Il silenzio del femminismo o sul femminismo?
di Lea Melandri *
Ho alle spalle una storia del movimento delle donne abbastanza lunga per ricordare le alterne vicende che ha avuto nel tempo, non dico la cultura che ha prodotto, ma la parola stessa ‘femminismo’. Passato il decennio degli anni ’70, in cui aveva goduto o patito, a seconda dei punti di vista, di una straordinaria attenzione da parte dei media, e proprio nella fase in cui il ‘movimento femminista’ si andava trasformando in ‘femminismo diffuso’ - nelle università, nei tribunali, nelle professioni, nei partiti, nei sindacati, nell’editoria, ecc. -, una esperienza collettiva di innegabile portata rivoluzionaria, tutt’altro che esaurita, si è trovata a fare i conti con le paure, i risentimenti, le ostilità trattenute, le solidarietà forzate che si era prevedibilmente lasciata dietro. Mi è capitato spesso, in occasioni pubbliche, di constatare che ‘femminista’ era diventata una connotazione negativa, scomoda, che era meglio tenere celata se si voleva trovare lavoro o ascolto.
E’ così che, per effetto di un capovolgimento noto - lo stesso per cui si creano i disadattati per incolparli del disadattamento -, la ‘messa sotto silenzio’ è diventata ‘il silenzio delle donne’, interrotto solo da sporadiche manifestazioni di piazza, destinate a scomparire con la stessa rapidità dei fantasmi che sembravano evocare. Non sono bastati neppure i cortei affollatissimi di Milano, nel gennaio 2006, e di Roma, nel novembre 2007, sulle questioni dell’aborto e della violenza maschile contro le donne, a destare un interesse duraturo per la cultura che più in profondità ha intuito e analizzato la crisi a cui stava andando incontro la politica, scossa nelle sue fondamenta da tutti gli aspetti dell’umano considerati tradizionalmente ‘non politici’, confinati nella sfera del privato o in una natura astorica.
Poi, improvvisamente, quello in cui non sono riusciti quarant’anni di produzione ininterrotta di libri, riviste, associazioni, centri di studio, archivi, centri antiviolenza, mobilitazioni di piazza, documenti collettivi - e cioè vincere l’ottusa, arrogante o interessata indifferenza di tutta la nostra cultura, alta e bassa, accademica e mediatica -, è accaduto in modo imprevedibile e inaspettato, come effetto collaterale dell’onnipotente personalizzazione della politica del nostro Presidente del Consiglio.
Che a ‘mettere a nudo il re’ siano state le stesse figure femminili che credeva di aver asservito - mogli e cortigiane - può essere letta come una di quelle ironie o vendette della storia che fanno sperare in una qualche invisibile giustizia, o, più realisticamente, stando a quanto hanno scritto voci rappresentative del femminismo storico, come “la diffusa incapacità maschile, in tante situazioni e rapporti, a cimentarsi con donne non subalterne”, la miseria della mascolinità, il venire allo scoperto del sistema di scambio tra potere, sesso e denaro. (Il Manifesto 23.8.09).
L’ampio, acceso dibattito, che ha fatto seguito alla vicenda ‘personale e politica’ di Silvio Berlusconi, non poteva che far risaltare ancora più vistosamente l’ignoranza, la superficialità e la faciloneria, nel modo con cui da più parti, da destra e da sinistra, da uomini e da donne, colti e incolti, si tornava a parlare di femminismo: slogan mal interpretati, accenni approssimativi, stereotipi, rimproveri o paternalistici consigli per una ripresa di movimento sulla base di questo o quell’interesse particolare. Umberto Veronesi, sul Corriere della sera (21.8.09),ha prospettato addirittura un decalogo delle virtù femminili su cui costruire un ‘nuovo femminismo’.
Nel coro generale dei riesumatori di un movimento dato come defunto o silenzioso, si sono andate a collocare anche donne che, per professione, cultura, impegno politico, si sarebbe immaginato capaci di riportare alla dovuta attenzione dei media il pensiero, le iniziative di singole e gruppi femministi operanti da anni, e particolarmente presenti, nel contesto attuale, con documenti, prese di posizione, articoli e lettere, diffusi soprattutto in reti e siti internet.
Se ha fatto piacere veder ricomparire la parola ‘femminismo’ suquotidiani come Repubblica, Corriere della sera, L’Unità, non poteva non lasciare perplessi, indignati o amareggiati, la chiusura con cui ancora una volta si faceva fronte a un pensiero lungamente elaborato e divenuto di incontestabile attualità, sia pure in modi e per ragioni lontane da quello che è stato l’assunto iniziale del movimento delle donne. A fronte dell’allarme quasi giornaliero delle maggiori testate sul ‘silenzio del femminismo’, si contavano con incredulità le lettere, i documenti collettivi, gli appelli firmati da centinaia di donne che venivano ignorati, non importa molto se non visti o censurati.
Viene allora spontaneo chiedersi a chi si rivolga l’urlo ‘movimentista’ che occupava giorni fa la prima pagina dell’Unità (5.9.09) -“Usciamo dal silenzio”, “Movimento di donne”. Stando all’articolo di Lidia Ravera, sembrava che tra le poche che scrivono sui giornali e la massa delle donne “umiliate” dall’immagine che si sta dando di loro, donne che si vorrebbero veder scendere in piazza, non ci sia nient’altro: non una storia, non la produzione ininterrotta di cultura politica, di iniziative diffuse in ogni città, non istituzioni nate nel corso di decenni per il desiderio di dar seguito e approfondimento ai temi e alle pratiche degli inizi. Perché le femministe, oggi di generazioni e formazioni diverse, ma pur sempre in rapporto tra loro, dovrebbero mobilitarsi in difesa di una informazione che fa finta che non esistano?
La libertà di informazione è un bene universale, la garanzia primaria per un sistema democratico, e questo basta per pensare che va difesa comunque, che contro la denuncia di Berlusconi a Repubblica e L’Unità è importante essere in tante e tanti alla manifestazione del 19 settembre.
Ma per far rinascere un ‘movimento di donne’ ci vogliono, da parte dei media di maggiore diffusione, e soprattutto da parte delle donne che vi hanno accesso, un’attenzione e un impegno diverso, fatto di ascolto, reciprocità, incontri, scambi anche conflittuali di opinioni. Quello che finora, purtroppo, è mancato.
* Libera Università delle donne, 8 - 9 - 09 (sez. "politica", senza le "note").
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
IDENTIFICARSI CON CRISTO PER SUPERARE EDIPO di Sigmund Freud (1931).
Lea Melandri e il femminismo
Dal ’68 a #metoo la rivolta è donna
di Gregorio Botta (la Repubblica, 04.02.2018)
Non è una pentita del ’ 68. E non è neanche una reduce: non ne ha nostalgia perché, dice, «metto ancora in pratica le intuizioni nate in quegli anni straordinari » . Per Lea Melandri il movimento fu una rivelazione e una liberazione. «Ero arrivata a Milano, scappavo dalla provincia di Ravenna, da una famiglia poverissima. Ed ero appena diventata insegnante in una scuola media. Partecipai alle prime assemblee con i miei colleghi, fui colpita dall’idea di abolire voti, bocciature, di una scuola non autoritaria. Non mi parve vero poter abbandonare un ruolo nel momento in cui dovevo assumerlo. Abbandonarlo voleva dire ripensare a tutto il mio percorso scolastico, di figlia di contadini che aveva potuto fare un buon liceo, ma al prezzo di lasciare fuori dalle aule la mia vita reale, le esperienze, le mie condizioni sociali. Ricordo che in un tema di quinta ginnasio descrissi come vivevo. La professoressa disse: è scritto benissimo, ma sei fuori tema. Mi venne un esaurimento... Ecco con il ’ 68 finalmente il “ fuori tema” diventava il tema di cui parlare in classe: l’individuo nella sua interezza, storia, complessità».
Quell’inizio è stato l’imprinting che poi ha segnato la vita e l’impegno di Lea Melandri, il suo lavoro nel movimento, nella scuola, con Elvio Fachinelli intorno alla rivista L’Erba voglio e con il femminismo. Per questo si ribella quando a ogni decennio che finisce con l’ 8 si ripete il rito del ripensamento, delle critiche a una stagione riletta sempre con gli occhi del presente, e quindi con nuove accuse. Se c’è un processo al ’ 68, lei indossa volentieri i panni della difesa.
Partiamo dall’ultima accusa. È molto citata la frase di Mario Tronti secondo cui il ’68 ebbe una forza destituente ma non costituente: la usano per dire che quegli anni hanno incubato, in qualche modo, i germi dell’antipolitica di cui soffriamo oggi.
« A me dispiace che la memoria di quegli anni venga cancellata non solo da chi lo avversava, ma anche dai suoi protagonisti. In quegli anni straordinari nacquero pratiche che rovesciavano i rapporti tra vita e politica. Ma tutto era tranne che antipolitica. I movimenti non autoritari eclissavano il confine tra privato e pubblico. Si scopriva la politicità di tutto ciò che era stato considerato per secoli non politico. Sesso, famiglia, amore, morte, dolore, tutte le esperienze fondamentali dell’individuo erano confinate fuori dalla storia, condannate all’immobilità, a ripetersi sempre uguali. Uscire dal dualismo privato- pubblico, individuo- polis, natura- cultura, trovare i nessi e indirizzare il cambiamento: ecco quello che abbiamo fatto. Era l’embrione di un nuovo agire politico, ne allargavamo enormemente il campo».
Da cui sono poi nate la legge sul divorzio e sull’aborto.
« E sono state conquiste importantissime. Ma non vorrei ridurre a questo la novità di quegli anni, che è stata invece un salto di coscienza, scoprire quanta storia era confinata nelle esperienze del singolo».
Altro capo d’accusa. Tutto questo parlare del privato, del singolo, dell’individuo, del diritto al sogno e al desiderio, ha creato - dicono - la cultura del narcisismo e, infine, ha reso possibile il berlusconismo.
« Io trovo che questa sia l’accusa più avvilente e volgare, una vera deformazione di quel che accadde, che era la riscoperta di quella che io chiamo la singolitudine, la singolarità di ogni essere. Scoprivamo l’individualità delle persone, e in particolare quella delle donne, considerate per secoli un genere e basta. Questa è stata la forza del femminismo: svelare che nei vissuti di ogni singola donna c’è una rappresentazione del mondo che le donne non hanno contribuito a creare, perché hanno interiorizzato la visione maschile ».
Lei parla del femminismo che seguì il ’68. Molti dicono invece che il movimento ebbe vita brevissima, che la carica libertaria non durò che un anno, soffocata da gruppi e gruppetti che se ne contendevano la guida in nome di Marx, Mao e persino Stalin. Alla Statale risuonava il triste slogan Stalin-Beria-Ghepeù...
« Ma il ’ 68 non è solo una data, è tutto ciò che si è mosso prima e soprattutto dopo. Dura tutt’ora. Io considero il femminismo il vero seguito del ’ 68, ne ha portato avanti le intuizioni più originali. Abbiamo avuto un conflitto continuo con la sinistra extraparlamentare di allora: abbiamo indicato i pericoli della loro politica, del leaderismo, della passività. Gli dicevamo che avevano introiettato gli schemi che combattevano. Ecco un’altra grande novità di quegli anni: l’ingresso della psicanalisi nella politica. Il femminismo è il solo sopravvissuto agli anni Settanta. Per questo dico che non ho nostalgia del ’ 68: non ne sono mai uscita».
Anche il fenomeno #MeToo e le ribelli di Hollywood, e le cineaste italiane, fanno parte di questa rinascita?
«È un modo in cui sono venute alla scoperta contraddizioni e sopraffazioni. Ma non mi convince molto la modalità e quindi non vorrei parlarne. Preferisco parlare delle ragazze di “Non una di meno”, vicinissime alle ispirazioni degli anni Settanta: ne hanno colto la radicalità, hanno grande lucidità nell’analizzare i rapporti di violenza tra i sessi, sul lavoro, nei media».
Però è un lavoro sottotraccia. Non mi pare riesca a emergere nel discorso pubblico, dominato dalla semplificazione.
«C’è un impasto terribile di pubblico e privato, siamo di fronte a una forte personalizzazione della politica, a un uso terribile dei sentimenti, delle paure, delle peggiori emozioni. È come se nell’etere si fosse spalancato il vaso di Pandora dell’inconscio, siamo in un mare di inconsapevolezza. È pericolosissimo. Quando le viscere della storia diventano dominanti sappiamo che può succedere di tutto. Noi non volevamo questo, noi volevamo indagare il privato per conoscerlo, per stabilire legami e nessi, per cambiare il mondo e noi stessi. Non per farcene schiavi. Sapevamo che cancellare gli elementi repressivi doveva essere solo il primo passo, c’era molto altro lavoro da fare per la liberazione degli umani che hanno ereditato e introiettato secoli di violenza. A scuola, quando abolivo voti e bocciature non è che avessi poi di fronte una classe perfetta, di ragazzi tutti attenti e intelligenti. C’era un gran casino all’inizio, una gran confusione, e noi cominciavamo da lì il percorso di consapevolezza».
Ed eccoci a una nuova imputazione. Il ’ 68 ha distrutto scuola e università, l’istruzione di massa è un’illusione che nasconde meccanismi selettivi fortissimi.
« Sciocchezze. Ricordiamoci cos’era l’istruzione allora: cominciava la scuola di massa, ma la selezione era durissima. Noi demmo a tutti la possibilità di prendere la parola, fu un processo davvero liberatorio. Oggi quella lezione è più che mai valida. Se non parli della vita dei ragazzi, di ciò che accade “ sottobanco”, se non parli del corpo, della sessualità, dell’amore, di come affrontare paure e culture diverse, vuol dire che stai consegnando la loro formazione ad altri mondi, ai social network».
Governare il mondo o cambiarlo?
di Lea Melandri *
Il femminismo, come disse lucidamente Rossana Rossanda nelle sue conversazioni su Radio Tre alla fine degli anni Settanta (Le Altre, Feltrinelli 1978), era stato il sintomo più evidente della crisi della politica e l’embrione del suo possibile ripensamento. Chi se ne ricorda più? Confrontato con la “persona” e con la vita tutta intera, così come emergevano dall’esplorazione e dai racconti di soggettività restituite finalmente alla storia, il lessico con cui si erano definite fino a quel momento le istituzioni pubbliche appariva per la prima volta in tutta la sua astrattezza.
