapevolmente scelta, creata dall’amore tra due esseri umani, dove un figlio è desiderio di un “altro” da sé e non appendice del proprio sé».
E il divertimento, il sesso, e il godimento “narcisistico”, e soprattutto, l’inconscio? Si parla di tutto, anche del lutto («un lutto, non necessariamente così doloroso»), pur di non parlare del godimento. Vengono in mente le parole di Gilles Deleuze: «il fatto è che la psicoanalisi ci parla in continuazione dell’inconscio, ma in un certo modo lo fa sempre per ridurlo, distruggerlo, scongiurarlo» (Deleuze 2000, p. 59).
In questo desolante panorama spicca al contrario la figura di Sergio Benvenuto, psicoanalista e filosofo che negli anni ha costruito un proprio autonomo e originale profilo teorico. Una originalità che Benvenuto collega proprio al dimenticato e rimosso Freud. Quel Freud, e così torniamo al nucleo originario della psicoanalisi, che nella Vienna fin de siècle mette sotto gli occhi di tutti quel che è sempre stato evidente e proprio per questo si è sempre voluto nascondere: «la sessualità» - scrive in Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi (2017) - «per Freud, è questo bordo tra il linguaggio e il puro grido; un bordo di per sé impresentabile, di cui non possiamo vantarci, a meno che non siamo in una posizione critica proprio nei confronti del mondo della decenza e della rispettabilità» (p. 13).
La psicoanalisi non si occupa del godimento sessuale per dargli una forma, fosse anche la forma della meta-psicologia freudiana; se ne occupa perché la psicoanalisi freudiana nasce dalla scoperta di questo oggetto, tutto il resto già si sapeva: «se, come accade spesso, l’analisi viene vista come una relazione tra due soggetti, un modo di definirsi di un essere-con, allora l’inconscio svapora, e con esso anche la sessualità come esperienza che eccede la parola, che ne esula e la rende insufficiente» (p. 15). Si tratta di una precisazione rilevante, perché smonta la tentazione, a cui troppi psicoanalisti non riescono a resistere, di credere che l’analisi serva a dare parole all’inconscio. L’onnipresente tentazione di pensare la psicoanalisi come esperienza di comprensione e interpretazione, come dialogo e scambio intersoggettivo.
Al contrario, per Benvenuto «l’inconscio è sacrilego» (p. 14). Non rispetta nulla, e non vuole nessuna comprensione.
La psicoanalisi si occupa piuttosto di quel lato dell’umano che sfugge al calcolo e alla ragione, alla mente ma anche al corpo. L’inconscio, infatti, non è al servizio né della mente, ma nemmeno del corpo animale, quello che condividiamo con tutti gli altri mammiferi: «insomma, la psicoanalisi si orienta a occuparsi della parte non adattativa dell’essere umano» (p. 193). Nonostante Darwin, la natura specie-specifica dell’umano è profondamente disadattativa, se non direttamente anti-biologica.
La psicoanalisi di cui ci parla Benvenuto ci offre una immagine dell’umano agli antipodi con quella corrente, sia quella offerta dalle scienze cognitive (il mainstream ideologico della contemporaneità) che quella offerta dall’economia (che ha preso il posto un tempo occupato dal Catechismo): un essere umano abitato e attraversato da forze che non controlla, da desideri che non hanno alcuna funzione biologica (la sessualità umana è normalmente perversa, come scopre Freud nel suo capolavoro, i Tre saggi sulla teoria sessuale), naturalmente scisso al suo interno: «quella di Freud non è una teoria dell’individuo, ma del “dividuo”. Non dell’Io come indivisibile, ma del soggetto come diviso. E rispetto a questa visione dell’essere umano in quanto dividuo che possiamo misurare la portata della restaurazione cognitivista, che consiste nel ristabilire l’unità dell’individuo in quanto essere sostanzialmente razionale e calcolatore» (p. 141).
