BAMBOLE
di Lea Melandri*
Nel gioco della bambina con la bambola si è creduto a lungo di vedere precocemente all’ opera l’ “istinto materno”. Ma che dire allora delle modelle, delle “veline” e delle conduttrici televisive sempre più simili alle Barbies, e viceversa? Le bambine hanno sempre avuto un rapporto ambiguo con quel corpo inanimato in tutto simile al loro, fatto per specchiarsi più che per apprendere la difficile arte della relazione con l’altro. Lo coccolano e, al medesimo tempo, lo invidiano. La sua bellezza e seduzione inducono ansie e voglie devastatrici: diventa necessario impadronirsene, sottometterne il mistero imponendogli norme e leggi.
Dietro la copertura apparente dell’iniziazione alla maternità trapelano inequivocabili rituali erotici: vestire per svestire, abbellire per degradare. Su quel corpo i gesti e le parole consumano curiosità e vendetta, il gioco diventa esercizio di un dominio. La relazione, trasgressiva rispetto alle attese educative, rimanda a un corpo femminile visto “da fuori”, come se corpo e pensiero si fossero separati, collocandosi su poli opposti.
Analogo è quello che solitamente avviene nel rapporto sessuale, tanto da far nascere il dubbio che sia la donna stessa a muoversi dentro il rituale maschile dell’appropriazione, ad assecondarlo, forse a prepararlo. Il corpo che si consegna all’uomo è già stato guardato e porta già segni di manipolazione, sia pure immaginaria. Il desiderio, la curiosità, la voglia di dominio del maschio, sono già stati preceduti da sentimenti analoghi, da parte della bambina, per il corpo che le è simile, e quindi per il suo stesso corpo: per vincere quello che “dal di dentro” di quel corpo le si oppone, lo fa proprio. Ma se questa per l’uomo è una vittoria, non lo è per la donna che condanna se stessa al destino di bambola, che è “lasciarsi fare”, divenire oggetto in mano di altri.
La “bambola” che l’uomo e la donna incontrano all’inizio della loro vita sembra dunque assommare in sé aspetti diversi: è il corpo che genera, il corpo della madre, se visto dall’interno, ma è anche, guardato da fuori, l’oggetto d’amore che si consegna, muto e seducente, al desiderio sessuale. Inoltre, dato che la bambola viene tradizionalmente associata al figlio futuro, si può pensarla anche come immagine di quel femminile narcisisticamente appagato di se stesso, che Freud accosta al bambino e ad alcuni animali da preda.
Che la bambola abbia poco a che fare con la maternità, lo dimostra in modo evidente un breve racconto di Edmondo De Amicis, Il re delle bambole (Sellerio, 1980). Nella bottega di colui che le fabbrica, o le ripara, le bambole sono “bambine inanimate”, ma con “belle gambe di donna”, che gli sguardi delle ragazzine “rubano con gli occhi” e poi con le mani, travolte da “un’orgia di desideri”. Da subito si confondono “bambole e bimbe”, “vocine naturali” e “vocine meccaniche”, “braccini di carne” e “braccini di legno”, “occhietti viventi” e “occhietti di vetro”. La ricerca della bambola si carica di slanci erotici, ma anche di fantasie devastanti, a cui contribuiscono “mani fanciullesche eccitate dalla curiosità istintiva dell’anatomia del giocattolo”.
“Se vedessi che sguardi lanciavano alle bambole a cui debbono rinunziare, sguardi d’amore, sospiri, addii, col capo rivolto all’indietro...Bisogna vedere le mosse, lo slancio con cui alcune se ne impossessano e se le serrano al petto: tigrette affamate che abbracciano la preda”
“E la sala delle operazioni è la pressa, tutta ingombra di ferri, di pinze, di fili...vi si vedono sui tavoli, sulle seggiole, sul davanzale delle finestre, buttate in tutti gli atteggiamenti, grandi bambole nude, con le capigliature tragicamente arrovesciate, con “gli occhi mobili”, stralunati, con le “bocche parlanti”, spalancate, le une cieche, le altre zoppe, le altre mutilate, teste separate dal busto, tronchi con le braccia tese, braccia e gambe disperse; uno spettacolo orrendo, che mi ricordò un cert’antro fantastico di Jack lo squartatore”.
“Il Bonini mi mostrò le bambole più belle, chiomate e vestite...tutte con quel visetto fatto a pesca, con quella bocca a botton di rosa, con quegli occhi grandi e freddi di donnine senza cuore e cocottes senza pensieri”.
“E quante carezze amorose, quante parole gentili, quanti teneri baci avranno quei corpicini insensibili...su quante innocenti e soavi nudità premeranno queste fantocce i loro labbruzzi freddi di porcellana, strette tra due braccini candidi e scaldate da un alito odoroso, dentro un lettuccio visitato da sogni azzurri”.
Fin qui la bambola sembra rimandare unicamente al corpo femminile come oggetto erotico, che muove desideri e voglie aggressive. Ma c’è un passaggio imprevisto che fa comparire altri aspetti: nel momento in cui la bambola si anima, si fa “attiva”, avviene una specie di trasmutazione e, dietro la “donnina senza cuore”, compaiono le figure della madre e del figlio.
