Della Volpe, con Marx dalla parte di Galilei
di Michele Prospero (l’Unità 13.07.2008)
Quando, nei primi anni Quaranta, Galvano Della Volpe si accostò al marxismo, aveva già alle sue spalle una assai intensa e molto marcata produzione teorica. Poco italiana si potrebbe anche dire, per via della sua impronta quasi neopositivista. Non si può però in alcun modo parlare di «due» Della Volpe. Il filosofo che, dopo aver varcato i 40 anni, scoprì Marx non compì affatto una rottura con la sua ventennale riflessione. Collocò piuttosto il nucleo del suo precedente lavoro filologico-critico, mirante a rivendicare la positività dell’esperienza sensibile, nelle nuove categorie analitiche che esploravano il mondo dell’empirico sociale.
Non è un caso che il suo Marx sia proprio il giovane autore della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, opera che Della Volpe lesse come depositaria più d’ogni altra del paradigma scientifico di Marx. Non è per caso che questo sia avvenuto. In fondo le istanze critiche ospitate nel manoscritto del 1843, che della Volpe tradusse e impose a lungo nel dibattito teorico, ricalcavano lo stesso tragitto intrapreso dal filosofo imolese scomparso il 13 luglio del 1968.
A ispirare la radicale critica di Marx alla dialettica hegeliana comparivano infatti l’Aristotele del libro quarto della Metafisica, un certo Kant ostile al razionalismo astratto leibniziano in nome della positività del sensibile, il Feuerbach scopritore dell’oscuro sottofondo teologico della filosofia moderna dopo Cartesio. Insomma, proprio gli stessi riferimenti gnoseologici di Della Volpe (Hume e Galilei a parte). La figura di Marx non poteva che affacciarsi in lui come il compimento di una linea critica e rigorosamente laico-scientifica di interpretazione del reale.
Anche quando Della Volpe si muoveva ancora ben dentro le coordinate dell’idealismo filosofico (più di Gentile che di Croce) non mancavano affatto nelle sue pagine le sollecitazioni feconde di questa sua autentica ossessione per un uso non teologico della ragione. La sua rimostranza verso l’attualismo gentiliano concerneva proprio l’uso della nozione ambigua, e in fondo mistica, della ragione come unità o sintesi originaria degli opposti.
Il programma teorico dellavolpiano di una logica come scienza positiva, annunciato negli anni cinquanta, era già impostato nei suoi pilastri essenziali in un testo fondamentale del 1941 dal titolo Critica dei principi logici. Fra l’altro qui Della Volpe faceva i conti con «il conservatore d’oggi Gentile» e la sua «laica religiosità dello spirito» che ingoiava la formula misticheggiante della verità come precostituita o pretesa unità intemporale. La logica attualistica del concreto falliva in pieno nel render conto dell’empiria o contingenza e annullava l’effettività reale nel puro pensiero pensante o uno.
Il rilievo di Della Volpe era al riguardo molto radicale: «Del mero uno non ci può essere logica, ma soltanto una mistica». Dal misticismo logico, che destituiva il particolare sensibile di ogni positività, si usciva solo recuperando quella che Della Volpe chiamava «la pura, schietta singolarità e conseguente adialetticità del senso», ossia tenendo fermo il tratto, irriducibile al pensiero, del particolare molteplice assunto quale fondamento del giudizio e della storicità del reale.
Per un filosofo antidialettico come Della Volpe il neoidealismo di Croce e Gentile, proprio come quello classico di Hegel, si muoveva in un «soliloquio dell’idea» che tramutava la ragione, da forma o espressività, in autocoscienza o unità immediata di finito e infinito. Il «trascendentale» veniva cioè trasformato da momento formale in trascendenza dello spirito assoluto che annullava repentinamente il particolare, e lo degradava a mero non essere. La realtà cessava così di essere un dato in sé positivo e veniva a dissolversi supinamente nell’unità dell’autocoscienza. La diversità o reale contrarietà tra particolare e forma era poi dissolta e spacciata per contraddizione di un’idea capace di autoscindersi, esprimendo il molteplice come il mero negativo da superare.
Tutta una tradizione teorica, che dall’ontologia mistica di Meister Eckhart (studiata a fondo in un testo apparso nel 1930) passando per l’Hegel romantico e mistico (così si intitola un celebre volume del 1929) perveniva fino a Croce e Gentile, si muoveva entro una dialettica senza discorso o categorialità che dissolveva il sentimento o particolare nell’Idea. E non lo assumeva nella sua irriducibile alterità. Esisteva per Della Volpe una autentica malattia platonica e romantica, che contagiava gran parte della filosofia moderna, incapace di risolvere il problema dell’esperienza o della storicità. Perché l’essere diventava pura idea o unità intemporale sovraordinata al molteplice discreto.
A questa linea platonica, contaminata dalle palesi ascendenze mistiche, Della Volpe contrapponeva un diverso tragitto. La strada che da Hume conduceva a Marx. Con la sua indagine genetica «delle idee dalle impressioni», Hume (così scriveva Della Volpe nel suo libro La filosofia dell’esperienza di Hume licenziato nel 1933) impostava uno «studio fenomenologico della mente» che accantonava l’ontologia metafisica in direzione di una «psicologia della conoscenza». Hume cioè definiva «una specie di meccanica della sfera emotiva» e proprio esplorando le emozioni, i desideri, i meccanismi naturali della psiche, egli spezzava ogni concetto ontologico di unità o sostanza.
Questo lavoro demolitorio dell’antica ontologia metafisica sul piano etico mostrava ricadute enormi. E demolendo l’idea di soggetto portava Hume a definire «il primo sistema di ethica mundana-immanentistica» che poggiava sul fondamento passionale-economico dell’azione. Con la sua «filosofia sperimentale del diritto» inoltre Hume, secondo Della Volpe, ha avuto il merito di abbandonare il problema metafisico dell’inizio per esplorare le reali dinamiche della società. Spiegava Della Volpe che «con questo concetto concreto del fondamento economico della società è fugato, per la prima volta, il mitico homo oeconomicus di marca hobbesiana, l’egoista assoluto, sui cui calcoli sapienti lo stesso suo inventore non riuscì il cimentarsi della società politica, onde dovette ricorrere all’espediente estrinseco empirico di un potere assoluto». Ed è proprio su questo piano dell’indagine sociale che Della Volpe incontrava Marx che, con il suo nesso tra idee e istituzioni sociali, rigettava ogni idea metafisica di Inizio e orientava i riflettori sulla temporalità dell’esperienza intersoggettiva.
Il merito di Marx, secondo Della Volpe, era anzitutto quello di interpretare la società «come termine mediatore degli elementi», ovvero come il medium del generale (etica, cultura) e del particolare (economia, interessi). Con il suo fecondo concetto di astrazione determinata, anche Marx veniva da Della Volpe coinvolto nel grande lavoro critico ingaggiato per «sostituire una logica della ragione-intelletto, o critica, alla logica della pura ragione, o dogmatica». Ai concetti indeterminati e generici, privi di dimensioni temporali precise, Marx opponeva dei calibrati concetti funzionali, che risultavano cioè ritagliati su specifici assetti sociali.
Solo modulando i concetti come funzioni era possibile schivare il rischio nefasto di quella che Della Volpe chiamava «la restaurazione acritica dell’empiria». Un greve empirismo infatti contraddistingueva per lui, in maniera puntuale, tutti i concetti pretesi «puri», intemporali. Che finivano per riempire le astrazioni, in apparenza vuote, di materiali spiccioli grezzi, non filtrati e quindi irrelati, scollegati.
Perciò quello di Della Volpe rimane, a quarant’anni dalla scomparsa, il più grande e affascinante tentativo di cogliere la pregnanza del programma scientifico di Marx, assunto come passaggio essenziale del lavoro moderno di una risoluta critica della metafisica.
Nessuno più di Della Volpe ha decifrato i segreti epistemologici della logica specifica dell’oggetto specifico impiantata dal pensatore di Treviri. E solo la volgarità di questi anni un po’ meschini ha potuto inserire il nome di Della Volpe tra i «redenti», che con disinvoltura passarono dal fascismo al comunismo. Il suo approdo al marxismo avvenne in realtà su un rigoroso e trasparente profilo di scientificità. E solo di questo si deve parlare.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Galvano Della Volpe (Wikipedia).
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
Federico La Sala
FILOSOFIA STORIOGRAFIA E STORIA (Koenigsberg, 1784; Kaliningrad, 2024) E ANTROPOLOGIA (KANT, 1724 -1804):
LA "TRADIZIONE #CRITICA" ITALIANA, TRA SIRENE E CIVETTE, ANCORA NELL’ORIZZONTE DELLA #TRAGEDIA E DELLA COSMOTEANDRIA DELLO SPECCHIO DEL "BOVILLUSIONISMO".
Se è vero che le differenze possono essere una ricchezza, è altrettanto vero che devono trovare una #mediazione non #dialettica di un UNO (un soggetto platonico ed hegelo-marxista) che NON fagogiti e divori "zeusicamente" ed "ediphicantemente" l’altro! Per Marx, filologicamente, la questione hamletica è antropologica: richiamando "la fanciulla #straniera" di Friedrich #Schiller (cfr. Marx- Engels, "La Sacra Famiglia", IV.3, 1845), egli pone all’ordine del giorno l’urgenza logico-storica di uscire dall’orizzonte dell’androcentrismo platonico-paolino del "sapiente" di Bovillus (1510), celebrato dalla tradizione "bovillus_ionistica", atea e devota, legata al "marxismo ed Hegel" (Lucio Colletti), e di portarsi fuori dall’inferno, verso il cielo dei "due soli" di Dante Alighieri.
