LACAN INTERPRETA "KANT CON SADE" E SI AUTO-INTERPRETA CON "L’ORIGINE DEL MONDO".
KANT CON SADE: "Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti". Così inizia il testo di J. Lacan, Kant con Sade, (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla "kantizzazione" di Sade e sulla "sadizzazione" di Kant da parte di Lacan, cfr.: E. Fachinelli, "Lacan e la Cosa", La Mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale "hitlerizzazione" di Kant, si cfr.: Federico La Sala, FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo).
LACAN E "L’ORIGINE DEL MONDO" (G. Courbet, 1866): "(...) Jacques Lacan conservava L’ origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’ élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur" (Sergio Luzzatto,"L’origine del mondo, storia di un tabù", Corriere della Sera, 24 maggio 2008 ).
Introduzione a Lacan (Davide Tarizzo, Laterza 2003)
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E STORIA: "CRONACA TERRESTRE". UNA NOTA SUL "COMPROMESSO STORICO" DELLA "CADUTA" NELL’ORIZZONTE TEOLOGICO-POLITICO DELLA "TRAGEDIA". *
Si spoglia contro il velo, studentessa arrestata in Iran
Di lei non si hanno più notizie. Ansia e appelli sui social
di Laurence Figà-Talamanca (ANSA ROMA, 04 novembre 2024, 14:28 - RIPRESA PARZIALE)
Una studentessa iraniana è stata arrestata sabato dopo che, per protestare contro l’obbligo del velo, si è spogliata dei vestiti rimanendo in biancheria intima nel cortile del dipartimento di Scienza e Ricerca dell’università Azad di Teheran.
Da allora di lei non si sa più nulla, e il timore è che possa subire da parte della polizia la stessa violenza che due anni fa toccò a Mahsa Amini, arrestata per non aver indossato correttamente il velo e morta in seguito alle percosse della polizia. La sua tragica scomparsa scatenò un’ondata di proteste in tutto l’Iran dando il via al movimento ’Donna, Vita, Libertà’.
Secondo fonti studentesche citate da Iran International, anche la studentessa di Teheran (identificata da alcuni come Ahoo Daryaei) era stata inizialmente redarguita dalla sicurezza universitaria per aver indossato l’hijab in modo inappropriato. Come gesto di protesta, la ragazza si è tolta i vestiti, restando in mutandine e reggiseno, le braccia conserte e i capelli sciolti. Nel video la si vede così, prima seduta nel cortile tra studenti increduli o con i telefonini in mano.
Poi la giovane si allontana per strada a piedi, sempre senza vestiti, prima di essere affiancata da un’auto da dove escono degli uomini che la caricano a forza per portarla via. Amnesty International, chiedendone l’immediato rilascio, ha evocato "accuse di percosse e violenza sessuale contro di lei durante l’arresto" e sollecitato "indagini indipendenti e imparziali".
Iran International riferisce che, secondo una nota newsletter di studenti su Telegram, la ragazza è stata trasferita in un ospedale psichiatrico su ordine dell’intelligence dei Guardiani della Rivoluzione, circostanza confermata dal giornale Farhikhtegan, vicino all’Università di Azad, e dal direttore delle relazioni pubbliche dell’ateneo, Amir Mahjoub, secondo cui la studentessa soffre di un "grave disagio psicologico". I media statali hanno diffuso un video in cui un uomo, che si presenta come il marito, sostiene che la donna è madre di due figli e soffre di problemi di salute mentale.
Tuttavia - si legge ancora sul sito in inglese e persiano con sede a Londra - l’opinione pubblica iraniana denuncia online quella che viene definita una tattica del regime per delegittimare le manifestanti etichettandole come mentalmente instabili.
Nel ricordo di Mahsa però questa volta tutto il mondo guarda a Teheran. "Monitorerò attentamente la situazione, compresa la risposta delle autorità", ha ammonito su X la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Iran, Maio Sato, mentre si moltiplicano sui social gli omaggi al "coraggio eroico" della donna, insieme ad appelli, hashtag e disegni: una ragazza con gli slip a righe e il reggiseno lilla è già diventata il nuovo simbolo della lotta delle donne iraniane per la libertà.