“Stavo ancora amoreggiando con la bella varallese, quando mi vedo buttare su banco una grossa bambola che agita le braccia e le gambe, gnaulando come un bimbo in culla, ed ecco un’altra bambola enorme, che alterna dei passi sul pavimento, tenuta per le mani da un commesso, tale e quale come un bimbo che impara a camminare. Un’altra bambola tanto fatta nello stesso tempo mi viene incontro sul banco a passi risoluti, dritta, gettando delle strida di folletto...non so dire lo strano senso di stupore e quasi di inquietudine che provai in mezzo a quella insospettata eruzione di vita artificiale...mi parve ad un tempo di trovarmi al teatro regio, a una scena del ballo Puppenfee e in una sala della Maternità in un momento di scompiglio.”
La sessualità e la maternità, il rituale erotico e l’accudimento, il piacere e la fame, ipocriticamente separati nelle immagini dei media, della moda, della pubblicità, ricompaiono come una specie di Giano bifronte nel simbolo più universale del destino femminile, la bambola, e aiutano a capirne il successo duraturo, oggi incredibilmente esteso.
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Liberazione del 4 giugno 2006,
Inserto QUEER, n. V "I nostri burqa";
www.universitadelledonne.it/pensiamoci.
* LEA MELANDRI (Annamaria Tagliavini - Enciclopedia delle donne).
Per scrivere bisogna andare «fuori tema»
di Maria Nadotti (Doppiozero, 04.12.2017)
Alfabeto d’origine. È il titolo che la teorica femminista Lea Melandri ha voluto per un piccolo e prezioso libro (Neri Pozza, 2017) in cui ha raccolto le sue riflessioni sul tema della «scrittura d’esperienza», uno dei punti nodali di una ricerca condotta con tenacia su testi propri e altrui. E uno dei vertici del pensiero politico che ha costruito nel tempo, agendo insieme ad altre donne, leggendo, insegnando (dai corsi delle 150 ore negli anni settanta e ottanta, alla scuola di Affori, alla Libera Università delle Donne di Milano), creando riviste (A Zig Zag, Lapis) e luoghi d’incontro dove scambiare pensieri, esperienze, ricordi, desideri e ripensare collettivamente le idee ricevute che bloccano il pensiero e dunque ogni ipotesi di espressione autentica.
Coesa come una monografia e tuttavia variegatissima, l’antologia di Melandri copre un arco temporale che va dal 1983 al 2017 e si articola in una serie diversificata di interventi liberi o d’occasione. I primi svariano da alcuni appunti estrapolati da un diario poetico tenuto con la fedeltà ossessiva di un cercatore d’oro a esegesi testuali che somigliano a dei veri corpo a corpo con gli scrittori e le scrittrici che Melandri sente più affini. «I fanciulli, poeti, sognatori» che, come lei, non hanno saputo, potuto, voluto scostarsi dalla materia d’origine sublimandola in ragionamento astratto o semplicemente negandola.
A partire, tra gli altri, dagli scritti di Sibilla Aleramo, Franco Matacotta, Franco Rella, Alberto Asor Rosa, ma anche dalle pagine di autrici ‘non professioniste’ che affidano alla pagina scritta il grumo della loro esperienza di vita (si pensi a Smarrirsi in pensieri lunari della fisica Agnese Seranis o a Pensieri vagabondi di Amelia Molinelli, un diario brut dall’impianto e dallo stile originalissimi), Melandri mette a fuoco una strategia critica e espressiva che si fonda sul rimosso o, se preferite, sull’abietto, su ciò che nella ‘cultura alta’ non ha cittadinanza e dunque è condannato a rimanere in ombra, anzi in una sorta di «sostrato fangoso».
Le pagine di diario, collocate non per caso a chiusura del volume, come ad esemplificare concretamente la forma assunta nel lessico dell’autrice dalla scrittura d’esperienza, sono una selezione distillatissima di pensieri-verso limpidi e penetranti, privati e al contempo universali. Vivere, ammalarsi, sentirsi soli, innamorarsi, sconfinare nell’altro, imparare a rimanere in sé riconoscendo all’altro il suo destino inevitabilmente individuale, godere del cielo, del mare, del dono provvisorio del proprio tempo di vita. Sono i temi che affiorano in queste pagine che invitano a praticare quella «mineralogia del pensiero» messa a tema da Asor Rosa, a ripercorrere non solo la propria storia sociale e di genere, ma la preistoria che la precede, quella penombra che tutte e tutti abbiamo attraversato e che spesso non lascia in noi che mute, indecifrabili e tuttavia indelebili tracce.
In una delle pagine introduttive del volume, ancorando la propria autorialità a una duplice, scomoda, identità di genere e classe - donna e figlia di contadini -, Lea Melandri ragiona sul «margine che trattiene le donne alla frontiera della ragione sociale..., sulla fantasia che ha costruito le differenze di genere..., sulla segreta volontà delle donne, reazionarie e ribelli, disobbedienti come Antigone, di appartenere a una preistoria mai raccontata».
