Elegie di Rilke, percorsi simbolici
L’ultima traduzione italiana restituisce l’opera poetica nella sua integrità lirico-filosofica senza aggiunte e oscurità formali
di Fulvio Panzeri (Avvenire, 30.12.2006)
Ritorna il capolavoro di Rainer Maria Rilke, le Elegie Duinesi, che il poeta tedesco iniziò a scrivere nel 1912, nel castello di Duino, vicino a Trieste. È un uomo che sa già cosa sia la gloria poetica e che nel corso della sua avventura umana ha conosciuto il vuoto del nulla, l’angoscia e la disillusione.
Le Elegie comprendono dieci componimenti, la cui natura è legata all’ispirazione filosofica, incentrati sui temi della verità della vita, sul senso della finitudine umana, sulla paura della morte. E proprio questa dualità tra vita e morte segna uno dei punti centrali di questo classico, mettendo in luce l’impossibilità di una distinzione tra l’essenza materiale e il flusso spirituale, segnato dagli angeli, creature superiori all’uomo, il quale si trova in una condizione di mezzo.
Si tratta di un testo complesso in cui Rilke mette a fuoco la necessità di sottrarre la bellezza dell’essere alla consunzione del tempo, attraverso l’eternità dello spirito, ma che rivela anche altri aspetti come la tensione femminile ad abbandonarsi alla purezza dell’amore e quella di una virile accettazione della vita e del dolore da parte dell’eroe.
Fino ad ora abbiamo potuto leggere versioni in lingua italiana che cercavano di «reinterpretare» la forma ardua e complessa delle composizioni rilkiane. Ora, grazie a Michele Ranchetti, poeta di grandissimo rilievo, e a Jutta Leskien, abbiamo una traduzione che vuol riportare allo spirito integrale della versione tedesca. Infatti i traduttori sottolineano: «Questa traduzione intende offrire un testo italiano che corrisponde al testo tedesco di Rilke, e in questo si differenzia dalle versioni libere di Vincenzo Errante e di Leone Traverso».
Dare una versione tradotta delle Elegie che non sia legata strettamente all’originale vuol dire attenuare il valore simbolico dei contenuti, cioè valorizzarne alcuni e lasciare però che altri restino nascosti. Ecco che invece questa nuova traduzione - che deriva dalla convinzione che «ogni elegia deve considerarsi come una tesi che Rilke illustra in una serie di ragionamenti in poesia» - «vorrebbe consentire di seguire i ragionamenti poetici di Rilke senza esserne impediti da oscurità formali, aggiunte, abbellimenti o abbreviazioni».
Potrebbe dunque essere curioso un confronto tra le traduzioni citate e questa nuova proposta da Feltrinelli: si scoprirebbero due testi diversi, almeno nella versione italiana. Qual è allora il vero Rilke che possiamo leggere, quello mediato o quello «integrale» che ci viene ora proposto?
Meglio senz’altro una traduzione in cui la mediazione del traduttore sia limitata ai minimi termini, come in questo caso, dove anche certi punti oscuri favoriscono la verità di un testo. Qui a venire incontro al lettore è Rilke stesso, con una poesia che contempla le ragioni ultime della vicenda umana, non solo dal punto di vista lirico, ma anche nella complessità del pensare filosofico.
Rainer Maria Rilke
Elegie Duinesi
Traduzione di Michele Ranchetti
e Jutta Leskien
Feltrinelli. Pagine 86. Euro 8
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELE RANCHETTI, LA TERRA PROMESSA. UNA LETTERA INEDITA DI FREUD. Una nota di Federico La Sala
Poesia.
Hofmannsthal «nel centro di ogni cosa»
Le prime liriche dello scrittore della meravigliosa stagione della “Giovane Vienna”: un’arte raffinata che nella ricerca della bellezza esprime una richiesta di verità, un anelito verso l’utopia
di Marino Freschi (Avvenire, martedì 28 dicembre 2021)
«Potremmo entrare in un nuovo significante rapporto con tutto il creato, se cominciassimo a pensare col cuore». Questo motto di Hofmannsthal apre emblematicamente la nuova raccolta delle sue liriche giovanili, Nel centro di ogni cosa. Poesie giovanili 1890-1910 a cura di Andrea Landolfi per l’editore Del Vecchio (euro 19,00). Il poeta, specie nella sua prima attività, è stato un artista attentissimo alla forma, che raggiunge quell’eleganza di suoni, di metafore, di analogie che connota la meravigliosa stagione della “Giovane Vienna”, che possiamo cogliere nel movimento della Secessione viennese con Gustav Klimt, Richard Gerstl, Koloman Moser, Otto Wagner (su Klimt in questo periodo è allestiata una mostra al Museo di Roma, aperta fino al 27 marzo).
Nella totale libertà e indipendenza delle ricerche affiora un’esperienza artistica organica che crea uno stile inconfondibilmente unitario. E proprio l’itinerario di Hofmannsthal conferma la scelta antinaturalista dei giovani viennesi. La capitale austriaca si pone in antitesi alle correnti che dominano l’attività teatrale e letteraria di Berlino. Nei Caffè e negli atelier di Vienna sorge un’arte raffinata, elegante, che nella ricerca della bellezza esprime una richiesta di verità, un anelito verso l’utopia.
Il giovanissimo Hugo von Hofmannsthal incontra proprio al mitico Café Griensteidl (oggi miseramente trasformato in un supermarket) gli altri alleati di questa stagione intensa e meravigliosa. La sua lirica giovanile è connotata da una inimitabile eleganza stilistica che dà voce a un’alternativa a un’arte soverchiamente intrecciata alla società e al quotidiano. Questa esperienza lirica del giovane Hofmannsthal percorre velocemente tutte le sue possibilità espressive per giungere alla soglia maestosa e tremenda del silenzio con la crisi del linguaggio, ormai estenuato da soverchia raffinatezza.