*
NOTA:
Federico La Sala
Si può amare solo a partire dalla propria castrazione
IL FALLO E L’AMORE
DI DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO (• ott 05, 2024).
In psicoanalisi, soprattutto in quella lacaniana, il Fallo non è l’organo sessuale maschile in quanto tale, anche se da quello prende le mosse.
Il Fallo è invece un significante. Un significante di cosa? Possiamo dire di tutti i significanti, ovvero il significante del fatto che l’essere umano, raggiunto dalla parola, è, come dice Lacan, un soggetto diviso, diviso dalla sua natura animale e istintuale, separato da essa e assoggettato alla parola, vale al dire al Significante. Dal momento che l’azione separativa del soggetto dalla sua natura, cioè dal suo corpo biologico, ad opera del significante, è propriamente ciò che, nella psicoanalisi lacaniana, è detta castrazione, ecco che il Fallo è il significante ultimo della castrazione e, quindi, di ciò che viene meno, che si perde, che viene a mancare. Quindi il significante di una mancanza.
L’azione del significante non si limita però a separare il bambino dalla sua natura biologica per sottrarlo all’istinto e consegnarlo alla parola, non si limita ad infliggergli una perdita di godimento del corpo per dargli in cambio il privilegio della parola, ma lo separa anche dal corpo materno con il quale è originariamente confuso in quella dimensione di godimento incestuoso condiviso con la madre che Lacan chiama fallo immaginario e che designa con (φ).
Ora, è proprio per questo che Lacan indica la castrazione con -φ, per sottolineare che si tratta del venir meno del fallo immaginario (φ), e anche per indicare la faglia che consegue a questo venir meno, alla castrazione, sia nei termini della divisione del soggetto ($) e sia nei termini di una perdita dell’ oggetto materno, dell’oggetto di godimento, che Lacan chiama oggetto piccolo a, oggetto che gli resterà in parte come con un resto di godimento, un plus godere.
Questa condizione di mancanza che consegue alla castrazione ad opera del significante, è fondamentale affinché possa avviarsi quel processo che Lacan chiama della significazione fallica, vale a dire quel processo di simbolizzazione della mancanza effetto della castrazione, e che porterà alla costituzione ora del Fallo simbolico (ɸ), in sostituzione del fallo immaginario (φ) della madre ormai perduto.
E dunque, è solo nella misura in cui, per effetto della castrazione, ovvero dell’azione separativa del significante, si determinerà una perdita di corpo e di godimento, ossia un -φ, che si potrà produrre in opposizione simbolica il Fallo simbolico(ɸ), in quanto significante della mancanza e poiché, come dice Lacan, il desiderio è la metonimia della mancanza, significante anche del desiderio.
Tutto questo significa, per dirlo nella maniera più semplice, che, se non si produce mancanza, non può prodursi neanche desiderio e che il desiderio è quindi l’effetto principe della castrazione.
Per questo, allora, il Fallo è da considerarsi come un’insegna, un tratto che indica, non che qualcosa c’è, ma che, al contrario, da qualche parte qualcosa manca. E dove è che manca? Manca sul versante femminile. Su quello maschile si ritiene che invece ci sia, ma solo perché viene confuso con l’organo, e dunque è come se fosse destinato a non esserci anche nell’uomo, poiché anche nell’uomo il Fallo è ciò che dice che da qualche parte esso manca.
Questo significa che l’uomo, pur avendolo, ma trovandosi interamente all’interno della significazione fallica, anzi portandone l’insegna, riceve costantemente l’indicazione che altrove il fallo non c’è e dunque l’uomo non può che vivere la propria condizione fallica se non come ciò che gli dimostra la castrazione, che gli dimostra ciò che può venire anche a mancare, ed è esattamente per questo che l’uomo è angosciato dalla detumescenza del suo pene e dal fatto che, non potendo disporne come vuole, ha bisogno continuamente di verifiche e di rassicurazioni sulla propria virilità.