E, più avanti, interrogandosi sulle «radici della scrittura» all’interno di un ordine ‘scolastico’ che non prevede il corpo e le sue vicissitudini e tantomeno il colore e la temperatura reali delle emozioni e dei sentimenti, postula con disadorna schiettezza un teorema inconfutabile: per scrivere bisogna «uscire da sé o uscire dal mondo».
La sola alternativa a questa scelta dolorosa, contrabbandata da secoli come la sola possibile, è saper costruire il «ponte di una trama immaginaria», «restituire alle pagine scritte l’odore di terra e di erba tagliata dopo un temporale», dire di sé per dire del mondo.
Quel «si può» liberatorio, che permette di «dare corso a pensieri più aderenti al pensiero di ognuno», si esprime in una scrittura che si inventa senza tuttavia partire da zero, che nasce da uno spostamento del baricentro, da un atto di consapevole posizionamento all’interno delle dualità conosciute, perché «è da lì che bisogna districarla per renderla a noi più propria, vicina, somigliante».
«Quando tento di descrivere il farsi della mia scrittura», afferma Melandri, «penso a una traiettoria che partecipa della chiarezza logica, di un lungo lavoro di concettualizzazione, ma che nel momento di divenire scrittura si lascia distrarre, affondare, intrigare da un altrove» (il corsivo è mio). Poiché quell’altrove sepolto in ognuna/o di noi rischia, se tacitato, di rendere esangue o totalmente asservito il pensiero e dunque la lingua, perché non dedurne che è proprio l’atto di distrazione o di affondamento a generare la parola che vale la pena di dire?
Concludo con uno dei punti più folgoranti dell’intero libro. In una lezione tenuta all’Università di Bologna il 27 settembre 2014 e qui raccolta sotto il titolo “Per un’educazione portata alle radici dell’umano”, l’autrice, consapevole della ‘femminilizzazione’ e della conseguente ‘devalorizzazione’ del sistema scolastico italiano, rivolge alle donne che insegnano una domanda cruciale: «come vivono questo ruolo di madri-maestre, di donne chiamate a trasmettere una cultura che le ha cancellate, di corpi in scena che devono disciplinare altri corpi, renderli invisibili»?
Al di là della querelle ideologica che da noi insiste a inchiodare gli individui a una presunta normalità di genere fondata su binarismi friabili quanto indimostrabili, bisognerebbe infatti chiedersi quanto pesi per «un bambino, un adolescente, maschio e femmina, avere sempre di fronte, negli anni più importanti per la sua formazione, una figura femminile ambigua, perché potente e svilita al medesimo tempo».
LA TERZA EDIZIONE DI WALL OF DOLLS
L’appello dal «Muro delle bambole»
«Più educazione in scuole e famiglie»
Il video della vice presidente del senato Valeria Fedeli: «Un impegno preciso per la prevenzione alla violenza di genere»
di Redazione Milano online *
«La violenza sulle donne è considerata ancora troppo spesso come una questione privata, invece è questione che ci riguarda tutti e di cui la politica, le istituzioni e il sociale devono farsi carico»: così la vice presidente del Senato, Valeria Fedeli, è intervenuta sabato con un video all’inaugurazione della terza edizione di Wall of Dolls. «Il muro di Via De Amicis, su cui ci sono le bambole e le foto delle donne morte per femminicidio, è un’iniziativa che va sostenuta e condivisa, è la scelta di far vivere nell’agorà pubblico, dove le persone passano, guardano ed hanno modo di chiedere e riflettere e riporta ciascuno di noi verso l’impegno che dobbiamo saper esercitare, quotidianamente, contro i femminicidi, la violenza e qualsiasi forma di discriminazione delle donne».
Nato come installazione artistica, il Muro delle bambole ideato da Jo Squillo e realizzato a Milano da artisti, stilisti e designer è diventato il simbolo del contrasto alla violenza sulle donne. «Quest’anno - ha aggiunto Fedeli - il tema centrale di questa manifestazione di contrasto e prevenzione della violenza degli uomini sulle donne è l’impegno ad avere una scelta che parta dall’istruzione e dall’educazione nelle scuole e nelle famiglie, fattori che da sempre ritengo fondamentali per costruire una reale prevenzione. Un pezzo determinante di questo aspetto ha riguardato direttamente il mondo della scuola quando siamo riusciti ad ottenere, con la riforma, il recepimento del principio dell’educazione al rispetto come forma di “prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”. Per questo è importante l’appello che Jo Squillo rivolge alla ministra Giannini, con cui auspica che le linee guida che stiamo aspettando si realizzino al più presto per rendere operativi questi principi di civiltà».
* Corriere della Sera, 18.06.2016 (ripresa parziale).
Lea Melandri esplora in un saggio le nuove forme di dominio annidate nelle relazioni più intime
La guerra trai sessi sembra stemperata dall’attuale spazio pubblico «femminizzato». Invece...
Inferni di famiglia: ecco dove nasce la nuova violenza
Amore e odio. Si compenetrano da sempre, a partire dalla nascita
Lea Melandri è una delle figure più note del femminismo italiano.
