All’interno di un lavoro portato avanti da più Autori, sul tema “L’India della psicoanalisi. Il subcontinente dell’inconscio” (IPOC, Milano 2014), Livio Boni, a conclusione del suo contributo specifico, dedicato a “Freud e l’India: un percorso ermeneutico lungo/un itinerario mancato”, e, in particolare, allo sforzo di fornire chiarimenti sul “dialogo con Romain Rolland” e sulla “equazione freudiana: India = misticismo”, scrive:
LA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". Alla luce di un “vecchio” lavoro di Giampaolo Lai (“Due errori di Freud”, Boringhieri, Torino 1979), di Elvio Fachinelli (“La mente estatica”, Adelphi, Milano 1989) e, mi sia consentito, di una altrettanto mia “vecchia” analisi della “provocazione” fachinelliana di portarsi oltre Freud (si cfr. “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 138-161), pur volendo accogliere l’opinione della lettura di Boni (2002/2014) sul valore della “sorprendente” testimonianza di Goetz relativa alle dichiarazioni di Freud sull’India, con tutte le implicazioni che esse hanno anche sul dialogo con Rolland, è da dire che nel testo di Goetz c’è un elemento, che sollecita attenzione e invita non a semplificare (“Questo riduzionismo - scriveva Fachinelli - non ci serve: ci serve piuttosto un adduzionismo”) ma ad “approfondire” ulteriormente la lettura della “lezione” di Freud a Goetz, proprio per fare possibilmente più chiarezza sul “percorso ermeneutico lungo" e su "l’itinerario mancato".
L’elemento è la citazione ripresa dalla ballata di Schiller - un vero e proprio “iceberg” del “mare” interno di Freud: “La Bhagavadgita è un poema grande e profondo che apre però su dei precipizi. E ancora giace sotto di me celato nella purpurea tenebra afferma "il tuffatore" di Schiller, che mai rivenne dal suo secondo temerario tentativo” (sul tema, si cfr. la brillante tesi di laurea di Malvina Celli, "La simbologia di Friedrich Schiller nella ballata "Der Taucher": amore o ambizione?", Università di Pisa 2014/2015).
Tale elemento illumina con molta forza un “impensabile” ancora da pensare: esso non è affatto “in aperto contrasto con tutto ciò che Freud afferma altrove” ma, al contrario, esprime solo e già tutto “il disagio della civiltà”, quella occidentale, nei confronti dell’altra civiltà, quella orientale in questo caso e, in particolare, dell’India.
Nel 1904-1905, a pochi anni dalla pubblicazione della Interpretazione dei sogni, avvenuta nel 1899 (con la data “1900”), e con la consapevolezza che la sua autoanalisi - interminata e interminabile - non è affatto finita, egli sa bene in quale impresa si è “tuffato”! Il motto virgiliano, “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” («Se non posso muovere gli dei superiori, muoverò quelli degli inferi»), posto ad esergo dell’opera, già dice bene a se stesso di quali e quanti pericoli e difficoltà dovrà affrontare il “conquistador” nel suo cammino.
Un’ombra lo seguirà fino alla fine: è quella di Josef Popper-Lynkeus (1838-1921), ingegnere, filantropo, e scrittore, che con le sue “Fantasie di un realista”, opera pubblicata a Vienna nel 1899, contemporaneamente a “L’interpretazione dei sogni”, che lo "tormenterà" a non rassegnarsi (“I miei rapporti con Josef Popper-Lynkeus”, 1932) e ... a non perdere il coraggio degli inizi!
Nel 1929, nel “Disagio della civiltà”, «un’opera essenziale, di primo piano per la comprensione del pensiero freudiano, nonché il compendio della sua esperienza» (J. Lacan), nella parte finale del primo capitolo, a Romain Rolland, chiudendo con modi da “animale terrestre” la porta in faccia al “suo amico oceanico” (così dalla dedica sulla copia del libro inviatagli), ripete la “lezione” data a Goetz nel 1904-1905, con altri versi dalla stessa ballata: -“(...) ancora una volta sono indotto ad esclamare con le parole del Tuffatore di Schiller: “... Es frue sich, / Wer da atmet im rosigten Licht. [... Gioisca, / Chi qui respira nella luce rosata.]” (S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, p. 208).
A ulteriore precisazione, per chi ancora possa avere qualche dubbio sul senso del suo discorso e del suo percorso, alla fine del capitolo 7 del "Disagio", richiama alcuni versi dalla canzone dell’arpista nel “Wilhelm Meister” di Goethe e commenta:
Il Conquistador comincia a deporre le armi e ammette: “(...) mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai mei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti” (op. cit., p. 280).
Nel 1930, a Freud viene conferito l’ambito “Premio Goethe”. Il riconoscimento segnava per lui, come dichiarò, la vetta più alta della sua vita. Nel “Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte”, (S. Freud, Opere, XI, Torino 1979, pp. 7-12), egli scrive: “Io penso che Goethe, a differenza di tanti altri nostri contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi”. Certamente non si sbagliava, ma forme di immaginario “prometeico”, condiviso sia con Goethe sia con gli “altri nostri contemporanei”, lo accecano ancora. I suoi “sogni” personali erano più le “fantasie” di un idealista (platonico-hegeliano ), che di un realista, alla Popper-Lynkeus e alla Rolland!
Nel 1931, alla fine dell’ultimo capitolo del “Disagio della civiltà”, dopo l’ultima frase: “Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo [...]. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.”, aggiungerà: “Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito” (op. cit., p. 280).
Nel 1938, con grandissime difficoltà, a stento riesce a lasciare Vienna e a raggiungere, sognando "Guglielmo il Conquistatore", l’Inghilterra - un’isola in mezzo all’oceano! Morirà a Londra il 23 settembre 1939.
A sua memoria e gloria, è da ricordare che, se il suo primo lavoro "L’interpretazione dei sogni" richiama alla memoria la figura di Giuseppe, e il suo lavoro di interpretatore dei sogni del Faraone, l’ultimo lavoro risollecita a riflettere su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e a proseguire il suo lavoro, quello di interpretatori e interpretatrici dei sogni dell’intera umanità. Uscire dallo Stato di minorità è possibile, non è “l’avvenire di un’illusione”. Non dimentichiamo di «coltivare il nostro giardino»!
Sul tema, nel sito, si fr.:
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
VITA, FILOSOFIA, STORIA E LETTERATURA...
BENEDETTO CROCE, LO SPIRITO DI "COLAPESCE", E LA VITA DI UN "PALOMBARO LETTERARIO". Una brillante ricognizione di Luisella Mesiano
LEARDO MASCANZONI, SALIMBENE, RICCOBALDO E LA LEGGENDA DI COLA PESCE, «Quaderni medievali», 54 (dicembre 2002), pp. 150- 162.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala (25 Aprile 2018)
IL QUINTO PRIVILEGIO DELL’INCONSCIO (ELVIOFACHINELLI) E "LA MENTE ORIENTALE" (CHRISTOFER BOLLAS): ELVIO FACHINELLI, SIGMUND FREUD, E GEORG GRODDECK ... *
QUALCHE PAROLA IN MEMORIA DI GEORG GRODDECK
di Hermann Keyserling *
Il 10 giugno 1934 morì a Zurigo, all’età di sessantasette anni, il medico di Baden-Baden Georg Groddeck, il solo autentico e qualificato continuatore della scuola di Schweninger. Con lui è scomparso uno degli uomini più straordinari che io abbia mai incontrato. È l’unica persona di mia conoscenza che mi abbia sempre fatto pensare a Lao-Tse: il suo non-fare era creativo, a un grado addirittura magico.
Egli si atteneva al principio che il medico nulla sa, nulla può fare, e pochissimo deve fare: dovrà soltanto, con la sua presenza, risvegliare le forze risanatrici insite nel paziente. Naturalmente, questa tecnica del non-sapere e del non-fare non gli avrebbe permesso, da sola, di mantenere in vita la sua clinica di Baden-Baden. Perciò egli guariva facendo uso di una combinazione di psicoanalisi e di massaggi, in cui aveva una parte non trascurabile l’infliggere dolore: dalla reazione di difesa contro il dolore sorgeva nei suoi pazienti (a Groddeck ricorrevano soltanto coloro che avevano delle affinità con lui) la volontà di guarire; e, allo stesso tempo, dall’acuto dolore che certe domande miravano a provocare gli veniva sempre qualche idea utile per la cura. Fu così che Groddeck mi guarì, in meno di una settimana, di una flebite ricorrente che, secondo il parere di altri medici, avrebbe dovuto affliggermi per molti anni, se non per tutta la vita.
Ma l’essenziale in Groddeck, era la sua silenziosa presenza. Quando eravate con lui, ed egli non vi domandava nulla, vi venivano in mente più idee che non di fronte al più abile analista. Tuttavia, in Georg Groddeck, io non tanto rispettavo e amavo il medico quanto il saggio paradossale. Egli non apparteneva ad alcuna scuola: su ogni cosa aveva le opinioni più strettamente personali, e spesso le più eretiche. Ed erano tutte, se intese nel senso giusto, cioè non troppo alla lettera, opinioni profonde.
Non conosco nessun filosofo della natura che come lui abbia esaltato la condizione dell’infanzia; si potrebbe addirittura dire che il suo ideale fosse l’uovo, perché nessun organismo già formato sa fare ciò di cui esso è capace. Nell’amoralità delle sue concezioni egli non era secondo a nessuno. Era un eccentrico all’ennesima potenza. Ma aveva un contatto così diretto con l’«Es» creatore che era in lui (è stato Groddeck a coniare il termine tecnico «Es», in contrapposizione all’«Io») che tutte le sue idee, anche se espresse nella forma più bizzarra, riflettevano sempre delle profonde verità.
Nei suoi libri apparsi a tutt’oggi (Lo scrutatore d’anime e Il libro dell’Es) non è facile, per chi non lo abbia conosciuto personalmente, cogliere questo aspetto essenziale di Groddeck. Ma per alcuni anni egli ha pubblicato privatamente una rivista così interessante, «Die Arche» («L’arca»), che io spero molto che i suoi eredi ne raccoglieranno e ripubblicheranno l’importantissimo contenuto.