Il poeta esprime il tormento di questa situazione estrema nella celebre Lettera di Lord Chandos del 1902, che anticipa tutte le poetiche e peregrinazioni delle avanguardie per superare lo scacco del realismo. Nel 1904 sorge l’espressionismo, seguito dal futurismo e successivamente dal dadaismo, dall’astrattismo, dalla pittura metafisica. La Lettera è per Hofmannsthal un sofferto congedo dai vertici della sua sublime lirica giovanile, tradotta ora con sicura capacità empatica da Andrea Landolfi, che da anni si confronta con l’opera del viennese. Sempre per l’editore Del Vecchio aveva pubblicato nel 2019 una nuova traduzione di Andrea o i riuniti, il romanzo incompiuto dell’autore. Questa volta la scelta operata da Landolfi è per le liriche, quelle accettate e pubblicare dall’autore, evitando ogni «diffusione più o meno “sensazionalistica” dell’inedito».
Quasi contemporaneamente alla Lettera Hofmannsthal scrive nel 1900, per una compagnia teatrale di studenti berlinesi, il Prologo alla “Antigone” di Sofocle che possiamo considerare un inedito e che ci comunica la stessa crisi mistica che lo aveva così sconvolto da segnare una svolta irreversibile nella sua attività di scrittore che da lirico puro proseguì prevalentemen- te impegnandosi nella saggistica culturale e nella scrittura teatrale con drammi legati alla dissoluzione del “mondo di ieri”, dell’Austria asburgica, nonché a libretti d’opera - i più famosi sono Elettra e Il Cavaliere della Rosa - nati dalla stupenda simbiosi con Richard Strauss, che costituiscono un grande contributo alla cultura austriaca, eppure la tensione del Prologo e della Lettera sono momenti unici, quelli raggiunti dalla prospettiva del “pensare col cuore”, inteso come dimensione mistica unitaria al di là della dialettica della ragione.
Ci sono testi parimenti intensi come conferma la singolare lirica del 1897 L’Imperatore della Cina, con un mirabile incipit «Qui nel centro d’ogni cosa / me ne sto, Figlio del Cielo». Si annuncia la metafora “cinese” che ebbe molto successo nella letteratura tedesca: nel 1918 Kafka pubblica Un messaggio dell’Imperatore, con l’inquietante visione finale dell’attesa: «Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera ».
Il tema “cinese” è insistente come conferma l’altra “favola” kafkiana Durante la costruzione della muraglia cinese. La metafora continuò fino a coinvolgere scrittori assai lontani dal “centro d’ogni cosa” come Bertolt Brecht di un’altra “favola”, il dramma L’anima buona di Sezuan. La “Cina” prosegue nel brechtiano breviario di saggezza “confuciana” Me-Ti. Libro delle svolte a dimostrazione che Hofmannsthal aveva intuito un’esperienza di pace silenziosa lontana dall’agitazione “occidentale”.
Questa nostalgia di una vicinanza a un centro, anzi al “centro di ogni cosa” l’avvertiamo in un’altra poesia giovanile di Hofmannsthal del 1896, Sogno di una grande magia, con un’invocazione al Cherub, alle gerarchie celesti, che anticipa l’Angelo rilkiano delle Elegie di Duino ( 1912-22). Hofmannsthal ne parla come di un’annunciazione mistica, scritta di getto: «in un’aula, su un banco, durante l’addestramento dei sottufficiali » a dimostrazione che lo Spirito soffia dove vuole, perfino in caserma: «Angelo il nostro spirito e signore / non vive in noi, il suo seggio è tra le stelle, / e orfani ci lascia abbandonati: / eppure è lui che ci arde nel profondo / - così sentii quando incontrai quel sogno - / e col suo fuoco parla alle distanze. / E vive in me, com’io nella mia mano». Il poeta era maturo per una sublime intuizione, quella del pensiero del cuore.
RANCHETTI
TRA GRAZIA E LETTERATURA
di ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 15.01.2010).
Già l’indirizzo era bellissimo: via di Giramonte. Una strada che da Firenze sale verso il colle di San Miniato, scoprendo una campagna ancora intatta. Non a caso, quella della villa cinquecentesca dove Michele Ranchetti si era stabilito alla metà degli anni Sessanta è la prima immagine che appare in ’ Rifiuto d’ordine a profitto del contesto’, il dvd che accompagna ’ Ulteriori e ultimi’, il quarto volume, postumo, degli ’ Scritti diversi’ dello stesso Ranchetti, come i precedenti curato dall’allievo Fabio Milana ed edito da Storia e Letteratura. Il video fu realizzato nel 2005, in occasione dell’ottantesimo compleanno di questo intellettuale grande e irrequieto.
Il libro esce invece a due anni dalla sua morte e verrà presentato domani a Firenze (presso la Sala del Gonfalone, a partire dalle 9.45) nel corso di un incontro al quale prenderanno parte, tra gli altri, Goffredo Fofi, Enzo Collotti e Sergio Bologna. Più che una commemorazione, un’occasione per tornare a confrontarsi con una figura unica nella vicenda del nostro Novecento: uno storico del cristianesimo che aveva lavorato per Adriano Olivetti e Giangiacomo Feltrinelli, aveva tradotto le opere di Freud e sviluppato una metodologia personalissima ed esatta, sintetizzata nella felice espressione ’ etica del testo’.
Nel frattempo, Ranchetti aveva continuato a fare quello che, fin da bambino, gli riusciva meglio: disegnare e scrivere versi. Da ragazzo aveva anche suonato il pianoforte e sperimentato qualche composizione, trasferendo in seguito questa propensione nella versatilità della ’ mente musicale’ evocata nel 1988 in occasione del suo tardivo, straordinario esordio poetico.
Più che altro, in questo intrecciarsi di impegni e di suggestioni, Ranchetti era rimasto fedele alla sua condizione di credente, irregolare finché si vuole, ma appassionato e sincero. Un cattolico forse poco romano, si potrebbe azzardare con un minimo gioco di parole, tendenzialmente refrattario alle istanze del Magistero e propenso a riconoscersi - lui, studioso del modernismo nella profezia contemporanea di personalità come don Milani, padre Turoldo e l’intero gruppo milanese di Corsia dei Servi, oltre che nell’eclettismo spirituale di gesuiti come Hopkins o De Certeau. Senza dimenticare l’intensa frequentazione con il mondo ebraico, da Benjamin e Scholem fino a Taubes e Celan, di cui era stato traduttore.