Anticipiamo la sua prefazione al nuovo saggio edito da Bollati Boringhieri: «Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà».
di Lea Melandri (l’Unità, 03.03.2011)
Il sussulto di dignità e l’invito che oggi, da schieramenti diversi, viene rivolto alle donne, affinché si ribellino all’immagine degradante con cui sono rappresentate dalla pubblicità e dalla televisione, non deve trarre in inganno. Il corpo femminile occupa la scena mediatica da molti anni, l’immaginario pornografico ha contaminato ormai ogni ordine di discorso e di linguaggio, l’esibizione e il voyeurismo, sapientemente amalgamati dai reality show, sono subentrati, se mai è esistita, alla fruizione passiva dello spettatore.
Il risveglio improvviso di coscienze morali offese, di intelligenze femminili «umiliate» dalla mercificazione che si fa del loro sesso, è venuto al seguito di vicende che non potevano lasciare indifferenti, perché avevano come protagonista una delle maggiori cariche dello Stato, il presidente del Consiglio, e come materia scottante le prestazioni sessuali scambiate indifferentemente con denaro, carriere politiche o televisive. Di donne-oggetto, donne-immagine, donne-ornamento, chiunque abbia dato un’occhiata alla televisione, ne ha viste transitare sui teleschermi a flusso continuo, in fasce di orario protette e non protette, trasmissioni colte o di intrattenimento, filogovernative o di opposizione.
L’uso del corpo femminile come abbellimento estetico o solleticazione erotica, da affiancare a una parola che resta pur sempre quella dell’uomo, si riconosce, al di là delle appartenenze politiche, per quel marchio d’origine che lo colloca, inequivocabilmente, dalla parte del sesso vincente.
Eppure, è come se l’evidenza che passa sotto gli occhi di tutti, quando per strada o alle fermate della metro alziamo gli occhi su un muro, quando accendiamo la televisione o sfogliamo un giornale, avesse avuto bisogno, per rendersi visibile, di una scossa dall’esterno, dal mondo stesso che la produce. Tale è stata la vicenda che ha visto implicati Silvio Berlusconi, veline ed escort.
Per chi ha alle spalle un percorso ininterrotto di cultura e pratica femminista, è irritante sentir parlare di «silenzio delle donne», ma bisogna anche avere il coraggio di porsi interrogativi scomodi e imbarazzanti su quella che oggi appare vistosamente come una contraddizione: un movimento che ha dato alle donne una circolazione e una cittadinanza nel mondo finora sconosciute, ma che le ritrova inspiegabilmente «adattabili», poco inclini ad aprire conflitti, acrobate protese a sorreggere l’impossibile conciliazione tra due realtà fatte per restare separate, la casa e la polis, il corpo e il pensiero, la femminilità e la durezza virile, gli affetti e la complessità della vita sociale.
Lo spazio pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al medesimo tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri marcatamente maschili - l’economia, la politica, la scienza ecc. - faceva pensare che sarebbe riemersa con forza. Permangono pressoché inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali, dove una predominante presenza femminile è garantita dalla continuità con quella «naturale» o «divina missione», che vuole la donna «madre per sempre, anche quando è vergine» (Paolo Mantegazza), oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalle mura domestiche.
Ma la femminilizzazione è andata oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale, esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da un sistema economico, politico, culturale che risente del declino di antichi steccati tra sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura, sessualità e politica: quelle linee di demarcazione che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini di pensarsi depositaria di un marchio di umanità superiore.
Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il Sole 24 Ore, non c’è giorno che non si elogi il valore D, il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale. Nelle professioni, e in generale nei rapporti di lavoro, si celebrano esempi eroici di «supermamme», capaci di eccellere allo stesso modo nella cura di un figlio e nella carriera.
Ma dove il «femminile» è esploso, cogliendo di sorpresa chi aveva previsto un lento e faticoso approssimarsi delle donne all’autonomia da modelli imposti, è stato nei mezzi di comunicazione, in particolare nella televisione, nell’industria dello spettacolo e nel mercato pubblicitario.
Il dibattito che si è acceso sulle veline e sulla folta schiera di avvenenti intrattenitrici che si muovono intorno a uomini di potere, flessibili al punto da passare con noncuranza da concorsi di bellezza alla Camera dei deputati, ha fatto gridare alla barbarie, temere la fine o il fallimento di un secolo di emancipazione.
Anche in questo caso si tratta di giudizi approssimativi, lontani dalle analisi che il pensiero delle donne è venuto facendo su ciò che permane degli stereotipi di genere, al di là di cambiamenti evidenti del contesto sociale. Libertà, diritti acquisiti, non sembrano aver scalfito alla radice l’aspetto più accattivante dei ruoli sessuali, la complementarità, «quel profondo, benché irrazionale istinto» - come ha scritto Virginia Woolf - a favore della teoria che solo l’unione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, «provoca la massima soddisfazione», rende la mente «fertile e creativa». Di questo ideale ricongiungimento di nature diverse si alimenta l’amore di coppia e il suo antecedente originario, la relazione madre-figlio. Poco o per nulla indagate, queste zone più intime del rapporto tra i sessi ricompaiono oggi deformate sotto la maschera di una emancipazione che stentiamo a riconoscere come tale.