La donna, dal canto suo, invece, è solo lambita dalla significazione fallica, vale a dire non è del tutto da essa compresa - per questo Lacan dirà che la donna è "non tutta"- dunque non ha nulla da temere, non può perdere nulla, e a chi non può perdere nulla non manca nulla: alla donna non manca nulla, dice Lacan. E tuttavia, dal momento che la donna in parte guarda anche lei all’insegna fallica, fa comunque fatica a riconoscersi come quella che, avendo una mancanza, non ha nulla da perdere e dunque nulla da temere. Pensa invece che deve fare di tutto per averlo anche lei, magari prendendoselo dall’uomo, ma per attribuirselo, non per goderne, come è proprio dell’isterica.
Alla fine l’uomo e la donna rischiano di essere entrambi ossessionati dall’obbligo averlo e basta, pensando che sia nell’avere la soluzione della castrazione. Non sanno che la soluzione, invece, sta nel riconoscere, entrambi, di non averlo (cosa per la quale la donna è un po’ più facilitata), di non avere cioè proprio più nulla da perdere per il semplice motivo di essere già nella perdita, di essere entrambi, ognuno a proprio modo, già mancanti, di essere cioè, entrambi, l’uomo e la donna, nella castrazione.
E non sanno che solo questa è la via dell’amore tra un uomo e una donna, essendo l’altra, quella dell’avere, la via della competizione. In poche parole l’amore può darsi solo nel versante femminile, dal lato cioè della mancanza. Per questo amare è più difficile per un uomo, che non per una donna. Per questo amare - come dice Lacan - è dare quello che non si ha.
PSICOANALISI E LETTERATURA: UNA "STRAORDINARIA" IDEA DI DANTE ALIGHIERI.
SEGUIRE LACAN, PER IMPARE A RI-LEGGERE LA "DIVINA TRAGEDIA".
QUANDO L’INTERA CULTURA ACCADEMICA (LAICA E RELIGIOSA), ANCORA E PER LO PIU’, NAVIGA NELL’ORIZZONTE (v. allegato) DEL "SAPIENTE" (1510) DI BOVILLUS, IN UN ANDROCENTRISMO CHE IGNORA ADDIRITTURA "COME NASCONO I BAMBINI", E’ SEMPLICEMENTE "PANE QUOTIDIANO" LEGGERE DELLA SEGUENTE OPINIONE, TEORICAMENTE "DIMOSTRATA", SULLA VITA DELL’AUTORE DELLA "DIVINA COMMEDIA":
DOPO 700 ANNI E OLTRE DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, COME NON SI PUO’ NON CONTINUARE A DESIDERARE (VIVERE, SOGNARE E RAGIONARE) IN UN MARE DI "TRAGICHE" ED "EDIPICHE" PREMESSE E, NEL CONTEMPO, A PORTARE LO SVILUPPO DEL "MARCIO NELLO "STATO DI DANIMARCA" (SHAKESPEARE, "AMLETO") OLTRE OGNI LIMITE?!
"COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937). Contrariamente a quanto la scuola "platonica" di Lacan sostiene, a ben riflettere, non è "un amore senza desiderio [che] è un amore morto", ma è un desiderio ("Eros", "cieco" e "saettante", violento) senza amore ("grazia") che è un desiderio morto: #apriregliocchi, e #amare "sé come un altro", alla luce del sole (e del "padre" e della "madre"), è vietato, come dinanzi a un "padre" edipicamente #morto (#Freud, in movimento autoanalitico, insegna).
UNA "CADUTA" NELLA "PREISTORIA". Solo una "bella" storiografia e, altrettanto, una "bella" #filologia, segnate da un comune e profondo #sonnodogmatico (#Kant), probabilmente, hanno potuto rendere possibile il permanere di questa concezione tragica del desiderio e ri-consegnare la #Commedia di #Dante #Alighieri nella mani di #Socrate e #Platone e "costringere" a ri-leggerla come una "divina tragedia"!
NOTA. Sul tema, per eventuali approfondimenti, si cfr. Federico La Sala, «La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia"», «il dialogo», 2007 ).
COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (FREUD), "DIVINA COMMEDIA" (DANTE ALIGHIERI), E "VIOLENZA" DELLA "INTERPRETAZIONE".
