LE REGOLE PER DIVENTARE BRAVE (E INFELICI) RAGAZZE
di Susanna Cernotti e Eleonora Cirant*
Ogni donna ha una storia da raccontare, la propria storia unica ed irripetibile eppure simile a quella delle altre donne, di ogni latitudine e Paese. E’ la storia di ciò accade quando devi scegliere se essere una brava ragazza o una cattiva ragazza. Accade nel passaggio dall’infanzia all’età adulta e si reitera per tutta la vita, a meno che qualcosa intervenga a farti accorgere della terza via: essere te stessa.
Esiste un codice per le brave ragazze. Una brava ragazza non la da via facilmente, altrimenti è una troietta. Tuttavia, una brava ragazza non deve rimanere vergine troppo a lungo, altrimenti è una sfigata. Una brava ragazza conosce la moda e cerca di seguirne i fondamenti fino all’ultimo accessorio. Ma una brava ragazza evita di andare in giro con la pancia di fuori e la minigonna, perché se poi viene stuprata, se lo è cercato. Una brava ragazza controlla assiduamente il proprio peso ed ha orrore della cellulite. Una brava ragazza non si fa problemi con il cibo e segue una dieta sana. Una brava ragazza è “intraprendente”, ma senza impaurire i ragazzi con eccesso di iniziativa e protagonismo. Una brava ragazza deve evitare di mostrarsi seducente e sicura di sé, quando poi non è neanche capace di fare un pompino. Una brava ragazza studia all’università ed ottiene ottimi risultati nello sport. Una brava ragazza dichiara il proprio sogno di mettere su famiglia e avere dei bambini. Ci sono ragazze da scopare e ragazze da amare. Con le prime ci si sfoga e si sperimenta, delle seconde è preferibile mantenere la purezza. Non è strano che una ragazza abbia esperienze sessuali sia con donne che con uomini. E tuttavia se nel gruppo una ragazza, ostinatamente, non ci sta con nessuno, allora non c’è dubbio: è lesbica!
Sei libera di scegliere il tuo life-style - inteso come canone di auto-rappresentazione basato sulla combinazione di vestiario, gadget, pettinatura, musica ascoltata, personaggio preferito - ma le regole della brava ragazza sono uguali per tutte. Tanto ferree, quanto contradditorie. Devo essere seducente o remissiva? Posto che l’obiettivo è conquistare un maschio e difendere la conquista dalle altre predatrici, la risposta è: una sapiente ed equilibrata via di mezzo. Il prontuario per le regole della brava ragazza non è da nessuna parte ed è ovunque. Basta aprire un giornale per adolescenti (o per adulte) o fare una passeggiata virtuale nei forum frequentati da ragazze e ragazzi (una delle risorse che abbiamo consultato recentemente è www.girlpower.it).
“Né puttane né madonne, siamo donne”, è una vecchia storia mai archiviata, più attuale che mai. C’è ancora bisogno di gridarlo con l’urlo prorompente e collettivo che uscì dalla pancia e dalla gola delle donne nei ruggenti anni Settanta? Gridarlo, no. I tempi cambiano. Anche quando sono “cattive”, le ragazze di oggi lo sono in modo educato e non conflittuale. Senza fare rumore. Senza rabbia, dicono, e senza disagio.
Eppure le ragazze escono dal silenzio, oggi come ieri, parlando fra loro. Il parlarsi tra donne rompe l’ostilità e tesse complicità tra le medesime. Per questo è ancora un gesto dirompente, ovunque sia realizzato. A Milano le ragazze del gruppo “Le Barricate” già si conoscevano, ma hanno iniziato a riunirsi per parlare tra loro sulla scia della manifestazione milanese del 14 gennaio. Siamo a Quarto Oggiaro, nello Spazio Baluardo, laboratorio genuino di autogestione giovanile nato nell’anarchia della periferia milanese. Sullo sfondo il silenzio di un parco amato e una villa settecentesca in rovina, come i palazzi a cui si fa ritorno dopo la mezzanotte. Le Barricate... perché “tutta la vita di una donna è una continua Resistenza”. Nel “chiacchiericcio” che accompagna le riunioni si sono concesse di poter “gettare la maschera” e considerare l’altra donna non come una rivale con cui essere in competizione, ma come una persona che ha una storia simile alla propria. Per questo “qualcosa in noi è già cambiato”, dice Saba, del gruppo.
Si comincia col parlare della precarietà del lavoro e inevitabilmente si finisce con la precarietà delle relazioni affettive, le proprie. Il pubblico cede il posto al privato e il privato si rivela pubblico. L’uomo non è mai all’altezza, poco sensibile, troppo individualista, non ascolta, da per scontato il tuo amore, la tua presenza (solo se richiesta), il sesso. Da anche per scontato il tuo orgasmo che mai arriva, ma per lo più lo ignora, nella rapidità di un sesso bulimico. Al proprio fidanzato non si confessa di fingere. Ne avete mai parlato insieme? “No, non si deve offenderlo”. Questi uomini sono anche fragili e permalosi. Alle single non va meglio. Incontri rapidi e sbrigativi, che si trascinano al massimo per qualche settimana, lasciandoti la sensazione di un altro fallimento. Eri la seconda di tre fidanzate gestite contemporaneamente. La masturbazione è spesso un sostituto più che accettabile. Quelle che cercano affetto in un’amicizia intima con altre ragazze sono presto chiamate “kugine”, lesbiche. La maternità è una possibilità, ma remota, o non è semplicemente in discussione. C’è tempo. Valentina, 24 anni, universitaria aspirante sociologa. Un quaderno di viaggio sempre in borsa, ha alle spalle un esempio di certezza, una madre realizzata professionalmente che non ha rinunciato a crescere tre figli. Quindi è possibile, ma prima ci sono gli studi e l’indipendenza economica, premessa irrinunciabile ad un rapporto paritario col proprio compagno. Beh, paritario non proprio. Per le altre, la maternità è quella schiavitù che ti obbligherà a dimenarti tra i pannolini del bambino e i calzini sporchi del marito. E lui non ci sarà, perché starà facendo carriera al lavoro, mentre la tua laurea marcirà nel cassetto. Gli esempi non mancano certo in famiglia e nella società. I ragazzi alle fontane del parco non smentiscono: “quando verrà il momento, cercherò la donna ‘giusta’, mi sposerò e lei sarà la regina della casa”, a casa naturalmente.
Durante una riunione del collettivo sfogliamo qualche giornale, costosissimo, per ragazze adolescenti per capire da dove ha origine il domino autodistruttivo del rispetto e della dignità tra i sessi. In prima pagina c’è un richiamo all’inserto hot: “cosa c’è nei loro pantaloni?”. Una sorta di manuale per ragazzine alle prime armi dove si insegna a non prendere iniziative a letto per non turbare la mascolinità del tuo Lui. Alla terza volta che fai l’amore, devi invece sorprenderlo e dare prova di fantasia, intraprendenza, prestazione. Lui è perfetto così com’è, naturalmente. Poi pagine e pagine di pancini lisci, magri e nudi, incorniciati in magliettine tassativamente rosa, perché sia chiaro che sei femmina. E se non ti è chiaro, basta fare gli esercizi rigeneranti al mattino, la maschera per i capelli al pomeriggio mentre le unghie vengono squadrate alla francese. Le unghie sono importanti perché mentre prenderai l’aperitivo, lui ti noterà le mani che dovranno dire tutto sulla tua personalità. Agghiacciante.
Disordine emotivo, sesso di consumo, abuso di droghe potenzianti, modelli di relazione stereotipati che impongono alla donna un ruolo di vittima, passività. Colei che si oppone è lesbica o acida. Colui che si oppone è un po’ strano, ma interessante. Proviamo ad indagare meglio ed una sera proponiamo una discussione comune, ragazzi e ragazze, su sessualità e modelli imposti o presunti tali. Apriamo il vaso di pandora.
M., 20 anni, parla del modello di uomo a cui crede che le donne ambiscano: una sorta di palestrato depilato che ti scopa nel cesso della discoteca per un’ora a fila senza sosta e senza indugio. Le ragazze scoppiano a ridere. Prosegue. Esistono due categorie di ragazze, quelle con cui ti “svuoti” il sabato sera e quelle con cui ti metti insieme. Con le prime ti svuoti e basta perché se te l’ha data già la prima sera, vuol dire che l’ha data a molti altri. Chiedo se non sia lecito per una ragazza sperimentare il proprio corpo e la propria sessualità senza che segua un giudizio così pesante. Risposta: “forse, ma io non mi ci metto insieme”. Come volevasi dimostrare: o madonne o puttane.
P., 26 anni, ammette di aver provato degli stimolanti sessuali per essere più prestante. Ricorre molto nei ragazzi l’idea che il rapporto sessuale sia una sorta di esame di maturità, ove una donna ormai emancipata e pretenziosa ti aspetta al varco con righello e cronometro. G., 24 anni, ammette che il sesso per lui è un gioco di potere dove poter esercitare un ruolo di dominatore. Ci togliamo uno sfizio e parliamo della finzione dell’orgasmo femminile. Negano. A loro non è mai successo. Sdegno delle ragazze e accuse reciproche: i ragazzi dovrebbero essere più sensibili e capirlo da soli, le ragazze invece sono delle cretine a non dirlo chiaramente, per cui se non sono loro per prime a mostrare sincerità e complicità, perché dovrebbero preoccuparsene i ragazzi?
La parola, circolando, permette il riconoscimento reciproco e rompe l’omertà rispetto ad una condizione di costrizione che si realizza per le donne come per gli uomini e che, per le donne, ha un passaggio cruciale nell’adolescenza: “poiché l’iniziazione delle ragazze al mondo delle donne cattive e di quelle buone tende ad avvenire durante l’adolescenza, quando il loro corpo diventa un corpo di donna e pertanto oggetto di attenzione e desiderio da parte degli uomini; poiché l’iniziazione dei ragazzi alla mascolinità avviene di norma assai prima nel corso dell’infanzia, le ragazze che s’innamorano di un ragazzo percepiscono di entrare in un mondo nel quale i ragazzi hanno già trovato un loro adattamento: un mondo interno lacerato dalla divisione e fondato sui codici dell’onore e della castità. [...] L’apertura a una relazionalità fiduciosa è bloccata dal timore che, se rivelano parti di sé ritenute non conformi alla femminilità o alla mascolinità, dovranno rinunciare all’amore e all’intimità che desiderano così intensamente” (Carol Gilligan, “La nascita del piacere”).
La scoperta sconvolgente del femminismo è in questo nocciolo di esperienza: la parola circolante, come sangue nel corpo, porta nutrimento, ossigeno, rinnovamento della vita. Chi l’ha provata, lo sa. Forse ci occorrono parole nuove per nominarne il senso politico. Ma l’atto di liberazione sta, semplicemente, nel viverla. E trarne le debite conseguenze, cioè riconoscere e modificare a partire da sé i canoni di mascolinità e femminilità che strutturano l’ordine patriarcale delle relazioni tra i sessi. Altrimenti, per quante donne vi partecipino, neppure la politica istituzionale cambierà mai volto. Come ricordava Lea Melandri nell’assemblea milanese di usciamo dal silenzio del 24 maggio, “si capisce bene allora perché poi sia necessario un “Ufficio delle vittime”: le case, gravate di tutte le miserie della società, non possono che trasformarsi, come del resto già sono, in mattatoi. Così la donna a cui, come sembra diventato d’uso, sarà stata tagliata la testa, potrà sempre ricorrere all’ascolto di Madre Letizia che vedrà miracolosamente di riattaccargliela!”.
Ma come faremo mai noi donne a prendere parola pubblica se non abbiamo il coraggio di prenderla neppure in camera da letto?
Susanna Cernotti e Eleonora Cirant
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Carol Gilligan, “La nascita del piacere”, Einaudi 2002
Intervento di Lea Melandri all’assemblea all’Umanitaria del 24 maggio 2006, www.universitadelledonne.it/femminismi
Susan Bordo, “Il peso del corpo”, Feltrinelli 1997
FONTE:
Liberazione, domenica 4 giugno 2006. Inserto QUEER, n. V "I nostri burqa";
www.universitadelledonne/pensiamoci;
www.eleonoracirant.it.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA".
CON DANTE ALIGHIERI, UN PASSO FUORI DALLA RAGNATELA "OLIMPICA" DELLA #TRAGEDIA...
ANTROPOLOGIA, ARTE, COMUNICAZIONE, LINGUISTICA, PSICOANALISI, E FILOSOFIA. Quella di Louise Bourgeois è, a mio parere, una lezione di #antropologia culturale che manda in frantumi la piramide "androcentrica" del #Sapiente (1509-1510) di #Bovillus (v. allegato), e, con essa, in "pensione" la "#ScuoladiAtene" di #Raffaello (1509-1511), grandi "manifesti" di "propaganda e fede" della tradizione teologico-politica occidentale (e non solo) e sollecita a riequilibrare il campo della #relazione antropologica e a rendere giustizia alla arte critica di ogni mitica "Aracne" (#Ovidio, "Metamorfosi").
DIVINA COMMEDIA. Dante Alighieri aveva capito: "In principio era il #Logos", non un #Logo, ed è "l’amor che move il Sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145).
NOTE:
#ACHEGIOCOGIOCHIAMO?! #TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA.
#EUROPA #SPAGNA #DUE ANNI DOPO LA MORTE DI #CARLOV nel 1560, in #Italia, a #Roma si pubblica il testo di #Anatomia di #GiovanniValverde: si riconosce il ruolo attivo della donna nella #concezione del problema #comenasconoibambini
La sollecitazione di #Michelangelo (1512), #GiovanniValverde (1560), #LuigiCancrini (2005) e #MarioDraghi (2021) a finirla con "il farisaico rispetto della #legge"
#VITAEFILOSOFIA. #COMENASCONOIBAMBINI (#ENZOPACI). Fermare il #giogo, #uscire dall’orizzonte della #tragedia e imparare a #contare
FLS
Cattive ragazze: storie di donne audaci e creative
di Monica D’Ascenzo (Il Sole-24 ore, 18 Gennaio 2017)
Puntavano a raccogliere 40mila dollari, ad oggi hanno superato quota 675mila dollari. Elena Favilli e Francesca Cavallo, con la startup Timbuktu, hanno sbancato nel crowdfunding di idee editoriali lanciate su Kickstarter. Il progetto è Good night stories for rebel girls, pensato per ispirare le bambine attraverso le biografie di 100 donne illustri, dalla regina Elisabetta I alla tennista Serena Williams, narrate come favole della buona notte. Alla composizione del libro parteciperanno 100 illustratrici da ogni parte del mondo.
Nella stessa direzione era andata un’altra iniziativa editoriale, di tre anni prima, che potete trovare ancora nelle librerie: “Cattive ragazze: 15 storie di donne audaci e creative”, graphic novel scritta da Assia Petricelli e illustrata da Sergio Riccardi. “Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate” sottolinea Assia. E non ha tutti i torti. Basta sfogliare i libri su cui studiano i ragazzi per rendersene conto. O girare per le strade delle città, generalmente tutte al maschile.
Come è nata l’idea del libro?
Le questioni di genere e la storia delle donne mi interessano da tempo, ma la scintilla che ha acceso l’idea di “Cattive ragazze” è nata per caso, da un incontro con Della Passarelli di Sinnos Editrice, all’epoca in cerca di progetti per una nuova collana di graphic novel per ragazzi. Sergio e io, che già lavoravamo insieme, non avevamo mai pensato ad un fumetto per ragazzi, però ci piaceva quello che faceva la Sinnos e così abbiamo cominciato a ragionarci su ed è nata l’idea di raccontare biografie di donne realmente vissute che avessero messo in discussione ruoli e stereotipi femminili. Donne forti, ribelli, protagoniste delle proprie vite. E soprattutto donne che alla fine ce la fanno, che non sono vittime. Di storie così ce ne sono tante, ma sono poco conosciute.
Basta sfogliare un manuale scolastico per farsi l’idea che per millenni il genere femminile non abbia fatto altro che accudire mariti, figli e case. Ma non è vero. Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate. Con “Cattive ragazze” volevo rendere giustizia ad alcune di queste figure e offrire alle giovani di oggi delle narrazioni che le aiutassero ad acquisire fiducia in se stesse e nella possibilità di essere quelle che vogliono, al di là degli stereotipi. Per raggiungerle abbiamo scelto una forma che fosse il più possibile semplice e accattivante.
Come hai scelto le 15 storie da raccontare?
Il filo rosso che lega le 15 biografie è riassunto nel sottotitolo del libro, donne “audaci” e “creative”, capaci di inventare per se stesse e per le altre che sono venute dopo un ruolo diverso da quello che la cultura patriarcale imponeva loro. Sulla base di questa premessa mi sono messa a cercare e ho incontrato decine di storie fantastiche. Scegliere non è stato affatto facile. Ho privilegiato le vicende meno note e, anche quando ho incluse figure celebri, l’ho fatto perché mi interessavano alcuni aspetti non particolarmente conosciuti: ad esempio il modernissimo rapporto tra Marie Curie e suo marito Pierre.
Inoltre ho prestato molta attenzione alla varietà, volevo restituire il senso di una ricchezza di possibilità, e così abbiamo l’artista, la giornalista, l’attivista politica e così via, ma anche una varietà di appartenenze culturali e geografiche. Non volevo cadere nella trappola di una narrazione troppo centrata sull’Occidente, che sarebbe stata menzognera e fuorviante: in particolare negli ultimi anni le donne del cosiddetto “Sud del mondo” sono state protagoniste di straordinari movimenti di liberazione. Infine ho inserito figure di donne che hanno partecipato a grandi processi collettivi, perché il mondo non si cambia da soli, ma sempre insieme ad altre e ad altri.
Il progetto ha avuto un seguito?
Da quando sono state pubblicate, le “Cattive ragazze” non si sono mai fermate. Hanno dato vita a uno spettacolo teatrale, a una mostra e sono state il motore di un progetto di ricerca e di educazione alle differenze che ha coinvolto studenti e studentesse dal Nord al Sud del paese. Se invece ti riferisci alla possibilità di realizzare un Cattive ragazze 2, per il momento non abbiamo questa intenzione; preferiamo che il nostro libro funga da stimolo affinché altri e altre vadano alla ricerca e raccontino le proprie cattive ragazze, è quello che facciamo nelle scuole. Noi ci riserviamo di tornare presto a parlare di donne, di identità e relazioni, ma con progetti nuovi e diversi da “Cattive ragazze”.
Cosa ti piacerebbe ne traessero le adolescenti di oggi?
La fiducia nelle proprie risorse e la forza per costruire se stesse e la propria storia senza farsela dettare da nessuno, così come hanno fatto le protagoniste del nostro libro. Se ci sono riuscite loro, possiamo farcela tutte.
Le donne, il piacere: cosa è successo
La pillola, legale in Italia da 45 anni, ha rivoluzionato la sessualità femminile. Ma la strada è ancora lunga, tra conquiste ed errori
di Elena Tebano (Corriere della Sera, 05.09.2016)
La sessualità femminile in Italia ha una data di nascita ufficiale (e recente): 1971. È il 16 marzo di 45 anni fa quando la contraccezione smette di essere un reato - contro la stirpe, per altro: la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’articolo 553 del Codice penale introdotto dal Fascismo che puniva chiunque incitasse all’uso degli anticoncezionali. La pillola, comparsa nelle borse delle donne già dagli anni 60, diventa legale e permette alle italiane di far sesso per il piacere di farlo senza rischiare di avere figli che non vogliono.
L’estate di quello stesso anno Carla Lonzi, raffinata (e oggi spesso dimenticata) teorica del femminismo, pubblica «La donna clitoridea e la donna vaginale» per la casa editrice del gruppo Rivolta femminile. Sessantaquattro pagine in cui sostiene che il vero orgasmo è quello che si ottiene con la stimolazione del clitoride e non quello che deriva dalla penetrazione, e afferma che la cultura maschile ha intrappolato le donne in un mito per molte irraggiungibile. Una distinzione che fornisce un grimaldello psicologico alla lotta delle donne: il clitoride «diventa l’organo in base al quale “la natura” autorizza e sollecita un tipo di sessualità non procreativa», scrive Lonzi, che denuncia «nella colonizzazione sessuale la condizione di base dell’indebolimento e dell’assogettamento della donna». La critica della sessualità e la ricerca di una sua espressione autentica diventano uno dei cardini del movimento femminista, articolate e rivissute quotidianamente nei gruppi di autocoscienza. È una rivoluzione copernicana.
«Prima del femminismo una donna per bene non doveva provar piacere: doveva adeguarsi a quello maschile e magari diventare madre. Se perseguiva il proprio piacere era considerata perduta. La generazione di mia madre parlava del sesso come un fastidio inevitabile che si poteva superare perché ci si voleva bene - racconta Barbara Mapelli, studiosa e scrittrice che a quella stagione ha preso parte -. Per noi, che avevamo tutte tra i 20 e i 30 anni e avevamo già avuto figli, era ovvio partire da lì: ci rendevamo conto che la sessualità socialmente e culturalmente imposta negava il nostro desiderio».
Quarantacinque anni sono poca cosa nella storia dell’umanità, eppure quei tempi non potrebbero sembrare più lontani. Che cosa resta adesso di quel tentativo? Il movimento femminista ha davvero contribuito alla liberazione sessuale delle donne? E c’è ancora bisogno di una riflessione sulle forme e i modi della sessualità?
Se da un lato nessuno (almeno in Italia e in Occidente) può più mettere in discussione il diritto delle donne al piacere nel sesso, dall’altro sembrano ormai altrettanto inaccettabili alcuni eccessi di quegli anni. «Il nostro errore - spiega ancora Mapelli - è stato pensare che con il pensiero si possano immediatamente mutare i comportamenti. Noi li cambiavamo ma così finivamo per esasperarli e perdevamo autenticità».
Oggi è dunque scomparsa l’idea che esista un tipo più vero (o libero) di orgasmo. Ed è sparita anche quella - sostenuta dalle teoriche radicali americane degli anni 70 Catharine MacKinnon e Andrea Dowrkin - che le donne nel sesso vengano inevitabilmente ridotte a oggetti del piacere maschile, una reificazione che le priverebbe di umanità e da lì finirebbe per definire tutta la condizione femminile.
Su questo tema ha scritto pagine bellissime la filosofa Martha Nussbaum che in un saggio del 1995 «Persona oggetto» (pubblicato in Italia due anni fa da Erickson) spiega come in condizioni di parità e di rispetto reciproco uno degli aspetti «meravigliosi» del sesso sia trattarsi a vicenda come oggetti di desiderio e piacere e perdere l’autosufficienza e il controllo che caratterizzano gli altri ambiti della nostra esistenza.
Ma se le donne godono di maggiore libertà non significa che la sessualità sia «finalmente» libera o autentica. Il problema è soprattutto quello che Roberto Todella, sessuologo e presidente del Centro interdisciplinare per la ricerca e la formazione in sessuologia chiama «modello prestazionale» su cui uomini e donne tendono a valutare se stessi e ciò che fanno a letto.
«L’attenzione al piacere, anche da parte delle donne, è diventata centrale, ma sempre più spesso viene misurata sull’immaginario della pornografia con la sua insistenza su posizioni, intensità, ruoli stereotipati - dice Todella -. In questo scenario la donna è sempre disponibile e sembra godere qualunque cosa le venga fatta, l’uomo deve essere prima di tutto forte, prestante, impositivo. Se il sesso diventa imitazione di un repertorio precostituito, però, non è più un’esperienza, non passa attraverso la conoscenza di sé e si deforma per aderire a un copione scritto da altri. Smette di rappresentarci».
Una tendenza evidentissima secondo Yasmin Incretolli, scrittrice 22enne che in «Mescolo tutto» (Tunuè, 2016) ha raccontato anche la centralità del sesso (spesso mal vissuto) nella sua generazione. «La rivoluzione sessuale ormai è sdoganata - afferma -, ma spesso il sesso viene vissuto come se fosse un mantra, in modo ritualistico ed estremizzato». Anche perché manca una vera educazione alle sessualità a scuola e da parte di molti genitori: «L’insegnante per i maschi è Internet, la pornografia. I maestri delle ragazze sono i ragazzi che si scelgono: anche per loro c’è un nesso con il porno, filtrato però dai gusti del loro compagno, che è anche peggio. Il sesso dovrebbe essere scoperta di sé, non un’ospitata nel mondo maschile».
Non è un caso che tra i temi dei nuovi femminismi ci sia la riappropriazione in chiave emancipatoria della pornografia: «I movimenti del post porno hanno dimostrato che è possibile una pornografia diversa, che non riproduca le medesime strutture di potere della società che mette a nudo, in cui l’uomo sta sopra e la donna sotto, in tutti i sensi», dice Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di «Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio» (Eir, 2014).
È solo uno dei tentativi delle nuove generazioni femministe di riprendere la questione sessuale, «che rimane rilevante e viene declinata da vari punti di vista - rileva Bonomi Romagnoli -, dalle ragazze del Sexishock che nel 2001 mettono al centro del loro discorso politico la parola “desiderio” e aprono il primo sexy shop autogestito da donne per donne in Italia, ai femminismi più radicali che pongono in maniera problematica la questione dell’identità sessuale, sostenendo che è fluida e non classificabile una volta per sempre.
Il femminismo d’altronde non può non occuparsi di sesso, perché di fatto un sesso ha ancora potere su un altro, perché si continua a voler dettare norme sulle sue pratiche (vedi il «fertilityday») e perché le relazioni e i rapporti sociali ci sono a partire dai rapporti di forza fra i generi. Affinché siano sane è necessario che la sessualità attenga alla consapevolezza e autodeterminazione dei singoli». Con una consapevolezza nuova rispetto agli anni 70: la ricerca di una sessualità più autentica è una liberazione non solo per le donne ma anche per gli uomini.
Blog, Maschile/Femminile, DONNE E UOMINI, POLITICA 29 settembre 2013
Sovrane e libere dal potere
di Marina Terragni *
Ogni anno a Kathmandu, Nepal, nel corso di una solenne cerimonia, la dea-bambina Kumari è chiamata a rilegittimare con la sua superiore autorità il potere del Presidente della Repubblica laica.
Non è raro che sia una fanciulla a incarnare l’idea di una sovranità più alta di ogni potere. Una vergine, ovvero non ancora compromessa con l’ordine simbolico maschile, capace di un’autorità che non è dominio e di una potenza che non è violenza. Come la «nostra» Maria, come Agata e le altre sante celebrate con processioni e «cannalore».
Nel suo ardente Sovrane la filosofa Annarosa Buttarelli ragiona su quest’altra idea di sovranità, ben più antica della potestas che ha orientato l’assolutismo monarchico e la democrazia rappresentativa. Idea che i riti, prevalentemente maschili, custodiscono e a un tempo esorcizzano: finita la festa, gabbate le sante, che sono rimesse a tacere.
Si tratta, invece, di onorare il debito con le «sovrane» lasciandole parlare, e fare. Di intraprendere un nuovo inizio della convivenza umana che tenga conto della differenza femminile.
Si tratta di «ripartire dalle origini dei processi e, se queste origini si rivelassero infauste, trovare la forza e l’intelligenza necessaria per crearne altri differenti». Cominciando con il «togliere definitivamente dalla rimozione ciò che è accaduto del 403 a. C. ad Atene», anno e luogo di nascita della democrazia: ciò che lì fu rimosso è il «due» che siamo, uomini e donne ritenute «parenti acquisite» e rinchiuse nel privato. Non aver tenuto conto dei corpi e dei pensieri delle donne, e della fonte della loro autorità, è ragione di ogni altra ingiustizia, che non può essere sanata se non confidando in una «conversione trasformatrice».
Nel saggio, scritto con arendtiano "amor mundi" e l’intento di orientare l’azione politica qui e ora, molti esempi di sapienza al governo: Cristina di Svezia, Elisabetta I d’Inghilterra, Ildegarda di Bingen. Inaspettatamente, anche la derelitta Antigone: sovrana, lei? E di che cosa? In lei il principio di sovranità si mostra purissimo nell’amore radicale per una verità che esiste «da sempre: la vita con le sue leggi e la sua trascendenza, le relazioni di cui abbiamo bisogno per vivere e la condizione umana calata in un cosmo che impone spesso un suo ordine». Antigone non contro la legge, ma sopra - sovrana -, nell’ordine di ciò che è «eterno, universale e incondizionato» (Simone Weil), immersa nel mistero della «struttura che connette», come la chiamerà Gregory Bateson, e da cui la politica di oggi sembra prescindere.
La logica inclusiva della parità e delle quote, scrive Buttarelli, è poca cosa: la posta in gioco «non sono i posti di potere», ma «la decisa dislocazione della sovranità dal potere». In particolare, le donne si mostrano estranee al concetto di rappresentanza, per affidarsi alla pratica delle relazioni reali. Portare la sapienza al governo significa portarvi questa competenza relazionale e attenersi in ogni atto al primato della vita.
Due esempi di questo governare che non è rappresentare: la vicenda delle operaie tessili di Manerbio, Brescia, che tra gli anni Ottanta e Novanta affrontarono la crisi della fabbrica rifiutando la rappresentanza sindacale e portando l’amore - tra loro stesse, per i loro prodotti, per chi li comprava - al tavolo di trattativa. E quella di Graziella Borsatti, sindaca a Ostiglia, Mantova, tra il 1991 e il 2004, che saltando l’astrazione della rappresentanza e mettendo in campo relazioni concrete, fece della sua giunta e di tutta la città una «comunità governante», orientata dal proposito di «disfare il potere e agire il benessere»: primum vivere.
Presentando Sovrane al Festivaletteratura di Mantova, Stefano Rodotà ha parlato di «fondazione di un pensiero» e ha ammesso di avere «imparato molto». Gli rispondono idealmente, invitando a una nuova politica da subito, le parole con cui Buttarelli chiude il saggio: «Se il meglio è accaduto a Brescia e a Ostiglia può accadere ancora, oggi e ogni volta che sarà necessario».
(pubblicato oggi su La Lettura-Corriere della Sera)
LO PSICOANALISTA E LA CITTA’ Riflessioni sulla vita contemporanea
SOVRANE E PUTTANE
di MASSIMO RECALCATI (Psychiatry-on-line)
Due libri recenti e molto diversi tra loro offrono ritratti opposti della femminilità: nel primo, titolato Sovrane, edito da Il Saggiatore, Annarosa Buttarelli - filosofa e femminista - s’impegna a ricuperare le tracce di una pratica femminile del governo, mentre nel secondo, quello di Lucrezia Lerro, già nota per romanzi di un certo successo come Certi giorni sono felice o Il rimedio perfetto - titolato La confraternita delle puttane, edito da Mondadori, emerge un universo di disperazione e di morte dove il destino delle donne appare segnato da una solitudine senza speranza.
Si tratta di due testi che sembrano meditare attorno a quel rifiuto della femminilità messo a tema da Freud. Un destino di rimozione colpisce il femminile non solo nella società patriarcale, ma nelle vicissitudini più profonde della vita psichica, sottraendogli ogni diritto di cittadinanza. È precisamente contro questa rimozione che Annarosa Buttarelli lotta a viso aperto. Ecco la posta in gioco del suo lavoro: è possibile dare voce a una filosofia e a una pratica femminile della democrazia che si emancipi dalla «storia monosessuata maschile delle istituzioni politiche d’Occidente?». Domanda che - secondo l’autrice - si rende necessaria constatando come «tutte le cose “maschie” sono oggi in agonia o già morte - Stato, famiglia dell’uomo che porta a casa il pane, matrimonio esclusivo tra uomo e donna, democrazia rappresentativa, polis, solidarietà di classe, salari, divisione privato-pubblico». Esiste una narrazione solo maschile della sovranità che s’incarna nell’autorità del pater familias come nella democrazia rappresentativa e che esalta l’universale della Legge contro il particolare della vita.
Diversamente, la sovranità femminile si esercita «non contro ma sopra la Legge» prendendosi cura della vita nella sua particolarità.
È il concetto stesso di rappresentanza che viene qui messo in discussione. Non si tratta di riabilitarne la funzione, ma di cogliere nella sua crisi attuale l’apertura ad un’altra pratica di governo. Nelle donne - continua il ragionamento della Buttarelli - esiste una sensibilità affettiva che intende il governare non come rappresentanza di un’altra volontà - della Nazione, dello Stato, del popolo - ma come esercizio di una cura fondata sul «primato assoluto della relazione». Dall’Antigone di Zambrano, alla regina Elisabetta, da Hannah Arendt a Carla Lonzi, dalla dea bambina Kumari alla scrittrice Anna Maria Ortese, da Chiara di Assisi alla sindaca di Orsiglia Graziella Borsatti, l’autrice convoca i testimoni di questa «democrazia senza rappresentanza» capace di dare luogo a un economia non vincolata all’assillo dell’utilee del profittoea una vita politica non preoccupata di unificare le differenze quanto piuttosto di esaltarle. Ne scaturisce un libro che può essere un contributo importante nell’attuale dibattito politico impegnato a ripensare le ragioni della nostra vita insieme.
Il testo di Lucrezia Lerro ci offre invece un’altra visione del femminile che completa, come in un contrappunto tragico, il libro della Buttarelli: dalle sovrane alle puttane. Si tratta di un romanzo scritto con il consueto stile asciutto e ricco di una poesia che scaturisce dall’attenzione al dettaglio delle cose e al peso delle parole. Ambientato in un claustrofobico paesino del profondo Sud nel corso degli anni Ottanta, dove domina il fantasma maschilista che vuole le donne «tutte puttane», ritrae le ambizioni di giovani donne dalle condizioni sociali umili, esposte ai miti consumistici di quegli anni, prive di prospettive se non quelle di farsi sposare da qualche soldato della vicina postazione militare della Nato o dai giovani più benestanti del paese.
Tuttavia questa rincorsa alla propria sistemazione che sfiora il cinismo più disperato e l’abbrutimento di sé, cela il vero tema del libro che è quello del fallimento dell’eredità. È il destino afflitto e sconfitto delle madri e dei padri a non trasmettere nulla alle loro figlie. Le sovrane lasciano qui il posto al loro rovescio: all’apatia e alla distruzione di sé. Schiacciate dall’arroganza e dall’ignoranza machista queste madri sembrano plasmarsi sul fantasma che le umilia. Lerro entra con grande sensibilità nelle pieghe del rapporto devastante tra madre e figlia. È la rassegnazione delle madri a non permettere la trasmissione del sentimento della vita e del desiderio. Tutto appare come un grande e spettrale aborto: la vita appassita trasmette morte senza vita. Com’è possibile per una figlia non replicare l’infelicità materna? Non lasciarsi contagiare dall’apatia e dalla tendenza alla flagellazione? Non credere che la sola cosa che conti in una donna sia «farsi sposare»? Nella dedica, come un gesto liberatorio, si legge: «A mia madre che non mi ha impedito di partire». Essa ci rivela il dono più grande della genitorialità: sapere perdere i propri figli, saper stare dalla parte dei loro sogni.
Storie congetturali che raccontano l’inaudito
SAGGI. «Il contratto sessuale» di Carole Pateman pubblicato per Moretti&Vitali. I fondamenti nascosti della società moderna in un libro che dopo quasi trent’anni fa ancora discutere
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 14.05.2016)
Dare conto di ciò che Carole Pateman ha prodotto in relazione al pensiero politico moderno è decisivo. Al centro di numerose discussioni pubbliche, sia accademiche come docente al dipartimento di Scienze Politiche dell’università della California, sia politiche per le sue caustiche critiche alla democrazia liberale, tra i molti volumi e interventi che ha scritto nel corso della sua lunga vita soltanto uno è stato tradotto in italiano. Unico però, in tanti sensi - di cui il primo è l’aver costituito un punto di non ritorno. Si tratta di The sexual contract, pubblicato nel 1988 (Stanford U.P.) e tradotto per la prima volta in Italia nove anni dopo (Editori riuniti). Ormai nel dimenticatoio dei tanti «fuori commercio», è allora più che lodevole la sua recente ristampa.
Il contratto sessuale (Moretti&Vitali, pp. 339, euro 21, traduzione di Cinzia Biasini, collana «Pensiero e pratiche di trasformazione») è pietra miliare della teoria politica contemporanea, così scrive Olivia Guaraldo nell’ottima introduzione di questa nuova edizione, inquadrando il lavoro che Carole Pateman ha condotto non solo sotto il rilievo del dibattito femminista, ma anche nel senso di inaggirabilità che ha assunto nella scolarship internazionale da parte di chi si occupa di contrattualismo. A osservare la diversità di ricezione in Italia e all’estero, non potrà sfuggire che in altri paesi del mondo le ristampe sono proseguite costanti in questi decenni.
L’inganno iniziale
La discontinua ricezione de Il contratto sessuale ne perimetra tuttavia la circolazione, tracciando il terreno in cui hanno attecchito le tesi di Pateman, ovvero quasi esclusivamente nell’ambito della riflessione del pensiero della differenza sessuale (di cui l’esito più recente in merito è Sovrane, di Annarosa Buttarelli per Il Saggiatore). Avere l’occasione di rileggere un testo simile significa oggi ribadire con forza intanto la tesi iniziale, e cioè che esiste un momento precedente al contratto sociale - così chiaro nello stesso titolo - che non è stato compreso dai teorici sei-settecenteschi (Hobbes, Locke, Rousseau e poi lo stesso Kant) quando si sono prodigati dapprima a stabilire l’esistenza di quel patto secondo loro originario - e poi a descrivere con minuziosa tenacia le forme della vita associata. Tornare a Pateman non è solo consigliabile a chi desidera rispolverarne il tenore teorico-pratico.
Assistere allo svelamento dell’inganno iniziale vuol dire stanare il rimosso, misurarsi con una radicalità che può costruire un ragguardevole equipaggiamento per leggere il presente. La storia «congetturale» a cui si affida Pateman serve certo all’avanzamento rivoluzionario della sua tesi; al contempo e per converso, dispone anche la cifra di ciò che è stato «il racconto più autorevole dell’età moderna».
Molti sono allora gli elementi da rimarcare della conquistata libertà civile. Intanto non è universale, visto che il contratto originario istituisce sia la libertà che il dominio, bensì ha un attributo maschile e dipende dal diritto patriarcale.
E se massiccia è stata la decostruzione operata da Pateman intorno alla radice democratica moderna, individualista e proprietaria, la narrazione ha a che fare con la genesi del diritto politico inteso come «diritto patriarcale o diritto sessuale, ossia in quanto potere che gli uomini esercitano sulle donne»; da qui viene proposta la tesi secondo cui il contratto sessuale si mantenga su un patto tra fratelli, un «fratriarcato». Seguendo la lezione di Adrienne Rich, anche Pateman si posiziona nella certezza che esista una «legge del diritto sessuale maschile». Tale diritto è, sostanzialmente, quello coniugale.
Assunzioni materiali
Eppure, se nella separazione tra contratto sociale e contratto sessuale si viene a delineare una precisa rappresentazione (il primo è tangente alla sfera pubblica e il secondo alla sfera privata), ignorando la metà della storia si cade facilmente in equivoco. Alla fine degli anni ‘80, cioè quando Pateman scrive, ha in mente di fare luce sulle strutture istituzionali di Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti per chiarire come, attraverso l’interezza della storia del contratto originario, si verifichino comunanze patriarcali insospettabili.
In questa direzione, l’autrice analizza diversi tipi di contratto, da quello di matrimonio, disossato in verità da numerosi contributi soprattutto da parte di teoriche femministe, a quello di lavoro, come anche quello che viene a definirsi tra prostituta e cliente. Tutte assunzioni che andrebbero discusse, e che infatti lo sono state possibilmente piegandole ai vari contesti, transitori e pur sempre materiali. Se i contratti presi in esame sono connotabili da iter che ne prevedono regolamentazioni o proibizioni da parte della legge, è chiaro come si tratti di particolari forme ascrivibili alla proprietà che si ritiene ciascuno e ciascuna abbiano sulle proprie persone. Ciò nonostante, «il contratto sessuale è il mezzo attraverso il quale gli uomini trasformano il proprio diritto naturale sulle donne nella sicurezza civile patriarcale».
Contingenze complesse
A restituire gradi di attualità che il testo non solo conserva ma intuisce con puntuale efficacia, il riferimento è a una clausola su cui Pateman si sofferma alla fine del settimo capitolo e che è da tenere presente nel contratto sessuale: la maternità surrogata, definita «una nuova forma di accesso e di uso del corpo femminile da parte degli uomini».