Al posto della rincorsa omologante a essere come l’uomo, sono gli attributi tradizionali del femminile - le «potenti attrattive» della donna, di cui parlava Rousseau, e cioè la maternità e la seduzione - a essere impugnati come rivalsa, appropriazione di potere, scalata sociale. Se l’emancipazione del passato poteva essere vista come fuga da un femminile screditato, oggi è il femminile - il corpo, la sessualità, l’attitudine materna - a emanciparsi come tale e a prendere nello spazio pubblico il posto che compete a un complemento indispensabile della cultura maschile.
Il patriarcato sta divorando se stesso, scricchiolano le impalcature su cui si è costruita la polis, alle donne, le escluse-incluse di sempre, si offre l’occasione per portare allo scoperto quel potere di indispensabilità all’altro di cui si sono fatte forti finora solo nel privato.
La femminilizzazione della sfera pubblica ammorbidisce il conflitto tra i sessi e come nell’illusione amorosa fa balenare la possibilità di una «tregua». Ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che sia invece, come ha scritto Pierre Bourdieu, «la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile» del potere dell’uomo sulla donna. È necessario perciò tornare a scavare là dove si arresta il viaggio di Freud, l’«avventuriero dell’anima», il grande indagatore della felicità: in quella «roccia basilare» che è il «rifiuto della femminilità», l’inspiegabile intreccio di Eros e Thanatos, l’odio che nasce ogni volta dall’amore, nella vita personale come nella sfera pubblica.
Uomo/donna
Tra psicoanalisi e femminismo Lea Melandri affronta il nesso amore/potere
Lea Melandri. Quanti disastri fanno le madri
“La figura parentale alle origini del «fattore molesto», del conflitto maschile/femminile, tra privato e pubblico
Si impone una perversa forma di emancipazione, estremizzando il ruolo di sessualità di servizio, ornamento, passatempo”
di Anna Bravo (La Stampa/ Tuttolibri, 05.03.2011)
Chi non conosce il lavoro di Lea Melandri troverà nel suo nuovo libro Amore e violenza una buona occasione per fare amicizia. O magari inimicizia. Perché l’autrice ha idee forti, e applicandole al «fattore molesto» della storia umana (il nesso amore/potere/violenza nel rapporto uomo/donna) accetta il rischio di apparire a sua volta «molesta» per lesa superficialità. Lo scempio del corpo femminile è ormai ospite fisso nella cronaca, e una schiera di esperti ci invita a vederlo come un raptus , quasi che l’uomo fosse stato «rapito» da un estemporaneo Mister Hyde. Melandri risale invece alla «preistoria» di quella distruttività, l’antica e conflittuale dipendenza dalla madre, che nell’uomo si perpetua a dispetto delle negazioni, degli ausili psicologici e dei motti di spirito sulle mamme nazionali, italiana, ebrea, black e così via.
Composto di ampi saggi dai titoli un po’ rituali, ricco del pensiero psicanalitico e del patrimonio femminista, Amore e violenza affronta il suo tema muovendosi fra il vicino e il lontanissimo, fra la contemporaneità e lo spazio/tempo delle origini, per mettere a fuoco le teorie e le pulsioni sottese al binomio questione maschile/questione femminile. Può così rivitalizzare le domande classiche sul rapporto fra i sessi, compresa la più classica, spostata all’oggi: cosa chiede a una donna il civilizzato uomo moderno o postmoderno (parlo di un modello, non di individui). O anche: di quante donne ha bisogno il clan degli uomini per la propria manutenzione? Per esempio, sentiamo continuamente esaltare le doti femminili dell’empatia, della duttilità, del pragmatismo, come strada maestra verso un lavoro umanizzato: è la donna creativa. Se non che, quando qualcuna prova a applicare quei talenti, spesso incontra ostacoli tali da farle ridimensionare le aspettative: è la donna «normalizzata». Poi ci sono l’ancella, la manager-immagine e la manager addetta o costretta allo sfoltimento del personale; e altre ancora. Ne parla Luisa Pogliana in Donne senza guscio (Guerini, 2009).
Ma il punto è, spiega Melandri, che non basta aprire un ambito alle donne per femminilizzarlo, così come nel ’68 non è bastato dare valore al personale per femminilizzare la politica. Sarà difficile cambiare finché si permette agli uomini di pensarsi, sotterraneamente, come gli eredi universali della razionalità. Visione pessimista? Per verificarla è sufficiente scorrere gli organigrammi aziendali, politici, accademici. Sarà difficile cambiare finché la conflittualità femminile resta debole.
E qui scatta il nesso con la preistoria: titolare originaria dell’umanizzazione è la figura materna, accogliente, paga del suo ruolo. La madre mette ordine nei cassetti del marito/figlio, non decide l’ordine delle sue giornate; e non per questo apre un contenzioso con lui. Antico modello duro a morire, in particolare in Italia, dove l’espressione Madre Coraggio non evoca l’arcitruffatrice di Grimmelschausen e Brecht, ma un prototipo di madre eroico/oblativa.
Grazie al suo sguardo lungo, Melandri può dipanare l’intreccio fra nuovo, falsonuovo, vecchio, similvecchio, che segna tutte le trasformazioni, ma in questo caso è complicato dal fatto che il rapporto uomo/donna sta nel tempo lineare della storia e contemporaneamente nel tempo ciclico della ripetizione. Con effetti a volte sconcertanti.