SULLA "LA FINZIONE DELLA MADRE". Una #questione di #differenza logica e ontologica: c’è "Madre" e #Madre, "Padre" e #Padre, e "Dio" e #Dio.
"LA FINZIONE DELLA MADRE. [...] se la madre, ad esempio, come è giusto che faccia, non coglie più il carattere comunicativo di segno del pianto del suo bambino, ma lo interpreta in qualche modo ("piange perché gli fa male il pancino"), ne snatura il carattere di segno per farne un significante, ritrovandosi di conseguenza a costruire, in tal modo, una #verità con la struttura della #finzione, vale a dire una verità stabilita solo dalla sua parola. [...] Una verità che conserva tuttavia una struttura logica di credibilità, in effetti un #sofisma. [...]"." (cit.).
CRITICA DELLA METAFISICA DELLA TRAGEDIA: "IN #PRINCIPIO ERA IL #LOGOS" (NON UN #LOGO). Forse, per capirsi, su un tema tanto importante, e non restare impigliati in ciò che appare "in effetti un sofisma" del sofisma di #Edipo, vale a dire del figlio della "giocastolaia (la madre del "giocastolaio"), è opportuno rimeditare la lezione antropologica e teologica di #Dante (nient’affatto platonica, paolina, costantiniana, e lacaniana):
NOTA:
A CHE #GIOCO GIOCHIAMO, IN #REALTÀ?! LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA DEL DIVANO DI #FREUD E IL PERMANERE DEL COMPROMESSO "OLIMPICO" (PLATONICO E ARISTOTELICO) SUL PROBLEMA DEL "COME NASCONO I BAMBINI".
ANTROPOLOGIA E STORIA: #UNO (#ONU). Alla luce dell’eredità tragica di #Edipo (#Sofocle) e #Amleto (#Shakespeare), sulla questione antropologica (e cristologica) la cultura europea (e planetaria) ancora non è riuscita a fare chiarezza sulla dimensione "nexologica" (da "#nexus") e confonde ancora "nexuno", con "#nessuno", e non comprende nemmeno un semplice "nesso"!
PSICOANALISI ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI", 1899): "IL DIALOGO PSICOANALITICO" (Jean-Jacques #Abrahams, "Les Temps Modernes", 1969). A partire dal caso dell’«uomo dei topi» (Freud, 1909) e dell’«uomo con il magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista» (Jean-Jacques Abrahams, 1977), il problema è ancora sul divano di #SigmundFreud (non di #Lacan), e l’#enigma del "come nascono i bambini" non è stato ancora risolto... A gloria eterna della sollecitazione di "Sigismondo di Vindobona" e di Franca Ongaro Basaglia (cfr. "Così parlò Edipo a #Cuernavaca", "pM - Panorama mese", novembre 1982), che fare? Continuare i giochi "olimpici" di enigmistica nello spirito di Edipo e di cruciverba nello spirito di Amleto?
STORIA, STORIOGRAFIA E "DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021): L’IMMAGINARIO APOLLINEO E LA SOPRAVVIVENZA DELL’ #ALGORITMO DELLA TRAGEDIA. Se è vero, come è vero, che per la religione greca «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda» (#Eschilo, "Eumenidi"), è anche vero che dopo la nascita di Cristo e dopo la diffusione del Cristianesimo, come ha scritto Franca Ongaro Basaglia (1978), continua ad essere "possibile un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
NOTE:
FREUD, L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899) E LE "COSTRUZIONI NELLE ANALISI"(1937).
ANTROPOLOGIA E #LINGUA. Riflettendo, esemplarmente e rinascimentalmente, con l’aiuto dei #dueSoli (#DanteAlighieri), dei "due #emisferi" (dei "#duecervelli" del "#linguaggio del #cambiamento"), c’è da dire che l’installazione [sui "Coniugi Doni"] realizzata dalla #Galleria degli Uffizi delle opere di Raffaello e di Michelangelo->https://www.uffizi.it/eventi/doni-gennaio-2019] richiama "lodevolmente" (per il suo "esplicito" rinvio all’immagine di una #lavatrice) e fa un poco ricordare la famosa operazione di Alessandro #Manzoni, per realizzare il "sogno" dei suoi "Promessi Sposi", e la sua decisiva sollecitazione storica antropologica e linguistica: “risciacquare i panni in Arno”, a Firenze! Un "Inno alla #Gioia" (Freud+e = "#Freude")!