È la filigrana di autori, spesso con relativa componente polemica, che affiora anche dalle pagine di ’Ulteriori e ultimi’, che si conclude con una breve sezione di ricordi personali dove, non diversamente da quanto accade nelle testimonianza affidata al video, si impone quello che è stato forse il tratto più caratteristico di Ranchetti: un’umiltà radicale, che lo portava a parlare per sé (e cioè concretamente, non per astrazione) e ad affermare di aver ricevuto senza merito i doni di cui sarebbe potuto andare fiero. Come la casa di via di Giramonte, appunto. A sentir parlare di ’ grazia’, forse, Ranchetti sarebbe rimasto perplesso, poi si sarebbe acceso una Gauloise e ci avrebbe pensato su.
Le ultime poesie di Michele Ranchetti
Uscita postuma con il titolo «Poesie ultime» la terza raccolta dell’intellettuale fiorentino, scomparso lo scorso febbraio, esalta le discontinuità della vita, rivelando quanto fosse proficua l’inattualità dei suoi interessi verso la religione, la psicoanalisi, l’editoria
di Marco Pacioni (il manifesto, 21.05.2008)
L’itinerario di Michele Ranchetti, che ci ha lasciato all’inizio di febbraio, si configura come un percorso intellettuale in cui le deviazioni e le interruzioni sono più importanti delle continuità. Così egli scriveva in uno dei saggi raccolto nel primo volume dei suoi Scritti diversi (Edizioni di Storia e Letteratura, 1999): «... la vita si interromp(e) più volte nel corso della vita, ed è a questa «forma» di interruzione che si deve attribuire una rilevanza non prevista o almeno trascurata nelle «biografie» e di rado presente nelle scritture autobiografiche. La vita di qualsiasi uomo, sano o malato, non è per nulla un percorso lineare in cui la presenza della vita costituisca un elemento costante». E tutta fuorché «lineare» era la gamma dei suoi interessi: Pascal, Wittgenstein, Freud, Benjamin, Celan, Rilke, gli eretici, la storia della chiesa, la traduzione e, naturalmente, la scrittura poetica.
Nonostante l’avesse praticata in forma privata sin da adolescente, Ranchetti si era convinto soltanto di recente, alla fine degli anni ’80, che la poesia potesse essere la «forma» attraverso la quale esprimere le cesure, le interruzioni e le discontinuità: ciò che per definizione è più difficile, se non impossibile, rappresentare. A tale compito è chiamata anche la sua terza raccolta, uscita postume con il titolo Poesie ultime e prime per la collana Verbarium della Quodlibet (pp. 89, euro 15).
La sequenza del titolo, descrittiva della reale cronologia dei componimenti, e l’esergo «vi sono più testamenti che eredi» evidenziano come l’itinerario di Ranchetti non possa e non voglia disegnarsi come una narrazione in cui l’inizio e la fine hanno il loro posto stabilito. Come nelle scritture che inclinano alla mistica o si situano in atmosfere estreme - per esempio in Giovanni Della Croce, in Angelo Silesio, in Carlo Michelstaedter o nel Giorgio Caproni di Res Amissa, per fare alcuni nomi vicini a Ranchetti - origine e termine, vita e morte e, più in generale, tutte le antitesi non vengono semplicemente espresse come opposizioni, ma come simbiosi.
Fluttuando continuamente le une nelle altre queste antitesi ci consegnano sempre l’impressione del movimento e contemporaneamente dell’immobilità, dell’apertura e della chiusura perentoria: «Di contro al tuo silenzio non ha voce / il grido del neonato che si accerta / d’esser vivo piangendo perché teme / l’atterrito silenzio in cui tu muori viva. // Un altro vento muove le tue membra / e percorre il tuo corpo. Verso dove? / Dov’è la morte e perché il suo grembo / ti vuole nascere, madre del suo vivere, / del tuo morire?». Benché a prima vista potrebbe sembrare il contrario, quello di Ranchetti non è il tipico stile della coincidentia oppositorum: la formula più identificativa e abusata della tradizione mistica.
La logica dei contrasti, la loro ossessiva ripetizione non sono il rovescio della linearità. Le antitesi, gli ossimori e i chiasmi non chiudono completamente gli snodi del cursus della scrittura. C’è sempre una tensione asimmetrica che salva un resto - spesso per isolarlo tragicamente - uno spunto imprevisto, un tertium non pienamente dicibile, ma che proprio per questo si può «mostrare», come voleva Wittgenstein. È questa forse la punta più estrema e originale della vena mistica della poesia di Ranchetti, che vuole contemporaneamente demistificare l’incantamento affabulatorio e spiazzare tanto se stesso nell’atto dello scrivere che il lettore. Nelle poesie latine - le «Prime», poste nella seconda sezione del libro, ma risalenti agli anni 1940-1945 - le iterazioni perdono la loro ossessività, il ritmo è meno spezzato e sembra placarsi: si riflette in questi versi l’influenza del latino liturgico e della sua ritualità cristallizzata nella quale la specificità della voce del poeta sfuma in coralità. Al contrario, nelle due poesie in tedesco presenti nella prima sezione titolata «Ultime», la pronuncia è più secca, le asimmetrie si stemperano. A differenza del latino (e solo in parte dell’italiano), lingua della preghiera, il tedesco sembra assumere di più il ruolo di lingua del giudizio assertorio. L’influenza di Celan (ma anche quella di Wittgenstein) è qui molto forte.
Il fatto stesso che è difficile accostare senza forzature Ranchetti alle principali tendenze della poesia italiana contemporanea ne sottolinea la «inattualità», che è tale non soltanto nella poesia, ma anche nella sua affezione alla psicoanalisi, alla religione, nei progetti editoriali e, in generale, nei modi della sua presenza intellettuale. E tutto ciò si converte in un segno ancora più vivido e in un patrimonio di cui si può disporre a patto di trasformarlo in monumento. Quella di Ranchetti è anche una via alternativa verso la poesia religiosa che non raggela nella mera presenza il mistero dell’Incarnazione e che anzi contesta l’arresto al visibile operato con sempre più forza dall’istituzione cattolica. In queste sue ultime poesie la morte viene convocata per riuscire ad appropriarsi della vita, a comprenderla mentre tuttavia sfugge e dunque risulta «assente» nel momento in cui chi scrive cerca di rintracciarne avvertirla come una presenza attiva nel proprio sé.