Una psicoanalisi che proprio per questo non pretende di essere una scienza, come invece prova a fare affannosamente e vanamente la psicoanalisi del nostro tempo “cognitivo”, del tutto subalterna all’ideologia scientista contemporanea, che ammette come unico criterio di validità quello scientifico (o presunto tale). Si tratta di un punto rilevante dell’analisi di Benvenuto, perché rivendica l’autonomia della psicoanalisi, che ha valore non perché sia una (pseudo) scienza, bensì perché dà spazio alla natura intrinsecamente e radicalmente irrazionale dell’animale umano, non perché sia appunto una scienza, al contrario, perché è materialista e quindi volgare: «molti parlano di “rivoluzione psicoanalitica” - io invece direi che la psicoanalisi è stata un Ritorno riabilitativo al popolare» (p. 22). Nei sogni si parla di escrementi, di buchi, di carne e passione. Di questo è fatto l’inconscio. Questa è la psicoanalisi:
La psicoanalisi di Benvenuto è così radicalmente scomoda, perché parla non tanto di quello che non ci piace di noi, piuttosto dice la nostra radicale subordinazione a pulsioni che ci attraversano, e parlano per noi, al nostro posto. Freud, l’intransigente materialista Freud, ci ricolloca al nostro posto, quello di primati parlanti, che però credono a quello che si dicono (Homo sapiens è l’unico animale che pensa di sé di non esserlo). È troppo cruda, e sconsolante, questa immagine, per questo la rimozione della psicoanalisi è cominciata nello stesso momento della sua comparsa. Ma questo, ancora una volta, significa che l’animale umano, per Freud, non smette di essere un primate, una scimmia, anche se si tratta di una scimmia con la testa piena di parole e pensieri che pensano per lei, che ha bisogno di sentirsi amata, e di credere che un senso, da qualche parte, c’è.
La psicoanalisi non crede al senso, neanche a quello biologico (che, ammesso che sia un senso, è del tutto privo di senso, è cieco e autistico, come mostrò in modo esemplare, sebbene sgradevole, il biologo Richard Dawkins ne Il gene egoista). La psicoanalisi non è ottimista, non propone una soluzione, soprattutto non ci e si racconta storie: «si ha voglia di rigirare la frittata, ma se si è freudiani si crede nella pulsione di morte, e quindi nell’impossibilità costitutiva di una società Buona e Felice» (p. 129).
Ma attenzione, Benvenuto non è dalla parte del “lutto”, tutto al contrario, la psicoanalisi è dalla parte del godimento e della liberazione del corpo dall’Io, che infatti - qui Benvenuto è affatto lacaniano - «è a un tempo solo sé stesso, ma anche l’Altro che l’io stesso ha assunto come il proprio» (p. 140). La psicoanalisi non rafforza l’Io, che non esiste, o meglio esiste solo come introiezione dello sguardo dell’Altro.
Da questo punto di vista la grande e rimossa figura della psicoanalisi è, insieme allo stesso Freud, è quella del suo allievo rinnegato, eretico ed eccessivo, Wilhelm Reich, che cercò in modo pazzo e fallimentare di coniugare comunismo e psicoanalisi, sessualità e rivoluzione, libertà e godimento. Non è un caso che il suo nome non compaia più fra quelli citati dalla psicoanalisi “scientifica” (nemmeno nel libro di Benvenuto, per la verità; la sua storia dimenticata si può leggere in un libro di qualche anno fa di Paul Robinson, La sinistra Freudiana - Wilhelm Reich, Geza Roheim, Herbert Marcuse), e che sia morto nel 1957 in un penitenziario negli Stati Uniti. La psicoanalisi è eccessiva, anche se le piace presentarsi sotto le luci soffuse di un accogliente ed elegante studio borghese, è esagerata, è intrattabile. Insistiamo su questo punto, la libertà della psicoanalisi. Una libertà che per essere “libera” deve liberarsi, per prima cosa, da quello stesso soggetto, l’Io, che per Freud è il riflesso interno delle forze sociali esterne.