Inevitabile che, nel sovvertimento di un ordine protrattosi per secoli, che aveva diviso e contrapposto, subordinato secondo criteri gerarchici di complementarità privato e pubblico, corpo e polis, cadesse anche il dilemma che aveva tenuto fino ad allora l’emancipazione femminile nel limbo di una cittadinanza imperfetta: da un lato, battaglie di parità e diritti; dall’altro, pressione per far riconoscere una specificità della condizione della donna - madre, moglie, responsabile dei bisogni della famiglia -, che doveva essere valorizzata socialmente e come tale fatta oggetto di tutela.
Uguaglianza e differenza, alla luce della critica al dualismo sessuale, apparivano non altro che lo specchio di quel potere maschile che aveva creduto di poter confinare nella natura, insieme al destino dell’altro sesso, esperienze cruciali dell’umano. Sono passati alcuni decenni da quando una pratica politica anomala e sorprendente come l’“autocoscienza” ha portato sulla scena pubblica una cultura “antagonista”, ostile a un processo di “integrazione” della donna che avrebbe finito - come si legge già in un documento del Gruppo Demau del 1967 (Daniela Pellegrini) - “per obbligarla a trovare un compromesso tra due sfere definite finora in modo decisamente separatistico”, dal momento che non era in discussione “il suo ruolo primario di riproduttrice sessuale”. (I movimenti femministi in Italia, Savelli 1977)
Dal dibattito su donne e rappresentanza politica, che si è venuto affermando nelle tante realtà associative femminili e femministe presenti nelle città italiane, e di riflesso anche nei media, si ha l’impressione che insieme alla memoria di una straordinaria svolta culturale e di uno sguardo inedito sulle molteplici implicazioni del conflitto tra i sessi, si stia perdendo anche la capacità di vedere i profondi cambiamenti avvenuti nella nostra società, proprio a partire da quelli che negli anni Settanta erano solo segnali sintomatici, avvertimenti, esigenze radicali del presente che si sarebbero sicuramente ripresentate.
Oggi, a fronte di uno svelamento evidente dei legami che ci sono sempre stati tra sessualità e politica, interessi, bisogni e desideri personali e istituzioni - una contaminazione di cui parla l’antipolitica populista, l’aziendalizzazione dello Stato, l’uso privato del denaro pubblico, il declino delle forme tradizionali della partecipazione, il saccheggio che il consumismo sta facendo della vita intima -, colpiscono prese di posizione, riguardo alla volontà delle donne di “contare di più” nei luoghi decisionali del potere, che sembrano riportare indietro il tempo e la coscienza critica creata pazientemente dalla storia del femminismo: considerazioni contrastanti sulla questione donne e politica, ma accomunate da logiche di genere, sia pure con un singolare ribaltamento di parti. Il rimprovero che viene fatto alle femministe è la facilità con cui i loro gruppi continuano a “dividersi, frammentarsi, disgregarsi”, allontanandole dall’obiettivo di una presenza paritaria in politica.
Ciò di cui le donne mancherebbero, per incidere sulla vita pubblica come forza collettiva, sarebbe la “coesione” e la “compattezza” che ha permesso agli uomini di conquistare potere e di spartirselo. Il prezzo, così come viene solitamente descritto, ricorda l’aspetto più deteriore della politica maschile: risparmiare o rinviare a migliore occasione la critica, anche quando si è in disaccordo, sostenere candidati del proprio schieramento anche quando non li si considera idonei al loro ruolo, limitandosi a “detestarli silenziosamente”, rinunciare alla “schiettezza” e alla voglia di esprimere le proprie emozioni, mantenere la distanza “tra l’amore e la civile convivenza”.
Non si può non restare perplessi di fronte a un’idea di convivenza che sembra tutto fuorché “civile”, fatta di reticenze e odi mascherati, ma soprattutto di compattezze costruite sull’irrigidimento di fedeltà e appartenenza, che come sappiamo hanno sempre avuto come contropartita l’esclusione dell’altro, del diverso, vissuto come un pericolo per l’integrità del gruppo.
Per un movimento che ha avviato con tanta chiarezza quarant’anni fa la critica a ogni forma di dualismo - dalle differenze tradizionali di genere alla separazione tra il cittadino e la persona, tra la politica e la vita quotidiana - e la ricerca di “nessi” tra realtà astrattamente contrapposte, è incomprensibile che si possa cancellare la storia di secoli nell’analisi del comportamento femminile, o ignorare i cambiamenti che sono intervenuti tra privato e pubblico, famiglia e Stato, ruolo maschile e femminile, e le risposte che la cultura femminista nella sua radicalità può dare agli interrogativi del presente, come ripensamento della politica, della rappresentanza, dell’idea stessa di potere.
*-*** Saggista, scrittrice e giornalista, Lea Melandri ha diretto per molti anni la rivista “L’erba voglio” ed è un punto di riferimento del movimento delle donne. Altri suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna 2016 Facciamo Comune insieme. È tra le autrici del quaderno Ci vuole il tempo che ci vuole (edizioni Comune). L’articolo di questa pagina è apparso per la prima volta su Gli Altri nell’aprile 2012)
* Comune-info, 13 novembre 2016 (ripresa parziale).
La sinistra prigioniera dell’Io
di Vittorio Giacopini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 05.06.2016)
Lo scrive quasi per inciso, velocemente. Nel ’73, ragionando della débâcle della “sinistra” di fronte al Vietnam, Elvio Fachinelli chiarisce di mettersi «dal punto di vista del futuro», che è «ciò che conta», mentre, nell’immediato, prevalgono la lingua di legno dell’ideologia, i motivi «di auto apologia anche nella sconfitta», la consolazione da niente dell’estremismo facile, il moralismo ricattatorio, gli schemi sterili. Di fronte alle bombe americane e allo sterminio, l’elusione del tema “privato” della responsabilità individuale da dichiarazione retorica, e politica, scadeva in alibi e apatia, falsando tutto. Non stava prendendo le distanze dalla sua parte politica: decifrava i segnali del presente, giudicava.
Da psicoanalista diffidente anche della sua istituzione (e di ogni istituzione, semplicemente), Fachinelli andava ancora una volta diritto “al cuore delle cose”, strappando maschere. L’esempio dei marines americani era, appunto, un esempio, o meglio un sintomo. Non erano «bestie assetate di sangue» ma gente normale, giovani «normali ai quali nessuno ha insegnato come compito primario il rifiuto di obbedienza ai feticci». Così, «dal punto di vista del futuro», coglieva un passaggio di fase capitale e la fine di un decennio confuso, ma bellissimo.
Con gli anni Settanta, si inaugura una nuova fase di controllo - di dominio - e la mancata capacità della sinistra di leggere nella Storia un inesauribile, esasperante intreccio di vicende individuali e collettive che ha creato un effetto di delega suicida.
«Come una volta si concedeva il cielo ai teologi, la sinistra ha concesso ai teologi dell’Io il problema della soggezione e della ribellione al potere».
Ecco, in questi suoi scritti politici (bellissimi), Fachinelli va effettivamente al cuore delle cose proprio scagliandosi contro i “teologi dell’Io”, questi sciamani, per tornare a mettere in primo piano quell’intreccio di piani labirintico che lega i fantasmi dell’Io al mondo e alla Storia e persino nella Storia e nel mondo genera (altri) fantasmi e blocchi e strozzature. Era il suo modo di fare politica e psicoanalisi, leggere il tempo.
In questa raccolta di saggi, articoli di giornali e interviste, editoriali, ci sono quasi trent’anni di Storia e una “lezione” di metodo e di sguardo inarrivabile. Nella prefazione al volume Dario Borso nota che forse il «paziente più complicato» di Fachinelli «fu l’Italia» e coglie nel segno. L’impressione - a leggere seguendo l’ordine temporale, anno per anno - è semplicemente raggelante.
La lunga analisi della società italiana che Fachinelli conduce sulle pagine dei «Quaderni Piacentini», o dell’«Erba Voglio», o dalle più posate colonne del «Corriere della Sera», o dell’«Espresso» radiografa una chiusura - una progressiva claustrofilia - che mette i brividi. Energie, pulsioni, istanze di liberazione e autonomia finiscono per svilirsi e impallidiscono. Lui non è che se ne lamentasse, ci ragionava.
Nel ’68 aveva ritrovato al cuore della “protesta” giovanile un’istanza di desiderio dissidente, cioè senza oggetto, capace quindi di scarto liberatorio nei confronti del reale, del potere (i giovani - diceva - si scagliano contro «un’immagine di società che mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia una perdita dell’identità personale»).
Oltre vent’anni dopo, ai tempi di Chernobyl, questo impulso di sovversione appare riassorbito, “recuperato”. «La novità più caratteristica, per un analista, di questa epoca dell’inquinamento, è la corrispondenza, a volte la coincidenza puntuale, tra alcuni dei più profondi fantasmi individuali e i tratti tipici dell’epoca stessa». Tra l’Io e la Storia, non c’è più margine di gioco, e non c’è più scarto.
OperaViva Magazine un’arte del possibile
Prendere l’uomo alla radice
Le domande di Elvio Fachinelli
Il maestro ignorante
di Marina Montanelli, Francesco Raparelli (Opera viva, 09 maggio 2016)
La nostra è una generazione sfortunata, deve ammetterlo anche Mario Draghi, e sta diventando superfluo ripeterlo. Così sfortunata che, oltre alla disoccupazione, al working poor, gli tocca in sorte la psicoanalisi di Stato, Massimo Recalcati e molto altro. Non bastavano il primato delle neuroscienze, il trionfo della psicologia al servizio della «mediazione», pure la riscoperta dei tabù, della Legge e del Nome del Padre: non c’è che dire, un vero e proprio accanimento.
Un volume da poco in libreria, edito da DeriveApprodi, ci ricorda che la psicoanalisi italiana ha vissuto momenti decisamente migliori: si tratta degli scritti politici di Elvio Fachinelli, dal titolo, bello quanto i testi raccolti, Al cuore delle cose (DeriveApprodi, 2016). Una penna affilata, quella di Fachinelli, che ha trasformato, tra gli anni Sessanta e Settanta, la psicoanalisi in un campo di battaglia; di più, l’ha resa arma utile per farla finita con la famiglia e il Leviatano. Psicoanalista, giornalista, militante politico: una grandissima figura del Novecento italiano ed europeo, di cui, neanche a dirlo, è stata in buona parte smarrita la memoria.
Di certo è ricordato da una parte delle istituzioni psicoanalitiche, di certo non sanno chi sia, o quasi, i giovani militanti del nostro tempo, e la filosofia accademica continua a non leggere i suoi testi fondamentali sul tempo, la ripetizione, l’estasi. Al cuore delle cose, completando e arricchendo la nota raccolta, Il bambino dalle uova d’oro, edito nel 1974 da Feltrinelli e oggi di nuovo disponibile per i titoli di Adelphi, rende finalmente possibile la «rammemorazione», lascia finalmente scoccare «l’ora della leggibilità» di questo autore, consegnandoci con forza l’attualità della sua ricerca, della sua lingua.
I blocchi tematici che articolano il volume sono davvero molti, proviamo a indicare, perciò, i più rilevanti: la riflessione sul Sessantotto e la rottura generazionale; la centralità, politica e psicoanalitica, dell’infanzia e l’«educazione proletaria»; la droga; le nuove «istituzioni d’amore»; le «estasi metropolitane». Prima di addentrarci tra i testi, preferiamo individuare le domande utili per orientare la nostra fugace esplorazione. Non è quella di Fachinelli d’altronde, così come segnalato nel suo testo programmatico del 1970, Cosa chiede Edipo alla sfinge, una «psicoanalisi interrogante»? Un «processo» aperto, un «lavoro», piuttosto che un sapere corporativo, cristallizzato nel feticcio positivistico dell’obiettività dei dati?
Ebbene sono due le domande che, a nostro avviso, attraversano per intero queste pagine di Fachinelli - la loro ricerca pratica oltre che teorica. La prima compare nelle battute introduttive de L’Erba voglio (il libro, 1971), nel volume DeriveApprodi titolate Quale autorità nella scuola?: «ma allora, conviene impegnarsi in esperienze scolastiche autonome, fuori dall’apparato istituzionale, come gli asili autogestiti - oppure in un’azione nella e contro l’istituzione scolastica esistente»? La seconda, esplicita in un articolo breve e potente dal titolo Single, ripete la domanda arrogante che i vincitori (siamo ormai negli anni Ottanta) non smettono di ripetere ai vinti: «dove siete finiti? Siete falliti, non è vero?».
La prima questione nasce in primo luogo dall’esperimento, straordinario, dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano. Momento di lotta, condiviso con Lea Melandri e Luisa Muraro, ma anche di istituzione alternativa. L’interrogazione, posta nel mezzo di una pratica situata, colpisce per la sua attualità e, come un taglio, segna tanto la psicoanalisi quanto la politica, indicandone la più intima delle giunture. D’altronde, già nella traduzione e commento, per Quaderni piacentini (1969), dell’allora inedito benjaminiano, Programma per un teatro proletario di bambini, il punto dirimente di tale interrogazione viene scorto e chiarito: seguendo le parole di Benjamin, è nel «gesto infantile» che bisogna individuare il «segnale segreto dell’avvenire», quello «veramente rivoluzionario».
E Fachinelli, che usa il Sessantotto e Benjamin (non casualmente riscoperto dal movimento studentesco tedesco) per ripensare la psicoanalisi, approfondisce: «se infatti è vero, come ritengo, che la crisi della psicoanalisi della risposta sia cominciata, e sia destinata ad aggravarsi, a livello della secessione giovanile, allora il primo e unico luogo privilegiato della psicoanalisi interrogante sarà dato dalla giovane generazione. Penso innanzitutto ai punti in cui, appena superato il rapporto biologico, tra virgolette, con la madre, comincia una fase di socializzazione che in realtà è di apprendimento, precocissimo, delle regole vigenti nella nostra società in via di massificazione». Allora l’infanzia diventa il luogo che fa la differenza.
Allora la prassi sovversiva non può che essere anche, e soprattutto, auto-formazione, educazione non autoritaria, discontinuità antropologica, proliferazione istituzionale oltre e contro le istituzioni dello Stato. Allora la psicoanalisi deve smettere di essere «istituzione tabù» normativa, semplice «sistema genitoriale accessorio», per farsi, invece, «lavoro senza fissa dimora», per rompere la sua immagine più consolidata, «quella della segregazione in un rapporto duale socialmente e culturalmente privilegiato», quella di un «settore specializzato [...] detentore di un sapere-potere separato, la psicologia» appunto.