NOTE:
SPINOZA, UN FIGLIO DEL "DEUS", NON UN FIGLIO DEL "LUPUS", (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL). *
Questioni teoretiche
Cantiere Spinoza
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 16 Gennaio 2022)
Così come per qualsiasi altra occupazione, anche in filosofia sono necessari strumenti adeguati per fare bene il proprio lavoro, tali soprattutto da superare le difficoltà che presto o tardi sempre si dovranno affrontare. In questo senso uno dei suoi strumenti principali è il concetto di definizione, stabilire il quale non è neutrale ed implica delle conseguenze decisive. Chi delle definizioni ha fatto l’essenza del proprio filosofare è stato Spinoza il quale ha costruito l’intero suo edificio proprio grazie al metodo geometrico. Molti però, tra gli stessi filosofi, ne hanno dichiarato l’inutilità o addirittura l’artificiosità. Adorno nelle sue lezioni confessava che, di fronte alle definizioni del filosofo olandese, si trovava «del tutto disorientato, come la mucca di fronte alla porta nuova». Il filosofo della Dialettica dell’Illuminismo finiva poi per dichiarare che in filosofia ci sono dei concetti che non sono passibili di definizione con la conseguenza che la sua ricerca era inutile. Adorno si rifaceva esplicitamente a Kant il quale aveva sostenuto a sua volta una ben precisa critica della definizione così come utilizzata in filosofia. Solo al termine delle sue lezioni, guardando ai risultati della filosofia contemporanea, Adorno (in maniera onesta) sembra spezzare una lancia a favore della definizione e addirittura ritirare la propria tesi.
La definizione in Aristotele e in Kant
Da un punto di vista etimologico, la parola definizione è composta dalla preposizione de e dal nome finis: discorso sul limite. La definizione quindi indica i confini entro i quali è racchiusa l’essenza o il concetto di qualche cosa. Essa pertanto deve cogliere gli aspetti comuni o differenziali di una certa cosa: in altre parole, la definizione si intende secondo il genere e la differenza specifica. Questa impostazione risale ad Aristotele il quale affermava che c’è definizione solo quando il termine significa qualcosa di primario, ovvero quando si parla di cose che non possono essere predicate di altre. Il genere è il primo elemento della definizione (dove per genere si intende il complesso di caratteri di un certo tipo riuniti sotto un certo nome); la differenza specifica invece, ciò invece che caratterizza la cosa che si intende definire rispetto a tutte le altre.
Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, assume un’altra prospettiva, per comprendere la quale è necessario distinguere due usi della ragione: il primo riguarda l’uso della ragione in base a concetti; il secondo l’uso della ragione in base alla costruzione di concetti. Al primo uso viene dato il nome di filosofia; al secondo il nome di matematica. In quest’ultima i concetti sono già determinati a priori dall’intuizione pura, senza che via sia necessario alcun dato empirico; la filosofia invece non può prescindere dall’esperienza in quanto essa sta a fondamento dei concetti. Posto ciò, Kant conclude che la fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi e dimostrazioni, nei confronti dei quali la filosofia deve fare a meno («come il geometra, usando il suo metodo nella filosofia, non può costruire che castelli in aria, così il filosofo, applicando il proprio nella matematica, non dia luogo che a chiacchiere»). Kant sostiene che in filosofia la definizione non può essere utilizzata proprio perché i concetti empirici, più che essere definiti, andrebbero resi espliciti, chiariti, dichiarati (tutti termini che in tedesco fanno riferimento al termine Aufkärung). Sono fuori strada quindi tutti coloro che utilizzano termini come sostanza, causa, diritto: in altre parole una vera e propria stroncatura della filosofia di Spinoza.
La definizione in Spinoza
Cosa diceva Spinoza in merito? «Se si deve conoscere una cosa attraverso la definizione costituita da genere e differenza - scrive nel Breve Trattato - non possiamo mai perfettamente conoscere il genere supremo, che non ha alcun genere sopra di sé» (KV, I, 9). Piuttosto, bisogna seguire la vera logica, ovvero la divisione della natura in natura naturans e natura naturata.
Ma è in una corrispondenza epistolare, quella intrattenuta con un giovane mercante di Amsterdam, Simone De Vries, che Spinoza chiarisce meglio il suo pensiero. Chiesto su che cosa dovesse intendersi per definizione, egli rispondeva che bisogna distinguere la definizione della cosa in senso reale, in quanto fuori dall’intelletto, e la definizione della cosa in quanto è concepita in senso nominale. Alla prima si chiede di essere vera in quanto ha un oggetto determinato; la seconda si propone invece al solo scopo di ricerca. In altre parole: il primo genere di definizione deve essere necessariamente vero in quanto, se io ad esempio voglio definire l’essenza del tempio di Salomone, devo stabilire una descrizione esatta della cosa (altrimenti si ha una cattiva definizione). Il secondo tipo di definizione implica invece che si esplichi la sua progettualità, non importa che essa sia vera o no: in questo caso la definizione o si concepisce oppure non si concepisce. Chiariamo con un esempio: un conto che io debba definire l’orologio a parete che ho di fronte a me; un’altra è che io debba definire un orologio a parete che devo ancora costruire, in cui ciò che importa è che la sua costruzione non sia autocontraddittoria, tale cioè da renderlo inservibile allo scopo.
Il problema, insiste Spinoza, consiste nel fatto che la definizione tradizionale (quella aristotelica, che distingue genere e differenza specifica) riposa essenzialmente sull’esperienza, la quale però «non ci dà alcuna essenza delle cose», sicché noi dell’esperienza non abbiamo mai bisogno per la definizione. Infatti - si potrebbe dire - come si potrebbe definire una cosa soggetta al continuo divenire? Lo potremmo fare solo fingendo, per esigenze legate a questioni pratiche, come quello di intendersi su ciò di cui si sta discutendo. La prospettiva dunque sembra avvicinarsi a quella kantiana per poi però allontanarsi in modo radicale: se il tedesco sosteneva che l’esperienza è l’unico campo della filosofia (e per questo rinunciava alla definizione), l’olandese sosteneva che, proprio perchè l’esperienza non era l’unico campo della filosofia, la definizione era essenziale.
Un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio
Se il dialogo tra Spinoza e il suo giovane amico non può essere considerato un dialogo tra sordi, non si può non riconoscere però che i due parlano linguaggi diversi. Da esso si ricavano alcune impressioni (vedi le lettere 8, 9 e 10 dell’epistolario), soprattutto in merito all’oggetto della loro discussione, cioè le proposizioni dell’Etica.
La prima è che l’intero dialogo sulla definizione (tema piuttosto acceso nel circolo spinoziano, come ammette De Vries) è fondato sull’intelletto come strumento per accedere alla verità: cosa che oggi è talmente lontana dalla nostra sensibilità filosofica che facciamo difficoltà a seguirlo e a comprenderlo pienamente.
La seconda impressione è che, contro la retorica del “cristallo” e della “cattedrale di ghiaccio”, il sistema di Spinoza (riassunto nell’Etica) si rivela essere un cantiere aperto in cui, oltre alla scelta dei materiali, rimane determinante la capacità di costruire dei costruttori.
Questo conduce ad una terza domanda (da cui nasce l’impressione): le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali? Qui l’impressione è che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione. Diceva Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso». Questo non significa che le sue definizioni siano lasciate al relativismo delle interpretazioni o peggio al solipsismo. Tutt’altro: ciò significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto Spinoza scrive: «ho dimostrato e ancora tendo a dimostrare il buon ragionamento, ragionando bene».
CANTIERE SPINOZA. ETICA, MATEMATICA, E CRITICA DELLA DIALETTICA...
Se è vero, come è vero, che l’Etica di Spinoza è “un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio” e che è necessario sciogliere l’enigma se “le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali” (M. Morini, "Cantiere Spinoza", Ritiri Filosofici, 16.01.2022), non si può ricadere nella stesso passo falso dell’analisi del “Discorso del Re” (M. Morini), e portare l’acqua al mulino non di “Amleto” (Shakespeare), ma a quello di Hobbes!
Una interpretazioni riduttiva della “Critica della Ragion pura” e della concezione kantiana della “definizione”, dalla sez. della “Dottrina trascendentale del metodo”, riconduce direttamente e di nuovo il discorso sotto il “principio di Hobbes” (e nell’orizzonte di Hegel e di T. W. Adorno), nell’orizzonte del “Leviatano” (e, al contempo, della dialettica di Hegel e della “dialettica dell’illuminismo” di Adorno), “secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi” (M. Morini, “ [1]”, Ritiri Filosofici, 02.01.2022).
“HOMO HOMINI LUPUS EST”?! Pur condividendo l’impressione “che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione” (M. Morini, cit.), è assolutamente non condisibile una conclusione dell’analisi accogliendo la dichiarazione del “Figlio del Lupo” (“Wolf-son”) e dire davvero con Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso»! E’ posssibile asservire la “filosofia” (nel senso di Kant) di Spinoza al calcolo e alla matematica di Platone, di Cartesio, di Hobbes, ed Hegel, e dire che questo “significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto” (M. Morini, cit.)?!