Oggi da un lato si ripropone l’esempio dell’emancipata anni cinquanta, portatrice di una femminilità rispettabile, contenuta, dotata di un cuore non troppo piccolo ma neppure tanto grande, scrive Carolyn Heilbrun, da sconfinare oltre il recinto familiare. È la donna affidabile, che presiede alla versione moderna del focolare e in più porta a casa lo stipendio.
Al polo opposto, avanzano figure che investono sulla bellezza e l’età giovane, offrono sesso in cambio di benefici privati (e pubblici), e dicono di aver fatto una scelta libera. Melandri le prende sul serio, si chiede cosa significhi l’adesione programmata al modello «riposo del guerriero». E la vede come un tentativo di volgere a proprio vantaggio, oltre che la legge dello spettacolo, la dilagante bramosia di giovinezza; come «una forma di emancipazione», sia pure perversa e discutibile. È il «femminile» che si emancipa «estremizzando il ruolo che si è visto assegnare: sessualità di servizio, ornamento, passatempo, attestato di potenza; il femminile» che si prende la sua rivalsa entrando nella sfera pubblica con una immagine vistosamente sessuata, eccessiva, impresentabile.
Fra i due poli ci sono molti altri modi di essere donna, e questa analisi della femminilità «a disposizione» non è il clou del libro. Ma va meditata, perché non è da tutti riconoscere il nuovo quando è sgradito, dozzinale e per di più alquanto triste. Che un vecchio carico di denaro e potere compri uno stock di 100 collane identiche per le sue ragazze non è solo questione di cattivo gusto; è la conferma della loro interscambiabilità.
TRIANGOLI
di Eleonora Cirant
C’era una volta un triangolo a punta in giù. Come segno scolpito nella pietra, la forma ha attraversato i millenni che ci separano dalle nostre origini. Come immagine, risale dalle profondità della psiche con la forza degli archetipi. Simbolo della madre terra nelle civiltà matrifocali del paleolitico e poi lungo la trama del tempo fino ad oggi, il triangolo a punta in giù è una rappresentazione sintetica del pube femminile e insieme della forza generatrice del femminile: un simbolo.
Negli anni Settanta le femministe lo facevano con le mani, mettendo la punta all’insù. Durante le manifestazioni lo tenevano ben in alto per farlo vedere, a sottolineare con un gesto parole rivoluzionarie. E che impressione vederlo ripetuto e scandito da quelle migliaia di mani alzate, anche se si tratta solo di vecchie foto in bianco e nero.
Nel 2011 si discute dei triangoli pubici fotografati per il calendario promozionale del Consorzio vera pelle conciata a mano da Oliviero Toscani, uno che gioca a fare le iperboli con le immagini. Sull’altare del consumo la vacca sacrificale è sempre la solita. E’ questo che volevi dirci, Oliviero, abbinando il pube femminile nudo alla "Vera Pelle Conciata A Mano Al Naturale"? Perché il significato è dato dal contesto, e tu lo sai. Vacca sì, ma "nature". Quei dodici triangoli pubici esibiscono infatti un pelo folto, scapigliato, al naturale. Come mamma li ha fatti, senza intervento di rasoi, cerette, estirpatori elettrici, tinture e altre diavolerie.
Si perché di fronte al pube "bio", più di un maschietto storce il naso esclamando: "che schifo, tutti quei peli?!". Sono in tanti gli uomini che, protetti dall’anonimato della rete, dichiarano nei forum di preferirlo depilato, il pube femminile. E sono in tante anche le donne. Come non pensare a Barbie? In commercio dal 1959, è una delle bambole più vendute al mondo, secondo wikipedia. Per giocare a fare la mamma le bambine hanno (avevamo) il cicciobello, ma per giocare a fare la donna hanno (avevamo) lei. La Barbie. Interprete di decine di ruoli: c’è la Barbie-mamma, accanto alla Barbie-presidente-degli-stati-uniti. La Barbie-poliziotta, accanto alla Barbie-ballerina. Affusolata, piatta sul sedere ma con i seni a punta di un big robot d’acciaio femmina. Gli occhioni splendenti, la capigliatura folta, e il pube liscio e levigato. Il corpo della Barbie è quello di una creatura ibrida, metà donna e metà bambina. Pare si sia ritagliata uno spazio di tutto rispetto nell’immaginario collettivo di maschi e femmine.
E così ci viene il sospetto che quel furbacchione di Toscani e il suo entourage ci abbiano azzeccato. La paccottiglia che ci hanno propinato è la solita di cui ci ingozzano ogni ogni giorno i pubblicitari maschi e femmine del Bel Paese. La carne al macello è sempre quella. Ma il gioco iperbolico innesca più di un corto-circuito mentale, anche se ha fatto bene l’Istituto per l’autodisciplina della pubblicità ad imporre il ritiro della campagna a pochi giorni dal suo esordio perché, scrive, "il corpo femminile viene equiparato alla “pelle conciata”, ovvero sia ad un prodotto che ad un animale, ovvero un animale ucciso, sezionato e trasformato in prodotto di lavorazione, rilevando pertanto il contrasto con l’art. 10 del Codice, secondo cui “la comunicazione commerciale deve rispettare la dignità della persona umana in tutte le sue forme ed espressioni”.