Durante il suo ultimo anno di vita egli lavorò a un volume che intendeva fare uscire dopo la sua morte. Ma, come accade per tutte le persone più ricche di vita, la presenza personale di Groddeck contava molto, molto più di quel che egli esprimeva nelle parole e nelle teorie. Hanno potuto accorgersene, talora, i partecipanti ai seminari della «Scuola della saggezza» a Darmstadt: molte volte Groddeck vi prese la parola, ma era soprattutto la sua semplice, viva presenza a fare di Groddeck un partecipante insostituibile di quelle riunioni: ora provocando, ora esasperando, ora affascinando, egli costringeva ognuno a pensare con la propria testa. La sua scorza era ruvida: la sua anima, troppo vulnerabile, aveva bisogno di questa protezione. Ma, nell’intimo, era uno degli uomini più caldi, più affettuosi, più preoccupati del bene altrui, e più grandi che io abbia mai incontrato.
* Georg Groddeck, "Il libro dell’Es", Postfazione di Hermann Keyserling, Adelphi, Milano 1971 (V ed.).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA MENTE ORIENTALE. Psicoanalisi e Cina (Christofer Bollas, Milano 2013). "La tesi di fondo di Bollas è che la psicoanalisi ha operato una integrazione inconscia tra la struttura della mente orientale e quella occidentale. Il silenzio intenso dell’“ordine materno”, quel “conosciuto non pensato” che rimanda a un Sé preedipico fondamentale per la psicoanalisi, rappresenta la stessa modalità orientale di essere e di relazionarsi, non basata sulla “autorappresentazione” del linguaggio, ma piuttosto sulla “autopresentazione”: sull’essere e sulla forma come modalità di comunicazione. Quell’“ordine materno”, per quanto rimosso a favore di un “ordine paterno” decisamente più affidato al mondo simbolico del linguaggio, è il regalo che l’Oriente ha fatto alla psicoanalisi, non inventata ma trovata da Freud (Luciana Sica, Se l’inconscio è made in Cina, la Repubblica, 15 settembre 2013).
FLS
“Il segreto del Tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum” di Gigi Spina
Intervista *
Prof. Gigi Spina, Lei è autore del libro Il segreto del Tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum edito da Liguori. Nel libro rivive il racconto di uno dei protagonisti degli affreschi della famosissima Tomba del Tuffatore di Paestum: innanzitutto, di quale importanza è il ciclo di dipinti della tomba?
La scoperta della tomba, nel 1968, offrì agli studiosi, fra cui va innanzitutto ricordato Mario Napoli, e al mondo intero un manufatto di grandissimo valore, sia per la fattura dei dipinti sia per la loro funzione nella decorazione della tomba stessa. Insieme alle quattro pareti laterali, la lastra di copertura è dipinta dall’interno. L’invisibilità del ciclo pittorico ai posteri, interrotta dalla scoperta - bisogna ricordarlo - mise in contatto con credenze e pratiche non certo ignote, ma sicuramente di grande impatto e per molti aspetti non immediatamente decifrabili.
Negli oltre cinquant’anni passati da allora la ricerca ha fatto molti passi avanti e, d’altra parte, l’allestimento curato negli ultimi anni dal Direttore del Parco Archeologico e del Museo di Paestum Gabriel Zuchtriegel offre al pubblico sempre più vasto dei visitatori la possibilità di godere in diretta di pitture davvero indimenticabili. Elementi analoghi in tombe della stessa area geografica si limitano a singole caratteristiche decorative. Inoltre, la presenza delle immagini in rete consacra a livello mondiale quella che ormai tutto il mondo conosce come Tomba del Tuffatore.
Senza questa opportunità, direi che il mio stesso tentativo di costruire un racconto di fantasia su quei dati reali sarebbe stato meno entusiasmante e coinvolgente.
Il Tuffatore di Paestum è diventato un simbolo dai molti, possibili, significati che ha ispirato immagini, scritture, musiche. Un percorso, questo, che è dunque relativamente giovane, nel quale s’inserisce anche il mio racconto. Nello scriverlo non ho voluto, però, né avrei avuto le necessarie competenze, offrire un ulteriore contributo specialistico, dedicato, cioè, al valore archeologico e storico-artistico, nonché culturale, del ciclo dei dipinti.
La presenza di validissime, anche se non definitive, pubblicazioni, cataloghi, ricerche specifiche mi è servita a inquadrare meglio - e nei limiti di una ipotesi almeno plausibile, anche se solo letteraria - il tentativo di immaginare la storia di quella tomba e le vicende dei protagonisti degli affreschi, pittore compreso.
Per questo il racconto è accompagnato da una guida di lettura, un’appendice che rinvia chi abbia voglia e curiosità a contributi scientifici per saperne di più e offre le necessarie spiegazioni utili alla comprensione di miti citati e altri riferimenti culturali. Il racconto si può leggere indipendentemente da tale appendice.
Nei dipinti sono raffigurate scene di un simposio: cos’era e come si svolgeva tale pratica?
Come possiamo ricostruire e conoscere a fondo da due fondamentali opere greche, che hanno lo stesso titolo, Symposion, scritte da Platone e Senofonte, fra V e IV sec. a.C. il simposio era un incontro che oggi definiremmo multimediale; in cui, cioè si mettevano in campo e si praticavano diverse forme di comunicazione e scambio culturale fra i partecipanti: discorsi, suoni, canti, giochi, consumazione di cibi e bevande. Il tempo del simposio consentiva di dialogare su temi di fondo del vivere umano (certo, relativi ai quadri mentali dell’epoca) e di intrattenersi con passatempi di vario tipo. Esistevano dunque regole condivise per dar vita a un evento di cui si conservano molte raffigurazioni.
Nel caso della Tomba del Tuffatore, l’evento fu immaginato come elemento di accompagnamento a una morte, sia per possibili intrecci metaforici e allegorici, sia per probabili connessioni reali, come ho immaginato nel racconto. In ogni caso, se si leggono i due testi indicati all’inizio, si ha una precisa idea di come la presenza fosse quasi esclusivamente maschile, come di rado una donna vi potesse essere ammessa - e solo se rivestiva determinati ruoli - e di come l’alternarsi di discorsi, riflessioni, bevute, giochi e ‘colonne sonore’, senza dimenticare l’insito aspetto politico degli incontri, potesse farne davvero un appuntamento di rilievo, degno di essere cantato e raffigurato.
Nel dipinto compare un gioco particolare, il cottabo: come si svolgeva?
Come accenno nell’appendice, ho fatto riferimento a una tesi di laurea di dottorato, che seguii a suo tempo, sui giochi nell’antichità, poi pubblicata col titolo Tabliope, frutto di una bellissima ricerca di Gabriella Carbone, ora docente in un liceo. Fra i tanti giochi analizzati e documentati, il cottabo è quello che non ha una continuità nelle epoche successive, ma ne abbiamo sia raffigurazioni, come quella di Paestum, ma soprattutto vascolari, sia descrizioni in singoli trattati. Aveva alla base il vino, momento importante di condivisione nel simposio. I giocatori e simposiasti, sdraiati sulle klinai, triclini che ovviamente garantivano il riposo e il rilassamento, aspettavano il loro turno per lanciare il residuo della loro bevuta in un recipiente al centro della sala.
Esistono descrizioni diverse o diverse ipotesi di gioco: il lancio poteva avvenire dalla coppa stessa attraverso la rotazione accorta ed esperta del braccio che, vincendo la forza di gravità e calcolando la distanza, faceva in modo che il getto finisse nel catino. Era, dunque, importante la quantità di vino da lanciare, residuo della bevuta, che poteva essere calcolata lasciando nella coppa la giusta quantità o restituendola, per così dire, dalla bevuta con un giusto dosaggio della bocca. Ciascun partecipante, al suo turno, lanciava cercando di effettuare un lancio ottimale, senza, cioè, che parte del liquido andasse perduto durante il tragitto.
Quale significato assumeva il tema del tuffo nel mito e nella letteratura antica?
Sin dalla scoperta, l’attenzione degli archeologi, e di Mario Napoli per primo, si concentrò sulla figura del Tuffatore, raffigurato all’interno sulla lastra di copertura della tomba, sia per la bellezza della scena, davvero suggestiva per scenografia, colori e armonia delle forme, sia per il possibile significato chiave della presenza di un tuffo in una tomba.
Alle spalle degli studiosi e, ancor prima, alle spalle del pittore, dei committenti e del suo (temporaneo) pubblico, c’era evidentemente una storia lunga quanto quella dei miti e della letteratura antica che parla del tuffo. Del tuffo in mare, prevalentemente, dall’alto di un dirupo, per una serie di motivi i più vari.
Il termine greco è katapontismos, lancio verso il mare, che assumeva anche una funzione giudiziaria, quasi di conferma o meno di una possibile colpa, nel caso il soggetto lanciato in mare si fosse salvato o meno. -Gli esempi sono dunque tanti, sia nel mito che nella storia letteraria, fermo restando il mistero della figura del Tuffatore di Paestum, il quale sembra lanciarsi in un elemento acqueo da un supporto non immediatamente perspicuo, mentre la tomba rinvia subito a una destinazione infera: un salto nell’Ade.
Come quello immaginato da un noto poeta ellenistico, di Cirene, Callimaco, che descrisse in un epigramma, composto da soli quattro versi, il tuffo nell’Ade (quindi metaforico, sostanzialmente un suicidio) di Cleombroto, un cittadino di Ambracia. L’epigramma ha un fondo ironico, perché Callimaco precisava che Cleombroto non aveva particolari motivi di rifiuto della vita; no, solo che aveva letto un dialogo platonico, il Fedone, che in qualche modo rendeva desiderabile l’abbandono del corpo con tutti i suoi impacci e la libertà dell’anima. Per questo, aveva deciso di accelerare i tempi raggiungendo ben in anticipo l’Ade.
L’epigramma fu tradotto in latino ed ebbe una grande diffusione nei secoli successivi. Ecco: come per molti altri riferimenti del racconto, ho utilizzato testi e situazioni che avevo studiato e sui cui avevo anche scritto nel corso del mio lavoro di professore universitario, per suggerire una storia che fosse adattabile alle immagini della Tomba del Tuffatore: il tuffo, potremmo dire il salto mortale, ha nell’antichità moltissimi modelli, dalla storia di Saffo che si butta in mare per amore alle sirene che si suicidano lanciandosi in mare e trasformandosi in scogli. Bastava solo ricordare e scegliere per dare al Tuffatore un motivo per il suo tuffo.
Poseidonio, lo sfortunato proprietario della tomba, era probabilmente di origini etrusche: quale crocevia di etnie rappresentava l’antica Poseidonia?