Proseguendo nella direzione indicata da Benjamin, la possibilità della rivoluzione è indissolubilmente legata con la costruzione di un’altra pedagogia e, quindi, di un’altra antropologia: prestar fede all’infanzia, muoversi e lavorare all’interno del suo «continente», significa assumere fino in fondo il gesto davvero sovversivo di Freud, quello che - secondo le parole del bellissimo testo sul fondatore del movimento psicanalitico (Adelphi, 2012) - cercava nelle «tracce del banale, del comune a tutti» le condizioni del cambiamento, della trasformazione dell’esistente. In altri termini e, soprattutto, riscoprendo in tutta la sua serietà l’ispirazione antropologica marxiana, «politica radicale» vuol dire «prendere l’uomo alla radice», là dove «la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso». Soltanto dall’interno del processo medesimo di costruzione dell’umano è possibile immaginare l’uomo nuovo.
La seconda domanda riguarda le nuove «istituzioni d’amore» degli anni Sessanta e Settanta, in primo luogo; più in generale, a nostro avviso, i movimenti, le grandi rotture esistenziali e politiche. Ci si avvicina alla fine degli anni Ottanta, risuona con forza la boria dei vincitori, la paccottiglia postmoderna che dichiara finita la Storia, e Fachinelli tenta di riannodare i fili del «desiderio dissidente». Contro la famiglia («luogo chiuso, coatto, defecatorio»), negli anni della lunga Comune italiana sono spuntati ovunque i «gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche solo di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in là».
Simili - ed ecco una eccellente definizione di istituzioni non statali - «a quelle strutture chiamate cristalli liquidi». La voce odiosa degli anni Ottanta non si fa attendere, interrompe il ricordo: «siete falliti, non è vero»? La risposta di Fachinelli è netta: «non c’è fallimento, non c’è scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà». Ma cosa sia questa logica, e come costituisca i gruppi, nella loro proliferazione libera, ostile all’unificazione sovrana, Fachinelli lo aveva chiarito proprio nel Sessantotto, facendo i conti - lui sì seriamente - con la «secessione giovanile».
L’esodo dalle forme di vita consolidate, per un’intera generazione, prende le sembianze di una sorta di gruppo-processo dove «ciò che conta non è la meta, non è la proposta in sé, più o meno reale [...] non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato del desiderio». Se c’è morte del gruppo, quella è la morte del desiderio. E un desiderio morto, per dirla col filosofo, è una potenza interamente incarnata, senza resti. In una potenza che sa rimanere inattuale, in una richiesta che non smette di chiedere ancora, lì c’è il movimento, nonostante la sconfitta, nonostante l’inverno.
Fachinelli: il ’68 senza paraocchi
di Goffredo Fofi (Avvenire, 06/05/2016)
Nel non piccolo numero dei nostri miti intellettuali il nome di Elvio Fachinelli, noto ormai a pochi, meriterebbe un posto d’onore. Ho avuto la fortuna di esserne amico, trovandomi vicino a lui in molte convinzioni e battaglie ma leggendo con più passione i suoi interventi pedagogici e politici che non i suoi, per me ostici, saggi di psicoanalisi (tentò una volta di convincermi a tradurre con lui i saggi di Lacan, ma dopo un mese di accanito lavoro ero riuscito a metterne a punto solo tre o quattro pagine...)
Ci si rende nuovamente conto della solidità del suo pensiero leggendo Al cuore delle cose. Scritti politici 1967-1989, raccolti con scrupolo e amore per Derive Approdi da Dario Borso, cui devo, anni fa, anche un’ottima traduzione dell’«intraducibile» Arno Schmidt. Sono interventi anche lunghi, articoli veloci e veri e propri saggi legati all’attualità intensissima degli anni in cui furono scritti. Uscirono soprattutto sui Quaderni piacentini e su L’erba voglio, la rivista che fondò e diresse insieme all’omonima casa editrice anche in reazione alla piega che prendeva il ’68 fossilizzatosi in gruppi e gruppetti d’impronta neo-leninista.
Fachinelli si interroga sui comportamenti umani dentro la società del tempo e sui grandi conflitti in atto (erano gli anni del Vietnam, della delusione maoista, della violenza terrorista, dei disorientamenti intellettuali). I suoi scritti più nuovi restano quelli su infanzia e giovinezza: quanta forza troviamo in questa raccolta, che si confronta con il presente storico dei suoi anni senza paraocchi, in ostinato sforzo di capire e interpretare, e anche pacatamente giudicare, esprimendo con decisione i dubbi più motivati sui comportamenti generazionali e sui modelli di potere.
Al centro c’è sempre un interesse non solo scientifico, soprattutto «politico» per un’idea di maturità ben diversa da quella d’allora e ovviamente di oggi. Confrontandosi con la cronaca ma anche con le opere che hanno segnato quegli anni (da Salò a L’albero degli zoccoli, per esempio), Fachinelli cercava ostinatamente una verità a partire dall’uomo e non dalle ideologie. Per questo ha ancora tanto da insegnare rispetto ai simil-profeti che proliferano oggi nel vasto mare dell’opportunismo mediatico.
PSICOANALISI E FILOSOFIA. DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE....
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
ANDIAMO IN ESTASI
di Alfredo Giuliani *
PER ANNI ho letto trattati e saggi di psicoanalisi come fossero romanzi, zibaldoni poetici, peripezie antropologiche e terapeutiche di nuovi intrigantissimi sciamani. Sono stato toccato nel vivo della fantasia, nell’ ombelico dei sogni, nel cocuzzolo mitologico-filosofico. La letteratura psicoanalitica ha finito con l’ occupare uno spazio cospicuo della mia biblioteca.
A un certo punto della vita ho fatto una soddisfacente esperienza, né troppo breve né troppo lunga, del confessionale junghiano. Che tutto questo mi sia servito per conoscere un po’ meglio me stesso e gli altri, a percepire la forza e le deformazioni degli impulsi, per congetturare la presenza di campi e confini invisibili, mi sembra ovvio.
Per me il fascino principale dell’ analisi risiede nel metodo e nell’ idea che lo muove: che si possa riuscire a conoscere (o riconoscere) ciò che non sappiamo di sapere, ossia la nostra distorta ignoranza o sepolta sapienza. Infatti, c’ è un’ altra cosa ovvia che troppo spesso viene dimenticata: gli oggetti di cui discorre la psicoanalisi sono tanto arcaici e lontani quanto i modi della nostra vita emozionale, affettiva e mentale.
La psicoanalisi è un’ arte maieutica, è un teatro alchemico e manierista, è l’ avventura psichica, come aveva intuito lo Zeno di Italo Svevo; e l’ operatore, lo sciamano, lo esercita a proprio rischio, modificandosi continuamente. Certo, esistono anche sciamani mediocri o cialtroni; ma questo è un altro problema. Nel fascino esercitato dall’ analisi c’ è un fondamentale elemento critico. Io devo supporre che il nostro sciamano possieda i criteri della Ragione e della patologia psichica; e insieme con lui, grazie alla delicata e penetrante manovra di tali criteri, mi avventurerò nel mio sepolto e confuso sapere.
E’ vero che per l’ analisi non esiste la malattia, esiste il malato. Eppure, oggigiorno la relazione terapeutica (che dovrebbe configurarsi come una trasfusione di ritrovamenti e ideazioni dall’ analista al paziente e viceversa) corre due pericoli perfino grotteschi. In sostanza, che sia l’ analista sia il paziente si abbarbichino al già noto. L’ uno per l’ accumulo di conoscenze e interpretazioni trasmesse e collaudate. L’ altro perché subisce la frammentazione temporale delle sedute e perché tende a incanalarsi nella prevedibilità delle cose da dire. Prevedibilità che non finisce mai, attirata dal miraggio di comunicare tutto.
In un libro uscito presso Adelphi nel 1983, Elvio Fachinelli ha indagato con molta finezza questi meccanismi; ma il fatto curioso è che il suo Claustrofilia individua un’ area psicologica che circoscrive diversi fenomeni, tutti individuati dalla ricerca del chiuso (immagine o modello: l’ utero materno). Sicché dalle considerazioni sui limiti e il tempo dell’ analisi si arriva ai sogni di soggiorno intrauterino e al tempo stagnante, estatico, vissuto dal feto nella sua unità duale con la madre (relazione contraddittoria di co-identità).
Se si tiene conto che esperienze di tipo protonirico sembrano presenti nel feto negli ultimi mesi della gravidanza, mentre maturano le funzioni del suo sistema nervoso centrale, e quindi un inizio di vita mentale e sensoriale si sviluppa prima della nascita, ecco che ci si può azzardare a supporre che il bambino non ancora nato avverta nella sua estatica dimora l’ oscura e terrorizzante intrusione di un terzo! La claustrofilia sarebbe dunque un sentimento naturale, acquisito nel soggiorno intrauterino (casa-fortezza, bellissimo giardino, buia piscina ondulante).
L’ avventura psichica comincia assai prima del trauma della nascita; ma, in fondo, le madri sensibili non l’ avranno sempre sospettato? E proprio riflettendo sul tempo stagnante del soggiorno intrauterino, su quel tempo estatico fuori del tempo che a volte ritorna nei sogni dei pazienti, e che si lascia plausibilmente ipotizzare come protoattività mentale secondo le recenti acquisizioni della neurofisiologia, Fachinelli è arrivato al suo appassionante nuovo libro, La mente estatica (Adelphi, pagg. 202, lire 20.000).
Scrittore lucido, sobrio ma vibrante, dotato di un bel garbo stilistico insolito tra i suoi colleghi, Fachinelli non ricorre pressoché mai al formulario gergale della psicoanalisi. Rigoroso nel pensiero e nello stile, non si adatta però completamente alla forma del resoconto scientifico; non lo appagano del tutto neppure le flessibili maniere del saggio.
Per lui un libro deve argomentare una sequenza di sorprese. Così La mente estatica presenta alla rovescia i capitoli d’ una intrepida peregrinazione esplorativa. Prima i risultati: l’ affiorare della percezione estatica, la scoperta che la nostra civiltà si è difesa dalla nozione di estasi attribuendola soltanto a stati di rapimento mistico o religioso, oppure confinandola nel patologico.
Poi la ricognizione storica di esperienze estatiche, per exempla: Meister Eckhart, Dante, il matematico Poincaré, Proust, Bataille e l’ inaspettato Moses Herzog, protagonista dell’ omonimo romanzo di Saul Bellox. Quindi: resoconti di varie esperienze, letture, note ai margini del tema, sondaggi rapsodici del tempo estatico. Segue un approfondimento e ampliamento del motivo già trattato in Claustrofilia: la disponibilità del feto, e qui soprattutto del neonato, alla percezione estatica (unità sublime con la madre). E infine: un sottilissimo esame di alcuni scritti di Freud (e di Lacan), che a detta dell’ autore costituisce l’ antecedente di quanto abbiamo letto nei primi due terzi del libro.
La struttura anomala della Mente estatica è in questo capovolgimento, che fa risaltare l’ assemblaggio delle parti. I capitoli, tanto diversi tra loro, sono scorci, passaggi, giri, percorsi a volte tortuosi, oppure misteriosamente rettilinei, di uno stesso labirinto. Come capita spesso quando si consultano i nostri sciamani, i loro discorsi sembrano inoltrarsi in zone dove le frontiere si annullano. Ma l’ oggetto che quei discorsi evocano con cauta suggestione lo riconosciamo sùbito. Ma s, l’ estasi! Chi può dubitare della sua diffusione profana? Non si dice comunemente: mi ha mandato in estasi, era in estasi, e così via? Lo si dice magari con una sfumatura di enfasi comica, ma anche in quella forma impoverita la parola attesta una parvenza di specialissima condizione esperibile da chiunque. Specialissima e banale! Quale portentosa contraddizione.
Ma l’ opinione di Fachinelli è che non sia più lecito separare dogmaticamente considerandoli incompatibili come si fa ora i differenti livelli dell’ esperienza estatica. Nell’ estasi di qualsivoglia natura si è come fuori di sé, fuori dal sé abituale, secondo il significato originale della parola greca ékstasis, e in questo stato si prova una contentezza, una gioia anch’ essa non abituale, un reale rapimento dell’ animo.
Tale excessus mentis, descritto dai mistici medioevali, è di fatto disponibile in ciascuno di noi. Lo si ammette generalmente nell’ ambito dei sentimenti, nell’ artista e in coloro che godono interiormente l’ opera d’ arte, quale essa sia. Ma come stacco rapinoso dal tempo, sospensione totale del vivere, quasi perdita del respiro, come attimo vuoto che ti accoglie e ti perde (campo di tensioni da attraversare), la situazione estatica viene misconosciuta o cancellata. Si vuole interrompere, perché fa paura, quel movimento verso il nulla, che è familiare al mistico, ma non gli è peculiare.
Il profano teme l’ abolizione dell’ io, per angoscia arretra prima che la smisurata gioia del rapimento invada il vuoto. Peccato, non sa quello che perde. Ma una spiegazione c’ è: si ha terrore della gioia eccessiva (stato che si pone al di là del piacere comunemente inteso) poiché essa è contigua alla pulsione di morte (il vecchio Freud l’ aveva intuito). Mi viene in mente la saggia e bella Porzia del Mercante di Venezia, quando nel terzo atto perora a se stessa: Mòderati, amore, reprimi la tua estasi, trattieni la tua gioia, frena questo eccesso!.
Lo sciamano, ancora una volta, ha attivato un vortice di pensieri che ci toccano nel cocuzzolo e nell’ ombelico. Alcuni di tali pensieri sono futili. L’ estasi degli antipatici sarà anch’ essa antipatica, o varrà la metà? E quella degli sciocchi, varrà poco più di niente? Fachinelli sembra dare la preferenza all’ estasi degli intelligenti. Ma l’ estasi, di per sé, sarà indifferente; cadrà dove vuole, come soffia il capriccioso Spirito biblico? Se è un tipo particolare di percezione, non si potrà attenderla e provocarla con un certo metodo? E chi si droga non è forse un estatico coatto?
Dice Fachinelli: l’ estasi non è soltanto nelle sue epifanie riconoscibili; è anche nella sua irradiazione al resto. Ma allora l’ attimo estatico avrebbe una inimmaginabile potenzialità trasformativa. Io credo che sia proprio così, ma ne traggo conseguenze personali e non saprei inferirne effetti teorici d’ interesse generale. Della gioia eccessiva non si può parlare. Il silenzio la custodisce, e tuttavia... essa parlava apertamente in certi romanzi che hanno segnato la nostra giovinezza.