Non è il caso di riprendere il discorso dalla figura del “capo”, dal “discorso del re”, e rimeditare la “filosofia” e la “matematica” di Kant?! Se no, come è possibile distinguere tra “essere e non essere”, definire, ragionare e, al contempo, decidere sul “che fare?”, qui ed ora?! Non è meglio uscire dall’inferno della “fenomenologia dello spirito” di Hegel e, con Dante e Virgilio, uscire dalla caverna (Inf. XXXIV, v. 90) e ammirare il “cielo stellato” di Koenigsberg?
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
RAGION PURA E RADICI DELL’IO. Introduzione alla Critica della filosofia ...
Che strano modo “storico” di proporre e portare avanti una riflessione sulla “passione” della “critica” e “l’autocritica delle passioni” (cfr. Paolo Costa, “La passione critica è l’autocritica delle passioni”, Le parole e le cose, 21.07.2020) ! Come se la “Critica della Ragion Pura”, la “Critica della Ragion Pratica”, e la “Critica del Giudizio”, non fossero state mai scritte?!
Marx scrive (nonostante i “marxisti”) un “commento” continuo sul lavoro di “critica” portato avanti da Kant (da ricordare non solo la “Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel”, ma anche i “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, il “Per la critica dell’economia politica”, e “Il Capitale. Critica dell’economia politica”) e ancora oggi, dopo Freud e Foucault e Derrida, “essere giusti con Kant” è più che difficile ?! Boh e bah !?
L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT, IL PROGRAMMA DI MARX, E LA BUONA-PRASSI. Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel...
La religione “è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera...
La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale...
La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi....
La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essere supremo, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”
(Cfr. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, 1844)
SUL TEMA, mi sia lecito, si cfr. “LEZIONE SU KANT” A GERUSALEMME e, al contempo, LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!.
SCIENZA, STORIA E MEMORIA. PORTARSI DOPO DEWEY ....
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ALLA LUCE DEL GRANDE “SUCCESSO” NELLA CAPACITA’ DI ANALISI DELLA DIFFUSIONE DEL CORONAVIRUS mostrato dal CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (“Coronavirus. Rischio basso, capire condizioni vittime”, 22/02/2020), e della condivisione dei suoi “risultati” da parte di Giorgio AGAMBEN (”Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”, il manifesto, 26/02/2020) , CONDIVIDENDO l’urgenza di accogliere “La sfida del Covid-19 alle scienze umane”, mi sia lecito rinviare ad alcune note dell’anno scorso (2019) proprio sul tema del “processo di apprendimento nelle due culture”. Forse, è proprio ora di uscire dal letargo e riprendere la navigazione “sotto coverta” e “il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” con Galileo Galilei. O no?!
STORIA E STORIOGRAFIA: MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! *
UNA BOLLA SPECULATIVA. “[...] Perché parlare di un libro pubblicato nel 1954? [...] Credo che la domanda e la risposta che Lukács scrive all’inizio del lungo volume parli ancora di noi. La domanda era “Perché a un certo punto la gnoseologia, la teoria della conoscenza, diventa la forma filosofica dominante?” La risposta (circa 800 pagine) aveva appunto a che fare con l’intento ideologico della borghesia di soggettivizzare la Storia al fine di immobilizzarla [...] Per Lukács l’irrazionalismo, che ha “come intento principale [...] la radicale soggettivizzazione della storia”, trova piena espressione fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900 attraverso “la riduzione della gnoseologia kantiana alla gnoseologia di Berkeley”, così come prima sviluppata nell’ambito dell’epistemologia scientifica da autori quali Mach e Avenarius. La pretesa inconoscibilità della realtà oggettiva trasferisce l’oggettività medesima all’interno della soggettività, e questa è presentata dalla gnoseologia come soggetta alle oscillazioni della psicologia, le quali necessariamente inficiano (la psicologia di un soggetto è ovviamente mobile) ogni possibile e stabile approdo conoscitivo: “il cancellare i confini fra gnoseologica e psicologia fa parte delle caratteristiche essenziali dell’irrazionalismo moderno” [...] (M. Cangiano, “Il libro insostenibile: breve difesa di La distruzione della ragione”, Le parole e le cose, 14.01.2019).
* NOTE:
A) HEGEL, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI .
B) KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
“SMONTARE LA GABBIA”! USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....
CONSIDERATO "[...] lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto - l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi -, è però incapace di articolare le altre - discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza [...]” E, ANCORA, CONSIDERATO CHE “In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante” [...]”, SPUNTA (non esplicitata) LA CONNESSIONE CON L’INVENZIONE DELLA “TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI” di Dmitrij Ivanovič Mendeleev,
CREDO CHE SIA NECESSARIO E OPPORTUNO AMPLIARE L’ORIZZONTE e RICONSIDERARE DALLE RADICI la “«piramide dei viventi» che da secoli continuiamo a portarci dietro”, quella contenuta nel «Liber de sapiente» (Libro della sapienza), pubblicato nel 1509 da Charles de Bovelles (1479-1567)” (come sollecita Stefano Mancuso con Alessandra Viola, nel lavoro “Verde brillante”, Giunti 2015, p. 18 - e, non il vecchio “marxista” Lucio Colletti, nel suo famoso “Il marxismo e Hegel”, Laterza 1969)! E, ANCORA E SOPRATTUTTO, “SMONTARE LA GABBIA” DELLA SISTEMATICA DI LINNEO!
E, benché siano passati 160 anni dalla pubblicazione, nel 1859, dell’«Origine delle specie», l’opera fondamentale che Charles Darwin ci ha regalato per comprendere la vita sul nostro Pianeta (Stefano Mancuso, cit.), USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. CON KANT, E CON MARX, OLTRE ...
Federico La Sala
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. ... *
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero (il manifesto 27.07.2018)
Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri.
La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica.
La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Galvano della Volpe: l’ultima «autorevisione»
di Leonardo Allodi *
Per Lucio Colletti - il più noto e brillante degli allievi di Galvano della Volpe, ma che dal «dellavolpismo» aveva preso congedo convinto che anche il marxismo scientifico propugnato dal suo maestro fosse inemendabile dal vizio d’origine della dialettica hegeliana, e cioè da quella matrice teologica e mistica scoperta dal suo maestro in una delle sue opere più notevoli: Eckhart o della filosofia mistica, 1930 e rielaborata poi nel 1952 - Galvano della Volpe è stato un «personaggio notevolissimo», un «romagnolo di piccola nobiltà», detto per questo il «Conte rosso», prima fascista critico e inquieto anche rispetto al gentilianesimo (non meno di Giuseppe Bottai con il quale condividerà l’avventura di Primato) e poi comunista, ma mai liberale: «Era circondato da una antipatia e una diffidenza che riconduco a varie ragioni. Primo: andava matto per le donne e non lo nascondeva. Secondo: aveva gli atteggiamenti dell’aristocratico e li faceva pesare. Terzo: aveva fatto il salto da fascista a comunista. Lo avevano fatto pure Antonio Banfi (che aveva insegnato alla scuola di “mistica fascista”) o Ranuccio Bianchi Bandinelli, che era stato il cicerone in orbace di Hitler a Firenze, senza che ciò impedisse al Pci di accoglierli con gli onori. Ma per lui era diverso. Era guardato con sospetto da tutti: dai liberali perché comunista e dai comunisti perché eterodosso» (1).
L’origine mistica dell’hegelismo
La ragione era dunque ben più profonda, cioè filosofica e connessa ai risultati delle ricerche storiografiche sull’origine «mistica» della dialettica hegeliana, nel quadro di un atteggiamento intellettuale portato all’inquietudine e alla continua «auto-revisione». I tedeschi l’avrebbero chiamata Wirkungsgeschichte, storia delle idee e degli effetti genealogici, anche imprevisti, delle idee e della logica del pensiero. Galvano della Volpe era sempre stato un pensatore contro-corrente «sia nei confronti della tradizione filosofica italiana sia per la sua interpretazione del marxismo, così lontana dalla vulgata ufficiale e sovietica» (2). Ma tanto fu importante il suo lavoro in vista di una disideologizzazione del marxismo quanto «cieca» rimase fin quasi alla fine la sua fedeltà al Pci e al comunismo sovietico. La sua posizione filosofica metteva in difficoltà lo sforzo gramsciano e togliattiano di inserire il marxismo nella tradizione filosofica italiana (3). Da qui l’emarginazione in una sede universitaria minore come Messina (dove insegnò ininterrottamente dal 1939 al 1965). Un capolavoro di ipocrisia istituzionale sovietica resta, in questo senso, il messaggio che Luigi Longo, in nome del Comitato centrale del Partito comunista italiano, invierà alla famiglia in occasione della morte (13 luglio 1968): «Noi sentiamo tutta l’attualità del suo pensiero e del suo impegno e lo ricordiamo, anche per questo, con affetto e gratitudine. Galvano della Volpe continuerà a restare con noi, con le sue opere» (4).