Convocare la morte, chiamarla a rendersi presente inevitabilmente dal lato della vita, significa riaprire continuamente il tempo al perdurare della rivelazione cristiana, sottraendo il divenire a ciò che è considerato come dato una volte per tutte, come «già-rivelato». Nella religiosità che si ripara nel «rivelato» l’esistenza può specchiarsi e riconoscere - o credere di scoprire per la prima volta - di avere una identità da trasferire, eventualmente, all’esterno. Il corpo e la mente, la vita e la morte, il bene e il male diventano etichette con le quali non si interroga più l’esistenza nella quale si è manifestato l’evento religioso, ma la proiezione del riflesso di sé sugli altri.
La religiosità diventa un «valore» da monetizzare - il «rivelato» diventa (capitalisticamente) un «ricavato». E il sentimento religioso mentre svanisce nel singolo si va a ricomporre nella moltitudine, nel fragore dell’applauso. Proprio nel momento in cui sta per rendersi udibile il battito delle mani Ranchetti trova spazio con la sua poesia che introduce un tempo di mezzo fra «battere e levare».
CULTURA E SOCIETÀ Firenze
Addio a Ranchetti, poeta «fuori tempo» anche nella Chiesa
di ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 05.02.2008)
Aveva il dono dell’intempestività e, come solitamente accade in casi del genere, ne andava fiero. Tanto da scrivere in una sua poesia questi versi che oggi possono valergli da epitaffio: «Vivo in una cassa / da vivo: morto / sarò risorto». È l’autoritratto di Michele Ranchetti, l’inquieto intellettuale morto domenica a Firenze, la città in cui viveva da molti anni, in una bella e disadorna casa colonica sulle colline di via Giramonte. Nato a Milano nel 1925, era stato un bambino solitario, per il quale musica e letteratura avevano sostituito presto giochi e passatempi. Un primo segnale di quel suo essere sempre in qualche modo fuori tempo e fuori posto, che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Per molti, per esempio, Ranchetti rimane uno dei nomi più rappresentativi della concitata stagione catto-comunista, lungo una linea che va dal suo classico studio su Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo (Einaudi, 1963) fino al più recente Non c’è più religione (Garzanti, 2003), un pamphlet polemico ma animato, come sempre, da passione sincera. All’occasione, però, Ranchetti si era dimostrato capace di assumere posizioni scomode anche per la stessa cultura di sinistra: direttore delle librerie Feltrinelli negli anni Sessanta, era entrato in rotta con l’impostazione, secondo lui già all’epoca eccessivamente commerciale, voluta dallo stesso Giangiacomo.
Aveva scelto allora di dedicarsi all’insegnamento universitario (fu docente di Storia della Chiesa a Firenze), senza però mai abbandonare il rapporto con l’editoria, in particolare fornendo un contributo decisivo per la pubblicazione delle opere di Freud in Italia. E proprio la nuova edizione «tematica» degli scritti del fondatore della psicoanalisi, avviata per Bollati Boringhieri nel 2006 e caratterizzata da una radicale revisione della terminologia corrente, aveva confermato per l’ennesima volta la sua fama di irregolare, di irriducibile a qualsiasi convenzione.
La vastità dei suoi interessi e l’originalità del suo punto di vista è documentata in modo esemplare dai tre volumi di Scritti apparsi tra il 1999 e il 2000 presso le Edizioni di Storia e Letteratura, ma anche dall’ampio spettro degli autori ai quali aveva prestato la propria voce di traduttore, primo fra tutti l’amatissimo Paul Celan. Pur avendo scoperto la poesia già durante la sua infanzia appartata, in versi aveva pubblicato poco, tardivamente e con esiti di straordinaria intensità, come testimoniano le due raccolte apparse da Garzanti, La mente musicale (1988) e Verbale (2001). A -chi l’ha conosciuto piace ricordarlo così, come un poeta autentico. E intempestivo, si capisce.
Il RILKE di Enzo PACI
di Andrea CIROLLA *
Il nome di Rilke compare per la prima volta sotto la penna di Enzo Paci nell’autunno del 1942. L’occasione è una recensione su “Primato” della raccolta di saggi di Alessandro Pellegrini Novecento tedesco, dove il poeta non è certo menzionato con toni entusiastici. Partendo da una considerazione duramente critica sulla recente poesia tedesca (in quanto viene a risolversi in una ricerca intellettualistica dell’arte), Paci gli dedica queste poche parole: «Da quello che potremmo definire “intellettualismo simbolistico” non si libera nemmeno Rilke, che pure è una schietta natura di poeta»[1].
Passano tre anni e l’atteggiamento nei confronti di Rilke cambia sensibilmente. In una pagina di diario del 21 settembre 1945, scritta tre mesi dopo il ritorno dal campo di concentramento di Wietzendorf, Paci si appella all’insegnamento rilkiano: «è molto più difficile qui [...] conservare in sé la libertà, l’indipendenza, ciò che mi fa libero dalla storia. Vivere nell’immanenza portando in sé il senso della trascendenza. [...] Devo saper soffrire. Non ho ancora imparato! E maturare come una pianta, maturare nel senso di Rilke. Prima di addormentarmi rileggerò Rilke e ne presento il saluto che lo unisce alla mia speranza - oltre le vicende quotidiane e la tentazione di muoversi in esse, dimenticando un poco, dimenticando troppo, quei due anni vissuti nel regno della verità ai confini con la morte. Rilke mi aiuta a non diminuirmi, a non cadere, a non perdermi»[2].