Federico La Sala->
"INNO ALLA GIOIA" (BEETHOVEN, #VIENNA #7MAGGIO1824 ).
***
EUROPA: #7MAGGIO 1824 / #7MAGGIO2024.
***
MEMORIA (#SALERNO, 1976) *:
"GIOIOSAMENTE, GIOCOSAMENTE: «FREUD ... E»
* (cit. da una mia relazione intitolata, "Cosa nasconde Freud a Freud? Cosa nascondiamo noi a noi stessi? Note da/per un seminario interdisciplinare sulla "Interpretazione dei sogni", all’ Università degli Studi di Salerno, Sede di Via Irno - 30. 03. 1976).
LA CULTURA EUROPEA, SIGMUND #FREUD, E L’INNO ALLA #GIOIA (F. #Schiller, "An die #Freude", 1785).
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. A CHE GIOCO GIOCHIAMO?!
FREUD O LACAN? "SÀPERE AUDE" (ORAZIO - KANT). Nella ricorrenza del XXI Congresso Nazionale della Societa’ Psicoanalitica italiana, RICORDANDO ELVIO FACHINELLI (con le parole di Francesco Marchioro: "Spirito curioso, ironico, indipendente e analista non ortodosso denuncia con forza una sorta di «freudolente» uso della terapia e accusa la sua stessa istituzione di praticare una “psicoanalisi della risposta”, nel senso che si limita a «dare ragione all’esistente, razionalizzare le irrazionalità, tamponare i conflitti», offrire una terapia dell’adattamento invece di essere una psicoanalisi interrogante, capace di sollevare domande radicali sullo statuto del soggetto e la sua relazione alla Lebenswelt, al mondo della vita.": Altoadige.it, 22.12.2019), non è il caso di svegliarsi dal sonno dogmatico e riprendere il filo da Kant (1724-2024), dalla interpretazione dei "sogni di un visionario" (1766), e riprendere coraggiosamente a "servirsi della propria intelligenza ("1784), e, insieme, far un so critico della propria facoltà di giudizio, come ha fatto e sollecitato a fare in prima persona Michel Foucault nel 1984?
PSICOANALISI, STORIOGRAFIA, E FILOLOGIA:
TRA TABACCO, PIPE, E SIGARI, E FUMO, A VIENNA, IN CASA FREUD, UNA "DISCUSSIONE SUL FUMARE", CON WILHELM STEKEL (Boiany, 18 marzo 1868 - Londra, 25 giugno 1940). Alcune note:
A) Una citazione dal verbale di una riunione della Società psicologica del mercoledì (primo nucleo della Società psicoanalitica), pubblicato in un articolo del 28 gennaio 1903 da Wilhlem Stekel, tradotto e curato di Michele Lualdi:
"Un piccolo studio accogliente di un illustre neurologo. Il padrone di casa siede allo scrittorio e fuma una piccola pipa inglese.
Lo “s p i r i t o i r r e q u i e t o” si adagia su una morbida poltrona e fuma come il suo maestro, per quanto possibile con ancor più agio, una pipa inglese. Il “t a c i t u r n o” maneggia con grande abilità ed eleganza una sottile sigaretta. Il “s o c i a l i s t a” tira tranquillamente da un #Virginia, con una faccia molto seria.
Suonano.
Entra l’“i n d o l e n t e”. Il padrone di casa gli offre un #sigaro. [...]" (W. Stekel, Discussione sul fumare).
B) CONSIDERATO CHE A VIENNA, al Museo della Hofburg nelle liste dei sigari fumati dal Kaiser Franz Joseph è presente anche il sigaro "Virginia", forse, è bene dedicare allo “s p i r i t o i r r e q u i e t o” (di Stekel), che "fuma come il suo #maestro [...] una pipa inglese", maggiore attenzione (cfr. "Passando da Stekel. Edizione critica dell’Autobiografia di WilhelmStekel" di Michele Lualdi).