Trovo strano che Fachinelli non si sia ricordato di Dostoevskij; nel suoi romanzi, penso principalmente a L’ idiota, c’ è un vero delirio di situazioni estatiche. Per alcuni dei suoi personaggi il cadere o il trovarsi fuori di sé, il provare una gioia smisurata, è una condanna, una frenesia ingovernabile che frantuma ogni convenienza, un segno grottesco-sublime del destino; potremmo dire che per loro l’ eccitazione estatica è il meglio dell’ incomprensibile. E può portare al peggio.
L’ argomento di Fachinelli ha mille risvolti, è vago e intenso e non vorrei abbandonarlo. La mente estatica è un libro di evidenze inquietanti, dove buio e luminosità, lontano e vicinoi accelerazione e immobilità, oggetti ancestrali e nuovissimi si proiettano in un misterioso deserto esistenziale popolato di sogni realizzati e di immani attese frustrate. Tempi e spazi percettivi hanno subìto un sommovimento, e anche l’ estasi brulica sulla terra in forme orripilanti.
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
* di ALFREDO GIULIANI (la Repubblica, 04 aprile 1989).
ELVIO FACHINELLI E I TRUCCHI DELLA MENTE
di Alfredo Giuliani *
Circa tre anni fa in queste pagine (precisamente il 4 aprile 1989), segnalai all’ attenzione dei lettori un bellissimo saggio di Elvio Fachinelli, La mente estatica, notando che esso faceva seguito a un’ altra affascinante indagine, Claustrofilia, apparsa nel 1983. Claustrofilia è un termine coniato dall’ autore per circoscrivere diversi fenomeni psichici individuati dalla ricerca del "chiuso" (di cui l’ utero materno è il modello originario). Dalla ondulante dimora intrauterina, immagine di un sentirsi "fuori del tempo", Fachinelli era passato a studiare nelle varie modalità dell’ estasi (mistica o profana, eccezionale o comune) l’ esperienza del "fuori di sé", dello stacco rapinoso del tempo.
Quando parlai dei due libri qui sopra nominati non tenni presente un terzo saggio che li aveva preceduti e che era ormai introvabile (pubblicato da "L’ erba voglio" nel 1979). Si intitola, ed è un omaggio a Zenone di Elea, La freccia ferma e ora lo ristampa l’ editore Adelphi (pagg. 210, lire 16.000).
Perché avrei dovuto tenerlo presente? Perché i tre libri disegnano un percorso originale e avvincente dentro una dimensione paradossale che viviamo tutti. La freccia ferma ha un sottotitolo - Tre tentativi di annullare il tempo - che prefigura anche il tema dei due libri successivi. I trucchi escogitati dalla mente umana per denegare il tempo, segmentarlo, farlo girare in tondo e farlo tornare indietro, arrestarlo, annullarlo, questi trucchi, queste illusioni o ossessioni e ripetizioni incantate e parossistiche sono l’ inesauribile argomento di quella che ora possiamo chiamare la trilogia di Fachinelli.
Egli non era semplicemente uno psicoanalista. Aveva le attitudini dell’ antropologo e del filosofo. Percepiva gioiosamente il potere significante della poesia. Con rigore, e anche con prudenza, si avventurava in zone di confine, dove le risorse dell’ immaginazione sono altrettanto decisive dei sussidi tecnici. Ed era scrittore assai accattivante, lucido e calmo nel riferire le sorprese e le peregrinazioni del proprio indagare lo strano agire degli esseri umani. Dico aveva, era con profondo dispiacere: Fachinelli morì, appena sessantenne, pochi mesi dopo l’ uscita della Mente estatica.
Il libro che abbiamo sotto gli occhi prende spunto dal caso di un paziente ossessivo. Una storia clinica piuttosto banale: figlio unico di genitori modello, le cui immagini interne sono divenute talmente forti da renderlo incapace di distanziarli e affermare la propria identità. Come riuscirà a mantenere il loro amore e la loro stima? A stare alla loro altezza? Adolescente, viene mandato in un severo e prestigioso collegio di gesuiti, dove l’educazione religiosa impartita è di tipo precettistico.
"Ecco allora che con l’ osservanza dei comandamenti, richiesta dalla nuova autorità, gli si presenta la possibilità, così pare, di uscire dal dilemma. Osserverà scrupolosamente i comandamenti e questa osservanza impersonale gli varrà da garanzia, da pegno, da protezione magica, per ogni progetto di vita personale. In questo modo non è più direttamente in questione il problema delle sue scelte autonome; è in questione l’ obbedienza a un’ istanza superiore esterna".
Ora non è più esposto ai rischi di scelte personali (diventare colpevole di fronte all’ autorità interna, perdere amore e stima). L’ essenziale si sposta su un terreno ben definito, quello del "peccato", rispetto al quale esiste un sistema di regole altrettanto definite. Il ragazzo diventa il soggetto di una macchina morale che coincide con la vera religione, e ciò lo fa partecipe dell’ onnipotenza di Dio.
Il problema sembra risolto. La vita è comandata dal decalogo di Mosè. Solo che la legge è implacabile. Il peccato, il male, cacciato in ogni azione, parola, pensiero, risulta ovunque presente. Il decalogo si estende in maniera straordinaria, si ramifica al di là delle sue enunciazioni letterali.
Per esempio: pronunciare la parola giallo è atto impuro perché giallo rimanda a limone, e limone a limonare (pomiciare, flirtare). Se bisogna santificare la domenica, giorno del Signore, bisogna santificare anche il lunedì perché è contiguo alla domenica, e il martedì e così via. Si creano periodi di settimane e mesi nei quali è impossibile fare nulla perché dedicati al Signore. In ogni attimo c’ è un comportamento doveroso rispetto a un comportamento vietato. Certo vi è un residuo non eliminabile, vi sono azioni parole e pensieri inevitabili; allora intervengono ragionamenti "di sopravvivenza" (qualche masturbazione è necessaria: se mi vieto anche questo, tanto vale morire). Il senso di colpa acquista dimensioni gigantesche.
Il rimedio più semplice per non peccare sarebbe di sopprimere azioni, parole, pensieri. E così succede effettivamente, in gran parte. Col passare degli anni, diventato per così dire adulto, il paziente ha trovato il modo di controllare la minacciosa alternativa tra divieto e dovere, male e bene: "la segmentazione del tempo concreto, del tempo come flusso e forma individuale dell’ azione, in una serie di tempuscoli tendenzialmente sempre più piccoli. Ognuno di essi è separato e isolato dagli altri, allo scopo di effettuare nel modo giusto il segmento di azione corrispondente e per mantenerlo distinto dal tempuscolo successivo in cui si ripresenta l’ alternativa". L’ insieme di queste operazioni tende a stabilire un tempo seriale, senza storia, una collezione infinita di "ora".
Questo tempo segmentato, meccanico, è reversibile. Si può "annullare". Basterà compiere in senso inverso tutte le azioni cominciate con un atto "peccaminoso" (che, intendiamoci, ha la stessa rilevanza del limonare). Se il paziente, per portare certi documenti fiscali al suo avvocato ha dovuto rimuovere una rivista che li copriva (e che egli ritiene assurdamente "peccaminosa"), uscirà dallo studio dell’ avvocato scendendo le scale voltato all’ insù, farà retromarcia con la macchina fino a casa sua, salirà le scale di casa guardando all’ ingiù e finalmente riporrà i documenti nello scaffale nell’ esatta posizione in cui si trovavano. Così l’ azione impura sarà annullata.
La frammentazione e l’ annullamento del tempo da parte del paziente configurano un procedimento dialettico caricaturale finché si vuole, assai simile all’ immobilità della freccia di Zenone, la quale non si muove benché scoccata, perché essendo ogni distanza divisibile all’ infinito non può percorrere in un tempo finito infiniti tratti. Ovviamente non ci si può muovere nello spazio senza muoversi nel tempo. Le argomentazioni di Zenone comportano che anche il tempo, come irriflessivamente "sapeva" l’ ossessivo, è divisibile all’ infinito. E dunque immobilizzabile e percorribile alla rovescia.
Il "rendere non accaduto" (o "annullamento retroattivo") è un meccanismo di difesa descritto da Freud e considerato nell’ ambito del conflitto personale del nevrotico. Per Fachinelli, ciò che può apparire soltanto personale e derisorio (visto dall’ esterno) è il segno di una situazione, insieme tremenda e fascinosa, che rientra nel sacro.
Il tentativo di annullare il tempo vuol dire rendersi padrone del tempo. Si danno molti fenomeni che rivelano questa disposizione magica. Pensiamo al famoso bambino del rocchetto, raccontato da Freud in Al di là del principio di piacere. Quando la mamma lo lasciava solo per qualche tempo, invece di piangere, il bambino lanciava un rocchetto di legno (a cui era legato un filo) oltre la cortina del suo letto, lo faceva sparire, e contemporaneamente emetteva un suono forte e prolungato che significava "via"; poi tirava il filo e faceva ricomparire il rocchetto salutandolo con un allegro "qui".
Secondo Fachinelli, compiendo il rito di sparizione-riapparizione, il bambino padroneggiava il tempo dell’ abbandono significando "non ora" e "ora"; una modalità complessa, nella quale gesti e suoni vocali realizzavano un ritmo. Possiamo dire che la forma spazio-temporale implicita nel gioco rituale del bambino non è quella lineare, ma quella ciclica.
Il tempo ciclico, proprio di tutte le civiltà arcaiche, comporta l’ eterno ritorno dell’ effimero purché questo sia garantito dai pericoli emergenti dal caos. Per garantire il procedere dell’ universo è necessario il rituale, la ripetizione del comportamento degli eroi mitici. E’ necessaria la magia per ripristinare l’ ordine turbato, e bisogna intervenire sul tempo per ricostituire il ciclo cosmico e umano nei punti in cui è stato interrotto. L’ interruzione più radicale nel ciclo umano è la morte. Fachinelli fa un lungo e serrato esame del "culto degli antenati" nelle società arcaiche studiate dagli etnologi.
Se il morto è una persona che garantiva la sopravvivenza del gruppo, un re, un membro del consiglio degli anziani, o semplicemente un capo di famiglia, un componente autorevole della comunità, la sua riduzione a cadavere scompiglia il gruppo, elimina la garanzia. La soluzione obbligata è di rinnegare questa morte, perché se il morto non muore, anche il gruppo può continuare a vivere. Del resto, noi conosciamo benissimo tale atteggiamento. "Di fronte alla morte, di fronte a certe morti, siamo noi stessi internamente i nostri arcaici, e continuiamo a fare uso, più o meno forzato, di un comune processo di rinnegamento".
I complicati rituali degli arcaici non posso che riassumerli in poche parole. Il morto viene placato (giacché ha subito offesa, violenza), quindi assorbito in una vita trans-individuale che rimane in contatto col gruppo: egli diventa un antenato, entra a far parte del gruppo degli antenati. Gli antenati sono eterni, i viventi li incorporano ripetendone i comportamenti. Il tempo ciclico è costruito sull’ obbedienza radicale alle norme dettate dai morti.
I rituali arcaici (frazionamento e ripetizione di dettagliatissime procedure) somigliano parecchio ai rituali ossessivi. Lévi-Strauss parla di aspetti maniacali e disperati di taluni rituali. E Fachinelli avanza l’ ipotesi che il rituale diventi maniacale e disperato fino alla vera e propria ossessività soltanto là dove si è fatto problematico, difficile, il rapporto con l’ orizzonte mitico entro il quale si svolge la cerimonia.
Comunque sia, sembra che tre elementi fondamentali costituiscano l’ economia arcaica della morte: uno stato di notevole dipendenza rispetto alle figure-valore del gruppo; il rinnegamento della loro morte; la formazione di una comunità di antenati.
Ora, che cosa accade nell’ ossessivo? Al principio abbiamo una situazione di parziale appartenenza tra il bambino e una figura onnipotente, poi un rapporto strettissimo tra il soggetto concreto e un polo interno di onnipotenza magica, la Legge. Il soggetto vive le proprie aspirazioni a una identità personale come pericolo di morte o di messa a morte dell’ altro (che rappresenta l’ autorità). Ma il fatto è che anche la rinuncia a tali aspirazioni comporta il pericolo di morte.
Nell’impossibilità di uscire dal dilemma, egli effettua uno spostamento del rapporto su un piano magico. Insomma, i movimenti mentali di costituzione della comunità degli antenati, negli arcaici, sono gli stessi attraverso i quali, negli ossessivi, si costituisce l’ implacabile Legge.
La differenza è che il rituale ossessivo non sposta realmente la situazione. Nel gruppo arcaico la morte della persona garante è considerata una colpa, ma il gruppo purifica il morto e lo riassorbe nel mondo degli antenati. Nell’ ossessivo il lutto non può compiersi (e quindi deve ripetersi all’ infinito) perché la minaccia è interna; l’ ossessivo rispetta e al tempo stesso vorrebbe distruggere l’ autorità, il morto, che ha interiorizzato in posizione di onnipotenza. L’ ossessivo funziona come una microsocietà arcaica paralizzata perché tutti gli elementi stanno nello stesso individuo.
Arcaici e ossessivi si trovano ad affrontare, in condizioni totalmente diverse, un problema comune. Sulla base di queste analogie Fachinelli azzarda anche una interpretazione psicoanalitica del fascismo, cercando di comprendere le sue spinte antitetiche, la sua specifica "bivalenza" (così la chiamò Angelo Tasca).
Anche qui assistiamo a un disperato diniego della morte della patria, peraltro inconsciamente desiderata da tutti quei nazionalisti che avevano sofferto in modo inaudito, e in gran parte inutile, la guerra. "Se negli ossessivi il sacro pervade gli svolgimenti di una vicenda puerile,... col fascismo si è avuto un tentativo... di sacralizzare la storia di molti uomini... e di inserire la loro vita in un tempo altro". Il sacro fu presente soprattutto all’ inizio, come terribilità affascinante di un potere assoluto. "Il colore nero delle uniformi e delle bandiere, l’ uso di simboli mortuari come teschi e tibie intendevano affermare violentemente la minaccia di morte da parte di un potere che sovrastava e vinceva la stessa morte".
Si pensa che questo è impossibile in una società moderna, eppure è accaduto. I rituali affondano nel mito, nella mentalità arcaica; nel caso del fascismo le masse si riunivano ritualmente intorno al Capo e alla parola del Capo, ricostituendo una unità totale dentro un tempo del ritorno (i "colli fatali", la romanità ai più ignota e insignificante).