Vorrei precisare, per chi non avesse letto il mio racconto, che i nomi dei protagonisti sono inventati da me, anche se tentano di rispondere alle consuetudini delle denominazioni antiche. Ricordo che nell’Odissea assistiamo, per così dire, al battesimo di Odisseo, cioè all’imposizione di quel nome, proposto dal nonno Autolico, in ragione dell’odio che lui stesso aveva prodotto in chi incontrava.
Per questo il Tuffatore si chiama Poseidonio, in omaggio al nome antico di Paestum, Poseidonia, luogo consacrato al dio del mare, mentre il narratore si chiama Bute in omaggio a uno degli Argonauti, anche lui capace di tuffarsi in mare per raggiungere le Sirene.
Certo, Poseidonia, città d’acqua, è stata, come molti insediamenti della nostra penisola nella prima metà del primo millennio a.C., un luogo d’incontro di varie etnie, fra di loro in conflitto o in forme (meno frequenti) di convivenza.
Non mi sono addentrato, nel racconto, in queste discussioni e relative ricerche, pur avendo presenti le varie ipotesi sulle origini del morto, sulla localizzazione della tomba, periferica rispetto all’insediamento pestano ecc., ma mi è parso di poter affermare, anche nell’utilizzazione dei miti antichi che ho richiamato per il mio racconto, che la cultura greca ha avuto maggior forza nel gestire la colonizzazione e nell’orientare il contatto con le culture e popolazioni già presenti sul suolo italico - particolarmente suggestiva, anche dal punto di vista dei manufatti e delle pitture tombali, la presenza dei Lucani - tenuto anche conto del progressivo affermarsi della cultura romana.
Nel libro ci offre un saggio di quella che definisce diacultura o ricezione, una sorta di rilettura moderna e riattualizzata della cultura classica: quale ruolo, a Suo avviso, per la classicità nella società contemporanea?
Per rispondere adeguatamente a questa domanda - e ricordo che ormai da pensionato posso anche tracciare un bilancio della mia attività che ha attraversato diversi periodi cruciali della storia politica e culturale
italiana - devo fare qualche passo indietro e ricordare che quando, negli anni ’70, i metalmeccanici ebbero dal loro contratto la possibilità di usufruire di 150 ore di formazione culturale, anche nelle università, ci attivammo in molti alla Facoltà di Lettere della Federico II di Napoli, già politicamente impegnati in partiti e movimenti di sinistra; non avevo però ben chiaro, in quel momento di forte ideologia, quale contributo potessi dare, con le mie competenze, al confronto con i colleghi modernisti, storici, sociologi ecc.
Ora, forse, avrei le idee più chiare e farei agire meglio quella che ho chiamato diacultura. Mi spiego: è una pratica di rapporto col mondo antico che ho esercitato da molti anni anche se solo recentemente ne ho definito meglio i contorni. Nel 1983, in occasione di un congresso internazionale di Papirologia, pubblicai sul Manifesto un’intervista col Vesuvio in cui il vulcano rivendicava il suo ruolo positivo nella conservazione dei papiri di Ercolano.
Più recentemente ho messo in scena un lungo monologo, Fu mio nonno a chiamarmi Odisseo, in cui si alternano letture di versi dell’Iliade e dell’Odissea a riflessioni sulla vita di un eroe capace di affrontare così tante peripezie (il video è disponibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=RJsRWN_L9qg).
Non ho, dunque, un atteggiamento sacrale o ‘religioso’ verso il mondo antico che, in quanto umano, profondamente umano, non è a mio parere un modello o uno scrigno di valori universali e perenni. Fu, intanto, un mondo complesso, come sono le culture in genere, non generalizzabile e non riconducibile a stereotipi.
Lo sguardo antropologico è servito a indagare meglio in quelle culture e a superare, io spero definitivamente, un classicismo che ha avuto le sue stagioni anche vivaci, ma ora non credo abbia più niente da offrire. Non si tratta, dunque, per gli antichisti, di attualizzare i classici o le culture antiche, renderle cioè capaci di parlarci ancora, magari schierandosi dalla parte di questo o quel pensatore antico o addirittura scrivendo in greco antico su temi moderni.
Gli attuali siamo noi, ciascuno e ciascuna con le proprie storie, e oggi siamo in grado di guardare alla complessità di quei mondi, molto diversi dai nostri, per cercare di comprenderne le dinamiche interne, le contraddizioni, le luci e le ombre.
Non c’è stato il vuoto, nei secoli che ci separano dall’Atene di Pericle o dalla Roma di Augusto; per questo, nel ripensare a quelle culture per tentare di farle rivivere nel nostro presente - rivivere, non renderle attuali, rivivere per come furono capaci di vivere - non possiamo ignorare tutti gli strati culturali che si sono accumulati da loro a noi, fino al nostro presente, e che interagiscono necessariamente, inevitabilmente, direi, con quel passato.
La diacultura è dunque una possibile ricezione proficua del passato, secondo la quale il passato si presenta per quello che è stato, non per il modello che alcuni pensano possa essere, per l’insegnamento che alcuni pensano ancora possa dare, ma come forma antica e diversa di umanità, più facile forse da interpretare perché, nel tempo, abbiamo recepito e sentiti più vicini a noi alcuni passaggi chiave delle loro storie. Ma con la consapevolezza che ci allontaniamo sempre più da quei mondi, che quindi dobbiamo solo preoccuparci di conservare al meglio, con tante altre cose, nel nostro patrimonio culturale come elemento dialettico di analogia, di arricchimento.
La diacultura non teme dunque i corto-circuiti arditi perché sa praticare le distinzioni e riconoscere le differenze; la diacultura accumula, non sostituisce o assolutizza; complica, non semplifica. La rilettura moderna dei classici, dei loro autori, delle vite che li hanno prodotti, non è dunque una lettura che attualizza, ma una lettura che precisa i confini: ripeto, le diversità. Continuerò a confrontarmi orizzontalmente con i miei contemporanei e le mie contemporanee, da antichista, perché so che è con loro che dovrò fissare gli obiettivi del mio vivere e lottare o fare compromessi per realizzarli, non con Demostene o Cicerone o Seneca o altri, che invece mi serviranno ad arricchire la consapevolezza del divenire, del passare del tempo e delle trasformazioni.
Penso, dunque che questo possa essere uno dei modi di rileggere la cultura antica nella nostra epoca, accanto a modi simili, purché si pongano l’obiettivo, come ho avuto già modo di scrivere, non di difendere il fortino dagli assedianti, ma di divulgarlo e renderlo familiare e visitabile, pur nella sua diversità, per decidere di inserirlo nelle nuove forme di conoscenza. Insomma, col mio racconto, Il segreto del Tuffatore, ho voluto scrivere un viaggio di fantasia sostenibile nel passato, con i piedi ben piantati nel presente.
Luigi (Gigi) Spina, Salerno 1946, ha insegnato Filologia classica all’Università Federico II di Napoli ed è stato Chaire Gutenberg all’Università di Strasburgo nel 2009. È segretario dell’Associazione Antropologia e Mondo Antico. Per il CV e per l’elenco completo delle sue pubblicazioni (volumi e articoli), comprese quelle non professionali e alcuni video, per la maggior parte scaricabili, si rinvia al sito www.luigigigispina.altervista.org.
* Fonte: Letture.org
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI, E "DIVINA COMMEDIA": PRIMA IL "MEMENTO NASCI" E, POI, IL "MEMENTO MORI"!
Trasformare se stessi /
Vivere la filosofia: Pierre Hadot
di Moreno Montanari *
L’idea di fondo che permea tutta la sua filosofia, ed emerge da uno studio profondo delle fonti antiche, ruota infatti attorno al condimento che il suo sapere “non consiste nell’insegnamento di una teoria astratta e meno ancora in un’esegesi di testi, ma in un’arte di vivere, in un atteggiamento concreto, in uno stile di vita determinato, che impegna tutta l’esistenza. L’atto filosofico non si situa solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del «Sé» e dell’essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera e che cambia l’essere di colui che la compie. Lo fa passare da uno stato di vita inautentica, oscurata dall’incoscienza, rosa dalla cura, dalle preoccupazioni, allo stato di vita autentica, dove l’uomo conosce la conoscenza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori” (Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, 1981, tr. it. Einaudi, 1998, pp. 31-32). Questo tipo di condizione alla quale la filosofia lavora non si guadagna, dunque, studiando i testi di maestri, che certamente sono oggetto di un’attenta e meditazione e talvolta di un vero e proprio culto, ma sottoponendosi a una vasta gamma di pratiche filosofiche, che definirà esercizi spirituali “perché opera non solo del pensiero, ma di tutto lo psichismo dell’individuo” (ibid, p. 30).
Il loro principale compito è insegnare a trascendere le abituali categorie attraverso le quali siamo soliti organizzare l’esperienza offrendo così all’individuo la possibilità di sperimentare, in forma particolarmente viva, partecipata e intensa, una diversa percezione e concezione di sé, come parte vivente del tutto che è anche un impegno etico a riorientare la propria vita alla luce di questa presa di coscienza:
L’esercizio in questione va sotto il nome di “esercizio spirituale della fisica”, praticato in particolare dagli stoici e dagli epicurei, ma probabilmente già presente nella tradizione pitagorica (ve ne sono tracce nei Versi aurei), e viene effettuato non solo adottando uno sguardo su se stessi e sui fenomeni del mondo a partire da un punto di vista assoluto che li ingloba e li svela nella loro irriducibile interconnessione (punto di vista che accomuna, pure nelle diverse concezioni, tutte le filosofie antiche) o riflettendo sulla natura ultima di tutte le cose (la physis e l’arché che la organizza), ma sperimentando un diverso modo di percepire se stessi come espressione di tutto ciò. Ce ne offre una testimonianza biografica lo stesso Hadot:
Hadot scoprirà poi che l’esperienza biografica che segna il suo ingresso nella filosofia va sotto il nome di “sentimento oceanico”, concetto coniato da Roman Rolland per connotare ogni autentico sentimento religioso in cui Freud, inizialmente scettico, riconoscerà la possibilità di “rovesciare i normali rapporti tra i territori della psiche, così da poter cogliere eventi profondi dell’Io e dell’Es altrimenti inaccessibili” (S. Freud Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino, 1932, p.190) - il che è particolarmente consonante con l’idea hadotiana che questo tipo di esperienza chiami in causa l’intero psichismo dell’individuo.