Ben altra risonanza conservano invece le parole di Lucio Colletti: «Vederlo così mi dava dolore. Aveva un carattere detestabile e scriveva difficilissimo, con parentesi quadre dentro parentesi graffe. Ma era affascinante perché era un uomo vivo. Non lo incontravi a casa sua, dati i cattivi rapporti con la moglie, ma al caffè di piazza Vescovio. Riceveva là. Ci ricevette anche Kolakowski e Sartre. Fino a quando morì, nel ’68. Mi ha dato molto. Prima di tutto la freschezza dell’osservazione. Andavamo al cinema insieme. E anche davanti al film più banale riusciva a cogliere il dettaglio da cui ricavava sempre un elemento di vita vissuta»5. Nello stesso Caffè riceveva anche Pierpaolo Pasolini, l’amico che chiamava «il mio misticone». Colletti era giunto alla conclusione che Galvano della Volpe, nonostante il suo straordinario sforzo teoretico e filologico (anche come traduttore), fosse rimasto impigliato nella dialettica di Marx e di Hegel, quella dialettica di cui aveva magistralmente indagato la genealogia e le origini in Proclo e nel neoplatonismo, fino a risalire al Vangelo di Giovanni ma soprattutto a Maestro Eckhart, al punto da meritarsi il notevole apprezzamento del maggior filosofo cattolico tomista del Novecento, Étienne Gilson6. Meister Eckhart, con la sua mistica speculativa, con il suo volontarismo, con il suo disprezzo per la creaturalità, in fondo era in decisa rotta di collisione con il grande Tommaso. Il Meister Eckhart presente in Hegel dava invece molto fastidio agli idealisti gentiliani come ai marxisti e, costituiva, paradossalmente (certo, al di là delle stesse intenzioni di della Volpe), un «assist» formidabile al tomismo cattolico e alla sua critica dell’immanentismo hegeliano e poi marxista, all’«eterogenesi dei fini» derivata da quello spiritualismo eckhartiano che aveva rotto con la tradizione scolastica.
Il «falso» realismo
Il notevole interesse che della Volpe riservava ad Aristotele, un pensatore «pre-cristiano» come qualcuno ha detto, in opposizione a Platone, nasceva nell’orizzonte di questa critica allo spiritualismo disincarnato eckhartiano e in questa stessa prospettiva possono essere letti il fascino che avvertiva per scienza e tecnica, lavoro e socialità umana, dunque l’esigenza di volgere il pensiero verso una materialità oggettiva e non mistificata.
Ma per Colletti Galvano della Volpe non era riuscito a «fare l’ultimo passo» che lo avrebbe condotto fuori dal falso realismo, cioè dal realismo a metà del Marx giovanile. Rimase per questo in un’inquietudine esistenziale e filosofica mai risolta e forse proprio in questa inquietudine, in questa ricerca di una verità mai trovata almeno a livello pubblico e ufficiale (per la dimensione privata oggi possediamo una testimonianza assolutamente inedita e piuttosto straordinaria nelle parole di Madre Monica della Volpe, nipote di Galvano e oggi alla guida del Monastero trappista cistercense di Valserena a Guardistallo) si trova il significato più profondo del cammino di Galvano della Volpe. Per Colletti, con il suo lavoro teoretico filologico e storiografico, egli ha inconsapevolmente gettato le basi di una fondamentale disideologizzazione del marxismo proprio nel momento in cui indirizzava quest’ultimo verso un confronto con il sapere scientifico: un confronto, tuttavia, dal quale il Marx Galileo delle scienze sociali sarebbe uscito con le ossa rotte. Dunque un pensatore contro-corrente, eretico, non controllabile. Per M. Rossi una caratteristica costante del suo lavoro fu proprio la tendenza a una «rigorosa e incessante autorevisione» (7). In particolare della Volpe «presentava il pensiero marxiano come via d’uscita dalle forme di dogmatismo a priori, un allargamento della ragione verso la positività e la ricchezza del reale. In questo modo della Volpe agganciava il marxismo alla ricerca concreta e discreta delle scienze umane e ne metteva in crisi l’impianto ideologico ufficiale» (8).
La molteplicità «positiva»
Per della Volpe l’unica risposta possibile alla crisi del «vecchio mondo platonico-cristiano-borghese» non poteva essere né borghese-illuministica né romantica né, tantomeno, poteva trovarsi in un atteggiamento «da anime belle». Il suo grande errore fu simile a quello di Nietzsche: confondere il realismo della caritas dell’amore cristiano e dell’ordo amoris agostiniano con la loro degenerazione borghese. Nel pensiero filosofico occidentale, che per lui culmina e si invera definitivamente in Hegel, persistono «un platonismo e un implicito misticismo», che si esprime al meglio nella hegeliana dialettica dell’unificazione degli opposti come momento della totalità. Prima Hume e poi Marx consentono, secondo della Volpe, di riaprire al pensiero un accesso alla realtà, alla complessità del reale che per della Volpe è sempre anche «non essere», «molteplicità» positiva.
Per della Volpe i marxisti che parlano di «negazione della negazione» non sanno quel che dicono: «Ancor oggi si sente parlare molto (anche da marxisti) di “negazione della negazione”. Ma questa formula, se ha da significare qualcosa di preciso, non può non mantenere sostanzialmente il significato ch’ebbe per Hegel, che l’apprese dal primo che se ne servì: dal filosofo mistico maestro Eckhart, che intendeva con essa asserire che, se il principio del mondo è spirituale, esso è principio di unità originaria delle cose, però negazione di quel negativo che è, per definizione mistica, la accidentale molteplicità delle cose!» (9). Con la logica hegeliana cade il principio di non contraddizione, e solo nella scienza, nella logica del circolo concreto-astratto-concreto, è possibile riappropriarsi di un accesso alla realtà così come essa è. Solo la scienza è in grado di evitare l’annientamento del molteplice, e con esso della creatura, propugnato dall’atto mistico eckhartiano («semplificare o unificare all’estremo le cose, il molteplice, trascendendolo, trovandone la reale consistenza ontologica ch’è l’unità assoluta, Dio stesso» (10) ). Agire liberi, spogli, come abito della vita interiore, significa, in Eckhart, svuotamento spiritualistico e disincarnato della vita umana concreta.
Della Volpe ricorda l’affermazione eckhartiana, poi condannata da Giovanni XXII (l’intero testo latino della Bolla è riportato nel volume su Eckhart): «Chi si sia veramente identificato con la volontà di Dio non dovrebbe volere che non fosse stato commesso il peccato in cui è caduto, perché per aver peccato, è tenuto a un maggior amore verso Dio» (11). Le ultime propaggini di questo spiritualismo si spingono, per della Volpe, fin dentro l’esistenzialismo jaspersiano: «Lo stesso sprezzo teologico per l’uomo come ente mondano, ch’era condensato nelle formule eckhartiane del “niente creaturale” e di una mistica “libertà” (dal mondo), ritorna evidentemente mutatis mutandis in questa moderna formula di condanna del “mondo materiale”, dell’umano lavoro pronunciata da Karl Jaspers, ultima anima bella» (12). Interpretare dialetticamente la realtà significa consegnarsi nelle braccia di una dialettica che produce l’illusione della totalità. Per della Volpe, al contrario, «là dove è serio, come nelle analisi de Il Capitale, il marxismo è scienza». Il marxismo è ragionamento sperimentale.
Il «Taccuino del filosofo»
Ma facciamo un passo indietro. Nel marzo del 1940, Galvano della Volpe viene chiamato da Giuseppe Bottai a collaborare alla nascente rivista di arti e lettere Primato, dove curerà il «Taccuino del filosofo».
Nati nello stesso anno, il 1895, Giuseppe Bottai e Galvano della Volpe condividono l’avventura di una delle esperienze culturali più sorprendenti del ventennio fascista. Bottai era il «fascista critico», la «Cassandra del regime», il «frondista» che voleva separare fascismo e mussolinismo, ma anche colui che non si oppose alle leggi razziali. La rivista raccolse intorno a sé circa 250 intellettuali, prevalentemente non coinvolti nel regime. È qui che Galvano della Volpe trova quel clima di «fronda», di «eterodossia» a lui molto congeniale (13).
A scorrere la lista dei collaboratori lo stupore non manca (14): Nicola Abbagnano, Corrado Alvaro, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Antonio Banfi, Piero Bargellini, Enzo Biagi, Romano Bilenchi e Massimo Bontempelli, Filippo De Pisis e Carlo Emilio Gadda, Mario Luzi e Mino Maccari, Eugenio Montale, Indro Montanelli, Enzo Paci e Giaime Pintor, per citare solo alcuni nomi. Le grandi inchieste sull’ermetismo, sulla missione dell’università, sul «nuovo romanticismo» (nella quale intervenne direttamente l’«antiromantico» Galvano della Volpe), sull’«esistenzialismo» (15), la difesa della letteratura americana o quella dell’illuminismo compiuta da un Giaime Pintor, ci suggeriscono una realtà abbastanza singolare per il regime di allora, ma nella quale un intellettuale inquieto e «irregolare» come Galvano della Volpe si trovò perfettamente a suo agio. Nella sua rubrica Galvano della Volpe affronta molti temi, ma l’articolo che mai gli sarà perdonato (dagli stessi comunisti) resta «Estetica del carro armato» (uscito nel n. 10 del 15 luglio 1940). In realtà, più che di un intervento politico si trattava di un articolo (certamente non di esaltazione del nazismo) anticrociano, che tirava in ballo soprattutto l’amico Luciano Anceschi e la sua concezione dell’arte (16).
Proprio attraverso Bottai, Galvano della Volpe stabilisce un contatto con un altro «irregolare» come don Giuseppe De Luca, il «vignaiolo delle menti e delle coscienze» (17). Significativo il ringraziamento che l’autore rivolge a don De Luca nella premessa «Al Lettore» della riedizione del 1952 di Eckhart o della filosofia mistica, «per la liberale assistenza al suo lavoro» (18).