Il 3 giugno del 1946, un anno dopo la conclusione del periodo di prigionia, Paci torna sul poeta tedesco con un breve saggio intitolato La fontana di Rilke[3]. Vi vengono toccati pressoché tutti i luoghi classici della sua produzione, da Il libro delle immagini alle Nuove poesie, da I quaderni di Malte Laurids Brigge alle Elegie Duinesi, dai Sonetti a Orfeo fino alle Lettere a un giovane poeta e Lettere a una giovane donna. Uno dei temi fondamentali di Rilke risulta essere il mito della morte di Orfeo: «le cose del mondo non vivono, o vivono di una falsa vita, di cui devono morire, per ritrovare davvero se stesse nel seno dell’antica sorgente: [...] “Solo perché, sbranato, lo stormo feroce si sperse, oggi, udiamo: e una bocca ha in noi la divina natura” (Son. a Orfeo, trad. Errante)». A conferma dell’unità della poesia di Rilke, lo stesso motivo viene rintracciato nelle Elegie Duinesi: «“Terra, non è questo dunque il tuo volere: in noi risorgere invisibile? Terra! Invisibile! Quale è, se non metamorfosi, il tuo fermo comando?”. (Nona Elegia, trad. Traverso)». E ancora nelle Lettere a un giovane poeta: «“Condurre a termine e poi generare: è tutto qui. Bisogna che lasciate maturare in voi ogni espressione, ogni germe di sentimento, nell’oscuro, nell’inesprimibile, nell’incosciente, in queste regioni chiuse alla comprensione. Attendete con pazienza e con umiltà l’ora della nascita”. [...] Le cose rinascono dunque nella parola, nel grembo materno al quale ritornano l’uomo e la natura. [...] maturare, nascere. Maturare: reifen. È forse il verbo più tipico di Rilke»[4].
Il tema del “maturare” verrà ripreso l’anno dopo in Rilke e la nascita della terra, saggio ove La fontana di Rilke confluisce parzialmente[5]. Qui la lirica Annunciazione dal Libro delle immagini va a sostituire in quanto a centralità il ruolo prima svolto da Fontana romana (inclusa nelle Nuove Poesie). E soprattutto, il paragrafo finale pone in estrema evidenza il fulcro dell’interpretazione paciana: «Esso si potrebbe enunciare così: il mondo dell’esistere, nell’angoscia della sua inconsistenza, deve morire ed aprirsi all’assoluto: da questa morte, attraverso il dolore, nella parola e nell’umiltà dell’opera umana, rinasce il mondo, tutto trasfigurato nello spirito, o, meglio, qui, il mondo nasce a se stesso per la prima volta»[6].
Il tema risuona in tutti gli altri saggi di Esistenza e immagine, come pure nella personale elaborazione teoretica del filosofo di Monterado. Il motivo della “rinascita della terra nell’uomo” torna ad esempio nelle pagine dedicate a Valery, dove viene attribuito all’architettura, la quale opera una cosciente ricostruzione umana di ciò che la natura costruisce “inconsciamente”. E ancora in Valery, tramite l’antinomia di contenuto romantico e forma classica si ripete la dualità tra poesia e filosofia, vita e spirito. Questa dualità è «ciò che la filosofia potrebbe indicare come il trascendentale, nel suo doppio aspetto metafisico e metodologico»[7]. L’incontro tra esistenza e verità, è, anche, «qualcosa di simile [...] all’incontro del tempo e del senza tempo nell’ultimo Eliot»[8].
Ciò che guida l’analisi di Paci, tornando a Rilke, rimane insomma la dialettica insolubile tra valore ed esistenza, essere e non essere, ora in veste di guida maieutica per l’uomo, che dovrà affrontare «almeno una volta nella vita [...] il salto nello spirito»[9]. «La missione dell’uomo si rivela qui come il compito di trasformare l’esistenza in verità nell’intimo della sua anima: [...] questa nascita della terra nello spirito è ciò che abbiamo indicato come incontro tra l’esistenza e la verità ideale, tra immanenza e trascendenza [...]. Su un piano filosofico non dovrebbe essere troppo difficile tradurre questa intuizione rilkiana. Non è per Croce l’arte la forma aurorale dello spirito? Non è solo perché alla base di tutta la sintesi spirituale c’è l’arte che la sintesi è possibile? Non è l’arte che rende possibile la sintesi teorica e, quindi, la sintesi morale?»[10].
La fondamentale funzione creatrice dell’arte era stata teorizzata da Paci già a partire dal 1939, nel volume Principii di una filosofia dell’essere[11], alla luce del quale guadagna più senso quel richiamo a Croce[12]. L’arte, come momento particolare del movimento circolare dello spirito, vive nei Principii della stessa dualità rintracciata in Esistenza e immagine: forma e materia, espressione (la legge del giorno) e liricità dell’arte (passione della notte), apollineo e dionisiaco. Nell’arte la fenomenologia dell’essere ha uno dei suoi snodi cruciali, è momento creatore che innalza l’esistenza fino a mutarla, a maturarla in forma, valore, idea. Rivivendo nel particolare la stessa dialettica del generale, il fenomeno artistico è ciò che permette l’identità di visione (l’immagine) ed essere (l’idea), pur senza risolversi in quest’ultimo; esso permane come movimento eterno, rappresentato nei Principii dalla legge trascendentale.
Il particolare ruolo dell’arte, che riveste un’importanza decisiva in queste iniziali prove teoretiche, attraversa come una corrente carsica il primo periodo esistenzialista di Paci, quando l’attenzione va a rivolgersi principalmente al dibattito che sfocerà poi nella celebre inchiesta di “Primato” dei primi mesi del 1943. In questo senso il 1941 è un anno decisivo, in quanto vede sia pubblicato il volume Pensiero esistenza e valore - lavoro che ancora riecheggia la tripartizione dell’essere tipica dell’opera sistematica del ’39 -, sia confermato il contributo di Paci al nascente esistenzialismo italiano, con saggi quali Il significato storico dell’esistenzialismo[13] e Romanticismo e antiromanticismo[14]. Le tre forme dell’essere descritte nei Principii (pensiero, esistenza e valore) si fondono così in quello che Mario Dal Pra ben definì “esistenzialismo critico”[15]: l’incontro tra istanza dell’esistenza, criticità della ragione e dovere della morale.