Uno dei principali meriti di Hadot consiste del resto nell’aver sottratto alla religione il monopolio della spiritualità rivendicandolo, in forma laica, per ogni filosofia che ricerchi un contatto con il tutto, ma anche di aver spiegato che per quanto forte ed intenso possa essere l’insight al quale si perviene quando si riesce a pervenire a questo genere di esperienze - affidate agli esercizi spirituali della filosofia antica, prima ancora che della tradizione cristiana - tocca poi all’individuo amplificarne il senso in chiave comunitaria:
È evidente che questa rilettura della filosofia antica, che qui posso solo accennare, modifica profondamente la concezione che ne abbiamo e mina alle sue fondamenta il pregiudizio, duro a morire, che la filosofia costituisca una forma di sapere puramente astratta, magari affascinante ma incapace di incidere concretamente sulla vita di tutti i giorni. La ricaduta esistenziale degli esercizi spirituali filosofici appare chiarissima; si pensi, solo per limitarci ad alcuni esempi, all’esame di coscienza dei pitagorici e degli stoici, svolto la sera prima di dormire per misurare e ridurre il più possibile la distanza tra il proprio stile di vita e i principi filosofici che lo ispiravano, con l’impegno a progredire nel giorno seguente; alla meditazione dello sguardo dall’alto, praticata in particolare dagli stoici per apprendere a relativizzare l’importanza dell’io rispetto al cosmo e provare a ricollocarsi, anche dal punto di vista politico, nella prospettiva del Tutto; al memento mori epicureo e stoico come esercizio per ricordarsi di vivere appieno, divenendo particolarmente presenti a se stessi e alla vita, nella consapevolezza della caducità dell’esistenza; all’esercizio di contemplazione della fisica cosmica quale paradigma esistenziale che predispone a una diversa percezione di sé nel mondo e disvela la vasta trama di relazioni che ci intessono e che ci rendono interdipendenti gli uni dagli altri, in Marco Aurelio e Seneca; allo sforzo quotidiano, comune a tutte le scuole filosofiche, di esercitarsi a condurre una vita esaminata, maggiormente consapevole e autentica, volta alla promozione della piena fioritura del proprio e dell’altrui potenziale umano, nella ricerca di un ideale di saggezza che si sa irraggiungibile ma che si considera, non di meno, irrinunciabile.
Inquadrata alla luce di queste pratiche, la filosofia palesa il suo desiderio di liberare gli individui dalle loro superstizioni, dalle loro paure e dai loro pregiudizi, per instradarli verso la possibilità di una vita più autentica perché capace non solo di interrogarsi sul proprio senso, alla luce dei concetti di verità, giustizia, collettività e cosmo, ma di creare le condizioni per un diverso modo di vivere, personale e collettivo, che incarni i valori a cui s’ispira, creando le premesse per un mondo più giusto, saggio e realizzato.
La sua forza eversiva - ben nota a chi studi la vita dei suoi principali protagonisti - si attenua radicalmente nel medioevo, quando viene confinata nelle università e ridotta a mero arsenale concettuale e argomentativo al servizio della teologia, e subisce, seppur con rare ma significative eccezioni, un ulteriore ridimensionamento nella modernità, allorché si inizia a considerare filosofi pensatori, per lo più docenti universitari, che non sentono più l’esigenza di testimoniare con il proprio stile di vita la bontà delle teorie che insegnano e di cui sono riconosciuti specialisti. Questi, agli occhi di Hadot, non sono filosofi ma studiosi di filosofia, in taluni casi straordinari architetti o ingeneri del pensiero che offrono un prezioso contributo al nostro modo di pensare e intendere le cose ma che non sentono alcuna esigenza di indicare, testimoniandolo, un diverso modo di vivere.
La scommessa di Hadot è che, opportunamente ripensata, la filosofia possa invece tornare ad essere intesa e praticata come una proposta di vita un po’ più consapevole, giusta, armoniosa e saggia incentrata proprio su questi esercizi che hanno lo scopo di facilitare e consolidare il cambiamento, a partire da se stessi ma pensandosi come ponte per gli altri e per un mondo a venire al quale si apre il passo. Esercitarsi ad essere all’altezza delle esperienze di verità e bellezza che si è vissuto o che si è compreso, dando vita a una maniera di vivere che resti loro consonante, è l’impegno etico al quale la filosofia di Hadot richiama, nel segno dello sforzo, comune a tutte le scuole antiche, di promuovere la piena fioritura o espressione dell’umanità, paradigmaticamente incarnata dall’ideale del saggio.
Certo il nostro tempo richiede di ripensare questo antico ideale in forme meno esemplari e superogatorie che sappiano valorizzare, rispetto all’antichità, le differenze di genere, di età e di cultura e che si arricchiscano dei contributi offerti dal sapere della contemporaneità alla comprensione dei fenomeni umani e cosmologici, come invita a fare nel corso di tutta la sua opera filosofica Romano Màdera che si concentra in particolare sulla possibilità di arricchirla alla luce del sapere della psicologia del profondo, di una pedagogia del corpo che tenga conto delle pratiche delle diverse tradizioni spirituali d’Oriente e Occidente, antiche e moderne, con l’apertura ad un orizzonte di senso mitobiografico e ai contributi più fecondi di uno sguardo sistemico sulla realtà.
La sua prospettiva ha tra l’altro il merito di ampliare lo spettro di quello che Hadot chiama “l’intero psichismo” alla dimensione inconscia, aprendo la strada a un’ulteriore pista di trascendenza, che permette di tesaurizzarne in chiave analitica quella funzione terapeutica che la filosofia antica si riconosceva. Ad ogni modo, che si voglia ripensarla alla luce di questa proposta o meno, la possibilità di tornare a concepire la filosofia come una maniera di vivere tesa a custodire la sensazione di meraviglia per l’esistenza, a ricercare il senso delle cose e del nostro stare al mondo in una prospettiva non più egocentrica ma ecocentrica, a perseguire una vita più vera e autentica che, nell’aristotelica consapevolezza che siamo “animali sociali”, provi a realizzarsi prendendosi cura delle relazioni che la innervano, vivendole come risorse e opportunità anziché come impedimenti o limiti è ancora possibile. Essa, tuttavia, richiede una particolare forma di coraggio che è in fondo una forma di fedeltà alla vita e a se stessi:
In definitiva, il mondo è forse splendido, spesso atroce, enigmatico. L’ammirazione può diventare stupore, stupefazione, persino terrore. Lucrezio, parlando della visione della natura rivelatagli da Epicuro, esclama: “Di fronte a questo spettacolo si coglie una sorta di piacere divino e un brivido di sgomento. Sono proprio le due componenti del nostro rapporto al mondo, insieme piacere divino e sgomento (...). Questo brivido sacro non si produce volontariamente, ma nelle rare occasioni in cui ci coglie, non dobbiamo cercare di sottrarci, perché si deve avere il coraggio di affrontare l’indicibile mistero dell’esistenza”.
* Doppiozero, 24 maggio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
NICODEMO O DELLA NASCITA: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
Federico La Sala
Freud e i processi collettivi
di Elvio Fachinelli (Sinistra in rete, 16.11.2018)
Individuo, società, religione
Quello dei rapporti tra individuo e società è certamente un problema molto complesso, che ha travagliato generazioni di studiosi e di filosofi e che ha trovato anche Freud in una situazione di interrogazione aperta. Proprio perché così complesso, infatti, non si può pensare che in Freud vi sia una soluzione univoca, valida una volta per tutte. Direi che, da questo punto di vista, si può parlare di una doppia versione freudiana dei rapporti individuo-società. La prima - la più diretta e immediata - vede in pratica nella società l’estensione e l’amplificazione di una serie di problematiche che hanno radice all’interno dell’individuo. In altri termini, nella società ci troveremmo di fronte a una serie di problemi che grosso modo ricalcano le vicende individuali del soggetto, soprattutto quelle infantili.
C’è poi una seconda versione, che in fondo risulta abbastanza isolata all’interno dell’opera freudiana, ma che, a mio parere e a parere anche di altri, è il punto forse più interessante della elaborazione di Freud. Si tratta di una tesi contenuta in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, un testo del 1921 in cui appare fondamentale la presenza dell’altro - l’altro inteso appunto come gli altri individui - all’interno del soggetto stesso, e ciò attraverso dei legami d’identificazione. Freud muove da un esame comparato del comportamento delle folle - delle masse potremmo dire oggi - e dei fenomeni dell’innamoramento e dell’ipnosi, trovando in atto, in tutti e tre i casi, un processo di sottomissione al volere dell’altro: il problema della società si configura così non come una semplice amplificazione dei problemi del soggetto individuale, ma in un certo senso come una situazione di mescolanza, se non di capovolgimento, in cui il soggetto individuale è già intrinsecamente, all’origine, connesso al suo gruppo sociale, alle sue appartenenze esterne.
E questo non per un legame che gli venga imposto dal di fuori, ma proprio come fondazione della sua stessa soggettività. Per quanto concerne la religione, è possibile individuare in Freud vari strati culturali e concettuali. Il primo è quello dell’atteggiamento di un illuminista che vede nella religione il residuo di una sorta di malattia infantile dell’umanità. C’è poi un secondo strato, che costituisce il nucleo centrale della elaborazione freudiana: nella religione si ritroverebbe, in forma sublimata, un particolare tipo di rapporto tra una figura infantile e la figura di un dio-padre soccorritore, a cui ricorrere in situazioni di bisogno estremo. Ora questa seconda interpretazione è andata incontro a un’obiezione molto forte, o almeno a un’obiezione a cui Freud stesso sentiva di non saper dare una risposta immediata. Secondo lo scrittore francese Romain Rolland, con il quale era da tempo in corrispondenza, la concezione freudiana della religione mancava di quello che egli chiamava «sentimento oceanico», cioè un che di indistinto, di fluido, che ha a che fare con la percezione di una figura divina meno carica di indicazioni e di ordini, rispetto al dio paterno dell’impostazione freudiana.[1]
Nel corso della sua ricerca clinica Freud s’imbatté in quelli che noi chiamiamo nevrotici ossessivi, una categoria di malati non ignoti ai medici del suo tempo (come del nostro), ma che nella sua riflessione assunsero un rilievo centrale, tra l’altro proprio in rapporto al problema religioso. Uno dei sintomi più vistosi e caratteristici di queste persone è la coazione a compiere determinati cerimoniali, secondo regole molto rigorose, addirittura soffocanti, come se si trattasse di eseguire riti rivolti a un dio sconosciuto. Di qui l’audace movimento compiuto da Freud, soprattutto in Totem e tabù, del 1912-13, l’operazione cioè di vedere in queste situazioni quasi un esemplare individuale di ciò che, sul piano dell’umanità in generale, si chiama religione:«la nevrosi ossessiva - dice Freud - non è che la caricatura, per metà comica e per metà tragica, di una religione privata», mentre «la religione sarebbe la nevrosi ossessiva universale dell’umanità».[2]
In questa formulazione si può vedere una delle punte estreme dell’attacco portato da Freud contro il ritualismo religioso, anche se va subito precisato che tale critica è diretta non tanto alla religione in sé e per sé quanto a una certa sua modalità degradata e ritualistica, ossessiva appunto. E in effetti in altre opere la valutazione della religione, come del mito e della vita fantastica dell’umanità, trova ben altra impostazione, ben altra apertura.