Benvenuto è esplicito su questo punto, in cui cade buona parte della psicoanalisi contemporanea: «l’analista teorizza come se in realtà egli stesse dicendo al suo analizzante: “Io so scientificamente, medicalmente, il tuo questo, quel self che tu sei”. [...] Questo analista, nell’istante in cui teorizza, crede che il soggetto sia qualcosa. Per l’analista praticante invece ogni essere “qualcosa” è un’alienazione» (p. 89).
Per questa ragione, per Benvenuto, «l’abilità dell’arte psicoanalitica consiste nel mostrare a un soggetto l’altro sogno, quello dentro al quale egli non suppone di vivere» (p. 100). Il problema del sogno, in fondo, è che appunto è soltanto un sogno, un sogno che qualcun altro sogna per noi. La psicoanalisi, per Benvenuto, è invece una pratica di radicale individuazione: «di fatto, è il lavoro di ogni psicoanalisi riuscita: aiutare ciascuno di noi a individuarsi, a soggettivarsi, ovvero a raccontarsi la storia giusta delle proprie origini in modo di “svincolarsi dal gruppo”» (p. 151). Si va in analisi non per stare meglio con gli altri, tantomeno per adattarsi ad un mondo che non si sopporta, ma per fare a meno del bisogno di essere guardati, dagli altri e da sé stessi. E questo non è narcisismo, questa si chiama libertà.
Riferimenti bibliografici
S. Benvenuto, Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, Orthotes, Nocera Inferiore (SA) 2017.
G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste. 1975-1995, Einaudi, Torino 2000.
H. Greely, La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, Codice, Torino 2017.
F. Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
* Fata Morgana, 12 febbraio 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
IL PUNTO DI SVOLTA. Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre», Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto de "La mente estatica".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE...
LA CORONA DEL REGNO, IL PALOMBARO, E LA LEGGENDA DI "COLA PESCE"
Cola Pesce *
Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva:
Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?
E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione:
Cola! Che tu possa diventare un pesce!
Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì.
La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re; e il Re ordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare.
Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando.
Cola! - gli disse. - C’è il Re di Messina che ti vuole parlare! E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re.
Il Re, al vederlo, gli fece buon viso.
Cola Pesce, - gli disse, - tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede!
Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia.
Dopo un poco di tempo fu di ritorno. Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo.
E allora Messina su cos’è fabbricata? - chiese il Re. - Devi scendere giù a vedere dove poggia.
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò a galla e disse al Re:
Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta.
O Messina, Messina,
Un dì sarai meschina!
Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Cola scese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce.
Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce. Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse:
Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno.
Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò sù disse che il fondo non l’aveva visto, perché c’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua. Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse:
Gettati dalla cima della Torre del Faro
La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò da lassù in cima.
Il Re ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido.
Che c’è, Cola? - chiese il Re.
C’è che sono morto di spavento, - disse Cola. - Ho visto un pesce, che solo nella bocca poteva entrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire m son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina!
Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo il Faro non gli era passata.
E Cola:
No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura.
Visto che non riusciva a convincerlo, il re si levò la corona dal capo, tutta piena di pietre preziose, che abbagliavano lo sguardo, e la buttò in mare.
Va’ a prenderla, Cola!
Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno!
Una corona che non ce n’è altra al mondo, - disse il Re. - Cola, devi andarla a prendere!
Se voi così volete, Maestà, - disse Cola - scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più.
Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare.
Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie. Cola Pesce s’aspetta che ancora torni.
(Palermo)
*Cfr.: Fiabe italiane raccolte e trascritte da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1971, vol. II, pp. 602-604.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SOVRANITÀ, LA DIGNITÀ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA, E "I DUE CORPI DEL RE". La lezione di Kantorowicz...
LA COSTITUZIONE, "I DUE CORPI DEL RE", E I DUE PATTI DEL CITTADINO. L’ analisi di Barbara Spinelli (2006)
I due corpi del re vanno tenuti disgiunti, perché resti vivo l’inaugurale patto che dissuade dalla guerra di tutti contro tutti, e che fonda un rapporto non effimero, non continuamente modificabile, fra i cittadini e chi li comanda.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala