DNA. La lingua segreta dei geni
Destinata ad aprire nuove strade nella lotta contro il cancro e altre malattie, la scoperta è stata fatta nei laboratori dell’università di Harvard diretti dall’italiano Pier Paolo Pandolfi che qui ci spiega cosa racconterà la nostra "materia oscura"
L’opportunità. Quando sapremo parlare la nuova lingua avremo un’opportunità senza precedenti per la terapia e la prevenzione delle malattie
di Arnaldo D’Amico (la Repubblica, 16.10.2011)
Il Dna ha una seconda lingua, finora rimasta segreta, per parlare alle cellule e al corpo. Comunica istruzioni per la vita molto più complesse ed è più usata di quella conosciuta. Quando sarà completamente svelata ci farà comprendere anche il linguaggio del cancro e, si spera, gli ordini giusti per riportarlo alla normalità. Ma la scoperta finalmente dipana anche molti altri misteri in cui si sono impantanate la medicina e la biologia e contribuisce a spiegare il perché delle tante e drammatiche mancate promesse.
La decodificazione della lingua segreta dei geni è iniziata alla Harvard University, in uno dei laboratori di ricerca biomedica più grandi e dotati di risorse al mondo. È diretto dall’italiano Pier Paolo Pandolfi. Da lì è partita la rivoluzione che il New York Times ha definito «il Big Bang della vita» perché avrà sulla medicina lo stesso impatto che sull’astronomia ebbe la teoria sull’origine dell’universo.
Le promesse
«Negli anni Novanta sembrava tutto chiaro», ricorda Pandolfi. «Il Dna porta le istruzioni per la vita depositate sotto forma di lunghe frasi. Le parole del suo vocabolario sono appena 64, risultanti da tutte le possibili combinazioni ternarie di un alfabeto di sole quattro lettere: A, C, G, T. Le 64 parole si traducono in 20 aminoacidi che a loro volta si attaccano in sequenza a formare le proteine. Sono queste l’impalcatura (proteine di struttura delle cellule, dei muscoli, eccetera) e il motore (gli enzimi che gestiscono le reazioni chimiche) degli organismi viventi. Le lettere, le parole e i significati del codice genetico sono universali, valgono per tutti gli organismi. "Errori" in queste parole sono stati considerati finora l’unica causa di molte malattie, compreso il cancro». "Vado al potere. Vado al podere". Lo scambio di una sola lettera, la "t" con la "d", fa assumere non solo alla parola ma anche alla frase un significato diverso. Così basta una sola mutazione (la sostituzione di una delle quattro lettere dell’alfabeto del Dna) perché la "parola genetica" corrisponda a un altro aminoacido, che cambia la funzione della proteina. E, se la proteina mutata regola la moltiplicazione della cellula, è il cancro.
"Scoperto il gene del tumore al...". Sono questi i titoli che negli anni ’90 rimbalzano sui quotidiani dalle riviste scientifiche e promettono una cura per ogni tipo di cancro. «Si mettono a punto i primi farmaci "intelligenti" che colpiscono solo la mutazione, e si ottengono alcune clamorose vittorie ricorda Pandolfi tuttavia le cure si rivelano efficaci per pochi pazienti, quelli col sottotipo di tumore con la mutazione. La maggioranza dei malati sembra avere un Dna codificante proteine "sano". E allora, da dove viene la malattia? Non può che arrivare dal Dna. Ma da dove parte? E in che lingua è scritto? Il codice genetico a 64 parole non ha le risposte».
I misteri
Le scoperte della biologia aggiungono altri misteri. Alla fine degli anni ’90 si sequenzia il genoma umano e quello di numerose specie viventi e si iniziano a contare i geni. Nell’uomo si stimava ce ne fossero centomila, numero compatibile con la sua complessità che lo posiziona al vertice della scala evolutiva. Tuttavia, si scopre che i geni umani che producono proteine sono appena ventimila. Inoltre questi geni occupano solo il 2% della lunghezza del Dna. Che c’è nel restante 98%?
È ancora la biologia, con le sue ricerche, a svelare un ulteriore paradosso che, contemporaneamente, indica la strada da battere. La scoperta che lo scimpanzé ha solo lo 0,2% di geni codificanti per proteine in meno dell’uomo lascia perplessi. Scendendo nella scala evolutiva aumenta lo sgomento quando si scopre che nelle cellule del lievito di birra o di un vermetto il Dna contenente i geni che fanno proteine è lungo poco meno di quello umano. La parte di Dna "muta" è invece di ben trenta volte più corta. «La specie umana quindi ha il record di dotazione di Dna "oscuro" - osserva Pandolfi - Non fa proteine, non si sa che fa, eppure è qui che devono risiedere le informazioni genetiche che fanno dell’uomo l’organismo vivente più complesso. E più vulnerabile alle malattie. In quel 98% c’è la differenza tra noi e le altre specie che popolano il pianeta».
La comprensione del ruolo di questo "genoma oscuro" arriva dalle ricerche sul cancro di Pandolfi. La chiave sta nella nuova prospettiva in cui si guarda un prodotto del Dna sinora considerato un semplice esecutore, l’Rna. Questa molecola è da tempo nota per essere il messaggero del Dna. Su di esso il gene trasferisce l’informazione necessaria a costruire la proteina. L’Rna poi raggiunge le strutture di produzione della cellula dove materialmente le proteine sono assemblate a partire dagli aminoacidi quello che Pandolfi ha scoperto è che l’Rna porta altre informazioni indipendenti da quelle che "fanno le proteine".
La scoperta
«Una parte di Dna "oscuro" contiene gli "pseudogeni" continua il professore Sinora sono stati considerati "relitti evolutivi" dei geni "veri", che fanno proteine, informazioni ereditarie obsolete dimenticate nel codice della vita. Ma come mai decine di migliaia di geni vengono risparmiati dalla dura legge di selezione naturale che elimina tutto ciò che non serve più? Perché questo 98 per cento di Dna "inutile" continua a essere trasmesso di generazione in generazione? Il fatto è che, come i geni, anche gli pseudogeni producono "messaggi", molecole di Rna. Ma questi Rna non raggiungono le catene di montaggio delle proteine e rimangono a fluttuare nella cellula. Lungi dall’essere inutile, ognuno di questi Rna reca dei messaggi precisi, basati su un nuovo linguaggio, un nuovo codice. Messaggi che significano "accendere", "spegnere", "accelerare" e "rallentare".
Questi messaggi sono indirettamente destinati a tutti gli altri Rna presenti nella cellula, sia quelli prodotti dai geni che poi fanno le proteine, che quelli prodotti dagli pseudogeni. È questo l’aspetto più sconvolgente della scoperta: questa nuova lingua è parlata da ogni Rna, cioè non solo dagli Rna degli pseudogeni, ma da tutti gli Rna cellulari. Per capire la dimensione del fenomeno basti pensare che nel nostro Dna ci sono moltissime unità geniche, forse decine di migliaia, che come gli pseudogeni fanno solo Rna. Ebbene, la nuova lingua è condivisa da tutti questi nuovi protagonisti».
A fare da "portavoce" di questi messaggi sono un’altra categoria di molecole di Rna più piccole e che non fanno proteine: i microRna. Questo nuovo linguaggio basato sugli Rna espande enormemente la percentuale del Dna funzionale. Obsoleti diventano i concetti "relitto genetico evolutivo" e "Genoma oscuro".
La lingua
«A rendere più complesso il sistema informativo sono poi le caratteristiche del linguaggio usato dagli Rna per comunicare - aggiunge Pandolfi- Questo linguaggio è scritto nella molecola di Rna, si può leggere informaticamente ed è sempre basato sulle quattro lettere del Dna, ma le "parole" e le frasi hanno lunghezza non fissa bensì variabile, come avviene nel linguaggio parlato. I significati possibili quindi sono molti più di 64. Sono già state individuate 500 parole diverse, ognuna delle quali viene riconosciuta da un microRna diverso. Insomma si delinea finalmente un linguaggio con una ricchezza di significati compatibile con la complessità delle informazioni necessarie a guidare lo sviluppo e la gestione della struttura del corpo umano, delle sue funzioni, anche quelle mentali. E delle malattie, prima di tutto il cancro, quando la comunicazione tra molecole di Rna viene danneggiata da mutazioni, sia dei geni che degli pseudogeni. La completa decodificazione di questo nuovo linguaggio non solo aumenterà le nostre conoscenze sull’eziologia del cancro e delle malattie in generale, ma offrirà nuove strategie per la loro cura».
Pandolfi ha descritto la nuova teoria "Rna-centrica" ad agosto su Cell, la rivista scientifica più prestigiosa nel campo della genetica. E sempre su Cell, venerdì scorso, Pandolfi ha svelato il ruolo determinate nei tumori di prostata, colon e cervello umani di 150 Rna che usano il nuovo linguaggio.
La sfida di investire sul futuro della salute
di Elena Cattaneo (la Repubblica, 10.09.2015)
OGGI una straordinaria innovazione basata sul meccanismo batterico del Crispr apre a strade di conoscenza del nostro genoma-Dna impensabili fino a tre anni fa. Questa è la sua vera forza.
Se manterrà le promesse e funzionerà con efficacia su tutti i genomi, potremo molto più facilmente e con precisione chirurgica interrompere, aggiungere, rimuovere, scambiare pezzi di Dna per poi studiare le conseguenze di quelle modifiche sulla fisiologia della cellula animale o vegetale e così facendo individuare elementi genici rilevanti.
Oggi possiamo leggere tutti i tre miliardi di lettere che compongono il Dna presente in ogni nostra cellula, ma conosciamo la funzione solamente di pochi di quei tratti di lettere (quelli organizzati in geni), pari a circa il 2% del Dna. C’è un 98% tutto da esplorare. In larga parte si pensa sia Dna regolatorio dell’attività di quel 2%, molto probabilmente fortemente coinvolto, con le sue lettere, nel determinare le caratteristiche che ci distinguono da tutti gli altri esseri viventi. Ma forse dentro a quel Dna inesplorato c’è un meta-codice. Bisogna studiare. Bisogna conoscere.
Oggi c’è la possibilità di combinare due strategie, cioè lo studio del genoma e la tecnologia Crispr per capire il ruolo di molte di quelle lettere. Immaginate di leggere il genoma di 10 mila persone e di scoprire che una serie di lettere ripetute in alcuni di quei genomi è associata all’insorgenza di una grave malattia neurologica. Si possono quindi identificare le cause oggi sconosciute di alcune malattie umane. Poi immaginate di disporre di uno strumento come il Crispr, con il quale tagliate in modo specifico quelle lettere in più. Funzionerà? Ridurrà la patologia? Impossibile non provare ad immaginare di sperimentare questa strada. In gioco c’è la voglia di partecipare a disegnare le frontiere del mondo in un ambito che deciderà le future strategie sulla salute.
A fronte della creazione di Genomic England, la company pubblica-privata del Department of Health inglese che in quattro anni sequenzierà 100mila genomi di 70mila pazienti e relativi familiari britannici facendo uso di un finanziamento di 300 milioni di sterline con cui attrarre investitori privati, e alla vigilia del lancio da parte del Presidente americano Barack Obama della Precision Medicine Initiative, che sequenzierà 1 milione di genomi americani investendo 215 milioni di dollari, in Italia non c’è stato e non c’è alcun piano nazionale per la genomica. Niente che miri a capire assetti genetici, varianti italiane, predisposizioni genetiche che ci possano permettere di rivedere il nostro panorama clinico- sperimentale rendendolo adatto ai tempi o di immaginare un futuro con ipotesi di riparazione del Dna con una tecnologia stile Crispr.
L’Italia, che detiene invidiabili primati per quanto riguarda la qualità del servizio sanitario nazionale e il sistema di regolamentazione dei farmaci e i cui cittadini sono (non a caso forse) tra i più longevi al mondo, dovrebbe per questo creare una corsia privilegiata per investire nella ricerca e nell’implementazione dello studio dei nostri genomi. È noto che il “tempo fugge” e in tema di innovazioni genomiche assistiamo a grandi accelerazioni. Saremo in grado come Paese di comprendere per tempo l’importanza di questa strada?
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Docente all’Università degli Studi di Milano e senatrice a vita
Il nuovo Dna che cambierà il mondo
di Elena Dusi (la Repubblica, 10.09.2015)
È stato soprannominato il “ motore della genesi”, il metodo che renderà l’ingegneria del Dna “ facile come un copia e incolla”. Di facile non ha certo il nome, questa tecnica che da un paio d’anni sta rivoluzionando i laboratori di biologia di tutto il mondo. Si chiama Crispr (clustered regularly interspaced short palindromic repeats) e nasce in natura come strategia dei batteri per sminuzzare il Dna dei virus invasori. Agli scienziati permette di tagliare un gene ed eventualmente sostituirlo con un altro. A differenza delle tecniche usate nella “preistoria” dell’ingegneria genetica, Crispr riesce a modificare più geni insieme ed è rapido, economico, efficiente.
Tanto efficiente da risvegliare la paura dell’eugenetica, mettendo in allarme gli stessi ricercatori che lo hanno inventato e lo usano. Ad aprile due richieste di moratoria pubblicate dalle riviste Science e Nature hanno chiesto alla comunità scientifica di usare il metodo saggiamente, e non sugli embrioni dell’uomo. Introdotti in cellule uovo, spermatozoi o embrioni, i cambiamenti del Dna si estenderebbero infatti alla discendenza futura. È stato inutile. Pochi giorni dopo un’équipe cinese ha usato Crispr per modificare il Dna di alcuni embrioni umani, ancorché difettosi e incapaci di dar vita a bambini.
Mentre il dibattito etico prosegue, Crispr inizia a essere usato nella lotta a un ventaglio amplissimo di malattie con base genetica: dal cancro all’epatite, dalla cecità all’Aids, dalla distrofia all’anemia mediterranea. Bill Gates e Google Ventures ad agosto hanno partecipato al finanziamento di 120 milioni di dollari per Editas, una startup specializzata nell’uso di Crispr che vuole provare a trattare i tumori del sangue, un difetto ereditario della retina che porta a cecità e anemia mediterranea.
«Oggi al mondo ci sono 2mila sperimentazioni cliniche per le varie malattie genetiche. Crispr può sostituirle tutte, perché permette di inattivare geni difettosi o di sostituirli con geni sani in modo molto più facile», spiega George Church, uno dei più vivaci biologi del mondo, che lavora ad Harvard e al Mit di Boston ed è tra i fondatori di Editas. Church usa Crispr per “aggiustare” le cellule staminali che daranno vita ai neuroni. Ma è anche riuscito a selezionare dei geni di mammut ritrovati nel permafrost siberiano e a inserirli nelle cellule di elefante. L’esperimento ha funzionato in provetta, non su un vero animale. Ma permetterebbe di rendere gli elefanti adatti anche ai poli. «Le sperimentazioni più diffuse oggi - spiega ancora Church - puntano a risolvere i problemi delle cellule del sangue, come la talassemia o l’anemia mediterranea. Ma è possibile anche eliminare i geni che consentono ai virus di diffondersi nell’organismo».
Poiché Crispr nasce come meccanismo usato dai batteri per difendersi dall’invasione dei virus, i ricercatori hanno tentato di usare questo strumento contro le infezioni. A luglio, sulla rivista Scientific Reports , un’équipe del Mit di Boston ha dimostrato che è possibile uccidere i virus dell’epatite B penetrati nelle cellule del fegato. Tentativi simili sono stati fatti ad aprile contro l’epatite C.
E sempre a fine luglio un’équipe dell’università della California a San Francisco è riuscita a modificare il Dna delle cellule T del sistema immunitario. Queste cellule sono i guardiani dell’organismo. Scoprono la presenza di infezioni o di cellule del cancro e organizzano la reazione del sistema immunitario. È proprio contro di esse che si accanisce l’Aids e modificare un dettaglio nella loro conformazione con Crispr ha permesso - per ora solo in provetta - di renderle inattaccabili dal virus Hiv. Nello stesso esperimento, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences , i ricercatori sono riusciti a eliminare un gene chiamato PD-1, colpevole di “corrompere” le cellule T e di renderle cieche di fronte alle cellule del cancro, che così proliferano indisturbate.
«Il nostro obiettivo - spiega Alexander Marson dell’università della California a San Francisco, coordinatore dell’esperimento - è ottenere le cellule T del paziente con un semplice prelievo di sangue, poi ingegnerizzarle in laboratorio e reinfonderle nel circolo sanguigno». La prima battaglia da intraprendere, secondo il ricercatore, è proprio quella «per creare cellule T più aggressive nei confronti del cancro. Un’altra applicazione riguarda poi le malattie autoimmuni o quelle causate da un grave deficit del sistema immunitario ».
Proprio a uno di questi disturbi, la Scid-X1 (la malattia dei bambini nella bolla che possono contrarre infezioni letali al contatto con ogni microbo) si sta dedicando Luigi Naldini, direttore dell’istituto di terapia genica Tiget San Raffaele- Telethon, secondo cui «chi ha inventato Crispr è sicuramente candidato al Nobel». Il lavoro dell’équipe di Milano, spiega Naldini, consiste nel «correggere il difetto genetico nelle cellule staminali del sangue. Finora abbiamo usato dei virus per portare il gene funzionante nella cellula, ma esisteva il rischio, anche se remoto, che si inserissero in punti del genoma pericolosi, provocando il cancro».
Nella lotta contro il cancro, il Cancer Center del Beth Israel Deaconess Medical Center di Harvard è uno dei punti focali. A dirigerlo c’è Pier Paolo Pandolfi, che dice: «Da quando Crispr esiste, lo usiamo a tutta forza. Questo metodo rivoluzionerà il modo in cui studiamo i geni del cancro. Prima ne osservavamo uno alla volta, ora possiamo ricreare la complessità della malattia, accendendoli o spegnendoli per capire il loro ruolo nella genesi del tumore o nello sviluppo di una resistenza alla terapia». Francesco Muntoni, uno scienziato italiano che lavora all’University College London e all’ospedale pediatrico Great Ormond Street, usa invece Crispr nella lotta contro la distrofia di Duchenne. «Il 10-15% dei bambini con questa malattia ha un pezzo di Dna in più. Con Crispr tagliamo il pezzo ridondante e lasciamo un gene completamente normale. Questi esperimenti al momento riguardano solo le cellule dei pazienti in provetta. È davvero troppo presto per pensare a interventi sull’uomo ».
Oltre alla medicina, Crispr comincia a essere usato per la produzione di combustibile (i batteri ingegnerizzati possono essere spinti a produrre etanolo) e per ottenere nuove piante ogm. A luglio, per fare fronte a queste innovazioni, la Casa Bianca ha annunciato di voler rivedere le sue regole sugli organismi geneticamente modificati. E per dicembre l’America’s National Academy of Sciences ha convocato un congresso in cui si discuterà delle implicazioni etiche. A differenza dei metodi tradizionali, Crispr potrebbe infatti essere usato da scienziati non professionisti. E, con un’innovazione che è stata ribattezzata “gene drive”, la trasformazione genetica può essere estesa a un’intera popolazione di esseri viventi. Vari gruppi nel mondo stanno per esempio ingegnerizzando le zanzare portatrici di malaria e dengue. Ma un’azione simile ha la potenzialità di debellare non solo una malattia, ma anche una specie animale.
Nascosta nel puzzle del Dna c’è l’origine delle lingue
Al via l’ambizioso progetto per studiare un milione di siti del Genoma
di Guido Barbujani (La Stampa TuttoScienze,24.10.2012)
Tanto per cambiare, l’idea l’aveva avuta Charles Darwin. Se riuscissimo a ricostruire, scriveva nel 1871, l’albero genealogico delle lingue parlate sulla Terra, otterremmo al tempo stesso l’albero genealogico dell’umanità. Secondo Darwin, le differenze linguistiche e biologiche si sono accumulate in parallelo nel corso del tempo. Perciò popolazioni che parlano lingue simili discendono da antenati comuni vissuti pochi secoli fa, popolazioni che parlano lingue meno simili hanno avuto antenati in comune più indietro nel tempo, e gli antenati di tutti (ma questo Darwin non lo sapeva) stavano in Africa intorno a 100 mila anni fa.
Un’idea brillante, che potrebbe aiutarci a capire perché siamo come siamo e parliamo la lingua che parliamo. Ma quell’albero genealogico Darwin non poteva ricostruirlo: molte lingue non le aveva ancora studiate nessuno, e il Dna, fondamentale per capire i rapporti biologici fra le popolazioni, non si sapeva neanche cosa fosse. E poi le cose erano e sono più complicate, se non altro perché la lingua cambia in fretta e i geni meno.