Religione del padre e dissidenza
Il poeta Umberto Saba pieno di entusiasmo scriveva a Giovanni Comisso: «Mi dispiace che non ti sia piaciuto Totem e tabù. Vuol dire (scusami) che non l’hai ancora capito. È un fascio di luce proiettata sulle origini dell’umanità; è il più gran passo, in questo senso, fatto dopo Darwin, con questo in più, che è fatto dall’interno. Non vedi che è l’umanità che a poco a poco, e in modo confuso ancora, riscopre le sue origini?».[3]
Nonostante le critiche che l’opera incontra, Freud consapevolmente crede che questa sua ricerca possa rischiarare la tenebra dei primordi e il significato di intere costellazioni di miti, leggende, usi e costumi antichissimi. Nel suo soggiorno dolomitico[4] egli ha senza dubbio avvicinato, ascoltato o letto alcune delle leggende che numerosissime fiorivano lungo i pendii dei Monti Pallidi; sul Renon si tramandano i racconti delle streghe del Pirchboden, del colle Piper, il ciclo delle Rittner Hexensagen all’ombra delle «piramidi di terra».
Tali leggende narrano di streghe che si radunano nei luoghi frequentati un tempo da sette eretiche per compiere i sacrifici in onore dei loro dei; qui, la notte, danzano col diavolo e insieme ordiscono sortilegi fino all’alba, attente a non lasciarsi sorprendere dai bagliori del mattino. Ma a volte ciò non riesce, come nella leggenda delle «piramidi del Renon», dove si legge che in una terribile notte le streghe e Franz (un giovane ozioso e inetto), sopraffatti dalla furia infernale della bufera, non riuscirono a mettersi in salvo e, sorpresi dall’alba nella radura del Pirchboden, vennero trasformati in grigie piramidi di terra e di pietra.
Questo stupefacente paesaggio è stato senz’altro meta delle escursioni di Freud in quell’estate di Totem e tabù. La fantasia popolare, poi, si è ampiamente sbizzarrita nel dare nomi ad alcune rocce dalle forme enigmatiche e pertanto ritenute pietrificazione di spiriti cattivi: le «Cinque Dita» del Sassolungo, i «Mugoni» nel gruppo del Catinaccio, con le tre cime «il Frate, l’Orso e lo Stregone».
A proposito delle streghe Freud in una lettera del 24 gennaio 1897 all’amico Wilhelm Fliess aveva scritto: «L’idea della stregoneria sta prendendo forma. I particolari si stanno affollando. Ho scoperto la spiegazione del “volo” delle streghe [...]. Le loro riunioni segrete, con danze e altri trattenimenti, si possono vedere ogni giorno nelle strade dove giocano bambini». «Dopo aver ricevuto un’istruzione sessuale, ancora per molto tempo i bambini si comportano come quei popoli primitivi cui è stato imposto il cristianesimo e che però continuano in segreto ad adorare i loro vecchi idoli».[5]
Quanto alle critiche che seguiranno a Totem e tabù, Freud spiega che il «rifiuto della teoria del complesso edipico è soprattutto un prodotto della profonda ripugnanza che l’uomo prova verso i propri infantili desideri incestuosi, sprofondati nel frattempo nella rimozione». Nella rappresentazione di Freud l’uccisione del progenitore non è solo causa dell’introduzione di divinità paterne, di fronte alle quali i figli possono espiare la loro colpa, ma «la famiglia fu una restaurazione dell’antica orda primordiale», e inoltre il parricidio originario influenzò ogni singolo figlio maschio, precisamente perché «le disposizioni psichiche» sono ereditarie e perché nell’inconscio i ricordi rimangono conservati dalla comunità primitiva per millenni. Forse è questo il senso delle parole di Goethe: «Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero».[6] Non è pertanto necessario postulare un inconscio «collettivo» in quanto il contenuto dell’inconscio è già di per sé patrimonio comune, universale, di tutti gli uomini.
In quell’epoca di dissenso, quindi di ribellione, di alcuni suoi allievi contro di lui (Alfred Adler, Wilhelm Stekel e Carl Gustav Jung), Freud si sente egli stesso come uno di quei progenitori al quale l’orda dei figli invidia la supremazia. E la sua spiegazione dei loro desideri distruttivi è allora: poiché in epoca primordiale era esistito un padre che era stato ucciso dai suoi figli, anche i sentimenti dei dissidenti devono essere di odio verso di lui, e quindi prima di soccombere lui li scaccia. Non stupirà apprendere che Freud, durante i suoi soggiorni a Roma, nel 1912-13, indugiasse frequentemente di fronte alla statua del Mosè di Michelangelo con emozioni differenti dalla sua prima visita del 1901: era ormai divenuto un Mosè egli stesso, che con sguardo irato assisteva alla «danza intorno al vitello d’oro» dei suoi seguaci ribelli. Come Mosè egli tende a salvare le «tavole della legge» della psicanalisi. In adempimento di questo «mandato», di questa «missione» egli deve soggiogare la propria «passione».
L’ambivalenza che Freud prova di fronte alla statua del Mosè è causata dal fatto che da un lato si sente figlio e dall’altro padre: in quanto «figlio» egli avrebbe preferito non rinunciare alla sua impetuosa passione, ma ne viene impedito dal «padre» Mosè sotto minaccia di punizione; in quanto «padre» deve dominare la sua ira verso i «figli» ribelli che disprezzano le sue regole proprio per non compromettere questi stessi dettami.[7]
Note
[1] Cfr. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 128-34.
[2] S. Freud, Azioni ossessive e pratiche religiose (1907), OSF V, p. 343; L’avvenire di un’illusione (1927), OSF X, p. 473.
[3] Lettera del 23 dicembre 1930, in Saba, Svevo, Comisso. Lettere inedite, a cura di M. Sutor, Gruppo di Lettere moderne, Padova 1968, p. 27.
[4] Nell’estate 1911 Freud fu in villeggiatura con la famiglia a Collalbo, un paesino sull’altopiano del Renon (o Ritter), in prossimità delle famose «piramidi di terra» teatro, secondo la leggenda, di riti magici stregoneschi. Di lì scrisse a Jones, Ferenczi e Jung (rispettivamente 9, 11 e 20 agosto), annunciando di essere tutto preso da un nuovo lavoro sui «problemi del totem e del tabù». Monti Pallidi è un nome locale delle Dolomiti.
[5] S. Freud, LF, p. 257; Analisi terminabile e interminabile (1937), OSF IX, p. 517.
[6] J.W. Goethe, Faust, I, ed. it. a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1982, vv. 682-83, p. 55.
[7] Cfr. S. Freud, Il Mosè di Michelangelo (1913), OSF VII, pp. 299-328. Questo testo - si noti - viene ultimato nello stesso periodo (inizio gennaio 1914) in cui cade la stesura di Per la storia del movimento psicanalitico, lo scritto in cui Freud conduce un’aspra polemica nei confronti dei suoi ex seguaci Adler e Jung (OSF VII, pp. 415-38). Per l’identificazione di Freud con Mosè, e dei suoi «figli ribelli» con gli ebrei adoratori del vitello d’oro, cfr. Jones, vol II, pp. 438-41 e l’avvertenza editoriale di Musatti al Mosè di Michelangelo, OSF II, pp. 295-97.
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE. Tracce per una svolta antropologica ... *
NELLA DIMENSIONE CHE ESIGE ERACLITO
di Federica Montevecchi (su: Alias, 17/07/2010)
Martin Heidegger volle che la sentenza di Eraclito, «il fulmine governa ogni cosa», fosse incisa sull’architrave della porta della sua baita a Todnauberg nella Selva Nera. Le stesse parole, che costituiscono il frammento 64 dell’edizione Diels-Kranz, aprono il celebre colloquio seminariale, su Eraclito appunto, che si svolse nel semestre invernale 1966/67 all’Università di Friburgo fra Martin Heidegger e Eugen Fink. Il testo del seminario fu pubblicato in italiano nel 1992 da Coliseum, nella versione di Mauro Nobile introdotta da Mario Ruggenini, con il titolo Dialogo intorno a Eraclito. A circa venti anni di distanza da questa prima edizione, esaurita da qualche tempo, il colloquio fra Heidegger e Fink è ripresentato - corredato dalle annotazioni di Heidegger - dall’editore Laterza, nella collana «I Libri dell’Ascolto» diretta da Vittorio Tamaro, con il titolo Eraclito (a cura di Adriano Ardovino, pp. 234, € 20,00).
Il seminario, suggerito da Fink, che voleva mettere alla prova la propria interpretazione di Eraclito, fu l’ultima attività didattica di Heidegger e avrebbe dovuto includere, stando al progetto iniziale, anche una lettura dei frammenti di Parmenide. Nei fatti, invece, non fu completata neppure la lettura dei frammenti di Eraclito, tanto che Fink, nel 1970, presentando l’edizione del seminario, affermerà che il testo dato alle stampe è «un torso, un frammento su frammenti».
Le tredici sessioni in cui si articolò la discussione, alla quale parteciparono tredici persone fra studenti e invitati, vennero trascritte volta per volta, senza l’ausilio di alcun registratore, letteralmente e integralmente.
Il risultato non è tanto un confronto fra due diversi interpreti, ma, dice Heidegger, un ‘parlare con Eraclito’ e, attraverso di lui, con un’intera tradizione che, già dall’antichità, non si è sottratta alla provocazione rappresentata dai Greci. Esempi degli interrogativi di fondo dell’esistenza e dell’enigma riguardante la nascita della ragione, i pensatori greci più antichi - Presocratici o sapienti, a seconda che si voglia adottare le espressioni rispettivamente di Hermann Diels o di Giorgio Colli - sono specchi: quanto più ci avviciniamo a loro tanto più vediamo il nostro riflesso. A seconda della ‘storia razionale’ nella quale li integriamo - e questo accade già a partire da Aristotele - essi assumeranno significati molteplici, restando comunque sempre altro da ciò che di loro possiamo dire: essi costituiscono il momento inaugurale del pensiero della civiltà occidentale, nel quale la ‘verità’ della nostra origine diventa inscindibile dall’origine della nostra ‘verità’, l’ambito del conoscere non facilmente distinguibile dalla sfera del riconoscere, cioè della proiezione retrospettiva.