Questo per dire come il dibattito intorno alla «surrogazione», fosse il caso di tenerlo a mente quando imperversa spesso non privo di strumentalità e costruzione di blocchi identitari, aveva assunto già alla fine degli anni ‘80 una declinazione cruciale. Il caso sollevato da Pateman accenna alla celebre sentenza disposta dalla corte del New Jersey (1986 ma in due fasi e l’una contraddittoria rispetto l’altra) passata poi alla storia come «il caso Baby M.» in cui la «madre surrogante» cambiò idea e decise di non separarsi più dalla bambina. Se il carattere vincolante dello statuto giuridico di questi contratti poneva infatti delle questioni complesse in uno scenario come quello in cui già diverse erano le agenzie aperte per la surrogazione, venivano già dettagliati numeri rispondenti a profitti precisi, differenziando circa il legame tra accordi commerciali o non commerciali con la relativa soglia di legalità e liceità o meno secondo i paesi.
Ciò che viene messa a tema è però la domanda iniziale, quella secondo cui a essere in gioco sia una semplice prestazione. Da un punto di vista contrattuale infatti è puramente accidentale che la prestazione attenga o meno a questo o a quell’oggetto, così come trascurabile è il fatto che ciò che viene prodotto sia un bambino, una bambina. Su questo punto, come per altri su cui Pateman si sofferma, Il contratto sessuale è un volume ancora incandescente che vale la pena di essere rimeditato.
una straordinaria donna moderna
(Dora Russel Ipazia e la guerra tra i sessi)
di Francesca Magni ("Letto fra noi", 29 gennaio 2013)
«Se volessimo aggiungere qualcosa alle conquiste di coloro che vennero prima di noi, dovremmo dire che per noi adesso il corpo non è più un semplice contenitore per la mente, ma quel tempio di gioia e di estasi che, se lo vorremo, già racchiude il nostro futuro. Il compito fondamentale per il femminismo moderno, per me, è dunque quello di accettare e proclamare il sesso. Di seppellire per sempre la menzogna che per troppo tempo ha corrotto la nostra società, quella secondo la quale il corpo non è che un impaccio per la mente e che il sesso è solo un male necessario alla sopravvivenza della specie. Comprenderlo, donargli dignità e bellezza, conoscerlo anche su base scientifica, in luogo dell’istinto brutale e dello squallore, credo sarà la chiave di volta a colmare la breccia fra Giasone e Medea» (pag, 38).
Rompo il lungo silenzio su questo blog - e mi scuso di questo silenzio, e vi ringraizio per non esservene andati - con una citazione.
Vi invito a rileggere con una domanda: quando è stata scritta?
Difficile indovinare che parole così moderne siano uscite dalla penna di una donna nel 1925 ["Una stanza tutta per sè" di Virginia Woolf, è del 1929 - fls].
Dora Russell, seconda moglie del filosofo Bertrand Russell, ci regala cento pagine colme di saggezza senza tempo, di impegno politico e civile, di riflessioni mai abbastanza assimilate su una parità fra i sessi che nasca dal riconoscere una verità: siamo, uomini e donne, uguali a cominciare dal bisogno naturale di una vita sessuale che non reprima gli istinti ma sappia guidarli con educazione e intelligenza. «Gli amanti sanno che attraverso l’intesa sessuale ciascuno comprende meglio le qualità della mente dell’altro» dice, ed è una consapevolezza che non a tutti è dato raggiungere.
È un testo imprescindibile che mette una parola di verità su tutte le ciance da guerra dei sessi. Un libro da regalare a tutti, uomini e donne, a chi ha vissuto gli anni del femminismo e a chi viene dall’onda di ritorno della generazione successiva. A questa, alla quale appartengo, dedico un brano su cui non si è ancora riflettuto abbastanza.
«C’è dunque qualcosa di sbagliato nell’educazione delle donne, e nel caso che cosa? Penso proprio che dobbiamo rispondere affermativamente. E la ragione sta nel senso di inferiorità inculcato nelle donne da tanta oppressione, e il risultato inevitabile fu che il loro primo obiettivo, mentre combattevano dal basso, fosse quello di provare che valevano tanto quanto gli uomini. Il secondo fu invece di dimostrare che potevano spassarsela tranquillamente anche senza gli uomini. Esattamente come il lavoratore, avanzando nella scala sociale, cerca di provare a se stesso di essere un borghese. Entrambi gli sforzi sono sbagliati. Ciascuna classe ed entrambi i sessi hanno qualcosa di unico da dare al progresso, alla conoscenza, al pensiero di cui la comunità viene privata con questo scimmiottamento».
* Scritto da: Francesca Magni
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
Le maestre operose di Maria Rosa Cutrufelli
NARRATIVA. Oggi la scrittrice presenta «Il giudice delle donne» alla libreria Tuba di Roma. Cosa accadde nel 1906 quando dieci insegnanti chiesero l’iscrizione alle liste elettorali
di Barbara Bonomi Romagnoli (il manifesto, 17.03.2016)
Si respira il desiderio del futuro che vorremmo nel nuovo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, Il giudice delle donne, appena edito da Frassinelli (pp. 264, euro 18). Una storia vera dei primi del Novecento con la forza dell’attualità, nel 70° anniversario del voto alle donne in Italia, e la prospettiva di un’impresa ancora da compiere del tutto, perché «è talmente precaria la nostra liberta. Basta un soffio e se ne perdono le tracce», commenta Alessandra, la giovane maestra esuberante che insegue l’emancipazione, anche a costo di finire in una struttura fatiscente, che ieri come oggi, alcuni si ostinano a chiamare scuola.
Siamo nel 1906 a Montemarciano, paese in provincia di Ancona che guarda l’Adriatico, e qui dieci maestre, capeggiate da Luisa la moglie del sindaco socialista, accolgono l’appello di Maria Montessori a chiedere il diritto al voto, quel suffragio universale valido in realtà solo per i maschi. Una vicenda che Cutrufelli ha «ri-scoperto, dopo che ne avevo letto sui libri delle nostre storiche (storiche femministe, intendo) - racconta l’autrice- ma non mi ero mai soffermata sull’importanza, anche simbolica, di questo episodio, forse perché si trattava sempre di poche righe; così è stata una sorpresa quando, di passaggio a Senigallia, ho visto la targa commemorativa sul muro del municipio. Caspita, mi sono detta, ma qui abbiamo le prime elettrici della storia europea, anzi mondiale, perché solo in Australia e in Nuova Zelanda le donne avevano già vinto questa battaglia. È stato in quel momento che mi sono ripromessa di raccontare quella storia». E per farlo si è immersa nella ricerca e studio di documenti e testi dell’epoca, ricostruendo nella trama e nel lessico i toni di quegli anni tesi alla conquista della modernità che sembrava a portata di mano, prima di cadere nell’orrore della prima guerra mondiale e del fascismo. Una scrittura come sempre profonda e ariosa al tempo stesso, quella di
Maria Rosa Cutrufelli, capace di tratteggiare le pieghe dei sentimenti e i paesaggi sociali in movimento. Racconta gli anni in cui le donne iniziavano a uscire di casa, e per farlo alcune di loro diventavano maestre, un mestiere che «ha fatto l’Italia», arrivando nei luoghi più sperduti per alfabetizzare il paese e scontrandosi con una società contadina dove il lavoro minorile era la regola: «il vero rivale delle maestre è il lavoro nei campi. L’alfabeto viene dopo la terra, non c’è rimedio», pensa la protagonista nel dare le pagelle ai pochi rimasti, sì perché quelli sono anche gli anni della grande emigrazione verso le Americhe. Fino in Argentina è andato il babbo di Teresa, bambina divenuta muta e che nel cuore ha stretto un segreto che scopriremo man mano nel corso della lettura.
Non solo, il 1906 è anche l’anno dell’Expo di Milano e di chi lo racconta, come Adelmo, giovane cronista di provincia che ha seguito con sguardo attento la storia delle «maestrine», così le chiama senza rendersi conto della svalutazione insita nel termine, andando a scovare anche il «giudice delle donne», quel Lodovico Mortara presidente della corte di Appello che dirà che le donne hanno diritto a iscriversi nelle liste elettorali. Un giudice contro tendenza, una sentenza che farà discutere sia i conservatori che i progressisti del tempo e che provò a dire, ai primi del Novecento, che «la legge è statica, ma la giurisprudenza è dinamica. I costumi cambiano e sono l’opera del giudice a rendere viva la legge».
Una legge, anche non scritta, che vorrebbe le donne lontane dalla politica, di nuovo, ieri come oggi. Il rapporto fra le donne e il voto, e la rappresentanza che ne consegue, non è mai stato un rapporto facile, forse perché «non si tratta solo di un diritto di libertà, come dicono i giuristi - sottolinea Cutrufelli - ma anche di un potere che dà autonomia e capacità negoziale, ed è proprio questo ‘potere’ che la cattiva politica vuole erodere e ridurre al minimo».
Le maestre marchigiane non vinsero del tutto la loro battaglia ma aprirono un varco fondamentale per la speranza del cambiamento: a 110 anni di distanza quel fermento sembra essersi trasformato in una palude, diritti delle donne compresi. Ma se volessimo ripartire e riprendere in mano quel filo, Cutrufelli non ha dubbi e risponde con le parole di Emmeline Pankhurst, suffragetta inglese, «mai sottovalutare la propria forza...» e continuare a raccontare le storie che nessuno racconta.
Fra timori e diffidenze bipartisan dei partiti, ansie e tremori delle interessate, il 10 marzo 1946 le italiane andarono alle urne per la prima volta. E furono più numerose dei maschi
di Mirella Serri (La Stampa, 02.03.2016)
Meglio evitare il rossetto quando si va a votare. La scheda va incollata. Uno sbaffo vermiglio può essere fatale. Fioccano sulla stampa nazionale gli avvertimenti su come le donne si devono comportare. Senza distinzione di censo o di cultura, signore e signorine, operaie e intellettuali sono attanagliate dall’ansia: la comunista Clelia confessa «mi tremavano le mani, le gambe, le braccia», mentre la scrittrice Maria Bellonci ricorda di aver avuto «voglia di fuggire quando mi trovai in quella cabina di legno antico con in mano il lapis e la scheda», e la romanziera Anna Banti era ossessionata dal terrore di rendere nullo quel passo.
Non c’è da stupirsi: le italiane, in cinque turni dal 10 marzo al 7 aprile 1946, si trovarono di fronte al battesimo del voto, ovvero andarono a deporre per la prima volta la scheda nell’urna. Si trattava di elezioni amministrative. Preoccupazioni analoghe si ripresenteranno il 2 giugno dello stesso anno per la designazione dei membri dell’Assemblea Costituente e la fondamentale scelta tra Monarchia e Repubblica.
Nonostante i diffusissimi timori femminili, però, a inciampare sulla scena politica non furono le neo votanti, ma proprio i rappresentanti dei partiti di massa che si contendevano le loro preferenze, Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. I due leader del Pci e della Dc, nel decreto n. 23 del febbraio 1945, estesero il suffragio alle italiane che avessero almeno 21 anni. Esclusero le prostitute schedate, quelle che lavoravano al di fuori delle case chiuse dove era concesso di esercitare la professione. Però, mentre riconoscevano quell’ambito diritto alle donne, dimenticarono la loro eleggibilità. Proprio così. Le donne potevano essere solo elettrici ma non elette. E questa svista verrà corretta solo nella primavera del 1946.
Il lamento di Togliatti
Oggi che festeggiamo i 70 anni da quello storico avvenimento che ci rese cittadine a pieno titolo, è lecito dunque porsi la domanda: fu una distrazione intenzionale e voluta oppure si trattava una specie di lapsus freudiano su un voto femminile che preoccupava e intimoriva le forze politiche che pure lo sostenevano? Adesso, dopo anni di studi e di dibattiti (da Anna Rossi Doria, autrice di una delle prime ricerche, al volume di Giulia Galeotti), si può sostenere la seconda ipotesi: il voto alle donne fu concesso quasi alla chetichella, al termine di un affaticato Consiglio dei ministri che aveva esaminato a lungo i collocamenti a riposo dei funzionari epurati. Non vi fu né una discussione né alcuna eco delle animate battaglie sostenute prima e dopo la Grande guerra e durate fino al momento in cui, nel 1925, tra berci, lazzi e rumori molesti (così registra il verbale di quella storica seduta parlamentare), Mussolini eliminò definitivamente ogni speranza di suffragio esteso al gentil sesso («le donne sono sufficienti per un’ora di spasso ma non adatte a un calmo ed equilibrato lavoro»).
Due settimane prima del decreto il liberale Manlio Lupinacci, con una specie di voce dal sen fuggita, dava corpo ai timori maschili: «Ho una certa diffidenza istintiva, tradizionale verso la partecipazione della donna alla vita politica. È questa l’unica vera base di ogni opposizione di noi uomini». Poi però dichiarava di voler battere la strada della ragione. La quale comunque appariva ricca di trappole. «Le donne pencolano verso il passato reazionario», si lamentava Togliatti, e pure la leader comunista Teresa Noce concordava. Il Migliore temeva di turbare l’elettorato persino con la commistione dei sessi: propendeva per liste divise tra uomini e donne nelle circoscrizioni. Per fortuna non se ne fece niente.
Le paure della Dc
Analoghe visioni agitavano i democristiani, i quali presentivano un vantaggio della destra conservatrice portato dalla scheda femminile. Per di più il voto alle donne veniva spesso associato allo spauracchio del divorzio, tanto che il comunista Concetto Marchesi sostenne che era prematuro pure parlarne, considerato il basso reddito delle famiglie. Nemmeno le partigiane si accesero di entusiasmo per l’agognata scheda: votare per le donne «è una cosa normale, naturale», sottolineò Ada Gobetti e anche la piemontese Marisa Ombra riscontrò dentro di sé «una flebile reazione», come qualcosa di dovuto. Tutti poi presagivano l’assenteismo femminile. Era opinione comune che le massaie italiane, nelle domeniche stabilite per legge, più che di recarsi alle cabine elettorali fossero desiderose di attardarsi ai fornelli.
Si realizzarono queste paure condivise da azionisti, esponenti dello Scudo crociato, della Falce e martello e pure dai seguaci di Benedetto Croce? No, la partecipazione femminile diede uno schiaffo alla politica e fu altissima, anzi molto più alta che negli altri paesi europei: le votanti furono l’89 per cento delle aventi diritto, ovvero il 52,2 per cento dell’elettorato.
L’astensionismo femminile fu inferiore a quello maschile, sempre al contrario di quel che avvenne in altri paesi del Vecchio Continente. Le donne, poi, andarono alle urne più nei paesi piccoli che nelle grandi città, in numero maggiore dei votanti maschi del Sud, e assicurarono la loro presenza più alle elezioni politiche del 2 giugno che non alle amministrative. Cancellando il pregiudizio di avere più a cuore gli interessi di casa e bottega che non quelli del Paese.
Un successo inatteso
E le neoelette? Le candidate furono poche, dal momento che i partiti faticavano ad accettare la presenza femminile - la Dc, per esempio, aveva inserito un solo nome in ogni circoscrizione - e per giunta molte liste delle elezioni amministrative erano state preparate prima che fosse riconosciuta l’eleggibilità delle donne. Però la truppa rosa fu più consistente del previsto e nella primavera del 1946 entrarono nei consigli comunali oltre duemila donne, mentre le rappresentanti del gentil sesso alla Costituente furono 21 su 558 componenti, pari al 3,7 per cento dei deputati (9 per la Dc, 9 per il Pci, 2 per il Psiup e 1 per l’Uomo Qualunque). Paradossalmente la presenza femminile andò diminuendo nelle successive elezioni (una tendenza che si riscontrò, per esempio, anche nei consigli comunali piemontesi, dove le 64 elette del 1946 scesero a 47 cinque anni dopo).
Questi incredibili e inaspettati successi aprirono la strada a una nuova considerazione femminile? Teresa Mattei, designata all’Assemblea Costituente, fu assai festeggiata. I suoi meriti? «Era la più giovane, venticinquenne, aveva molti bei riccioli bruni e due occhi vivi». Altro che ingresso da cittadine nella sfera pubblica! Il voto sembrerà per anni un regalo immeritato. Però le italiane imparano dalla loro stessa storia. Il 10 marzo 1946 sanano il lapsus originario andando in massa a eleggere i loro beniamini/e e iniziano un lungo e, bisogna dirlo, per tanti versi fortunato viaggio: nelle istituzioni, nella mentalità, nel costume, nel mondo del lavoro, sempre per mettere una pezza a quella significativa distrazione.
Fillide, la donna che volle cavalcare Aristotele
di Donatella Cianci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21/07/2013)
Aristotele ha parlato dell’akrasia, della debolezza della volontà rispetto alla virtù rafforzata dall’etica e probabilmente ne aveva fatto esperienza nella sua quotidianità con le donne. Una leggenda poco nota, forse la più stravagante di tutta l’iconografia aristotelica, lo raffigura anziano e piegato, mentre si fa cavalcare sulle sue spalle da una giovane donna.
La ragazza probabilmente era Fillide, “primadonna” esempio della debolezza filosofica, come ricorda lo studioso Infurna in un volumetto pubblicato per i tipi di Carocci, il quale sottolinea che i primi a parlare di questa vicenda, in Occidente, son stati Jacques de Vitry e Henri d’Andeli, quest’ultimo in un poemetto dei primi del Duecento, nel quale si dice: «Quella donna è bella davvero. Mi piacerebbe vedere come sta addosso. Rendimi questo servizio! Se presto arriverò alla fonte, volentieri ti concederò di baciare all’istante la mia bocca». La donna desiderava “cavalcare” uno dei più importanti filosofi dell’Occidente e ci sarebbe riuscita, probabilmente mentre il giovane Alessandro (poi divenuto Magno) se la spassava a guardare quanto l’anziano maestro avesse perso il senno per quella sua follia d’amore.
Un prezioso e originale volumetto a cura di Marco Infurna (Henri d’Andeli, Il Lai di Aristotele, Carocci, 2005) ricostruiva le origini di questa storiella, forse di origine orientale, poi approdata in area francese. In Italia l’episodio è ricordato da Brunetto Latini nei Livres dou tresor, da Paolo Zoppo e da Enea Silvio Piccolomini, fonti che raramente si menzionano. Nel XIV secolo la leggenda è invece citata da Francesco da Barberino nel suo trattato Del reggimento e dei costumi delle donne.
In ambito iconografico, come mostra un’ampia ricerca non ancora pubblicata, le raffigurazioni sono centinaia, una molto nota è quella che si vede a San Gimignano.
Ma come mai l’episodio ha avuto una tale ricezione? Certamente l’eccitazione e la passione amorosa del severo filosofo colpì i più curiosi, tanto che Bedier, nel 1926, pensò che Aristotele fosse impazzito a causa del suo intenso lavoro. Invece, come ricordato anche ne Il lancio del nano da Armando Massarenti (Come smettere di fumare, Aristotele vs Platone), Aristotele era conscio e tollerante verso la debolezza umana, verso la passione, concetto ribadito in studi degli anni ’90 di ambito anglosassone, che evidenziano una discrepanza fra il livello normativo e l’effettivo agire.
Infurna non fa riferimento alle fonti greche, ma è interessante notare come nella biografia aristotelica spunti il nome di una certa “Erpillide”, che fosse proprio Fillide? Il retore Alcifrone scrisse che lo Stagirita si stava facendo dilapidare il patrimonio da quella ragazzina: «Sei diventato matto Eutidemo, non sai dunque chi è in realtà quel saggio dall’aria così arcigna, che vi espone tutti quei discorsi elevati, ma quanto tempo credi che sia passato da quando mi ha dato il tormento perché vuole uscire con me? Tra l’altro, si fa consumare il patrimonio da Erpillide, la sua favorita di Megara». Dalla donna probabilmente Aristotele ebbe anche un figlio. Il nome torna anche in Eusebio, nel lessico Suda e persino nel biografo dei filosofi, Diogene Laerzio.
Per saperne di più:
Henri d’Andeli, Il Lai di Aristotele, a cura di Marco Infurna, Firenze, Carocci, 2005;
Raffaele di Cesare, Di nuovo sulla leggenda di Aristotele cavalcato: in margine ad una recente edizione del Lai d’Aristote di Henri de Andeli, Milano, Vita e Pensiero, 1956;
Id., Due recenti studi sulla leggenda di Aristotele cavalcato, Milano, Università Cattolica del S. Cuore, 1957;
Laura Dal Prà, Roberto Perini, Artigianelli, Il ciclo pittorico di Castel Pietra al tramonto dell’età cortese, Trento, Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali, 1992;
Le vie del gotico: il Trentino fra Trecento e Quattrocento, a cura di Laura Dal Prà, Ezio Chini, Marina Botteri, Provincia autonoma di Trento, Servizio beni culturali, Ufficio beni storico-artistici, 2002.
di Nicla Vassallo (SCENARI, 25.01.2016)
Presso i Musei Vaticani, al cospetto della Scuola di Atene di Raffaello, la presenza di maschi/uomini risulta netta, netta se non fosse per un “ambiguo” individuo, a fianco di Parmenide: forse si tratta di Ipazia - non tutti concordano. Ipazia, certo, non era una donna oggetto, e così l’hanno brutalmente uccisa. Anche Diotima, prima di Ipazia, non raffigura, unica donna nel Simposio di Platone, nient’affatto una donna oggetto. Tuttavia, di tali donne la storia della filosofia ne ricorda ben poche: le donne sono state martoriate dai filosofi, con qualche eccezione a parte - Cartesio e John Stuart Mill, ad esempio.
Prendiamo Aristotele: le donne rimangono maschi menomati o mutilati; il loro essere femmine si deve alla mancanza di potenza; la loro femminilità coincide con la passività, e da passive vanno trattate, al pari di oggetti. E via di seguito con le generalizzazioni: rispetto agli uomini, le donne si attesterebbero impulsive, doppie, gelose, petulanti, spudorate. Avremmo potuto confidare in Tommaso, il santo, che invece in proposito si fa anche lui portatore dei pregiudizi aristotelici. Pregiudizi che si replicano, con variazioni sul tema, nei cosiddetti “grandi” filosofi: stando a Kant, le donne non risultano in grado di azioni genuinamente etiche per carenza di senso del dovere (del resto, che etica può possedere un oggetto?); per Hegel, esse debbono venir rinchiuse in casa, in quanto prive di ragionamento universale, che si esige invece in ambito politico e pubblico (del resto, di quale ragionamento universale dispone un oggetto?); secondo Schopenhauer le donne permangono “per natura” inferiori rispetto ai maschi, in quanto, decretate perennemente infantili, manipolatrici e bugiarde, esse mancano di intelligenza e senso di giustizia (donne, pur sempre, oggetti); a parere di Nietzsche le donne sono un gingillo, utile solo a procreare e a rappresentare un mero passatempo per gli uomini (sono strumenti, proprio come alcuni oggetti).
Le donne simboleggiano dunque irrazionalità, o, se va bene, una razionalità che dipende dagli uomini. Non ritengo infatti causale che tra le filosofe si esaltino (con o senza ragione?) donne legate a filosofi di sesso maschile: basti menzionare Eloisa (con Abelardo), Simone de Beauvoir (con Jean-Paul Sartre), Hannah Arendt (con Martin Heidegger).
Alle emozioni, invece, specie se emozioni legate alla follia, le donne, poetesse, non filosofe, vengono destinate. Saffo (solo per menzionare qualche esempio) canta amori sublimi, per poi gettarsi da una rupe. La timida e sensibilissima Antonia Pozzi, divisa tra amori, sceglie la morte con barbiturici, a ventisei anni; scrive di eros e thanatos, con selvagge siepi/di amori: morire è questo/ ricoprirsi di rovi/ nati in noi. Sylvia Plath si uccide a trent’anni, con la testa nel forno (la testa della poetessa e il forno della moglie-madre) dopo aver cantato la morte:
Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale
io lo faccio che sembra un inferno
io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho vocazione.
Anne Sexton “sopravvive” più a lungo, ma a quarantacinque anni in un garage si intossica col monossido di carbonio. E, infine, non posso che menzionare lei, Virginia Woolf, non poetessa, bensì scrittrice poetica e folgorante, che opta a cinquantanove anni per una morte “tecnicamente” difficile: con le tasche ricolme di sassi, si lascia annegare nel fiume Ouse. Lei che aveva scritto Al Faro, e di acqua s’intendeva.
Se le filosofe prima menzionate si accoppiano e associano a uomini, con le poetesse il tutto non è immediato. Di Saffo si narra che amasse le donne. Sylvia Plath cosa c’entrava davvero con Ted Hughes? E chi si ricorda di Alfred Muller Sexton? Mentre di Virginia Woolf diremmo che nutrisse una reale passione per il marito Leonard, o per Vita Sackville-West?
Le donne che rifiutano categoricamente di essere considerate donne oggetto non hanno forse alcuna scelta se non il suicidio?
E, invece, gli omicidi? Si uccide, come distruggono gli oggetti. Prendiamo Dante che nel Canto V del Purgatorio, con Pia De’ Tolomei, ci porta nel girone di coloro che, a causa di una morte violenta, trovano il pentimento, una sorta di riabilitazione, in fin di vita. Che tipo di pentimento? Di Pia De’ Tolomei, uccisa dal marito, entro un contesto familiare, ci viene comunicata la dolcezza, insieme alla volontà di venir ricordata per una qualche sua fede. Benché in relazione al mondo terreno la sua indifferenza e il suo autocontrollo rimangano sospetti, perlomeno agli occhi odierni, il suo “ricorditi di me” ci addolora: Pia suscita in noi un desiderio, una necessità di protezione. Pia De’ Tolomei invoca aiuto, così come si dovrebbe fare. Anche se non fosse mai esistita e la sua fama si dovesse solo a Dante, la Pia rimane l’emblema di un entusiasmo divorato dalla violenza. Quante e quali Pie incontriamo quotidianamente senza saper nulla di loro, e senza che nulla ci raccontino? Le sconcertanti violenze degli uomini sulle donne, nel mondo, specie all’interno delle mura domestiche, si traducono raramente in denunce. Quali le loro cause e i loro significati? Se non sei una persona, bensì un oggetto di mio possesso, mi è lecito far di te quanto mi pare. E le donne sono persone?
A rispondere negativamente è una «femminista immutata», Catharine MacKinnon, che si domanda proprio se le donne siano oggetti o esseri umani, per concludere seccamente che non sono esseri umani.
Perché? Semplice la ragione. Se le donne fossero esseri umani, non sarebbero spedite in container dalla Tailandia ai bordelli di New York, o rapite in sperduti villaggi nigeriani e gettate poi sulle strade italiane; non sarebbero sessualmente schiavizzate; non lavorerebbero tutta la vita senza salario o con salari indecenti, costrette a svolgere mansioni pesanti, pericolose o avvilenti per troppe ore al giorno; non verrebbero infibulate, percosse, stuprate; non si pretenderebbe che sposino il proprio stupratore, né sarebbero accusate di rapporti sessuali fuori del matrimonio quando denunciano l’uomo in questione; non sarebbero indotte a suicidarsi per riparare l’onore della propria famiglia; non dovrebbero nascondersi dietro burka o simili indumenti; non sarebbero costrette nelle loro case come in prigioni; non subirebbero molestie sessuali e mutilazioni genitali (nella sola Africa vi sono tuttora tre milioni di bambine ancora a rischio di subirle, nonostante l’ONU abbia recentemente e finalmente bandito dette mutilazioni); non verrebbero messe a tacere, torturate, lapidate, decapitate, o uccise appena nate (l’infanticidio delle figlie femmine è ancora praticato). La lezione che occorre ricavare da questo elenco non è onorevole: le donne rimangono sotto più punti di vista oggetti, mentre gli obiettivi femministi e delle filosofie femministe non sono stati conseguiti. «Una stanza tutta per sé» e «cinquecento sterline annue» rimangono chimere.
MacKinnon si riferisce a cosa accade nel mondo in generale. Dando un’occhiata a cosa accade solo nel mondo cosiddetto occidentale, le immagini di donne da cui si viene bombardati/e sul piano mediatico si condensano troppo spesso in donne “leggere”, la cui reale consistenza è il corpo, non una mente ragionante; sono immagini normative che esplicitano chiaramente “questo è come la donna deve essere”; sono immagini che certo possono mutare e, difatti mutano, ma che rimangono sempre centrate sul corpo. Sull’oggetto.
Difficile fuggire dalla trappola. Non tutte le donne sono intelligenti, d’accordo. Ma molte tendono effettivamente a esaltare un’apparenza fisica “femminile”. E se ci pone come “cattiva ragazza”, ovvero si trasgredisce la norma maschile eterosessuale, nel non corrispondere (almeno in qualche senso) al concetto di donna vigente, si corre il rischio dell’esclusione, e l’esclusione non è facile da sostenere.
Il concetto di donna vigente nella nostra civiltà, specie in Italia, da una parte regala in effetti mere illusioni di stabilità e d’identità, e dall’altra è rigidamente monolitico: deve così essere in una società androcentrica, razzista, eterosessista, votata alla “normalità”. Come è sostenuto, giustamente a mio avviso, il rimedio alla donna oggetto non può che consistere nel delegittimare «a priori l’esplorazione della continuità esperienziale e della base strutturale comune tra le donne» (cfr. Bordo 1990, p. 142). Del resto, molte donne, ma non tutte, cedono a venir meticolosamente assoggettate sotto diversi profili: economico, legale, politico, professionale, psichico, religioso, sessuale, sociale, e via dicendo. In modo diretto o indiretto, in misura maggiore o minore, ogni donna eterosessuale subisce commerci, devianze, etiche, leggi, identità, molestie, pratiche, politiche, violenze sessuali, oltre a doveri erotici, procreativi e riproduttivi, all’insegna di schemi rappresentazionali dettati da interessi sessuali. Ancora oggi. Che cosa specificare di più sulle donne oggetto?
Una certa normatività rimane deleteria e si converte comodamente in forme di vero e proprio autoritarismo sulla sessualità, in cui a rannuvolarsi rimane la sessualità delle donne. Diviene allora quasi scontato affermare con Monique Witting che, per esempio, le lesbiche non sono donne, perché il concetto di donna giunge a una piena elaborazione e assume un valore determinato solo nell’ambito di un atteggiamento normativo che obbliga la sessualità entro i rigidi schemi di un’eterosessualità in cui le donne vengono categorizzate, all’unico scopo di essere vessate (cfr. Wittig 1992). Si può anche concedere che si vessino gli oggetti, non le persone o gli esseri umani.
Ben si sa che, nel caso in cui non ci si comporti da donne oggetto o ci si consideri con consapevolezza donne non eterosessuali, sbalordisca sentirsi dire “tu non sei una donna”. Inquieta perché “tu non sei una donna” equivale spesso a “tu non sei una vera donna”, ove il termine “vero” maschera approvazione e disapprovazione. Proprio come quando affermiamo “la verdura di oggi non è vera verdura” intendiamo dire che tale verdura non è buona, quando diciamo “Valeria non è una vera donna” intendiamo dire che Valeria non è una donna “buona”: biasimiamo certi suoi atteggiamenti, comportamenti, ruoli che non rientrano nel concetto di donna “valido” e in uso in una certa cultura, a un determinato tempo (cfr., per esempio, Austin 1962, per considerazioni simili sul termine “real”). “Tu non sei una vera donna” comporta essere disapprovate, e lo si è perché non si corrisponde al concetto di donna vigente, di cui fanno parte parecchi pregiudizi (e allora che concetto è?) sulle differenze tra donna e uomo, a partire dalle differenze sessuali. È possibile che tu non sia una vera donna solo a causa dei tuoi desideri sessuali, che non corrispondono a quelli che la donna dovrebbe normativamente nutrire. Dunque, tu non sei una vera donna poiché rifiuti di oggettificarti.
È allora errato decretare, se non si esigono donne oggetto, che la differenza sessuale sia una componente essenziale del desiderio sessuale, è cioè errato consentire il desiderio sessuale solo tra donna e uomo, o tra femmina e maschio - tra la donna e l’uomo, tra il maschio e la femmina. Eppure è forse proprio il fine di circoscrivere il desiderio sessuale al rapporto eterosessuale che rende la differenza sessuale necessaria al desiderio sessuale, a partire dal presupposto che il rapporto sessuale deve essere finalizzato alla riproduzione, piuttosto che all’amore e alle varie rappresentazioni vissute che dell’amore si possono offrire (cfr. Vassallo 2015).
Il punto è che il maschio e la femmina, l’uomo e la donna hanno poca ragione d’essere, se con l’articolo determinativo intendiamo richiamarci a entità universali, al fine di catturare essenze maschili e femminili, che proseguono a incidere sulle donne rendendole oggetti. Tali entità/essenze possono trasformarsi in fonti di veri e propri azzardi, nell’azzerare la comprensibilità tra le tante differenze che corrono tra femmine e tra donne, così come le tante differenze che corrono tra maschi e tra uomini. La logore banalità dovrebbe venir sempre denunciata dalla buona filosofia, a partire dalle differenze tra femmine e maschi, tra donne e uomini, che la società rischia vieppiù di enfatizzare indebitamente, allo scopo di condizionare comportamenti e competenze declinate al “maschile” e al “femminile”, con donne oggetto in primo piano (cfr. Amoretti e Vassallo).
In fondo la donna rimane pura apparenza, una finzione al servizio dell’androcentrismo, del razzismo, dell’eterosessismo, della “normalità”, uno strumento normativo utile per imporre agli esseri umani di comportarsi in determinati modi, per avallare determinate pratiche e delegittimarne altre. L’idea che tutte le donne presentino similarità essenziali serve, per esempio, a legittimare il fatto che alle donne e agli uomini vengano assegnati ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti, che le donne debbano attenersi a canoni di genere cognitivamente diversi rispetto a quelli degli uomini, che i tratti fisici e psicologici delle donne debbano essere femminei, mentre quelli degli uomini mascolini. L’essenzialismo ha senz’altro legittimato un certo convenzionalismo femminile, costringendo le donne al perbenismo, vietando loro la realizzazione completa delle loro potenzialità. Del resto, le donne rimangono oggetti. Ma esso ha soprattutto ratificato il dualismo uomo/donna, da cui sono aristotelicamente zampillati altri pericolosi dualismi: mascolino/femmineo, razionale/irrazionale, attivo/passivo, culturale/naturale, oggettivo/soggettivo, e così via.
Torno ancora, in conclusione, a MacKinnon sulle donne oggetto, una conclusione dura, eppure realistica, che tratta di pornografia:
Alle donne la scelta, in quei luoghi, societari e civili, in cui la ragione è concessa.
Intervista a Stefano Rodotà
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 19 novembre 2015)
Nel codice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, di una incompatibilità che in Italia è più forte che altrove. Al conflitto permanente tra diritto e amore dedica bellissime pagine Stefano Rodotà, un giurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l’irregolarità e l’imprevedibilità della vita e l’astrazione formale della regola giuridica (Diritto d’amore, Laterza). Inutile aggiungere da che parte stia Rodotà. Ed è superfluo anticipare che in questa storia protagonisti non sono solo il diritto e i sentimenti ma anche la politica. Con alcune vittime - un tempo le donne, oggi gli omosessuali - che guidano il cambiamento.
Professor Rodotà, diritto e amore sono incompatibili?
«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita un movimento volubile e multiforme. Il diritto è esattamente il contrario, parla di regolarità e uniformità, è insofferente alle sorprese della vita. Quando poi si entra nel terreno amoroso, la soggettività prorompe. E il diritto è decisamente a disagio»
Perché?
«I rapporti affettivi possono essere qualcosa di esplosivo nell’organizzazione sociale. E dunque il diritto s’è proposto come strumento di disciplinamento delle relazioni sentimentali che non lascia spazio all’amore. Basta ripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto per un lungo periodo ha sancito l’irrilevanza dell’amore. E di fatto ha sacrificato le donne, codificando una diseguaglianza»
In che modo?
«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non ha nulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, la prosecuzione della specie. Sulle logiche affettive hanno prevalso quelle patrimoniali. E se San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il possesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà del marito»
Questo modello gerarchico è perdurato in Italia fino alla metà degli anni Settanta del Novecento. Un’anomalia italiana anche questa?
«No, sul piano storico non direi. Il modello famigliare della modernità occidentale - dalla fine del Settecento in avanti - è stato terribilmente gerarchico. Dopo l’unificazione noi assorbimmo il codice francese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglie al marito. Pare che Napoleone durante la campagna d’Egitto fosse rimasto colpito dal modo in cui il diritto islamico disciplinava il rapporto tra moglie e marito»
Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Ma anche la politica ha contribuito ad anestetizzare i sentimenti.
«Sì, il matrimonio ha mantenuto il suo impianto gerarchico anche grazie all’influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per una fase non breve della storia, si è mossa in una logica di disciplinamento delle pulsioni, nell’incontro tra il rigorismo cattolico e quello socialcomunista»
Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei, Nitti, Orlando - si opponessero al principio dell’eguaglianza tra marito e moglie perché in conflitto con il codice civile.
«Incredibile. Nelle loro teste il modello matrimoniale consegnato alle regole giuridiche è un dato di realtà irriformabile. Non si rendevano conto che stavano cambiando le regole del gioco. E che la carta costituzionale stava sopra il codice civile»
Una rigidità che lei ritrova in una recente sentenza della Corte costituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.
«Sì, anche loro si piegano al codice che parla soltanto di matrimoni tra uomini e donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizione ultramillenaria del matrimonio: come se si trattasse di un dato naturale non soggetto ai mutamenti sociali e antropologici. Invece si tratta di una costruzione storica che è andata cambiando in Europa e in Italia. Ma l’Italia è l’unico paese che non vuole prenderne atto, nonostante abbia sottoscritto la carta dei diritti dell’Unione europea»
Una carta che nell’accesso al matrimonio cancella il riferimento alla diversità del sesso nella coppia.
«E infatti è stato proprio quell’articolo, l’articolo nove, bersaglio di una forte pressione da parte della Chiesa. Pressioni passate sotto silenzio, che però io sono in grado di testimoniare, visto che ero seduto al tavolo della convenzione. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria della famiglia, pronunciato dalla nostra Corte costituzionale, non compare in nessun’altra giurisprudenza»
Oggi facciamo fatica ad approvare perfino le unioni civili. Perché succede?
«Si tratta di un conflitto molto ideologizzato, favorito dallo sciagurato radicamento dei cosiddetti«valori non negoziabili" e«temi eticamente sensibili» Questi vengono sottratti al legislatore non perché il legislatore non se ne debba occupare ma perché il legislatore deve accettare il dato naturalistico e immodificabile»
Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio e sull’aborto.
«E infatti non ci fu la stessa intolleranza. Pur nell’ostinata contrarietà, la Dc prendeva atto che erano intervenute novità sociali non più trascurabili»
Il disgelo era cominciato negli anni Sessanta, quando l’amore cessò di essere fuorilegge. Solo nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato di adulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, che mette fine al modello gerarchico.
«Sì, alle logiche proprietarie subentrano quelle affettive. E tuttavia anche in quella occasione il legislatore trattenne la sua mano di fronte alla parola amore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non d’amore»
Ma si può mettere la parola amore in una legge?
«Qualcuno sostiene: più il diritto se ne tiene lontano, meno lo nomina, meglio è. Però bisogna domandarsi: il diritto non nomina l’amore perché lo rispetta fino in fondo o perché vuole subordinarlo ad altre esigenze come la stabilità sociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così»
C’è il diritto d’amore delle coppie omosessuali, che devono poter accedere al matrimonio. Ma c’è anche il diritto d’amore dei figli, che devono poter essere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?
«Non c’è alcuna evidenza empirica che figli cresciuti in famiglie omosessuali mostrino ritardi sul piano del sviluppo della personalità e dell’affettività. E allora, domando, i figli dei genitori single?»
I genitori single - forse più di tutti gli altri - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figura maschile e di una femminile. E anche la psichiatria formula dubbi sulle adozioni delle coppie gay.
«Lei pone una questione che però non si risolve con l’uso autoritario del diritto. Prima riconosciamo pari dignità a tutte le relazioni affettive e prima saremo in grado di costruire dei modelli culturali adatti a questa nuova situazione. Finché manteniamo il conflitto e l’esclusione, tutto questo diventa più difficile»
Lei dice: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delle adozioni.
«Certo. Se una volta raggiunto questo risultato si vuole discutere, si potrà farlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce. Come non si finisce mai di rispondere alla sollecitazione di Auden: la verità, vi prego, sull’amore»
Dominijanni, Ida.
Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi.
Nell’imponente quantità di pubblicazioni sul berlusconismo, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, di Ida Dominijanni , è finora l’unica solida riflessione teorica e femminista che ne analizzi gli aspetti fondativi, simbolici e strategici, mettendoli in relazione con la storia culturale e politica italiana degli ultimi quaranta anni e con la dimensione transnazionale.
Con profonda consapevolezza teorica, l’analisi della filosofa, femminista della differenza, saggista e storica editorialista del Manifesto, parte dalla nozione lacaniana dell’ “evaporazione del padre”- cioè la crisi dell’ordine simbolico incarnato dalla legge edipica - e si misura con il pensiero di Foucault, Arendt, Butler, Lonzi, Žižek, e Recalcati, per citare solo i riferimenti più eclatanti.
Ambizioso obiettivo del libro è la riconfigurazione teorica e storica del berlusconismo nel periodo che prende il via dalla stagione del “lungo sessantotto italiano” (33) e del femminismo, estenden dosi alla contemporaneità.
Dominijanni contesta le interpretazioni mainstream: la prima, che vede il berlusconismo come un’anomalia italiana del modello liberal democratico e un attacco ai principi costituzionali; la seconda, che insiste sulla realizzazion e politica della debordiana “società dello spettacolo”; la terza, infine, che denuncia una strategia politica di identificazione con un preciso blocco sociale che mira a difendere i propri interessi socio-economici, sullo sfondo del modello neoliberale e i ndividualista della postmodernità.
Queste tre linee interpretative colgono alcuni dei tratti salienti del regime berlusconiano, nota Dominijanni, ma ne offrono una visione parziale. Il trucco capovolge i discorsi sul berlusconismo, riportando al centro d ell’analisi l’azione dirompente che la sessualità, il corpo e gli affetti esercitano sulla politica. Discutendo il berlusconismo come un’“inedita forma di governamentalità biopolitica e post-patriarcale” (27) fondata sullo scambio di sesso, potere e denaro, la studiosa analizza la sfera della sessualità nella sua funzione, innanzitutto, di strumento di codificazione del “regime del godimento” (25), basato sull’autoimprenditorialità del corpo e della sua libera offerta come merce di scambio negli ambiti socio-culturali ed economici del neoliberalismo.
D’altra parte, è proprio la sessualità, sostiene Dominijanni, ad aver delegittimato il berlusconismo attraverso la denuncia dell’immagine fallace e strategica del sovrano.
Si tratta di una vera e propria ribellione all’ordine simbolico post-patriarcale che prende forma nella presa di parola delle donne del sexgate e rivela la natura del “trucco” che dà il titolo al libro, cioè la fondamentale “impotenza” (17) del sovrano.
Tesi di fondo del libro è che la ventennale egemonia del berlusconismo sia stata neutralizzata non tanto sul terreno economico, quanto per l’appunto su quello della sessualità.
Dopo una premessa metodologica e un’introduzione teorica (“ Dalla fine. Spettri di Berlusconi”), l’analisi si snoda in nove serrati capitoli che discutono i tratti fondanti del berlusconismo nella loro valenza simbolica e storica.
Il rigore dell’argomentazione e l’originale storicizzazione dei fatti si intersecano con la vivacità giornalistica e lo spirito polemico dell’au trice, che sollecita una rilettura del presente alla luce dei dispositivi di potere messi in atto dal berlusconismo. Dominijanni decostruisce i concetti-chiave, le figure e le retoriche del berlusconismo, adottando un criterio di analisi deliberatamente sp iazzante ed efficace, quello degli spostamenti strategici “che hanno consentito alle ‘guerre culturali’ neoconservatrici degli ultimi decenni di costruire egemonia sopra e contro lo stesso terreno arato dalle rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta” (145) .
Questi spostamenti sono semantici, retorici, culturali e simbolici e comportano rilevanti conseguenze politiche.
Lo spostamento valoriale analizzato nel primo capitolo (“La partita della libertà”) investe il concetto di libertà.
Un esempio fra tutti. Allo scopo di auto-legittimarsi come “padre fondatore” (37), Berlusconi si è appropriato della Festa della Liberazione, liturgia fondativa della patria basata sull’eredità culturale e politica della Resistenza antifascista, riformulandola come “Festa della Libertà” (38), cioè una celebrazione unitaria e popolare, tesa ad includere tutte le posizioni politiche.
Con una simile deviazione semantica, Berlusconi ha trasformato il partito in “Popolo delle Libertà ,” affermando la propria identificazione con un’idea astratta di popolo e ufficializzando l’inclusione dell’Italia nell’area valoriale della politica liberale.
Dominijanni sottolinea che questo “slittamento semantico” ha condotto a uno “slittamento politico di prima grandezza” (40), in quanto Berlusconi int erpreta il termine “libertà” in modo ambivalente: da un parte, come volontà di trasgredire le norme stabilite dalla costituzione e, dall’altra, come affermazione della libertà imprenditoriale e consumistica imposta dal neoliberalismo.
In questo contesto, la libertà diviene un’esperienza negoziabile e flessibile, che si realizza ai confini della legalità e può configurarsi sia come affermazione di un diritto che come consenso servile.
Altri spostamenti sono esaminati nel libro. Centrale è la discussione co ndotta nel terzo capitolo (“Parole che contano”), in cui l’autrice discute la funzione destrutturante della parola femminile nei discorsi delle donne coinvolte nel sexgate.
La presa di parola si articola infatti in modalità che vanno oltre le retoriche e i cliché rappresentati dalle donne “parlanti,” cioè l’intellettuale (Ventura), la moglie (Lario) e la prostituta (D’Addario e le altre). Lario, ad esempio, non solo denuncia il tradimento coniugale, ma il sistema di potere che usa le donne per potenziare il corpo del capo e provocare l’identificazione con la popolazione maschile.
Perfino le conversazioni “impietose” delle Olgettine ridicolizzano il corpo del capo, rendendolo una “copia comica e farsesca di se stesso ” (85).
Dominijanni fa notare come la politica berlusconiana abbia messo in atto il “dispositivo dell’internamento” contro queste donne, stigmatizzandole, censurandole e relegandole ai margini del discorso politico.
Questo ulteriore spostamento è strettamente con nesso a strategie retoriche e simboliche che Dominijanni analizza in altri capitoli del libro: lo “sconfinamento” (104) del pubblico nel privato , la ridefinizione in chiave libertina del conce t to di privacy (“Privato e pubblico, personale e politico”) e lo slittamento del rapporto fra morale e politica (“Penale, morale, politico”), in cui l’autrice discute lo “scarto di senso” (141) della narrazione berlusconiana, fondato sulla ridefinizione del rapporto tra libertà, potere politico e legge.
Particolarme nte originale è l’inquadramento storico del berlusconismo a partire dal Sessantotto e dal femminismo, un’intuizione che la studiosa articola nel sesto (“Papi e il nome del padre”) e nel settimo capitolo (“‘Veri’ uomini, ‘vere’ donne”).
Contestando le coordinate cronologiche del ventennio berlusconiano, Dominijanni vede nel berlusconismo la risposta “perversa” (33) e “regressiva” (175) alle istanze innescate dalla stagione del Sessantotto e del femminismo.
Il berlusconismo non ha realizzato quelle istanze, m a le ha invertite, trasformando la domanda di creatività, l’affermazione della liberazione sessuale, il bisogno di democrazia e il conflitto fra i sessi in regime del godimento, mercificazione, populismo mediatico e strategia di assoggettamento e ri- natura lizzazione dei ruoli di genere. In altre parole, il capitalismo neoliberale di cui il berlusconismo è la realizzazione italiana, ha marginalizzato le domande di ribellione e reso ambivalente la nozione di libertà femminile, secondo la quale la “vera” donna è figlia “ sia della rivoluzione femminista sia dell’egemonia neoliberale, e porta dunque sia il segno politico della libertà femminile, sia il segno della sua traduzione nella lingua economica della ‘libera scelta’ e dell’au toimprenditorialità” (194).
Un altro spostamento , quindi, forse il più rilevante sul piano socio- culturale e politico. L’analisi dei dispositivi di potere del berlusconismo elaborata da Dominijanni permette alla studiosa di interrogarsi sulla possibilità di nuovi spazi di soggettivazio ne e pratiche femministe.
Pur tralasciando la prospettiva queer, Dominijanni si confronta con una grande varietà di posizioni critiche contemporanee, fra cui il postfemminismo anglosassone, e contesta le rivendicazioni neo- femministe incentrate sulla lotta al femminicidio, la denuncia del sessismo dei comportamenti e del linguaggio e la richiesta di quote rosa (specie negli ultimi due capitoli: “Dopo il patriarcato. Femminismo e questione maschile” e “Dispositivo di sessualità, regime politico”).
Contro una riflessione critica che aspira semplicemente all’intercambiabilità di genere e non promuove pratiche diverse da quelle imposte dal post- patriarcato, Dominijanni riporta al centro del “conflitto politico fra i sessi” (27) la sfera della sessualità, che si pone come “tecnica del potere [...] decisiva per la soggettivazione” (27).
Il trucco è un libro provocatorio e coinvolgente, che sollecita nuovi interrogativi non solo sull’età berlusconiana, ma anche e soprattutto sul ruolo del femminismo nella vita culturale, sociale e politica della società contemporanea.
Dickinson College
Il trucco
Ida Dominijanni ci conduce in un viaggio avvincente e grottesco, a ritroso negli ultimi anni del governo Berlusconi. Qui, il sistema inciampa nell’imprevisto della libertà femminile. E l’incantesimo si rompe svelando il trucco che da tempo era sotto gli occhi di tutti
di Maddalena Vianello (in-genere, 26/02/2015)
Ida Dominijanni guida contromano in un avvincente viaggio a ritroso negli ultimi anni di Berlusconi. Una storia vecchia? Nient’affatto, un punto di partenza per guardare al futuro con occhi edotti.
Il viaggio conduce attraverso un quadro interpretativo affascinante in cui le donne sono le vere protagoniste della fine di un’epoca.
Il sistema berlusconiano ha lavorato con determinazione alla restaurazione dei ruoli deputati alle donne. Diversi da quelli riservati agli uomini, neanche a dirlo. E incastonati nella tradizione più retrograda. Madonne, mogli, madri da un lato, e donne con un prezzo sul mercato dall’atro. Una storia vecchia come il mondo.
Ma il mondo cambia per fortuna. I costumi si evolvono. E la consapevolezza di sé, che piaccia o no, penetra fra le donne più diverse, determinando cambiamenti irreversibili.
Le donne non si lasciano agire. Si dimostrano in grado di scegliere il proprio destino, di calcare la scena del sultano, di abbandonarla, di disprezzarla. Comunque sia, assecondano i propri desideri e interessi.
In questo modo si consuma la rottura e irrompe la novità. Le belle statuine si animano sulla scena pubblica. Chi ci avrebbe mai scommesso?
Ed è proprio su questo errore di calcolo che Berlusconi frana.
Il progressivo emergere dei costumi del premier fra minorenni, escort e bunga bunga mina lentamente l’immagine di Berlusconi. Come una goccia cinese scava lentamente, ma in maniera inesorabile, un solco che lo separa dall’opinione pubblica.
L’entrata in scena di Patrizia Daddario, Ruby ruba cuori, Veronica Lario determina una rottura dal sapore definitivo. Tre protagoniste della caduta. Tre donne diverse, con ruoli distinti in questa storia. Rompono la convenzione del silenzio fino a quel momento in essere.
Come un castello di carte al soffio del vento l’impero berlusconiano ricade su se stesso rivelando tutta la sua immensa fragilità.
Il sistema, che solo superficialmente sembrava funzionare fino a quel momento e che prevedeva donne zitte e zittite, crolla quando il presupposto strutturale della connivenza femminile viene a mancare.
Le donne sono libere. Libere di essere fuori dagli schemi costituiti. Libere di pensare, scegliere, parlare. Libere di considerare la misura colma.
Non è solo Berlusconi a rimanere di sale, ma buona parte dell’opinione pubblica. Non era stato messo in conto. Era un’ipotesi nettamente marginale.
Il sistema berlusconiano inciampa nell’imprevisto della libertà femminile. L’incantesimo si rompe svelando il trucco che da tempo era sotto gli occhi di tutti. Il re è nudo.
La presa di parola pone sul piatto un tema dirimente. Le abitudini sessuali del premier non sono fatti meramente privati, ma irrompono nel dibattito pubblico con dovizia di particolari.
Queste donne parlanti non pongono delle questioni scomode solo per Berlusconi, ma per un intero ordine costituito maschile. Ammettere la compenetrazione dei piani fra pubblico e privato è un tema scivoloso per troppi.
La sola ipotesi di un cambiamento così potente fa tremare le vene ai polsi. La parte più conservatrice e al contempo minacciata si ricompatta indipendentemente dall’arco parlamentare. E così viene inaugurato un nuovo atto della commedia che corre sulla distinzione fra pubblico e privato, personale e politico. Gli uomini corrono a difendere la stabile occupazione del potere. A chi importa cosa succede sotto le lenzuola di un instancabile e virile maschio, voglioso nonostante l’età? Non è certo una questione politica. La vulgata diventa maggioritaria trovando paladini valorosi, a destra come a sinistra.
Le donne che hanno preso la parola, come da tradizione secolare, vengono tacitate, accusate alternativamente di follia, di avidità, di sfruttamento. Ricacciate nell’irrilevanza.
Un’altra occasione persa. Specialmente a sinistra, per avviare un dibattito onesto che potesse accogliere nuove istanze per ripensarsi.
Dopo una fase bulimica, di tutto questo non ragioniamo più molto. L’analisi a freddo di Ida Dominijanni non ha solo il pregio di ripercorrere l’accaduto riportandolo alla nostra attenzione. Nutre la più ambiziosa vocazione alla consapevolezza. Educa lo sguardo sollevando veli. Per non essere nuovamente impreparate.
Vorrei un figlio, ma con chi lo faccio?
di Lea Melandri (Internazionale, 20 Giu 2015)
In tempi in cui tutto viene imputato alla crisi economica, alla disoccupazione, alla mancanza crescente di servizi sociali, leggere i dati dell’Istat sul calo delle nascite in Italia in chiave di relazione d’amore tra uomini e donne può sembrare un ripiegamento romantico, idealistico. Eppure basterebbe ascoltare i racconti, le domande che si pongono donne fra i trenta e i quarant’anni sulla scelta di avere o non avere figli, per capire che l’amore c’entra, e che se viene trascurato nell’ordine delle cause è perché nell’era del postmoderno - del “post” di tutto - nessuno fa più caso ai sentimenti.
Ci ha fatto caso invece Eleonora Cirant in un interessante libro corale, uscito un paio d’anni fa (Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte, Franco Angeli), risultato di incontri, conversazioni, interviste con quindici donne della generazione nata negli anni settanta, disposte a interrogarsi sulla scelta “sia di chi diventerebbe madre nel verificarsi di una eventuale circostanza, sia di quelle che non sentono alcun desiderio di maternità”.
Dalla carrellata di esperienze, pensieri di una saggezza fatta di dubbi, interrogativi, libertà da vincoli secolari e oggi sospesa sulla soglia di un ordine che si è andato sgretolando - famiglia, matrimonio, figli - un dato emerge con chiarezza: il calo delle nascite non è come generalmente si pensa solo l’esito di servizi sociali e politiche familiari mancanti, o di una precarietà divenuta condizione esistenziale.
La crisi, prima ancora che di culle, è di case, convivenze, legami amorosi
L’incertezza di fronte alla scelta di mettere al mondo un figlio, sposarsi, convivere con un uomo, conciliare maternità e lavoro, interessi personali e dedizione agli altri, rimanda fondamentalmente alle ricadute di quella che è stata finora la divisione di ruoli e di potere tra un sesso e l’altro.
In particolare, rimanda al confinamento della donna nella figura idealizzata e al medesimo tempo svilita di moglie e madre, che attende da altri il suo completamento e il senso della propria vita; alla restrizione dei confini del mondo al rapporto duale col figlio/a; al sacrificio di sé per la crescita e il benessere dell’individualità altrui; alla trasformazione dell’amore in possesso, della cura in dipendenza perenne di chi la riceve.
Smascherata la falsa naturalità dell’impianto che ha sorretto finora la permanenza nel tempo dell’istituto del matrimonio, ognuno dei componenti della famiglia umana sembra percorrere strade proprie, dove l’incontro è ancora possibile ma a condizioni profondamente mutate.
Le donne ancora in età fertile non escludono di poter avere un figlio, ma si chiedono anche: “Con chi?”.
La maternità, dopo essere stata per secoli obbligo procreativo, si trova a fare i conti con il fatto che le donne hanno imparato a mettere al primo posto passioni, interessi, occupazioni che le portano verso il mondo, a dirsi senza mentire l’insopportabilità della vicinanza continuativa con un bambino, del dispendio di energie fisiche e psichiche che viene loro richiesto dal maternalismo dominante.
Quanti uomini sono oggi disposti a porsi interrogativi analoghi sui ruoli tradizionali di genere, a immaginare nuove forme dell’amore e della genitorialità, rapporti diversi tra vita e lavoro, privato e pubblico?
Di fronte a una figura maschile sorpresa dal cambiamento nella propria fragilità, senso di inadeguatezza, dipendenza da mamme e nonne troppo protettive, o narcisisticamente ripiegata su se stessa, verrebbe da dire che la crisi, prima ancora che di culle, è di case, convivenze, legami amorosi o coniugali duraturi e rassicuranti quanto basta per decidere di fare un figlio.
È chiaro che l’amore, nella forma in cui l’abbiamo ereditato - prolungamento di un vissuto infantile di unità a due, dipendenza da una figura materna creata dal desiderio di un uomo figlio e tenuta per secoli sotto il dominio di una società di padri - si è andato eclissando di fronte all’affermazione di una imprevista libertà femminile.
L’uscita delle donne da un destino di sottomissione, sacrificio della propria individualità, dipendenza da una visione del mondo creata da altri, ha aperto la strada a un percorso di “autonomia” che non è solo economica - oggi minacciata dalla precarietà e dal peso del doppio lavoro, in casa e fuori.
Le ragazze ascoltate da Eleonora Cirant parlano una lingua che si è affrancata dall’ideologia del materno come legge naturale o divina: esprimono senza infingimenti il loro desiderio di avere interessi, passioni, tempi propri.
È come se, spalancate le porte di casa, l’amore trovasse anche per le donne i molteplici investimenti che ha avuto finora solo per l’uomo in virtù della separazione tra la sfera pubblica, a lui riservata, e l’ambito domestico della cura o conservazione della vita, delegata all’altro sesso.
È chiaro che la ricerca di nuove forme di relazione tra i sessi, nel privato come nel pubblico, necessita prima di tutto di un ripensamento di quella che è stata finora la maternità, come obbligo riproduttivo, ma anche come “lavoro d’amore”: cura, incombenze domestiche, sostegno materiale e psicologico ai componenti della famiglia.
Necessita soprattutto che si passi dalla “questione femminile” - uno svantaggio da colmare, parità di diritti e di salario, politiche a favore delle donne in quanto madri - alla messa in discussione da parte di uomini e donne di un’idea di virilità e femminilità che ha visto confusi per secoli dominio e amore, violenza e tenerezza.
Come ha scritto più volte l’economista femminista Antonella Picchio, occorre “cambiare la struttura delle responsabilità sociali rispetto alla produzione delle persone. È, quindi, un problema politico non statistico. Significa, infatti, far emergere come questione sociale, come responsabilità collettiva, ciò che appare come responsabilità esclusiva delle donne”.
La mamma è il primo e l’ultimo tabù
di Lea Melandri, saggista (Internazionale, 10 Mag 2015)
Si dà il caso che il 10 maggio, festa della mamma, fosse anche il giorno natale della donna che mi ha messo al mondo e amato tanto da farmi studiare, nonostante la condizione economica della famiglia non lo permettesse.
Ma il dono più grande e inaspettato da chi aveva conosciuto il destino femminile come dedizione e obbedienza al comando altrui, amore e maltrattamenti, era racchiuso in una frase impensabile in quell’epoca, in quella cultura contadina: “Stai libera!”.
Che cosa significasse come scelte di vita devo averlo intuito e incorporato tanto da muovere i piedi, appena ho potuto, fuori dal cortile di casa, in fuga verso la città.
Solo più tardi, dopo aver incontrato il femminismo, avrei capito “per virtù di analisi” - sono le parole di Sibilla Aleramo - la dolorosa ambiguità che tiene annodate nell’esistenza femminile la donna e la madre, la forza e la debolezza, l’esaltazione immaginativa e l’insignificanza storica a cui l’ha consegnata la cultura del sesso dominante.
In tutti gli anni che sono vissuta lontano, fino alla sua morte, non ho mai capito se il richiamo che mi faceva perché ricordassi il 10 maggio fosse per il compleanno di una persona generosa che amavo o per la “festa” che ipocritamente, retoricamente, si fa alle “mamme”, perché restino tali, perché continuino a “vivere in funzione degli uomini” (Rousseau), consolarli, sostenerli, avere cura di bambini, malati, anziani e adulti in perfetta salute.
La madre è il primo e l’ultimo tabù, monumento intoccabile della potenza originaria che l’uomo ha conosciuto inerme, in totale dipendenza, e poi sottomesso con le armi che - come scrive Jules Michelet - gli ha dato un “privilegio naturale”, “rafforzato dalla storia con le sue istituzioni e con le sue leggi”. È solo per “magnanimità” che il progresso “civile” l’avrebbe poi accolta nel corso dei secoli come fonte di sussistenza e di rinnovamento morale.
Che altro sono oggi il “Valore D”, i “talenti femminili” - capacità di ascolto e di mediazione, sensibilità e attitudine alla cura -, se non le tradizionali doti attribuite per “natura” al materno?
Che la donna non dovesse mai aver bisogno di affermare la sua individualità, che fosse destinata a “vivere per gli altri”, “amare e partorire”, e che questo sacrificio di sé facesse di lei una “religione”, era stato il massimo tributo che pensatori del secolo precedente, come Michelet, Bachofen, Mantegazza, avevano creduto di fare alla “differenza” femminile.
La donna madre è la donna completa: la donna giovane, bella, ricca non è né può essere felice se in lei non palpita la maternità. La donna che non è madre è l’eunuco del proprio sesso, e l’intricato meccanismo della nostra società civile fabbrica purtroppo ogni giorno a mille di queste mutilate.
Con la messa a tema di un conflitto ancora più provocatorio - La donna clitoridea e la donna vaginale, di Carla Lonzi - all’inizio degli anni settanta comincia la stagione di un femminismo radicale che avrebbe terremotato ruoli tradizionali, certezze identitarie, equilibri tra natura e storia, famiglia e società, individuo e collettivo, sopravvissuti a cambiamenti secolari.
Evidentemente, separare la sessualità dalla procreazione, legittimare l’aborto, scrollarsi di dosso le tante illibertà di cui hanno sofferto le donne, a partire dalla cancellazione di esistenza propria, non è bastato a scalfire il carattere fondativo dell’identità femminile, che ancora viene attribuito all’essere madre. C’è ancora una comprensibile resistenza delle donne ad abbandonare un potere - sostitutivo di altri a loro negati - che viene dal rendersi indispensabili, necessarie a uomini che non hanno mai smesso di affidarsi alle loro cure come figli, mettendo a rischio la loro maschera virile.
Ma c’è anche chi, forte di una sia pur controversa libertà ereditata dalla generazione di donne che l’ha preceduta, scrive:
Perché dovrei essere madre per forza? Per il solo fatto di essere donna? C’è un gusto selvaggio nel dire no. C’è piacere nel dire: che le mie mani restino libere da vincoli. Ho troppo da dare al mondo per dare a uno soltanto. Ho bisogno di stare con me stessa, ora e qui su questo mondo. Non voglio essere due solo perché si deve. Pare che, quando l’occupazione principale di una donna non sia quella di madre ma di cittadina, c’è sempre qualcuno che si preoccupa di metterla a posto. (Eleonora Cirant, Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte, Franco Angeli 2012)
Tra i molti modi per “rimettere le donne al loro posto” ci sono le mimose dell’8 marzo, i cuoricini di cioccolata del 10 maggio e i penosi attestati di solidarietà del 25 novembre alle vittime della violenza maschile.
L’altra metà del sesso
Da Freud a Sex and the City. Tra tabù e falsi miti la scoperta del piacere femminile è stata una conquista
Così è saltata la costruzione artificiale fatta sulla natura: madre, monogama, fedele, priva di fantasie erotiche
E la convinzione che la vecchiaia sia l’età dell’astinenza
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 02.04.2014)
OGNI volta che un uomo si occupa di sessualità femminile, a partire dal mitico Freud, si resta di sale: ma come, se lo raccontano ancora, ce lo raccontano ancora, che le donne non sono come da secoli se lo dicono e ce lo dicono? La loro signora non gli ha mai dato una sveglia?
Non hanno mai letto i testi fondamentali degli anni ‘70, scritti ovviamente da donne in cui solo alle donne (gli uomini non li leggevano), si spiegava che “non era per piacere a Dio”, ma trovando una persona volonterosa e creativa, maschio solitamente, si poteva godere scompostamente “per piacer mio”, come si vede oggi in ogni pubblicità di yogurt gustato da femmine.
Proprio nel paese del serioso giornalista Daniel Bergner che crede di sapere cosa vogliono le donne, gli Stati Uniti, uscì nel 1971 (poco dopo in Italia da Feltrinelli) “Our bodies, ourself”, in cui un collettivo femminile di Boston ce la raccontava tutta. Per le donne una rivelazione, sia per chi non ne sapeva niente e sperimentava il suo corpo nel sesso solo come un vuoto soporifero, sia per chi in certe situazioni si vergognava se le veniva da gridare, terrorizzando l’inconsapevole collaboratore.
Il libro conteneva anche orrifici grafici di quella cosa là, assolutamente sconosciuta sia alla proprietaria che a chi se ne riteneva l’utente. Anche da noi i gruppi di autocoscienza si obbligarono a mettere uno specchietto tra le gambe per vedere questa cosa invisibile, che si era costrette tra brividi a trovare bellissima.
Quel saggio fu radicale, disse di smetterla di credere o far finta di credere all’illusione maschile di possedere uno strumento penetrativo salvifico e in grado di far felici le donne già al primo sguardo. Disse, sorpresa! che il vero piacere femminile era nel clitoride, sempre che si trovasse qualcuno con la pazienza di rintracciarlo: o di seguire gli ordini della proprietaria che per conto suo l’aveva già favorevolmente sperimentato.
Da quel momento i testi scritti da donne sull’argomento furono una valanga, comprese le inchieste anni ’70 di Nancy Friday sulle fantasie masochiste femminili, che si riallacciavano al magistrale e a suo tempo proibito Histoire d’O ( anni ‘50), della porchissima studiosa di monachesimo Paulin Reage. Lo smascheramento di massa della sessualità delle donne, silenziosamente, mandò all’aria, almeno teoricamente, tutta la costruzione artificiale sulla loro natura: madre (o puttana), monogama, fedele, priva di fantasie erotiche, nemica della pornografia (anche se ormai scritta da donne e letta quasi solo da donne).
Da anni ormai al cinema sono più le scene in cui è lui ad abbassarsi goloso sotto la vita di lei, che intanto mugola, di quelle in cui è lei a farlo su di lui (che spesso non mugola). Resta indimenticabile un film inglese molto divertente accolto però con una certa pruderie, Hysteria (2011) che racconta dell’invenzione fine Ottocento dell’antenato del vibratore: adottato dai medici come cura all’isteria, cioè a quella perniciosa malattia che era l’impossibile godimento delle donne.
La televisione ha portato in tutto il mondo l’intelligente, spiritosa, coraggiosa serie Sex and the city, 94 puntate dal ‘98 al 2004, ridate anche da noi decine di volte e sempre illuminante: scritta da donne ha raccontato benissimo il bisogno d’amore femminile attraverso l’accumulo di avventure sessuali e talvolta pure sentimentali, sino all’immancabile finale, quello non cambia mai, del “vissero felici e contenti”.
Ma in generale la maschilità è zuccona, smemorata, fragile ed egoista: ancora sono in tanti, anche cervelloni, a immaginare l’erotismo come un servizio addirittura sociale, pure a spese dei contribuenti, che si prenda per esempio carico degli anziani insaziabili, senza neppure obbligarli non si dice a pagare, ma almeno a meritarselo con una certa capacità di seduzione o di risvegliare in buone Signore della Lampada un senso di cura e abnegazione. Giovani però, perché il maschio vecchio tende a sfuggire le coetanee: non è di una donna che queste persone, hanno bisogno, ma di un contenitore che accolga senza orrore lo sfacelo del loro corpo.
E le anziane? Hanno imparato da secoli a nascondere i loro non riconosciuti piaceri, a soddisfarli oppure a farne a meno, quasi sempre con grande contentezza, magari dopo decenni di noiosissimo sesso coniugale. Hanno maggior senso di dignità del loro corpo, hanno avuto quello che hanno avuto e va bene così. Però sono tante le coppie invecchiate insieme, e lo scrivono a Questioni di cuore, che continuano ad amarsi, con la meravigliosa tenerezza che nasce dall’abitudine, dal rispetto, dalla riconoscenza reciproca per quella gioia inestricabile che ha insegnato a due corpi ad armonizzarsi oltre la bellezza e la giovinezza.
Sessant’anni fa Sigmund Freud scriveva all’amico e biografo Ernest Jones: «La vera domanda alla quale nessuno ha risposto, e alla quale io stesso non so dare una risposta nonostante i miei trent’anni di ricerca nell’animo femminile è: cosa vogliono le donne?»
Daniel Bergner ha raccolto in “What Do Women Want?” gli ultimi studi sul piacere senza tabù e vecchi cliché. Scatenando le polemiche
Il sesso delle donne “Il desiderio femminile è come quello dei maschi”
di Elena Stancanelli (la Repubblica, 18.07.2013)
Contrordine: non solo il desiderio femminile esiste, ma è potente almeno quanto quello maschile, non ha una propensione monogamica e, pensa un po’, non è neanche legato all’istinto riproduttivo. Non somiglia per niente a un languore romantico, non necessita di una storia intorno. Esattamente come sapevamo che accade agli uomini e agli altri animali, le donne desiderano punto e basta. Cosa? Sesso. Sono mesi che si gira intorno alla faccenda, le classifiche dei libri sono piene di romanzetti rosa virati hard, che esplorano voglie e vogliette, vizi e vizietti. Persino l’ultimo film di Lars Von Trier, Nymphomaniac (di cui cominciano a girare adesso alcuni spezzoni) ha per protagonista una donna che si concede del tutto al proprio desiderio sessuale, testandone i confini e le implicazioni. Protagonista Charlotte Gainsbourg, a dimostrazione che, forse anche più che per gli uomini, le donne considerano ormai il sesso esplicito un territorio non più proibito, quasi mainstream.
Sessant’anni fa Sigmund Freud scriveva all’amico e biografo Ernest Jones: «La vera domanda alla quale nessuno ha risposto, e alla quale io stesso non so dare una risposta nonostante i miei trent’anni di ricerca nell’animo femminile è: cosa vogliono le donne?». Sessant’anni dopo Daniel Bergner - giornalista delNew York Times, già autore di un saggio sulle parafilie, Il lato oscuro del desiderio- risponde con un libro intitolato appunto What Do Women Want?, che uscirà in Italia, tra qualche mese, per Einaudi Stile libero (come il precedente). E contiene interviste a donne normali, ricerche sugli animali, teorie di psichiatri, scienziate, terapiste sessuali. Gli studi sul desiderio femminile sono in ritardo. Quando sono nate le scienze legate alla sessualità, si è dato per scontato che ci si dovesse occupare di disfunzioni/preoccupazioni/meraviglie dell’organo e dell’orgasmo maschile. Anche soltanto perché entrambi garantiscono la conservazione della specie. E quando Galeno sostenne, nel II secolo d. C., che senza il piacere femminile, mediante il quale immaginava che fosse rilasciato l’uovo da fecondare, non era data appunto fecondazione, fece assai peggio alle donne di quanto una teoria del genere farebbe presupporre.
Secondo Bergner infatti, l’idea imposta dal medico greco che i genitali femminili fossero uguali a quelli maschili ma nascosti e un po’ meno funzionali, ha condizionato la nostra visione del piacere. Questa genitalità femminile oscura e goffa, ha imposto per secoli l’idea che l’orgasmo delle donne, e quindi il desiderio, fossero una robetta insignificante, e soprattutto racchiusa in un istante e in un unico e impervio luogo: la vagina, appunto. Il primo passo per rivalutare instensità e potenza del piacere femminile è stato quindi allargare la zona preposta a un altro paio di robette là intorno, che, ben allertate, garantiscono un gran sollazzo. Tra queste il celeberrimo punto G, scoperto nel 1600 da un medico olandese, ma descritto per la prima volta nel 1950 da Ernst Grafenberg, ginecologo tedesco.
Il primo capitolo del libro di Bergner, uno dei motivi per cui all’uscita negli Stati Uniti e poi in Inghilterra si è scatenato un putiferio, si intitola “animali”. E non soltanto perché le protagoniste degli esperimenti di Meredith Chivers, dell’Università di Ontario, sono le scimmie. Chivers ha studiato a lungo, e raccontato in un documentario, una particolare razza di scimmie chiamate Bonobo, note al mondo per due motivi: la mitezza e la libertà dei costumi sessuali. Le Bonobo fanno sesso continuamente, e quindi soltanto in rari casi per riprodursi, in tutte le combinazioni possibili: maschi, femmine, adulti, anziani, giovani... Ma gli animali che danno il titolo al capitolo non sono le scimmie, bensì le femmine della nostra specie. Selezionate alcune volontarie (etero e omosessuali) la professoressa le prepara applicando nella loro vagina un apparecchietto, “plethysmographry”, che registri turbamenti e movimenti. Poi mostra loro una serie di video pornografici, etero, lesbo e gay - e tra questi anche il documentario che illustra gli allegri accoppiamenti delle scimmie Bonobo. Quindi chiede, alle donne non alle Bonobo, di raccontare che cosa hanno sentito durante la visione, se abbiamo provato eccitazione e per cosa.
Collazionando i risultati ottenuti dalla macchinetta con quanto dichiarato, Meredith Chivers ha scoperto che le donne mentono, mentono moltissimo. Che il loro livello di eccitazione è molto più alto di quello che riescono ad ammettere. Cosa che non accade quando ripete lo stesso esperimento coi maschi. Ne deduce che negli uomini il cervello e i genitali stanno dalla stessa parte, sono alleati, nelle donne spesso no. Cioè le donne si vergognano di quello che provano, o peggio neanche se ne accorgono, talmente sono vincolate a quello che pensano dovrebbero provare. Quindi: il desiderio femminile esiste, è potente animale e vivissimo, ma società e cultura lo osteggiano con forza. Le nostre strutture politiche e di convivenza sono fondate su quel minimo di ordine garantito dalla famiglia, la quale, da un certo punto in poi, ha avuto bisogno di trasformarsi da vincolo utilitario a consesso basato sull’amore.
È lì che, spiega Bergner, ci siamo dovuti inventare un paio di bugie cruciali: che le donne desiderano tutta la vita lo stesso maschio (nonostante la natura gridi il contrario) e che l’unico momento in cui desiderano accoppiarsi è durante il periodo fertile. Qualche anno fa, racconta ancora Bergner, la dottoressa Marta Meana dell’Università del Nevada pubblicò un lungo articolo a proposito delle “fantasie di stupro” o di sottomissione, o di sospensione della volontà. È difficile, spiega la dottoressa, trovare un’espressione che tenga conto del risultato dei miei colloqui, senza offendere nessuno. Alcune donne, spiega, ritennero allora insopportabile l’immagine che lei aveva proposto come esercizio: una donna di spalle, in un vicolo scuro, un uomo che la prende da dietro, uno sconosciuto.
Eppure intorno a quella scena si agita, spesso, il desiderio femminile. Altro che monogamia, altro che riproduzione: sottomissione, cinquanta sfumature di qualsiasi cosa. Un po’ di rischio, la possibilità di non dover scegliere e tanto, tanto testosterone. Di questo si compone il nostro desiderio, il desiderio di uomini e donne. Purtroppo, quando la biochimica si inceppa, la faccenda delle donne si fa più complicata. Un Viagra femminile lo stanno ancora sperimentando. Ma già possiamo dire che in ogni caso si tratterà di un bel frullato di testosterone, dopamina, serotonina... cose così. Non un documentario sul Principe Azzurro.
Le donne come soggetti, oltre il ruolo di madri e spose
di Maria Cristina Bartolomei (“Jesus”, gennaio 2013)
L’atmosfera natalizia colora di sé l’inizio del nuovo anno, proseguendo liturgicamente nella celebrazione della maternità di Maria, della Sacra Famiglia e dell’Epifania. Anche indipendentemente dalla fede, tali festività comunicano un forte messaggio simbolico di attenzione al mistero di vita nuova che ogni neonato reca con sé in dono per tutti, alla famiglia e, in modo tutto particolare, alla figura della madre. Ma quanto tali simboli hanno veramente improntato di sé la nostra civiltà? Gli orrendi crimini che si consumano oggi sui bambini (pedofilia, traffico d’organi, sfruttamento del lavoro, schiavizzazione, prostituzione) sono versioni aggiornate di una violenza sui minori che, semmai, in epoca moderna si è attenuata, e che oggi viene almeno condannata e combattuta sul piano sociale e legislativo.
Sembra invece accrescersi, anziché attenuarsi, la violenza sulle donne, che presenta forme sempre più estreme. Maltrattamenti, stupri, molestie, molte forme di oppressione e schiavizzazione, fino al femminicidio: nel 2012 nella sola Italia più di cento donne sono state uccise da uomini quasi sempre loro partner o familiari. Una strage sulla quale ci si deve interrogare e che impone risposte sul piano del costume e della cultura.
Quando si parla della famiglia non si dovrebbe dimenticare, accanto a tutte le note positive, anche tale nota sinistra: di famiglia le donne non solo vivono, ma anche muoiono. Per questo, la stessa esaltazione della figura materna può rivelarsi un’arma a doppio taglio, giacché rischia di ridurre la donna a una, per quanto nobile e altissima, funzione, invece di valorizzarla in sé, in quanto essere umano.
L’attenzione alla madre può infatti celare e indurre una distorsione dello sguardo: la donna vale in quanto e perché genera, perché genera uomini. E, così, le categorie entro le quali la vita femminile è stata a lungo compresa e compressa (vergine-sposa-madre), che ci danno un’immagine della donna non come un soggetto che guarda il mondo, ma come un oggetto, come una guardata dagli uomini, definita dalla sua relazione con l’universo maschile.
Mai si è, invece, pensato di poter comprendere l’uomo riducendolo alle categorie di vergine-sposo-padre, che pure gli si attagliano. La coscienza media ecclesiale non si sente investita dal fenomeno della violenza sulle donne quanto dovrebbe, giacché, nonostante la forza liberante dell’Evangelo, della prassi di Gesù e della comunità cristiana primitiva, e benché il cristianesimo abbia contribuito moltissimo alla liberazione delle donne, le tradizioni e la mentalità ecclesiastiche sono state e sono ancor oggi profondamente contaminate da misoginia, dal disprezzo per le donne, dalla non percezione della necessità del loro apporto nella vita sociale e ancor più ecclesiale, dal non riconoscimento che la loro umanità e quella dell’uomo sono equivalenti nella loro diversità, segnate da una non adeguata coscienza della piena soggettività e libertà femminili e da molte consuetudini e pregiudizi ad esse avverse.
Il 25 novembre scorso si è celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nello stesso giorno ricorre la memoria liturgica di santa Caterina d’Alessandria che, secondo la tradizione, subì il martirio nel 305: si era infatti rifiutata di adorare gli dei pagani durante i festeggiamenti per il tetrarca Massimino Daia, cercando, anzi, con argomentazioni profonde, di convertire quest’ultimo. Data la sua giovinezza, bellezza e il suo essere di stirpe regale, l’imperatore tentò di salvarla, inviandole un gruppo di filosofi e retori per indurla ad abiurare la sua fede. Ma fu lei a persuaderli: aderirono al cristianesimo e morirono martiri.