Così come stupisce la persistenza del suo interesse per la storia della mistica occidentale: si pensi al corso su L’etica dell’agostinismo (nel 1944-1945), a La dottrina dell’Areopagita e i suoi presupposti neoplatonici (Roma 1941), al corso del 1949-1950, La mistica da Plotino a sant’Agostino e la sua scuola. E agli interventi degli anni ’30 su La mistica di Bernardo di Clairvaux (Annuario del R. Liceo ginnasio Galvani di Bologna) e Filosofia ascetico-mistica (del 1942), come pure La morale religiosa nell’età patristica e medievale: appunti di storia della filosofia (corso messinese del 1941) o l’edizione di Antonio Rosmini, Princìpi della scienza morale, del 1940.
Galvano della Volpe: l’ultima «autorevisione» (di Leonardo Allodi)
Il marxismo come scienza
La definitiva svolta di Galvano della Volpe verso Marx avviene tra il 1943 e 1944. Nel 1943 era stato aiutato da partigiani romagnoli a tornare a Messina, dove riprese l’insegnamento, per poi aderire nell’ottobre del 1944 al Pci. Il testo che meglio rispecchia questa svolta è il Discorso sull’ineguaglianza (Roma 1943), dove tenta «una critica del concetto dogmatico-teologico, aprioristico, individualistico della “persona”», che, a suo parere, persiste in Rousseau. Nel 1950, con l’opera Logica come scienza positiva, vuole costruire una logica filosofica come «scienza storico-sperimentale». Nel 1957 con Rousseau e Marx e altri saggi, considerato il suo libro etico-politico più importante, rivede profondamente il giudizio su Rousseau e il suo «uomo astratto»: si dà un’eredità positiva di Rousseau, il cui merito è quello di aver posto il problema del «riconoscimento sociale dell’individuo». Per Galvano della Volpe il problema sociale si risolve soltanto perseguendo una «libertà egualitaria»: il liberalismo è per lui una «libertà senza giustizia», laddove il socialismo costruisce una «libertà con giustizia». Solo negli ultimi anni, dopo la polemica con Bobbio19, riconoscerà, insieme all’importanza del lavoro, anche il valore del «merito», che non dovrebbe essere disgiunto da quello dell’uguaglianza. Anche la posizione che vedeva nell’Unione sovietica la realizzazione della società comunista perfetta si attenua. Galvano della Volpe riconsidera le posizioni espresse in Libertà comunista (un libro sbagliato, come dirà Colletti) e riconosce la necessità di pensare le norme dello Stato di diritto borghese in un contesto socialista.
L’ultima «auto-revisione»
Come detto, secondo Colletti Galvano della Volpe non ha trovato la forza di andare fino in fondo, di riconoscere cioè come lo stesso marxismo «scientifico» poggiasse su un assunto sbagliato: l’idea di contraddizione. Il problema non era negare le opposizioni reali, dice Colletti, ma, e qui occorre rifarsi a Kant, riconoscere che le opposizioni reali sono senza «contraddizioni». Coppie di contrari e non di contradditori.
Galvano della Volpe non riesce a uscire dal «prassismo» e per lui il «lavoro» resta la categoria filosofica fondamentale (20). Anche la critica della religione rimane la premessa di ogni critica. Della Volpe solo in minima parte giunge a riconoscere quanto il lavoro, proprio nel contesto del cristianesimo, abbia per la prima volta ottenuto una valorizzazione decisiva, non semplicemente spiritualistica, ma reale e concreta. Il nuovo tipo d’uomo d’onore, l’uomo nobile creato dall’emulazione socialista, è per della Volpe il lavoratore: «Il modello umano del cristianesimo viene così conservato, rovesciandolo, nel marxismo dellavolpiano. L’uomo vero è il Cristo conservato-rovesciato: l’operaio minerario Stackanov che sa di essere attività o prassi storica, transitoria, limitata, contingente» (21).
Giuseppe Colombo, nel suo importante lavoro interpretativo dedicato a della Volpe, ha messo in luce come «gli studi dellavolpiani sul platonismo e sulla teologia cattolica e protestante testimoniano che egli ha saputo cogliere un’istanza positiva nel cristianesimo. Soprattutto in campo cattolico, infatti, a suo avviso, la persona non si perde nel tutto dell’unità a priori» (22). Come «al cristianesimo si debba la prima scoperta dell’universale umano, dell’uomo comune sconosciuto alla città antica» (23).
Affermazioni importanti, ma ancora lontane dal riconoscere come nel cristianesimo, in virtù del Mistero dell’Incarnazione, trascendenza e immanenza, terra e cielo si siano definitivamente e organicamente saldati, e non certo in una prospettiva spiritualistica, ma in quella della massima valorizzazione della vita materiale e ordinaria.
Ma nessuno avrebbe immaginato che un’ultima auto-revisione fosse alle porte. L’antropologia immanentista, che pure resta la sostanza del suo lavoro, si ferma di fronte al riconoscimento, che leggiamo nella testimonianza di Madre Monica, che alla fine l’unica cosa che conta e rimane è Cristo. Come una volta ha intuito Chesterton, il cristianesimo è davvero il luogo in cui «tutte le verità si danno appuntamento». Anche quella «materialista».
Leonardo Allodi
1 Il pifferaio rosso della Volpe, intervista a L. Colletti, a cura di Gianantonio Stella, in «Corriere della sera», 30 giugno 2000.
2 Lucio Colletti, Il marxismo ereticale di Galvano della Volpe, relazione tenuta al Convegno su «Galvano della Volpe 1895-1995», Roma, 15 novembre 1995. Poi in: L. Colletti, Fine della filosofia e altri saggi, Ideazione, Roma 1996, pp. 74-86.
3 Cfr il recente U. Finetti, Botteghe oscure. Il Pci di Berlinguer & Napolitano, Ares, Milano, 2016, pp. 55-60.
4 Riportato in: «Notizia biografica» a cura di C. Violi, vol. VI delle Opere di Galvano della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 519-520.
5 Il pifferaio rosso della Volpe, cit.
6 Cfr É. Gilson, La philosophie au Moyen Âge, Payot, Paris 1952; tr. it. La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Firenze 1973, dove a p. 968 riconosce come quello di della Volpe sia «lo studio d’insieme migliore su Eckhart».
7 M. Rossi, Galvano della Volpe: dalla gnoseologia critica alla logica storica, in «Critica marxista», 4-5 (1968), pp. 165-166, citato in G. Giannantoni, Il marxismo di Galvano della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 10.
8 A. Bellantone, Della Volpe, il filosofo irregolare che non piaceva ai marxisti, in «L’Occidentale», 18 luglio 2010.
9 G. della Volpe, Eckhart o della filosofia mistica, revisione del 1952, ora in Opere di Galvano della Volpe, a cura di Ignazio Ambrogio, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. I, pp. 211-461; alle pp. 457-461 è riportato il testo latino della Bolla In agro dominico di Giovanni XXII, che condanna alcune proposizioni eckhartiane.
10 Ivi, pp. 303 ss.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 456.
13 G.B. Guerri, Giuseppe Bottai fascista, Mondadori, Milano 1998, p. 164.
14 Ivi, pp. 167-168.
15 Cfr Guerri, op. cit., pp. 168-169.
16 G. della Volpe, Estetica del carro armato, in «Primato», n. 10, luglio 1940, p. 11.
17 Cfr Mariagrazia Bottai, Vignaiolo delle menti e delle coscienze, in Don Giuseppe De Luca a cent’anni dalla nascita, a cura di P. Vian, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1998, pp. 17-20. Le Edizioni di Storia e Letteratura hanno pubblicato anche il Carteggio 1940-1957, intercorso tra don Giuseppe De Luca e Giuseppe Bottai.
18 Cfr Opere di GdV., vol. I, cit., p. 215.
19 Si veda in particolare: N. Bobbio, Postilla a un vecchio dibattito, in Studi dedicati a Galvano della Volpe, a cura di Carlo Violi, Herder Editore, Roma 1989, pp. 33-46, in cui sono riportati passi del carteggio Bobbio-della Volpe.
20 G. Colombo, Scienza e morale nel marxismo di Galvano della Volpe, Cusl, Milano 1983, p. 35.
21 Ivi, pp. 139 ss.
22 Ivi, pp. 98, 118, 120.
23 Ibidem.
* «Studi cattolici» - settembre 2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
L’ultimo Marx
di Alfio Neri (Carmilla, 24 dicembre 2016)
Non era solo un vecchio malandato. La salute di Marx era malferma ma il suo cervello funzionava. Avere problemi fisici non significa essere rincoglioniti.
La tradizione marxista lo descrive come un vecchio infermo, un santo laico che aveva appena fatto in tempo a finire la sua immane opera.
La verità è diversa. Il vecchio tabagista non mollò mai, anche dopo aver smesso di fumare. Marx non fu mai la sfinge granitica dei monumenti sovietici e non ebbe mai la triste certezza dogmatica dei suoi peggiori seguaci.
Diffidò sempre delle dottrine tascabili sfornate dai suoi seguaci più ottusi.
Non recitò mai la parte del profeta barbuto che indica il sol dell’avvenire.
Dalle lettere si vede molto bene che non si fidava di parecchia gente; spesso gli stessi che, più avanti, avrebbero fatto del marxismo il loro mestiere.
Di Kautsky pensava che fosse una “mediocrità”1. Il suo giudizio sul futuro massimo dirigente della socialdemocrazia tedesca mostra il suo enorme intuito.
La leggenda che, alla fine della sua vita, il vecchio ex-tabagista avesse soddisfatto la propria curiosità intellettuale è falsa. Marx continuò a studiare e a proporre soluzioni nuove fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle opere complete stanno per essere pubblicati gli ultimi duecento quaderni.
Il lavoro filologico ha riportato alla luce gli appunti personali di questi anni. Da questi materiali emerge un autore diverso da quello consueto. Il profilo intellettuale appare completamente nuovo.
I nuovi documenti e l’implosione dell’URSS hanno liberato Marx dalla necessità di interpretarlo alla luce della ragion di stato e del dogmatismo dottrinario.
Il rinnovato interesse sulla sua figura e il nuovo materiale fanno pensare che la reinterpretazione della sua opera sia destinata a continuare. Il punto di svolta ermeneutico, per Marcello Musto, inizia con la rilettura della parte terminale della sua opera.
In questa sede non bisogna adagiarsi sull’elegia.
La dignità della sua morte ricorda le trame di un racconto ottocentesco in cui le tragedie personali si intrecciano nelle grandi tempeste della storia moderna.
Tuttavia, al di là della questione umana, leggere la storia dell’ultimo Marx come il racconto storico di un uomo dalla vita romanzesca, non ha molto senso.
Per quanto si possa perdonare chi legge l’ultimo Marx con le lenti dell’analitica della finitudine umana, non è lecito proporre la vicenda intellettuale del vecchio Marx nell’ottica di un’estetica del tramonto. Il materiale mostra che il vecchio scorbutico (era davvero molto scorbutico) continua a combattere e studiare.
Nei suoi ultimi due anni, Marx studia antropologia, non passa il tempo a leggere romanzetti rosa.
La nascita di un movimento socialista in Russia lo pone di fronte a nuove importanti questioni. Vera Zasulič (fuggita dopo aver tentato di assassinare lo Zar) gli chiede se, nella sua opinione, sia possibile arrivare al socialismo senza passare per una fase di egemonia borghese.
Per dare una risposta alla questione inizia a studiare in profondità l’argomento ed entra in campi di studio che fino ad allora aveva trascurato.
I manoscritti inediti e le bozze delle lettere (inviate e non inviate) indicano che non era per niente soddisfatto delle risposte teoriche che aveva già formulato. Si accorge che la comunità rurale slava poteva essere lo strumento adeguato per passare dal feudalesimo al socialismo senza passare per il capitalismo2.
Marx non pubblica nulla di rilevante ma lo svolgimento dei materiali che elabora è antitetico a quello del marxismo storico.
Il percorso dialettico del suo pensiero gli evita di avvicinarsi alla questione in modo dottrinario e gli fa vedere subito cose che i suoi futuri seguaci non sarebbero mai stati capaci di comprendere.
Del resto è evidente che non si fidava di quelli che dicevano di ispirarsi ai suoi scritti. Sconfessa Hyndman perché era riformista3, ma le sue parole per i sedicenti discepoli ‘ortodossi’ non erano poi tanto diverse.
Di fronte a chi si dichiarava suo seguace, rispondeva con ironia “quel che è certo è che io non sono marxista”4. Il punto di partenza per rileggere Marx sono queste sue ultime parole.
Adesso è finalmente possibile fare un bilancio perché tutta la sua opera sta diventando finalmente accessibile5. Le nuove interpretazioni di Marx non possono che iniziare da qui, dalle sue ultime ricerche.
Nessuna elegia funebre, nessun interesse antiquario, nessuna estetica del tramonto, la posta in gioco è sempre la trasformazione del mondo.
Note
1. Cfr. p. 46. Nell’epistolario Marx definisce Kautsky saccente, sputasentenze e di vedute ristrette; per quanto diligente per Marx rimane un mediocre. Engels definisce Kautsky un pedante, un dottrinario e un cavillatore nato. Come lato positivo trova che abbia un gran talento nel bere. ↩
2. Cfr. pp. 49-75. ↩
3. Cfr. pp. 84-87. ↩
4. Cfr. p. 25. ↩
5. Fra le opere che possono essere un nuovo punto di partenza critico segnalo il notevole E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, 2009 (dimostra come l’opera di Marx sia costitutivamente aperta) e il pionieristico M. Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981. ↩
Alla ricerca di un Politico nell’era dei piccoli Napoleone
Saggi. «La scienza politica di Gramsci» di Michele Prospero per Bordeaux edizioni. Da Grillo a Renzi, la nuova onda populista esprime la crisi della democrazia rappresentativa
di Leonardo Paggi (il manifesto, 09.07.2016)
Da tempo ormai immemorabile la bibliografia italiana su Gramsci è dominata dal tema dei suoi rapporti con il partito negli anni del carcere. L’esistenza di una difformità, peraltro da sempre largamente nota, tra i Quaderni e i coevi indirizzi culturali e politici del partito ha generato una ricerca sempre più ossessiva sul «tradimento» che sarebbe stato giocato ai danni del prigioniero. Sull’onda di una filologia avventurosa e spericolata si è persino ipotizzato un quaderno «mancante», fatto sparire dalla censura preventiva del Pci. Si accoglie pertanto quasi con sollievo un libro come quello di Michele Prospero (La scienza politica di Gramsci, Bordeaux) che torna a cimentarsi con una lettura diretta dei testi.
La tesi del libro è che la richiesta di un politico forte e auto centrato fa da contrappunto in Gramsci ad una analisi che indugia a lungo sui modi in cui un sistema liberale di tipo parlamentare può subire un processo di progressivo corrompimento e degrado fino alla negazione di fatto del principio della rappresentanza democratica. La crisi del partito, in quanto essenziale tratto di unione tra società civile e stato, è sempre il vero epicentro di una involuzione di sistema, destinata a sfociare, prima o poi, in un mutamento della stessa forma di governo.
Prospero ripercorre e commenta tutti i fondamentali passaggi dell’analisi gramsciana: la degenerazione burocratica, la disgregazione trasformistica, la fascinazione carismatica, la regressione nell’apoliticismo, l’involuzione cesarea, che può avanzare anche attraverso la formazione di grandi coalizioni di governo che tolgono al parlamento la sua precipua funzione di rappresentazione politica del conflitto sociale.
Una teoria dello Stato
Comprensiva di questa complessa fenomenologia è la più generale contrapposizione tra lo stato inteso come costituzione e il governo, tra la politica come forma in cui una società si organizza e si esprime in ottemperanza ai conflitti sociali da cui è percorsa, e la politica come macchina o tecnica (come governance nel linguaggio di oggi), ossia come potere esecutivo che ricerca nella sua separazione e nella sua razionalità esclusiva ed escludente il principio del proprio sviluppo. O ancora: tra lo stato che si allarga alla società civile e lo stato che si contrae nell’apparato burocratico.
Questa linea di conflitto attraverso cui matura sempre lo svuotamento di ogni forma di sovranità popolare, ha investito, per Gramsci, anche il nuovo potere nato dalla rivoluzione d’ottobre. In questo senso si può dire che nei Quaderni ci sono i fondamenti di una teoria unica dello stato. In qualsiasi contesto sociale la democrazia avanza solo con la diffusione e l’arricchimento del politico.
Gramsci non ha letto gli ultimi corsi di Foucault al Collége de France sulla contrapposizione tra stato e governamentalità. I suoi punti di riferimento sono da un lato La filosofia del diritto di Hegel, che, nelle sue parole, interpreta la società civile come «trama privata dello stato», dall’altro Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che vede nel potere dell’esecutivo, sempre più dilagante con lo sviluppo di rapporti capitalistici, la causa immanente di ogni involuzione autoritaria. Il passaggio da Napoleone il grande a Napoleone il piccolo sta a testimoniare l’esistenza di un potere separato che sovrasta e condiziona la politica. Per questo l’involuzione cesarea può avanzare senza il concorso di grandi personalità.
Dinanzi all’incapacità del pensiero liberaldemocratico classico di dire una parola sulla crisi della democrazia che stiamo vivendo, i Quaderni di Gramsci, che Norberto Bobbio volle tanto tenacemente mandare in soffitta, continuano ad avere un singolare potere di illuminazione sul presente. Oggi valutiamo meglio l’effetto disarmante di una visione della democrazia che si costruiva nella più completa ignoranza del legame di ferro tra potere economico e potere burocratico che la mondializzazione e lo stesso sviluppo del processo di integrazione europeo stava già allora saldando.
La lettura dei testi gramsciani che Prospero ci propone è legittimamente, ossia senza alcuna sollecitazione dei testi, orientata all’esperienza dell’oggi. Si può dire che in essa si definisce la prospettiva critica con cui egli guarda alla crisi italiana nel suo volume immediatamente precedente Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Bordeaux.
Con particolare efficacia il capitolo intitolato «La rivoluzione passiva» suggerisce come nello smantellamento progressivo del partito politico, sempre incoraggiato e promosso dai poteri costituiti, si debba cogliere il tratto distintivo di una «crisi organica» che dall’inizio degli anni Novanta arriva, con le elezioni del febbraio 2013, al crollo del bipartitismo, assunto come principio fondante della seconda repubblica, per approdare (provvisoriamente!) all’Opa (offerta pubblica di acquisto) di Renzi sul Partito democratico.