L’ elaborazione del tempo, fenomenologia senza confini, di cui La freccia ferma argomenta alcuni sondaggi, è una sorprendente invenzione umana. Non esiste soltanto un tempo storico, esistono differenti tempi storici. Svolgimenti che intendono abolire radicalmente la storia, o sacralizzarla, per paradosso danno talvolta luogo a veri parossismi storici. Il mistero resta sempre questo: è più facile comprendere una società nel suo insieme che un individuo a sé stante. Perché?
Nella società troviamo dispiegate una serie discontinua o articolata di posizioni che l’ individuo necessariamente concentra in sé. Tale dispiegamento nella società consente di afferrare problemi che nell’ individuo, nel compenetrato groviglio che è l’ individuo, risultano spesso inafferrabili. L’ individuo è uno, e tuttavia è molti. Ampliando le parole dello storico Fernand Braudel, Fachinelli, verso la fine del libro, se ne esce con una bella e a mio parere incontrovertibile affermazione: la storia non è soltanto la "somma di tutte le storie possibili", è anche la somma delle storie impossibili.
di ALFREDO GIULIANI (la Repubblica, 15.03.1992)
PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
CON MARX, OLTRE:
Il circolo degli uomini
di Lea Melandri (Comune-info, 26 ottobre 2015)
Nel libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986), presentato come “un quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell’esistenza”, Alberto Asor Rosa scrive:
Se le donne hanno dovuto faticosamente, tra mille inganni e ostacoli, “prendere coscienza” di un’oppressione, peraltro evidente, e sopportare che questa lucidità si rivelasse estremamente fragile, pronta a scomparire dopo ogni piccola conquista, gli uomini, ragionando su una rappresentazione del mondo prodotta dalla storia dei loro simili hanno evidentemente una via di accesso più facile alla messa a nudo del sessismo, delle logiche d’amore e di violenza che lo sostengono, nonostante i progressi della civiltà. Perché allora quella difesa estrema, sempre meno convinta eppure ostinata, della neutralità, che si esprime non solo nel cancellare dalle analisi politiche il rapporto tra i sessi, ma anche in quella copertura che è la sua distorta collocazione tra le questioni sociali: emarginazione, cittadinanza incompleta, sfruttamento economico, beni comuni, ecc.?
Le donne sembra che stentino a “sapere” quanto è profonda l’espropriazione che hanno subito, quanto siano ancora lontane dalla percezione di sé come individualità intere, corpo e pensiero, quanto siano propense ad accontentarsi di una emancipazione che le porta sulla scena del mondo con le stesse attribuzioni per cui ne sono state allontanate: corpo, sessualità, maternità. Anche sulla violenza che subiscono quotidianamente, e che risulta essere ancora la causa prima della loro morte, cala spesso l’invisibilità, frutto di paure, intimidazioni, così come di desideri e fantasie amorose mal riposte.
Per quanto riguarda gli uomini, viene invece il sospetto che “sappiano” e che sia proprio l’evidenza del privilegio toccato loro storicamente e diventato “destino”, copione di comportamenti obbligati, a dover essere in qualche modo aggirata, perché colpevolizzante e quindi innominabile.
La comunità storica maschile ha visto cadere imperi, muraglie, confini, odi che sembravano irriducibili, eppure esita a far cadere le fragili pareti che separano la sua civiltà dalla porta di casa, l’immagine della sua “virilità” pubblica dalla posizione di figlio,fratello, padre, marito, amante.
Ma tutto ciò che scorre innominato sotto la storia rischia di diventare col tempo la galassia che la conduce a sua insaputa, che la ricopre via via di macerie e la tiene con lo sguardo rivolto all’indietro, cosicché la speranza finisce per confondersi con la nostalgia, e il corpo femminile, su cui ancora si pretende di esercitare un possesso indiscusso, diventa, immaginariamente, la terra feconda, incontaminata, di rinascite a venire.
Tempi moderni
La studiosa Myriam Revault d’Allonnes ha scritto un saggio su questo tema che ha aperto la discussione in Francia
“L’idea di crisi infinita sta cancellando il passato e il futuro”
di Fabio Gambaro (la Repubblica, 13.11.2012)
PARIGI «Oggi abbiamo tutti la sensazione di vivere una crisi senza fine. Ma una crisi che non finisce mai non è più una crisi. Diventa il sintomo di qualcos’altro». Proprio a questa crisi onnipresente e inamovibile che sembra diventata “la trama della nostra esistenza”, la filosofa Myriam Revault d’Allonnes ha appena dedicato un corposo saggio, La crise sans fin (Seuil, pagg. 197, euro 19,50), che in Francia sta suscitando moltissimo interesse. Ripercorrendo storicamente l’idea di crisi, la studiosa francese ne propone una lettura originale in relazione con la nostra percezione del tempo e del futuro. Una prospettiva che le permette di affrontare la questione, sfuggendo ad ogni disfattismo rinunciatario. «La società occidentale vive da tempo al ritmo di una crisi globale che colpisce l’economia e la cultura, l’ambiente e l’educazione», spiega Myriam Revault d’Allonnes, che insegna filosofia politica a Parigi, all’Ecole Pratique des Hautes Etudes e a Sciences Po. «Ma se oggi ne percepiamo tutta la vastità e l’oppressione è perché siamo particolarmente sensibili a una crisi economica che si prolunga nel tempo. Proprio perché valutiamo tutto attraverso le categorie dell’economia, abbiamo l’impressione di una crisi acuta e generalizzata. Da anni si parla della crisi della famiglia o della coppia, ma ciò non ha mai fatto presa sulla sensibilità collettiva».
Lei però sottolinea che si usa la parola crisi in modo improprio. Perché?
«C’è stato un vero e proprio rovesciamento del suo significato originario. I greci utilizzavano la parola krisis soprattutto in ambito medico per indicare una situazione estrema limitata nel tempo. Nella crisi è implicito il suo superamento. Alla fase acuta della malattia segue la guarigione o la morte. Inoltre, grazie alla crisi si esce dall’incertezza, si decide una strategia e s’individua una via d’uscita. Oggi però la crisi ci sembra permanente. E’ onnipresente, invasiva e continua. E si è incapaci di decidere una strategia d’uscita. A forza di parlarne, è venuto meno ogni esercizio critico sul suo statuto e sulle sue caratteristiche. Insomma, quella che era un’eccezione è diventata la norma».
Una crisi senza fine è ancora una crisi o diventa qualcos’altro?
«Questa impressione di crisi diffusa a cui non sappiamo sottrarci, è una metafora della condizione dell’uomo contemporaneo che rivela soprattutto la trasformazione della nostra relazione con il tempo e la nostra incapacità di pensare il futuro. Nella modernità, la crisi era una tappa nella realizzazione di un divenire caratterizzato dall’idea di progresso. Per Hegel, Marx e i teorici della economia politica, è una fase critica da superare in direzione di un futuro migliore. Oggi, se la crisi è percepita come insuperabile è perché è venuta meno l’idea di futuro. La nostra visione dell’avvenire è infatti incerta, non prefigurabile. Fino agli anni Ottanta avevamo ancora una prospettiva. La fine del lungo boom economico del dopoguerra e il crollo del muro di Berlino hanno però segnato la fine delle speranze secolari. Simbolicamente, per l’uomo occidentale è emerso come ha scritto Lévinas - un tempo senza promesse. Secondo me, questa è la chiave per capire la nostra situazione».
Un tempo senza futuro modifica anche la relazione con il presente?
«Il presente appare come dilatato all’infinito, invade tutto. Oltre al futuro, scompare anche il passato, dato che sembra impossibile fare ricorso alla tradizione. Ma oltre ad essere dilatato all’infinito, il presente non ha più significato, sembra non dirci più nulla e soprattutto ci sembra immobile».
Le trasformazioni tecnologiche non sembrano indicare un movimento continuo?
«E’ solo un effetto ottico. In realtà, questa accelerazione frenetica gira a vuoto senza produrre cambiamenti reali nelle nostre vite. Per Virilio ci troviamo in una situazione d’immobilità folgorante. La famosa frase del Gattopardo, occorre che tutto cambi perché tutto rimanga com’è, riassume molto bene la percezione che abbiamo della situazione.»
All’epoca dell’Illuminismo, l’idea di crisi era legata al cambiamento. Oggi non è più così. Perché?
«L’inquietudine della modernità fa da sfondo all’attuale situazione di crisi. L’uomo senza più le garanzie offerte dalle trascendenze del passato, cerca di costruirsi delle nuove prospettive, che però non hanno più nulla di definitivo e certo. Da qui la situazione d’incertezza che alimenta la sensazione di una minaccia incombente. L’inquietudine e l’incertezza naturalmente possono alimentare lo spirito critico, ma anche - come avviene oggi - un sentimento di abbandono e d’impotenza di fronte alla catastrofe imminente. Come se né gli individui né le società avessero più le risorse per tentare di resistere al declino».
Lei riprende la metafora dell’uomo in gabbia proposta da Max Weber...
«In effetti, una gabbia d’acciaio, che però non è solo il risultato delle costrizioni esterne che pesano sull’uomo, ma anche delle costrizioni che ciascuno impone a se stesso per adattarsi a tale situazione. Più o meno consciamente ogni individuo partecipa alla costruzione della gabbia in cui sta chiuso».
Per alcuni questa condizione d’imprigionamento senza futuro rappresenta la fine della storia e della politica. Anche per lei?
«No. Il leitmotiv della fine secondo me è controproducente. Preferisco ricordare Hannah Arendt che, alla metafora della gabbia, contrappone la metafora della breccia. E’ un approccio non necessariamente più confortevole, ma certamente più produttivo. La breccia, oltre a indicare la rottura con la tradizione, spiega la condizione esistenziale e antropologica di un uomo che, anche quando smarrisce i propri punti di riferimento, non perde la facoltà di pensare e la capacità d’iniziativa. In questa prospettiva, la crisi può spingere a proiettarci in avanti alla ricerca di un nuovo inizio. Ritrovando il suo significato originario, la crisi diventa allora occasione di cambiamento».
Nella pratica, di fronte alla crisi, cosa si può fare?
«Innanzitutto, recuperare il senso critico per sottrarci alla gabbia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire. Dobbiamo fare un lavoro critico su noi stessi, ma anche valorizzare le capacità della società democratica di sottrarsi all’immobilismo. Nella dinamica democratica c’è sempre qualcosa che ci permette di non considerarci condannati alla sconfitta».
Sul piano individuale, cosa può significare la metafora della breccia?
«Significa che l’individuo deve saper reinventare la propria relazione con il tempo, il futuro e l’incertezza. Naturalmente è molto difficile, specie nell’attuale situazione economica. Non è facile domandare a un lavoratore precario di ripensare il suo rapporto con un avvenire incerto. E non si tratta di vantare il fascino della precarietà o della flessibilità. E’ però necessario che il futuro sia pensato in modo diverso. Per gli individui come per le società occorre sapersi orientare nell’azione anche senza garanzie. Una società non deve per forza sapere quale sarà il suo avvenire per cercare di costruirlo. Lo stesso vale per gli individui, che dovrebbero riuscire a conquistare quella che Kundera chiama la saggezza dell’incertezza. Accettare l’incertezza non significa rassegnarsi alla precarietà, ma provare ad affrontare in modo diverso la realtà. Insomma, la crisi infinita non è la fine di tutto, ma un compito infinito che rifiuta la fatalità».
Paestum 2012. Passioni durature
di Lea Melandri *
Se mi chiedessero che cosa differenzia il femminismo dagli altri movimenti, direi innanzi tutto che nessuna rivoluzione ha creato rapporti di amicizia e passioni politiche così durature, percorso strade diverse, talora contrastanti e apertamente conflittuali, senza perdere il piacere di rincontrarsi. Paradossalmente, le ragioni che l’hanno portato spesso a dividersi e frammentarsi sono le stesse da cui può nascere all’improvviso inaspettata la spinta all’accomunamento. Ne indico solo alcune: il valore che si è dato alla vita personale, la pretesa di portare la parola in prossimità del corpo e di tutto ciò che di “impresentabile” ancora trattiene, la volontà di sottrarsi ad appartenenze precostituite per far crescere ogni volta la forza collettiva da singolarità autonome in relazione tra loro.
L’incontro che si è tenuto a Paestum - lo stesso luogo che ospitò 36 anni fa l’ultimo convegno del movimento delle donne, nel 1976 - si è presentato coi tratti felici di una “ripresa”: consapevolezza del patrimonio di saperi e pratiche che si sono andate sedimentando nel tempo, riattualizzazione degli assunti più radicali degli anni Settanta: uscita dal dualismo che ha contrapposto, insieme al destino dell’uomo e della donna, privato e pubblico, politico e non politico, soggettività e mondo, cura, amore e lavoro, produzione di beni e riproduzione della società.
Quella che fu vista allora come “la protesta estrema del femminismo” - il movimento che aveva costretto la politica a fare i conti con la “materia segreta” posta ai confini tra natura e storia, sulla linea d’ombra che la separa dalla “inquietante persona” (Rossana Rossanda)- può diventare oggi la “sfida” a un modello di sviluppo e di civiltà che ha subordinato il vivere al produrre, la creatività al consumo, la cura dei bisogni primari dell’umano alle regole dell’accumulazione capitalistica.
La “rivoluzione necessaria” comincia da qui, portando l’interrogativo del cambiamento possibile alle radici di una crisi che era già inscritta nell’atto fondativo del dominio maschile. Si tratta di collocare nel giusto ordine il rapporto tra mezzi e fini, correggere l’universalismo astratto dei diritti umani, proiezione di un “io maschile” che si è pensato libero dai vincoli biologici, partendo dalle vite reali di donne e uomini viste nella loro complessità.
Se è stato il femminismo ad aprire una breccia nella “politica separata”, sottraendo alla naturalizzazione e alla sacralizzazione esperienze umane essenziali, come l’amore, la sessualità, la procreazione, la dipendenza, la malattia, la nascita e la morte, non si può dire che il “primum vivere” sia ancora il grande rimosso della coscienza occidentale. Sia pure con modalità diverse, oggi è presente nei movimenti che si battono per la salvaguardia dell’ambiente, delle risorse naturali, dei beni comuni, della giustizia sociale, ma rimane incomprensibilmente passata sotto silenzio quella “risorsa”, quel “bene comune” che sono state per secoli le donne , assegnate per “destino biologico” alla conservazione della vita, e per questo incluse attraverso un’esclusione dal patto sociale.
La loro nascita come soggetti -e quindi come sguardo, pensiero, sensibilità sempre meno conformi a modelli imposti e incorporati- non sembra avere scalfito la collocazione rassicurante che ne è sempre stata data, da destra come da sinistra, tra i gruppi sociali deboli, tra cui oggi, oltre ai minori, la massa dei giovani colpiti dalla precarietà, dei disoccupati e dei migranti senza lavoro e senza patria.
L’oscillazione tra tutela o, al contrario, valorizzazione degli attributi specifici del femminile, se per un verso permette a politiche di stampo maschile di trincerarsi ancora dietro la maschera della neutralità, dall’altro continua ad esercitare sulle donne stesse il fascino di una complementarietà ambiguamente segnata sia dalle gerarchie di potere sia dal sogno di unità e armonia degli opposti.
Non si capirebbe altrimenti perché in tutti i gruppi nati fuori dai partiti negli ultimi decenni e debitori nei confronti del femminismo di scelte di democrazia partecipata, orizzontalità, attenzione al quotidiano, rifiuto della delega, pratica assembleare, le donne abbiano sostenuto il maggiore impegno organizzativo e contemporaneamente una contropartita sul versante ideativo e decisionale assai debole. Sulla dubbia “opportunità” rappresentata dalla femminilizzazione dello spazio pubblico e sulla seduzione che ha ancora sulle donne la chiamata al ruolo di salvatrici, si dovrà ancora discutere a lungo.
Dall’incontro di Paestum, che viene dopo decenni di percorsi carsici, inabissamenti e improvvise riemersioni, ci si può augurare che le donne, forti dell’autonomia che sono venute conquistando e oggi più presenti che in passato sulla scena pubblica, comincino, senza aspettare ruoli di potere, a“prendere parola” in tutti i luoghi in cui sono presenti e a promuovere senza paura del conflitto azioni efficaci di cambiamento.
Questa la conclusione del suo articolo, qui sotto riportato:
Il sogno d’amore: la forza o la debolezza delle donne?
di Lea Melandri *
In modo sempre più pressante negli ultimi anni le donne denunciano con rabbia, oppure lamentano, l’insopportabilità della loro condizione, ma poi inspiegabilmente sembrano piuttosto riluttanti a modificarla. Anche tra le donne più impegnate la sensazione è spesso di immobilità. Nelle grandi istituzioni (partiti, sindacati, ecc.) la loro presenza è tutt’altro che trascurabile, ma non si può dire lo stesso della loro visibilità.
E’ solo per resa, costrizione, sottomissione al potere maschile, o c’è altro a cui dobbiamo guardare, qualcosa che le donne sono poco disposte ad ammettere e soprattutto ad abbandonare?
Giorni fa una lettrice, Francesca Bonini, scrivendo alla casella di 27esima ora, faceva notare che, se è necessario perseguire mete di innegabile giustezza -diritti, pari opportunità, ecc.-, non meno importante è “parlare del rimosso delle donne, di ciò che non dicono, di quello che ancora si vergognano a denunciare”. E faceva l’esempio di quel“senso di colpa gigante” che ci si porta ancora dietro, tanto da “colludere così disastrosamente con la violenza, a tutti i livelli e in tutte le sue sfumature”.
Ma è solo l’umiliazione che resta sepolta tra le mura domestiche, o anche il suo opposto, il sentimento inconfessabile della propria indispensabilità all’altro, l’idea di essere portatrici di “valori” che potrebbero rigenerare il mondo, se solo fossero ascoltati?
Due coscienze femminili anticipatrici, Sibilla Aleramo e Virginia Woolf, già all’inizio del secolo scorso, sembrano aver colto la discrepanza, non sempre evidente, tra la pretesa “logica e giusta” di uguali diritti civili e politici e il desiderio intimo della donna.
“Forse è atavismo muliebre. La donna -scrive Aleramo- assai meno dell’uomo si adatterà a romperla con certe tradizioni, perché la protezione gliele ha rese più dolci, più seducenti. Per lei, centro della casa, le grandi solennità rifulgevano quasi esclusivamente: per lei e per i bimbi... ch’ella debba rinunciare a tutte le prerogative antiche, sia pur conquistandone di superiori, è cosa che le mette nell’animo una invincibile mestizia, come il rimpianto vago di ciò che non è più.”
Guardata con l’occhi della figlia che ne ha avvertito ossessivamente la “presenza invisibile” per anni - “ne udivo la voce, la vedevo, mi immagino ancora cosa avrebbe detto...”-, la figura che in passato ha riempito di sé l’interno di una stanza famigliare, così è descritta da Virginia Woolf in una rara pagina autobiografica:
“Eccola, mia madre, al centro della vasta cattedrale che era l’infanzia; era là dall’inizio. E, s’intende, era il centro di tutto. Il centro: forse questa è la parola che esprime meglio la diffusa sensazione che avevo di vivere immersa così totalmente nell’atmosfera di lei, da non distaccarmi mai abbastanza da vederla come una persona (...) Quante cose sconnesse ricordo di mia madre, se lascio scorrere il pensiero; ma tutte di lei in compagnia; di lei in mezzo ad altri; di lei generalizzata; dispersa, onnipresente, di lei come creatrice di quell’affollato, allegro mondo ruotante al centro della mia infanzia.”
Ma è sempre Woolf a smascherare con lucidità impietosa la cattedrale dell’infanzia. Nel saggio Una stanza tutta per sé, dopo aver passato in rassegna l’immensa letteratura maschile cha ha esaltato le doti della donna, conclude: “Immaginativamente, la sua importanza è estrema; praticamente, la sua insignificanza è totale (...) uno strano mostro quello che scopriamo, leggendo prima gli storici e poi i poeti: un verme con le ali di un’aquila; lo spirito della vita e della bellezza, rinchiuso in cucina a tagliare il lardo.”
Dove sta allora l’ambiguità di quel groviglio di forza e di debolezza, di potenza e insignificanza, che l’uomo ha visto nell’altro sesso e che ogni più anonima “signorina Smith” sembra incarnare ogni qualvolta che diventa per il suo uomo lo specchio indispensabile perché possa riprendere sicurezza, fiducia in se stesso e affrontare con più vitalità la vita pubblica? E’ uno strano potere quello che spinge la donna a prodigare le proprie energie per il benessere altrui.
“Ero schiava della mia forza - dice Aleramo- , della mia creatrice immaginazione... Il mio potere era questo: far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tal potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché. Senza soggetto quasi.”
Ancora più rimosso del potere che in qualche modo sempre si esercita su chi è oggetto delle proprie cure, è il sogno d’amore, l’illusione di poter ricreare attraverso la riunificazione di qualità che l’uomo ha voluto opposte e complementari - il corpo e il pensiero, i sensi e la ragione, la tenerezza e la forza, ecc. - l’appartenenza intima a un altro essere, l’unità a due che è stata degli inizi della vita e che come un “lungo sonno” continua ad avvolgere la coppia adulta.
LA MISURA E LE PAROLE. PARLARE PER SE’ E PARLARE "IN GENERALE", "IN PERSONA CHRISTI".
L’ideologia del superuomo e della superdonna: Note di premessa sul tema:
DONNE, UOMINI, E INGIUSTIZIA EPISTEMICA:«CHANGING THE IDEOLOGY AND CULTURE OF PHILOSOPHY»! (Federico La Sala)
Esiste il sesso delle parole
di Luisa Muraro (Metro, 28 marzo 2012) *
Non m’interessa che si faccia una politica in favore delle donne. Quello che invece m’interessa, è che le donne che entrano in politica, sappiano farsi valere con tutta la loro esperienza e competenza. Perché lo dico? Perché troppe di loro, man mano che fanno carriera, rinunciano invece al nome di donna e si presentano come dei neutri. Mi riferisco a quelle che, parlando ai giornalisti, dicono: chiamatemi ministro, sindaco, segretario, professore... La trovo una cosa scandalosa e incomprensibile, tanto più che negli altri paesi europei non lo fanno. Angela Merkel era deputata ed è diventata cancelliera della Germania. Ma guardiamo anche da noi: la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia; quella che lavora in campagna, contadina; quella che vende, commessa. È giusto, lo vuole la lingua che parliamo, lo insegnano i vocabolari.
Nei vecchi vocabolari non troviamo il femminile di sindaco, di ministro, di deputato, ma solo perché erano vocabolari di una civiltà patriarcale che escludeva le donne dalla vita pubblica. Questo non succede più. Da qui viene per me lo scandalo: se quelle che entrano nei posti di comando vogliono chiamarsi al maschile, che messaggio danno? Che il femminile è buono per sgobbare ma non per dirigere? Buono per la scuola elementare ma non per l’università?
Che una donna ammiri un uomo, ammesso che abbia qualche merito, non ci sono obiezioni, l’ammirazione è un sentimento libero. Ma che lo prenda come una misura per sé, in generale, questa o è soggezione o trasformismo. E ha degli effetti deteriori, perché in un posto di responsabilità, grande o piccola, bisogna portare non solo le conoscenze ma anche le esperienze, non solo un titolo di studio ma anche il proprio essere.
IL MOVIMENTO DELLE DONNE CI RIPROVA
di LEA MELANDRI (Gli altri, 08.07.2011)*
Sembra un destino dei movimenti rendersi "visibili" solo quando scuotono la compagine istituzionale, le sue chiusure, i suoi modelli, la sua cecita’ rispetto a tutto cio’ che si muove intorno e al suo interno. La divisione tradizionale tra politica e societa’ e’ ancora cosi’ salda che e’ bastata l’imprevista partecipazione alle elezioni amministrative e al referendum per qualificare come "nuovi" protagonisti che sono da decenni tutt’altro che assenti dalla scena pubblica e dai suoi conflitti. I cortei degli studenti e dei precari, le occupazioni delle universita’, le singolari forme di lotta adottate negli ultimi tempi dagli operai, le grandi manifestazioni delle donne, dal 2006 al 13 febbraio, appaiono nonostante tutto "carsici" finche’ non producono cambiamenti riconoscibili nei luoghi deputati della politica.
"Il clima d’opinione, scrive Ilvo Diamanti ("La Repubblica", 27 giugno 2011), non cambia da solo. Ci vogliono nuovi ’attori’ in grado di riscrivere l’agenda pubblica imponendo all’attenzione dei cittadini nuovi temi (...) Si tratta di una partecipazione nuova, caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all’impegno politico. In primo luogo le donne e i giovani".
Ma come e’ possibile che i "soggetti imprevisti" del ’68, a distanza di quarant’anni, siano ancora tali? Anche ammettendo che non si tratti di un disperante ritorno dell’uguale ma di una "ripresa" nel senso che Elvio Fachinelli dava a questo termine - il gia’ noto che cerca nuove vie di uscita -, non possiamo non chiederci se il primo nemico del cambiamento non sia la politica stessa, la strenua difesa dei confini astratti che si e’ data storicamente, fatti di esclusioni ingiustificate, di strappi violenti, privilegi, poteri e linguaggi sempre piu’ vacillanti. La radicalita’ della dissidenza giovanile e del femminismo degli anni ’70 e’ stata, principalmente, la ridefinizione dell’agire politico: il lavoro, ma anche la quotidianita’, la persona, i corpi, i ruoli sessuali, la formazione dell’individuo, le professioni, il rapporto con la natura, con l’ambiente, con la diversita’ sotto qualsiasi forma si presenti. Sul tracciato che si e’ aperto allora, si puo’ dire che l’onda lunga di alcuni movimenti non ha mai smesso di scavare solchi profondi e sempre piu’ estesi, fino a far balenare l’idea che "un altro mondo e’ possibile".
Eppure, la loro presenza e i cambiamenti di cui sono gli anonimi protagonisti, vengono registrati solo quando i "nuovi barbari" riescono ad abbattere qualche paletto della fatiscente impalcatura istituzionale: la cancellazione o la conquista di una legge, un risultato favorevole alle elezioni, l’accostamento alle regole di una politica ancora sostanzialmente separata dalla vita. A questa visione dicotomica non sfugge neppure l’analisi di un osservatore acuto come Ilvo Diamanti che, pur rilevando la "moltitudine di esperienze diverse, diffuse, articolate" del popolo che oggi esprime il suo desiderio di partecipazione, accosta ancora una volta le donne ai giovani, agli studenti e agli operai. Mi chiedo se il femminismo stesso, la’ dove ha rinunciato a interrogarsi sul rapporto tra il corpo e la polis, la sessualita’ e la politica, non abbia avallato involontariamente una classificazione che vede le donne come un gruppo sociale tra altri, sia che le si consideri alla stregua di una minoranza svantaggiata o, al contrario, una "risorsa viva" da reintegrare, a sostengo di un sistema in declino.
"Il risultato vero che la manifestazione del 13 febbraio ha dato con successo - scrive Franca Chiaromonte (www.donnealtri.it, 17 giugno 2011) - e’ stato quello di mettere in scena una mobilitazione di popolo a egemonia femminile (...) quello che voglio dire e’: cosi’ come innumerevoli manifestazioni - che di solito chiamiamo di carattere generale, per es. quelle dei sindacati o dei partiti -, sono piene anche di donne (...) altrettanto ora si renderanno possibili e ugualmente potenti, se non di piu’, manifestazioni all’inverso, dove cioe’ saranno le donne a segnare i passi decisivi".
Le oltre duecento piazze che hanno accolto l’appello del comitato romano "Se non ora quando" possono far pensare a una forza unitaria delle donne, capace di imporre i suoi temi all’agenda politica, cosi’ come suggerire l’idea che uno spazio pubblico segnato per secoli dall’autorita’ maschile cambi finalmente volto. Ma se si vuole dare una risposta alla domanda di continuita’ che viene oggi dai comitati diffusi su tutto il territorio nazionale, e’ importante - come ha scritto Serena Sapegno ("Gli Altri", primo luglio 2011) tener conto che, se il 13 febbraio ha fato cadere "vecchi steccati e pregiudizi aprendosi a donne molto diverse per eta’ e ceto sociale, cultura e esperienza di vita, posizioni politiche, opzioni religiose, scelte sessuali", non per questo viene meno il carattere problematico, contraddittorio, della "frammentazione" che caratterizza da sempre il movimento delle donne. Connaturata a una pratica che parte da "se’", dall’esperienza particolare di singole, gruppi, associazioni, per estendersi a un orizzonte piu’ generale, la pluralita’ dei soggetti, delle situazioni locali, dei percorsi storici, mal sopportano strette organizzative omologanti, cosi’ come la rassegnazione a vedere trasformarsi l’autonomia in isolamento.
L’assemblea di Snoq che si terra’ a Siena il 9-10 luglio non puo’ non richiamare alla memoria tentativi analoghi che quasi sempre hanno fatto seguito a mobilitazioni riuscite, ma la ripresa, oltre che essere in questo momento nelle aspettative di molte, prende una valenza nuova e la speranza di riuscita dal contesto in cui avviene. La concomitanza tra le piazze segnate dall’autonomia del movimento delle donne con quelle occupate per giorni dai comitati elettorali e referendari, ha creato occasioni di incontro, scambio, condivisioni inaspettate tra donne di formazione culturale e politica diversa, tra associazioni del femminismo e donne provenienti da ambiti sindacali e partitici. Per alcune citta’, come Milano, si tratta di una situazione nuova, che richiede come tale attenzione, impegno, disponibilita’ a interpretare le ragioni che ci hanno tenuto a lungo separate, estranee e diffidenti le une verso le altre. A un livello ancora piu’ esteso, quale e’ un’assemblea nazionale, sara’ possibile fare interagire realta’ cosi’ diverse, darsi una forma minima di organizzazione che non ricalchi modelli noti - lobby o partiti -, trovare "un sentire comune, terreni condivisi, azioni concertate"?
Sara’ questa la sfida maggiore: non scambiare la forza collettiva con l’obbedienza al pensiero unico, la valorizzazione delle differenze con l’assenza di conflitto, la solidarieta’ con l’adeguamento. Molto dipendera’ dall’ascolto reciproco e dall’apertura ai temi molteplici che via via sono venuti allo scoperto nei percorsi della coscienza femminile, oltre che dall’attenzione ai nessi non sempre evidenti che li attraversano. Non solo percio’ la rappresentazione della donna nei media, l’ideologia assorbita oggi dalle leggi del mercato e della pubblicita’ che da sempre l’ha identificata col corpo - erotico e materno -, ma anche la violenza domestica, la subalternita’ inconsapevole alla cultura maschile dominante, la divisione sessuale del lavoro, che ancora vede le donne - direttamente o attraverso la messa al lavoro di donne, per lo più straniere - responsabili "naturali" della conservazione della vita, l’estensione indebita del concetto di maternita’ a tutte le funzioni di cura indifferentemente prodigate a persone non autosufficienti e perfettamente autonome, la tentazione di assolutizzare, assumendole come proprie, le attrattive femminili che l’uomo ha asservito ai propri bisogni e desideri.
Dietro i corpi artificiali e mercificati, "offerti ossessivamente al consumo", come scrive Sapegno, ci sono donne non meno reali di quelle che giustamente criticano l’imposizione di modelli. Si possono trovare di volta in volta "obiettivi strategici" all’azione comune, se si ha, al medesimo tempo, la voglia di costruire una visione di insieme che si avvalga della ricchezza di saperi prodotta, paradossalmente, proprio dalla frammentazione conosciuta finora.
* Fonte: http://www.universitadelledonne.it/
Il mea culpa che Ratzinger non fa
di Enzo Mazzi (il manifesto, 21 marzo 2010)
Finora puntava rigidamente verso il buio, ora sembra orientarsi al contrario verso la luce. Questa svolta radicale, di centottanta gradi, della barca di Pietro annunciata dall’attesissima lettera pastorale ai fedeli d’Irlanda pubblicata ieri, non può che essere salutata con soddisfazione. Ma la genericità dei discorsi non basta.
Non sono soddisfatte soprattutto le migliaia di vittime devastate nel profondo da fatti di violenza gravissimi. Chiedevano una assunzione di responsabilità personale da parte del sommo pontefice, un mea culpa chiaro e tondo, e si ritrovano con un vero e proprio scarico di responsabilità sui suoi sottoposti.
«Non si può negare che alcuni di voi e dei vostri predecessori - dice il papa ai vescovi irlandesi - avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi». Chiedevano modificazioni strutturali del sistema chiesa come ad esempio almeno una apertura verso il superamento dell’obbligo del celibato ecclesiastico. Nemmeno un accenno.
Chiedevano meno indottrinamento catechistico dei bambini e più Vangelo. Non un parola. Chiedevano attuazione pratica reale del Concilio e si ritrovano con l’accusa del papa al «frainteso» approccio al Concilio Vaticano II. Chiedevano meno potere della casta sacerdotale, meno assolutismo monarchico della gerarchia e più democrazia o almeno più circolarità comunitaria nella pastorale, nei riti, nella nomina dei vescovi e dei parroci, unica soluzione alla mancanza di trasparenza. E si trovano solo una frase un po’ sibillina del papa in cui tra le cause enumera anche «una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità».
Hanno ragione le vittime ad essere insoddisfatte. Ed è al pari comprensibile l’insoddisfazione di tanti e tante cattolici a cui non basta questa virata della rotta quando è la barca stessa che sta facendo acqua da tutte le parti e che va a fuoco. Non basta l’annuncio di una «Visita Apostolica in alcune diocesi dell’Irlanda, come pure in seminari e congregazioni religiose».
E qui mi sento di esprimere un bisogno che sta emergendo dalla base della chiesa seppure ancora troppo timidamente: riprendere con fede e amore la scelta di considerare l’obbedienza non più una virtù, vincere la paura di drizzarsi in piedi di fronte al potere con tutta la forza della coscienza alimentata dalla rete di relazioni comunitarie e dal Vangelo. Uscire dal silenzio, dai mugugni sussurrati, dalle frammentazioni delle conventicole, dal condizionamento di diadi muffite: dentro/fuori, credenti/non credenti, sacro/profano, obbedienza/disobbedienza e collegare con umiltà ma anche con determinazione le tante e tante esperienze ecclesiali che maturano nell’ombra, chi più dentro e chi più fuori e chi alla frontiera. Senza esclusioni né emarginazioni. Tutto questo sarebbe l’attualizzazione della più genuina tradizione cristiana.
Il cristianesimo è nato così, dal coordinamento di piccole comunità ed esperienze eretiche, è geneticamente ribelle verso tutte le forme di alienazione e in particolare nei confronti del dominio del sacro. Dall’età di Costantino c’è stata una modificazione genetica nell’assetto istituzionale ecclesiastico. Ma una linea di fedeltà al carattere ribelle del primo cristianesimo è stata mantenuta, pur con fatica e contraddizioni, nella storia di questi due millenni fino ad oggi da movimenti, correnti di pensiero critico e comunità di base. La liberazione dal dominio del sacro non si è mai interrotta. Ed oggi occorre forse ridarle forza e visibilità.
di Enzo Mazzi (il manifesto, 20 marzo 2010)
La pedofilia del clero è un fenomeno antico, come del resto la pedofilia intra-familiare. Se oggi emerge e fa scandalo non è necessariamente perché tale fenomeno si sia aggravato ma perché le vittime e i loro genitori hanno il coraggio di denunciare gli abusi. Si conferma ancora una volta il paradigma storico che da sempre anima i movimenti dal basso, le comunità di base e questo stesso giornale: la salvezza del mondo viene dalla forza delle vittime.
È grazie a loro, alle vittime coraggiose, che finalmente si è rivelata la fallibilità, reale umana, dell’«infallibile» supremo pontefice, il quale ha dovuto scusarsi, in qualche modo e mai abbastanza, firmando una lettera che riconosce la necessità di cambiare strada. È grazie a loro che molti vescovi, maestri, padri e dottori, hanno dovuto chinare il capo, perfino dimettersi e imparare a tornare uomini fragili scendendo dal piedistallo della sacralità. È grazie a loro che la Chiesa cattolica tutta, la quale si autodefinisce «indefettibile», ha mostrato il suo volto intimo più vero, di realtà defettibile, precaria, umana, ispirata dal messaggio e dalla testimonianza di un uomo che ha detto «se il seme non muore non porta frutto».
La pedofilia è un crimine e quella dei preti lo è a un livello di gravità e pericolosità particolarmente pesante. Il «sacro», cose sacre, persone sacre, luoghi e tempi sacri, proprio in quanto realtà separata tende ad annullare la sacralità dell’esistenza normale, esclude la sacralità del tutto e quindi è implicitamente e intrinsecamente fonte di violenza. Ma se il sacro si rende responsabile di esplicite forme di violenza, come nella pedofilia dei preti, allora la violenza esplicita e quella implicita si potenziano reciprocamente. Il colpevole di turno Gli episodi di pedofilia che stanno emergendo in tutto il mondo evidenziano contraddizioni e deficienze strutturali dell’istituzione Chiesa. È fuorviante scaricare tutto e solo sul colpevole di turno. Ognuno è responsabile delle proprie azioni e ne deve rispondere verso le vittime e verso la giustizia; ma la responsabilità individuale non assolve affatto le responsabilità dell’istituzione. Vari analisti del fenomeno della pedofilia nella Chiesa e lo stesso Benedetto XVI arrivano a parlare di tolleranza zero, utilizzando acriticamente il linguaggio della destra estrema, ma si guardano bene dal cercarne le radici nella struttura istituzionale ecclesiastica. Sarebbe invece proprio lì, nella struttura del sacro che andrebbe applicata la tolleranza zero.
È nota ormai la relazione che c’è fra il sesso e il potere. Già per i greci ed i romani il fallo era simbolo di potere. Nell’antica Roma non di rado le dimensioni e la forma del pene agevolavano la carriera politica e militare. Tutto ciò che si erige sembra essere un riferimento fallico. Gli obelischi, i campanili, le torri, il bastone del comando, lo scettro regale, il pastorale, la stessa mitria vescovile, che cosa sono se non simboli fallici? Non a caso nella Chiesa il potere è riservato rigidamente a chi possiede il sesso maschile e negato in assoluto alla donna. La pedofilia è interna a questo rapporto fra sesso e potere. Chi cerca il bambino o la bambina per soddisfare l’appetito sessuale lo fa per esprimere la propria sete di dominio verso una creatura fragile. È la sete di dominio la radice più profonda della pedofilia. Per cui combattere la pedofilia senza porre la scure alla radice non dico che è inutile ma certo è insufficiente. Ed è la sete di dominio che andrebbe sradicata dalla struttura del sacro. I fedeli, perenni bambini Fa ancora parte di una pastorale «normale», che avrebbe dovuto essere superata nel dopoconcilio ma non lo è affatto, il condizionamento di coscienze infantili attraverso l’imposizione di sensi di colpa che s’insinuano nel profondo e si trascinano inconsapevolmente per tutta la vita. Per non parlare degli indottrinamenti di un certo modo di fare catechesi e di insegnare religione nelle scuole, che è ancora purtroppo largamente maggioritario. Il Compendio del Catechismo pubblicato di recente dal Vaticano, a domande e risposte preconfezionate, da cui non emerge nemmeno un minimo di senso di ricerca, di autonomia, di coscienza critica, non è esso stesso un invito all’indottrinamento? Come una madre possessiva, sembra che Madre Chiesa voglia mantenere in una perenne condizione infantile i suoi figli, tanto li ama. Se non rischiasse di essere male interpretato, verrebbe voglia di chiamare tutto questo «pedofilia strutturale» della Chiesa, nel senso appunto di amore verso gli uomini e donne perennemente bambini. E la sacralizzazione del potere ecclesiastico, la teologia e la pastorale del disprezzo verso il corpo, il sesso e il piacere, la condanna di ogni forma di rapporto fra sessi che non sia consacrato dal matrimonio, non è tutto questo dominio violento?
C’è in questo momento la tendenza a puntare sulla concessione del matrimonio ai preti rendendo il celibato una scelta facoltativa e non definitiva. Ma è il sacerdozio in sé come casta sacrale detentrice di un potere derivante direttamente da Dio da porre in discussione. È tempo che si crei un grande movimento per restituire al cristianesimo il senso della liberazione dal sacro, in quanto realtà separata, liberazione non solo dalle oppressioni economiche e politiche, ma anche psicologiche, etiche-morali, simboliche. Forse non sparirà la pedofilia ma certo verrà colpita a fondo e non solo quella dei preti.
"Io, la religione e la lettura biblica"
di Marco Vannini (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come "animalesca": non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro - e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di "sinistro antigiudaismo"?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di "ebrei", senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre - bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità - invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. - e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di "farsi simili a Dio" nella giustizia. Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una conversione, di una "morte dell’anima", ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima - ed è su questo che il cristianesimo si è fondato - e che la mistica - unica vera erede della filosofia greca- ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo "gelido pessimismo", come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
Il coraggio e la solidarietà
di Giangiacomo Schiavi (Corriere della Sera/Milano, 7 gennaio 2010)
Per essere una città aperta non basta ricevere chiunque, da qualunque parte arrivi: bisogna saper accogliere, integrare, avere una cultura e un’identità, bisogna saper dare e anche prendere. Il cardinale Tettamanzi lo ricorda nel giorno dei migranti, con il Duomo gremito e due piccoli che suonano un violino: sono rom, e sciolgono il ghiaccio dal cuore di Milano.
Non hanno gli occhi spaventati dei bambini portati via dal campo nomadi di via Rubattino, ma come loro cercano in questa città uno sguardo solidale, un’attenzione diversa dal rancore e dall’ostilità. Tra noi ci sono buoni e cattivi, dice un ragazzo filippino, ma siamo visti come dei diversi: alcuni di noi non possono nemmeno andare a scuola. Aggiunge una giovane ecuadoregna: «Ti chiedo aiuto, caro don Dionigi, vorrei che papà e mamma mi insegnassero le cose che li hanno resi felici nella vita».
È nel suo simbolo più caro che bisogna cercare Milano. È nel Duomo e nel cardinale che la città si ritrova e fa sentire quell’umanità che a volte sembra smarrita. Sono crollate le vecchie ringhiere a Milano, quelle che intorno alle case portavano una solidarietà attiva, soprattutto nel bisogno. Ma non le abbiamo mai del tutto sostituite, per rendere meno difficile o tragica la sopportazione dei disagi, degli stenti, delle miserie della vita ai meno fortunati, che oggi sono sempre più stranieri, immigrati, e fra questi donne e bambini.
Non siamo riusciti a trovare qualcosa, come scriveva anni fa il grande Giovanni Testori, «che ci aiuti ancora a sopportare, non solo non facendo del male al prossimo nostro, ma facendosi reciprocamente del bene. Parole vecchie, usate, anzi, abusate? Ma non invecchiano, e turpemente, assai prima l’altre, quelle con cui abbiamo stabilito, come nostra corona, non già la milanese passione, bensì la nuova milanese indifferenza?».