Tutto ciò vale particolarmente per Eraclito le cui parole, stando a Diogene Laerzio, avrebbero fatto dire a Socrate che ci sarebbe voluto un tuffatore delio per poterle riportare alla luce dalle oscure profondità. E su queste parole si sono cimentati, nei secoli, in molti: basti pensare, fra gli altri, a Platone - che nel Sofista annovera Eraclito fra quelle Muse ioniche capaci di mostrare la connessione fra l’uno e i molti -, a Hegel - che nelle Lezioni sulla storia della filosofia afferma: «non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» -, a Hölderlin - che, attraverso Eraclito, legge l’inscindibilità di unione e separazione -, e ancora, a Nietzsche - che nei frammenti eraclitei vede l’espressione della visione tragica del mondo, del conflitto sotteso a ogni creazione e allo stesso logos.
Va da sé che pure Heidegger e Fink, in sintonia con la tradizione filosofica tedesca, che affronta il pensiero più antico proiettando nella Grecia anzitutto se stessa, la propria specificità filosofica, accolgono la sfida di Eraclito ben prima di questo seminario. L’eco eraclitea, infatti, è costante nell’opera di entrambi e si mostra, ad esempio, nell’idea heideggeriana dell’intermittenza di qualcosa che apparendo come mondo al tempo stesso si nasconde come senso. Se in questa idea è implicita la nota sentenza eraclitea «la natura ama nascondersi», nella metafora di Fink del gioco che gioca con l’uomo e il mondo, ossia con coloro che lo stanno giocando, sono evidentemente sottintese le parole di Eraclito «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo».
Queste rispettive posizioni filosofiche si riflettono naturalmente nel seminario, dove Heidegger e Fink, tuttavia, cercano di assumere ruoli ben definiti. È lo stesso Fink a caratterizzare il ruolo di Heidegger nei termini di una ‘direzione spirituale’, che si declina in interventi brevi, chiarificatori, interrogativi, ma anche ammonitori rispetto a tutto ciò che potrebbe limitare la possibilità di giungere «nella dimensione che esige Eraclito», come ad esempio approcci di tipo esclusivamente filologico e storiografico, oppure l’uso di termini ritenuti troppo risonanti, quali diradamento e tempo, se non ormai inadeguati, come il temine essere. Fink, invece, assume il compito di presentare una provvisoria interpretazione dei frammenti eraclitei che garantisca una base di discussione e possa essere idonea a collocare i partecipanti al seminario «entro una certa comunione nel linguaggio interrogante». E tuttavia il tentativo di recuperare Eraclito è destinato a fare i conti con una distanza storica e ontologica abissale, come mostrano le frequenti domande di Heidegger - destinate a contenere, nei partecipanti, le cristallizzazioni concettuali, che sono da ricondursi, come viene ricordato, alla filosofia successiva di Aristotele -, oppure l’affermazione che nel seminario si sta presentando un’interpretazione non più metafisica di testi non ancora metafisici: fra il ‘non più’ e il ‘non ancora’ è tuttavia possibile sentire l’eco dell’esperienza di pensiero di Eraclito, che obbliga continuamente a riflettere sui criteri attraverso i quali si è articolato il pensiero occidentale, quindi a considerare la possibilità di pensare in altro modo.
L’andamento del seminario è scandito soprattutto dal tema dell’unità fra opposti, che ricorre in tutti i frammenti eraclitei e rimanda al problema fondamentale dell’appartenenza (Verhältnis) di uno e molti-tutto, en e panta. I numerosi esempi di fenomeni descritti da Eraclito - come pace e guerra, fame e sazietà, giovani e vecchi, mortali e immortali - mostrano a un tempo l’opposizione fra diversi e la loro unità, e cioè il fatto che lo stesso sia anche altro, i molti-tutto siano anche uno: «la difficoltà - dice Heidegger - consiste nello scorgere in che modo lo en mostri all’improvviso un altro carattere», nel capire come Eraclito possa vedere, nell’esperienza comune a tutti basata sull’opposizione e sulla distinzione, sempre l’uno e un unico logos.
Detto altrimenti, la convivenza degli opposti, che caratterizza l’universo greco più antico già a partire dalle prime cosmologie fino ad arrivare all’opposizione delle proposizioni nell’argomentazione dialettica, rilancia costantemente l’enigma della polarità o, stando al seminario, l’enigma di come il determinato sia ad un tempo «l’unità che riunisce».
La risposta di Heidegger e Fink si concentra sul legame fra l’uno e i molti-tutto, legame che viene inteso appunto come Verhältnis, giustamente tradotto con appartenenza, intendendo con tale termine non una relazione di possesso fra due oggetti né un rapporto di reciprocità, ma il trattenersi dell’uno e dei molti-tutto nella «stabilità dell’apertura», la «tenuta (Verhalt) dell’essere e del mondo». È la stessa cosa infatti che, nella separazione da se stessa, si tiene unita e si custodisce perché - viene precisato nella sessione undicesima - appartenere e tenere «significano in primo luogo il custodire, tenere in serbo e accordare nel senso più ampio»: questo è del resto il logos nel suo significato proprio di raccolta e di presenza di ciò che è stato raccolto. E evidente che tutto ciò permette di aprire lo spazio a un pensare che contrasti la concezione ingenua secondo la quale l’uno viene pensato come un contenitore in cui sono racchiusi i molti-tutto e soprattutto l’idea, che diventerà una delle matrici del pensiero occidentale, secondo la quale il molteplice è un dispiegarsi e un decadere del semplice.
Nell’ultima sessione del seminario Heidegger chiede a Fink qual era il senso dell’affermazione con cui aveva aperto il loro colloquio comune con Eraclito, e cioè che i Greci «significano per noi un’immane provocazione». Fink risponde che si tratta della provocazione «a capovolgere, una buona volta, l’orientamento del nostro pensiero», a disfarsi di tutto l’apparato concettuale costruito sul bisogno, che Hegel ha incarnato in maniera paradigmatica, del pacificante appagamento di ciò che è pensato e conciliato per tornare a pensare, vale a dire a sentire, secondo Heidegger, «l’assillo dell’impensato nel pensato» e, come esorta Periandro di Corinto, ad avere cura del tutto in quanto tutto.
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE?!: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
Il conformismo degli intellettuali durante la Grande Guerra
A parte rare eccezioni, come Zweig, poeti e filosofi gareggiarono nell’incitamento all’odio
di Paolo Isotta (Il Fatto, 25.10.2018)
Fra poco cadrà il centenario della fine dell’immane massacro militare della Prima guerra mondiale: il 4 novembre capitolò l’Impero austro-ungarico, l’11 quello germanico. L’incredibile rimonta di Vittorio Veneto si dovette a un genio militare napoletano, Armando Diaz, visto che fino a quel momento lo stratega di fiducia dei Savoia, il piemontese Cadorna, aveva concepito la guerra solo come una macelleria fine a se stessa; in questo la classe militare inglese e francese non fu da meno. E sarebbe bene, per non dimenticare - sempre che a qualcuno l’insegnamento della storia oggi interessi - che si rivedessero tre meravigliosi films che denunciano in modo tragico e spietato la macelleria: Per il re e per la patria di Losey, Orizzonti di gloria di Kubrick e Uomini contro di Rosi: il suo più bello, insieme con Le mani sulla città.
Dal momento che nel mio scorso articolo ho raccontato per brevi tratti dell’estate da me trascorsa con Stefan Zweig, debbo tornare al Mondo di ieri. I capitoli centrali di queste Memorie - Memorie dello spirito europeo stesso - sono dedicati ai prodromi della guerra e ai suoi anni. La definizione di “guerra civile europea”, ripresa con tanta fortuna da Ernst Nolte, si deve a Zweig. I grandiosi capitoli vanno ricordati anche in relazione al tema del comportamento degli “intellettuali”: la vergogna suscitò nel corso del conflitto, pagine alte e dolenti, più che indignate, del nostro Maestro, e a sua volta suscitò un celebre libro del 1927, Il tradimento dei chierici, nel quale Julien Benda stigmatizza il ruolo degli uomini di cultura, traditori della loro missione: comprendere e far comprendere, giusta l’etimo intelligere.
Zweig ben conosce i poderosi interessi economici che, nella loro crescente e vertiginosa accumulazione, sono la “struttura” dello scoppio della guerra. Ma egli ha chiara la coscienza che a un certo punto la faccenda sfuggì di mano alle stesse diplomazie che la trattarono. L’Italia, non interventista, avrebbe dovuto restare neutrale, e le trattative condotte da Giolitti - chiamato “traditore” dai forsennati - ci avrebbero garantito di più di quel che miseramente ottenemmo col Trattato del Trianon. Gl’interessi di pochi, in primis i Savoia, ci spinsero nel conflitto. E qui non si può che ricordare la sentenza di Sofocle, il dio fa prima uscire di senno coloro che vuol distruggere. Vale anche per tutto il corso del conflitto.
I più alti spiriti europei che per tutta la guerra si adoperarono per la pace immediata sono, oltre il pontefice Benedetto XV, Zweig e Romain Rolland, un grande storico della musica e romanziere francese. Vennero equamente definiti “traditori” dal proprio paese, e andarono vicino all’impiccagione; allo stesso modo che il Papa era il nemico principale di tutti gli schieramenti e il messaggio sull’inutile strage venne censurato in ogni nazione belligerante. Zweig, da un lato, Rolland, dall’altro, si trovarono soli quando tentarono di far firmare un manifesto incitante alla pace. Fra i pochi fratelli spirituali da loro trovati, Benedetto Croce. Non uno aderì; e i poeti, i romanzieri, i filosofi, gareggiarono nell’infamia, nell’incitamento all’odio, nell’inneggiare alla guerra come “sola igiene del mondo”.
La pagina più nera della vita di Gabriele D’Annunzio e di Thomas Mann è proprio qui. Ma se il sommo poeta italiano rischiò la vita e si riscattò coll’impresa pacifica del lancio dei manifestini su Vienna, poi con quella di Fiume, il grande romanziere di Lubecca lo supera in blateramento, e giunge a negare la stessa cultura latina: la base ideologica dell’incitamento all’odio. Mutato il vento, Mann ritrattò; ma continuò a detestare Zweig. La vicenda mostra una terribile verità: l’uomo di cultura, o intellettuale, è labile e dipendente dal potere, oggi persino più che sotto il despotismo di Augusto. È quasi solo servo: per sua natura. Dobbiamo venerare i pochi che non lo sono.