La campagna ha comunque fatto il botto, ottenendo il risultato cercato: far parlare di sé. Sinceramente: chi di voi prima sapeva dell’esistenza di un tal Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale?
E’ solo un piccolo botto, nel fragore della battaglia che si gioca tutt’intorno, mentre vanno in scena da un lato lo stupro della classe lavoratrice ("consenziente o meno, dimmi di si", dice il padrone Marchionne mentre punta il coltello alla gola di chi lavora nella sua azienda) e dall’altro il bunga bunga.
A noi rimane una nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai potuto conoscere: un semplice triangolo a punta in giù. Ma anche la spinta a riappropriarcene, perché un simbolo non è che ciò di cui lo si significa.
Donne
Quale Barbie meriti?
di Joumana Haddad* (Terra, 29.11.2009)
Una Barbie col burka?! E viene dall’Italia, quest’invenzione prodigiosa? E perché non creano, già che ci sono, la Barbie oppressa dal padre, umiliata dal fratello e picchiata dal marito? Perché non creano, alla Mattel che si batte oggi con Sotheby’s per Save the children, la Barbie sposata, suo malgrado, a 13 anni a Gaza; o quella che non ha il diritto di guidare una macchina a Riyad; o quella che non ha il permesso di andare a scuola a Kabul, perché le donne “non hanno bisogno di leggere e scrivere”? (ci sono 76 milioni di donne analfabete nel mondo arabo-musulmano). Perché non creano quella che è concepita e tollerata solo per diventare un accessorio: cucinare, obbedire, tacere e concepire, quando è il suo turno, figli preferibilmente maschi? Perché non creano quella lapidata per adulterio (dal marito sposato con altre 3 donne), e quella imprigionata perché ha osato indossare un jean? Sono sicura che queste ultime avrebbero un grandissimo successo.
Ci dicono, per rassicurarci, che lo scopo era di rappresentare “le diverse tipologie e culture femminili”. Così hanno messo la nuova Barbie col burka accanto a quella col kimono, quella col tailleur e quella col Sari indiano: le sue “sorelle”. Così facendo hanno banalizzato la carica umiliante del burka e l’hanno trasformato in una scelta di abbigliamento “etnico”, invece della rappresentazione concreta del concetto di donna-oggetto, priva di libertà, di dignità e di diritti umani minimi. Nella mia modesta conoscenza, la donna giapponese e la donna indiana non stanno vivendo le atrocità che vive la donna col burka. Né le accetterebbero, forse. La Barbie ha già fatto tanti danni, promuovendo l’immagine della donna bambola formosa, che passa il suo tempo a preoccuparsi dell’abbigliamento e degli orecchini da abbinarci; e a sognare il muscoloso Ken.
Quella Barbie ha senz’altro qualcosa a che vedere con le caricature di donna che vediamo oggi sulla televisione italiana. E altrove.
Sarà una provocazione ma mi sembra uno dei simboli di questa cultura femminile perdente, basata sull’autodisprezzo, l’auto-indulgenza e la mancanza di ambizione. Con la burka-Barbie la distruzione dell’immagine femminile è completa: dalla donna oggetto da vetrina, alla donna oggetto di sottomissione, il passo è compiuto. Grazie Mattel. Sono sicura che i guadagni commerciali ne valevano la pena. Le ragazze dei paesi del Golfo non aspettavano altro. Anzi no: i loro padri non aspettavano altro.
Questa bambola è un attacco scandaloso e nauseabondo contro la donna. Non ci sono altre parole per descriverlo. E lo sta dicendo una donna araba non femminista. Brava la designer Eliana Lorena: ora l’immagine della donna araba in Italia, e in Occidente, è completamente rovinata.
In quanto a noi, donne arabe che lottiamo per cambiare questi cliché, andremo... a giocare con la Barbie velata che ci meritiamo. Spero solo che nella confezione della Barbie col burka sia compreso un bavaglio. Perché quella donna non tarderà a gridare. E quello che dirà, a molti, non piacerà.
*scrittrice, giornalista e poetessa
LIBRI
Carina, educata e modesta ecco l’inferno della "brava ragazza"
Una studiosa americana dedica un libro alla "maledizione" che porta molte adolescenti a rinunciare alla propria personalità in cambio dell’approvazione generale. "Un meccanismo che crea danni psicologici e allontana dalla realtà"
di SARA FICOCELLI *
SGUARDO basso, sorriso timido, occhi senza trucco incorniciati da capelli castani e maglioncino rosa: l’adolescente scelta per la copertina del libro La maledizione della brava ragazza, scritto dall’educatrice Rachel Simmons (Nutrimenti, 2010, p. 280) sembra un angelo di plastica. La scelta non è casuale. Si tratta di una brava ragazza come tante, educata a non rispondere male, a non essere egoista, a non alzare la voce. Persino a non dire ciò che pensa, se questo può dare fastidio a qualcuno.
