L’OSSERVATORE MEDICO (frammento)
Per essere in grado di osservare bene, il medico deve possedere, cosa che in genere non si riscontra nemmeno in grado modesto, la capacità e l’abitudine di annotare scrupolosamente e correttamente i fenomeni che si verificano nelle malattie naturali e quelli che avvengono negli stati morbosi evocati artificialmente dai farmaci, quando essi vengano sperimentati sul corpo sano e l’abilità di descriverli con le espressioni più appropriate e naturali.
Per arrivare a percepire con esattezza quanto deve essere osservato nei pazienti, dobbiamo dirigere ogni nostro pensiero sull’argomento in questione, uscire da noi stessi e, per così dire, aderire con tutto il nostro potere di concentrazione ad esso, cosicché niente di quanto si verifica, che abbia a che fare con il soggetto e che sia rilevabile dai sensi, possa sfuggirci.
Bisogna per un po’ sospendere voli pindarici, idee fantasiose e congetture, come anche è necessario abolire ogni ragionamento artificioso, le interpretazioni forzate e la tendenza a voler spiegare tutto. Il dovere di chi osserva è unicamente quello di annotare i fenomeni ed il loro andamento, la sua attenzione deve essere all’erta, niente di ciò che avviene deve sfuggire alla sua osservazione, anzi egli deve comprendere ciò che osserva esattamente com’è.
La capacità di osservare non è affatto una facoltà innata; deve essere acquisita principalmente con la pratica attraverso l’affinamento e la fine regolazione della percezione dei sensi e cioè, esercitando una critica severa delle impressioni rapide che ci vengono dagli organi esterni e, allo stesso tempo, è doveroso mantenere tranquilla sobrietà e fermezza di giudizio, unitamente ad un costante dubbio circa il nostro potere di comprensione.
L’importanza del compito deve orientare le energie del nostro corpo e della nostra mente verso l’osservazione; una grande pazienza, sostenuta dal potere della volontà, ci deve sostenere in questa direzione fino a che l’osservazione non sia completata.
Per educarci ad acquisire questa facoltà, è utile familiarizzarsi con i migliori scritti dei Greci e dei Latini, da cui ricevere un orientamento del pensiero e del sentire, come anche proprietà e semplicità nell’espressione delle proprie sensazioni; l’arte di ritrarre la natura è anch’essa utile perché esercita ed affina il nostro sguardo e gli altri sensi, perché insegna a formarsi una vera concezione degli oggetti e a rappresentare ciò che osserviamo in modo vero e puro, senza aggiunta di fantasia. La conoscenza della matematica, inoltre, ci offre il necessario rigore nella formazione del giudizio.
Così attrezzato l’osservatore medico non può mancare di portare a compimento il suo scopo, specialmente se ha costantemente davanti agli occhi l’elevata dignità della sua missione - in quanto rappresentante del Padre misericordioso e Protettore per dare aiuto alle Sue umane creature, attraverso il risanamento del loro organismo devastato dalla malattia.
Le sensazioni che così largamente differiscono tra loro e le innumerevoli varietà delle sofferenze dei diversi tipi di pazienti, sono molto lontane dall’essere state descritte secondo la loro divergenza e varietà, secondo la loro peculiarità, la complessità dei dolori costituita dai vari tipi di sensazioni, la loro intensità, la loro forma; così lontana è stata la descrizione dall’esser accurata e completa, che noi troviamo tutte queste infinite varietà di sofferenze affastellate insieme sotto pochi, scarni, insignificanti termini generali come sudorazione, calore, febbre, mal di testa, mal di gola, crampi, asma, tosse, malattia di petto, fitta nel fianco, mal di pancia, dispepsia, mal di schiena, coxalgia, crisi emorroidaria, disordini urinari, dolori agli arti (definiti secondo la fantasia gottosi o reumatici), malattie della pelle, spasmi, convulsioni eccetera.
Con simili superficiali espressioni, l’innumerevole varietà delle sofferenze del paziente è stata annullate nelle cosiddette osservazioni, in modo tale che - ad eccezione di qualche sintomo grave, straordinario, in questo o quel caso di malattia - quasi ogni affezione che si pretende descritta, assomiglia alle altre come i punti sulla faccia di un dado o come si rassomigliano l’un l’altro, per piattezza e mancanza di carattere, i vari dipinti di un imbrattatele.
La principale delle vocazioni umane, mi riferisco all’osservazione del malato e delle infinite varietà degli stati alterati della salute, è stata perseguita in tal modo, superficiale e trascurato da coloro che dispregiano il genere umano, perché in questo modo non si pone il problema di distinguere le peculiarità degli stati morbosi, né quello di scegliere l’unico rimedio appropriato alla specifica circostanza del caso.
Il medico coscienzioso che con serietà si applica ad afferrare la malattia da curare nella sua peculiarità per essere capace di opporle il giusto rimedio, procederà molto più attentamente nel suo lavoro per discernere ciò che deve essere osservato; il linguaggio non avrà mai parole adatte a descrivere l’innumerevole varietà dei sintomi di uno stato morboso; nessuna sensazione, per quanto peculiare sia, potrà sfuggirgli, dato che ha avuto l’opportunità di riconoscerla nelle sue sensazioni evocate dal farmaco sperimentato su se stesso; egli si sforzerà di esprimere a parole un’idea di questo con l’espressione più appropriata, per essere capace, nella sua pratica, di confrontare l’accurato ritratto del quadro morboso con il farmaco ad azione simile, con il quale, soltanto, come egli sa, può essere effettuata la cura.
E’ così in verità che soltanto l’osservatore scrupoloso può giungere a curare veramente le malattie.
Egli sa che l’osservazione, in campo medico deve essere condotta con spirito sincero e devoto, come al cospetto di Dio che tutto vede. Giudice dei nostri pensieri segreti e che la registrazione deve essere effettuata con una coscienza retta così da poter essere comunicata al mondo, nella consapevolezza che nessun bene terreno è più degno del nostro zelo nell’applicarsi a preservare la vita e la salute dei nostri propri simili.
La migliore occasione per esercitare e perfezionare la nostra capacità di osservazione è fornita dall’istituire esperimenti con farmaci su noi stessi.
Evitando ogni altra influenza medicinale e impressioni mentali disturbanti in questa importante operazione, lo sperimentatore, dopo aver assunto il farmaco, deve tendere tutta la sua attenzione verso ogni alterazione della sua salute che si verifica su di lui e dentro di lui, per osservarle e correttamente registrarle, con sentimenti sempre vigili ed i propri sensi sempre in allerta.
Perseverando in questa accurata indagine su tutti i cambiamenti che avvengono dentro e su di lui, lo sperimentatore raggiunge la capacità di osservare ogni sensazione, per quanto complesse siano, che egli sperimenta dal farmaco che sta provando; tutto, persino le più sottili ombre di alterazioni della sua salute; egli deve registrare le distinte variazioni di esse in espressioni adatte ed adeguate.
Solo a questo punto è possibile per il principiante compiere osservazioni pure, corrette e ininfluenzate, in quanto egli sa che non ingannerà se stesso, che non c’è nessuno che può raccontare nulla di falso ed è egli stesso che sente, vede e rileva ciò che accade dentro e su di lui. Così egli acquisirà la possibilità di essere in grado di compiere accurate osservazione sugli altri.
Per mezzo di queste pure ed accurate indagini, si diviene consapevoli del fatto che la sintomatologia nel sistema medico ordinario è descritta in modo molto superficiale e che la natura è solita alterare l’uomo nel suo stato di salute ed in tutte le sue sensazioni e funzioni (con le malattie o con i farmaci) secondo modalità infinitamente varie e dissimili, cosicché una singola parola o un’espressione generale sono totalmente inadeguate a descrivere le sensazioni morbose e i sintomi, spesso di carattere molto complesso, se vogliamo ritrarre realmente, veramente e perfettamente le alterazioni della salute che incontriamo.
Nessun ritrattista è mai stato così negligente da trascurare le spiccate peculiarità nelle fattezze di una persona di cui desideri effettuare un ritratto o da considerare sufficiente fare un paio di cerchi rotondi sotto la fronte a guisa di occhi, tracciare tra di loro una linea diretta dall’alto verso il basso, sempre nello stesso modo, a guisa di naso e, sotto, mettere una fessura di traverso alla faccia che dovrebbe stare per la bocca di questa persona o di qualsiasi altra: nessun ritrattista, lo affermo, è pervenuto a delineare il viso umano in un modo così rozzo e trascurato; nessun naturalista ha mai lavorato in questo modo nel descrivere le creazioni della natura, in tal modo mai hanno agito zoologi, botanici o geologi.
Soltanto la semiologia della medicina convenzionale è arrivata a lavorare in questo modo nel descrivere i fenomeni morbosi.
* S. Hahnemann, L’osservatore medico (frammento),
in: Sergio Segantini - Maria A. Marchitiello, La medicina dell’esperienza ed altri scritti minori di Samuel
Hahnemann, Traduzione di Maria A. Marchitiello, Editorium, Milano, 1993, pp. 223-230.
HAHNEMANN E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA IN MEDICINA.
"ORGANON DELL’ARTE DEL GUARIRE" - "AUDE SAPERE" (HAHNEMANN, 1819)
Per una generale collocazione delle preziose indicazioni del "frammento" di Hahnemann (in particolare dell’"uscire da noi stessi", della capacità di osservare se stessi e gli altri senza ingannarsi - a partire dall’as-saggiare (sàpere), dagli "esperimenti con farmaci su noi stessi" - "come al cospetto di Dio", e del medico come "rappresentante del Padre misericordioso", ecc.) all’interno dell’orizzonte filosofico dell’illuminismo di Kant, nel sito, si cfr:
LA SCUOLA, IL WEB, E LA LEZIONE DI KANT. "SAPERE AUDE!": IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E L’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’ .....
IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITA’, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. Materiali per riflettere
Federico La Sala
Samuel Hahnemann e la nascita dell’omeopatia
Da diluizione e dinamizzazione fino al simile che cura il simile: ecco come è nata la medicina alternativa più famosa, la cui efficacia, secondo il fondatore, "dovrebbe essere giudicata esclusivamente dalla soddisfazione del paziente"
di Marco Boscolo (*)
APPROFONDIMENTO - Sul finire del XVIII secolo Samuel Hahnemann, un medico di Meißen, piccola città della Sassonia famosa per le ceramiche, si accorge che prendere il chinino da sano gli provoca - anche se attenuati - gli stessi sintomi della malaria, la malattia per cui viene usato come terapia. È questa l’ispirazione per la sua intuizione più famosa, ovvero “il simile cura il simile” (similia similibus curentur), il principio che ancora oggi si trova alla base dell’omeopatia. La stessa parola omeopatia trae origine da questo principio; è infatti l’unione di due parole greche: ὅμοιος, òmoios (simile) e πάθος, pàthos (sofferenza).
Hahnemann sosteneva che, se un paziente soffriva di una malattia, gli doveva essere somministrato lo stesso medicinale che dato a una persona in salute avrebbe provocato sintomi simili, ma in una forma più leggera. Se si soffriva di forte nausea, la cura doveva essere una medicina in grado di provocare la nausea. Un’idea non così balzana all’epoca, anzi perfettamente sensata; quando alla fine del Settecento Edward Jenner usa il vaiolo bovino come vaccino per gli esseri umani, Hahnemann lo indica come dimostrazione delle proprie idee.
Salassi e lassativi, ma manca il principio di causa-effetto
Samuel Hahnemann, nato nel 1755, non si inserisce nella tradizione di ciarlatani e millantatori che fin dalla notte dei tempi hanno attirato clienti a latere rispetto alla “medicina ufficiale”. È un medico e, per circa 30 anni, esercita la professione come la maggioranza dei colleghi tedeschi e come molti di loro è insoddisfatto delle terapie impiegate all’epoca. Nel 1790, traducendo il Treatise of materia medica di William Cullen (1710 - 1790), celebre medico e didatta della scuola di Edimburgo, Hahnemann sintetizza così lo stato della terapeutica del suo tempo:
La sua è una frustrazione condivisa da alcuni dei maggiori intellettuali tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Il filosofo Immanuel Kant (1724 - 1804) sottolinea la necessità di una riforma della medicina e il suo adeguamento agli standard di certezza delle scienze fisiche sviluppatesi con l’Illuminismo. Quello di Kant è un invito all’introduzione di principi quantitativi in una pratica medica che, in quel momento, si limita a un ascolto dei sintomi del paziente e una somministrazione per tentativi di rimedi che oggi definiremmo, in molti casi, palliativi. Manca quasi completamente un quadro di riferimento razionale, in cui la terapeutica si possa dire conseguenza logica di un sistema di analisi e pensiero: mancano gli studi che spieghino perché il tale medicinale dovrebbe essere efficace nei confronti della tale malattia. È quello che sostiene qualche anno più tardi G.W.F. Hegel (1770 - 1831), quando scrive:
Il sistema razionale più vicino a soddisfare le esigenze di razionalità di Kant e Hegel è all’epoca quello ideato da John Brown (1735 - 1788), allievo di Cullen. Secondo il suo pensiero, la salute di qualsiasi organismo consisterebbe nel mantenimento di un equilibrio tra la sua eccitabilità e gli stimoli interni ed esterni che la possono alterare (cibo, medicinali, emozioni). Il compito del medico è individuare, in questa sorta di equazione della salute, quali stimoli medicinali possano riportare in equilibrio l’organismo malato. Siamo lontani dall’idea di medicina che si sarebbe sviluppata sul finire dell’Ottocento, alla base di quella moderna: nessun trial per i medicinali, nessun uso della statistica, nessuna (o quasi) sistematizzazione e discussione dei risultati sperimentali. Non deve quindi stupire che il metodo proposto da Samuel Hahnemann abbia immediatamente trovato consensi: fornisce una chiave sintetica e logica in contrasto con la pratica terapeutica che va per la maggiore.
Un problema di diluizione
Dopo anni di sperimentazione di centinaia di rimedi, nel 1810 Samuel Hahnemann pubblica l’Organon der rationellen Heilkunde: contiene tutte le sue scoperte comparse, almeno fino a quel momento, su giornali scientifici. È nel 1814 che, nel suo pensiero, si affaccia un’idea che già allora rende teso il rapporto tra l’omeopatia e la medicina ufficiale. Secondo Hahnemann i medicinali devono essere somministrati in dosi che possano produrre solo sintomi attenuati delle malattie che devono trattare. Per far ciò, le preparazioni omeopatiche sono il risultato di una diluizione estrema, fino a una parte della sostanza originale su 100 milioni. Un rapporto che il poeta e medico americano Oliver Wendell Holmes (1809 - 1894) liquida con la battuta per cui la diluizione di Hanhemann avrebbe “richiesto le acque di diecimila mari adriatici”.
Dal canto suo, Hahnemann sostiene che i rimedi omeopatici mantengono la propria efficacia terapeutica a patto che il processo di diluizione sia accompagnato da un scuotimento violento - la “dinamizzazione” - grazie al quale il preparato finale mantiene il proprio potere sotto forma di una “forza spirituale immateriale”. Nel 1828, egli stesso annuncia non solo che opinioni come quella di Wendell Holmes sono sbagliate, ma che i suoi rimedi gli permettono di curare praticamente tutte le malattie conosciute. Si tratta, come nota lo storico della medicina Irvine Loudon in un articolo del Journal of the Royal Society of Medicine del 2007, di un’affermazione che all’epoca era sensata e difficilmente confutabile. La maggiore parte della malattie per cui l’omeopatia sembra dimostrarsi efficace, e per le quali secondo la ricostruzione di Loudon ancora oggi ci si rivolge più frequentemente all’omeopata, sono asma, depressione, otite, rinite allergica, mal di testa ed emicrania, nevrosi, allergie, dermatiti, artriti e ipertensione, ovvero “malattie [...] transitorie e [che] scompaiono spontaneamente, oppure sono cicliche, e consistono di una serie di attacchi seguiti da remissioni spontanee”.
Scarsi i mezzi della terapeutica di inizio Ottocento
Oggi l’estrema diluizione è la causa principale della derisione dei metodi omeopatici, ma non era così all’epoca di Hahnemann. Il sistema esposto nell’Organon rispondeva alle esigenze di razionalità dei critici della terapeutica tardo settecentesca, come Kant e Hegel, ed era facilmente comprensibile da chi lo avrebbe dovuto utilizzare. La somministrazione di sostanze così diluite sembrava, ai malati, molto più sicura dei rimedi impiegati nella terapeutica del tempo. Come nota un altro storico della medicina, Roy Porter, nel suo The Greatest Benefit to Humakind: A Medical History of Humanity from Antiquity to Present (1997),
Accanto a queste poche medicine, come scrive Michael Emmans Dean, un altro storico della scienza e della medicina,
Non stupisce il favore che incontra la proposta di Hahnemann non solo tra i potenziali clienti, ma anche tra i medici condotti della propria epoca. Dove nasce allora la frattura tra gli omeopati e i medici ortodossi che lo costringono a lasciare Lipsia, dove svolgeva le proprie attività, per cercare rifugio a Parigi dove morirà nel 1843? La domanda apre un dibattito filosofico ampio e stratificato, che comprende la concezione della malattia (e della saluta) lungo due secoli di storia e che qui non andremo a indagare. Un punto però deve essere menzionato e può spiegare almeno in parte l’incommensurabilità che permane ancora oggi tra le due idee di medicina.
Un errore di prospettiva
Nell’idea di Hahnemann, esposta ampiamente nell’Organon, niente è “lasciato alla congiura, affermato senza prova, immaginato, inventato: tutto corrisponde alla risposta della Natura a un attento domandare”. Sembrerebbe il punto di partenza per un’indagine scientifica contemporanea, da Evidenced-Based Medicine. E in parte è proprio così: i risultati esposti nel volume sono il frutto di una rigorosa analisi e di osservazioni sperimentali attente. Leggiamo ancora un passo dell’articolo di Loudon:
Il lavoro di Hahnemann può quindi considerarsi addirittura più accurato di quello dei suoi contemporanei e di molti posteriori. Dove, però, si insinua il seme della discordia è in quali condizioni si possa definire efficace una medicina. Lo stesso Hahnemann fornisce la propria risposta nell’Organon:
Non si fa riferimento a misurazioni di alcun parametro, fattori che avrebbero soddisfatto la richiesta di quantificazione posta da Kant e nella seconda metà dell’Ottocento presa a modello per lo sviluppo della medicina. Ci si limita a registrare le sensazioni riferite da colui che ha ingerito il medicinale, lasciando la porta aperta a quelli che oggi chiameremmo bias. Detto in termini più rigorosi da Loudon:
Via da Lipsia, verso Parigi
La disciplina fondata da Hahnemann si diffonde rapidamente in tutta Europa e raggiunge presto anche gli Stati Uniti. Nel 1832, proprio a Lipsia, apre il primo ospedale omeopatico del mondo, sebbene non sia chiaro se Samuel Hahnemann fosse ancora in città. Secondo l’Enciclopedia Britannica il conflitto con l’accademia locale lo avrebbe costretto a lasciarla nel 1821 per Kothën, a metà strada tra Lipsia e Madgeburgo, dove trova rifugio presso il gran duca locale. Per il Science Musem di Londra, invece, Hahnemann lascia Lipsia nel 1835 per dirigersi direttamente a Parigi.
Di certo le controversie non si sono spente con la sua scomparsa nel 1843, ma anzi si sono acuite con il progressivo allontanamento dell’omeopatia dalla medicina ortodossa. È ironico che proprio le pratiche mediche che Hahnemann non riconoscevano come efficaci siano progressivamente andate scomparendo mentre l’omeopatia, che secondo i detrattori è altrettanto inefficace, è una pratica ancora altamente diffusa. Segno, forse, che le due discipline hanno davvero percorso strade diverse, incrociatesi parzialmente nel corso di questi due secoli.
Un aspetto delle idee di Hahnemann oggi può essere però considerato quasi di attualità. Non si tratta delle tecniche per la produzione dei rimedi omeopatici e nemmeno della loro presunta o reale efficacia. Quando Hahnemann si concentra sulle sensazioni del paziente per stabilire se la cura è stata o meno efficace compie un atto molto più moderno dei colleghi suoi contemporanei, interessandosi ad aspetti della salute del paziente che non sono necessariamente collegati con la patologia che si prova a curare. Si tratta di un rapporto medico-paziente che, in certa misura, oggi definiremmo olistico, e ne è conferma, nelle ricostruzione degli storici della scienza, l’importanza accordata dagli omeopati del XIX secolo a lunghi colloqui con il paziente.
Al contrario, la medicina ortodossa che si sviluppa durante l’Ottocento tende a vedere sempre più il paziente malato come un meccanismo da riparare, relegando in secondo piano ogni altro aspetto della vita del paziente. Si è quindi compiuta la trasformazione auspicata da Kant in favore di una medicina più razionale e matematica. Ma Hahnemann e i suoi metodi forse profetizzavano già allora esigenze che sarebbero emerse quasi due secoli dopo e che hanno portato alla nascita di movimenti come la slow medicine, la medicina narrativa e alle riflessioni sull’importanza psicologica della comunicazione medico-paziente. Tutti elementi che possono contribuire, accanto a tutte le altre pratiche che appartengono alla medicina contemporanea, al raggiungimento e al mantenimento dello stato di salute come auspicato dalla Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”.
(*). OS - OggiScienza, 10 Aprile 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Psicologia. L’ultimo libro di Vittorio Lingiardi sull’alleanza medico-paziente
Quando la diagnosi è parte della cura
Un discorso che non si chiude con l’attribuzione di un nome a uno stato morboso
di Nicola Gardini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.11.2018)
Il nuovo libro di Vittorio Lingiardi propone moltissimo già nel titolo: Diagnosi e destino. Un’endiadi allitterante, dove la congiunzione «e» non è banalmente coordinativa, ma ha la potenza di un «atque» latino. La diagnosi, infatti, è da intendersi in funzione del destino, e questo in funzione di quella. La diagnosi è incontro, come sottolinea in apertura l’autore. Il destino, invece, lo sappiamo, è solitudine. Il rapporto tra medico e paziente deve trasformare quella solitudine in una forma di rapporto. Non solo deve: può. Occorre che il medico sappia parlare e sappia ascoltare. La diagnosi, riassume Lingiardi, è “conoscenza e ascolto nell’incontro”. Se non fosse noto che l’autore è psichiatra, psicanalista e professore universitario potremmo credere che questa formula servisse a definire l’amore.
Ma che cos’è la diagnosi? In breve, è quel procedimento preliminare che identifica la malattia. Senza una diagnosi non si arriva a stabilire la cura. Lingiardi propone un’interessante estensione semantica: la diagnosi è parte della cura, anzi «è un momento fondamentale della cura». Né, secondo Lingiardi, la diagnosi esaurisce il quadro clinico: ne offre piuttosto una rappresentazione sintetica. Implicito, dunque, è che il medico continui a «diagnosticare», a “conoscere ininterrottamente”, secondo il valore etimologico della radice greca gno-.
Da queste premesse sprigiona un’idea aperta e umanistica di malattia: malattia come discorso che non si chiude con l’attribuzione di un nome allo stato morboso. La malattia non è condizione generica, astratta, identificabile con una voce d’enciclopedia. La malattia è il malato, quello stesso malato che dialoga con il suo medico in un continuo scambio. «Dia-gnosi» contiene proprio la preposizione che fa da prefisso a «dia-logo», «tra» in greco. E il «tra» indica attraversamento, avvicinamento, confluenza di visioni, colloquio.
Lingiardi non dimentica l’unicità del paziente. Una diagnosi, certo, serve a ritagliare un quadro clinico generale. Il paziente, però, resta un essere a sé, dotato di una sua vicenda personale. Nel rispetto del malato e nel credito gnoseologico che gli riconosce questo saggio si dimostra capace di una lucidità e di un’intelligenza profondamente rinnovatrici, direi perfino liberatorie: «un sistema diagnostico [...] deve cogliere anche le risorse del paziente e non solo gli aspetti di cattivo funzionamento».
La diagnosi perenne ridà non solo dignità, ma riconosce le forze del malato, ritrovando nel suo specifico qualcosa di profondamente significativo. La malattia, in genere, è una condizione che altri stabiliscono per noi, i medici ma ancora prima protocolli e convenzioni, anche per una diffusa tendenza delle persone ad affidarsi a «chi ne sa di più». Il malato, allora, rinuncia a credersi sapiente. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di un’irresponsabile rinuncia all’autoconoscenza e all’autoauscultazione, colpe che già Plutarco rimproverava in un trattatello sul benessere fisico. Lingiardi ci aiuta a rivendicare la soggettività della malattia, la coscienza della malattia, e con queste la capacità di stabilire quanto e come io mi senta malato. Al tempo stesso ci insegna che le capacità del medico sono potenzialmente assai più estese che la pratica comune non dimostri. Il medico deve credere nel suo paziente, perché, come scrive lo psicanalista Wilfred Bion, citato già nella prima pagina dell’introduzione, «il paziente è il miglior collega che abbiamo».
Lo spirito di “colleganza” informa l’intero libro, sia il suo sistema argomentativo sia la sua memoria. Lingiardi, scavalcando gerghi e tecnicismi settoriali, cerca la precisione attraverso le fonti più varie, specie letterarie. Nel suo curriculum non manca, a proposito, il mestiere di poeta. Né mancano nel testo alcuni suoi versi. Il poeta si lascia cogliere anche nel calibrato utilizzo della frase, sempre limpida, musicale, anche quando necessariamente informativa.
Un’altra questione fondamentale - in fondo, anche questa «poetica» - la metafora. Malattia e metafora si relazionano reciprocamente o per opposizione o per sintonia, nelle commistioni più varie. Il medico che osserva la malattia punta a una lingua anti-metaforica, alla «terminologia«, ovvero a un codice che non permetta ambiguità e vaghezze. Anche una scrittrice come Susan Sontag, è risaputo, si è fieramente pronunciata contro la metaforizzazione della malattia. Aveva le sue ragioni, da malata e da americana. Trattare il cancro o l’Aids come pericoli bellici, dunque tirare nel linguaggio della medicina invasioni, attacchi, difese etc. crea propaganda o demonizzazioni indebite.
Lingiardi, condivisibilmente, assume un atteggiamento più articolato nei confronti della metafora. Lo dice: «Sontag non riesce a convincermi». E spiega: «proprio perché conosco le impressionanti metafore collettive, non voglio rinunciare a quelle private, intime, familiari». Parole importanti. Il malato è chi, perduta la sanità, racconta a sé e agli altri una storia che gli conservi o restituisca la salute, ovvero, la felicità pur difficile di aver ancora in mano la sua vita. Le metafore gli servono a questo. E gli permettono, quando il medico sa intenderle, di non venire esautorato dalla koiné tecnica; di restare auctor.
Troppo spesso il malato, nelle società di oggi, è materia per il racconto di altri. Gli stessi medici rischiano di raccontare la malattia con parole non loro, che non abbiano tratto alcuna verità dal confronto diretto con il malato. Ma, come ho già suggerito, esiste davvero la malattia? Non è questa la fabula, il plot buono un po’ per tutte le storie, la struttura universale per qualunque romanzo? Io sono un personaggio unico, dotato di una sua sensibilità, di un suo passato: da me soltanto, se il mio medico collabora, può nascere un racconto autentico.
Malattia e autenticità... È il problema della vita: rimanere sé stessi, essere all’altezza dell’immagine che abbiamo di noi, non soccombere alle manipolazioni e ai tradimenti del mondo, non smarrire fra le chiacchiere il senso di sé e del proprio posto. Il malato il problema dell’autenticità lo avverte con un’urgenza estrema, esemplare. Il medico lingiardiano, anziché contrastarla, favorirà l’autenticità. Il medico lingiardiano aiuterà il malato a costruire il suo romanzo; a guadagnarsi il premio dell’autenticità, iscrivendo la sua sofferenza nella trama più adatta al personaggio con una continua opera diagnostica.
Auguro a questo libro ampia diffusione. I medici ne trarranno stimoli a un esercizio più vitale e creativo della loro professione, i malati conforto e credito. Tutti gli altri, molto probabilmente ancora ignari di diagnosi e faccende connesse, riceveranno lumi sulla necessità della comprensione reciproca e sulla complessa natura della cosa chiamata «salute».
La pillola amara del «non detto»
Medicina. Molti ricercatori sono finanziati dalle società farmaceutiche. Dovrebbero dichiararlo, ma un nuovo studio dimostra che i conflitti di interesse vengono spesso nascosti. E a farne le spese sono i malati
di Andrea Capocci (il manifesto, 09.09.2018)
«Quando queste cose si verificano in politica, parliamo di corruzione. In medicina, sono solo una nota a pié di pagina». Così scrive Vinay Prasad a proposito dei conflitti di interesse che toccano settori sempre più ampi della medicina. Prasad è un oncologo trentaseienne dell’università di Portland, Oregon. Da anni denuncia con scientifica puntualità l’influenza delle società farmaceutiche su coloro che dovrebbero verificare l’efficacia e la sicurezza di farmaci e terapie. Anche se queste relazioni pericolose influenzano i risultati delle ricerche, non si tratta di pratiche illegali. Ai ricercatori finanziati dalle società farmaceutiche è richiesto solo di dichiararlo in calce agli articoli scientifici. Una riga e poco più, appunto.
Eppure, anche questo minimo esercizio di trasparenza molto spesso viene eluso. Lo dimostra una ricerca pubblicata dall’autorevole Journal of the American Medical Association (Jama) e firmata da ricercatori delle università dell’Oklahoma, del Texas e dell’Oregon.
SECONDO LO STUDIO, la maggior parte degli oncologi che verificano l’efficacia dei farmaci antitumorali approvati negli Usa ha ricevuto finanziamenti dalle società farmaceutiche che producono quelle stesse terapie. E, cosa più preoccupante, un terzo degli scienziati nasconde del tutto o in parte i finanziamenti ricevuti.
Che i controllati finanzino i controllori è una pratica poco tranquillizzante ma non deve stupire più di tanto, visto come funziona il mercato farmaceutico. Prima di entrare in commercio, un farmaco deve superare una serie di esami, detti «trial», per dimostrare che la nuova medicina è sicura ed efficace. Le società farmaceutiche commissionano questi studi a ricercatori di università e centri di ricerca pubblici e privati, molto spesso in cambio di finanziamenti per loro o per i laboratori in cui lavorano. Gli scienziati dovrebbero garantire che gli studi siano obiettivi e, nel migliore dei casi, li pubblicano sulle riviste scientifiche, che con la peer review operano un ulteriore filtro.
ALLA FINE DEL PROCESSO, gli esperti delle agenzie pubbliche - la Food and Drug Administration (Fda) negli Usa, e la sua omologa Agenzia Europea del Farmaco (Ema) - controllano che i dati siano sufficienti ad autorizzare la commercializzazione del farmaco. Dato che i medicinali producono lauti profitti per le società farmaceutiche, esse hanno tutto l’interesse a svolgere questo iter nel modo più rapido e con un esito positivo.
LA PROCEDURA SI PRESTA a distorsioni anche quando le regole vengono rispettate e i dati vengono raccolti e divulgati senza palesi manipolazioni. Secondo uno studio del 2010, nei trial realizzati con finanziamenti pubblici il 50% di essi ha esito positivo; se i soldi li mette l’industria privata (dichiarandoli) questa percentuale sale magicamente all’85%. Vietare alle società di finanziare i trial garantirebbe una maggiore obiettività ma, senza un’iniezione di fondi pubblici alla ricerca, impedirebbe a molti medicinali di arrivare nelle farmacie e negli ospedali, e in fin dei conti ai malati.
Dunque la Fda permette che le aziende farmaceutiche finanzino i ricercatori a patto che dichiarino i loro conflitti di interessi. Questo compromesso tra profitto e trasparenza è assai difficile da mantenere, come dimostrano gli scandali ricorrenti e la sfiducia diffusa, monetizzata a scopi elettorali dal M5S.
Il delicato equilibrio salta del tutto se i dati vengono truccati e, come dimostra la ricerca su Jama, i conflitti di interesse non vengono nemmeno dichiarati. Sul campione di 344 oncologi coinvolti nei «trial» di farmaci anti-tumorali approvati tra il 1 gennaio 2016 e il 31 agosto 2017, i ricercatori hanno confrontato i conflitti di interesse dichiarati e quelli che registrati sulla banca dati «Open Payments», un sito Internet su cui le società farmaceutiche pubblicano i finanziamenti erogati. È così emerso che il 32% dei ricercatori ha dichiarato per nulla o solo in parte i propri conflitti di interessi alla Fda. Dei 216 milioni di dollari erogati dalle case farmaceutiche (circa settecentomila euro a testa per i ricercatori), alla Fda sono stati dichiarati solo 136 milioni di dollari, il 63% del totale. Il 37% dei finanziamenti sono stati dunque nascosti dai ricercatori.
LA PRATICA RIGUARDA soprattutto gli autori degli studi più prestigiosi, che dovrebbero essere al di sopra dei sospetti, pubblicati sulle riviste più autorevoli in ambito medico: Lancet, New England Journal of Medicine, e lo stesso Journal of the Medical Association che pubblica la denuncia. Dunque, anche il filtro di qualità delle riviste scientifiche dimostra di non funzionare. Eppure, i dati sono pubblici: basterebbe cercarli su piattaforme come «Open Payments».
Negli Usa, dichiarare alla Food and Drug Administration i propri legami con le case farmaceutiche è un obbligo stabilito per legge, ma le violazioni delle regole sono numerose e sostanzialmente impunite. Ne risente la qualità delle ricerche, meno controllate e scientificamente inaffidabili. A farne (letteralmente) le spese sono i malati. Una ricerca del 2017 dello stesso Prasad dimostra che oltre la metà dei principi attivi anti-tumorali approvati dalla Fda e dall’Ema tra il 2009 e il 2013 non è risultata più efficace di quelli già in commercio, nonostante i farmaci innovativi avessero superato brillantemente i trial clinici. Però, mentre per quelli più «anziani» sono disponibili gli equivalenti «generici», le nuove medicine costano molte migliaia di dollari in più, a carico dei sistemi sanitari pubblici o delle assicurazioni private. Soldi che potrebbero essere dedicati allo sviluppo di terapie più valide.
Il problema non riguarda solo i medici (e i malati) statunitensi: nella stragrande maggioranza dei casi, i farmaci sono autorizzati in Europa sulla base degli stessi dati presentati negli Usa. Dunque, i conflitti di interesse dichiarati o nascosti dai ricercatori americani influenzano anche il mercato farmaceutico europeo.
Inoltre, gli studi sui conflitti di interesse tra società farmaceutiche e ricercatori riguardano direttamente anche l’Europa, e l’Italia in particolare. Secondo una ricerca del 2016 pubblicata dalla rivista BMJ Open, il 65% delle associazioni mediche italiane è sponsorizzato da società farmaceutiche, ma solo il 6% di esse le riporta in un bilancio annuale.
NEI PROSSIMI MESI la questione potrebbe diventare scottante anche per l’Ema, dove vengono autorizzate le medicine per il mercato europeo. L’Ema sta per trasferirsi da Londra ad Amsterdam a causa della Brexit, ed è prevedibile che molti dipendenti lascino l’agenzia per ragioni personali. Attualmente, il personale che lascia l’agenzia per due anni non può lavorare per una società privata che abbia a che fare con l’agenzia stessa. La norma serve ad impedire, ad esempio, che una società farmaceutica assuma un controllore particolarmente severo per sfruttarne le competenze dall’altra parte della barricata. Ma in un rapporto pubblicato in aprile, l’Ema ha annunciato che, per facilitare i trasferimenti nel periodo di transizione, la regola anti-conflitto di interessi potrebbe essere sospesa.
SCHEDA
Dal 17 luglio, gli abbonati a Netflix possono vedere in esclusiva The bleeding edge, documentario diretto da Kirby Dick disponibile anche nella versione in italiano. È un durissimo atto di accusa contro le case farmaceutiche, responsabili di aver messo in commercio dispositivi medici pur conoscendone l’inefficacia e la pericolosità. Attraverso immagini esplicite, dati e interviste ai pazienti (soprattutto donne), il doc racconta come l’industria farmaceutica influenzi le agenzie che dovrebbero vigilare, e convinca i medici a servire i suoi interessi.
La Bayer, produttrice del contraccettivo femminile Essure (al centro di una delle vicende narrate), ha bollato come «manipolatorio» il film, citando documentazioni scientifiche favorevole al suo prodotto. Nonostante questo, ha annunciato il ritiro dal mercato di Essure dal mercato statunitense alla fine del 2018. A causa delle segnalazioni, il dispositivo era già stato ritirato dal mercato europeo.
STUDENTI E RICERCATORI
Per i medici praticantato durante il corso di studi
di Antonello Cherchi (Il Sole-24 Ore, 11.06.2018)
Cambiano le regole dell’abilitazione dei medici: il tirocinio di tre mesi verrà svolto durante il corso di studi e l’esame di Stato, che si potrà sostenere tre volte l’anno, consisterà in una batteria di 200 quesiti a risposta multipla. Sono gli effetti del decreto del ministero dell’Università 58 del 9 maggio 2018, che entrerà in vigore sabato prossimo, mandando in soffitta le vecchie regole dell’abilitazione alla professione intervenute nel 2001 (decreto 445).
La prima novità è lo spostamento della pratica durante il corso di laurea, non prima del quinto anno e purché si sia in regola con gli esami fondamentali dei primi quattro anni di studi. Il tirocinio teorico-valutativo consisterà nell’applicazione delle conoscenze biomediche e cliniche alla pratica medica, nel risolvere questioni di deontologia professionale e di etica medica, nel dimostrare di sapere affrontare e risolvere problemi clinici relativi alle aree della medicina e chirurgia, alla diagnostica di laboratorio e strumentale e alla sanità pubblica.
I tre mesi di pratica potranno anche essere non consecutivi, ma dovranno essere svolti secondo il seguente programma: un mese in area chirurgica, uno nell’area medica e il terzo, da effettuare non prima del sesto anno di corso, nell’ambito della medicina generale. Quest’ultimo periodo dovrà essere svolto presso l’ambulatorio di un medico di medicina generale in possesso dei requisiti individuati dalle convenzioni che le università stipuleranno con gli Ordini provinciali dei medici.
Per due anni a partire da sabato prossimo - dunque, entro il 16 giugno 2020 - chi non supererà il tirocinio nuova maniera, potrà essere ammesso all’esame di Stato secondo le vecchie regole, dunque sostenendo il praticantato dopo la laurea.
Con il tasca il tirocinio - la cui frequentazione e valutazione sarà certificata sia dal professore o dal dirigente medico responsabile della struttura frequentata dal tirocinante, sia dal medico di medicina generale - e una volta conseguita la laurea, il futuro medico potrà accedere all’esame di Stato. Quest’ultimo dovrà essere effettuato nell’università in cui il candidato ha svolto l’ultimo anno di corso e si è laureato.
La prova di abilitazione potrà essere organizzata in modalità telematica, si terrà tre volte l’anno (a marzo, luglio e novembre) e consisterà in 200 domande a risposta multipla preparate da una commissione che resterà in carica tre anni: 50 quesiti relativi alle competenze mediche di base applicate alla pratica professionale e 150 più dedicati alle conoscenze biomediche e cliniche e alla capacità del candidato di risolvere questioni di deontologia professionale ed etica medica. Si supera l’esame se il risultato finale è di almeno 130 punti. Nel caso di insuccesso, la prova potrà essere ripetuta nella sessione successiva.
Le nuove regole sull’abilitazione si applicheranno dalla sessione di esami di Stato di luglio del prossimo anno.
Medico, leggi Dostoevskij
La letteratura aiuta la scienza
di Orsola Riva (Corriere della Sera, La Lettura, 06.05.2018)
Il manuale di anatomia o Dostoevskij? I tirocini in ospedale o le Variazioni Goldberg? Che cosa conta di più nella preparazione di un buon medico? La maggior parte delle facoltà di medicina oggi sembrano concepite per fabbricare degli specialisti con una preparazione scientifica solidissima ma privi di cultura umanistica. Errore grave. Perché invece chi coltiva la lettura e ascolta la musica, chi ama andar per musei, al teatro o al cinema, mostra di avere una grana umana più fina di chi non lo fa. O almeno questo è quanto risulta dall’indagine realizzata da due storiche scuole di medicina americane - la Thomas Jefferson University di Filadelfia e la Tulane University di New Orleans - su 739 studenti. Quelli culturalmente più attivi sono anche i più saggi e i meno depressi.
Lo studio ha dimostrato che c’è una correlazione diretta fra fruizione attiva e passiva dell’arte e della letteratura e tre qualità indispensabili per un buon medico: l’empatia, la saggezza e la cosiddetta tolleranza dell’ambiguità, intesa come la capacità di destreggiarsi in situazioni ambigue senza perdere la calma e di elaborare soluzioni creative a situazioni complesse. «Una qualità importantissima che le nostre università purtroppo non coltivano. I test multiple choice - spiega da Filadelfia a “la Lettura” il dottor Salvatore Mangione , che ha diretto le ricerca - insegnano a pensare che una cosa sia nera o bianca. Ma così quando i nostri studenti si trovano finalmente davanti a un letto di ospedale non sanno più cosa fare. E nell’ansia da controllo prescrivono al paziente un esame dopo l’altro. Non solo non fanno il suo bene, ma finiscono anche per costare più del necessario».
Le scuole di medicina sfornano legioni di giovani dottori fabbricati con lo stampino: camici bianchi preparatissimi da un punto di vista disciplinare, ma del tutto inadeguati ad affrontare la condizione umana, dice ancora Mangione. «Il medico non è un meccanico e il paziente non è un carburatore. Un buon dottore deve sapersi connettere con il malato per creare quella fiducia che è una componente essenziale della guarigione. La medicina è un’arte che usa la scienza. Non puoi separare un aspetto dall’altro. Senza la scienza saremmo fermi agli sciamani. Ma senza cultura umanistica ci consegniamo ai tecnici».
Ecco perché nonostante gli straordinari progressi fatti dalla ricerca negli ultimi anni, l’immagine pubblica del medico appare logorata: «Ma come può un medico entrare in contatto con il paziente - aggiunge Mangione - se metà del suo tempo lo passa a immettere dati nel computer? . Lo si vede bene anche nelle serie tv: il George Clooney di ER era molto più simpatico di Dr. House». Non a caso i medici in America sono la categoria professionale con il più alto tasso di suicidi (circa 400 casi l’anno) e una tendenza in crescita ad andare in pensione prima del tempo.
Gli antichi dicevano «medico cura te stesso». Mangione suggerisce di curare i medici con iniezioni di arte, musica e letteratura. «Io insegno semeiotica, la disciplina che studia i sintomi e i segni clinici della malattia. L’esame obiettivo di un paziente è la parte più artistica della medicina. Letteralmente. Diversi studi condotti prima a Yale e poi a Harvard hanno dimostrato che l’esposizione alle arti visive migliora la capacità diagnostica del 40 per cento».
Per questo alla Jefferson University organizzano uscite ai musei ma anche corsi di disegno, scrittura e teatro. «Il disegno - dice ancora Mangione - insegna a guardare meglio le cose, mentre scrittura riflessiva e teatro hanno una funzione catartica. Fino a non molto tempo fa in Germania gli aspiranti medici venivano incoraggiati a studiare uno strumento musicale. Ogni scuola di medicina aveva una sua orchestra. Quando negli anni Settanta questa tradizione tramontò, “Die Zeit” pubblicò un articolo allarmato in cui si chiedeva: Che medici avremo d’ora in poi?».
La conclusione della ricerca pubblicata sul «Journal of General Internal Medicine» è che se si vogliono fabbricare dei medici più tolleranti, empatici e resilienti bisogna reintegrare le discipline umanistiche nel curriculum medico, modificando anche i test di accesso che non tengono in alcun conto nessuna di queste qualità umane. -Come conclude Mangione: «Negli ultimi cent’anni medicina e arte hanno seguito due strade separate. È ora di riconnettere l’emisfero sinistro del cervello con il destro. Per il bene del paziente. E anche del medico».
Nella mente di un dottore
Medico-paziente.
La relazione virtuosa parte dalla consapevolezza di sé del camice bianco. Ma nessuna facoltà dà formazione psicologica
Meno si è in contatto con le proprie emozioni meno si riesce a condurre a buon fine un rapporto. Anche quello terapeutico
di Giacomo Gatti (la Repubblica, 21.11.17
DURANTE tutta la sua storia la medicina ha oscillato tra una tendenza dell’uomo nella sua totalità (scuola di Cos, Ippocrate) e una tendenza analitica, specifista e meccanicista (scuola di Cnido), di studio parcellare, di organi o apparati ponendosi così in evidenza la perennità di due tipi di medici. Il medico invece non può non considerare il suo paziente nella sua interezza psiche/soma e dunque non può non rendersi conto della complessità psicologica di tale relazione. Perciò ha bisogno di una formazione psicologica che purtroppo nessuna facoltà ha potuto e a tutt’oggi può elargirgli almeno come dovrebbe essere intesa: non solo semplice informazione di nozioni ed elementi, bensì formazione come apprendimento emozionale di sé stesso nella relazione.
In qualunque ambito relazionale meno si è consapevoli delle proprie emozioni, meno si riesce a condurre a buon fine un rapporto. Allo stesso modo l’approccio al paziente potrebbe migliorare se il medico riuscisse a rendersi conto di ciò che avviene, sul piano psicologico, nella relazione e non tentare invece di affidarsi al solito e abusato buon senso, corroborato magari dalla retorica di disposizioni innate a sua disposizione. Più si amplia la consapevolezza per il medico di ciò che si è e di ciò che il paziente rappresenta in funzione della sua condizione psicologica, meno si corre il rischio di assumere atteggiamenti negativi sul piano umano e controproducenti su quello terapeutico.
Vero è che il medico attraverso l’uso di due mezzi potenti a sua disposizione, l’ascolto e la parola, ha il potere di intervenire sul percorso della malattia e sulle vicissitudini psicologiche del suo paziente rispetto alla malattia. Per saperlo fare deve essere avviato a una formazione psicologica che se è fondata su un apprendimento emozionale di sé stesso, nella relazione, dovrà comportare il promuovere una modificazione di quello che Michel Sapir chiamava “il segmento inconscio della personalità professionale”. In funzione di esso, si stabiliscono a volte determinate difese, come quelle relative al racconto della scelta professionale. Si citano una generica volontà di aiutare chi soffre, il desiderio di combattere il male, l’identificazione con il debole, la necessità di continuare una tradizione familiare, il richiamo dovuto al prestigio di una professione liberale.
Dietro la facciata, tuttavia, possono a volte celarsi altre motivazioni: un sentimento inappagabile di onnipotenza e di predominio su chi ha bisogno, una tendenza non sublimata all’aggressività, un’inclinazione al voyeurismo, la paura della morte. Non sarebbe difficile immaginare le tipologie relazionali con il paziente che potrebbero derivare da tali fondali inquieti: autoritarismo e arroganza, sadismo, interminabili esami corporei, indifferenza e la negazione per esorcizzare il fantasma della morte. Tutto questo, per fortuna, non è costantemente riscontrabile.
È stato assodato, a partire dalla metà del secolo scorso, che lo stesso medico agisce come farmaco, la dose e gli effetti costituiscono un campo di indagine avvincente. Al farmaco-medico si propone però il problema di come rispondere alla domanda del paziente: questione delicata quest’ultima poiché comporta che le risposte possono contribuire spessissimo a determinare la forma ultima della malattia, quella su cui il paziente si stabilizzerà. E che l’evoluzione della malattia non avverrà solo in funzione di una corretta diagnosi e di una corretta terapia, ma anche del rapporto medico-paziente.
Una delle modalità più essenziali che provvede a una formazione psicologica del medico è il “Gruppo Balint” che prende il nome dal suo ideatore. Lo psichiatra inglese Michael Balint, infatti, per anni si dedicò alla formazione psicologica dei camici bianchi. Nel gruppo i medici discutono di casi clinici concreti. Il conduttore è uno psicoanalista. E tutto ciò può valere, poiché ampiamente documentato, allo sprigionamento graduale per il medico di una modalità relazionale realmente terapeutica.
Terapie controverse
Elettroshock
In Italia ogni anno sono almeno 300 i malati mentali gravi curati con le scariche elettriche. E il mondo accademico si divide
di Gianna Milano (l’Espresso, 20 agosto 2017)
Ogni lunedì, mercoledì e venerdì, per tutti i mesi dell’anno, all’ospedale Montichiari di Brescia accompagno i pazienti che fanno la Tec, ovvero la terapia elettroconvulsivante, nota come elettroshock. Luca è giovane, schizofrenico ma è fortunato perché ha scoperto per tempo di soffrire di un disturbo mentale e può curarsi senza buttare via anni di vita. A me non è andata così, io di anni ne ho persi tanti, senza sapere perché stessi in un certo modo. Nel 1973, a sei anni ho tentato il suicidio per la prima volta. Nei trenta anni successivi, ci sono stati altri nove tentativi di suicidio e stati maniacali, prima che qualcuno mi dicesse che ero bipolare. Avevo 37 anni. È il 2010 quando per la prima volta percorro il corridoio che conduce alla sala del day hospital, dove faccio le Tec. Ci ritornerò altre tre volte nei tre anni successivi. Mi sono liberato dal fardello della sofferenza: la terapia mi ha restituito la lucidità, e mi ha fatto tornare la voglia di vivere». Questa è la storia di Giampietro Ferrari, "utente esperto" che oggi con l’associazione AITEC-Etica cerca di informare «su quello che erroneamente si chiama elettroshock».
Una tecnica terapeutica che ha conosciuto fasi alterne: sperimentata per la prima volta nel 1938 da due neuropsichiatri italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, induce una crisi convulsiva con un passaggio di corrente elettrica attraverso il cervello per curare le malattie mentali. Accolta con entusiasmo negli anni ’40 e usata fino a metà degli anni ’60 la Pushbotton Psychiatry, come la definì un libro del 2002 sulla storia culturale dell’elettroshock in America, venne poi soppiantata dall’avvento della psicofarmacologia e solo verso la fine degli anni ’80 ha conosciuto un revival. Di cui poco si sa.
La psichiatria sociale su modello basagliano lo considera un trattamento obsoleto se non peggio: simbolo di una visione della malattia mentale legata al passato che porta all’annullamento dell’individuo. Repressiva e inumana. Un punto di vista condiviso anche dall’opinione pubblica che ricorda immagini brutali di film come "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e "La fossa dei serpenti". «L’elettroshock di oggi è diverso da quello presente nell’immaginario collettivo e molto meno traumatizzante sul piano emotivo. Lo si pratica secondo linee guida internazionali: in anestesia totale, con una dose di corrente molto bassa (inferiore a 5 volt) che stimola il cervello per pochi secondi (al massimo 6 o 8), e che ottiene una crisi convulsiva di 30-40 secondi. Gli elettrodi sono applicati sulla fronte sinistra e la tempia destra o bilateralmente (a seconda della patologia) e i parametri variano da un paziente all’altro», spiega Giuseppe Fàzzari, psichiatra che dirige l’Unità Operativa di Psichiatria agli Spedali Civili di Brescia, uno dei centri in cui si fa la Tec in Italia.
In teoria fra cliniche private e strutture pubbliche i centri sono 16, ma dove lo si fa davvero sono forse la metà e i pazienti circa 300 l’anno.
«Quando a Milano mi sono specializzato in psichiatria ero contrario all’elettroshock, poi nel 1991 capitò qui una giovane con una depressione grave e disturbi psicotici post partum. Parlava di suicidio e i farmaci non le facevano granché. Decisi di provare e, con il suo consenso, fu sottoposta a 8 trattamenti. Il risultato fu sorprendente. Altri casi seguirono: riuscii a ottenere attraverso una donazione un apparecchio moderno per la Tec e convinsi direttore sanitario e comitato etico ad accreditare l’ospedale per questi trattamenti» continua Fàzzari. Era il 2005.
I casi nei quali la letteratura scientifica concorda sui risultati ottenuti dall’elettroshock sono le depressioni gravi con alto rischio di suicidio resistenti ai farmaci, e le forme maniacali o miste che non rispondono alle terapie. L’esperienza clinica ne ha poi dimostrato l’efficacia in altri disturbi mentali, come schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, sindrome ossessivo-compulsiva non rispondenti alle terapie. Una meta-analisi, ossia una revisione sistematica di diversi studi eseguiti per valutare efficacia e sicurezza della Tec (Ect, l’acronimo in inglese) pubblicata su Lancet, una delle riviste mediche più autorevoli, concludeva nel 2003 che il trattamento era «probabilmente più efficace dei farmaci nella depressione».
«Di solito all’elettroshock ci si arriva dopo anni di tentativi falliti: abbiamo provato di tutto perché non la Tec. I medici di base, ma anche gli psicologi e gli psichiatri ne sanno poco. All’università non se ne parla e non lo si insegna», dice Alessandra Minelli, psicoterapeuta dell’Università di Brescia. A riconoscerne l’efficacia sono l’American Psychiatric Association, l’American Medical Association, il National Institute of Mental Health, la Food and Drug Administration, e le corrispondenti organizzazioni in Canada, Gran Bretagna e altri Paesi europei.
Nel mondo si stima siano 2 milioni le persone sottoposte a Tec e solo negli Usa 300 mila. Sono cinquemila i pazienti trattati in Belgio su una popolazione di 11 milioni di abitanti, e dodicimila nel Regno Unito su una popolazione di 64 milioni di abitanti. Quanti siano esattamente in Italia non si sa. Gli unici dati ufficiali furono raccolti nel 2012 dall’allora ministro della Salute Renato Balduzzi e si parlava di 1.406 pazienti tra il 2008 e il 2010 (521 nel 2008, 480 nel 2009 e 405 nel 2010). Dopo di allora solo stime parziali. Un’indagine eseguita da Fàzzari ha concluso che nel 2014 sono stati trattati 18 pazienti a Oristano, 12 a Brunico, 63 a Brescia-Montichiari, 57 a Pisa, 110 alla casa di cura Villa Santa Chiara a Verona. Poche centinaia rispetto a Europa, Stati Uniti e Canada dove la Tec è considerata una terapia tra le tante disponibili e talora di prima scelta.
«Ai convegni di psichiatria in Italia non se ne parla e siamo per lo più assenti a livello internazionale. Solo pochi di noi hanno contatti con centri di ricerca all’estero», sostiene Fàzzari. «Le ragioni di questo pregiudizio ideologico e acritico? C’è chi teme di dispiacere alle case farmaceutiche, chi lo vive come uno stigma e un conflitto con i propri principi. Qualora i clinici ne facessero richiesta, ben difficilmente gli amministratori accetterebbero di acquistare l’apparecchiatura, non perché costosa (25 mila euro), ma per il timore di critiche. La Tec non prevede un Drg nel tariffario della Sanità: è una terapia che non ha un ritorno economico».
Il Comitato nazionale di bioetica nel 1995, dopo aver esaminato le diverse posizioni scientifiche e aver valutato le più autorevoli fonti internazionali concluse che non vi erano «motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate nella letteratura scientifica». E il Consiglio Superiore di Sanità, dopo aver dibattuto le perplessità suscitate dal trattamento nel 1996 concluse che: «Il diritto del malato alla tutela della vita, della salute e della sua piena dignità di essere umano, in accordo con il Comitato nazionale di bioetica, rappresenta un aspetto centrale nella valutazione dell’opportunità di un trattamento medico e che tale diritto non può costituirsi in opposizione alla scienza, né può anteporle affermazioni o teorie di natura ideologica». Ma nel 1999 una circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi chiudeva: «La psichiatria attualmente dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale, a tal punto che la Tec risulterebbe quasi desueta almeno nelle strutture pubbliche sia universitarie che del Servizio Sanitario Nazionale».
Una delle obiezioni avanzate dai detrattori dell’elettroshock è che non se ne conosce il meccanismo d’azione. Franco Basaglia, lo psichiatra che nel 1978 portò all’approvazione della legge 180 e al superamento dei manicomi, lo descrisse così: «È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci riprende a funzionare. Nove volte su dieci si ottengono danni peggiori. Ma anche in quella singola volta in cui la radio si aggiusta non sappiamo il perché». Ribatte Marco Bortolomasi, psichiatra, direttore sanitario della Clinica Villa Santa Chiara di Verona: «Vari studi avvalorano l’ipotesi che la ripetuta stimolazione attivi fattori di crescita delle cellule nervose. L’effetto terapeutico è in rapporto a complesse modificazioni neurochimiche (di neurotrasmettitori e neurormoni) e neurofisiologiche come per gli psicofarmaci».
Un trattamento di solito prevede tre sedute di Tec alla settimana, a giorni alterni. «Per due settimane o più, a seconda della patologia, più o meno grave. In alcuni casi sono previste terapie di mantenimento: una ogni 3 settimane. Alcuni studi clinici controllati hanno dimostrato l’opportunità di questi richiami. Una cosa è certa, non esiste un’unica ricetta» spiega Fàzzari. Uno degli effetti collaterali della Tec è la perdita della memoria, anche se transitoria. Per Beppe Dell’Acqua, che lavorò a fianco di Basaglia all’Ospedale psichiatrico di Trieste, è a questo cervello "smemorizzato", che si attribuisce il sollievo dalla sofferenza mentale. Con il recupero della memoria torna, a suo parere, anche la sofferenza. «Ma quando i farmaci non danno sollievo, non ti consentono di convivere con la malattia e tantomeno di vivere. Quando non esistono strutture che ti accompagnino in un progetto terapeutico o capaci di restituirti attraverso le relazioni e il lavoro un ruolo sociale? Io avevo sperimentato di tutto. Per me è stata l’ultima spiaggia e ora mi dico: perché non potevamo arrivarci prima?», conclude Ferrari.
Non basta dire che fa bene al paziente
di Ignazio Marino (l’Espresso, 20 agosto 2017)
Ci sono situazioni in cui tutti noi, pur non disponendo di informazioni scientifiche, tuttavia attribuiamo senza esitare un giudizio negativo: è il caso dell’elettroshock, una scarica elettrica a cui si ricorre per alcune forme di grave depressione, avvolto da ombre che non si dissolvono. Eppure un metodo che si pratica con una certa regolarità all’estero ma anche in alcune strutture in Italia. Ci sono stati anni in cui non se ne parlava più.
Quando frequentavo la facoltà di medicina, pur essendo un trattamento descritto nei manuali, di fatto non era mai chiesto agli esami e non ricordo nessuno che ci scrisse la tesi di laurea. In realtà non è mai davvero scomparso e, anzi, nel tempo si è profondamente trasformato. Oggi si pratica in un ambiente ospedaliero controllato, con tutte le attenzioni necessarie in procedure complesse. Il paziente viene addormentato e durante la terapia elettroconvulsivante (Tec), eseguita in anestesia generale, non prova alcun dolore. Al risveglio molte persone riferiscono di sentirsi meglio e di trarre un beneficio dalla terapia. E davvero nei centri in cui si pratica l’elettroshock non esiste nulla di ciò che la maggior parte delle persone ha costruito nel proprio immaginario grazie soprattutto al cinema e alla letteratura, anche se il modo in cui è praticato non può non suscitare forte emozione: si tratta pur sempre di una scarica elettrica che provoca al corpo del paziente convulsioni scuotenti.
Fermandosi a queste constatazioni, forse si potrebbe affermare che se il paziente riscontra un beneficio allora il metodo va applicato. Ma chi si occupa di medicina e di scienza ha il dovere professionale e morale di farsi qualche domanda in più. Perché quale sia il beneficio reale collegato a una scarica elettrica nel cervello non è dato saperlo e al momento non vi sono riscontri scientifici certi sul meccanismo di azione. Siamo nel campo delle ipotesi, mentre ciò che invece sappiamo con certezza è che ogni trattamento distrugge un certo numero di neuroni, in diversi casi fa perdere anche parte dei ricordi memorizzati e, inoltre, espone sempre il paziente ai rischi inevitabili connessi all’anestesia generale. Parliamo dunque di un metodo invasivo il cui meccanismo di azione non è mai stato validato scientificamente. Se si accettano le regole della scienza, è necessario spiegare come funziona una terapia, su cosa agisce, quali conseguenze ha, quali sono gli effetti collaterali, senza tutto questo siamo fuori dai parametri di ciò che si definisce cura o trattamento medico.
Fatte le debite differenze, si può azzardare un paragone con l’omeopatia. Chi assume sostanze omeopatiche racconta spesso di trarne un beneficio, eppure non vi è alcuna evidenza scientifica che l’omeopatia sia una cura, anzi, la medicina tradizionale non la riconosce, proprio perché le sostanze somministrate non sono sottoposte al metodo sperimentale previsto per i farmaci e quando è stato fatto i risultati non sono stati soddisfacenti. Per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che l’omeopatia non sia un trattamento medico. La rivista Lancet, spesso chiamata in causa per i suoi autorevoli giudizi, nel 2007 ha decretato che l’efficacia delle cure omeopatiche riscontrabile in alcuni pazienti è spiegabile solo con l’effetto placebo. Il potere della suggestione, ma almeno con l’omeopatia non si corrono grossi rischi.
Nel caso dell’elettroshock purtroppo parliamo di situazioni molto gravi, di malati che non trovano più giovamento nei farmaci e per i quali la Tec rappresenta l’ultima tappa di un percorso pesante e doloroso. Per questo, per rispetto verso tutti questi pazienti, sarebbe il caso di fare chiarezza. Per avere un giudizio più sereno in merito all’utilizzo della terapia elettroconvulsivante servirebbe almeno quella che nell’ambiente scientifico viene chiamata una consensus conference, ovvero un confronto tra un ampio gruppo di esperti della materia che, assieme a rappresentanti della società debitamente informati, esprimano una posizione possibilmente unanime. Sulla base di questo giudizio dovrebbero poi essere adottate le decisioni sanitarie.
Un percorso che anche la Corte Costituzionale italiana ha indicato in due sentenze, nel 2002 e nel 2003, affermando che le scelte terapeutiche, nel caso specifico l’elettroshock, non possono dipendere dalla discrezionalità della politica che le autorizza o le vieta, ma dovrebbero basarsi sulle conoscenze scientifiche e sulle evidenze sperimentali acquisite tramite organismi tecnico-scientifici nazionali o sovranazionali.
Smemorarsi non è curarsi
«I benefici della Tec arrivano solo dalla temporanea perdita di memoria. Ma appena tornano i ricordi, svanisce ogni effetto positivo»
di Alessandra Cattoi(l’Espresso, 20 agosto 2017)
Febbraio 2015, il pilota spagnolo Fernando Alonso esce di pista e con ogni probabilità riceve una scarica elettrica all’interno dell’abitacolo della sua automobile in modo accidentale e incontrollato. Una volta ripresa conoscenza, Alonso non ricorda più nulla della sua vita fino al 1995, tutto rimosso tranne il suo sogno di diventare pilota di Formula 1. Fortunatamente Alonso rimase senza memoria solo per un paio di giorni ma la sua storia presenta esattamente i sintomi tipici dell’amnesia post elettroshock. E rivela il nodo centrale sulla questione: la terapia elettro convulsivante non ha effetti collaterali tranne per la perdita della memoria. Dunque, sostengono molti psichiatri, se si toglie la memoria a una persona depressa e la si riporta indietro di un anno o anche di pochi mesi, i sintomi della depressione possono affievolirsi ma non perché vi sia una guarigione, piuttosto perché vi è una perdita di pezzi di sé e poi, quando la memoria riemerge, ritorna anche il male di vivere.
Piero Cipriano, psichiatra presso il dipartimento di salute mentale dell’ospedale San Filippo Neri di Roma e autore del libro "Il manicomio chimico", è fortemente critico verso la pratica dell’elettroshock, avendola sperimentata personalmente. Durante gli anni della sua formazione venne cooptato nel gruppo della clinica universitaria romana che praticava l’elettroshock.
«Ho assistito ad alcuni casi, ho visto chi vi accedeva e quali erano gli esiti. Per fortuna dopo poco tempo sono partito per il militare e, conoscendo un altro tipo di psichiatria, ho iniziato a pormi molte domande. Ricordo un anziano giornalista che, dopo venti anni di farmaci antidepressivi, aveva iniziato le sedute di elettroshock ma la sua depressione si trasformava in stolidità, sembrava perdere pezzi della propria storia. Al contrario, ricordo una ragazza con diagnosi di disturbo borderline che scappava sempre dai luoghi di cura. Venne sottoposta a sei o otto sedute di elettroshock e non ebbe alcuna perdita di memoria, ma nemmeno alcun beneficio per il suo problema psichiatrico. A riprova che se non vi è effetto sulla memoria, non vi è effetto alcuno».
Eppure molti centri clinici di paesi avanzati nelle cure psichiatriche, come la Gran Bretagna, la Germania, ma anche gli Stati Uniti, vi ricorrono in maniera quasi sistematica.
«Dove prevale un’impostazione organicistica quando uno strumento non funziona si ricorre ad un altro, così quando i farmaci non bastano più, si passa alla corrente elettrica. Sappiamo che gli antidepressivi dopo quindici o vent’anni perdono il loro effetto. È un po’ quello che succede con la cocaina o le benzodiazepine.
La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele ma poi, gradualmente, le sostanze modificano i vari recettori cerebrali, l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Si va avanti così fino a quando i farmaci perdono il loro effetto e ricorrere alla terapia elettrica è l’unica cosa in più che si può fare, ma in realtà si aggiunge danno al danno. Lo racconta bene Paolo Virzì nel film "La pazza gioia" in cui la protagonista chiede di andare a Pisa a fare l’elettroshock, non per guarire, bensì per non pensare, smemorarsi, come farsi dare una botta in testa».
Seguendo questo ragionamento allora l’intervento andrebbe fatto a monte, nella terapia farmacologica. -«Oggi i medici di famiglia, i neurologi o altri specialisti prescrivono gli antidepressivi a pioggia, per qualunque forma di tristezza, per i lutti o per disturbi leggeri. Per di più con dosaggi uguali per tutti. È lapalissiano dire che sarebbe meglio prescrivere gli psicofarmaci solo quando veramente è necessario, alle dosi minime efficaci e per periodi limitati».
In Italia il ricorso all’elettroshock è tutto sommato molto limitato, forse perché l’eredità di Basaglia e della sua scuola sono ancora molto forti.
«A mio parere abbiamo il migliore sistema che ci sia, i servizi di salute mentale con tutti i loro problemi affrontano le malattie mentali con la relazione, con la psicoterapia e non solo con i farmaci. Senza demonizzarli, ma le sostanze che si pensava avrebbero spazzato via le malattie mentali non si sono rivelate miracolose e di certo il rimedio non può essere l’elettroshock, di cui riguardo ai meccanismi di azione non si sa assolutamente nulla. Concordo con lo psichiatra Kurt Schneider molto apprezzato dagli organicisti: anche se tutto ciò fosse di aiuto, non tutto ciò che aiuta è consentito».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Speciale su FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. Un breve saggio di M.G. Giannichedda
RESTITUIRE LA SOGGETTIVITA’. Chi, a chi, come - e quale soggettività?! P. A. Rovatti a scuola di Franco Basaglia.
SAGGI
Umberto Curi indaga a fondo la vocazione ambigua della medicina
L’identità incerta dell’arte della cura una riflessione del filosofo, pubblicata da Raffaello Cortina, sul concetto di salute dall’antica Grecia ai giorni nostri
di CHIARA LALLI *
Una larga parte delle ricerche in campo medico è sbagliata o falsa, lo statuto della medicina è controverso, in equilibrio tra scienza e arte, e Internet ha cambiato l’accesso alle informazioni specialistiche, modificando profondamente il rapporto tra società e professioni. Basterebbe questo a farci venire mal di testa.
Ma non è finita qui: quando ci sono in ballo grossi finanziamenti e interessi economici, la probabilità che i risultati siano viziati aumenta e i dati - seppure acquisiti in modo esatto - possono essere interpretati in modo diverso perché le variabili sono molto numerose e l’organismo umano è un sistema estremamente complesso.
Se aggiungiamo la fallibilità dell’osservatore, il panorama appare irrimediabilmente nebuloso. Come possiamo dunque fidarci della medicina? E, ancor prima, che cos’è la medicina?
Il libro di Umberto Curi, Le parole della cura (Raffaello Cortina) parte da questa domanda e la risposta non può che rimandare a molte altre domande. Se dovessimo spiegare cos’è un grattacielo, non potremmo fare a meno di chiarire almeno che cosa siano le finestre, le porte, il calcestruzzo e l’acciaio.
Se accettiamo la condivisibile premessa di Curi, la medicina non sarebbe una scienza ma una pratica basata sulla scienza, una tecnica molto particolare perché il suo oggetto è l’uomo. Ma c’è un problema (un altro): cosa significano «pratica», «tecnica» e «scienza»?
Se non definiamo questi termini, rischiamo di parlare in modo ambiguo e ambivalente. E se, come vedremo, l’ambivalenza non potrà essere eliminata, una «ricognizione» etimologica e concettuale di questi termini è utile per orientarci. E poi la storia - degli errori, dei tentativi - e il mito contribuiscono a ridarci una idea della medicina nella sua interezza e nella sua complessità.
Basti pensare al mito di Asclepio, il dio della medicina. «Affidato alle cure di un personaggio doppio (Chirone), metà uomo e metà cavallo, Asclepio apprende i segreti di un’arte - quella medica - intrinsecamente ambivalente, perché capace insieme di salvare la vita e di procurare la morte», scrive Curi.
Questo potere di resuscitare e di uccidere descrive bene la doppiezza irriducibile dell’universo medico. Come qualsiasi altra tecnica, anche quella medica presenta due volti. Come il farmaco, il «veleno che cura», il cui effetto terapeutico è inseparabile da quello tossico.
Ci piacciono le cose senza troppe complicazioni, ma dovremmo imparare a fare i conti con la duplicità e con le ombre, con la fallacia delle promesse rassicuranti. E quando parliamo di salute, non dovremmo mai dimenticare che la sua definizione non è così facile come potrebbe sembrare.
Giudicata come insoddisfacente la positivistica accezione di «assenza di malattia», come potremmo cavarcela?
Il tentativo della Organizzazione mondiale della sanità del 1946, ci ricorda Curi, è apprezzabile per lo sforzo, ma deludente nei risultati: «La salute è uno stato completo di benessere fisico, mentale e sociale». Sembra uno standard davvero utopistico e che rischia di condannarci a una perenne condizione di malattia. Quanti sono infatti quelli che potrebbero affermare di godere di un completo benessere fisico, mentale e sociale?
Ogni tentativo di definizione inciampa in simili difficoltà. Anche la proposta recente di considerare la salute come la capacità di adattarci al nostro ambiente, rinunciando così a delinearne un profilo fisso e universale, non è del tutto soddisfacente. Una spia è la quantità di reazioni che ha suscitato l’editoriale pubblicato su «Lancet» nel 2009 in cui si azzardava questa ipotesi, intitolato appunto What is Health? The Ability to Adapt.
D’altra parte una definizione è necessaria. Si pensi anche ai dibattiti etici sulle biotecnologie, alle pretestuose e semplicistiche assoluzioni di quelle terapeutiche e alla condanna di quelle migliorative. Dove tracciamo la linea? Più l’accezione è vaga e generica, più ovviamente rischia di essere inutile. Più è stringente, più si attira giudizi negativi. Non possiamo che concludere, con Curi, che «la salute resta una nozione sostanzialmente elusiva».
La consapevolezza delle difficoltà e delle incertezze, però, non deve scoraggiarci o convincerci che, se la medicina basata sulla scienza non è priva di errori e ombre, allora tanto vale affidarci a qualsiasi cialtrone o a chi promette rimedi miracolosi. Perché la magia e i miracoli hanno l’apparenza dell’infallibilità, ma sono ingannevoli come un’allucinazione. Lo strumento migliore che abbiamo è quello che ci permette di intercettare gli sbagli e di correggerli.
* Corriere della Sera, 28 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
Il padre dell’omeopatia usa gli antibiotici
Intervista del Corriere a Christian Boiron: "Farmaci omeopatici vanno usati in sinergia" *
Gli antibiotici? "Li prendo e anche i miei figli". Così, in un’intervista al Corriere della Sera, il ’padre dell’omeopatia’ Christian Boiron, direttore generale del Gruppo Boiron, leader mondiale dei farmaci omeopatici. L’ultimo antibiotico preso risale "all’anno scorso, dopo l’estrazione di un dente del giudizio". E l’ultimo farmaco a stamattina: "la cardioaspirina, la prendo tutti i giorni".
In merito al decesso di un bimbo di sette anni nel pesarese ad Ancona per un’otite curata con metodi omeopatici, Boiron dice:
Boiron insiste sul concetto di sinergia:
E ancora: "Dobbiamo considerare l’omeopatia come una specializzazione che dà strumenti in più per inquadrare e curare le malattie. In sinergia".
MEDICINA, ILLUMINISMO KANTIANO, E COSTITUZIONE DEMOCRATICA: CRITICA DELLA CONOSCENZA E DELLA RAGIONE MEDICA....
Obbligo vaccini a scuola, ecco come funziona all’estero *
L’obbligatorietà di alcune vaccinazioni è un strategia diffusa in Europa e non solo. Ma a chiedere il certificato vaccinale per l’ammissione a scuola - come si torna a fare in Italia con il decreto appena varato in Cdm - oggi in Europa c’è solo la Germania e, dall’altra parte dell’oceano, Stati Uniti e Canada. In territorio europeo, da un’indagine comparativa del 2010 sull’attuazione dei programmi vaccinali su 27 Paesi Ue (più Islanda e Norvegia), condotta da Venice (progetto Vaccine European New Integrated Collaboration Effort) e pubblicata sulla rivista Eurosurvellance, risulta che 14 dei 29 Paesi hanno almeno una vaccinazione obbligatoria nel loro programma.
Obbligo vaccini a scuola, come funziona dopo i 6 anni?
I 15 che non ne hanno alcuna obbligatoria sono: Austria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Irlanda, Islanda, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Regno Unito. Differenze si registrano anche nelle scelte delle vaccinazioni rese d’obbligo. Per l’Italia, fino ad oggi, i vaccini obbligatori erano difterite, tetano, epatite b, polio; in Francia difterite, tetano, polio, tbc; in Grecia difterite, tetano, polio; in Belgio e Olanda obbligatoria solo l’antipolio, anche perché gli ultimi casi europei della malattia si sono verificati proprio nei due Paesi.
Per quanto riguarda l’obbligo della vaccinazione per l’iscrizione a scuola "in realtà - spiega all’Adnkronos Salute Pier Luigi Lopalco, docente di Igiene dell’università di Pisa - non abbiamo evidenze scientifiche. Il dato più recente, in un Paese di cultura occidentale, è quello della California, dove per far fronte al calo della copertura, è stata cancellata la possibilità di appellarsi a motivi religiosi per iscriversi a scuola senza certificato vaccinale".
Questa misura "ha fatto effettivamente risalire i dati di copertura. Personalmente - dice l’esperto - credo che il filtro scolastico, declinato in maniera moderna, possa essere utile, perché consente di intercettare i genitori non vaccinisti, convocarli e avviare un confronto per far comprendere l’importanza di proteggere non solo il proprio figlio ma anche gli altri. Mentre non credo siano utili forme di coercizione".
"E’ invece importante lavorare per cambiare la cultura, anche dei medici - insiste - che spesso non sanno fornire risposte a genitori confusi, e generano ancora più confusione. Ed è necessario adottare misure strutturali, non estemporanee, per garantire la copertura vaccinale necessaria a tutelare la salute dei tutti", conclude Lopalco.
Il cancro e l’hacking della medicina (e della conoscenza)
Quando la cura è condivisione
di Giovanni Ziccardi (Il Mulino, 12 luglio 2016)
Rammento con lucidità il giorno in cui, alcuni anni orsono, Salvatore Iaconesi pubblicò su un sito web una lastra del suo cervello colpito da un tumore e diffuse un video, su YouTube, nel quale annunciava al mondo di avere il cancro.
C’eravamo incontrati spesso, negli ultimi dieci anni, a diverse conferenze e incontri hacker. Conoscevo bene la sua attenzione per la tecnologia, le sue competenze informatiche e la sua passione per la programmazione e per il codice, nonché le sue battaglie per l’apertura delle informazioni e del confronto scientifico e per l’estremizzazione della performance artistica.
Il pensiero andò subito non solo a lui ma anche a Oriana, la sua ragazza che spesso lo accompagnava, anche lei raffinata studiosa di comunicazione e appassionata di tematiche da sempre care alla comunità hacker e artistica nazionale e internazionale.
Oggi, nel libro La Cura (Codice Edizioni, 2016), Salvatore Iaconesi e Oriana Persico narrano di questa vicenda (ma non solo) in oltre 300 pagine di testo fitto e molto curato, aggiungendo innumerevoli particolari e «retroscena» a un fatto che molti di noi hanno seguito da lontano e ai margini, come amici, spesso frenati, nel domandare notizie o aggiornamenti, da quel pudore tipico che si manifesta quando si ha a che fare con persone care colpite dal cancro.
La Cura è un testo molto profondo, sia nella lettura sia nel necessario processo di comprensione ma, al contempo, assume spesso la forma di affascinante diario che non può che appassionare, commuovere o suggestionare anche il lettore non avvezzo a temi informatici.
Si tratta di un’opera scritta volontariamente «a strati» e a moduli, un universo di satelliti che possono essere affrontati in sequenza o letti senza un ordine, a caso, a seconda dell’interesse di chi legge. Nelle pagine si trova una grande storia d’amore ma anche un atto di omaggio al mondo dell’hacking e dell’apertura delle informazioni e del codice, una critica feroce ad alcune prassi (e istituzioni) mediche ma anche righe sincere di ringraziamento a medici e personale che hanno reso il malato più umano.
Salvatore e Oriana sono, per chi li conosce bene, menti molto articolate. Affrontano ogni problema, ogni questione, ogni punto sezionandolo e analizzandolo in ogni sua faccia, rendendolo pubblico e porgendolo alla discussione, spingendolo sempre al limite, tra tecnologia e performance artistica, sino a «esaurirlo» e a offrirlo all’interlocutore o al lettore in mille pezzi ma tutti interessanti e connessi tra loro. Lo stesso avviene in queste pagine, dove anche i passaggi più lineari sono resi interessanti dall’approfondimento e dal confronto.
Data la competenza degli autori, il titolo non deve ingannare: «la cura» non si riferisce a un libro che sveli una fantomatica cura per il cancro, o che voglia promuovere terapie, o che lasci spazio a teorie mediche alternative. Gli autori sanno benissimo, avendolo provato sulla loro pelle, quanto sia delicato il tema, e lo trattano sempre «in punta di piedi», con una pacatezza, una cautela nella scelta dei termini e una libertà assoluta nell’approccio che sono veramente degni di nota. Al contempo, però, prendono spunto dalla malattia in senso stretto per esporre i mali della società e per illustrare strategie (anche informatiche) per combatterli.
I temi affrontati sono decine, visti da diversi punti di vista (quello in prima persona di Salvatore, quello della sua amata Oriana, quelli contenuti in documenti scientifici, incontri e informazioni condivise o reperite in Internet), e non li voglio anticipare qui.
Ho, però, apprezzato alcuni aspetti che rendono La Cura non un «semplice» diario di una malattia, ma una piccola opera d’arte (o, meglio, una piccola performance artistica) con ambizioni molto più ampie.
La prima sensazione è che questo contrasto, in tutte le pagine, tra «apertura» e «chiusura», tra open e close, tra codice aperto e codice chiuso, tra segreto e pubblico, tra questioni discusse nelle stanze private o regalate, al contrario, al pubblico confronto, sia il cuore del libro.
Il cancro è tema, e malattia, che porta quasi naturalmente alla chiusura, alla non condivisione, anche e soprattutto nei rapporti umani. L’approccio di Salvatore e Oriana nel combattere la malattia puntando, invece, sull’apertura (apertura che parte, si pensi, dai formati dei dati attraverso i quali diffondere le informazioni mediche di Salvatore per permettere una sorta di «scrutinio globale e mondiale» di una cartella clinica) è indice chiaro di un approccio hacker che anche nella malattia, e non solo nella cultura o nel lavoro, può raggiungere grandi risultati.
La malattia diventa «condivisa» e pronta per essere sconfitta grazie anche alla raccolta incessante d’informazioni e a una selezione accurata delle stesse. Ma questa apertura, secondo Iaconesi e Persico, per essere efficace deve riguardare ogni aspetto della nostra società: le relazioni di ogni giorno, la burocrazia, le istituzioni, la quotidianità, i centri di potere, la salute e il suo «mercato», il benessere, l’amore, la solidarietà, la politica e l’ambiente. Una tecnologia che permetta non solo di comprendere meglio la società in cui viviamo, ma anche di vivere meglio tutti insieme.
Il secondo punto interessante, nel libro, riguarda il mondo della medicina e delle cure «visto dall’interno» da due soggetti da sempre attenti ai meccanismi sociali e che si trovano loro malgrado, improvvisamente, a doversi relazione e convivere con un «mondo» cui non solo non erano abituati, ma che non conoscevano affatto.
Qui esce l’idea di hacking o, meglio, di «cavallo di Troia». Il cercare dall’interno (della malattia, o dell’ospedale, o di un ufficio) i punti deboli e gli aspetti del sistema che si possono migliorare e, attraverso la condivisione delle informazioni, il tentare di migliorare il sistema, di correggere le imperfezioni, anche scrivendo nuovo codice informatico. Tra le tante «imperfezioni» che Salvatore e Oriana evidenziano, mi sembra che la disumanizzazione del paziente, il renderlo spesso un numero o un codice oggetto di un protocollo, e i rapporti «burocratizzati» dei familiari con i medici, siano gli aspetti più critici.
Il percorso verso «la cura» inizia quando Salvatore domanda la sua cartella clinica digitale, con tutti i dati degli esami preliminari. La richiesta della cartella clinica digitale è già pensata per poi renderla pubblica, per darla in pasto all’intelligenza collettiva della rete e per avviare un confronto. Nella convinzione, sempre, che la malattia non colpisca soltanto il malato ma anche tutti coloro che lo circondano e quindi, in definitiva, tutta la società.
Le parti di approfondimento che ho più apprezzato, forse perché un po’ distanti dalle mie competenze, sono quelle relative all’evoluzione della medicina e al suo rapporto con la tecnologia che arrivano a prospettare veri e propri nuovi approcci al «processo medico» e alle enormi quantità di dati che rilasciamo durante la nostra vita anche con riferimento alla nostra salute, e che possono essere utilizzate per il nostro benessere. Molto spazio è poi dedicato, opportunamente, all’idea di open data e al suo rapporto con la medicina moderna.
I vari «strati» informativi del libro s’intersecano alla perfezione, consentendo anche approfondimenti mirati su alcuni argomenti tecnici o sociologici più ostici.
La malattia, in tal senso, diventa lo spunto per mettere in discussione tanti aspetti della società tecnologica attuale che, tramite l’apertura delle informazioni e l’hacking, può essere costantemente migliorata. Sempre, ricordano i due autori, con il necessario apporto di tutti i cittadini.
Una guarigione open source
TEMPI PRESENTI. Intervista con Salvatore Iaconesi e Oriana Persico che nel loro libro, «La Cura» (Codice edizioni), raccontano perché dopo una diagnosi di tumore al cervello hanno hackerato le cartelle cliniche e lanciato un progetto che è diventato un workshop vivente
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 18.05.2016)
Ingegnere robotico e hacker, Salvatore Iaconesi ha sempre lavorato con le tecnologie open source. E quando nel 2012 scopre di avere un cancro al cervello si affida a esse ancora una volta. Così in una stanza anonima di ospedale, alla presenza di Oriana Persico, sua compagna, cyber-ecologista ed esperta di comunicazione e inclusione digitale, nasce l’idea di mettere la cartella clinica online.
Dopo aver toccato con mano la medicalizzazione della malattia, il posto del paziente all’interno di un percorso che spesso lo estromette linguisticamente, quell’evento - seppure così traumatico - non può segnare solo una frattura spaesante ma deve essere tradotto. E la traduzione è quella di una malattia che diventa un’informazione accessibile a tutte e tutti, aperta come prevede l’idea stessa di open source, diffusa e coadiuvata da altre e altri come chi conosce la rete sa rendere.
Iaconesi hackera i suoi referti e li condivide in un sito internet che chiama «La Cura». Scopre che non può esisterne una parcellizzata solo di carattere medico, a lui ne interessa una più ampia. Sociale, proprio perché a essere coinvolto in una malattia non è solo l’interessato ma a vario titolo anche altri soggetti, intanto chi sta più vicino.
Rintracciato quindi il legame tra le tecnologie open source e la fragilità della esposizione alla malattia, Iaconesi e Persico si mettono a lavorare di immaginazione.
La cura che immaginano è quella che può arrivargli quindi da un poeta, da un artista o da chiunque interpreti e voglia contribuire allo scardinamento dell’algidità del dato. Insomma pretende che la cura, al di là delle significazioni diverse secondo le latitudini in cui viene nominata, assuma tutte le codifiche possibili: emotiva, politica, scientifica, psichica, spirituale e tutte le altre forme di cura possibili.
Quando si chiede un cambio di paradigma, come ha fatto Salvatore Iaconesi, le conseguenze sono imprevedibili. E così è stato. Il messaggio nella bottiglia virtuale del web viene lanciato e in pochi giorni il sito diventa virale, 500mila contatti da tutte le parti del mondo e ancora ad aumentare nelle settimane successive per arrivare a milioni di utenti. Pareri, questioni, semplici parole.
Salvatore Iaconesi e Oriana Persico vengono invasi da risposte, richieste di contatto, via mail e social network. Nessun pietismo, bensì partecipazione attiva. Neurochirurghi, oncologi, medici di base, ma anche performer, scrittori e donne e uomini che desiderano condividere la propria esperienza, fanno il giro del web e il progetto diventa il raccoglitore per una mappa che non è solo quella di un cervello con un tumore ma una più vasta interconnessione tra viventi.
Dopo tre anni e mezzo, l’esperienza di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico è diventata un libro: La Cura (Codice edizioni, pp. 346, euro 15, prefazione di Pier Mario Biava, postfazione di Emilio Simongini, nota conclusiva di Ervin Laszlo). Incontriamo Iaconesi e Persico dopo il loro rientro da Bologna per un breve ciclo di incontri dedicati al tema che è stato denominato il primo festival della «Cura».
Di cosa si tratta?
(SALVATORE IACONESI) Da un lato è un imbuto in cui far convergere tutto ciò che è stato fatto intorno al progetto. Quindi i contributi sono diversi e provengono dall’arte, dal design, ma anche dall’antipsichiatria, dalle pratiche queer e altro. D’altra parte è un esperimento di sincretismo in cui si manifestino insieme diversi approcci, una logica dell’interconnessione o, per dirla con Massimo Canevacci, dell’indisciplina metodologica per affrontare complessità che vanno oltre il problema della malattia. Il cancro, come abbiamo detto e scritto, è anche una metafora.
Ciò che avete innescato, seppure sia partito da un’urgenza precisa, è da leggersi come un percorso che inizia dalla domanda intorno al rapporto tra malattia e sistema sanitario...
(S. I.) C’è un ambito amministrativo e burocratico, cioè quello della codifica, e un altro ambito che invece è quello umano. La malattia si manifesta in entrambi questi ambiti ma in modi differenti. Nel primo ambito però, quando ci si ammala si scompare e si diventa soggetto amministrato che corre il rischio di credere di essersi davvero trasformato in un’entità divisibile, burocratica. E questo è un disastro, letteralmente, cioè la perdita dell’astro, della direzione.
Quale è stata la vostra esperienza?
(ORIANA PERSICO) I dati delle cartelle cliniche non sono per i pazienti, sono anch’essi metafore, cioè codici slegati dalla comprensibilità del paziente e che afferiscono a un linguaggio burocratico. Rimettere mano a tutto ciò e inserirli su web ha significato dare avvio a qualcosa di improbabile dove sono accadute cose strane e meravigliose, leggibili; dove a compiersi è stata proprio la metafora per cui dalla separazione si riporta la malattia nuovamente dentro la società. Riguardo il resto, c’è da tenere ben distinti i piani del sistema sanitario che induce a un approccio classificatorio, per protocolli precisi, e gli operatori e le operatrici che si incontrano e che io e salvatore abbiamo incontrato. Si misurano anche loro con codici, protocolli, penurie finanziarie e tutta una serie di fitte traiettorie. Ciò nonostante, fanno il meglio che possono e si vanno a innescare con molti di loro relazioni che eccedono dalle maglie del sistema sanitario.
Ciò che raccontate in questo libro è quel che vi accade da quell’agosto del 2012, quando Salvatore scopre di avere un cancro al cervello. Tuttavia non è solo una cronaca, bensì il risultato di una trasformazione già avvenuta. Ciò che emerge è anzitutto una visione del mondo e un metodo di relazione...
(S. I.) Mi viene in mente Bruno Latour, che amo molto, quando parla delle reti di relazioni che non esistono se non sono agite e che muoiono se non vengono performate. Credo sia importante, soprattutto in questa epoca di supereroi, di narratori dell’innovazione, in realtà c’è un completo stato di delega percettiva verso questo supereroe che dovrebbe salvare il mondo. Questo stato di delega atrofizza le relazioni, si sta in attesa che arrivi e che ci dica cosa fare. Allora bisognerebbe trovarne un altro almeno di tipo interconnettivo, che preveda la mutazione, che sia cioè un brand open source, il luogo stesso delle relazioni. In questo senso bisogna ri-agire costantemente gli immaginari, riaprirli e rimetterli in discussione e circolazione, utilizzare «modelli» che non siano calati dall’alto ma da reinventare come corrispondenti alle vite.
Come sottolineate, il libro è stato costruito in questa direzione per evitare di trasformarvi in supereroi. Il rischio di un’operazione simile è quello di acquisire le sembianze di icone pop, mediaticamente rimasticabili che dunque consegnano l’equivoco funzionante e vincente dell’invulnerabilità...
(O. P.) Questo è stato uno dei primi blocchi quando abbiamo pensato di scrivere il libro. Ecco perché il tempo trascorso e la decisione di mettere al centro i workshop e non di fare delle semplici presentazioni in giro per l’Italia. Ogni volta viene a rinnovarsi una relazione sempre viva, i dialoghi non possiamo preventivarli. Allora il libro è anche una guida, prima di tutto per noi, e per i processi che si sono avviati e che in parte non possiamo controllare. Gli stessi territori che si attivano, come nel caso di Bologna, o le scuole (da molte parti d’Italia, ndr) non chiedono solo di discutere il volume ma domandano di esulare dalla malattia e di concentrarsi su altre tematiche. È stato il caso di un gruppo di studenti di un liceo di Pisa che ci ha chiesto di discutere la cura in rapporto alla famiglia.
Il tumore è stato asportato, nel libro raccontate anche di questo insieme a questioni di carattere tecnico-teorico. All’interno della struttura, distinta per capitoli che portano la sigla prima di uno e poi dell’altra, segnalate un’ambivalenza nell’apertura dei dati. Cioè gli open data sono sì accessibili, ma è nella stessa apertura che si prevedono rischi. In che senso?
(S. I.) C’è un rischio in tutto ciò che attiene al digitale contemporaneo o che ha a che fare con esso. questo rischio è di considerare i beni comuni solo come risorsa. Quando invece si parla di commons - di cui la traduzione beni comuni non rende l’esatta portata - non bisognerebbe tacere dell’ecosistema relazionale di alta qualità che è l’unico modo con cui si riesce a trarre senso dalla gestione di questi «beni». Il bene e l’ecosistema relazionale ad alta qualità non sono scindibili, ecco perché nel libro si preferisce utilizzare il termine commons che è l’unione dei due elementi e che prevede la dimensione collettiva. Questo ecosistema prevede l’esistenza di desideri, di linguaggi, di corpi, di immaginari. Quando si parla di open data non c’è alcun lavoro su queste dimensioni. Quindi certo che vi sono istituzioni che maneggiano open data ma non fanno nessun lavoro sulle relazioni che a essi sono sottese. Tutto ciò produce cortocircuiti e impatti giganteschi, vi è un’illusione in quell’apertura che se non tiene conto di corpi e di niente si riduce a una trasparenza inservibile.
In questa cartografia della complessità che voi disegnate, riconducete ad alcuni strumenti che avete utilizzato. Tra questi c’è quello dell’autobiografia e in particolare, come dite, dell’autobiografia delle donne. Dite che «bisogna imparare dalle donne», dire loro grazie. Affermate infatti che la codifica sui corpi vale per i pazienti così come per le donne anche se vi sono delle differenze, spiegate un po’?
(O.P.) C’è il situarsi nel mondo di un soggetto. La capacità dell’autobiografia è quella di situarsi sotto diverse declinazioni, economiche, politiche e assumersi le responsabilità di tutto questo. Anche aver messo in condivisione gli open data della cartella clinica può essere un atto di autobiografia radicale, perché sono stati resi leggibili e non più astratti. In questo senso il metodo insegnatoci dalla autobiografia delle donne ci restituisce il segno di quel situarsi, perché situandosi ci si sottrae dal dominio di un regime di separazione. Questo le donne non l’hanno fatto solo per le proprie simili ma per tutti. Le femministe ci insegnano che non esistono soggetti universali, che le storie vanno situate perché esistano nelle diversità.
Non ci si ammala da soli, su questo che non si ripete mai abbastanza, avete fatto un discorso preciso...
(O.P.) Nel nostro caso c’è stato un bisogno non di condividere ma di trovare significati a quanto stavamo vivendo. Non volevamo subire una doppia violenza, quella della malattia da un lato e quella dell’isolamento protocollare dall’altra. Per prossimità mi sono ammalata pure io, ero costretta anche io a stare all’ospedale, ad adeguarmi a mille sotterfugi e sorrisi per fare in modo che non mi cacciassero, che mi lasciassero un po’ di più. Il tempo si scandiva dall’apertura e dalla chiusura di quei cancelli e dai colloqui con i medici. In questo senso l’appello della Cura non è un monito buonista, se quando rinuncio o vengo meno al riconoscimento di essere un soggetto relazionale riduco la mia visione. Agire l’autobiografia in modo consapevole non è rivolto alle storie speciali, quelle sono state scritte dagli uomini potenti che hanno raccontato qualcosa che immaginavano di dover lasciare ai posteri. L’autobiografia che abbiamo invece voluto sperimentare è la scoperta di non essere soli e di esistere proprio grazie alle nostre relazioni.
Come riformare la ragione scientifica per non ridursi a una medicina senza qualità
di Ivan Cavicchi (il manifesto 17.5.16)
La medicina oggi dispone di mezzi e di conoscenze che non ha mai avuto prima ma la sua ragione scientifica è inadeguata rispetto alle nuove complessità rappresentate dal malato, dalla società e dall’economia. Essa è potente perché vince la morte evitabile, regressiva perché comprende la malattia ma non l’uomo malato, dispendiosa perché curare costa.
Complessità, regressività e dispendiosità.
Eppure sino ad ora niente è stato capace di affrontare i problemi della medicina mettendo insieme queste tre parole. Le medical humanities hanno tentato di intervenire sulla regressività ma trascurando i problemi della complessità e ignorando quelli della dispendiosità. La medicina amministrata nelle sue varie forme (il manifesto del 21 aprile 2016) sta tentando di intervenire sulla dispendiosità, ma ignorando complessità e regressività.
Le deontologie sono senza alcuna eccezione del tutto spiazzate rispetto a tutte e tre le cose.
L’università è prigioniera di una vecchia idea positivista di scienza per cui ignora il concetto di complessità, snobba il problema della dispendiosità, e riduce la regressività ad una idea solo di aggiornamento scientifico.
Per la medicina il nostro tempo non ha un pensiero riformatore.
L’unico modo per rendere la medicina adeguata al nostro tempo è ripensare la sua ragione scientifica cioè il suo modo di conoscere di ragionare e di fare. Semplicemente medici più capaci.
Mai come in questo momento la sanità è piena di predicatori, precettori, redentori che vogliono ragionare per conto del medico, tutti a dirgli come deve curare il suo malato. La ragione medica per costoro non è in discussione e il problema non sono i ragionamenti ma i comportamenti scorretti.
Ritenere che la razionalità scientifica della medicina sia immune da aporie è il più grosso imbroglio del nostro tempo, il più detestabile segno di ignoranza, di presunzione e di pigrizia intellettuale. Senza scomodare il dibattito sulla scienza che ha caratterizzato il ’900, per capire le sue insufficienze basta confrontarla con i problemi del nostro tempo.
Molti costi eccessivi della medicina derivano dalla sua regressività culturale e gran parte di questa regressività è causata da visioni riduttive e dall’incapacità di conoscere la complessità attraverso le relazioni. Per cui quelli che i più considerano dei comportamenti scorretti più verosimilmente andrebbero considerati, comportamenti inadeguati perché dettati da razionalità scientifiche insufficienti. Condotte professionali disoneste a parte.
Oggi se la medicina non si riforma rischiamo di perderla nel senso che potrebbe ridursi a un prontuario di regole standard da seguire. Cioè una medicina senza qualità.
Un malato è complesso per definizione, è un mondo a molti mondi, uno dei quali è la sua malattia che a sua volta è un mondo biologico a tanti mondi biologici , quindi egli è fatto da generi diversi di evidenze biologiche para biologiche e di altro tipo.
La medicina deve riconsiderare la sua vecchia idea statistica di evidenza, imparare a ragionare con più generi di evidenze quindi a metterle d’accordo perché tutte sono in qualche modo falsificabili e alla fine usarle nelle premesse del suo ragionamento.
Se la complessità non è nella premessa clinica il malato resta un organo e una malattia e l’unica evidenza che decide è quella biometrica.
Un malato è sempre singolare da ogni punto di vista per cui tutte le evidenze scientifiche vanno verificate empiricamente con tale singolarità. E’ tutt’altro che infrequente che la verità empirica smentisca quella scientifica per questo la medicina deve imparare ad essere meno convenzionale e più pragmatica perché quello che conta non è l’ossequio ottuso alle meta analisi epidemiologiche ma il conseguimento efficace di un risultato clinico. Esistono evidenze senza verità che impongono al medico di navigare a vista confidando sul suo intuito e sulla sua esperienza.
La clinica deve imparare ad andare oltre ciò che osservabile, oltre i fatti misurabili, primo perché non tutto è misurabile secondo perché il malato non è tutto osservabile. C’è un malato reale che può essere solo asserito.
Non si tratta di usare la stessa logica ipotetica deduttiva per tutti i malati ma di ricavare dalla singolarità dei malati la logica più adatta. Le logiche di cui la clinica può servirsi sono molteplici: pratico-deduttive, pragmatiche, polivalenti, fuzzy, modali, abduttive. Nella complessità si ragiona di più non di meno.
La clinica deve anche imparare a verificare le sue ipotesi con più criteri (plausibilità, ottimalità epistemica, accettabilità razionale, convenienza situazionale, esclusione dell’assurdo ecc) ma soprattutto deve misurarsi con il risultato.
La medicina deve avere coscienza degli effetti economici delle sue scelte quindi niente sprechi, errori e fallace. Bisogna essere più bravi, non più amministrati.
Quindi sì ad un’altra ragione medica, no al protocol doctor.
PRIMA VIENE IL PAZIENTE - l’ulivo, poi la "xylella fastidiosa"!!! Non è affatto bene fare di tutte le erbe un fascio, dare fuoco alla propria coda di paglia, e gridare in coro "al lupo, al lupo", a destra e a manca e sollecitare a eradicare ulivi a volontà!!!
No ai processi al metodo scientifico
di Gilberto Corbellini, Roberto Defez (La Stampa, 24.12.2015)
Se in Italia sopravvive ancora una comunità scientifica degna di tale nome, ovvero delle accademie scientifiche consapevoli del loro ruolo a difesa dei valori di libertà e indipendenza della scienza, dovrebbero battere urgentemente un colpo. Farsi sentire.
E due colpi li dovrebbero battere il Consiglio Superiore della Magistratura, che è organo a garanzia dell’autonomia e indipendenza del governo della giustizia nel nostro Paese, e i politici che negli anni recenti si sono opposti alla politicizzazione, alla manipolazione e agli abusi di potere perpetrati ai danni della scienza. Senza lasciar fuori il Presidente della Repubblica.
Coloro che si sono indignati contro i tentativi di imporre attraverso sentenze di magistrati le pseudo-cure Di Bella o Stamina o contro il rinvio a giudizio e la condanna in primo grado della Commissione Grandi Rischi, per non aver dato l’allarme per il terremoto dell’Aquila o contro la credenza che i vaccini causino l’autismo, dovrebbero tutti insorgere per quanto sta accadendo nel Salento in merito alla vicenda Xylella fastidiosa, il batterio che sta uccidendo o concorre a uccidere gli ulivi (per ora solo) in quella regione.
Perché si tratta di un caso emblematico di scelte autoreferenziali di un pubblico ministero nell’esercizio dei suoi poteri, che seleziona un ristretto manipolo di esperti scientifici.
Ma, come si scelgono i consulenti scientifici in una materia tanto complessa? Si prendono quelli la cui opinione coincide con quella di un magistrato, o si chiede consulenza ai massimi organi scientifici nazionali e casomai internazionali?
La vicenda è nota già a livello internazionale perché qualche mese fa Nature scrisse un articolo denunciando il «vilipendio» a mezzo inchiesta giudiziaria ai danni degli scienziati che stanno studiando il fenomeno di diffusione del batterio, e il ruolo dello stesso nella sindrome patologica che causa il disseccamento degli ulivi salentini.
Gli ulivi del Salento sono attaccati da un batterio che è considerato, per le sue caratteristiche altamente contagiose e per gli effetti patogeni devastanti sulle piante, una gravissima minaccia a livello mondiale.
Questo batterio causa o concorre a causare una malattia che chiude i vasi della pianta (una specie di arterioscleresi per gli umani) portando al disseccamento degli ulivi e uno dei modi per limitare l’epidemia è sradicare gli ulivi già colpiti, ridurre gli insetti che diffondono Xylella e creare un cordone sanitario che isoli le piante infette.
Nulla di nuovo sotto il sole: la microbiologia dispone di metodo standardizzati per studiare come un agente causale è implicato in una malattia. Come tutte le malattie infettive la sindrome che vede Xylella protagonista ha caratteristiche che dipendono dall’ecologia locale e quindi si dove esaminare sperimentalmente la questione, tenendo conto anche delle linee guida europee e internazionali finalizzate al contenimento del patogeno.
Naturalmente, come fu per l’Aids e la sua causa cioè l’Hiv, ci sono i negazionisti, che con argomenti pretestuosi manipolano le incertezze e generano sospetti sulla trasparenza dei ricercatori o su qualche legame con i soliti poteri economici e con le solite multinazionali che farebbe loro sostenere una posizione che non è tanto scientifica quanto dovuta a interessi loschi.
E’ uno scenario già visto, ma un Paese civile non dovrebbe essere così esposto a questo genere di manovre politiche ai danni della scienza e del metodo che essa utilizza. Di fatto gli scienziati sono indagati per una serie di reati, tra cui quello di aver diffuso colposamente la malattia e di aver presentato i fatti in modo da arrivare ad avvallare come soluzione l’eradicazione delle piante malate. Sulla scia di un immaginario collettivo che ricorda i processi per inquisizione o i linciaggi pubblici per accontentare gli umori rabbiosi di una popolazione alla ricerca di capri espiatori, di far parte di qualche complotto sovrannazionale inteso a distruggere la tradizione agricola salentina, iniziando dagli ulivi.
L’inchiesta del procuratore Cataldo Motta è stata criticata duramente dall’ex Presidente del Tribunale di Bari Vito Savino, che l’ha paragonata alle vicende Di Bella e Stamina.
Ora, la questione su cui vorremmo richiamare l’attenzione, al di là della gravità dei contenuti degli avvisi di garanzia inviati agli scienziati che stavano studiando il fenomeno, riguarda il rapporto tra scienza e magistratura, ovvero come i giudici affrontano emergenze che possono essere capite solo tramite gli strumenti scientifici.
La vicenda salentina è l’ennesimo caso nel quale l’intraprendenza di un magistrato si esercita in un vuoto normativo per quel che riguarda le modalità di acquisire prove che abbiano base scientifica. È accaduto diverse volte, a partire dalla vicenda Di Bella e in modo macroscopico con la vicenda Stamina, nella quale i giudici prescrivevano il trattamento Stamina nonostante si trattasse di un imbroglio.
Sarebbe nell’interesse della magistratura, ma soprattutto, del Paese pensare e predisporre uno strumento che renda meno discrezionale il modo di procedere dei giudici quando le questioni sono precisamente definite dalle regole non negoziabili del metodo scientifico.
*Università La Sapienza
**Biologo e genetista Cnr
Xylella, il gip: illegali i piani Silletti *
La Xylella non è l’unico e, certo, nemmeno il principale nemico degli ulivi salentini. Le misure adottate dal Commissario straordinario sono state una «macrospica violazione di legge» e «i cosiddetti ’Piani Silletti’» sono «abusivi», scrive il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Alcide Maritati, nell’ordinanza che convalida il sequestro degli ulivi disposto dalla Procura leccese. Quarantaquattro pagine che non soltanto riconoscono più che fondate le conclusioni degli inquirenti, ma vanno oltre. Annotando strane ’coincidenze’ e strani ’interessi’ e avvisando su quanto potrebbe accadere.
Allontanarli. Servono «più convincenti studi e approfondimenti scientifici» sulla ’Sindrome di disseccamento rapido degli ulivi’ (Codiro) in provincia di Lecce e Brindisi - si legge - e ci si deve affidare a esperti, anche internazionali, soprattutto evitando «il coinvolgimento di persone o soggetti giuridici che possono aver avuto un ruolo nei fatti su cui si indaga». Cioè, meglio che i tecnici del Cnr barese, dell’Università di Bari, dello Iam e dell’’Istituto Basile Caramia’ (cominciando da quelli indagati) si occupino adesso di altro.
Margini netti... Anche il ministero per le Politiche agricole dovrebbe chiarire. Ad esempio perché il 26 settembre 2014 abbia dichiarato, con decreto, «infetta quasi tutta la provincia di Lecce, considerandola come un unico, grande focolaio, pur senza avere nessuna certezza che di focolaio si trattasse», scrive il gip. A proposito, dalle foto aree «emerge chiaramente che le zone interessate dal disseccamento sembrano avere margini netti e corrispondenti ai confini di proprietà e/o di particelle catastali ». Insomma, nessuna «propagazione omogenea» del batterio. Anzi, «le aree interessate coincidono con quelle oggetto di ’sperimentazioni in campo’ di prodotti altamente tossico-nocivi avvenuta negli anni passati ad opera di soggetti privati e istituzionali».
Comitato inaffidabile. Fra l’altro - sottolinea il giudice -, sempre quel decreto ministeriale nominava un comitato tecnico-scientifico per la Xylella, ma «è evidente il coinvolgimento di persone che figurano tra gli indagati» e soprattutto che «in qualche misura sarebbero coinvolte in studi e sperimentazioni, oltre che in accordi commerciali, che risulterebbero connessi al fenomeno oggetto di studio». E questo «rende non pienamente attendibile e affidabile il lavoro del comitato stesso».
Serio rischio. Le indagini stanno mettendo insieme le tessere di un puzzle. È «conclamato» che la presenza di Xylella «non costituisce fonte di rischio per la pubblica incolumità», si legge ancora. Ed è altrettanto «inconfutabile» come invece «proprio le misure imposte dai ’Piani Silletti’, compreso l’uso massiccio di pesticidi, rappresentino un serio rischio» per la stessa «incolumità pubblica».
Danni non valutati. Il quadro, dipinto dagli inquirenti e rafforzato dalle considerazioni del gip, inquieta. Ne è in qualche modo sintesi un passaggio a pagina 39 dell’ordinanza di conferma, dove si annota «come non siano state valutate le conseguenze dannose per l’ambiente e l’incolumità pubblica» nelle scelte dell’Affaire Xylella.
Bugie all’Ue. Il gip Maritati sottolinea poi almeno due «omissioni» e una «falsità » alla Commissione europea: non è stato riferita «l’effettiva essenza e consistenza del fenomeno del disseccamento degli ulivi», né «la doverosa e imprescindibile analisi del rischio delle misure da adottare», ed «è stata fornita una falsa rappresentazione della realtà» sull’«asserito, ma assolutamente incerto, ruolo svolto dalla Xylella nella sindrome da disseccamento degli ulivi».
Monumenti viventi. Nell’ordinanza viene anche ricordato come l’ulivo sia «simbolo identitario per la popolazione salentina e pugliese, non a caso figura nell’emblema della Regione»: circa 60 milioni di piante, la metà secolari e si stima fra 3 e 5 milioni pluricentenari. «Ognuna di queste rappresenta un vero e proprio monumento vivente».
Logica e democrazia
Pensieri basati sui fatti
Se non è empirica la filosofia rischia di essere vaga. A scuola bisogna insistere sulla capacità di argomentare
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 24.01.2016)
I filosofi stanno discutendo abbastanza su cosa significhi oggi fare filosofia. È vero che chi scrive si identifica in una posizione scientista, per cui tutto quel che esiste ed è conoscibile è accessibile alla scienza e ai suoi metodi. Penso, in sostanza, che non esista in linea di principio niente di quel che accade che non possa essere compreso usando procedure empiriche controllate, se le nostre strutture cognitive riescono a concettualizzare e a interrogare sperimentalmente i processi che lo producono.
Questa è l’unica posizione filosofica per me ragionevole. Tutto il resto, come diceva Francis Crick, equivale a fischiare nel buio per farsi coraggio. Non penso però che la filosofia non serva a niente. Anzi. Oltre a produrre, insieme alla religione o alla letteratura o all’arte, suoni rassicuranti per chi ha paura del buio, può far capire meglio come funziona la scienza, togliendo di torno illusioni e autoinganni che ostacolano una comprensione critica e una disponibilità psicologica verso le conoscenze più affidabili che produciamo, cioè quelle scientifiche.
Un aiuto prima di tutto per i giovani, che invece di perdere tempo sul pensiero di tanti filosofi che hanno detto cose sbagliate, potrebbero acquisire salutari elementi di storia della scienza e di epistemologia scientifica, senza i quali non si capisce il mondo nel quale viviamo.
Davvero non si capisce, non è retorica! Le false credenze e le diffidenze verso la scienza e il metodo scientifico, così diffuse in Italia, sono la conseguenza anche del fatto che non sono chiari gli obiettivi dell’insegnamento scolastico: se non si aiutano i giovani a correggere l’epistemologia ingenua con cui approcciano la realtà, non distingueranno da adulti la scienza dalla pseudoscienza.
Oggigiorno non si può essere cittadini pienamente in grado di esercitare i diritti costituzionali se, per esempio, non si sa cosa è una probabilità, quali componenti teoriche entrano nella definizione di rischio, come si stabilisce che un dato scientifico è corretto o non falsificato, come funziona una sperimentazione clinica, cosa sono i bias cognitivi ed emotivi, etc. -Il fatto tragico è che questi concetti sono estranei in primo luogo a chi è impegnato a fare leggi, ad applicarle o ad amministrare la giustizia.
L’esperienza più shoccante che si prova consultando le legislazioni anglosassoni è la chiarezza e l’organizzazione logica delle argomentazioni. Raramente sono scritte in modi illogici, per confondere le idee o non far capire cosa c’è scritto, come le leggi pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
Se «siamo un paese che odia la scienza», come denunciava lunedì scorso Paolo Mieli sul Corriere della Sera, è perché a cominciare dalla classe politica e passando per quasi tutti gli intellettuali che fanno tendenza, non si trova qualcuno che non storca il naso o non dica inesattezze quando si usa o si propone di usare un metodo scientifico per stabilire come stanno determinati fatti.
Per esempio quando si utilizzino i risultati della ricerca sperimentale per sostenere che mentono coloro i quali dicono che i vaccini possono causare l’autismo e sono più rischiosi della malattie che devono prevenire, che gli Ogm sono sicuri per l’ambiente e la salute nonché un toccasana per l’agricoltura, che le staminali mesenchimali non hanno curato alcuna malattia, che Xylella è un vero patogeno e i suoi effetti possono essere stabiliti e contrastati solo con metodi scientifici, etc.
Non è pensabile che un paese economicamente sviluppato possa rimanere tale e possa allevare un élite politica e intellettuale in grado di renderlo internazionalmente competitivo se non cambia radicalmente la qualità della cultura scientifica. Un risultato che non si ottiene solo incrementando la divulgazione o comunicazione della scienza, e tantomeno trascinando la scienza in controversie politiche, filosofiche o ideologiche. Va detto che se siamo a questo punto anche la comunità scientifica e il mondo accademico hanno pesanti responsabilità, che non sono soltanto l’attendismo, il servilismo e l’opportunismo che hanno caratterizzato i rapporti con la politica sin dall’ultimo dopoguerra più o meno.
C’è un problema culturale per cui non sono solo i cittadini profani che avrebbero bisogno di imparare un po’ di filosofia. Perché gli scienziati, che con disinvoltura riescono sempre più spesso a scavarsi la fossa con le loro mani, scadono frequentemente nei più triti luoghi comuni e gestiscono o furbescamente o ingenuamente le interazioni con la politica o con la magistratura.
Benché l’apprendimento della scienza dovrebbe averli immunizzati dalle trappole delle idee di senso comune e delle preferenze ideologiche, alla prima occasione per dar spazio a qualche ambizione di potere o bisogno narcisista si prestano a fare confusione e alimentare il pregiudizio che “gli scienziati sono divisi”, quindi tanto vale ignorarli o usarli come ci fa comodo.
Gaston Bachelard diceva che la scienza del suo tempo non aveva filosofi all’altezza del compito. Oggi si possono fare molti esempi che gli scienziati non sono spesso all’altezza della scienza che producono.
È triste leggere articoli di scienziati e accademie scientifiche che s’arrampicano sugli specchi per sostenere che le più recenti tecnologie del genome editing sono naturali o intrinsecamente diverse da quelle con le quali si facevano gli ogm, insultando la logica e l’epistemologia della biologia - è chiaro che non sanno nulla di teoria evoluzionistica, altrimenti non farebbero ragionamenti per i quali i giganti del pensiero genetico-evoluzionistico si rivoltano nella tomba. Tutto per rincorrere l’ignoranza dei politici che chiedono loro di abiurare ai principi etici della scienza - dire come stanno i fatti - se vogliono usare queste nuove tecnologie. Ma solo in laboratorio, dice l’improbabile ministro dell’agricoltura nostrano.
Ecco qualche compito utile per la filosofia. Rendersi conto che il sapere che vale amare è quello scientifico, e quindi lavorare non solo per farlo entrare meglio nella cultura civile, ma anche per proteggerlo dagli stessi scienziati.
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 31.10.2015)
Il controtransfert è la reazione dell’analista al “ transfert” del paziente. Il transfert è la tendenza universale a trasferire nelle relazioni significative della vita aspetti conflittuali rimossi della propria infanzia nella speranza che possano essere risolti. Anche il controtransfert ha carattere universale: ci relazioniamo con le persone a cui siamo affettivamente legate, accettando, inconsciamente, di abitare, in parte, la scena della loro storia obliata.
L’analisi è impostata in modo da facilitare lo sviluppo di entrambe le correnti, che sono fatte della stessa materia del sogno, il luogo in cui i vissuti rimossi tornano alla vita. Attraverso la comprensione del posto che inconsciamente occupa, di volta in volta, nella storia del paziente, che torna al presente, l’analista può accedere alla natura più profonda della domanda che gli è rivolta. Ciò gli consente anche la riparazione delle aree di una propria cecità nei confronti della relazione, l’elaborazione della riluttanza ad affrontare questioni che attivano i propri conflitti inconsci.
L’analista è impegnato in modo più diretto quando incontra il paziente a partire dal proprio desiderio e mette in discussione il proprio modo di essere nel mondo. L’analisi riceve dalla madre del paziente in eredità il modo in cui lei l’ha accolto. La madre accoglie il bambino in due modi opposti. Per certi aspetti proietta su di lui parti irrisolte di sé e, affidandogli un ruolo messianico, rimanda al futuro, in modo consolatorio, l’incontro con l’inconsueto.
Nella direzione opposta, il nuovo arrivato attiva in lei il desiderio di rimettersi in gioco, accettando le perturbazioni necessarie di cui è foriero il cambiamento. Più la madre (sostenuta dal padre) riesce a mantenersi nella seconda prospettiva, più il bambino è vivo e desiderabile e la madre gode della riapertura dei propri confini con la vita.
L’analista deve farsi carico di situazioni in cui la madre non è riuscita a far sentire il figlio pienamente autorizzato a essere vivo per conto suo. Nelle condizioni più drammatiche il paziente lotta per evadere dalla prigionia di uno sguardo esterno alla sua soggettività, che ha preconfezionato la sua posizione nel mondo. Non può farlo se non destabilizza l’assetto dell’analista, obbligandolo a uscire dal suo centro di gravità, a esporsi, rischiare. L’analista è in difficoltà: la persona che cura si è posta fuori dall’obnubilamento della propria esistenza e non vuole essere interpretata, ma vista come se fosse arrivata al mondo per la prima volta.
La domanda del paziente, inevitabilmente contraddittoria e confusa, disorienta. L’analista rischia una crisi perturbante d’identità, la confusione dei propri interessi con quelli dell’altro (il caso di Jung con la Spielrein). Tuttavia, questa è per lui l’opportunità di andare oltre la paura che oscura il nostro oggetto di desiderio, al punto di fare dell’oscurità la cosa desiderata.
Scoprire che l’irriducibile differenza dell’altro, percepita come minaccia di destabilizzazione della propria identità (il fondamento della paura), è per costui l’unica possibilità di sentirsi vivo. Chi è veramente vivo non ci minaccia, il pericolo viene dalla non vita che invade la vita. Liberare la vita dalla morte, attraversando una crisi delle proprie vedute, è la vocazione di fondo dell’analista.
Scoperte
Il buon rapporto tra medico e paziente fa bene alla salute di tutt’e due
di Sergio Harari *
Secondo una recente indagine della Società Italiana di Medicina Interna, avere un rapporto empatico con i pazienti riduce di 4 volte il rischio di ricovero per il malato e aumenta fino al 40% le sue possibilità di tenere sotto controllo i valori di colesterolo e glicemia, riducendo anche il pericolo di burnout (forma di stress delle professioni d’aiuto) per il medico. Le parole che noi medici diciamo toccano sensibilità profonde, soprattutto quando le rivolgiamo a chi è in attesa di speranze; le espressioni cambiano significato a seconda dell’intonazione della voce o della profondità dello sguardo.
Eugenio Borgna, neuropsichiatra di fama, scrive nel libro Parlarsi. La comunicazione perduta (Einaudi): «Come posso conoscere, o meglio come posso intuire, quello che le mie parole comunicano a chi mi ascolta, a chi vorrei aiutare nella sua tristezza e nella sua angoscia, nella sua inquietudine e nella sua disperazione?».
Peraltro la medicina è un racconto, che comincia con la narrazione dei pazienti della loro malattia e continua con le storie descritte dai medici, come spiega Siddartha Mukhrjee in L’imperatore del male (Neri Pozza), premio Pulitzer, che è stato definito la biografia del cancro.
In un sondaggio online, svolto tempo fa dall’associazione Peripato con il «Corriere», solo il 35,1% degli oltre 2 mila partecipanti era soddisfatto del tempo dedicato dal loro medico al colloquio, 32,7% lo era solo in parte e 32,2% non lo era per nulla. Forse, poi, oltre al tempo materiale, sempre più difficile a trovarsi, conta la capacità di sintonizzarsi con il tempo interiore dell’altro. Creare quella relazione umana che permetta al paziente di sentirsi accolto nelle sue paure e nelle sue fragilità è il difficile compito che hanno le parole del medico.
* Corriere della Sera - La Lettura, 25.10.2015
La società ha ribaltato il senso del termine terapia: non più «prendersi cura», ma «curare»
La medicina è servizio
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 24.06.2012)
«Servizio» - è questo il significato originario del termine greco therapeía. E dunque è letteralmente «servitore», colui che svolga la funzione del therápon. Nell’Iliade, Patroclo, Automedonte, Alcimo sono presentati come therápontes rispetto ad Achille, perché sono appunto al suo «servizio», perché lo «assistono», agendo quali attendenti del grande guerriero. Di qui anche il comportamento al quale essi dovranno attenersi. In quattro luoghi distinti del poema, riferendosi specificamente a Patroclo, Omero impiega la stessa formula: phílo epepeítheth’ etaíro - «obbedì all’amico». La therapeía implica l’obbedienza. Non si può assolvere ai compiti previsti per il therápon, se non ponendosi totalmente al servizio del proprio «assistito» e dunque prestandogli obbedienza.
Un contesto di significati molto simile si ritrova anche in relazione al termine latino che corrisponde quasi letteralmente alla parola greca therapeía. Difatti, cura sta a indicare anzitutto la «sollecitudine», la «premura», l’«interesse» per qualcuno o (più raramente) per qualcosa, senza che necessariamente questa disposizione affettiva e/o emotiva debba necessariamente concretizzarsi in qualche atto definito. Avere cura nei confronti di qualcuno vuol dire per prima cosa «stare in pensiero», essere «preoccupati» per lui.
Una traccia non irrilevante di questa accezione originaria si ritrova peraltro anche in alcune lingue moderne. In inglese, to care for vuol dire «prendersi cura», senza riguardo ai possibili modi concreti nei quali può tradursi questo atteggiamento, come è confermato dall’uso prevalentemente intransitivo e «assoluto» dell’espressione I care («mi interessa», «mi riguarda», «mi sta a cuore»). Ancora più interessante è il termine tedesco Sorge (abitualmente tradotto con l’italiano «cura»), soprattutto se ci si riferisce al significato col quale compare in particolare in Essere e tempo di Martin Heidegger, dove esso sta a indicare la determinazione ontologica fondamentale dell’Esserci, vale a dire il fatto che l’Esserci è sempre «proteso verso qualcosa» ed è in quanto tale espressione del «movimento» che è proprio della vita umana.
Per quanto inevitabilmente cursoria, questa ricognizione etimologico-linguistica lascia emergere con chiarezza un punto. Alle origini della tradizione culturale dell’Occidente - pensiamo a quanto la Grecia resta importante - le parole che designano la «cura» alludono a una condizione soggettiva - quella di chi «si preoccupa» e dunque si pone al «servizio» - e non a un contenuto determinato nel quale si oggettiverebbe tale «preoccupazione». Anche quando il soggetto di cui si parla assume una configurazione in qualche modo tecnica, come avviene nel caso del medico, ciò che i termini antichi sottolineano in lui non è la messa in campo di atti specifici, bensì la presenza di una «preoccupazione» per colui che egli dovrebbe assistere.
Patroclo è genuinamente therápon di Achille non perché faccia concretamente delle cose per lui, ma perché è in pensiero per l’amico, perché lo ascolta (obbedire - ob-audire - vuol dire «mettersi all’ascolto»). Analogamente, per essere fedele al mandato di Asclepio, il medico ippocratico dovrà essere mosso da premura e sollecitudine nei confronti di colui che gli è stato affidato, indipendentemente dal fatto che questa attitudine debba tradursi nella somministrazione di farmaci o in altre pratiche terapeutiche.
Con il passare dei secoli, si assiste a una trasformazione radicale nel significato dei termini, quale riflesso di un altrettanto profondo mutamento di ciò a cui questi termini si riferiscono, in direzione di una spiccata tecnicizzazione. Da un lato, infatti, titolare pressoché esclusivo della «cura» diventa il medico, unica figura legittimata a svolgere il ruolo del therápon. Io posso bensì «essere in pensiero» per il mio amico o il mio familiare; ma se voglio «curarlo» devo affidare questo compito al medico.
Dall’altro lato, e in connessione con questa «professionalizzazione», la «cura» perde ogni connotazione «affettiva» e viene piuttosto a indicare un complesso di pratiche che hanno quale loro oggetto il paziente. Curare non è più - come in precedenza - un verbo che allude allo stato d’animo del terapeuta verso il suo assistito, ma segnala la molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo. Da verbo intransitivo diventa un verbo transitivo che riguarda gli atti concreti effettuati su colui che sia «oggetto» della cura.
Il culmine di questo processo si raggiunge in concomitanza con la produzione industriale di massa e poi in maniera sempre più accentuata nel corso degli ultimi decenni. La «cura» non ha più alcun rapporto con la disposizione d’animo del terapeuta. Al contrario, questi scarica sulla cura - i farmaci e ogni altro intervento di manipolazione del paziente - ogni sua residua «preoccupazione». Materialmente impossibilitato a stare in pensiero contemporaneamente per molte centinaia di individui, il medico trasferisce e oggettiva la sua sollecitudine in una pluralità di atti concreti, inevitabilmente «neutri» dal punto di vista sentimentale, la cui efficacia dipende dunque esclusivamente da un’incidenza «misurabile» in termini quantitativi. Si verifica dunque un vero e proprio capovolgimento. Il terapeuta - non importa se del corpo (quale è il medico generico) o dell’«anima» (come vorrebbe essere lo psicologo) - non è colui che, mosso da premura, «obbedisce» al suo assistito ma, all’opposto, è colui che a questi impone di assoggettarsi a una «cura», ormai totalmente spersonalizzata e tradotta nei costituenti chimici di un farmaco.
E tanto più valente sarà quel terapeuta che saprà svolgere la sua funzione tecnica nella forma più a-patica, evitando quel coinvolgimento emotivo/affettivo che potrebbe offuscare o compromettere la sua capacità di «curare». Fino al paradosso del medico perfetto - immune da ogni coinvolgimento personale, ignaro dell’identità e della «storia» del paziente, e proprio per questo in grado di «curarlo» secondo protocolli astratti universalmente convalidati, e dunque di principio «efficaci» per qualunque paziente, a prescindere da peculiarità individuali.
Non è nota l’origine del termine greco therápon. Si sa, tuttavia, che il suo significato richiama il latino comes - «colui che accorre accanto», «che sta vicino», «che assiste», magari senza «fare» nulla di preciso. Al culmine di un lungo percorso storico-concettuale, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà perfino consistere nel dettare al telefono o nel trasmettere per via informatica i nomi impronunciabili di alcuni farmaci.
CRITICA DELLA CONOSCENZA E DELLA RAGIONE MEDICA....
Alberto Malliani (1935-2006) tra medicina e politica
Prima viene il paziente
La grande lezione del clinico milanese: l’etica e il metodo che a scuola (e all’università) non si insegnano
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2015)
Alberto Malliani, notissimo e influente medico-intellettuale milanese scomparso nel 2006, coltivava una visione politica della medicina. Che non era l’idea di una medicina piegata alla politica, molto in voga nell’era cosiddetta post-moderna, e che spesso confonde politica ed economia - cioè descrive strumentalmente medici, medicina e sanità tenute al guinzaglio dalle multinazionali per emettere una condanna ideologica inappellabile per un presunto sistema complottistico scientifico-medico-affaristico-etc. Versione aggiornata delle paranoie populiste e fasciste per il complotto demo-giudo-pluto-etc.
Malliani non risparmiò negli ultimi anni dure critiche alle pressioni indebite esercitate dall’industria farmaceutica sul sistema medico di valutazione dell’utilità dei trattamenti, così come criticò l’aggressività e l’aziendalizzazione della ricerca medica. Riconosceva però il ruolo essenziale dell’industria nel processo sociale di produzione della salute. La lezione che ha lasciato, anche attraverso l’esempio, dimostra che per evitare le derive potenzialmente dannose di una domanda di salute fuori controllo, occorre investire in una formazione culturalmente più articolata del medico. Per farne non uno strumento politico-governativo di controllo dei comportamenti individuali o delle strategie di consumo del bene salute, ma un catalizzatore di consapevolezza critica per la sfera in continua espansione di possibili scelte in materia di salute, che le persone e i pazienti possono praticare esercitando l’autodeterminazione.
La Carta della professione medica, che concorse a redigere e che fu pubblicata nel 2002, andava in questa direzione.
L’idea di medicina politica che si coglie negli scritti del grande internista ha una tradizione nobilissima, che merita di essere richiamata brevemente perché non ha esaurito, diversamente dalle ideologie, la sua spinta propulsiva. La si può raccontare in quattro movimenti. Facendola iniziare con l’età moderna, quindi lasciando una volta tanto in pace Ippocrate, quasi esattamente quattro secoli fa.
Nel 1614 il medico ebreo sefardita Rodrigo De Castro pubblicava ad Amburgo il testo Medicus-politicus, che segna le origini della moderna etica medica con una ispirazione specifica nel richiamare l’attenzione pubblica verso la coincidenza tra virtù morali del medico e astensione dall’inganno o da pratiche fraudolente ai danni dei malati.
Circa un secolo dopo, nel 1738, il medico tedesco pietista Friedrich Hoffmann, pubblicava a sua volta testo sempre intitolato Medicus politicus, nel quale sosteneva che la fiducia e l’affidabilità che caratterizzano il rapporto medico paziente si fonda sulla partecipazione emotiva del medico per la condizione del malato e la competenza professionale.
Un terzo passaggio fondamentale ebbe luogo nel 1848, quando Rudoph Virchow, fondatore della patologia cellulare, definiva la medicina una «scienza sociale, e la politica niente altro che medicina su larga scala»: per Virchow la rinnovata forza politica della medicina si fondava sull’epistemologia sperimentale del metodo fisiopatopologico attraverso cui si potevano scoprire le cause immediate della malattie, quindi trovare sistemi di prevenzione e trattamenti per risolvere i problemi sanitari.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, sulla spinta dei successi realizzati sul piano scientifico e clinico, i metodi della sperimentazione medica diventavano norme politicamente e legalmente riconosciute nei paesi liberaldemocratici, per garantire la sicurezza e l’efficacia dei trattamenti. Insomma, la medicina ha storicamente portato la razionalità nella politica, consentendo di fondare l’etica sulla scienza. Non è poco.
Negli ultimi cinquant’anni le sfide della medicina si sono giocate su più fronti e hanno richiesto al medico quello che Malliani chiama “pensiero verticale”. Cioè una strategia epistemologica necessaria in quanto il paziente è fatto di molecole, cellule, tessuti, organi, etc. e legami sociali. Si deve essere pronti ad andare in su e in giù nel ragionamento causale a seconda delle indicazioni che vengono da prove, non da bias cognitivi o ideologici, contestualizzate sulla base dell’esperienza. «Il fatto è - scrive Malliani - che il pensare verticalmente è una delle operazioni che più richiedono metodo e consapevolezza: quindi una lunga abitudine. Ed è qui che appaiono ancora più chiare le manchevolezze della scuola che poi altro non sono che il riflesso delle manchevolezze della cultura dominante». C’è poco da aggiungere. Ma ai burocrati o politici italiani che progettano le riforme scolastiche poco interessa sapere quali sono le manchevolezze in chi arriva all’università impreparato.
Malliani era un clinico-ricercatore a trecentosessanta gradi. Sapeva cosa è e come funziona la scienza. Cosa che qualche medico infatuato dal potere o dai soldi, o solo ignorante, talvolta dimentica. «Un vero ricercatore - scrive - può cambiare idea su tutto (come ogni altro essere umano) ma non sul metodo. È questo uno dei pochi campi di totale fedeltà». Senza dimenticare che la ricerca di Malliani era guidata da un’idea teorica forte, quella di “malattia innervata” che lo portò a pubblicate importanti risultati sperimentali sul controllo nervoso della circolazione. Ergo farebbero meglio i medici, se prendono sul serio il loro lavoro, a smetterla di flirtare con le medicine complementari (omeopatia, medicine naturali, etc.) e altre forme di ciarlataneria, prive di metodo e teoria, per inseguire convenienze, ma imbrogliando così i pazienti.
Stante la sua idea della medicina come autentica dimensione politica, Malliani visse intensamente l’impegno civile, per esempio parlando e agendo contro l’uso della guerra per la soluzione delle controversie politiche. Negli ultimi anni insisteva su due fondamentali questioni. Da un lato la «mancanza di veri progetti che solchino il tempo», cioè che «quanto facciamo ha poco a che fare con una sapiente costruzione del futuro». E poi il tema della morte, cioè della gestione della fasi terminali della vita. Due questioni non così lontane tra loro. Aiutò la nascita di VIDAS, che offre assistenza gratuita ai malati terminali, e stigmatizzò il fatto che agli studenti di medicina si parla poco della morte o che le discussioni sull’eutanasia siano stucchevolmente moralistiche e ideologiche. «Morire bene - scriveva - è il più grande messaggio di vita che una persona può lasciare».
Pianta dei nonni del Molise si rivela arma contro i tumori
Iss brevetta mix con Prunus, a giugno in vendita come integratore *
I molisani conoscono da generazioni le proprietà benefiche delle sue foglie e dei suoi frutti dal colore blu, tanto da utilizzarli per farci un liquore, il trignolino, o in aggiunta al tabacco della pipa. Ora però, per la prima volta, uno studio scientifico condotto dall’Istituto superiore di sanità (Iss) dimostra che il Prunus spinosa trigno - un arbusto spinoso che cresce in particolare proprio in Molise, nelle aree più incontaminate della Regione - ha un importante effetto antitumorale: il suo estratto, addizionato con una particolare miscela di aminoacidi, si è infatti dimostrato in grado di uccidere il 70-78% delle cellule tumorali utilizzate per i test in vitro e di inibirne la proliferazione.
A illustrare le potenzialità della ’pianta molisana’ è la ricercatrice Iss Stefania Meschini, autrice dello studio in via di pubblicazione su riviste scientifiche, in occasione del IV Congresso internazionale di Medicina biointegrata : ’’Il prunus - spiega - è ricco di antiossidanti e può contrastare la capacità di proliferazione delle cellule tumorali. Nella sperimentazione in laboratorio, abbiamo trattato con l’estratto della pianta cellule cancerose di pazienti affetti da cancro a colon, polmone e cervice uterina. Abbiamo quindi osservato che, da solo, l’estratto non aveva effetti, ma addizionato ad un particolare complesso a base di aminoacidi, minerali e vitamine, denominato Can, è stato in grado di ridurre la sopravvivenza delle cellule tumorali ed ha portato a distruzione tra il 70 e il 78% delle cellule cancerose nell’arco di 24 ore’’. Il passo successivo, sottolinea la ricercatrice, ’’sarà passare alla fase dei test su animali, con l’obiettivo di arrivare, nell’arco di qualche anno, alla produzione di un nuovo farmaco antitumorale’’.
L’Iss, insieme all’azienda produttrice del composto, annuncia Meschini, ’’ha depositato il brevetto delle miscela Prunus-Can, e per questo la formulazione potrà essere disponibile a breve come integratore a supporto delle terapie chemioterapiche’’. L’estratto miscelato di Prunus, sottolinea il presidente della Società italiana di medicina biointegrata (Simeb) Franco Mastrodonato, ’’sarà ulteriormente testato dal’Iss nella formulazione di integratore e sarà disponibile, in vendita nelle farmacie su indicazione medica, da maggio-giugno. Ciò è reso possibile sulla base dei test che hanno confermato la non tossicità del composto e previa la registrazione già avvenuta del composto stesso presso il ministero della Salute’’.
Inoltre, ’’per motivi etici - precisa l’esperto - abbiamo ottenuto che il prezzo a confezione sia assolutamente accessibile, intorno ai 20 euro, rispetto ad un costo inizialmente stimato come molto più elevato’’. In occasione dell’Expo di Milano, poi, ’’lo studio sulle potenzialità del Prunus spinosa trigno - annuncia Mastrodonato - sarà presentato, il 25 giugno, alla comunità scientifica internazionale, nell’ambito di un convegno sulle terapie oncologiche integrate’’.
* ANSA, 19 aprile 2015 (ripresa parziale).
Il "coming out" (timido) del Prof. Corbellini
di Antonio Pirisi *
Fino a ieri collocavo G.Corbellini tra i più fieri avversari dell’omeopatia. Ora però nutro il sospetto che non sia (più) così e che anzi ne sia diventato un sostenitore convinto ma non ancora pronto a fare coming out.
Questa impegnativa affermazione risulterà perlomeno bizzarra se teniamo in conto (solo) il tenore delle ingiurie - imbroglioni, ciarlatanerie ecc. - che è uso rivolgere ad omeopati ed omeopatia, ma credibile se prestiamo attenzione anche allo stile retorico delle stesse. Lo dico da praticante: ci sono mille ragioni per criticare e dubitare dell’omeopatia e degli omeopati, prima tra tutte quella che ci vede avere idee molto diverse sul nucleo essenziale di personalità sul quale prescrivere i nostri rimedi.
Mille buone ragioni che però Corbellini trascura per poi andarsi a cercare, per muovere i suoi attacchi (e qui sta la stranezza che insospettisce), quelle che più balorde non si può.
La sua ultima performance è un articolo (‘Prima viene il paziente’, Il Sole 24ore 19/4/15) commemorativo della figura e dell’opera di Alberto Malliani nel quale, Corbellini, dopo aver ricordato come ‘l’idea teorica forte’ della ricerca del prof. Malliani si sostanziasse nel concetto di ‘malattia innervata’ (cioè a dire: le malattie qualunque sia l’organo in cui appaiono non sono avulse dall’organismo nella sua totalità) subito dopo, come se sussistesse una concatenazione causa-effetto, invita i medici: "se prendono sul serio il loro lavoro, a smetterla di flirtare con le medicine complementari (omeopatia ...) ... per inseguire convenienze, ma imbrogliando così i pazienti".
Ora, pur con tutta la cattiveria che c’è in giro, nessuno oserebbe mai pensare che una simile incongruenza argomentativa possa essere inavertitamente sfuggita a un intellettuale avveduto come Corbellini. Rimane dunque da accettare che egli l’abbia lucidamente voluta per smontare la tesi anti-omeopatia che dava ad intendere di volere invece sostenere. E tanto più vale quest’ipotesi, se consideriamo che neanche è concepibile che Corbellini ignori che, ormai qualche secolo fa, fù proprio S. Hanhemann a rappresentare l’organismo come una sorta di ‘sistema critico’. A evidenziare cioè quella proprietà per cui se una parte (... un organo) patisce una perturbazione, questa interessa tutte le parti del sistema.
Ecco, penso che Corbellini anche se in modo un po’ tortuoso, abbia voluto comunque (autorevolmente) dirci che molte tra le idee più interessanti della medicina moderna già erano esplicitate nelle teorie base dell’omeopatia! Prof. Corbellini, grazie del contributo alla causa e ... benvenuto tra noi.
Il "coming out" (timido) del Prof. Corbellini
Diagnostica.
Molte le analogie tra il ragionamento clinico e i metodi
investigativi della letteratura gialla.
E le qualità del detective ideale, osservazione, deduzione e conoscenza (Conan Doyle), dovrebbero ispirare il lavoro di ogni sanitario
Se il medico indaga come Sherlock Holmes
di Claudio Rapezzo (la Repubblica, 12.05.2015)
IN UN ’EPOCA della medicina caratterizzata dal ricorso sempre più “routinario” alle tecnologie diagnostiche, il ragionamento medico appare in crisi. Il rischio, oltre che di spendere una quantità eccessiva di denaro pubblico e privato, è di rendere approssimativo l’iter diagnostico del paziente coi relativi danni umani. Una breve riflessione sulle analogie fra il ragionamento diagnostico in medicina e i metodi investigativi della letteratura “gialla” potrebbe contribuire alla “causa” del metodo clinico, e quindi a migliorare la prestazione sanitaria. E la salute di tutti.
Le analogie fra metodo clinico e scienza dell’investigazione, fra grandi clinici e grandi detective, nonché i richiami incrociati fra medico e detective, fra crimine e malattia sono abbondantemente presenti nella letteratura, nel cinema e nella televisione. Sia il medico sia il detective hanno, come finalità principale del loro agire, l’identificazione del colpevole di una situazione abnorme e pericolosa (la diagnosi della malattia da un lato, l’identificazione dell’assassino dall’altro). Per arrivare a ciò, entrambi debbono, inoltre, reperire, archiviare e “gestire” una notevole quantità di informazioni sia tecnico- scientifiche, sia di cultura generale.
Il periodo storico e la classe sociale di riferimento dei due ambiti coincidono. Il poliziesco vive il suo momento di grande splendore nella seconda metà del XIX secolo, nel clima di fiducia nelle illimitate possibilità della scienza. Nello stesso periodo, la medicina registra l’affermarsi del più classico dei paradigmi indiziari, quello imperniato sulla semeiotica medica, la disciplina che consente di diagnosticare le malattie “interne” e quindi inaccessibili all’osservazione diretta, attraverso la valorizzazione di “segni” che, insignificanti agli occhi del profano, possono essere decifrati soltanto dall’esperto e lo conducono alla diagnosi finale.
Ma medicina e romanzo poliziesco sono collegati anche da rapporti strettamente letterari nonché da uno scambio (letterario) di ruoli. La storia della letteratura poliziesca è ricca di figure di medici: medici che indagano in prima persona, che affiancano i detective professionisti come esperti (in genere anatomo-patologi), medici assassini e medici vittime. Per non parlare dell’ampio bagaglio tecnico medico-scientifico a cui gli autori classici del poliziesco hanno spesso attinto per escogitare soluzioni raffinate per delitti sempre più sofisticati.
Per usare le parole che Sir Arthur Conan Doyle fa pronunziare a Sherlok Holmes ne Il Segno dei Quattro: «Tre sono le qualità necessarie al detective ideale, capacità di osservazione, deduzione e conoscenza». Questa affermazione è, di fatto, il manifesto ideologico di tutta la letteratura poliziesca, a forte matrice anglosassone, che si sviluppa fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, impersonata dai detective classici dell’epoca aurea del “giallo”: Auguste Dupin, Sherlock Holmes, Miss Marple, Hercule Poirot. Se queste tre caratteristiche continuano a rappresentare i pilastri fondamentali del ragionamento investigativo, emerge progressivamente nella letteratura poliziesca del Novecento l’importanza di altre due qualità: la capacità di ricostruzione psicologica e ambientale della vittima (teorizzata sia dal Maigret di Simenon sia da Padre Brown di Chesterton) e la capacità di percepire le incongruenze all’interno della scena del crimine (è il caso tipicamente del Tenente Colombo di Levinson & Link).
Come nel caso dell’investigatore, anche in quello del clinico “ideale” si realizza, o si dovrebbe realizzare, una fusione armonica fra tutti i modelli investigativi delineati in precedenza. Questa evenienza è però decisamente rara. I modelli proposti recentemente dal cinema e dalla fiction televisiva non sono necessariamente positivi. Il caso più emblematico è quello del Dr. House. Se da un lato lo schema mentale adottato per arrivare alla diagnosi è molto simile a quello di Sherlock Holmes, basato sulla valorizzazione di segni fisici “patognomonici” e sul ragionamento abduttivo, il modello clinico proposto è quello di un medico che preferisce occuparsi soltanto dei casi più rari e difficili, mentre gli altri pazienti sono per lui fondamentalmente una perdita di tempo.
* Direttore U-O Cardiologia, Policlinico Sant’Orsola, Università degli Studi di Bologna
Rivoluzioni
Un patto con il malato
contro la malattia
La Statale di Milano celebra i 90 anni, l’Istituto europeo di oncologia 20. Insieme organizzano un evento per trasformare il rapporto col paziente: «Va messo al centro, davvero»
di Paolo Foschini *
Mettere il paziente al centro: si fa presto a dirlo. Perché il paziente non è una macchina da aggiustare ma una persona da curare: appunto, quante volte l’abbiamo sentita? Perché il malato è un essere umano: ecchediàmine.
Calma, prima di continuare con l’ironia prendetevi un secondo e ricominciate daccapo. Perché questa volta, forse, potrebbe veramente cambiare qualcosa. Magari non da un giorno all’altro, d’accordo. Ma con una rivoluzione culturale seria: a partire dall’università. Per insegnare a chi studia medicina - tra le altre cose - che il dottore di domani sarà bravo non solo se sarà capace di scoprirmi addosso un tumore, ma anche se saprà spiegarlo ai miei e a me nel modo migliore, se mi aiuterà a capire le cure che dovrò affrontare, insomma s e mi coinvolgerà nelle terapie che mi prescriverà. Il tutto sancito da un Patto vero.
Un Patto per il Paziente, così lo chiameranno. Con l’aiuto in un prossimo futuro (anche) di app specifiche per tablet e smartphone. E magari di un «Tripadvisor del medico» esteso pure in Italia, sul modello dell’ormai mitico Heal thgrades. com americano, che consenta al paziente di lasciare scritto a beneficio altrui il suo commento sul medico che l’ha curato. Il tutto, insomma, affinché il dottore la smetta di trattare il «paziente» solo come colui che sopporta «con pazienza ». Le cure funzioneranno di più, le persone guariranno di più. Che poi è la «missione» del medico: o no?
Ed è questo il nocciolo del grande convegno con cui domani, 24 novembre, in un colpo solo si festeggeranno a Milano i 90 anni dell’Università Statale e i 20 dell’Istituto europeo di oncologia. Uniti per i Pazienti è il titolo che gli hanno dato. E a spiegarlo, nell’aula magna della Statale stessa, sarà proprio una signora ammalata: invitata a testimoniare in prima persona non solo l’utilità di un coinvolgimento consapevole nella gestione della malattia ma anche «quanta strada ancora ci sia da «fare».
Il Patto servirà a questo, a darsi degli obiettivi concreti e a sentirsi vincolati per realizzarli: approccio terapeutico basato sul rispetto della persona nella sua interezza, maggiore accesso delle persone a informazioni su prevenzione, cura, salute, collaborazione tra professionisti sanitari. Come spiega la professoressa Gabriella Pravettoni, anima sostanziale dell’intero progetto, che alla Statale è ordinario di Psicologia delle decisioni oltre a guidare il Centro interdipartimentale di Ricerca e Intervento sui Processi decisionali, dirigendo allo stesso tempo l’Unità di Psiconcologia allo Ieo: «Una scelta condivisa tra medico e paziente ha un influsso decisivo sull’efficacia della cura».
Per sancire questo impegno solenne il Patto in questione sarà non solo, durante il convegno, formalmente annunciato ma anche formalmente firmato: e a sottoscriverlo saranno da una parte un paziente, scelto simbolicamente a rappresentarli tutti, dall’altra il rettore della Statale, Gianluca Vago: «È un patto fondativo - rivendica quest’ultimo - che impegna la nostra università a porre le persone malate al centro dei processi educativi di tutti gli operatori. Deve essere il malato, non la malattia, non il medico o l’infermiere, a guidare l’agire medico. Vogliamo che i nostri medici siano prima di tutto degli ottimi professionisti; e che per questo siano anche capaci di ascoltare, informare, utilizzare con la massima efficacia le risorse di cura, di non promettere l’immortalità ma il rispetto della dignità degli individui. Per un nuovo umanesimo, in un tempo di meraviglia tecnica».
Su questo punto il gruppo di ricercatori guidati dalla professoressa ha già vinto tre progetti europei: quello per lo sviluppo di un software che aiuti a costruire in tempo reale un profilo psicologico del malato; quello chiamato Mind the Risk («occhio al rischio») per assistere i pazienti cui un test genetico ha fatto sapere di avere una probabilità di tumore superiore alla media; infine il progetto IManageCancer per inventare app specifiche al servizio dei malati. E non è ancora tutto se si pensa all’ulteriore idea - appena accennata sopra - con cui la ricercatrice Alessandra Gorini, collaboratrice della professoressa Pravettoni e psicologa a sua volta, ha iniziato a studiare il modo per lanciare al più presto anche in Italia la prima piattaforma attraverso cui i pazienti potranno mettere in Rete il loro giudizio sui medici che li hanno curati.
«Dobbiamo entrare - dice il fondatore dello Ieo, Umberto Veronesi - in una fase nuova: la medicina della persona. Conoscere quindi non solo le connotazioni della sua malattia ma la percezione, l’elaborazione mentale e la memorizzazione della malattia stessa».
A discuterne domani con tutti loro saranno anche Massimo Cacciari, professore emerito di Filosofia all’Università San Raffaele, e il gesuita Carlo Casalone, medico e presidente della Fondazione Carlo Maria Martini. A chiudere con un sorriso saranno comunque Aldo, Giovanni e Giacomo.
Paolo Foschini
La fedeltà al giuramento d’Ippocrate, il medico difende la sua indipendenza
di Adriana Bazzi (Corriere della Sera, 21.06.2014)
La rivolta parte dall’Ordine dei medici e degli odontoiatri di Milano: noi continueremo a mantenere il vecchio giuramento d’Ippocrate. Quello nuovo, che è stato discusso a Bari nei giorni scorsi e costituisce una sorta di prefazione al Codice deontologico dei medici (appena approvato a Torino), è dannoso e pericoloso.
Dannoso, secondo il presidente dell’Ordine milanese Roberto Carlo Rossi, perché elimina il concetto di «alleanza terapeutica» e la sostituisce con una più generica «relazione di cura» che non sottolinea abbastanza il valore di uno stretto rapporto medico-paziente. Pericoloso, perché minaccia l’indipendenza della categoria e rischia di aprire la porta a derive come il caso Stamina o la richiesta per i medici di pronto soccorso di denunciare gli immigrati clandestini (è stata, infatti, cancellata la frase che recitava: «Osserverò le norme giuridiche che non sono in contrasto con la mia professione»).
Così i nuovi medici che si laureeranno nei prossimi mesi e si iscriveranno all’Ordine di Milano (ma probabilmente anche a quello di Bologna e di Ferrara, che si sono posti sulla scia di Milano) continueranno a giurare sul vecchio testo che, rispetto alla versione originale del medico di Kos, è stato via via aggiornato fino all’ultima versione del 2006-2007.
Il rifiuto da parte dell’Ordine milanese del nuovo giuramento è il primo segnale concreto di una protesta che riguarda il nuovo Codice di deontologia medica, vissuto come non necessario, dal momento che in otto anni la professione medica non è cambiata radicalmente e, in alcuni punti, inaccettabile (per esempio, l’obbligo di assicurazione per il medico).
Ma se respingere il nuovo giuramento di Ippocrate è semplice perché su questo tema gli ordini possono deliberare autonomamente, ricorrere contro un codice con tanto di articoli è molto più complicato. Rifiutare il nuovo e confermare il vecchio creerebbe non pochi problemi agli ordini in caso di provvedimenti disciplinari e ai tribunali in caso di contenziosi giudiziari .
Codice di deontologia medica
Sulla pelle dei pazienti
Il nuovo testo ricalca quello del 2006, ma con un significativo peggioramento che abbassa il profilo etico della professione
di Gilberto Corbellini (il Sole 24 ore domenica, 15.06.2014)
Chi ha redatto e approvato il nuovo Codice di Deontologia Medica non deve aver letto il libro di Carlo Augusto Viano La scintilla di Caino (Bollati Boringhieri), dove si dimostra che la coscienza del medico, via via che la medicina è diventata un mezzo di liberazione dell’uomo, si trasformava da strumento per proteggere i pazienti da abusi, a pretesto per rifiutarsi di rispettare decisioni che rientrano nell’esercizio dei diritti fondamentali dell’individuo.
L’arcinota litania del medico «che agisce in scienza e coscienza» è tirata in ballo per giustificare tutto, ma anche il suo contrario. Mentre la ricerca neuroscientifica getta luce sulla scarsa affidabilità morale della coscienza - nonché su aspetti rilevanti anche per le conseguenze dei disturbi che la colpiscono - proprio i medici si ostinano a pretendere di far prevalere la "loro" di coscienza, a scapito di quella dei pazienti. In particolare rispetto al diritto all’autodeterminazione.
Il nuovo codice non è cambiato molto, rispetto a quello del 2006 (quindi recentissimo), ma significativamente in peggio. Come rileva anche Sandro Spinsanti, che ha cominciato a insegnare etica medica in Italia dal 1976 e qualcosa ci capisce, in un’editoriale pubblicato sul sito di Aifa (http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/nuovo-codice-medico-deontologico-tanta-ombra-sotto-il-sole).
Leggiamo dal nuovo articolo 1: «Il codice, in armonia con i principi etici di umanità e solidarietà, e civili di sussidiarietà, impegna il medico nella tutela eccetera». Nel 2006 recitava: «Il comportamento del medico anche al di fuori dell’esercizio della professione, deve essere consono al decoro e alla dignità della stessa, in armonia con i principi di solidarietà, umanità e impegno civile che la ispirano».
A parte che era scritto meglio, la scelta di specificare che umanità e solidarietà sono principi etici, e di introdurre il principio civile (unico, quindi perché il plurale?) di sussidiarietà, significa fondare il Codice su sentimenti marcatamente religiosi; al di là delle valenze politico-economiche assunte dalla sussidiarietà nell’ambito sanitario. Perché non anche equità, beneficialità e rispetto dell’autonomia del paziente?
Di libertà e autonomia si parla all’articolo 4 e altrove: ma solo per il medico. Una parte dei medici critica l’inserimento degli articoli sulla «medicina potenziativa ed estetica» e sulla «medicina militare», ritenuti frutto di pressioni extra-professionali. E vi è chi lamenta la scomparsa di termini come «comparaggio», «eutanasia» e «dovere». Gli ordini di Bologna e Milano minacciano di non applicare il nuovo Codice. Valeva la pena generare tante insoddisfazioni?
L’articolo sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento» sembra copiato dalla pessima legge approvata (solo) dal Senato nella scorsa legislatura. Anche quello sulla «Procreazione medicalmente assistita» è poco conforme alla Costituzione. Perché scrivere che è vietata la «selezione etnica o genetica», nonché «la produzione di embrioni ai soli fini di ricerca»?
Intanto non si capisce a chi possa venire in mente di praticare la «selezione etnica», e come potrebbe in Italia. Ma la diagnosi preimpianto, giudicata legittima dalla Corte di Strasburgo e da un tribunale italiano, è una forma di «selezione genetica», che consente a una coppia di evitare l’aborto per non far nascere un figlio con grave malattia genetica. Inoltre, la produzione e l’impiego di embrioni (umani!) nella ricerca è lecito e legittimo in alcuni Paesi civili.
Nonostante il caso Stamina, l’Ordine non ha pensato di aggiornare gli articoli sui trapianti di organi, tessuti e cellule, dicendo qualcosa sul ruolo del medico al fine di evitare che malati disperati cadano preda di ciarlatani e intraprendano costose e dannose avventure. Una conferma che sulla vicenda Stamina i vertici dell’Ordine sono stati asfaltati per pavidità o calcolo.
Invece di dedicarsi ad accumulare potere e cariche tra loro in conflitto (il presidente è anche senatore eletto nelle file del Partito Democratico), dovrebbero, forse, farsi un esame di... coscienza. Dato che dei medici hanno aiutato Vannoni & Co., nonostante l’articolo 13 del Codice: «Il medico non deve adottare né diffondere terapie segrete». D’altro canto, la comunità degli scienziati muoveva ogni possibile angolo del mondo in patria e fuori (premi Nobel, accademie e nostri politici) offrendo tutte le informazioni e i dossier risultanti dalle loro indagini sull’infondatezza e gli interessi economici di Stamina, e senza mai mascherarsi dietro la «compassione non compassionevole» all’italiana.
Se i medici non capiscono che l’informazione che rende valido il consenso deve prima di tutto essere veritiera, persisterà il rischio che altri comitati etici compiano l’errore di quello degli Spedali Civili, che ha dato il via libera ai trattamenti Stamina e all’abuso di bambini come cavie.
L’articolo più incredibile è il 15: «Sistemi e metodi di prevenzione, diagnosi e cura non convenzionali». Scandaloso per i modi ipocriti in cui è scritto, che smentiscono tutto quello che nel resto del Codice si dice circa l’impegno (mai dovere!) del medico ad attenersi alle conoscenze e prove scientifiche, quando queste sono disponibili, nell’esercizio della professione.
All’origine della revisione del Codice sembra esservi l’accordo tra la parte politica dei medici affetta da tic antiscientifici, che vuole sdoganare le medicine alternative e accentuare la connotazione burocratico-amministrativista della medicina, e la parte che vuole ristabilire il paternalismo e alcuni valori illiberali, temporaneamente superati dalla storia. Un compromesso fatto sulla pelle dei pazienti e a scapito dei loro diritti fondamentali, che definisce un profilo più tecnico, che scientifico e intellettuale, per il medico.
Se si confronta l’evoluzione storica dei codici deontologici dei medici, con quelli degli infermieri, sembra che mentre questi ultimi cercano di alzare il profilo etico della professione, i medici procedano in senso contrario. Per non dire dell’effetto che fa costatare la farraginosità e lo stile involuto del Codice italiano, a fronte della limpidezza, per esempio, di quello francese.
La risposta di chi pratica medicina non convenzionale
di Prof. Paolo Roberti di Sarsina, medico psichiatra, docente al master in Sistemi sanitari dell’Università Bicocca di Milano... *
Ho letto con stupore l’ennesimo attacco della redazione di Wired alle Medicine Non Convenzionali, che non fa che dimostrare superficialità nell’analisi di un fenomeno non certo ipersemplificabile, come in Italia spesso la stampa tenta di fare.
Innanzitutto, nella letteratura scientifica internazionale indicizzata - contrariamente a quanto si sostiene nell’articolo - vi sono certamente prove di efficacia in ambito clinico umano che mostrano nessi funzionali tra le medicine tradizionali, complementari e alternative, la diagnostica preventiva, la prevenzione mirata e i trattamenti personalizzati, sia nella formazione alla salute sia nella pratica clinica.
Vi sono già molte ricerche inerenti l’efficacia di trattamenti non convenzionali della persona, nella sua natura di unicum fisico e psichico che vive in relazione dinamica con la natura e la società. Nelle Mnc si realizza per ciascuna persona un processo terapeutico tailored-made, grazie alla rinnovata relazione tra la persona e il terapeuta con fiducia, compassione e rispetto delle scelte individuali.
Vi sono metodi di ricerca clinica innovativi per valutare le medicine tradizionali, complementari e alternative e altri interventi di tipo salutogenetico, che, attraverso la promozione dei comportamenti favorevoli allo star bene - proprio e dei propri cari - forniscono alla persona gli strumenti per scegliere compiutamente con consapevolezza e responsabilità i propri percorsi di salute, riducendo così, tra l’altro, le disuguaglianze culturali, sociali, razziali e religiose.
La parola “medicina” è diversa per ogni cultura e popolo che ne ha tratto beneficio, per cui esistono de facto tanti sistemi di guarigione e cura quante culture esistono nel mondo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità circa l’80% della popolazione mondiale che vive nei paesi del Terzo Mondo dipende dai loro sistemi autoctoni tradizionali quali fonti primarie di cura, ed esse sono certamente efficaci, ovviamente in misura diversa le une dalle altre. Non meno di 100 milioni di europei fanno abituale ricorso a prestazioni sanitarie di medicine non convenzionali.
In Italia ricorre alle medicine non convenzionali il 14,5% della popolazione (Eurispes 2012). Tutte vittime dell’effetto placebo? Tutti irresponsabili o ignoranti i medici iscritti all’Albo che le prescrivono? Il problema è che le istituzioni sanitarie nazionali non hanno finora voluto né sono state capaci di mettersi al passo di questa realtà sociale ampiamente diffusa, disattendendo anche le risoluzione sia del Parlamento europeo sia del Consiglio d’Europa, e non adottando il piano strategico sulle Mnc dell’Organizzazione mondiale della sanità. L’Oms è un’altra pericolosa organizzazione new-age lontana dalla scienza...?
Pubblicare articoli come il vostro, sottendendo questo, dimostra una provincialità tutta italiana e che non vi fa onore. È patrimonio comune, ampiamente consolidato a livello nazionale e internazionale, che le medicine tradizionali e non convenzionali hanno definitivamente acquisito un ruolo stabile d’innovazione nel campo della salute, circostanza questa che è confermata anche dall’enorme interesse teorico e pratico che si manifesta sempre più in ambito universitario, ospedaliero e di assistenza sanitaria territoriale.
Peccato che per produrre una grande mole di prove di efficacia, come certamente - in questo sono d’accordo con voi - sarebbe opportuno fare, sono ovviamente necessarie risorse per la ricerca di qualità. È paradossale che l’establishment accademico e istituzionale chieda alle medicine tradizionali e non convenzionali prove di efficacia quando non esistono, salvo rari casi, fondi erogati a tale scopo.
Ostracismo miope confermato dalle Istituzioni italiane: basti pensare che il ministero della Salute non ha mai diffuso la notizia che la Commissione europea, nell’ambito del Settimo piano europeo pluriennale di finanziamenti per la ricerca attualmente in vigore, ha finanziato il Consorzio CAMbrella per la ricerca in ambito delle medicine tradizionali e non convenzionali. Una rivista attenta come la Vostra non si è preoccupata di indagare i dati di quella importantissima e imponente ricerca.
Vi è necessità di nuovi paradigmi nel pluralismo della scienza, e questa è la sfida per il futuro non solo della biomedicina quale sistema dominante - come giustamente dice l’Organizzazione mondiale della sanità - ma dell’intera scienza del XXI secolo.
Prof. Paolo Roberti di Sarsina, medico psichiatra, docente al master in Sistemi sanitari dell’Università Bicocca di Milano, esperto in medicine non convenzionali del Consiglio superiore di sanità, membro del comitato scientifico dell’Aiot - Associazione medica italiana di omotossicologia e fondatore dell’Ente morale associazione medicina centrata sulla persona onlus
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Fonte: Wired, 27 maggio 2014
Lettere
L’accesso all’arte medica e i criteri di selezione
Quando smetteremo di usare i quiz per misurare la preparazione e l’intelligenza?
Risponde Umberto Galimberti *
Quest’anno ho fatto il test di ammissione a medicina. Premettendo che diventare un medico è sempre stato il mio sogno, purtroppo oggi questo desiderio si è scontrato con 3.400 ragazzi e 100 domande da risolvere in circa due ore. La professione medica mi ha sempre affascinato, e, pur essendo conscia dei pro e dei contro che comporta, l’ho sempre vista come qualcosa di altamente nobile e non disgiungibile dall’arte, dalla letteratura, dalla musica e soprattutto dall’empatia, dal "sentire insieme".
A mio avviso il sistema di reclutamento adottato è inutile e inefficace, in grado solo di decelerare e rendere più macchinoso e stressante l’accesso alle facoltà. Chi non entra al primo anno decide di riprovare l’anno dopo, sperando che un anno di biologia, farmacia, chimica o biotecnologia riesca a dare gli strumenti adatti per affrontare la prova.
Perché invece di un test a crocette che non valuta oggettivamente le competenze del candidato, fare un colloquio orale o fare un test che indaghi le motivazioni, le cause e gli ideali profondi che muovono e sostengono il ragazzo (cose che, a mio modesto parere, valgono di più del sapere rispondere a seguito di quale avvenimento morì Anita Garibaldi).
Vedo coetanei demotivati, demoralizzati, che perdono la fiducia nel sistema italiano ancora prima di avere messo piede all’università. Il costo per sostenere ogni test alle università pubbliche si aggira sui 50 euro. Per non parlare delle università private (150 euro a Milano) e i corsi preparatori ai test di ammissione (4mila euro). Ogni anno che passa il numero dei candidati aumenta. La corsa al posto fisso in anni di crisi si fa sempre più accanita: la scelta di medicina è dunque dettata da una necessità interiore o dal mero business?
Lettera firmata
Proprio in questi giorni leggo che, a causa del pensionamento di un numero significativo di medici, avremo nel prossimo futuro una carenza di operatori sanitari come già sta avvenendo in Inghilterra. Ciò nonostante la professione medica è ambita da un numero eccessivo di aspiranti mossi dalle più disparate motivazioni (non tutte nobili), per cui un criterio selettivo si rende necessario. Abbiamo scelto il peggiore, costruito su test a domande singole o multiple sui più svariati argomenti, pochi dei quali attinenti alla verifica di una propensione per le discipline scientifiche e sperimentali.
La procedura potrebbe essere corretta con delle prove scritte attinenti le materie studiate nelle scuole secondarie superiori come fisica e chimica, superate le quali si accede a un colloquio in cui si verificano le motivazioni e la personalità del candidato, perché l’arte medica richiede, oltre a una seria preparazione scientifica, anche una disposizione umana alla cura, di cui spesso i pazienti lamentano la mancanza. L’inconveniente di questo metodo, comunque più serio degli attuali test di accesso, consiste nel fatto che esaminare 3.400 ragazzi richiede tempo, spazio e un gran numero di esaminatori di cui la nostra organizzazione sanitaria non dispone. Un’altra procedura potrebbe essere quella di consentire a tutti i candidati l’accesso, salvo poi una verifica dopo due anni, con selezione di coloro che hanno riportato le migliori valutazioni in termini di esami sostenuti e di risultati raggiunti. Questo metodo, che in assoluto sarebbe il migliore, ha come suo inconveniente il fatto che le nostre strutture universitarie e ospedaliere non sono in grado di ospitare per due anni un numero così elevato di studenti.
Detto questo, il metodo selettivo a quiz resta comunque il peggiore perché verifica solo (quando ci riesce) l’intelligenza binaria dei candidati chiamati a dire solo "vero" o "falso", quando invece la medicina di oggi, che nella cura impiega opportunamente i protocolli collaudati, sta sempre più spostando l’attenzione sulle condizioni particolari relative all’insorgenza e al decorso della malattia che sono diversi da individuo a individuo. Qui l’intelligenza binaria testata dai quiz non serve proprio a niente.
Occorre un’intelligenza complessa che sappia valutare molti fattori che diversamente si presentano e si combinano nei singoli individui. In ogni caso la difficoltà di adottare criteri di selezione più idonei, sul tipo di quelli sopraindicati, non autorizza a proseguire con la scorciatoia dei quiz, il cui valore selettivo non differisce molto da un’estrazione a sorte.
* la Repubblica/D, 22.10.2011
Nessun ritrattista è mai stato così negligente da trascurare le spiccate peculiarità nelle fattezze di una persona di cui desideri effettuare un ritratto o da considerare sufficiente fare un paio di cerchi rotondi sotto la fronte a guisa di occhi, tracciare tra di loro una linea diretta dall’alto verso il basso, sempre nello stesso modo, a guisa di naso e, sotto, mettere una fessura di traverso alla faccia che dovrebbe stare per la bocca di questa persona o di qualsiasi altra:
nessun ritrattista, lo affermo, è pervenuto a delineare il viso umano in un modo così rozzo e trascurato; nessun naturalista ha mai lavorato in questo modo nel descrivere le creazioni della natura, in tal modo mai hanno agito zoologi, botanici o geologi.
Soltanto la semiologia della medicina convenzionale è arrivata a lavorare in questo modo nel descrivere i fenomeni morbosi.
S. Hahnemann, L’osservatore medico (frammento),
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C ’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti.
Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
SAPERE AUDE!
PAROLA DI ENRICO BERTI: Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa».
E’ talmente vero quello che pensa Berti (e, con lui, la maggioranza dei suoi colleghi di filosofia e storia della filosofia) che qualsiasi studente e ogni studentessa per educarsi all’uso della sua propria intelligenza e alla sua "facoltà di giudizio" deve ricorre non alle sue (e loro) letture di Kant, ma a qualche perito o a qualche manuale di estimo: l’estimo è la disciplina che ha la finalità di fornire gli strumenti metodologici per la valutazione dei beni per i quali non sussiste un apprezzamento univoco!!!
MATERIALI SUL TEMA, NEL SITO, IN:
Gioacchino - da Fiore!!!
Per fortuna l’uomo non vede tutto. Per esempio le onde radio
di Edoardo Boncinelli (Corriere della Sera, 21.06.2011)
Dal punto di vista astratto e speculativo questo è quasi certamente il secolo della complessità e «di fronte alle sfide della complessità assistiamo a una proliferazione di metodi per semplificare» , tanto le cose del mondo che quelle umane. Con tale affermazione inizia l’interessante libro La semplessità di Alain Berthoz (Codice Edizioni, traduzione di Federica Niola, pagine 224, e 25), un grande studioso della neurobiologia del movimento. Molte delle semplificazioni che ne derivano sono però banali se non puerili, perciò «a complemento delle teorie della complessità bisogna gettare le basi di una teoria della semplessità che, in qualche modo, contenga una parte di complessità».
Il nostro autore introduce così il termine semplessità, inglese simplexity: «La semplessità è complessità decifrabile, perché fondata su una ricca combinazione di regole semplici» e rappresenta la strategia adottata dagli esseri viventi per affrontare con successo le sfide poste dalla complessità del mondo. E ancora: «La parola riassume, a mio parere, una necessità biologica comparsa nel corso dell’evoluzione per permettere la sopravvivenza degli animali e dell’uomo sul nostro pianeta: nonostante la complessità dei processi naturali, il cervello deve trovare una serie di soluzioni, e queste soluzioni derivano da principi semplificativi» .
Quella che l’autore ci propone non è una teoria solida e compatta, ma piuttosto uno schema di spiegazione che può preludere a una vera e propria concezione esplicativa generale. Si procede per flash e per accenni, ma questo costituisce proprio il fascino del libro. Si viene infatti guidati con mano sicura all’esplorazione dei «trucchi» del vivente, di come cioè gli esseri viventi percepiscono le cose, si orientano, si muovono, agiscono, esplorano il mondo e lo concettualizzano.
Non rovineremo al lettore il piacere di questa lettura, una delle più interessanti che si possano immaginare, ma toccheremo solo alcuni punti. Prendiamo ad esempio la percezione, ovvero la capacità di renderci conto del mondo circostante. Noi non percepiamo tutto, per esempio non vediamo tutto, ma solo quello che ci riguarda direttamente e che ci serve per progettare le nostre azioni. Fondamentale è questo concetto: noi percepiamo per poter agire. Percepire e agire sono una cosa sola, un’unica esigenza biologica; se non percepiamo correttamente non possiamo agire in maniera congrua e se non agiamo in maniera congrua e appropriata è inutile percepire.
Così, per riprendere il discorso di poco sopra, se vedessimo tutto non potremmo vedere niente e fare niente. È noto che i nostri occhi sono sensibili soltanto a quello che noi chiamiamo luce, che rappresenta solo un piccolissimo segmento di tutte le possibili onde elettromagnetiche. Sembra una limitazione, ma cerchiamo di immaginarci che cosa vedremmo se fossimo sensibili per esempio alle onde radio. Ogni stanza del nostro mondo è piena di onde radio, come si può verificare con una radiolina o con un telefono portatile. Se le vedessi, ogni ambiente sarebbe opaco, come pieno di una fitta nebbia: io vedo perché questa nebbia non la vedo. Un elemento di grossa semplificazione del reale, una semplificazione costruttiva, ma solo un preambolo alla concettualizzazione e alla coscienza. I viventi sono un miracolo e noi un miracolo nel miracolo.
SCUOLA DI MEDICINA OMEOPATICA DI VERONA:
Seminario con Fritjof Capra dal titolo : "Omeopatia: Medicina della complessità dell’ Uomo e del Vivente"
da lunedì 24 ottobre a domenica 30 ottobre 2011
Con Fritjof Capra al Seminario parteciperanno come relatori: Paolo Benedetti, Gianluca Bocchi, Ernesto Burgio, Claudio Cardella, Fiorella Cerami, Ciro D’Arpa, Nicola Del Giudice, Vittorio Elia, Giuseppe Fagone, Daniela La Barbera, Francesco Marino, Dario Spinedi, Maurizio Trionfi
Contro il caos le promesse dei sistemi complessi
Uno degli elementi che hanno contribuito al grande successo dell’approccio scientifico è la capacità di fare previsioni verificabili. Conoscendo le posizioni e le velocità dei pianeti ad un dato istante, le leggi del moto consentono, ad esempio, di prevedere quando ci sarà la prossima eclissi solare.
di Francesco Vaccarino (La Stampa/TuttoScienze, 15.06.201)
Le più recenti evoluzioni dei sistemi di telecomunicazione hanno consentito di condividere un’enorme quantità di informazioni attraverso le reti e hanno favorito la nascita di sistemi detti socio-tecnologici. L’uomo, d’altra parte, ha cercato da sempre di potenziare le sue capacità mediante la tecnologia. A partire dalla clava, mentre con il cannocchiale abbiamo avuto una super-vista per vedere le galassie lontane, con il telefono un super-udito per parlare con un amico a 10 mila chilometri di distanza e così via.
Ora, crediamo per la prima volta in modo così imponente, l’uomo ha iniziato a potenziare le sua capacità sociali. Da sempre si è radunato in gruppi, condividendo le informazioni per la caccia e la raccolta dei frutti. Questo ha poi consentito la nascita dell’agricoltura e le successive evoluzioni. Già i primi mezzi di comunicazione avevano aumentato la possibilità di condividere il proprio stare nel mondo con gli altri. La scrittura, la posta, il telegrafo erano stati passi importanti. Con Internet e i social network l’uomo ha la possibilità di comunicare in modo istantaneo a milioni di altri le sue emozioni, i suoi pensieri, i suoi sentimenti. Siamo diventati un mondo interconnesso: i nostri neuroni, attraverso la Rete, comunicano con quelli di migliaia di altri. Noi condividiamo spazi mentali.
Dai nostri neuroni, attraverso l’interconnessione e l’interazione, è emersa la mente e con essa la coscienza. Dalla connessione e condivisione di informazioni tra milioni di esseri umani stanno emergendo fenomeni collettivi assolutamente nuovi. Forse un giorno parleremo di mente collettiva?
I paradigmi di interpretazione di tipo riduttivo o deterministico non sono in grado di dare modelli soddisfacenti di questi fenomeni, né di fare previsioni credibili. La scienza dei sistemi complessi cerca di costruire modelli e paradigmi in grado di aumentare la comprensione anche di queste novità. Per fare ciò c’è la necessità di una maggiore interazione tra i ricercatori delle varie discipline. Un tema come la comprensione della dinamica dei social network coinvolge potenzialmente una gamma di conoscenze che va dalla psicologia alla matematica, dalla fisica alle scienze sociali, dall’ingegneria alla medicina.
Il caos politico ed economico che caratterizza questa prima parte del secolo dovrebbe spingere la classe dirigente a rendersi conto che il mondo è cambiato e che solo la comprensione scientifica di queste novità potrà consentire all’umanità di governare il cambiamento senza esserne travolta. Sarebbe un atto di saggezza, che potrebbe presto divenire una necessità.
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Gli scienziati si sfidano sulla complessità
"New Scientist" ha recentemente dedicato la copertina alla fine dell’indeterminazione È l’addio a Heisenberg?
Per Barabási la quantità di dati disponibili oggi ci permette di scoprire la trama nascosta sotto l’apparente casualità
Gli eventi sono prevedibili? Saggi e articoli si confrontano sul tema
di Massimiano Bucchi (la Repubblica, 15.06.2011)
I ricercatori del Children’s Hospital di Boston non riuscivano a darsi una spiegazione. Da qualche tempo, gli accessi al pronto soccorso registravano un notevole calo, concentrato soprattutto in alcune giornate. Poi un ricercatore ebbe un’intuizione guardando una partita di baseball: quell’anno i Boston Red Sox avevano ripreso a vincere. Controllò il calendario delle partite e scoprì che le visite al pronto soccorso diminuivano sistematicamente in occasione delle partite della squadra. Non solo: più una partita era importante e i relativi ascolti televisivi aumentavano, più gli accessi al pronto soccorso diminuivano. I ragazzi incollati davanti al televisore correvano minori rischi di farsi male, e chi soffriva di piccoli disturbi era più portato a tollerarli o rimandare l’intervento medico. Un fenomeno molto simile è documentato per i bambini in occasione dell’uscita di una nuova avventura di Harry Potter: nelle giornate immediatamente successive, il Radcliffe Hospital di Oxford registrava un crollo degli infortuni infantili.
Sono alcuni degli esempi con cui lo studioso delle reti Albert-László Barabási affronta, nel suo ultimo libro Lampi. La trama nascosta che guida la nostra vita (Einaudi), una nota questione: si può prevedere il comportamento umano? «Di fatto» si chiese nel 1948 Karl Popper «possiamo prevedere le eclissi solari con un elevato livello di precisione e con largo anticipo. Perché non dovremmo essere in grado di prevedere le rivoluzioni?». Ma la sua risposta fu categoricamente negativa. Per Popper, le previsioni erano possibili per sistemi stazionari, ripetitivi e relativamente isolati dall’esterno - e questo non è il caso del comportamento umano e dei processi sociali.
Barabási è convinto che questa partita debba essere ora riaperta. La sua convinzione è che la sfida sia stata sin qui persa non per «un problema di metodo, bensì di dati». È questa, secondo lui, la novità del XXI secolo: l’enorme quantità di dati e la possibilità di elaborarli in modo sempre più sofisticato. Dati che permettono di tracciare le nostre ricerche sul web, le nostre telefonate, i nostri spostamenti sotto gli occhi di telecamere sempre più ubique, perfino i movimenti delle banconote nelle nostre tasche grazie a siti come wheresgeorge.com (in cui numerosi volontari registrano gli "avvistamenti" di banconote sul web attraverso i numeri di serie).
Così l’autore ci conduce in una variegata esplorazione nel tempo e nello spazio, passando con disinvoltura dall’annus mirabilis di Einstein alle disavventure di un artista contemporaneo che per fugare i sospetti del’FBI sui suoi movimenti ha deciso di documentarli giorno per giorno in un sito web che è diventato la sua opera principale.
Ad incombere sul libro è una sorta di duello intellettuale a distanza con il (mai citato) Cigno Nero di Nassim Taleb e la sua critica di gran parte della tradizione previsionale. Taleb ci ammonisce a «non guadare un fiume se la sua profondità media è di un metro e mezzo», giacché, come nell’attraversamento di un fiume, in numerosi ambiti del comportamento sociale non valgono le medie, le stime e le aspettative ragionevoli, ma i casi e i valori estremi, per quanto eccezionali.
Barabási, più ottimisticamente, ritiene che l’inedita - e come lui stesso riconosce, inquietante - disponibilità di dati ci apra oggi una possibilità di considerare i comportamenti sociali «prevedibilmente imprevedibili»; di scoprirne la trama nascosta sotto l’apparente casualità. E come nel "triplice duello" de Il buono, il brutto e il cattivo, entrambi hanno un "nemico comune": l’abuso di curve di Gauss e distribuzioni di Poisson che ci illude sulla possibilità di previsioni semplici e di comportamenti uniformi.
Un duello che richiama discussioni tornate vivaci anche in ambito fisico ed epistemologico. Recentemente la rivista New Scientist ha dedicato la copertina alla "fine dell’indeterminazione", chiedendosi se sia giunto il momento di dire "addio a Heisenberg" e al suo celebre principio. La sfida arriverebbe oggi da un’ipotesi del fisico di Zurigo Mario Berta, già surrogata da alcuni lavori sperimentali e legata ad effetti quantistici che implicano correlazioni tra due particelle, per quanto distanziate. Altri studiosi, più cauti, considerano queste correlazioni e l’indeterminazione come "facce diverse della stessa medaglia". Almeno due aspetti centrali sembrano però sfuggire completamente a Barabási.
In primo luogo la possibilità che questo "diluvio di dati" possa risultare di scarsa utilità, se non addirittura pernicioso, in assenza di solidi modelli interpretativi e di un corrispondente sviluppo concettuale.
D’altra parte, né lui né Taleb si interrogano a sufficienza sul perché le nostre società abbiano sviluppato una sorta di cecità selettiva che le porta a ignorare eventi estremi o difficilmente prevedibili. Eppure la storia della "farfalla di Lorenz", che pure è citata in Lampi, è estremamente istruttiva. Ciò che l’articolo originale (1963) del teorico del caos Edward Lorenz sottolineava è la sensibilità di un sistema, nel lungo periodo, a piccole variazioni nelle condizioni iniziali - da cui, come corollario, la difficoltà di ottenere modelli previsionali soddisfacenti. La cultura popolare l’ha interpretata tuttavia in un senso deterministico diametralmente opposto, come capacità di tracciare connessioni impercettibili a grande distanza e perfino di alterare opportunamente il corso degli eventi - vedi film quali Sliding Doors o lo stesso The Butterfly Effect.
Può dunque una delle nostre tracce digitali raccolte da Barabási cambiare la nostra interpretazione della storia? Può una farfalla causare un tornado? «Ancora oggi, non sono sicuro di quale sia la risposta» commentò Lorenz nel 2008, poco prima della sua scomparsa.
(L’autore insegna Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento. Il suo libro più recente è Scientisti e Antiscientisti edito da Il Mulino)
Intervista a Albert László Barabási
“So al 93% cosa farete: siete tutti prevedibili”
Le ricerche della “network theory” sui comportamenti umani
“Obbediscono alla logica dei lampi, tra frenesia e pigrizia”
di Gabriele Beccaria (La Stampa/Tutto Scienze, 22.06.2011)
Albert László Barabási è il vincitore del «Premio Lagrange - Fondazione CRT 2011»: il fisico ungherese (di origine romena e con passaporto statunitense), direttore del Centro di Ricerca per le Reti Complesse alla Northeastern University di Boston e autore di alcuni tra i saggi più brillanti e gli studi più innovativi nel campo della scienza dei sistemi complessi, riceverà il prestigioso riconoscimento giovedì 30 giugno, alle ore 18, durante la cerimonia di consegna organizzata al Teatro Vittoria di Torino. Famoso per i suoi approcci innovativi e trasversali, in cui la fisica si sposa con la biologia, l’informatica e anche la storia, Barabàsi ha più volte sorpreso il mondo accademico: a partire dalle ricerche condotte sulle logiche di Internet fino alle recenti analisi sulla mobilità individuale e collettiva.
Siamo prevedibili. Così banali da far ghignare di gioia gli spioni che controllano ogni nostro movimento e decisione, lungo un’infinita scia di foto, video, tracce fisiche ed elettroniche. Ed è proprio l’universo della sorveglianza 24 ore su 24 e dei social networks, a cui entusiasticamente ci abbandoniamo, a erigere oggi il più mastodontico archivio dei comportamenti individuali e collettivi: esplorando i suoi segreti e saccheggiandone i dati, un fisico della Northeastern University, AlbertLászló Barabási, sta costruendo la sua teoria, affascinante e controversa. E’ convinto che le azioni umane si muovano lungo modelli decifrabili (e dunque prevedibili) e ha cercato di dimostrarlo con un saggio, «Lampi», nel quale annoda e riannoda il presente e il passato ed eventi in apparenza scollegati, come l’era dei cellulari e della mobilità compulsiva con l’epoca delle rivolte contadine nell’Ungheria del XVI secolo.
Professore, la «network theory» la teoria delle reti - ipotizza che viviamo e agiamo attraverso una serie di «bursts», lampi di frenetica attività inframmezzati a lunghi periodi di calma e perfino di passività: è solo colpa di una malaccorta gestione del tempo che non ci basta mai o ci sono anche ragioni biologiche e genetiche?
«In realtà questo tipo di comportamento si può osservare in un vasto campione di sistemi, compresi i processi che hanno luogo all’interno delle nostre cellule. E anche la stessa attività dei geni segue il modello dei “lampi”. Questo, però, non significa che ci siano delle ragioni note di tipo genetico. E’ probabile che il motivo principale dei “bursts” sia legato al modo con cui prendiamo le decisioni e le distribuiamo nel tempo, vista la quantità di compiti che dobbiamo affrontare in contemporanea».
Lei pensa che e-mails e social networks stiano trasformandoci? Siamo oggi più scontati di quanto non fossimo nel passato, nelle epoche pre-high tech?
«Sotto certo aspetti le e-mails, il social networking e i cellulari, in effetti, ci cambiano. E tuttavia non ci rendono più prevedibili. Grazie a questi strumenti elettronici, semmai, le nostre azioni diventano più semplici da seguire e da misurare e in alcuni casi la precisione di queste analisi può essere sorprendentemente alta».
Un esempio?
«Si è scoperto che i nostri modelli di mobilità presentano un 93% di prevedibilità: significa che diventa possibile scrivere un software che predica i nostri futuri spostamenti con un livello di precisione pari a 93 su 100».
Se siamo così «trasparenti», quali trucchi ci restano per sfuggire alla «società della sorveglianza» che minaccia di comprimere la nostra libertà e il diritto alla privacy?
«Abbiamo sempre la libertà di cambiare i nostri comportamenti, anche in modo drastico, ma la verità è che lo facciamo di rado. Almeno in linea teorica tutti possiamo abbandonare il lavoro e cambiare casa, cominciando da zero uno stile di vita libertario e anarchico. Poche persone, però, scelgono di farlo davvero. La maggior parte di noi è intrappolato sia nel tempo sia nello spazio: non è pensabile aprire un nuovo business a mezzanotte, se i clienti vogliono venire a mezzogiorno. Significa che siamo costretti a seguire modelli preordinati e conformisti».
Ma come pensa di riuscire a combinare questa prevedibilità degli individui con le continue sorprese dei comportamenti sociali e degli eventi collettivi? La storia è molto meno scontata di quanto lei non suggerisca.
«I processi storici rappresentano la somma di milioni di scelte individuali e, quindi, è perfettamente logico che le diverse componenti possano essere prevedibili, mentre il sistema - nel suo complesso - risulta più difficile da studiare. Le leggi di Newton, per esempio, forniscono la traiettoria delle molecole in un gas e, tuttavia, è impossibile prevedere quella di trilioni di particelle, senza dimenticare che si deve tenere conto di una serie di altri elementi come la temperatura, la pressione o la viscosità. Ecco, quindi, dove si colloca la sfida scientifica: come sia possibile innalzarsi dalle azioni di miliardi di singole persone fino alla società nella sua globalità. Al momento non abbiamo ancora una risposta, ma è proprio questo il “Santo Graal” della complessità».
Nel libro lei ha raccolto una serie di esempi delle «power laws» - le leggi di potenza - che ci governano (o ci governerebbero), dall’irregolare corrispondenza di Albert Einstein alle disavventure di un artista americano con l’Fbi: crede di poter estendere queste invisibili linee al futuro prossimo e di tentare qualche previsione sull’evoluzione di una serie di tendenze attuali, dalle mode alla finanza?
«Le “power laws”, di per sé, non sono uno strumento di previsione, perché, in realtà, rappresentano una caratteristica dei nostri comportamenti. E c’è da aggiungere che queste leggi sono piuttosto stabili e costanti nel tempo: erano le stesse un decennio fa e ritengo che persisteranno invariate anche nel futuro. Questa è già - essa stessa - una previsione: è proprio la permanenza delle leggi che caratterizzano i sistemi complessi, come la nostra società».
Lei scrive che non siamo altro che «robots sognanti»: non lo trova un giudizio inquietante?
«I nostri sogni sono liberi di fluire. Sono le nostre azioni a essere profondamente prevedibili».
Così siamo diventati facilmente prevedibili
di Albert László Barabási (la Repubblica, 22.06.2011)
Questo mare di dati digitali su di noi, dai cellulari alla posta elettronica, offre la possibilità di anticipare i nostri spostamenti futuri
Albert László Barabási riceverà il 30 giugno a Torino il Premio Lagrange-Fondazione CRT (anticipiamo parte della lectio che terrà in quell’occasione). Il riconoscimento internazionale è il primo nel campo della scienza della complessità. Istituito dalla Fondazione CRT e coordinato dalla Fondazione ISI, è stato assegnato al matematico russo Yakov Grigorievich Sinai e all’economista britannico William Brian Arthur nel 2008, al fisico italiano Giorgio Parisi nel 2009 e al bioingegnere Usa James J. Collins nel 2010.
Per fare una previsione su una cosa qualsiasi servono dati. Molti dati. Chiunque vada dicendo di poter fare previsioni senza informazioni o è un veggente o un consulente d’azienda. Di conseguenza, per lanciarmi nella carriera di scienziato in grado di effettuare previsioni ho assegnato al mio voluminoso orologio il compito di raccogliere informazioni sui luoghi nei quali passavo. Nondimeno, a mano a mano che i dati si accumulavano sul disco fisso del mio computer, mi sono reso conto che una tecnologia diversa avrebbe potuto fornirmi non soltanto la mia posizione, ma anche quella dettagliata di milioni di altre persone. In realtà, infatti, il nostro server di telefonia mobile sa esattamente e sempre dove ci troviamo. Ogni volta che facciamo una telefonata, la nostra effettiva posizione è localizzata per potercene addebitare la spesa, e anche il numero che abbiamo chiamato è registrato.
Naturalmente, i server di telefonia mobile sono estremamente cauti nel diffondere tali informazioni, essendo vincolati dalla legge e dal desiderio di conservare la fiducia dei loro clienti. Malgrado ciò è evidente che questo tipo di informazione è prezioso, e pertanto viene condiviso con alcuni partner industriali per sviluppare applicazioni in funzione della località nella quale ci si trova, oppure con ricercatori come me che la utilizzano per studiare di tutto un po’, dai social network al comportamento umano. Ovviamente, tali informazioni pervengono in laboratorio in forma assolutamente anonima, il che significa che non conosciamo il nome dell’utente né il suo numero di telefono. Dalla nostra prospettiva, pertanto, ogni individuo è simile a un atomo di un gas che si muove in modo apparentemente casuale nello spazio e interagisce in momenti apparentemente imprevedibili con gli altri "atomi", terreno familiare a chiunque abbia studiato la fisica statistica. In uno studio recente, pubblicato sulla rivista Science abbiamo utilizzato le informazioni dei server di telefonia mobile per porre una domanda semplice, seppur aborrita: se ho accesso a tutti gli spostamenti effettuati da qualcuno negli ultimi mesi, con quanta accuratezza potrei essere in grado di prevedere dove quel qualcuno si troverà domani a mezzogiorno?
I normali impiegati sono bloccati alla scrivania almeno otto ore al giorno. Se a queste aggiungiamo altre otto ore di riposo a casa, circa un terzo del loro tempo resta a loro completa disposizione. Ciò significa che conoscendo anche solo vagamente gli orari della giornata di qualcuno è possibile prevedere nel 66 per cento dei casi dove si trovi.
Nel caso invece di coloro che non hanno una scrivania alla quale sedersi ogni giorno - dai rappresentanti agli autotrasportatori - e così pure per la stragrande maggioranza di noi nei finesettimana e durante le ferie, le previsioni saltano. È proprio per questo motivo che il risultato della nostra ricerca ci ha colti alla sprovvista: abbiamo scoperto che un algoritmo che abbia accesso alla nostra mobilità pregressa potrebbe servire nel 93 per cento dei casi a prevedere dove ci troveremo in futuro. Altrettanto sorprendente è il fatto che non abbiamo trovato tra gli utenti di telefonia mobile nessuno che avesse una prevedibilità inferiore all’80 per cento.
I servizi di telefonia basati sulla localizzazione dell’utente, dai suggerimenti sui ristoranti agli avvisi sul traffico, sono sempre più frequenti. Malgrado ciò, le informazioni che si cercano nella maggior parte dei casi non sono pertinenti al luogo nel quale già ci si trova, bensì a quello nel quale si è diretti. Tenuto conto dell’alta prevedibilità dei nostri schemi di spostamento, la prossima generazione di smartphone potrebbe soddisfare senza soluzione di continuità le nostre necessità future, scaricando automaticamente sui nostri telefoni le cartine stradali e i servizi relativi alla nostra destinazione. Utilizzate adeguatamente queste informazioni potrebbero nei prossimi decenni trasformare i server dei servizi di telefonia mobile in mediatori dell’informazione.
Ma la prevedibilità chiarisce anche che consentendo un accesso incontrollato ai nostri dati non soltanto mettiamo interamente a disposizione di altri il nostro passato, ma riveliamo anche il nostro futuro. La verità è che questo mare di dati digitali che ormai esiste su ciascuno di noi, dai telefoni cellulari alla posta elettronica alle informazioni desumibili dalle nostre carte di credito, offre un potere di effettuare previsioni su di noi di gran lunga superiore alle nostre schede sanitarie. In effetti, perfino minimi cambiamenti comportamentali registrati dall’accelerometro del nostro telefonino, o modifiche apportate alle nostre abitudini negli spostamenti possono rivelare al nostro medico molte più cose su una nostra incombente malattia di quanto possa dire il nostro Dna.
L’autore dirige il Center for Networks Research presso la Northeastern University. Il suo ultimo libro è The Hidden Pattern Behind Everything We Do (Traduzione di Anna Bissanti)
La forza d’animo che guarisce. La chiamano resilienza
È quella capacità di non farsi piegare dalla malattia
attingendo a una riserva interiore di coraggio e positività
Così si tiene stretta la vita e si migliora
Una risorsa da valorizzare
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera/Salute, 17.06.2012)
Quarantacinque anni fa la resilienza riguardava l’ambito dell’ingegneria e della fisica: quando un corpo era resistente agli urti, si definiva resiliente. Ma siccome i progressi scientifici cambiano il lessico e la semantica, oggi, per fortuna, la parola resilienza è estesa alla medicina.
Ho detto quarantacinque anni fa perché nel 1967 mio fratello Claudio, che aveva poco più di cinque anni, è morto di leucemia acuta. Il 19 febbraio si è manifestata la malattia, con un’inspiegabile angina accompagnata da febbre, e domenica 9 aprile è morto. Un mese e mezzo di ricovero all’ospedale pediatrico Castelvetro di Milano, che oggi si chiama Buzzi.
La sera in cui Claudio è stato ricoverato, non fu possibile a mia madre fargli compagnia: solo dal giorno dopo avrebbero sistemato un lettino anche per lei. La mattina dopo il bambino, che già aveva subìto i primi prelievi, la accolse piangendo: «Stai sempre con me». Quando si pensa al progresso, si immagina solo la conquista tecnica, ma anche il fatto che oggi non separerebbero mai mamma e figlio è segno di una grande evoluzione.
In quelle settimane, Claudio alternava momenti di stanchezza con lunghe fasi di allegria e vivacità: ascoltava le fiabe sonore e le canzoni di Sanremo, saltava sul letto, faceva capriole, giocava in camera. Faceva persino coraggio ai miei genitori, che conoscevano l’irrimediabilità della situazione. Se vedeva del sangue nelle feci, Claudio diceva a mia madre di non preoccuparsi: quel colore doveva essere il pomodoro che aveva mangiato la sera prima.
Probabilmente mio fratello maturava una sua forma di resilienza, di resistenza psicologica alla malattia, della quale nessun medico allora si curava. Pensare che se tutto fosse avvenuto mezzo secolo dopo, Claudio, oltre a godere dei progressi scientifici, avrebbe anche messo a frutto le sue risorse psicologiche, dà molta tristezza per quel che avrebbe potuto essere e non è stato: ma anche il progresso ha i suoi ritmi naturali, non appare a comando. E sarebbe stupido accusare di crudeltà la cronologia delle biografie umane. Dunque, più che un’occasione perduta per Claudio, la resilienza è un’occasione trovata per tanti suoi coetanei che oggi guariscono.
Resilienza
Più forti di prima dopo la malattia
Una «riserva interiore» consente una nuova vita. Migliore
Corriere della Sera/Salute, 17.06.2012
Il filosofo Epitteto; i 700 neonati hawaiani dell’isola di Kauai, classe 1955; i 100 bambini curati nell’Oncoematologia pediatrica dell’ospedale San Gerardo di Monza, che hanno scritto in un libro la storia della loro vittoria sulla leucemia: c’è un filo rosso che li lega. Si chiama resilienza. Un concetto che nasce dalla fisica e indica la capacità di un materiale di resistere a deformazioni e urti senza spezzarsi, anzi tornando alla sua forma iniziale.
Col tempo, la parola ha ampliato il suo campo di applicazione e sta vivendo un grande successo internazionale. Così si parla anche di resilienza tessile, cioè la capacità dei tessuti di riprendere la loro forma originaria. C’è la resilienza ecologica e quella biologica, ovvero la capacità di ecosistemi e organismi di ripristinare le proprie condizioni di equilibrio dopo un intervento esterno. C’è una resilienza informatica e persino una resilienza geriatrica. Ma soprattutto la resilienza è oggetto di studio della psicologia che, sul fronte clinico, l’ha declinata come capacità del malato di assorbire un «urto» come la malattia, senza però «frantumarsi» ma addirittura migliorando.
La psicologa Anna Oliverio Ferraris la definisce «forza d’animo» e spiega come sia il filosofo greco Epitteto sia l’imperatore filosofo romano Marco Aurelio, esponenti dello stoicismo, «insistono sul ruolo salvifico della forza interiore, di quella preziosa risorsa che ognuno deve cercare in se stesso e coltivare lungo tutto l’arco della propria vita».
È questa la resilienza? Cerchiamo di capirlo meglio attraverso un altro elemento del nostro fil rouge allora, partendo dai ragazzi guariti di Monza. «I nostri ragazzi ci hanno insegnato che la crescita positiva dopo il trauma della malattia esiste veramente - spiega Giuseppe Masera, pioniere dell’approccio psicologico nel campo dell’ematologia infantile e a lungo direttore della Clinica pediatrica del San Gerardo di Monza -: per loro è stato come rinascere una seconda volta. Lo trovo affascinante. I pazienti ci dicono che la malattia ha insegnato loro a dare un valore diverso alle cose e all’esperienza della vita».
Per questo Masera, con il grande oncologo di Philadelphia Giulio D’Angio, lancerà una proposta su una rivista scientifica internazionale: «Dobbiamo sensibilizzare gli oncologi a conoscere e promuovere un nuovo paradigma: dalla terapia globale e dalla prevenzione dei danni anche psicologici, alla promozione della crescita positiva. È poi necessario considerare la ricerca su questo tema: conoscere da un lato quali sono le caratteristiche individuali, dall’altro gli interventi più opportuni - a partire dalla diagnosi, durante la terapia, e negli anni successivi - che possano favorire la resilienza».
Il punto di partenza e anche la sfida sta proprio qui. Possiamo imparare qualcosa da chi riesce a riprendere un nuovo sviluppo di buona qualità dopo un trauma, come sostiene lo psichiatra Michael Rutter, «padre» della psicologia infantile? E riprendendo un pensiero di Boris Cyrulnik (etologo e psicologo francese, tra i massimi studiosi di resilienza), «in quali condizioni interne ed esterne queste riprese di nuovo sviluppo sono possibili»? Se lo sono chiesti gli esperti riuniti lo scorso fine settimana a Parigi per il primo Congresso mondiale sulla resilienza.
«Si tratta di una questione molto affascinante, ma parecchio complessa. La resilienza è un processo, multidimensionale e multifattoriale» sottolinea Elena Malaguti, una delle prime studiose che ha introdotto in Italia le ricerche sulla resilienza e docente di Pedagogia speciale all’Università di Bologna, componente dell’Osservatorio internazionale sulla Resilienza di Parigi, presieduto dallo stesso Cyrulnik con il quale lavora da dieci anni.
«La resilienza nasce dalle ricerche della psicologa Emmy Werner che per prima fece uno studio longitudinale alle Hawaii» racconta Elena Malaguti. Emmy Werner esaminò 698 neonati, l’intera leva del 1955, nell’arco di 40 anni. Il risultato più significativo fu che, a dispetto dell’esposizione a fattori di rischio legati alla nascita o all’ambiente, circa un terzo dei bambini considerati ad alto rischio erano diventati adulti premurosi, competenti e affidabili.
In condizioni normali, ognuno è solo potenzialmente resiliente: «All’interno delle definizione di resilienza - spiega Antonella Delle Fave, docente di Psicologia all’Università Statale di Milano-Ospedale Sacco - è implicito il fatto che ci sia una cosiddetta "condizione estenuante o estrema" di grave pressione per cui allora si manifesta la resilienza. Ci sono cioè delle risorse che possono essere utilizzate nel momento della necessità e che si traducono in resilienza. Se però viene a mancare questa situazione estrema, non possiamo più identificare tali risorse come strumentali alla resilienza».
Resilienza come forza di reazione e di adattamento dunque. Innata, forse, o raggiungibile? «Non credo esista il gene della resilienza - riflette Elena Malaguti -. In generale, sarebbe opportuno parlare di "resilienza naturale" e di "resilienza assistita", ovvero degli indicatori, dei progetti e dei percorsi che possono essere intenzionalmente avviati ad esempio da genitori, educatori, soccorritori, infermieri, insegnanti. In presenza di un evento traumatico è opportuno individuare le strategie di coping, cioè la capacità di far fronte a un evento; i processi di empowerment, ovvero l’accrescimento e l’acquisizione di competenze, e il processo di resilienza, vale a dire la ripresa evolutiva. È come se fosse una scala». In fondo, assicurano gli esperti, basta imparare a salirci.