L’italiano di oggi non è più quello di 30 anni fa, mentre il Dna che riceviamo dai genitori è sostanzialmente lo stesso che trasmettiamo ai figli. Insomma, quella di Darwin era una previsione azzardata. Ma quando, negli Anni 80, nei laboratori americani di Robert Sokal e di Luca Cavalli-Sforza, si sono accumulati i dati necessari, si è visto che ci aveva preso. Ci sono eccezioni, ma di regola, più le lingue si assomigliano, più simili sono i Dna delle persone che le parlano.
Non tutti sono d’accordo, però. Per orientarsi, meglio ricordare che il Dna è identico in ogni cellula della stessa persona, mentre, prendendo due persone a caso sulla Terra (gemelli a parte), in media i loro Dna sono identici al 999 per mille.
Quel piccolo uno per mille che rimane è però importante, perché è lì che sono scritte le nostre differenze ereditarie nell’aspetto fisico, nel gruppo sanguigno e in altre cose, come la capacità di digerire il latte o il rischio di sviluppare molte malattie. Piccole differenze, quindi: ma il Dna è grande, ne contiene milioni, e da lì possiamo misurare quanto diversi siamo a livello biologico.
Con le lingue, in linea di principio, si può fare lo stesso. Si contano in due vocabolari quante parole si assomigliano (come naso e nose in inglese) e quante no (come bocca e mouth). Ma è facile sbagliarsi.
Per esempio, mucho in spagnolo e much in inglese sono quasi identiche e vogliono dire la stessa cosa molto ma hanno etimologie diverse. Queste false somiglianze confondono le acque, e poi le parole cambiano nel tempo; dopo un po’ di millenni le loro relazioni diventano ambigue. Perciò ha senso confrontare i vocabolari di lingue vicine, per esempio italiano e russo (entrambe lingue indoeuropee), ma non lontane come italiano e turco o ebraico (queste ultime, rispettivamente, altaica e afro-asiatica).
Confrontare lingue vicine, e cioè popolazioni che hanno in comune antenati recenti, è importante, ma sugli ultimi millenni abbiamo informazioni storiche precise e dati archeologici abbondanti. Il confronto fra lingue e geni servirebbe soprattutto a raccontarci un passato più lontano, su cui disponiamo di poche altre informazioni.
Ma come si fa? La soluzione l’hanno trovata due linguisti italiani, Giuseppe Longobardi dell’Università di Trieste (oggi a York) e Cristina Guardiano dell’Università di Modena, con un’idea semplice, ma tutt’altro che banale. Ci vuol poco perché entrino nel linguaggio termini come shopping, spread, e magari, all’estero, soprano e pizza. Non è però altrettanto facile che cambi la struttura della lingua: il posto del verbo nella frase o la presenza di un genere neutro. Forse, concentrandosi sulla grammatica e sulla sintassi, si può risalire più indietro nel tempo.
È nato così un progetto, finanziato per cinque anni dallo European Research Council, nel quale biologi (gli antropologi bolognesi diretti da Davide Pettener e Gianni Romeo) e linguisti (diretti da Longobardi e Guardiano) viaggeranno insieme per mezzo mondo: i primi a raccogliere campioni il cui Dna verrà studiato in dettaglio, i secondi per ricostruire nelle stesse popolazioni la struttura della lingua. Così, poco alla volta, si costruirà un archivio di dati, su cui lavoreranno i genetisti dell’Università di Ferrara.
Non sarà uno scherzo: si punta a studiare un milione di siti variabili del Dna. Moltiplicando questo milione di caratteristiche individuali per 40 popolazioni, per una ventina di persone ciascuna, viene fuori una quantità di dati enorme.
Ci aspettiamo spiegherò al Festival di Genova che si confermi che a grandi linee Darwin aveva ragione. Ma le eccezioni saranno importanti quanto la regola, perché da lì capiremo in che aree del mondo, e in che periodi, si è alterata la relazione fra cambiamenti della lingua e del Dna. Vorrà dire che certe popolazioni si sono mescolate fra loro o, al contrario, che certe barriere (geografiche, ma anche culturali, religiose o politiche) hanno impedito la migrazione. Vorrà dire che certe lingue sono rimaste impermeabili alle novità e altre sono cambiate più in fretta. Alla fine speriamo che capire meglio come sono si sono evolute, nei millenni, la nostra biologia e la nostra cultura, aiuti un po’ tutti a trovarsi a loro agio col patrimonio di differenze che rendono l’umanità così interessante.