C) IL NOME DI DIO. A memoria di Stekel, ricordo l’importante nota di Freud sul "#significato della #successione delle vocali":
"Indubbiamente ha suscitato frequenti obiezioni l’affermazione di Stekel che, nei sogni e nelle associazioni, i nomi che devono rimanere nascosti appaiono sostituiti da altri che rassomigliano ai primi solo in quanto contengono la stessa successione di vocali. Però un’evidente analogia si incontra nella storia della religione. Tra gli antichi Ebrei il nome di Dio era tabù; non lo si poteva pronunciare né scrivere. (Vi sono molti altri esempi del particolare significato dei nomi nelle civiltà arcaiche). Tale divieto riceveva un’obbedienza così implicita che, a tutt’oggi, rimane sconosciuta la vocalizzazione delle quattro consonanti del nome dio (JHVH). Però il nome era pronunciato Jehova prendendosi in prestito le vocali della parola Adonai («Signore»), nei confronti della quale non vigeva tale proibizione (Reinach, 1905-12, 1, 1)." (cfr. S. Freud, "Opere", 1911, vol. 6).
NOTE SUL TEMA:
1) - Freud e la sua debolezza: i sigari:
2) -I SIGARI DI MARCEL DUCHAMP E I SIGARI DI JACQUES LACAN. Un ricordo di Gianfranco Baruchello (6 marzo 2017):
FLS
MEMORIA E STORIA DI LUNGA DURATA. APPUNTI SU PROBLEMI DI PATRIMONIO CULTURALE, ARTE, E ANTROPOLOGIA
A) SPAGNA: A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE L’OPERA DI "EL GRECO" ("LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ", TOLEDO 1586 -1588) ... E PER RIMEDITARE LO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE (CARICO DI TEORIA E DI FUTURO) DI TERESA D’AVILA (1515-1582).
B) TERESADAVILA (Avila 1515 - Alba de Tormes 1582): "[...] Teresa (Teresa Sánchez de Cepeda Ávila y Ahumada) nasce in una famiglia ricca; il padre era figlio di un ebreo convertito - dunque tTeresa fu di origini ebree. La madre trasmette alla figlia l’amore per i romanzi cavallereschi, ma muore quando Teresa ha solo 13 anni.
Diventa una donna determinata, affascinante e trascinatrice, estrema nelle sue scelte e insieme capace di amministrare i monasteri e di trattare con diplomazia coi grandi dell’epoca. Da ragazza convince il fratello a fuggire per andare a combattere contro gli infedeli. Sempre col fratello scrive un romanzo cavalleresco; manifesta, insomma, subito due grandi amori della sua vita: la fede e la scrittura.
È l’epoca della grande crisi della Chiesa, che all’apice della propria magnificenza è percorsa da profonde inquietudini, divisa dalla predicazione di #Lutero e Juan de Valdés, una ferita profonda e interna. Teresa ha trent’anni all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), tappa di quella “rifondazione” della chiesa cattolica, che si impegna tanto nella guida delle anime, con la fondazione di nuovi ordini religiosi e la promozione di una rinnovata austerità e spiritualità, quanto nel controllo delle stesse, imponendo nuove e più severe regole monastiche e potenziando i tribunali dell’#Inquisizione. In in Spagna in particolare, dopo il culmine della potenza raggiunto sotto il regno di Carlo V (1500-1558), suo figlio Filippo II (1527-1598) si fa paladino della ortodossia cattolica. [...]" (Cfr. Maria Rosa Panté, "Teresa d’Avila", Enciclopedia delle donne)
C) CARMELITANISCALZI: L’ULTIMA LEZIONE DI TERESA D’AVILA. A CONTURSI TERME, IN PROVINCIA DI SALERNO, NELLA TERRA DEL "PRINCIPE DI EBOLI" (Rui Gomes da Silva), L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (IN STATO DI PROGRESSIVO DEGRADO).