L’ultimo canto di Zweig, suicida per amore di libertà
di Paolo Isotta ( Il Fatto Quotidiano, 22. IX. 2018 *
Il 22 febbraio 1942, a Petropolis, triste località di villeggiatura a settanta chilometri da Rio de Janeiro, Stefan Zweig si uccise con la moglie. Aveva sessantun anni. Era stanco di fuggire. Viveva a Salisburgo; con l’Anschluss il terrore nazista l’aveva costretto a peregrinare. Inghilterra, Stati Uniti, Brasile. Non ne poteva più. Ancora pareva che la Germania potesse vincere; la morte voleva per il Maestro essere anche un segno di rivolta; ma Zweig era coscienza così alta che, se fosse vissuto, avrebbe parimenti denunciato i bombardamenti alleati, Amburgo, Dresda, Vienna, Hiroshima.
Un romanzo che ho appena letto, Gli ultimi giorni di Stefan Zweig, di Laurent Seksik, apparso in italiano per Gremese, ricostruisce in modo preciso e appassionante. L’ultima sua opera, scritta proprio in Brasile e apparsa postuma, è una delle sue più belle: Die Welt von Gestern, Il mondo di ieri (conviene leggerla nella limpida traduzione di Lavinia Mazzucchetti, 1945, traduttrice anche di Mann: non si lavora più così!), è una rievocazione della Vienna avanti la Prima Guerra, ove la Germania, l’Austria, la Boemia, e un finissimo cosmopolitismo ebraico capace di coltivare anche le memorie imperiali, si uniscono in uno dei più affascinanti crogiuoli della morente Europa. Musil, Roth, Mahler, Schönberg, Trakl... Chi ama la civiltà e l’arte non può leggerlo senza commuoversi per la bellezza e la finezza di ricordi personali e universali.
Al mondo ebraico Zweig s’era dedicato in modo marginale. Egli è uno dei più grandi cantori della civiltà, intesa nel senso della Kultur, contrapposta alla “civilizzazione”. È un narratore di qualità, ma le opere che gli diedero la fama sono prevalentemente storiche, oppure di narrazione biografica di grandi personalità. Se ho trascorso la passata estate con Sciascia, ho vissuto questa con lui. È amore antico: la sua biografia di Fouché, lo spretato assassino degli annegamenti di Nantes, poi ministro di polizia di Napoleone, una serpe ripugnante, la lessi a quindici anni.
L’esser un grande scrittore, se gli valse un enorme successo, ha determinato la sfortuna di Zweig presso gli storici burocratici, in ispecie quelli dell’università. Egli si documenta come il più accanito professionista; ma il grandioso soffio della sua narrazione, coinvolgendo l’anima dei protagonisti, le recondite cause del loro agire, la natura politica della religione, la comunanza dello spirito entro la stessa epoca (quel che si chiama il Zeitgeist, lo “Spirito del Tempo”), che avvolge la politica come le arti e la filosofia, supera l’episodicità dei fatti e si volge al loro significato. Così, per l’esser storico insieme e poeta, taluno lo giudica un dilettante.
Balzac, Nietzsche, Dickens, Händel, Dostoevskij, Verlaine, Proust, Freud, Byron, Maria Stuarda, Maria Antonietta (una delle più profonde opere sulla Rivoluzione Francese che io conosca), Erasmo ... Ognuna di queste biografie merita d’esser letta per l’arte e il contenuto rivelatorio; ed è prodigioso che il Maestro sia riuscito, insieme con tanta narrativa, a mantener un livello inalterabilmente alto in una tale mole di produzione.
Un piccolo libro, ripubblicato da Castelvecchi nel 2015, mi è particolarmente caro: Castellio contro Calvino. Narra di come il cosiddetto riformatore religioso, in realtà un oscuro despota ammantato dello stesso orrore di Hitler, conquista un paese instaurandovi un terrore simile a quello staliniano e nazista. E della persecuzione fatta contro un medico spagnolo, Michele Serveto, arrostito a fuoco lento a Ginevra per “deviazioni teologiche”. E del tentativo di un santo e dotto uomo, Sebastiano Castellio, di opporre a Calvino la forza della ragione. Già sconfitto, sfuggì al rogo solo per esser morto prima che lo acchiappassero. È un altissimo canto contro il fanatismo religioso in genere, contro la religione come strumento di dominio di anime oscure e torbide, contro la religione come mezzo per opprimere, contro la religione protestante come instrumentum regni.
Poi Zweig principiò a scrivere la storia del contravveleno, quella del filosofo del dubbio e della tolleranza, Montaigne. Ma preferì lasciarla incompiuta e morire.
MAGGIO 68. LA BRECCIA. E. Morin: «una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro ... una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo...»
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino (La Stampa, 13.05.2018)
Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suo Insegnare a vivere (uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».
AL DI LA’ DELLA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO. Al di là della paura della "gioia eccessiva" ....
Il corpo che gode
di FELICE CIMATTI *
La psicoanalisi è morta, o comunque moribonda. È morta perché, nonostante il suo “successo”, ormai è stato largamente rimosso il suo nucleo bollente, che è fatto di godimento autistico e di sessualità. Gli psicoanalisti, oggigiorno, scrivono di “amore”, “legge”, “desiderio”, “relazione”, “oggetto”, “maternità”, “intersoggettività”, “empatia” (elenco che potrebbe essere allungato ancora molto): parlano di tutto, ma proprio di tutto (talvolta anche di come votare), ma non parlano più di sesso e di inconscio. Ma una psicoanalisi che non parla di questo, di che cosa può propriamente parlare? Da questo punto di vista il prezzo che la psicoanalisi ha dovuto pagare per il suo “successo” sembra essere stato di rimuovere la propria stessa ragion d’essere. Per non parlare della sempre più forte tentazione moralistica.
Facciamo un solo esempio, ma illuminante: la questione della gestazione per altri (GPA), al centro di accese discussioni nella società contemporanea, perché rimette in questione assetti ritenuti eterni della famiglia borghese eterosessuale e mononucleare (sulle tante varianti storiche di quell’entità che noi chiamiamo “famiglia” ha scritto un libro esemplare Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa). Si prenda il caso dell’articolo apparso sul quotidiano di sinistra “Liberation” nell’estate del 2015, scritto da una figura significativa della psicoanalisi francese, Marilia Aisenstein; un intervento che già dal titolo ci fa capire quanto tempo sia passato da Freud: “Un enfant à quel prix?”. Aisenstein scrive, sul quotidiano fondato fra gli altri da Jean-Paul Sartre, che «trop souvent, le désir d’un enfant “à tout prix” me paraît, lui, marqué par la collusion entre une forte pression sociale et un désir personnel anachronique de la petite fille qui veut un bébé pour elle, doublée d’un déni du temps qui passe».
Non si rendono conto, queste quarantenni che si ostinano a volere un figlio, che sono vecchie e che il loro desiderio “collude” con la pressione sociale? E che cos’è questa negazione «du temps qui passe»? Memento mori, si sente sullo sfondo. Dopodiché la psicoanalista francese ci spiega anche che cos’è «un véritable désir d’enfant»: ovviamente «le résultat de l’amour qui unit deux êtres». E se si vuole un figlio da sola/o? Aisenstein non soltanto ci ricorda compiaciuta che il tempo passa, ma anche come dovremmo passarlo, quel tempo, se volessimo un figlio. Ma in nome di chi parla, Marilia Aisenstein? Nell’articolo, subito sotto il titolo e accanto al nome dell’autrice, è ben evidenziato «membre de la Société psychanalytique de Paris». È la voce della psicoanalisi. Ma sembra quella di un prete. Tanti cari saluti all’ateo Freud.
In un articolo che compare sul sito ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana, lo psicoanalista Pietro Rizzi, commentando e riprendendo l’articolo di Aisenstein, scrive: «Se il desiderio di un figlio, e la sua nascita, può legittimamente far sentire alla neo-madre di aver realizzato il compito immemoriale di proseguire la specie, esso può anche produrre, nella odierna temperie di negazione/oblio della storia, un’esperienza di auto-creazione narcisistica, a metà tra la fantascienza e la magia».
L’articolo di Rizzi è pieno di interessanti osservazioni, tuttavia si pone per lui lo stesso problema che si pone per Aisenstein: qual è il titolo “scientifico” - per non parlare di titolo “morale” - della psicoanalisi per giudicare se un desiderio è “legittimo” oppure no, se è “narcisistico” oppure no? E chi stabilisce che alla donna spetta il «compito immemoriale di proseguire la specie»? Se un giorno alla riproduzione pensassero delle macchine (uno scenario neanche troppo futuribile, esplorato nell’interessantissimo La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, scritto dal giurista e genetista Henry Greely)? E non poteva mancare, infine, un classico del discorso psicoanalitico contemporaneo, il mortifero riferimento al lutto; infatti è «il lutto, [la] necessaria premessa di una maternità consapevolmente scelta, creata dall’amore tra due esseri umani, dove un figlio è desiderio di un “altro” da sé e non appendice del proprio sé».
E il divertimento, il sesso, e il godimento “narcisistico”, e soprattutto, l’inconscio? Si parla di tutto, anche del lutto («un lutto, non necessariamente così doloroso»), pur di non parlare del godimento. Vengono in mente le parole di Gilles Deleuze: «il fatto è che la psicoanalisi ci parla in continuazione dell’inconscio, ma in un certo modo lo fa sempre per ridurlo, distruggerlo, scongiurarlo» (Deleuze 2000, p. 59).
In questo desolante panorama spicca al contrario la figura di Sergio Benvenuto, psicoanalista e filosofo che negli anni ha costruito un proprio autonomo e originale profilo teorico. Una originalità che Benvenuto collega proprio al dimenticato e rimosso Freud. Quel Freud, e così torniamo al nucleo originario della psicoanalisi, che nella Vienna fin de siècle mette sotto gli occhi di tutti quel che è sempre stato evidente e proprio per questo si è sempre voluto nascondere: «la sessualità» - scrive in Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi (2017) - «per Freud, è questo bordo tra il linguaggio e il puro grido; un bordo di per sé impresentabile, di cui non possiamo vantarci, a meno che non siamo in una posizione critica proprio nei confronti del mondo della decenza e della rispettabilità» (p. 13).