Il ciclo populista genera un politico sempre più fragile e aleatorio, in cui il carisma di carta pesta inventato dai media si mescola con la degenerazione trasformista e con un discorso pubblico sempre più svuotato di ogni contenuto reale. Le affinità tra questi diversi episodi sono indubbiamente impressionanti. E tuttavia la fedeltà allo spirito della analisi gramsciana impone la ricerca di differenze che indiscutibilmente permangono. Con i leaderismo di Berlusconi si cementa una nuova destra di governo estranea e aggressivamente contrapposta a tutta la precedente storia repubblicana. Con il leaderismo di Grillo si esprime la protesta di vasti ceti popolari nei confronti di un sistema politico che ha abbassato drammaticamente il livello delle proprie prestazioni, disattendendo sistematicamente le aspettative della società civile. Con i leaderismo di Renzi giunge a conclusione la involuzione programmatica e politica del Partito democratico (a sua volta ultima metamorfosi del vecchio Pci) che è definitivamente precipitata nell’autunno del 2011 con il consenso dato alla formazione del governo Monti.
Stress da austerità
Nell’ondata populista che oggi investe tutti i sistemi politici europei sottoposti allo stress della politica di austerità si esprimono contenuti sociali spesso tra loro opposti. La protesta antipolitica di chi ha perso il lavoro rimane profondamente diversa da quella di chi non vuole pagare le tasse. Riuscire a mantenere il senso delle distinzioni è la vera posta in gioco sia dell’analisi che dell’iniziativa. La perenne saldatura tra contenuto e forma è in effetti il lascito più importante della metodologia gramsciana che questi due libri di Prospero ripropongono con grande forza all’attenzione della nostra cultura politica.
L’avventurismo del senso comune
Il nuovo libro di Michele Prospero. Il «populismo mite» del potere è la cifra ideologica del capo. Che non è solo un produttore di annunci, ma un fattore di stabilità
di Carlo Galli (il manifesto, 20.10.2015)
Più di vent’anni di politica italiana sono ricondotti, nell’ultimo libro di Michele Prospero (Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Roma, Bordeaux, 2015, pp. 418, euro 26) al filo conduttore dell’antipartitismo, e in generale dell’antipolitica che nei partiti ha avuto la propria testa di turco.
Un’antipolitica solo parzialmente spontanea - generata da una rivolta etica contro il sistema politico degenerato - e in gran parte indotta dall’alto, da agenzie di senso e da poteri mediatici (a loro volta riconducibili a forze economiche) interessati al risultato dell’antipolitica: non solo distruggere i partiti esistenti (un disegno di lungo periodo della storia d’Italia, prevalentemente connotato a destra, da Minghetti a Maranini a Miglio), realizzando una discontinuità radicale (un’idea a cui non si sottrassero però né il Pd di Occhetto né i Girotondi, e che fu il cavallo di battaglia del primo Berlusconi), ma screditare la forma partito in quanto tale (s’intende, il partito pesante, organizzato, che è spazio di confronto e di partecipazione dialettica, ovvero di mediazione).
E aprire così la strada al Nuovo, che è un miscuglio di ideologia (la società liquida, l’individualismo postpolitico, l’immediatezza) e di solida realtà, tanto istituzionale (il partito leggero, la democrazia d’investitura, lo spostamento del potere verso l’esecutivo, il leaderismo pseudo-carismatico) quanto economica (la fine della politicità del lavoro, la sua precarizzazione e la sua subalternità) quanto infine sociale (l’aumento delle disuguaglianze, il declino - programmato - del ceto medio).
Prospero, per questa via, incontra (convocando un grande materiale analitico in chiave prevalentemente politologica) una contraddizione strutturale dell’intero processo storico-politico preso in esame, ossia le due crisi di sistema del 1993-94 e del 2013-14, tutta la seconda repubblica e l’inizio della terza: da una parte vi è in questa storia un dato di occasionalità, di contingenza, e quindi vi è preponderante l’agire di una persona (ovviamente, Renzi) e anche il suo dire, il suo narrare, il suo raffigurare per il popolo un altro mondo, ricco di speranza e di ottimismo e quindi ben diverso da quello di cui la maggior parte dei cittadini fa esperienza.
Questo livello è spiegato con frequenti riferimenti a Machiavelli, non tanto perché l’autore sostenga che Renzi incarna il “Principe nuovo” - anzi, spesso attraverso Machiavelli si mettono in rilievo debolezze e fallacie del suo agire, la sua propensione alla fuga nell’irrealtà, al «romanticismo politico», a un decisionismo fatto di annunci - quanto piuttosto per il peso inusuale («rinascimentale») che la figura del singolo ha nella vicenda politica contemporanea.
D’altra parte, nondimeno, questa figura di Principe immaginario e dopo tutto incapace di dare una forma alla repubblica, impegnato com’è a gestire continue emergenze in continue affabulazioni, è contraddetta dalla robustissima realtà delle profonde trasformazioni che il suo agire produce:
veramente il partito è sul punto di estinguersi e di divenire un corteo di obbedienti seguaci, in perenne lotta tra loro (soprattutto attraverso lo strumento delle primarie, che doveva essere di apertura alla società civile e che invece è una leva per i conflitti interni), mentre nei territori le cordate di potere prendono il posto della partecipazione;
veramente le istituzioni (e il parlamento in primo luogo) sono indebolite dalla personalizzazione della politica, e trovano energia politica solo in quelle che erano state pensate come posizioni di garanzia (Quirinale e Consulta);
veramente la politica è ormai competizione fra leader populisti extraparlamentari per la conquista di un elettorato sempre più passivo (anche se in parte estremizzato);
veramente questi processi si sono sviluppati coinvolgendo tanto la destra quanto la sinistra fino all’attuale formarsi, non casuale, di un partito di Centro la cui forza di gravità spappola ogni altra formazione politica;
veramente sono stati varati il jobs Act e la legge elettorale per la camera ed è in corso di approvazione la riforma della Costituzione;
veramente il sindacato è stretto nell’angolo e gli viene sottratta la contrattazione nazionale; veramente la sinistra fatica (ed è un eufemismo) a trovare una base sociale, una chiave di lettura del presente, una missione politica;
veramente l’astensione e il populismo assorbono e neutralizzano le energie che potrebbero essere di protesta;
veramente l’analisi strutturale della realtà passa in secondo piano rispetto alla traduzione emotiva dei problemi e alla questione della legalità.
L’occasionalismo produce un ordine, quindi; l’avventura personale costruisce forma politica, la chiacchiera è largamente performativa; l’immediatezza è anche mediazione. Un ordine, certo, non inclusivo ma escludente - che espelle da sé le contraddizioni, perché non le teme (e in ciò il Pd è ben diverso dalla Democrazia Cristiana, pur riprendendone il ruolo centrale di pivot e di diga) - e che cerca una base di consenso nel livello più semplice del senso comune (molto bene interpretato), eludendo o smorzando ogni tema controverso ed escludendo il pensiero critico (i «gufi», i «professoroni»); una forma contraddittoria, segnata dalla conflittualità fra quel che resta del vecchio partito e il nuovo leader, fra antichi professionismi e il nuovo «populismo mite» che è la cifra ideologica del Capo (tutt’altro che dilettante, in verità).
Eppure, con queste contraddizioni, Renzi è non solo un problema, ma anche una soluzione; non solo un coacervo di azzardi e di provvisorietà ma anche un fattore di stabilità; non solo un produttore d’annunci e d’irrealtà ma anche un fabbricante di realtà e di processi.
È una realtà condizionata dal populismo (Berlusconi è il populismo nichilistico-aziendalistico, Grillo è il populismo aggressivo dal basso, Renzi è il populismo mite del potere), funzionale, in quanto implica una società disgregata che non deve essere letta politicamente, alla presenza onnipervasiva di logiche e valori liberisti, rispetto ai quali la sinistra (il Pd) è, non certo da oggi, del tutto interna. Ma è realtà, o almeno fascio di potere efficace. È vano pensare che il tempo breve, l’attimo, dell’occasione e della decisione non abbiano la forza di reggere l’assetto della politica; anzi, ne sono capaci, si dilatano in un’eccezione permanente che è il tempo lungo in cui si presentano oggi il potere e la libertà che esso concede.
La risposta a ciò della sinistra, secondo Prospero, è il partito organizzato, capace di esprimere ripoliticizzazione della società, partecipazione popolare e leadership autorevole (non populista). Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Certo è che la sinistra avrà un futuro solo se saprà pensarsi a questa altezza, e se a partire dalle contraddizioni del presente, ben identificate, saprà proporre un modello di società che combini in sé, con la stessa forza, un’analoga e opposta capacità di tenere insieme l’immaginario e il reale.
Dieci anni senza lo spirito critico di Lucio Colletti
La parabola del filosofo dal marxismo eterodosso all’approdo in Forza Italia.
L’ultima produzione segnata dal disincanto
di Gianni Borgna (l’Unità 3.11.2011)
Dieci anni fa moriva Lucio Colletti. Allievo di Galvano Della Volpe, aveva ereditato dal maestro il rifiuto di ogni provvidenzialismo. Anche il suo era un marxismo eterodosso, depurato da ogni idealismo e riconciliato con la scienza. L’esatto contrario di quello fin lì prevalente nella tradizione italiana (riassumibile nel famoso asse De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci). Fondamentali, al riguardo, restano opere come Il marxismo e Hegel (1969) e Ideologia e società (1969), quest’ultima contenente tra l’altro una confutazione radicale del pensiero di Herbert Marcuse, allora mito indiscusso di quel movimento del ’68 che egli non amò e da cui non fu amato.
Quando però Colletti si accorse che la dialettica, hegeliana come marxiana, si fondava non già su quelle che Kant aveva definito «opposizioni reali» (e ancor prima Aristotele «contrarietà») quanto sulle «contraddizioni» (che dovrebbero appartenere alla sola sfera della logica), anche il «suo» marxismo entrò in crisi. Fu nel saggio su Marxismo e dialettica che Colletti giunse a queste conclusioni, che mostravano come anche in Marx convivessero un lato scientifico e uno filosofico e speculativo. Detto altrimenti, anche il socialismo di Marx era tutt’altro che rigorosamente «scientifico». Il saggio uscì nel 1974 come appendice all’edizione italiana della celebre Intervista politico-filosofica, con la quale Laterza diede avvio a una fortunata collana editoriale. Le reazioni a sinistra non si fecero attendere.
INTELLETTUALI IN ITALIA
Il libro oltretutto usciva in un momento in cui, particolarmente in Italia, il marxismo manteneva una forte presa sugli intellettuali e il Partito Comunista (in cui lui aveva militato fino al 1964) era in grande ascesa. Ma Colletti aveva dalla sua più d’una ragione. Semmai si potrebbe affermare che la sua caratteristica, e forse paradossalmente il suo limite, fu di prendere Marx fin troppo alla lettera. Marx si riprometteva di far passare il socialismo dall’utopia alla scienza in polemica con i socialisti «utopisti», ma la sua era più che altro una dichiarazione programmatica. Colletti invece lavorò a espungere dal marxismo ogni tratto non scientifico, ma presto si avvide che anche in Marx convivevano scienza (le analisi di molte parti del Capitale) e ideologia (la previsione della fine del capitalismo e dell’avvento della società senza classi). Fu così che, come ha osservato Mario Tronti, il fallimento del «suo» marxismo portò Colletti a abbandonare anche il socialismo e a cambiare parte politica, fino all’approdo finale in Forza Italia.
IL RAPPORTO CON GRAMSCI
Ma il problema non era che Marx auspicasse la fine dello sfruttamento capitalistico, quanto che pensasse che si trattava di un obiettivo ineluttabile. Chi più di tutti lo aveva lucidamente compreso fu Antonio Gramsci, il Gramsci ancora imbevuto di filosofia idealistica che nel 1917 parlò della rivoluzione russa come di una rivoluzione contro il Capitale di Marx; la quale, contrariamente alle previsioni e agli auspici dei marxisti, aveva vinto proprio nel Paese europeo meno capitalisticamente sviluppato. Questo perché, come sempre Gramsci chiarì, in politica non si può prevedere «scientificamente» nulla, l’unica cosa che si può prevedere è la lotta, l’azione orientata a realizzare determinati fini. L’attività rivoluzionaria non può pretendere di appoggiarsi alla scienza, così come nei conflitti di classe non è iscritto a priori alcun esito positivo. I comportamenti umani, aggiungo, sono imprevedibili e largamente irrazionali: l’uomo, prima e più che «faber» e «sapiens», è «demens» (nel senso che produce fantasmi, miti, credenze, ideologie, e vive largamente di questo).
Tronti, però, sbagliava ad affermare che «Lucio Colletti è stato un filosofo marxista, e poi più niente». In realtà Colletti continuò a scrivere e a produrre molti studi importanti, fino a quel Fine della filosofia (1996) che parve preludere a una nuova stagione del suo pensiero incentrata su Popper e sugli studi di filosofia della scienza e improntata a un lucido disincanto, che molto doveva a due autori da lui particolarmente amati, David Hume e Giacomo Leopardi
Origene, uomo senza qualità
di Giulio Busi (Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2012)
Quando nasce l’uomo senza qualità? Verrebbe da dire tra il 1930 e il 1932, gli anni in cui Robert Musil pubblica il suo romanzo-sfogo contro la società di massa. O forse è meglio risalire di qualche decennio indietro, quando l’ottimismo borghese dell’Ottocento comincia a sfiorire? Certo, il personaggio che non sa decidersi su se stesso è icona recente, espressione di crisi e smarrimento. Ma a ben guardare, ha un progenitore più antico e più nobile.
L’individuo senza qualità precede di molto il naufragio dell’età moderna. Spunta già nell’Orazione sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico, scritto emblematico del Rinascimento italiano. Per il Conte della Mirandola, solo l’uomo, tra tutte le creature, non ha un ruolo determinato, una natura prefissata a cui restare ancorato.
Trascinato dall’entusiasmo dei suoi 23 anni, Pico vede l’essere umano come un camaleonte, capace di trasformarsi senza posa. Può innalzarsi al cielo come un angelo o sprofondare in basso, a modo di belva o di demone: «L’uomo è animale di natura varia, multiforme e cangiante» solo a lui «è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole». La mancanza di qualità significa per Giovanni la massima libertà e il vero fondamento dell’autonomia dell’uomo.
Questo pensiero, nel 1486, parve pericoloso e valse al Conte una condanna pontificia. L’enfasi sulla capacità di giudizio autonomo non piacque a Innocenzo VIII e ai suoi inquisitori. E ancor meno piacquero i maestri da cui Pico aveva appreso ad amare l’amorfa potenzialità umana.
Uno fra tutti, tra i nomi citati nell’Orazione, destava i sospetti dell’ortodossia. Era quello di Origene, padre della chiesa censurato come eretico, e vero ispiratore di tratti decisivi dell’antropologia pichiana.
Probabilmente nessuno è stato tanto amato e odiato, letto e censurato come Origene. Il più grande teologo dell’età tardo antica (prima e accanto Agostino) condannato per le sue idee dal concilio di Costantinopoli del 533. Giustiniano ordinò che tutta la sua opera fosse distrutta. Fu un atto di barbarie che, secondo il teologo Henri de Lubac, getta sull’imperatore una macchia che neppure la costruzione di Santa Sofia basta a compensare. Per fortuna, Origene aveva scritto moltissimo, e parecchio si salvò dall’ardore distruttivo. Letto di nascosto, o spesso trasmesso in forma anonima, il pensiero di Origene ha lavorato durante il Medioevo come un lievito occulto.
Per districarsi dalle spire dello gnosticismo, Origine immaginò ciò che la filosofia greca non aveva ancora saputo fare. Ovvero una seconda natura, accanto a quella rigorosamente codificata dalle leggi fisiche. Le azioni degli uomini (e degli esseri celesti, a cui Origene credeva fermamente) sono determinate da un atto individuale di volontà. Per esempio, chi sceglie la menzogna, «non lo fa in obbedienza a una struttura preesistente, ma solo per decisione propria o, per dirla con una parola nuova, facendosi egli stesso natura».
In questa frase del commento al Vangelo di Giovanni, e nei molti passi paralleli sparsi per gli altri suoi libri, Origene costruisce la grandezza dell’essere senza qualità. Capace di sbagliare certo, e colpevole nel farlo, ma anche in grado di spezzare le catene del destino.
Questo fondamento metafisico della libertà nasceva dalla lotta contro gli gnostici, i quali propugnavano un soffocante determinismo, una gerarchia dell’essere che inchiodava ciascuno a un posto prefissato. Illuminati da una parte, schiavi della materia dall’altra, e poi angeli e demoni obbligati a ripetere in eterno azioni buone o malvage, in un perenne dejà vu.
Secondo Origene, invece, l’uomo, che di per sé non è nulla, può essere ciò che vuole, se solo lo vuole. D’altra parte, questa indeterminatezza rende reversibile ogni conquista (e ogni colpa). Il bene non è mai raggiunto una volta per tutte, così come il male non è dannazione eterna. Un’opinione, quest’ultima, che pesò molto nel dossier eretico a carico di Origene.
Nelle sue Conclusiones del 1486, Pico non fa mistero della propria simpatia per il vecchio eresiarca alessandrino e anzi, ne proclama a gran voce l’innocenza: «È più razionale ritenere che Origene sia salvo piuttosto che darlo per dannato». Con un colpo di teatro, il giovin signore di Mirandola pretende di sostituirsi ai Concili e al magistero della Chiesa, e non c’è da meravigliarsi se proprio su questa riabilitazione postuma, sostenuta da Pico, si siano concentrati gli strali della commissione papale incaricata di vagliare le Conclusiones.
Ma a parte il gusto per il paradosso e l’intenzione di stupire il proprio uditorio, nel farsi promotore di una rinascita origeniana Pico aveva precise ragioni filosofiche. Un solido filo intellettuale lega il Conte al teologo del III secolo. Un filo che si chiama libertà. È infatti proprio dagli scritti di Origene, che Pico attinge la particolare idea di uomo che è alla base del suo progetto di "dignitas".
Un nuovo libro, curato da Alfons Fürst e da Christian Hengestermann, percorre la carriera dell’uomo senza qualità in panni filosofici, attraverso un ambizioso progetto interdisciplinare tra storia del pensiero politico, teologia, filosofia e letteratura.
Se Pico fu il primo moderno ad accettare la sfida di una simile «teologia della liberazione» ante litteram, la filosofia dei secoli successivi ebbe in Origene un costante punto di riferimento. Da Erasmo ai platonici di Cambridge, a Shaftesbury e, attraverso di questi, a Kant e fino a Schelling, l’antropologia tra Cinque e Ottocento si nutre dell’universalismo origeniano. Riportata alla sua prima matrice storica, l’idea della dignità dell’uomo rivela inaspettate radici teologiche.
Anziché essere frutto esclusivo del secolarismo illuministico, la libertà come diritto inalienabile dell’individuo nasce piuttosto dalla rottura della gabbia cosmica intuita da Origene nel III secolo. È uno sguardo che ci fa riscoprire una corrente sopita del pensiero occidentale, a patto però di chiamare una simile teologia col nome che gli fu dato a suo tempo, tanto a proposito di Origene quanto di Pico: eresia.