Il progressivo approdo all’esistenzialismo spinge Paci ad alcuni cambiamenti di prospettiva, uno su tutti l’individuazione della trascendenza - cioè del momento della sua manifestazione - non più nella coincidenza di essere puro e pensiero, ma nella sfera stessa dell’immanenza. La trascendenza, alla quale apriva l’arte e dalla quale si era assorbiti nella religione, si risolve ora tutta nell’immanenza, nella finitezza divenuta nuovo “segno della moralità”. Questa finitezza non è nient’altro che l’esperienza esistenziale, dalla quale sorge il mondo dell’arte. Si ripresenta insomma, sotto una nuova veste, il rapporto tra arte ed esistenza studiato fin dai Principii: «Penso che non ci sia poesia senza esistenza, ma credo che l’esistenza non possa diventare poesia se non esprimendo la propria finitezza in un valore eterno (senza, e questo è essenziale, fuggire dal finito)»[16]. E nel mito della morte e della rinascita viene così ribadita anche la coerenza dell’intero percorso filosofico di Paci, dal problema del negativo all’antinomia di essere e non essere[17].
[1] E. Paci, Recensione di A. Pellegrini, Novecento tedesco (Principato, Milano-Messina 1942), in «Primato», 1942, n. 21.
[2] E. Paci, Colloqui con Banfi, in “Aut-Aut”, n. 214-215, 1986, pp. 72-77 (trascritto dai diari conservati nell’Archivio Paci sotto la segnatura Di-I).
[3] E. Paci, La fontana di Rilke, in «Giornale di mezzogiorno», 3 giugno 1946. Ringrazio Dario Borso per avermi segnalato il testo, assente nelle varie bibliografie paciane.
[4] Ibidem.
[5] In E. Paci, Esistenza e immagine, Tarantola, Milano 1947, pp. 123-148.
[6] Ivi, p. 140.
[7] Ivi, pp. 142-143.
[8] Ivi, p. 141.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, pp. 141-143.
[11] E. Paci, Principii di una filosofia dell’essere, Guanda, Modena 1939.
[12] Nei Principii viene mutuata la divisione crociana delle forme dello spirito nella tripartizione: vita morale, vita dell’arte e vita religiosa.
[13] E. Paci, Il significato storico dell’esistenzialismo, «Studi filosofici», 1941, n. 1.
[14] E. Paci, Romanticismo e antiromanticismo, «Architrave», 1941, n. 8.
[15] M. Dal Pra, Introduzione ad A. Civita, Bibliografia degli scritti di Enzo Paci, La Nuova Italia, Firenze 1983, p. XX.
[16] E. Paci, Recensione di A. Pellegrini, cit.
[17] Su ciò cfr. A. Borghesi, “Enzo Paci e il mito della rinascita in Proust e Mann”, in E. Esposito [a cura di], Le letterature straniere nell’Italia dell’entre-deux-guerres, Pensa Multimedia, Lecce 2004, I, p. 132.
“Vorrei che la vita tenesse più conto degli sforzi che faccio per mettermi d’accordo con lei”.
Nato nel 1911 a Monterado (AN) e morto nel 1976 a Milano, Enzo Paci è considerabile certamente come uno dei personaggi più determinanti nell’ambiente filosofico italiano del ‘900. Formatosi sotto il magistero di Antonio Banfi a Milano, e dapprima sotto quello di Adolfo Levi a Pavia, si laureò nel capoluogo lombardo nel ‘34, con una tesi sul Parmenide di Platone (poi riveduta e pubblicata nel ‘38). Fu esponente di spicco, con Nicola Abbagnano, del quale abbracciò l’impostazione, dell’esistenzialismo cosiddetto “positivo” (poiché italiano e in quanto pervaso da un orizzonte di ottimismo e da uno spirito di affermazione dell’individuo oltre lo scacco del reale - dunque in opposizione all’esistenzialismo tradizionale di scuola tedesca, quello di Heidegger e Jaspers, principali autori di riferimento del giovane Paci). Partito nel ‘43 per i Balcani, in occasione del secondo conflitto mondiale, al momento dell’armistizio fu deportato in Polonia (si oppose al reclutamento nell’esercito di Salò), dove scontò la dura esperienza del campo di concentramento.
Gli anni 50 videro Paci alle prese con l’insegnamento universitario. Nel ‘51 ottenne la cattedra di filosofia teoretica a Pavia, nel ‘58 passò alla Statale di Milano, sostituendo l’antico maestro Antonio Banfi. In corrispondenza ai primi incarichi accademici Paci volse i propri interessi verso quello che fu definito un “esistenzialismo relazionistico”, centrato sull’evento che è l’esistenza, sui rapporti tra gli individui e il concetto di temporalità, che sottende quello di relazione.
Gli anni 60 videro infine crescere in Paci l’interesse verso la fenomenologia di Edmund Husserl, scoperta e “importata” in Italia dal maestro Antonio Banfi. I tre momenti della ricerca di Enzo Paci - sempre caratterizzata da illuminanti riletture e un costante e creativo dialogo con i propri autori, più che un autonomo filosofare - non sono da considerarsi come momenti slegati, quanto come frangenti di un unico corso di pensiero.
Opere principali:
Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone (1938)
Princìpi di una filosofia dell’essere (1939)
Pensiero, esistenza, valore (1941)
Esistenza ed immagine (1947)
Esistenzialismo e storicismo (1950)
Il nulla e il problema dell’uomo (1950)
Tempo e relazione (1954)
Dall’esistenzialismo al relazionismo (1957)
Diario fenomenologico (1961)
Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl (1961)
Funzione delle scienze e significato dell’uomo (1964)
Relazioni e significati. I, Filosofia e fenomenologia della cultura
(1965); II, Kierkegard e Thomas Mann (1965); III, Critica e
dialettica (1966)
Idee per una enciclopedia fenomenologica (1973)
*Fonte: LA DIMORA DEL TEMPO SOSPESO
Rilke, cittadino del doppio regno
Una totalità che abbraccia la vita e la morte Il destino dell’uomo: un continuo prender congedo
di Paola Capriolo (Corriere della Sera, 28.02.2012)
In un celebre saggio, Martin Heidegger annovera Rilke tra quegli autori che nel «tempo della povertà», in un tempo cioè che è ancora il nostro, «debbono espressamente poetare l’essenza stessa della poesia»; definizione, a prima vista, tutt’altro che accattivante. Quando leggiamo un volume di versi, ci aspettiamo di trovarvi espresse e trasfigurate le esperienze fondamentali di ogni essere umano, l’amore, il lutto, l’emozione di fronte a un paesaggio... mentre l’«essenza della poesia» ci sembra un tema astratto e quasi specialistico, che riguarda uno sparuto pubblico di addetti ai lavori. Non fosse che per Rilke, erede della tradizione romantica e di un pensiero filosofico che, con Nietzsche, eleva l’arte a metafora centrale nella comprensione della realtà, questa essenza coincide con la natura più profonda dell’uomo.