È difficile distinguere in tutto ciò la storia dalla leggenda (tanto che per quattro decenni la Chiesa cattolica la escluse dal martirologio, riammettendovela nel 2002), essendo i documenti disponibili assai tardivi. Santa Caterina - alla quale Giustiniano intitolò il celebre monastero sul monte Sinai, dove narra la leggenda il suo corpo sia stato trasportato dagli angeli - è tuttavia venerata da tempi antichissimi da tutte le Chiese cristiane che ammettono il culto dei santi e che ci hanno in tal modo trasmesso il messaggio della capacità apostolica, teologica e filosofica delle donne.
Una cosa così inaudita per la cultura patriarcale e androcentrica da far pensare che la storia sia vera: tanto è difficile immaginare che se la siano inventata! La figura di santa Caterina addita una via decisiva: valorizzare le capacità dello spirito e della mente delle donne, liberandole dall’essere ridotte allo sguardo della cultura androcentrica. Ciò è a vantaggio non solo delle donne, ma di tutta l’umanità, e al fine di una maggiore trasparenza della Chiesa nel servizio all’Evangelo.
Il rinnovamento della società e della politica in crisi richiede l’apporto delle donne. E perché il messaggio evangelico possa raggiungere le donne, queste debbono sentirsi rispettate e riconosciute: non ci sarà un’evangelizzazione veramente nuova senza che le donne ne siano piene destinatarie e coprotagoniste.
Catechismo e testi edificanti per indirizzare la mente delle lettrici «credule e sciocche»
di Nicoletta Bazzano (il manifesto, 12 settembre 2012)
L’estate che sta per concludersi non sarà ricordata negli annali dell’effimero per il tradizionale tormentone canoro. Semmai per le centocinquanta Sfumature - di grigio, di nero e di rosso - ripartite in tre voluminosi tomi rigorosamente destinati al pubblico femminile. In verità, sia le opinioniste sia le lettrici «comuni» del romanzo porno-soft di E. L. James dichiarano spesso di trovare la scrittura sciatta e le situazioni inverosimili quando non ridicole. Ma tant’è... Ad attirare in questo polpettone più o meno erotico sembra essere soprattutto la possibilità di leggerlo senza incorrere in qualche tipo di riprovazione sociale e la libertà di intrattenersi ludicamente con un libro. Si tratta di un momento importante nella lunga storia della lettura femminile, anche se può apparire triste che esso si consumi dinanzi a pagine di dubbia qualità.
Ad apprezzarne, comunque, la portata aiuta il bel saggio di Xenia von Tippelskirch Sotto controllo. Letture femminili in Italia nella prima età moderna (Viella, pp. 301, euro 28): una galleria di vividi ritratti di donne del passato intente alla lettura. Non è però la storia della graduale emancipazione femminile, quella che la studiosa, tramite puntuali ricerche archivistiche, racconta; semmai quella di un controllo sociale e religioso sempre più stringente man mano che dall’età umanistica e rinascimentale ci si addentra nella stagione della Controriforma.
Impossibile, infatti, in pieno Cinquecento, dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili e il moltiplicarsi nelle città italiane di imprese editoriali, impedire a chicchessia di venire a contatto con testi stampati. Semplicemente passeggiando per le strade ci si può imbattere facilmente in una miriade di occasioni che invitano alla lettura. Sui banchi di librai e stampatori, si trovano in bella mostra i più diversi volumi: «istorie» e poemi, ma anche almanacchi, lunari, ricettari o semplici fogli volanti, «avvisi», pasquinate... Nascosti, poi, spesso, ci sono quei libri che parroci e religiosi, seguendo le indicazioni della Congregazione dell’Indice, condannano perché traviano la mente di quanti li leggono con il loro contenuto eretico o superstizioso.
Agli occhi della Chiesa cattolica, decisa, dopo la frattura con l’Europa protestante, a plasmare una società obbediente ai propri dettami, è un materiale pericoloso: i «semplici», fra cui le donne ritenute per natura «credule e sciocche», possono esserne facilmente sedotti. Non potendo impedire i contatti con i testi scritti, lentamente, e non senza difficoltà, fra Cinque e Seicento, si dispiega una strategia per il controllo dei lettori e soprattutto delle lettrici cui sono destinati libri che ne devono plasmare mente e comportamenti. Si proibisce, si punisce, si indirizza. E in quest’ultima operazione si profondono sforzi poderosi, in grado di dare risultati anche su un periodo più lungo.
Cattolica è l’istruzione che si riceve nell’infanzia, nelle scuole di dottrina cristiana, diffuse in tutto il Nord Italia, o dalle insegnanti private che lavorano in grandi centri urbani come Venezia e Roma: si impara a compitare sul catechismo, alternando magari la lettura con i lavori femminili, non con la scrittura che è spesso interdetta alle donne. Destinatarie dell’insegnamento sono le gentildonne destinate a dar buona prova di sé nella «civil conversazione» di palazzo, ma anche le popolane pronte a una vita di fatiche.
Nell’età adulta le letture edificanti servono a mantenere viva la fede e a confortare lo spirito. I confessori consigliano di riservare loro momenti privilegiati, insieme alle amiche ma anche nel segreto della propria casa, prima dei pasti o del sonno. E così anche negli ambienti cattolici - così come in quelli protestanti dove la lettura è parte integrante della pratica religiosa - il libro diviene fondamentale per l’esercizio della devozione. Per questo le pagine divengono il medium attraverso il quale si prescrive il comportamento della «lettrice ideale».
Massimo esempio è dato dalla Vergine Maria, che viene descritta nei testi devoti del tempo «lavorando come è da credere, con le sue mani, di sante cose ragionando, orando, salmeggiando, & nella lettion delle sacre lettere occupata (...) leggendo le prophetie»: iconografia dell’Annunziata, tradizionalmente ritratta con un libro in mano al momento dell’apparizione dell’angelo. Accanto a lei, molti testi cinquecenteschi propongono a modello alle lettrici persone realmente vissute, donne nelle quali rispecchiarsi e delle quali emulare i comportamenti virtuosi.
Inutile dire che gli esempi altro non sono che creazioni letterarie cui viene data la parvenza della verosimiglianza perché i precetti giungano con maggiore efficacia a destinazione. Impossibile, poi, dire come le donne cui sono indirizzati reagiscano, magari con una lettura individuale che cerchi di allentare la pressione di divieti e controlli. Non se ne hanno che fragili indizi. Di certo l’idea di una necessaria tutela da esercitare nei confronti delle lettrici non si esaurisce nei secoli successivi. Allo stesso modo lunga vita ha l’idea che il libro, più di ogni altra cosa, debba offrire esempi di comportamento. Si crede, infatti, che la natura stessa della presentazione letteraria a menti poco raffinate come quelle femminili induca all’imitazione. Pertanto, per molto tempo, sulla scorta dell’esempio controriformista, si continuerà a controllare la lettura delle signore, cercando di distoglierne lo sguardo dai libri «pericolosi», in grado di influenzarne negativamente i comportamenti pubblici e privati.
Dovrà giungere il liberatorio Novecento perché società e Chiesa accettino che le donne possano avere senso critico. E che si possano leggere le Sfumature senza che ciò significhi condividerne l’immagine femminile. Le donne pensano - giustamente - di essere più intelligenti di un brutto libro estivo.
Donne: 13 febbraio mobilitazione nazionale
Una mobilitazione in tutte le città italiane domenica 13 febbraio per ridare dignità alle donne: se non ora quando? L’iniziativa più politicamente trasversale non si potrebbe perché quello che emerge dalle carte dei pm della Procura di Milano sul caso Ruby, "un modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni. Chi vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose, lo faccia assumendosene la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità internazionale".
Ci sono tra le altre, le firme di Francesca e Cristina Comencini, Rosellina Archinto, Gae Aulenti, delle scrittrici Silvia Avallone e Michela Murgia, Lorella Zanardo e Rosetta Loy, Clara Sereni e Valeria Parrella, l’on. Pdl Giulia Bongiorno e del Pd Anna Finocchiaro, il segretario della Cgil Susanna Camusso, l’editrice Inge Feltrinelli, il direttore del Secolo d’Italia Flavia Perina, le attrici Margherita Buy, Angela Finocchiaro, Laura Morante, Lunetta Savino, Maria Bonafede della chiesa Valdese e Suor Eugenia Bonetti, Licia Colò, Claudia Mori.
La mobilitazione, che è partita oggi (per le adesioni e informazioni l’indirizzo mail è mobilitazione.nazionale.donne@gmail.com) nasce dalla consapevolezza che in Italia la maggioranza delle donne lavora fuori o dentro casa, crea ricchezza, cerca un lavoro (e una su due non ci riesce), studia, si prende cura delle relazioni affettive e familiari, scrivono le firmatarie.
per le adesioni e informazioni l’indirizzo mail è
mobilitazione.nazionale.donne@gmail.com
TRIANGOLI
di Eleonora Cirant
C’era una volta un triangolo a punta in giù. Come segno scolpito nella pietra, la forma ha attraversato i millenni che ci separano dalle nostre origini. Come immagine, risale dalle profondità della psiche con la forza degli archetipi. Simbolo della madre terra nelle civiltà matrifocali del paleolitico e poi lungo la trama del tempo fino ad oggi, il triangolo a punta in giù è una rappresentazione sintetica del pube femminile e insieme della forza generatrice del femminile: un simbolo.
Negli anni Settanta le femministe lo facevano con le mani, mettendo la punta all’insù. Durante le manifestazioni lo tenevano ben in alto per farlo vedere, a sottolineare con un gesto parole rivoluzionarie. E che impressione vederlo ripetuto e scandito da quelle migliaia di mani alzate, anche se si tratta solo di vecchie foto in bianco e nero.
Nel 2011 si discute dei triangoli pubici fotografati per il calendario promozionale del Consorzio vera pelle conciata a mano da Oliviero Toscani, uno che gioca a fare le iperboli con le immagini. Sull’altare del consumo la vacca sacrificale è sempre la solita. E’ questo che volevi dirci, Oliviero, abbinando il pube femminile nudo alla "Vera Pelle Conciata A Mano Al Naturale"? Perché il significato è dato dal contesto, e tu lo sai. Vacca sì, ma "nature". Quei dodici triangoli pubici esibiscono infatti un pelo folto, scapigliato, al naturale. Come mamma li ha fatti, senza intervento di rasoi, cerette, estirpatori elettrici, tinture e altre diavolerie.
Si perché di fronte al pube "bio", più di un maschietto storce il naso esclamando: "che schifo, tutti quei peli?!". Sono in tanti gli uomini che, protetti dall’anonimato della rete, dichiarano nei forum di preferirlo depilato, il pube femminile. E sono in tante anche le donne. Come non pensare a Barbie? In commercio dal 1959, è una delle bambole più vendute al mondo, secondo wikipedia. Per giocare a fare la mamma le bambine hanno (avevamo) il cicciobello, ma per giocare a fare la donna hanno (avevamo) lei. La Barbie. Interprete di decine di ruoli: c’è la Barbie-mamma, accanto alla Barbie-presidente-degli-stati-uniti. La Barbie-poliziotta, accanto alla Barbie-ballerina. Affusolata, piatta sul sedere ma con i seni a punta di un big robot d’acciaio femmina. Gli occhioni splendenti, la capigliatura folta, e il pube liscio e levigato. Il corpo della Barbie è quello di una creatura ibrida, metà donna e metà bambina. Pare si sia ritagliata uno spazio di tutto rispetto nell’immaginario collettivo di maschi e femmine.
E così ci viene il sospetto che quel furbacchione di Toscani e il suo entourage ci abbiano azzeccato. La paccottiglia che ci hanno propinato è la solita di cui ci ingozzano ogni ogni giorno i pubblicitari maschi e femmine del Bel Paese. La carne al macello è sempre quella. Ma il gioco iperbolico innesca più di un corto-circuito mentale, anche se ha fatto bene l’Istituto per l’autodisciplina della pubblicità ad imporre il ritiro della campagna a pochi giorni dal suo esordio perché, scrive, "il corpo femminile viene equiparato alla “pelle conciata”, ovvero sia ad un prodotto che ad un animale, ovvero un animale ucciso, sezionato e trasformato in prodotto di lavorazione, rilevando pertanto il contrasto con l’art. 10 del Codice, secondo cui “la comunicazione commerciale deve rispettare la dignità della persona umana in tutte le sue forme ed espressioni”.
La campagna ha comunque fatto il botto, ottenendo il risultato cercato: far parlare di sé. Sinceramente: chi di voi prima sapeva dell’esistenza di un tal Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale?
E’ solo un piccolo botto, nel fragore della battaglia che si gioca tutt’intorno, mentre vanno in scena da un lato lo stupro della classe lavoratrice ("consenziente o meno, dimmi di si", dice il padrone Marchionne mentre punta il coltello alla gola di chi lavora nella sua azienda) e dall’altro il bunga bunga.
A noi rimane una nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai potuto conoscere: un semplice triangolo a punta in giù. Ma anche la spinta a riappropriarcene, perché un simbolo non è che ciò di cui lo si significa.
LIBRI
Carina, educata e modesta ecco l’inferno della "brava ragazza"
Una studiosa americana dedica un libro alla "maledizione" che porta molte adolescenti a rinunciare alla propria personalità in cambio dell’approvazione generale. "Un meccanismo che crea danni psicologici e allontana dalla realtà"
di SARA FICOCELLI *
Carina, educata e modesta ecco l’inferno della "brava ragazza" La copertina del libro
SGUARDO basso, sorriso timido, occhi senza trucco incorniciati da capelli castani e maglioncino rosa: l’adolescente scelta per la copertina del libro La maledizione della brava ragazza, scritto dall’educatrice Rachel Simmons (Nutrimenti, 2010, p. 280) sembra un angelo di plastica. La scelta non è casuale. Si tratta di una brava ragazza come tante, educata a non rispondere male, a non essere egoista, a non alzare la voce. Persino a non dire ciò che pensa, se questo può dare fastidio a qualcuno.
L’autrice dieci anni fa ha fondato e tuttora dirige, a Berkeley, il Girls Leadership Institute. E sostiene che essere una "brava ragazza" non sempre è una cosa positiva né tanto meno è sinonimo di personalità. Spesso le adolescenti che inseguono la perfezione (a scuola, nello sport, in famiglia, nei rapporti sociali) sono frutto di un sistema educativo poco rispettoso della loro individualità, che da loro pretende il massimo senza offrire alternative. La corsa verso la continua approvazione le rende non solo incapaci di accettare rifiuti e fallimenti ma anche cieche di fronte a ciò che realmente sono o vorrebbero diventare. E mentre tutte le energie mentali e fisiche vengono investite per diventare sempre più "brave", le capacità di autoanalisi e autoaffermazione si atrofizzano, portando il cervello a identificare i modelli suggeriti dagli adulti come gli unici da preferire.
Responsabili di questo danno psicologico, secondo la Simmons, sono i genitori, gli insegnanti, ma anche gli amici e i media, che da anni propongono modelli femminili stereotipati, creati per piacere a tutti e a tutti i costi. L’istituto fondato dall’autrice è nato per aiutare le adolescenti a confrontarsi con se stesse e il libro è il frutto di anni di studio con ragazze dagli 8 ai 18 anni. La Simmons ha raccolto dati e condotto test psicologici, ma soprattutto ha parlato con loro cercando di capire le ragioni profonde di fenomeni spesso frettolosamente etichettati come "sbalzi ormonali", dal pianto facile all’attacco isterico per il litigio con un’amica. Il libro mette insieme i risultati di tanti studi scientifici ma la parte più interessante sono le interviste alle adolescenti. Che permettono di guardare con occhi diversi a quel mondo di fanatismi, amicizie morbose, omologazione, rabbia. E si scopre che, per quanto la letteratura scientifica abbia versato fiumi di inchiostro studiando i teenager, delle "brave ragazze" si è scritto poco, dando per scontato che i problemi fossero rappresentati da quelle "cattive".
"Spesso si costringono le giovani donne a comportarsi come adulte - spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano - impedendo loro di capire cosa vogliono dalla vita e da se stesse. L’unico scopo diventa quello di somigliare il più possibile a ciò che viene chiesto loro di essere". Secondo Mencacci, imporre dei modelli da seguire a priori è pericoloso. "Le adolescenti solo "buone" o solo "cattive" - spiega - non sono in grado di affrontare la vita. Per farlo è necessaria la completezza, l’equilibrio di più fattori, difetti ed errori compresi".
Tuttavia di recente, sottolinea l’esperto, si sta assistendo a un’inversione di tendenza, per lo meno in Italia. "Fino a due anni fa il trend più in voga era quello delle "brave ragazze", oggi stiamo tornando alle "cattive". I dati rilevati dagli istituti ospedalieri nazionali denunciano un nuovo segmento di giovani donne (11-18 anni) con problemi di alcol. I modelli imposti e non fatti propri generano, nel lungo periodo, reazioni eccessive nel verso opposto". Secondo il professore grandi responsabilità, in questo senso, le ha proprio la psicologia, che ha sempre schematizzato i problemi delle ragazze riconducendo tutto alle colpe dei genitori, senza offrire vie d’uscita o soluzioni propositive, anzi enfatizzando lo scontro con madre e padre.
Questi ultimi, da parte loro, spesso sbagliano trattando le figlie non come esseri umani ma come gioielli di proprietà, da plasmare in base alle proprie aspettative o ai sogni di gioventù irrealizzati. "E’ un meccanismo frequente - spiega Luisa Ribolzi, docente di Sociologia dell’educazione all’università di Genova - l’atteggiamento di possesso crea dinamiche poco sane e carica i ragazzi di responsabilità difficili da gestire. Basti pensare a quelli che si suicidano o che uccidono i genitori perché non hanno il coraggio di confessare di non aver terminato gli studi. Per le ragazze il fenomeno è ancora più evidente perché, storicamente, dalle donne si è sempre preteso un comportamento più remissivo e responsabile".
Il paradosso finale è che spesso i modelli riconosciuti come "giusti" e desiderabili sono quelli più in contrasto con le evoluzioni della società. Come spiega la Simmons, l’atteggiamento pacato e timido di molte adolescenti, che spesso le porta a non farsi avanti per paura di sbagliare, è in contrasto con una società che privilegia chi si espone e dice la sua. "In alcuni Paesi asiatici - conclude - si riscontra un elevato numero di giovani donne affette da tumori alla pelle, perché cercano di schiarirla per somigliare alle coetanee occidentali. Eppure la percentuale di donne dalla carnagione chiara, in quei Paesi, è minoritaria. La maggior parte degli stereotipi presi come modello di perfezione non ha alcun riscontro con la realtà, anzi allontana da essa".
La sociologa conclude spiegando che i genitori potrebbero aiutare le loro figlie a formare la propria personalità facendo come i gatti quando svezzano i cuccioli: spingendole cioè a confrontarsi con la vita da sole, anche a costo di farsi male. O di non diventare, necessariamente, una "brava ragazza".
* la Repubblica, 06 ottobre 2010
Marziani, state a casa
di Maria G. Di Rienzo *
Tanti anni fa (io ero una bimba, per cui sono proprio tanti), fu inviata nello spazio una sonda, chiamata Pioneer 13 se non ricordo male, destinata a perdersi oltre i confini della nostra galassia. Recentemente ho letto che il suo viaggio procede senza intoppi, in cieli distanti, fra stelle sconosciute. Questa sonda reca un messaggio inciso su una lastra di metallo, le figure di un uomo e di una donna ed alcuni simboli: il suo scopo è indicare alle eventuali forme di vita che lo ricevessero che l’umanità è pacifica e pronta ad accoglierle. Io non posso lanciare questo articolo dietro alla Pioneer per avvisare che si tratta di un’enorme menzogna, ma so che devo scriverlo e sperare nel miracolo: alieni, chiunque voi siate, non credeteci e restate sui vostri pianeti. Pacifici? Una cinquantina di guerre insanguina la culla dell’umanità, giorno dopo giorno, anno dopo anno, milioni di morti, milioni di mutilati. Accoglienti? Abbiamo confini sempre più militarizzati che “difendono” aree sempre più piccole, di territorio o di idee. Non accogliamo neppure i nostri fratelli e sorelle di specie quando fuggono da povertà, conflitti armati e disastri ambientali, chi vogliamo prendere in giro? Amici di altre galassie, portate pazienza e ascoltatemi. Ho scelto un paese a caso, sul Pianeta Azzurro, per spiegarvi a cosa andreste incontro venendo qui. Non è interessato da guerre, al momento, per lo meno sul territorio nazionale, ma questo non lo rende meno pericoloso. Ecco perché non è bene metterci piede:
1. Le bambine, di qualunque gruppo sociale, religione o provenienza geografica, in questo paese della Terra non sono al sicuro. Figuriamoci se lo sarebbero bambine verdi con le antenne, originarie di Proxima Centauri.
Bambine di undici anni vengono violentate dal vicino di casa-affettuoso baby sitter (21 aprile 2007) Gli abusi, secondo la ricostruzione degli investigatori, andavano avanti da oltre due anni e sono continuati fino a quando un’amichetta delle due undicenni, che si trovava in casa con il vicino insieme a loro, si è accorta dei comportamenti strani dell’uomo. Così la piccola ha convinto le due amiche a raccontare tutto ai genitori e lei stessa ha riferito quello che aveva visto a sua madre. Le mamme hanno poi accompagnato le figlie all’ospedale dove nel corso di una visita sono state riscontrate le violenze subite.
Se appena ne compi dodici, di anni, ci pensano i tuoi parenti a prostituirti (sempre 21 aprile). Dopo un paio d’anni si scopre che è tua madre a venderti: il costo delle prestazioni variava dai quindici ai trenta euro e i video degli incontri venivano conservati dai “clienti” sui cellulari, per fare pressione sulla ragazzina. Se quest’ultima opponeva resistenza, veniva ricattata con i filmati che mostravano i precedenti incontri sessuali, “Ti sei andata a coricare” si sente in una delle intercettazioni telefoniche, “e mi hai chiuso il telefono. Guarda che ti ricatto, ho le cose per ricattarti.” In un’altra telefonata, uno degli uomini chiede alla ragazza se le si erano rimarginate le ferite provocate da un loro rapporto sessuale.
Oppure trovi qualche brav’uomo, sposato con tutti i crismi e padre di due bambini, che dopo essersi portato a letto una dodicenne testimonia giulivo davanti al giudice: “Scherzavamo. C’è stato solo qualche scambio di affettuosità.” (24 luglio 2007) E se soffri il peso di una disabilità (in questo caso specifico motoria, e grave), non pensare che il violentatore di turno si farà scrupoli, anzi, l’età si abbassa pure. Otto anni ha la bambina disabile costretta a prestazioni sessuali per un parente stretto, che le ha pure riprese con il videocellulare e passate agli amici. (2 giugno 2007)
2. Le donne, sempre con la stessa puntigliosa trasversalità, sono trattate come pezzi di carne sul bancone di un macellaio.
Durante una lite, un uomo di 35 anni inizia a picchiare la sua compagna, 30enne, incinta di quattro mesi, con calci e pugni. Fino a procurarle un aborto. Poi ha prelevato il feto, e lo ha seppellito nella campagna vicina. La donna ha chiamato un’ambulanza per chiedere soccorso e, in un primo momento, ha raccontato ai medici solo dell’aggressione, senza menzionare l’aborto che tuttavia è stato diagnosticato dai sanitari. Solo allora la donna ha riferito tutti i particolari dell’accaduto. Rintracciato l’aggressore, che si era nascosto in un casolare isolato, si è potuto recuperare il corpicino da una fossa. (8 luglio 2007)
Ma non importa che tu riesca a metterli al mondo, i tuoi e suoi bambini. Ne puoi partorire persino quattro, e se lui pensa che tu lo tradisca ti sgozzerà davanti a loro. La donna di cui parlo è morta in questo modo orribile, a 48 anni, per: “Un storia inesistente”, dicono gli investigatori, “forse resa reale per l’uxoricida dal suo stato depressivo.” L’uomo ha poi tentato il suicidio ferendosi all’addome con lo stesso coltello, una lesione giudicata dall’ospedale guaribile in pochi giorni. Il maggiore dei figli, che ha dato l’allarme ed è fuggito da casa con gli altri fratelli, ha 16 anni. (26 luglio 2007)
E sappiate anche che il denunciare le violenze da parte delle donne è inaccettabile ed è immediatamente punito con violenze ulteriori. Un pensionato viene arrestato per reiterate violenze sessuali ai danni di un quattordicenne. Dopo un periodo di detenzione, ottiene gli arresti domiciliari per motivi di salute. Cerca di far ritrattare le proprie dichiarazioni ad una testimone dell’accusa, ma costei si rifiuta: l’uomo la picchia e la stupra. (6 luglio 2007) Non va meglio se la protesta contro la violenza è collettiva, pubblica e organizzata, ne’ importa che il motivo per cui si protesta sia l’omicidio insensato di una giovane (questioni di “onore”): la ritorsione è solo differita, per motivi di opportunità. Si aspetta che una delle organizzatrici si trovi da sola, e la si insulta e minaccia di morte. Le prime parole che gli aggressori dicono rivelano tutto: “Devi smettere di parlare...” (29 giugno 2007)
3. In questa specifica nazione del pianeta Terra si sta allevando una generazione di giovanissimi spacciando loro per valori la sopraffazione, l’arroganza e la “legge della giungla”.
Due studenti quindicenni portano di forza un loro coetaneo nei bagni della scuola: qui il ragazzino viene violentato da uno dei compagni mentre l’altro riprende la scena con il telefonino. La vittima, che ha un piccolo deficit di apprendimento ed è seguito da un insegnante di sostegno, ha poi raccontato tutto, settimane dopo, alla madre, quando un familiare aveva avuto la notizia dell’esistenza di quelle immagini. (26 maggio 2007)
Molti episodi, che siano meno cruenti o analoghi, non raggiungono la stampa, ma la loro crescita è ampiamente testimoniata. Il bullismo comincia ad uccidere anche in questo paese (almeno una vittima si è data la morte per sfuggirvi, quest’anno), e in più abbiamo spacciatori dodicenni di droghe leggere provenienti da rinomate e benestanti famiglie, e bambine di dieci anni che “tirano” coca perché fa dimagrire. Per non parlare dei filmati “shock” che vengono allegramente messi in internet e dove si può ammirare la cricca dei bulli minorenni che tormenta la vittima di turno.
4. La sanità mentale, in questo paese, è uno stato ampiamente minoritario. Soprattutto fra chi ha potere decisionale o autorità di qualche tipo.
Prendete i sindaci. Uno si sveglia la mattina e decide che i bambini “nazionali” hanno più diritti dei bambini immigrati. Nelle graduatorie per gli asili nido comunali, passeranno avanti grazie alla cittadinanza di mamma e papà. E badate bene: “Qualora gli istituti non volessero accogliere la richiesta, il sindaco è pronto a intervenire con un’ordinanza.” Chi viene da “fuori” è un problema, tuona il primo cittadino, e perciò ha in progetto di realizzare un sistema di monitoraggio tramite telecamere piazzate su tutto il territorio comunale: scuole, parchi, piazze, periferie, frazioni... Il Grande Fratello in perpetuo, ventiquattrore su ventiquattro, è semplicemente geniale, no? (27 luglio 2007)
Un altro sindaco si trova con un caso di stupro sul proprio territorio, otto minorenni che violentano una coetanea e cosa fa? Tira fuori dal bilancio comunale le spese legali per gli accusati, forse ignorando che la difesa legale è garantita d’ufficio anche agli indigenti (ma i fanciulli non sarebbero indigenti, pare che abbiano parenti in giunta, invece). Di fronte alle reazioni provenienti da membri autorevoli del suo partito, gli dà dei “talebani.”, ricorda che sono loro ad aver bisogno di lui e non viceversa, e si organizza una micro manifestazione di sostenitrici per far vedere a tutto il mondo che le donne non sono schifate e offese dal suo comportamento, anzi. (18 luglio 2007) Cos’abbiamo, ancora? Parlamentari tristi e stanchi, consumati dalla lotta alla droga, dalla tolleranza zero e dal “family day” che sono costretti, causa lontananza dall’amata moglie, a festini a base di cocaina e prostitute. Sacerdoti con una fedina penale notevolmente sporca che, nei guai con la legge per l’ennesima volta, denunciano “complotti” giudaico-massonici. (Questa dichiarazione mi ricorda qualcuno, qualcuno con baffetti e divisa, ma no, non è Chaplin). Ministri della Repubblica che prontamente assicurano loro “vigilanza” sui complotti...
Miei cari ET, cosa devo dirvi di più? Di qualsiasi costellazione siate originari, restateci. O almeno non mettete piede in Italia, fino a che non diventiamo un paese civile.
Maria G. Di Rienzo
P.S. Gli episodi di cronaca succintamente narrati sono avvenuti nelle province o nella città di: Roma, Palermo, Manfredonia, Foggia, Catania, Civitavecchia, Milano, Ferrara, Lucca, Viterbo. Gli autori degli atti di violenza erano cittadini italiani e cittadini immigrati; le vittime pure.
Intervista ad Alice Walker
di Lauren Wilcox (trad. M.G. Di Rienzo) *
Alice Walker è scrittrice, poeta e saggista. Le sue opere, tra cui la più famosa è sicuramente “Il colore viola”, sono state tradotte in più di venti lingue.
Lauren Wilcox: Nei tuoi lavori, romanzi o no, hai scritto moltissimo delle donne: le loro vite, i loro ruoli, le loro lotte. Sarei curiosa di conoscere la tua opinione rispetto al ruolo delle donne in comunità che funzionano, il ruolo di donne forti in relazione con gli uomini.
Alice Walker: E’ il punto cruciale dell’intera faccenda. Se le donne non hanno controllo sulle proprie scelte, sul proprio ambiente di vita, se sono continuamente espropriate da parte degli uomini nelle loro società, significa che non hanno l’autonomia necessaria a far sì che le loro esistenze e quelle delle loro figlie si realizzino pienamente. E’ così assolutamente essenziale che siamo in molti a studiare i modi per sostenere queste donne. Ed è una cosa non facile, se ci rifletti, perché persino nella nostra cultura ci sono troppe donne abbattute dal potere patriarcale che neppure pensano di doversi mettere insieme a organizzare dei cambiamenti. Naturalmente non possiamo farlo noi per loro. Ma possiamo dir loro di basarsi sulle proprie esperienze per pianificare le azioni che elevino il livello di salute e benessere per tutti, nelle loro comunità, ma in special modo per loro stesse e le loro figlie. Quando le donne ottengono dei miglioramenti, come sappiamo, le vite di tutti migliorano.
Lauren Wilcox: Hai scritto storie di donne ambientate in diversi periodi storici e nel presente. Credi che in generale la situazione delle donne sia cambiata in meglio, attraverso gli anni?
Alice Walker: Quello che mi viene in mente è l’ultima volta che sono stata in Africa, a Bolgatanga, nella parte nord del Ghana. La mia amica Pratibha Parmar, la regista cinematografica, ed io eravamo là come conseguenza del lavoro che avevamo fatto per eliminare le mutilazioni genitali. Era un’enorme assemblea, di uomini e donne, i più decisi “abolizionisti” della pratica che io avessi mai conosciuto. E’ stato commovente. Ciò che ho capito tramite l’incontro con queste persone è che nei posti più remoti che si possa immaginare vi sono connessioni con il resto del mondo, e vi è una buona comprensione del fatto che le cose stanno cambiando, e che devono cambiare per la salvezza del continente intero. Non si tratta del tuo villaggio, e neppure del tuo paese: la questione concerne la salute del continente e la salute del pianeta Terra.
Lauren Wilcox: Tutto il tuo scrivere ha elementi di attivismo, di consapevolezza delle durezze e delle lotte che le persone affrontano durante le loro vite. E’ uno scopo, nella tua scrittura, un attivismo intenzionale?
Alice Walker: La mia scrittura è olistica. Immaginami come un albero di pino. Da me non verrà nulla che non sia pino. Ho le mie pigne, i miei aghi di pino, il mio profumo specifico. Io vedo la scrittura come la mia ragione d’essere. Non è una parte preziosa della mia esistenza. Come per il pino è lasciar cadere e ricrescere... è un tutt’uno.
Lauren Wilcox: Perciò scrivere è il modo in cui realizzi pienamente ciò che sei?
Alice Walker: Sì. E’ il modo in cui dai acqua e fertilizzanti al pino. Continui a crescere, continui a condividere, continui a dare e ad avere e continui a lasciar andare. In questo circolo c’è il fattore di sostenibilità, che sostiene te stessa. Ma non ti sostieni trattenendo le cose. Ti sostieni lasciandole andare.
Lauren Wilcox: Dandole via, donandole?
Alice Walker: Sì. Nella nostra cultura, tutti sentono di dover conservare, tenere, trattenere, e non passare in giro nulla. Quando fai questo, che può accadere al resto del pianeta, se non morire di fame?
Lauren Wilcox: Qual è la cosa migliore che possiamo insegnare ai nostri figli, secondo te, per prepararli al futuro?
Alice Walker: Dobbiamo disabituarli alla nozione della scarsezza. Penso che si tratti del pensiero globale più pernicioso e definitivamente distruttivo, la nozione che viviamo in un mondo di scarsità. In effetti, viviamo invece in un mondo d’abbondanza. Ed è solo perché alcune persone si sono prese la maggior parte delle risorse per sé e sprecano le altre in guerra che altre persone non hanno nulla. Non c’è scusa possibile, per il fatto che le persone sulla Terra non hanno cibo sufficiente, abiti, istruzione e accesso all’assistenza sanitaria. Nessuna scusa, nessuna.
Lauren Wilcox: Come hai cominciato ad interessarti delle istanze relative alla fame ed alla povertà?
Alice Walker: Perché sono cresciuta nella povertà. Noi bambini non la percepivamo come tale solo perché i nostri genitori erano dei geni nel trarre molto dal poco. Ad un certo punto mio padre chiese alla proprietaria bianca della terra che lavoravamo un aumento di stipendio, chiese di avere dodici dollari al mese, perché aveva otto figli e tutti lavoravano nella piantagione. La donna divenne una furia e glielo negò. Non avevamo assistenza sanitaria, un dentista non l’abbiamo mai visto, dovevamo spostarci ogni anno su pezzi di terra diversi e lavoravamo duramente per tutto il giorno. E questa è la situazione per milioni e milioni di persone sulla Terra. Li capisco benissimo, e sono totalmente solidale con loro.
Lauren Wilcox: So che hai scritto un nuovo libro.
Alice Walker: Si chiama “Noi siamo coloro che stavamo aspettando”. E’ una raccolta di saggi, e di meditazioni, perché penso che questo sia un periodo in cui le cose sono davvero orribili per troppe persone. C’è così tanta paura, e così tanta tristezza, e rabbia... Non abbiamo bisogno solo di analisi politiche e di consapevolezza, ma abbiamo bisogno di meditazioni, di sederci assieme alle cose che ci stanno accadendo e di trovare modi per essere interi. Dobbiamo ricordare a noi stessi che abbiamo i nostri spiriti, e che possiamo usarli: usare la nostra luce interiore, per dissipare il buio che si addensa.
* IL DIALOGO, Giovedì, 17 maggio 2007
Donne
Negli occhi hanno dei consigli E tanta voglia di avventure E se hanno fatto molti sbagli Sono piene di paure
Le vedi camminare insieme Nella pioggia o sotto il sole Dentro pomeriggi opachi Senza gioia né dolore
Donne Pianeti dispersi Per tutti gli uomini così diversi Donne Amiche di sempre Donne alla moda, donne contro corrente... Negli occhi hanno gli aeroplani Per volare ad alta quota Dove si respira l’aria E la vita non è vuota
Le vedi camminare insieme Nella pioggia o sotto il sole Dentro pomeriggi opachi Senza gioia ne dolore
Le vedi camminare insieme Nella pioggia o sotto il sole Dentro pomeriggi opachi Senza gioia ne dolore
Donne In cerca di guai Donne a un telefono che non suona mai
Donne In mezzo a una via Donne allo sbando senza compagnia.
EDUCAZIONE PSICO-SESSUALE ED EDUCAZIONE COSTITUZIONALE: ANCHE LE DONNE HANNO LE PALLE !!!
M. cordiali saluti, Federico La Sala
* Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]: così inizia il cap.15 dell’ ANATOMIA di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli delle donne”(p. 91). Nota: questa citazione, già resa pubblica in una mia lettera, è stata commentata dal prof. Luigi Cancrini (cfr. Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo), sull’Unità del 28.02.2005 (p. 27).
Dal femminismo alle veline
-«Così abbiamo rivoltato il significato delle parole»
di Marisa Ombra *
Ragioni anagrafiche mi portano a guardare al fenomeno delle veline partendo da molto lontano, niente meno che dalla guerra e dalla Resistenza. D’altra parte quello è l’inizio, ed è da quell’inizio che occorre partire per misurare la portata di ciò che sta accadendo di questi tempi. In quegli anni infatti comincia - o meglio riprende, dopo il fascismo - la lunga marcia delle donne per ottenere la cittadinanza in questo Paese (a questo riguardo consiglierei la lettura del bel libro di Bianca Guidetti Serra «Bianca la rossa»). Sarebbero occorsi decenni. Avremmo ottenuto diritti ed eguaglianza, libertà e posto nel mondo. Non avremmo aspettato che le leggi cadessero dall’alto, avremmo costruito la cittadinanza conquistando postazioni in ogni piega della società, assumendoci responsabilità e diventando parte essenziale del tessuto che fa funzionare la cosa pubblica. Un Paese arcaico e un po’ bigotto sarebbe diventato, per nostro principale merito, aperto e civile. Per chi è nata politicamente in quei lontani anni ed è stata parte di questo faticoso ma felice cammino, l’oggi si presenta di una tristezza infinita. Grande anche la delusione per quello che già viene descritto come «il silenzio delle donne». Di questo vorrei parlare.
Credo che tutte siamo rimaste attonite davanti all’operazione culturale che si è svolta sotto i nostri occhi: una operazione che, se non ha cancellato, ha sicuramente stravolto buona parte dell’impianto teorico che ha accompagnato il movimento politico delle donne. Le parole chiave sono state rivoltate. Scoperta del corpo, liberazione sessuale, affermazione di sé, autonomia, identità, desiderio, eguaglianza, differenza, eccetera, hanno preso significati opposti. L’affermazione orgogliosa «il corpo è mio e lo gestisco io» per esempio. Intendeva dire la vergogna e chiudere con l’antica figura della donna oggetto, riposo del guerriero, «regalo fatto da Dio agli uomini ». Era sembrata una svolta irreversibile, l’affermazione di un nuovo senso comune.
Non si può dire che le donne non si siano impossessate del proprio corpo. Per farne cosa? Donne immagine e prostitute di lusso hanno fatto di sé una nuova moderna (?) figura del mercato, che procede attraverso l’oculato bilanciamento dei costi e dei profitti, il dosaggio fra servilismo e pretesa di compensi dissociati da ogni personale competenza. Il corpo è diventato impresa da mettere a frutto. Direi che il ritorno indietro è ancora più mortificante del già vissuto. Perché in questa contrattazione uno dei due contraenti ha il potere (anche quando è piccolo potere), l’altra mette sulla bilancia una proprietà massimamente effimera. È questo che volevamo? Com’è potuto accadere? La tendenza non sarebbe inquietante se l’ambizione di avere visibilità e successo attraversoun perverso mercanteggiamento, non fosse diventata l’orizzonte di buona parte di una generazione, il senso stesso della vita, dell’essere donna («mi sento velina dentro» risponde una ragazza all’intervistatrice). E se le ragazze in corsa non fossero spesso accompagnate dalle madri: madri giovani, che hanno visto passare sotto i loro occhi, forse addirittura attraversato, il femminismo.
Da una signora che probabilmente non ha attraversato il femminismo, è venuta una parola che aveva contato molto per le donne di un’epoca segnata dalla soggezione e dall’esclusione: dignità. Avendo nella mente e nel cuore quella parola, una generazione è arrivata a raddrizzare la schiena ed hacominciato a risalire verso la libertà. Ciò che oggi comunica smarrimento e sensazione di impotenza è la perdita di questo sentimento. Perché l’uso programmato del corpo implica una tensione di tutto l’essere, cervello compreso; occupa l’anima. Si realizza così un paradosso: l’autonomia, la capacità di decidere del proprio destino, viene cercata attraverso l’asservimento volontario e la perdita della dignità. Molte di noi, credo, in questi mesi si sono fatte domande e hanno provato vergogna. Sono convinta che quel che manca è la presa di parola collettiva, se non altro per non far mancare una rappresentazione diversa di ciò che una donna vuole e può fare.
* l’Unità, 06 ottobre 2009