È contro l’indifferenza che predica generosamente e con coraggio da mesi il cardinale Tettamanzi. Per farci guardare i poveri di Milano, gli immigrati, i senzatetto, gli emarginati, i disoccupati, oltre l’impressione del fastidio: invitandoci a riconoscere in loro una dignità e un’umanità troppe volte calpestata. Purtroppo ci sono cuori che non vogliono aprirsi, ha ripetuto ieri il cardinale, sfidando un’altra volta il muro di gomma che sembra avvolgere Milano. Ma richiamando anche i genitori migranti ai loro doveri, invitandoli a portare avanti i progetti educativi per la nuova società nella quale hanno scelto di vivere. Vanno aiutati a diventare nuovi milanesi.
Bisogna far emergere il meglio in ciascuno di noi, ha detto Tettamanzi. E cogliere i segnali di speranza e di fiducia che si vedono negli occhi dei bambini. Il violino dei piccoli rom in Duomo è anche questo. È una domanda forte, per tutti: cosa c’entrano i bambini con la sofferenza?
Se l’Italia fosse Bologna
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 8 gennaio 2010)
Ultimamente per una serie di motivi, anche letterari, mi capita di incontrare, sia in Italia che all’estero, molte persone che vengono dall’Eritrea.
Tutte le volte che mi chiedono dove abito io rispondo, per semplificare, che sto in un paese vicino a Bologna e quando lo dico - dico quella parola, Bologna - il mio interlocutore fa subito un sorriso e un cenno di assenso, anche se magari, a Bologna, non c’è mai stato. Bologna, mi dicono, è stata molto importante per gli eritrei durante gli anni in cui il loro paese era impegnato a combattere per l’indipendenza dall’Etiopia del regime sanguinario di Menghistu in una guerra che è durata trent’anni.
A Bologna molti fuoriusciti avevano trovato rifugio e ogni anno si teneva una grande festa, una specie di festival, che riuniva gli eritrei come in una seconda patria.
Oggi quella festa non c’è più e Bologna forse è meno importante in quel senso, ma il ricordo positivo di quel suono - Bologna! - è rimasto e quando dici ad un eritreo - anche negli Stati Uniti, come mi è capitato - che sei di quella città hai subito l’impressione di stargli più simpatico.
E siccome è una gran bella sensazione quella di stare istintivamente simpatico a qualcuno - perché è sempre molto più gratificante essere amati che odiati - ed è anche un buon punto di partenza per qualunque cosa, a me piacerebbe che anche quando dico che sono italiano chi mi sta davanti faccia lo stesso sorriso e lo stesso cenno di assenso.
Perché in Italia c’è stato bene - come turista, come lavoratore, come rifugiato, come persona e basta - e che per questo, guarda un po’ gli sto subito più simpatico.
Fachinelli
LA SUA ERA UNA GRAZIA RIVOLUZIONARIA INTRAMONTABILE
di Paulo Barone (il manifesto, 18.12.2009)
A vent’anni dalla morte, la figura di un ineguagliabile protagonista della psicoanalisi, capace di tradurre il suo sapere teorico in una serie di distinzioni vitali tra ideologia e teoria, individuo e collettività, bisogno e desiderio
Quando se ne parla, raramente il nome di Fachinelli circola da solo, con il semplice, puntuale riferimento ai suoi scritti. Quasi sempre si avverte la necessità di farlo subito seguire da una specie di sottotitolo, da una ulteriore, lapidaria indicazione, da una sorta di avvertenza preliminare. Di solito questa nota di accompagnamento recita: una voce isolata, originale, «inattuale».
L’ambiguità di questa formula accattivante è palese. Mentre da un lato sembra celebrarla, dall’altro essa corre il rischio di estrometterla anticipatamente da ogni forma di ascolto, e, nei fatti, di zittirla. Difficile, tuttavia, stabilire con certezza se la sorte toccata al pensiero di Fachinelli - a venti anni dalla morte - sia stata effettivamente quella di una dorata sepoltura (alla odierna confusione generale, infatti, il laboratorio italiano aggiunge - come già nel fascismo - una quota di decomposizione tutta speciale). Comunque sia, la presunta eccentricità di Fachinelli è presto detta.
Elogio della frattura
Il suo primo libro, per esempio, Il bambino dalle uova d’oro, lascia ammirati tanta è la ricchezza dei temi, degli autori, degli incroci, presentati. Nato come raccolta di interventi pubblicati dal 1965 in varie sedi (tra cui Il corpo, Quaderni piacentini, L’erba voglio), ospita inediti d’eccezione, tradotti allora per la prima volta dallo stesso Fachinelli: La negazione di Freud, Materialismo dialettico e psicoanalisi di Reich, Programma per un teatro proletario di bambini di Benjamin. Vi compare un testo di una giovane psicotica, Rose Thé, il resoconto della partecipazione a un contro-corso universitario tenuto a Trento nel ’68 sul senso del «gruppo»; le riflessioni sull’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano; certe incursioni in Jung e Lacan. Ma che cos’è che - al di là di quella irripetibile stagione sociale, politica, culturale di cui il libro è di sicuro espressione - gli permette di intrecciare, in modo così inconsueto e per così dire naturale, sottili ragionamenti teorici e il testo di una psicotica, il fenomeno del travestitismo e l’osservazione dei bambini, il corpo e i movimenti di contestazione? Di condensare, insomma, così tanta aria, così tanto mondo? La risposta più convincente e promettente va rintracciata nella «premessa» del libro (sempre le «premesse» di Fachinelli anticipano, in modo fulmineo, la chiave operativa del lavoro poi svolto), laddove si parla di un «libro fratturato», «che non cela le proprie fratture».
È dunque l’idea di frattura, di interruzione, l’operatore segreto (e costante sino alla fine) che consente a Fachinelli di distinguere, per esempio, ideologia e teoria, individuo e collettivo, bisogno e desiderio, rompendo quel blocco tradizionale di sapere (e di potere) che tiene invece ogni coppia divisa in due, salvo poi saldare meccanicamente l’un termine all’altro e congelare così l’esperienza. Persino marxismo e psicoanalisi finiscono con l’alimentare un simile blocco. Il primo impigliato nell’idea di un «progressismo a vapore», secondo cui gli individui seguiranno il «Cammino della Storia» e l’uomo nuovo nascerà con l’avvento del socialismo; la seconda diventata una specie di «nebulosa in continua espansione», che penetra in ogni fessura della «società industriale avanzata», inaspettatamente chiamata a ricucirne gli strappi tramite «risposte» più o meno rassicuranti che assecondano la tendenza, già prevalente, alla passività e alla soggezione. Ma per Fachinelli, a caratterizzare davvero l’esperienza, a renderla vitale e degna di questo nome, è quel po’ di novità, di creatività, di grazia rivoluzionaria che essa contiene. Dunque qualcosa di precario, di fragile, che rischia velocemente di degenerare, di andare perduto. Qualcosa, perciò, che uno sguardo teorico autentico, orientato a una determinata pratica, riesce a cogliere solo di sfuggita, aporeticamente, come un elemento anomalo, marginale, «irregolare e aritmico», come un punto vuoto, un che di letteralmente incollocabile, utopico, «senza fissa dimora».
Se c’è un magnete che attrae, e intorno a cui gravita, l’intera ricerca di Fachinelli, sino alle tesi più controverse dell’ultimo libro La mente estatica, esso è costituito proprio da questo elemento sfuggente, incontenibile. Per rivendicarne l’esistenza non occorre far ricorso a un ottimismo di maniera, che minimizza la spietata insensatezza delle cose. Sebbene tutto nella vita pare soggetto a ripetersi, a riprodurre con dolorosa monotonia certi traumi iniziali, Fachinelli - lavorando a fondo sul Freud dell’Al di là del principio di piacere - mostra come alla radice della ripetizione viga un paradosso irresolubile, in base al quale, accanto alle repliche cieche e alle versioni ridotte, sta anche l’opportunità - magari solo istantanea - di una ripresa, di un’alternativa, di una variazione del tema.
Si chiarisce così che tale nucleo incandescente dell’esperienza è sempre più una questione di tempo. Ma mentre da principio Fachinelli lascia intendere che a pregiudicarne il libero accesso sarebbero tutte quelle pratiche che si istituzionalizzano provando a inscriverlo in una serie e a organizzarlo in una trama, via via egli propenderà per l’idea di una sua ingestibilità, completa e radicale. Nella Freccia ferma egli ci indica vari modi di annullare - appunto - il tempo: quello contrappuntistico dell’individuo ossessivo, quello circolare della società arcaica, quello mortifero del fascismo; e, in Claustrofilia, quello interminabilmente allungato e sostanzialmente immobile della pratica psicoanalitica. Eppure, proprio dalla correlazione di queste differenti modalità temporali risulta non più sostenibile il proposito di ordinarle secondo una loro presunta gerarchia di valore (dal meno del tempo statico-regressivo del primitivo al più del tempo dinamico-progressivo del moderno) o secondo un loro puro avvicendamento storico. Queste opposte fisionomie temporali tendono piuttosto a concomitare in un apice intensivo, in una micro-oscillazione sacra ed estatica del tempo.
L’iperbole conclusiva
Per accedere a un simile tempuscolo può bastare una «teoria del discontinuo»? Quale vita potrebbe uscirne cambiata se è la vita stessa - una vita qualsiasi nella sua durata estensiva, nel suo ordinario tessuto narrativo - a perdere intrinsecamente la possibilità di questo contatto? Non è tutta la nostra cultura programmaticamente orientata a rafforzarci, a erigere delle difese nei confronti di ciò che estraneo e sconosciuto, a puntare sull’Io, a farci scambiare l’eccesso di gioia con il dolore e la paura? Una gioia in eccesso sganciata dalle religioni, dall’eternità, da qualunque forma di continuità.
Un’illuminazione profana collegata invece con l’effimero, con la recettività, l’accoglimento, la creatività. Fedele alle sue premesse, il tragitto di Fachinelli si conclude all’insù, come un’iperbole, con una sfida tanto impossibile quanto improrogabile. Bizzarro, in fondo, per un uomo del quale si può dire che fosse, al pari di Benjamin, «sensibile alle speranze come un reumatico alle correnti d’aria».
Dal femminismo alle veline
-«Così abbiamo rivoltato il significato delle parole»
di Marisa Ombra *
Ragioni anagrafiche mi portano a guardare al fenomeno delle veline partendo da molto lontano, niente meno che dalla guerra e dalla Resistenza. D’altra parte quello è l’inizio, ed è da quell’inizio che occorre partire per misurare la portata di ciò che sta accadendo di questi tempi. In quegli anni infatti comincia - o meglio riprende, dopo il fascismo - la lunga marcia delle donne per ottenere la cittadinanza in questo Paese (a questo riguardo consiglierei la lettura del bel libro di Bianca Guidetti Serra «Bianca la rossa»). Sarebbero occorsi decenni. Avremmo ottenuto diritti ed eguaglianza, libertà e posto nel mondo. Non avremmo aspettato che le leggi cadessero dall’alto, avremmo costruito la cittadinanza conquistando postazioni in ogni piega della società, assumendoci responsabilità e diventando parte essenziale del tessuto che fa funzionare la cosa pubblica. Un Paese arcaico e un po’ bigotto sarebbe diventato, per nostro principale merito, aperto e civile. Per chi è nata politicamente in quei lontani anni ed è stata parte di questo faticoso ma felice cammino, l’oggi si presenta di una tristezza infinita. Grande anche la delusione per quello che già viene descritto come «il silenzio delle donne». Di questo vorrei parlare.
Credo che tutte siamo rimaste attonite davanti all’operazione culturale che si è svolta sotto i nostri occhi: una operazione che, se non ha cancellato, ha sicuramente stravolto buona parte dell’impianto teorico che ha accompagnato il movimento politico delle donne. Le parole chiave sono state rivoltate. Scoperta del corpo, liberazione sessuale, affermazione di sé, autonomia, identità, desiderio, eguaglianza, differenza, eccetera, hanno preso significati opposti. L’affermazione orgogliosa «il corpo è mio e lo gestisco io» per esempio. Intendeva dire la vergogna e chiudere con l’antica figura della donna oggetto, riposo del guerriero, «regalo fatto da Dio agli uomini ». Era sembrata una svolta irreversibile, l’affermazione di un nuovo senso comune.
Non si può dire che le donne non si siano impossessate del proprio corpo. Per farne cosa? Donne immagine e prostitute di lusso hanno fatto di sé una nuova moderna (?) figura del mercato, che procede attraverso l’oculato bilanciamento dei costi e dei profitti, il dosaggio fra servilismo e pretesa di compensi dissociati da ogni personale competenza. Il corpo è diventato impresa da mettere a frutto. Direi che il ritorno indietro è ancora più mortificante del già vissuto. Perché in questa contrattazione uno dei due contraenti ha il potere (anche quando è piccolo potere), l’altra mette sulla bilancia una proprietà massimamente effimera. È questo che volevamo? Com’è potuto accadere? La tendenza non sarebbe inquietante se l’ambizione di avere visibilità e successo attraversoun perverso mercanteggiamento, non fosse diventata l’orizzonte di buona parte di una generazione, il senso stesso della vita, dell’essere donna («mi sento velina dentro» risponde una ragazza all’intervistatrice). E se le ragazze in corsa non fossero spesso accompagnate dalle madri: madri giovani, che hanno visto passare sotto i loro occhi, forse addirittura attraversato, il femminismo.
Da una signora che probabilmente non ha attraversato il femminismo, è venuta una parola che aveva contato molto per le donne di un’epoca segnata dalla soggezione e dall’esclusione: dignità. Avendo nella mente e nel cuore quella parola, una generazione è arrivata a raddrizzare la schiena ed hacominciato a risalire verso la libertà. Ciò che oggi comunica smarrimento e sensazione di impotenza è la perdita di questo sentimento. Perché l’uso programmato del corpo implica una tensione di tutto l’essere, cervello compreso; occupa l’anima. Si realizza così un paradosso: l’autonomia, la capacità di decidere del proprio destino, viene cercata attraverso l’asservimento volontario e la perdita della dignità. Molte di noi, credo, in questi mesi si sono fatte domande e hanno provato vergogna. Sono convinta che quel che manca è la presa di parola collettiva, se non altro per non far mancare una rappresentazione diversa di ciò che una donna vuole e può fare.
* l’Unità, 06 ottobre 2009