Chi è dunque l’uomo, secondo Rilke? La risposta è: la più fuggevole, la più effimera tra tutte le creature. Ciò che è nostro, ciò che noi siamo, ad ogni istante svapora da noi «come rugiada dalla tenera erba,/ ... come il calore da una calda vivanda»; passiamo sulle cose con la rapidità dell’aria quando si apre la finestra per ventilare una stanza. A prima vista, sembra un po’ eccessivo: è vero che non possediamo la salda durata delle pietre o persino degli alberi, ma i moscerini ad esempio vivono molto meno di noi e non imprimono certo nel mondo una traccia più persistente.
Come può dunque Rilke definirci «i più fuggevoli»? Perché, ci spiega nell’Ottava elegia, diversamente dai moscerini noi viviamo «in un continuo prender congedo», siamo sempre nell’atteggiamento di chi parte e «... sull’ultima / collina che gli mostra per una volta ancora / tutta la sua valle, s’arresta, si volge indietro, indugia -». In altre parole, perché diversamente dai moscerini noi conosciamo la morte. La vediamo in anticipo, fissa davanti a noi come la linea che chiude il nostro orizzonte, ed è appunto questa chiusura a costituire il «mondo», la rigida, dolorosa forma in cui esistiamo. Così, credendo di guardare avanti, in realtà guardiamo costantemente indietro, con quello sguardo «rivoltato» che si posa sulle cose come un addio: credendo di guardar fuori a perdita d’occhio, in realtà vediamo soltanto le sbarre della gabbia che noi stessi ci siamo costruiti, anzi, che noi stessi siamo...
Eppure la poesia è resa possibile proprio da questo sguardo «rivoltato», rammemorante, che muovendo dall’orizzonte della morte trasforma le cose in ricordi, ossia in pura interiorità. Quella stessa potenza che ci ingabbiava costringendoci a rinchiuderci nelle anguste forme del mondo può diventare una potenza liberatrice quando la morte viene per così dire metabolizzata, accolta, fatta propria, anziché porsi eternamente davanti a noi come qualcosa di estraneo che ci sbarra la strada. Se l’animale, che è di casa nell’aperto, sente il proprio essere come infinito e «dove noi vediamo l’avvenire, là vede il tutto / e sé nel tutto, risanato per sempre», anche il morto, o chi accoglie la morte, disimpara a dare alle cose «il senso di umano futuro», impara ad abbandonare le rigide distinzioni proprie dei vivi per assumere ogni cosa in uno spazio di libertà che è, insieme, memoria e trasfigurazione, la segreta, paradisiaca vastità che l’anima possedeva in sé a propria insaputa.
Sorge così quel «doppio regno», alla cui celebrazione sono dedicati i Sonetti a Orfeo: una totalità originaria che abbraccia la vita e la morte senza contrapposizioni e cesure, quasi senza distinzione: perché, come afferma la Prima elegia, noi compiamo tutti l’errore di distinguerle troppo nettamente, mentre «gli angeli (si dice) di sovente non sanno / se vanno tra vivi o tra morti». Il doppio regno è quel regno della metamorfosi dove le forme perdono la loro rigidezza per trapassare l’una nell’altra attraverso modulazioni finissime e quasi impercettibili: come nella splendida composizione per archi di Richard Strauss intitolata appunto Metamorfosi, con la stessa, duttile fluidità; è quel regno, scrive Rilke, «la cui profondità e influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno».
Ma per essere «indelimitati», cioè cittadini consapevoli del doppio regno, bisogna in primo luogo «tentare un rapporto con la morte del tutto libero dal rimprovero», cioè imparare a concepirla senza l’aspetto della negazione. Questo arduo, radicale superamento del «non» (quindi della separatezza, del «mondo», della forma come chiusura) è ciò cui i Sonetti si riferiscono con la parola «lode»: persino la lamentazione può dimorare davvero solo «nello spazio della lode», come la ninfa in una sorgente; e d’altra parte «solo colui che anche tra ombre / levò la lira, / può con cuore presago cantare / la lode infinita».
Noi, i più fuggevoli, siamo quelli capaci di lodare. Di lodare che cosa? Non l’eterno, non le alte e terribili schiere degli angeli, ma precisamente quella sfera della caducità cui apparteniamo e che ci è stata affidata. Lodare le cose che ci circondano e che, come noi, «del morire vivono»; quelle cose fuggevoli che ci credono capaci di salvarle, «noi, i più fuggevoli», e «vogliono che le trasformiamo del tutto, nel cuore invisibile, / in noi - all’infinito! Chiunque infine noi siamo».
Leggendo questi versi della Nona elegia, che rappresentano il culmine del ciclo duinese e forse dell’intera opera di Rilke, comprendiamo davvero come il «poetare l’essenza della poesia» possa essere tutt’altro che un esercizio elitario. Il vero compito dell’uomo, la «norma della sua esistenza», è proprio questa trasposizione delle cose visibili nel «cuore invisibile» che si fonda sulla memoria e nella poesia trova la sua attuazione più piena: una trasposizione che, da supremo compimento cui tutte le cose aspirano, nel nichilistico «tempo della povertà», quando la consistenza del mondo sembra sempre più corrosa da una tensione cieca e «senza figura», diviene addirittura la loro unica possibilità di sopravvivenza, la «grande arnia d’oro» in grado di custodirne il senso minacciato.
La poesia del mondo
L’angoscia nascosta di Rilke per le donne
Un testo “scritto senza impegno” per dire un semplice e gentile “no grazie”
Ma anche nelle cose minori il grande poeta dimostrava il suo talento
e paragonando la nobile rinuncia alla purezza dell’acqua fresca metteva in versi traumi e misoginia
di Walter Siti *
L’AUTORE Rainer Maria Rilke (Praga 1875 - Montreux 1926) è stato uno dei più grandi scrittori e poeti austriaci, autore di numerosi drammi, poesie e opere in prosa in lingua tedesca Online su Repubblica.it lo speciale dedicato alla serie “La poesia del mondo” di Walter Siti
MOLTA filosofia si è fatta intorno alle poesie di Rilke, dai riferimenti alla fenomenologia di Husserl alle pagine che gli dedicò Heidegger; e certo la sua scrittura vi si presta, coi riferimenti a Orfeo, il privilegio dell’invisibile sul visibile e dell’astratto sul concreto, la distanza insuperabile e continuamente evocata tra esistere ed essere. I suoi testi (soprattutto le Elegie Duinesi ) reggono le interpretazioni, sia chiaro, ma sottopelle corre il sospetto della sopravvalutazione - di voler cercare coerenza di pensiero dove non ci sia che estetismo ed esagerata ambizione. C’è di che trovarlo antipatico, questo narciso cosmopolita che non ha mai seriamente lavorato in vita sua: lamentoso corrispondente di nobildonne e di artiste, coccolato in castelli non suoi.
Peccato che sia un poeta vero e che anche nelle cose minori sappia dimostrarlo vittoriosamente. Per esempio in questo madrigaletto scritto senza impegno per una delle tante ragazze che si mettevano in contatto con lui e che lui rigorosamente teneva a distanza di sicurezza; è cinquantenne ormai, separato dalla moglie, tormentato da malattie apparentemente psicosomatiche che si trasformeranno dopo solo due anni in una leucemia fulminante e mortale.
È un no-grazie gentile, un rifiuto in forma di paragone che si traveste da diagnosi indiscutibile: io sono fatto in questo modo e quindi... L’accadimento è minimo: una passeggiata intorno al palazzotto svizzero dove viveva, lungo una strada consueta (il neologismo composto “sonngewohnten” può voler dire sia “abitata dal sole” che “abitualmente al sole”).
Il contrasto piacevole ai sensi è quello tra la strada assolata e il freddo dell’acqua raccolta nell’abbeveratoio; è l’inizio d’estate, il silenzio è rotto solo dal chioccolare piano dell’acqua nel tronco cavo - acqua limpidissima che dà voglia di bere. Lui sazia la sua sete ma non, come farebbero tanti, avvicinando le labbra: solo immergendo i polsi nello specchio della vasca.
Con uno scatto di sensibilità trova che sarebbe smaccato, volgare, bere con la bocca - una troppo esplicita ammissione di desiderio. Soddisfare così direttamente un bisogno porterebbe a non capire tutti i sottintesi di quell’acqua: che è materialmente limpida ma anche serena, allegra (“heiter”); e la sua origine è sì quella geografica (gli acquedotti, i monti) ma anche meteorologica (il circuito perpetuo dal cielo alla terra e viceversa) e intellettuale (l’eterno che presiede all’effimero). Solo la rinuncia e l’attesa acquisiscono alla coscienza un’acqua più pura di quella fisica, un’acqua quintessenziata e spirituale.
Dunque, dice alla donna, se tu venissi non ti berrei tutta, mi basterebbe sfiorarti. Lo dice più per rassicurarsi che per rassicurarla: è una conclusione fintamente ragionativa ma liberatoria (anche il ritmo lo sa, dalla prima strofa franta e piena di enjambements audaci si passa a una quartina prima esitante poi cantabile e simmetrica).
«Compresi», scrive Rilke in un appunto del 1910, «che sarei sempre stato in torto se mi fossi aspettato dalla vita qualcosa di più che di essere sfiorato da lei, lievemente, sul braccio»; e aggiunge il ricordo delle stele sepolcrali dell’antico cimitero di Atene - quei gesti trattenuti tra vivi e morti, gli addii tra cari che «si uniscono piano nel cuore indimostrabile di uno specchio», il «salire di una mano alla spalla senza alcuna volontà di possesso».
L’allusione a quelle “mani che poggiando non premono” tornerà nella Seconda Duinese, dove si parla degli amanti che avvicinano le bocche come per bersi l’un l’altro (“bevanda a bevanda”) ma poi non consumano il gesto; gli amanti in cui si infiltra qualcosa dell’essenza angelica. La Seconda Duinese è l’elegia degli angeli: angeli che diventano “specchi” perché riattingono nel proprio volto la bellezza piovuta da Dio, proprio come fa l’acqua nel perpetuo giro dell’umidità.
In un appunto del 1913 Rilke aveva scritto «l’angelo è ciò che l’acqua è sulla terra e nell’atmosfera: torrente, rugiada, abbeveratoio, fontana d’esistenza dell’anima ». Sotto il minuscolo episodio di quel giorno di giugno si stringe un nodo di significati: la donna è acqua e angelo, rinunciare a possederla vuol dire accedere a una conoscenza più pura e a una più pura origine - sotto l’acceso desiderio erotico dei seni, rintracciare l’amore materno (“stillen” è “saziare” ma anche “allattare”).
C’è molto Unbewusste, inconscio, dietro quella chiara coscienza; nell’esaltazione rilkiana della donna cova un’oscura misoginia - una pittrice polacca da lui trascurata l’aveva capito scrivendogli “accetto tutto da voi, anche la vostra paura”. Paura pura e semplice, dietro tutte le razionalizzazioni; e rispondendo alla pittrice Rilke lo conferma con un’immagine terribile: «L’amore ha avanzato spesso pretese nei miei confronti, come se un frutto ammirato dovesse essere schiacciato dentro l’occhio che lo guardava rapito, come se fosse una bocca». Affermando che Rilke è un poeta vero, affermavo che l’autenticità dei suoi traumi trova nei versi la strada più naturale per rivelarsi, e che soltanto il ritmo delle parole concilia l’inconciliabile (vedi qui il parallelismo tra “Anruhn meiner Hände” e “Andrang deiner Brüste”).
* la Repubblica, 02.11.2014 (ripresa parziale)