L’autrice dieci anni fa ha fondato e tuttora dirige, a Berkeley, il Girls Leadership Institute. E sostiene che essere una "brava ragazza" non sempre è una cosa positiva né tanto meno è sinonimo di personalità. Spesso le adolescenti che inseguono la perfezione (a scuola, nello sport, in famiglia, nei rapporti sociali) sono frutto di un sistema educativo poco rispettoso della loro individualità, che da loro pretende il massimo senza offrire alternative. La corsa verso la continua approvazione le rende non solo incapaci di accettare rifiuti e fallimenti ma anche cieche di fronte a ciò che realmente sono o vorrebbero diventare. E mentre tutte le energie mentali e fisiche vengono investite per diventare sempre più "brave", le capacità di autoanalisi e autoaffermazione si atrofizzano, portando il cervello a identificare i modelli suggeriti dagli adulti come gli unici da preferire.
Responsabili di questo danno psicologico, secondo la Simmons, sono i genitori, gli insegnanti, ma anche gli amici e i media, che da anni propongono modelli femminili stereotipati, creati per piacere a tutti e a tutti i costi. L’istituto fondato dall’autrice è nato per aiutare le adolescenti a confrontarsi con se stesse e il libro è il frutto di anni di studio con ragazze dagli 8 ai 18 anni. La Simmons ha raccolto dati e condotto test psicologici, ma soprattutto ha parlato con loro cercando di capire le ragioni profonde di fenomeni spesso frettolosamente etichettati come "sbalzi ormonali", dal pianto facile all’attacco isterico per il litigio con un’amica. Il libro mette insieme i risultati di tanti studi scientifici ma la parte più interessante sono le interviste alle adolescenti. Che permettono di guardare con occhi diversi a quel mondo di fanatismi, amicizie morbose, omologazione, rabbia. E si scopre che, per quanto la letteratura scientifica abbia versato fiumi di inchiostro studiando i teenager, delle "brave ragazze" si è scritto poco, dando per scontato che i problemi fossero rappresentati da quelle "cattive".
"Spesso si costringono le giovani donne a comportarsi come adulte - spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano - impedendo loro di capire cosa vogliono dalla vita e da se stesse. L’unico scopo diventa quello di somigliare il più possibile a ciò che viene chiesto loro di essere". Secondo Mencacci, imporre dei modelli da seguire a priori è pericoloso. "Le adolescenti solo "buone" o solo "cattive" - spiega - non sono in grado di affrontare la vita. Per farlo è necessaria la completezza, l’equilibrio di più fattori, difetti ed errori compresi".
Tuttavia di recente, sottolinea l’esperto, si sta assistendo a un’inversione di tendenza, per lo meno in Italia. "Fino a due anni fa il trend più in voga era quello delle "brave ragazze", oggi stiamo tornando alle "cattive". I dati rilevati dagli istituti ospedalieri nazionali denunciano un nuovo segmento di giovani donne (11-18 anni) con problemi di alcol. I modelli imposti e non fatti propri generano, nel lungo periodo, reazioni eccessive nel verso opposto". Secondo il professore grandi responsabilità, in questo senso, le ha proprio la psicologia, che ha sempre schematizzato i problemi delle ragazze riconducendo tutto alle colpe dei genitori, senza offrire vie d’uscita o soluzioni propositive, anzi enfatizzando lo scontro con madre e padre.
Questi ultimi, da parte loro, spesso sbagliano trattando le figlie non come esseri umani ma come gioielli di proprietà, da plasmare in base alle proprie aspettative o ai sogni di gioventù irrealizzati. "E’ un meccanismo frequente - spiega Luisa Ribolzi, docente di Sociologia dell’educazione all’università di Genova - l’atteggiamento di possesso crea dinamiche poco sane e carica i ragazzi di responsabilità difficili da gestire. Basti pensare a quelli che si suicidano o che uccidono i genitori perché non hanno il coraggio di confessare di non aver terminato gli studi. Per le ragazze il fenomeno è ancora più evidente perché, storicamente, dalle donne si è sempre preteso un comportamento più remissivo e responsabile".
Il paradosso finale è che spesso i modelli riconosciuti come "giusti" e desiderabili sono quelli più in contrasto con le evoluzioni della società. Come spiega la Simmons, l’atteggiamento pacato e timido di molte adolescenti, che spesso le porta a non farsi avanti per paura di sbagliare, è in contrasto con una società che privilegia chi si espone e dice la sua. "In alcuni Paesi asiatici - conclude - si riscontra un elevato numero di giovani donne affette da tumori alla pelle, perché cercano di schiarirla per somigliare alle coetanee occidentali. Eppure la percentuale di donne dalla carnagione chiara, in quei Paesi, è minoritaria. La maggior parte degli stereotipi presi come modello di perfezione non ha alcun riscontro con la realtà, anzi allontana da essa".
La sociologa conclude spiegando che i genitori potrebbero aiutare le loro figlie a formare la propria personalità facendo come i gatti quando svezzano i cuccioli: spingendole cioè a confrontarsi con la vita da sole, anche a costo di farsi male. O di non diventare, necessariamente, una "brava ragazza".
* la Repubblica, 06 ottobre 2010