La psicoanalisi non si occupa del godimento sessuale per dargli una forma, fosse anche la forma della meta-psicologia freudiana; se ne occupa perché la psicoanalisi freudiana nasce dalla scoperta di questo oggetto, tutto il resto già si sapeva: «se, come accade spesso, l’analisi viene vista come una relazione tra due soggetti, un modo di definirsi di un essere-con, allora l’inconscio svapora, e con esso anche la sessualità come esperienza che eccede la parola, che ne esula e la rende insufficiente» (p. 15). Si tratta di una precisazione rilevante, perché smonta la tentazione, a cui troppi psicoanalisti non riescono a resistere, di credere che l’analisi serva a dare parole all’inconscio. L’onnipresente tentazione di pensare la psicoanalisi come esperienza di comprensione e interpretazione, come dialogo e scambio intersoggettivo.
Al contrario, per Benvenuto «l’inconscio è sacrilego» (p. 14). Non rispetta nulla, e non vuole nessuna comprensione.
La psicoanalisi si occupa piuttosto di quel lato dell’umano che sfugge al calcolo e alla ragione, alla mente ma anche al corpo. L’inconscio, infatti, non è al servizio né della mente, ma nemmeno del corpo animale, quello che condividiamo con tutti gli altri mammiferi: «insomma, la psicoanalisi si orienta a occuparsi della parte non adattativa dell’essere umano» (p. 193). Nonostante Darwin, la natura specie-specifica dell’umano è profondamente disadattativa, se non direttamente anti-biologica.
La psicoanalisi di cui ci parla Benvenuto ci offre una immagine dell’umano agli antipodi con quella corrente, sia quella offerta dalle scienze cognitive (il mainstream ideologico della contemporaneità) che quella offerta dall’economia (che ha preso il posto un tempo occupato dal Catechismo): un essere umano abitato e attraversato da forze che non controlla, da desideri che non hanno alcuna funzione biologica (la sessualità umana è normalmente perversa, come scopre Freud nel suo capolavoro, i Tre saggi sulla teoria sessuale), naturalmente scisso al suo interno: «quella di Freud non è una teoria dell’individuo, ma del “dividuo”. Non dell’Io come indivisibile, ma del soggetto come diviso. E rispetto a questa visione dell’essere umano in quanto dividuo che possiamo misurare la portata della restaurazione cognitivista, che consiste nel ristabilire l’unità dell’individuo in quanto essere sostanzialmente razionale e calcolatore» (p. 141).
Una psicoanalisi che proprio per questo non pretende di essere una scienza, come invece prova a fare affannosamente e vanamente la psicoanalisi del nostro tempo “cognitivo”, del tutto subalterna all’ideologia scientista contemporanea, che ammette come unico criterio di validità quello scientifico (o presunto tale). Si tratta di un punto rilevante dell’analisi di Benvenuto, perché rivendica l’autonomia della psicoanalisi, che ha valore non perché sia una (pseudo) scienza, bensì perché dà spazio alla natura intrinsecamente e radicalmente irrazionale dell’animale umano, non perché sia appunto una scienza, al contrario, perché è materialista e quindi volgare: «molti parlano di “rivoluzione psicoanalitica” - io invece direi che la psicoanalisi è stata un Ritorno riabilitativo al popolare» (p. 22). Nei sogni si parla di escrementi, di buchi, di carne e passione. Di questo è fatto l’inconscio. Questa è la psicoanalisi:
La psicoanalisi di Benvenuto è così radicalmente scomoda, perché parla non tanto di quello che non ci piace di noi, piuttosto dice la nostra radicale subordinazione a pulsioni che ci attraversano, e parlano per noi, al nostro posto. Freud, l’intransigente materialista Freud, ci ricolloca al nostro posto, quello di primati parlanti, che però credono a quello che si dicono (Homo sapiens è l’unico animale che pensa di sé di non esserlo). È troppo cruda, e sconsolante, questa immagine, per questo la rimozione della psicoanalisi è cominciata nello stesso momento della sua comparsa. Ma questo, ancora una volta, significa che l’animale umano, per Freud, non smette di essere un primate, una scimmia, anche se si tratta di una scimmia con la testa piena di parole e pensieri che pensano per lei, che ha bisogno di sentirsi amata, e di credere che un senso, da qualche parte, c’è.
La psicoanalisi non crede al senso, neanche a quello biologico (che, ammesso che sia un senso, è del tutto privo di senso, è cieco e autistico, come mostrò in modo esemplare, sebbene sgradevole, il biologo Richard Dawkins ne Il gene egoista). La psicoanalisi non è ottimista, non propone una soluzione, soprattutto non ci e si racconta storie: «si ha voglia di rigirare la frittata, ma se si è freudiani si crede nella pulsione di morte, e quindi nell’impossibilità costitutiva di una società Buona e Felice» (p. 129).
Ma attenzione, Benvenuto non è dalla parte del “lutto”, tutto al contrario, la psicoanalisi è dalla parte del godimento e della liberazione del corpo dall’Io, che infatti - qui Benvenuto è affatto lacaniano - «è a un tempo solo sé stesso, ma anche l’Altro che l’io stesso ha assunto come il proprio» (p. 140). La psicoanalisi non rafforza l’Io, che non esiste, o meglio esiste solo come introiezione dello sguardo dell’Altro.
Da questo punto di vista la grande e rimossa figura della psicoanalisi è, insieme allo stesso Freud, è quella del suo allievo rinnegato, eretico ed eccessivo, Wilhelm Reich, che cercò in modo pazzo e fallimentare di coniugare comunismo e psicoanalisi, sessualità e rivoluzione, libertà e godimento. Non è un caso che il suo nome non compaia più fra quelli citati dalla psicoanalisi “scientifica” (nemmeno nel libro di Benvenuto, per la verità; la sua storia dimenticata si può leggere in un libro di qualche anno fa di Paul Robinson, La sinistra Freudiana - Wilhelm Reich, Geza Roheim, Herbert Marcuse), e che sia morto nel 1957 in un penitenziario negli Stati Uniti. La psicoanalisi è eccessiva, anche se le piace presentarsi sotto le luci soffuse di un accogliente ed elegante studio borghese, è esagerata, è intrattabile. Insistiamo su questo punto, la libertà della psicoanalisi. Una libertà che per essere “libera” deve liberarsi, per prima cosa, da quello stesso soggetto, l’Io, che per Freud è il riflesso interno delle forze sociali esterne.
Benvenuto è esplicito su questo punto, in cui cade buona parte della psicoanalisi contemporanea: «l’analista teorizza come se in realtà egli stesse dicendo al suo analizzante: “Io so scientificamente, medicalmente, il tuo questo, quel self che tu sei”. [...] Questo analista, nell’istante in cui teorizza, crede che il soggetto sia qualcosa. Per l’analista praticante invece ogni essere “qualcosa” è un’alienazione» (p. 89).
Per questa ragione, per Benvenuto, «l’abilità dell’arte psicoanalitica consiste nel mostrare a un soggetto l’altro sogno, quello dentro al quale egli non suppone di vivere» (p. 100). Il problema del sogno, in fondo, è che appunto è soltanto un sogno, un sogno che qualcun altro sogna per noi. La psicoanalisi, per Benvenuto, è invece una pratica di radicale individuazione: «di fatto, è il lavoro di ogni psicoanalisi riuscita: aiutare ciascuno di noi a individuarsi, a soggettivarsi, ovvero a raccontarsi la storia giusta delle proprie origini in modo di “svincolarsi dal gruppo”» (p. 151). Si va in analisi non per stare meglio con gli altri, tantomeno per adattarsi ad un mondo che non si sopporta, ma per fare a meno del bisogno di essere guardati, dagli altri e da sé stessi. E questo non è narcisismo, questa si chiama libertà.
Riferimenti bibliografici
S. Benvenuto, Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, Orthotes, Nocera Inferiore (SA) 2017.
G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste. 1975-1995, Einaudi, Torino 2000.
H. Greely, La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, Codice, Torino 2017.
F. Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
* Fata Morgana, 12 febbraio 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
IL PUNTO DI SVOLTA. Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre», Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto de "La mente estatica".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE...
LA CORONA DEL REGNO, IL PALOMBARO, E LA LEGGENDA DI "COLA PESCE"
Cola Pesce *
Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva:
Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?
E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione:
Cola! Che tu possa diventare un pesce!
Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì.
La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re; e il Re ordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare.
Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando.
Cola! - gli disse. - C’è il Re di Messina che ti vuole parlare! E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re.
Il Re, al vederlo, gli fece buon viso.
Cola Pesce, - gli disse, - tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede!
Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia.
Dopo un poco di tempo fu di ritorno. Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo.
E allora Messina su cos’è fabbricata? - chiese il Re. - Devi scendere giù a vedere dove poggia.
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò a galla e disse al Re:
Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta.
O Messina, Messina,
Un dì sarai meschina!
Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Cola scese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce.
Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce. Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse:
Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno.
Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò sù disse che il fondo non l’aveva visto, perché c’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua. Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse:
Gettati dalla cima della Torre del Faro
La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò da lassù in cima.
Il Re ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido.
Che c’è, Cola? - chiese il Re.
C’è che sono morto di spavento, - disse Cola. - Ho visto un pesce, che solo nella bocca poteva entrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire m son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina!
Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo il Faro non gli era passata.
E Cola:
No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura.
Visto che non riusciva a convincerlo, il re si levò la corona dal capo, tutta piena di pietre preziose, che abbagliavano lo sguardo, e la buttò in mare.
Va’ a prenderla, Cola!
Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno!
Una corona che non ce n’è altra al mondo, - disse il Re. - Cola, devi andarla a prendere!
Se voi così volete, Maestà, - disse Cola - scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più.
Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare.
Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie. Cola Pesce s’aspetta che ancora torni.
(Palermo)
*Cfr.: Fiabe italiane raccolte e trascritte da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1971, vol. II, pp. 602-604.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SOVRANITÀ, LA DIGNITÀ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA, E "I DUE CORPI DEL RE". La lezione di Kantorowicz...
LA COSTITUZIONE, "I DUE CORPI DEL RE", E I DUE PATTI DEL CITTADINO. L’ analisi di Barbara Spinelli (2006)
I due corpi del re vanno tenuti disgiunti, perché resti vivo l’inaugurale patto che dissuade dalla guerra di tutti contro tutti, e che fonda un rapporto non effimero, non continuamente modificabile, fra i cittadini e chi li comanda.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala