In attesa delle pubblicazioni del nulla!

Calabria senza speranza: la promessa di azzurre lontananze - di Francesco Saverio Alessio

Ndrangheta, politica, massoneria deviata, e rassegnazione popolare in Calabria
domenica 27 febbraio 2011.
 

Le conquiste di un esule sono costantemente minate dalla perdita di qualcosa che si è lasciato per sempre alle spalle.

Edward William Said

di Francesco Saverio Alessio

Calabria: miliardi di euro di fondi pubblici spariti, come centinaia di persone delle quali non si sa più nulla, come migliaia di emigrati e fuggiaschi dispersi nel mondo, come il libro “La società sparente” che descrive queste sparizioni, sparito dal circuito distributivo, sparito anche il suo Editore. Il vuoto cresce, le strade franano, i tumori aumentano, i politici impazzano ed imperversano con il loro incontrastato dominio delle coscienze, del voto, fondato sulla paura, sull’annientamento delle aspirazioni e delle speranze.

Strano come un luogo così orribilmente devastato, espressione massima del cattivo gusto e della tristezza egocentrica del vivere contemporaneo, resti per sempre nel cuore; non c’è un giorno della mia vita nel quale non pensi almeno una volta alla Calabria. Sarà che la mia ultima partenza, obbligata e necessaria, dettata dal bisogno di fuggire a qualche esecuzione sommaria, è stata più improvvisa di altre partenze ponderate e scelte. Sarà che sono legato alla casa dove sono nato, ai miei mobili, ai miei libri, ma non riesco a mandare giù questa sensazione amara di vuoto, di perdita definitiva.

Vivo attualmente in un paesino molto bello, civile e decoroso; l’esatto contrario di San Giovanni in Fiore, ma mi manca lo Jonio, mi manca la Sila: i suoi boschi, le sue albe, “il suo cielo di un azzurro così intenso che fa male agl’occhi” come disse il grande regista Wim Wenders ad Emiliano Morrone in un’intervista fatta proprio in Sila nel 2003. Poi penso all’ambiente apparentemente intatto che nasconde indicibili rifiuti tossici, allo Jonio intriso di mercurio ed altre porcherie, all’ambiente sociale, grigio, tetro, improduttivo ed inespressivo, gravato dalla paura del futuro e mi vien voglia di non tornare, mai. Mi vien voglia di dimenticare per sempre quella terra, quella gente. Non pensarci più.

L’esilio di un Calabrese è orrendamente triste: è senza possibilità di un ritorno. Si sa che anche se si torna, si trova un luogo dove non hai possibilità di esprimerti come essere umano autonomo, si trova un luogo violentato e sventrato da un fiume di cemento, da costruzioni prodotte da una poetica del brutto che soltanto un’anima collettiva squallida ed egocentrica può produrre. Se è vero che una civiltà si esprime attraverso l’architettura e la gestione decorosa dell’ambiente, attraverso la bellezza che è in grado di conformare, si può affermare che i Calabresi appaiono incivili. Questo senza scendere in altre analisi di carattere politico, sociale, antropologico. Soltanto osservando la bruttezza delle architetture che con folle determinazione e ritmo crescente si continuano a produrre devastando l’ambiente. Si vive in esilio ma senza alcuna speranza di poter tornare in un posto che tu possa riuscire ad amare fino in fondo, che una volta tornato possa accoglierti, offrirti delle occasioni di crescita. Semplicemente non c’è nulla di accogliente nella nostra terra. Ti attendono l’orrore e la morte senza gloria.

Bloccate e smembrate le inchieste di de Magistris non c’è alcuna speranza di ottenere una qualche forma di giustizia. Tutto il popolo costretto ad essere suddito o fuggiasco. I prossimi fondi Por (8 miliardi di euro fino al 2013) scompariranno nelle bocche spalancate dei soliti noti squali della politica, della ‘ndrangheta e della massoneria deviata che li congiunge in una sinergia demoniaca di appropriazione indebita del pubblico, in una corsa all’avidità senza fine, al dominio totale, persino del privato dei cittadini. Finora hanno derubato i Calabresi di miliardi di euro e risultano assolutamente impuniti, perché non dovrebbero continuare a derubarci di tutto? Perché con un popolo docilmente prono rispetto ai potenti loro non devono continuare a sodomizzarlo? Perché, visto che sono strutturalmente avidi, sperare che non continuino nella loro schifosa ingordigia.

Non c’è speranza e neanche più lotta in Calabria, almeno nella mia generazione, pochi giovani che provano a combattere isolati dagli adulti, dal tessuto sociale, dalle loro stesse famiglie. Tutto resta immobile. La vita impietrita come in un fossile. L’orrore domina incontrastato. A volte mi viene il desiderio di vederla scomparire inghiottita dal Mediterraneo o disintegrata da un’atomica.

Poi penso a quanto l’opposizione strenua contro questo orrore mi abbia fatto crescere come essere umano e tiro avanti un altro giorno ancora cercando di concentrarmi su di un sogno: la Calabria immaginata dalle tantissime persone oneste e sensibili che come me sono in esilio senza possibilità di ritorno. Mi immergo in questo sogno e, anche se non riesco a recuperare razionalmente alcuna speranza, continuo la lotta. Denunciando e proponendo. Scrivendo. Amando. Soffrendo.

Attraverso le nebbie dei paradossi onirici intravedo un barlume di luce solare lontano, indefinito. La promessa di azzurre lontananze, di una felicità che apparterrà ad un altro tempo, ad altri uomini, migliori di noi, che, forse, grazie anche ai nostri sacrifici, un giorno appariranno, ricchi di solidarietà, di carità, di ironia. Per render giustizia, pace e bellezza ad una terra ed ad una popolazione che le ha perse completamente.

Francesco Saverio Alessio

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William Shakespeare - To be, or not to be (from Hamlet 3/1)

To be, or not to be: that is the question: Whether ’tis nobler in the mind to suffer The slings and arrows of outrageous fortune, Or to take arms against a sea of troubles, And by opposing end them? To die: to sleep; No more; and by a sleep to say we end The heart-ache and the thousand natural shocks That flesh is heir to, ’tis a consummation Devoutly to be wish’d. To die, to sleep; To sleep: perchance to dream: ay, there’s the rub; For in that sleep of death what dreams may come When we have shuffled off this mortal coil, Must give us pause: there’s the respect That makes calamity of so long life; For who would bear the whips and scorns of time, The oppressor’s wrong, the proud man’s contumely, The pangs of despised love, the law’s delay, The insolence of office and the spurns That patient merit of the unworthy takes, When he himself might his quietus make With a bare bodkin? who would fardels bear, To grunt and sweat under a weary life, But that the dread of something after death, The undiscover’d country from whose bourn No traveller returns, puzzles the will And makes us rather bear those ills we have Than fly to others that we know not of? Thus conscience does make cowards of us all; And thus the native hue of resolution Is sicklied o’er with the pale cast of thought, And enterprises of great pith and moment With this regard their currents turn awry, And lose the name of action. - Soft you now! The fair Ophelia! Nymph, in thy orisons Be all my sins remember’d.


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