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI: LA STORIA NON LA FANNO SOLO I PROFETI, MA ANCHE LE SIBILLE. Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" (e al suo Mosè), sollecita anche a riproblematizzare (Julia Kristeva, "Teresa, mon amour", 2009) il rapporto tra Freud e Lacan ("Encore", 1972-1973) ) e, infine, a portarsi oltre la logica del "superuomo" del cattolicesimo costantiniano!
FREUD E LACAN: ATTO PSICOANALITICO, METAFISICA DELL’ESPERIENZA ED ETICA DELLA PSICOANALISI. Un omaggio al prof. di Filosofia, H. J. PATON, amico di Wilfred Bion ...
RIPARTENDO DA LONDRA, (J. Lacan, "LA #PSICHIATRIA INGLESE E LA #GUERRA", 1947) E RITENENDO IMPORTANTE OGGI PIù DI IERI, QUANTO SCRITTO nell’editoriale degli #Appunti della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo Freudiano (Giugno 2016), che l’atto_analitico è "un concetto nuovo" che si deve a Lacan: “L’atto psicoanalitico, mai visto né sentito se non da noi, vale a dire mai notato, e ancor meno messo in discussione, ecco che invece noi lo poniamo come il momento elettivo del passaggio dello psicoanalizzante a psicoanalista”; “Ciò che chiamiamo la seduta è un lasso di tempo in cui si tratta dello stabilirsi di un rapporto con la dimensione fuori tempo dell’inconscio [...]” (cfr. SLPcf), FORSE, POTREBBE essere una buona idea, per riflettere di nuovo sul "tempo e l’atto nella pratica della psicoanalisi", mettere a disposizione in lingua italiana le opere di H.J. PATON: 1). "Kant’s Metaphysics of Experience (1936); 2) "The Categorical Imperative" (1947).
STORIA E STORIOGRAFIA: "APPRENDERE DALL’ESPERIENZA". A ben vedere, il titolo dell’opera di W. R. BION offre una indicazione-chiave, carica di teoria: richiama "ovviamente" l’amicizia di Wilfred R. Bion con Herbert James Paton e le sue indicazioni sulla via critica dell’imperativo categorico e della metafisica dell’ esperienza di Kant" (e, freudianamente e assolutamente, non la via paolina del "Kant con Sade" di Lacan).
Federico La Sala
Riprendere il filo: «#Psicologia delle masse e #analisi dell’Io» (#Freud 1921), «#Capo» (#Gramsci 1924), «La #psichiatria inglese e la #guerra» (J. #Lacan 1947). Dal #labirinto si può uscire...
APPUNTI SUL "CARTELLO". Una struttura quadripartita per il lavoro nella Scuola di Lacan. (Appunti):
LA SCUOLA DI LACAN. Per lo svolgimento del lavoro, adotteremo il principio di una elaborazione sostenuta in un piccolo gruppo": un lavoro che "nel campo aperto da Freud restauri il vomere affilato della verità - che riconduca la prassi originale da lui istituita (...) a quel che al mondo le spetta - che con una critica assidua vi denunci le deviazioni e i compromessi..."(J. Lacan, "Atto di fondazione", 21 giugno 1964).
Jacques Lacan, «Atto di Fondazione»: «[...] Quanti verranno in questa Scuola si impegneranno a svolgere un lavoro sottoposto a un controllo interno ed esterno. È loro garantito in cambio che niente sarà risparmiato affinché tutto quel che faranno di valido abbia la risonanza che merita, e il posto che converrà. Per lo svolgimento del lavoro, adotteremo il principio di una elaborazione sostenuta in un piccolo gruppo. Ciascun gruppo (abbiamo deciso un nome per designare questi gruppi) sarà composto da un minimo di tre persone, da un massimo di cinque, quattro è la misura giusta. Più una incaricata della selezione, della discussione e dell’esito da riservare al lavoro di ciascuno. [...]» in La Psicoanalisi n° 30/31, Astrolabio, Roma, p. 9-16
"[...] il cartello, di cui, fatta l’esperienza, affino la formalizzazione. Primo - Quattro si scelgono per perseguire un lavoro che deve avere il suo prodotto. Preciso: prodotto proprio di ciascuno e non collettivo. Secondo - La congiunzione dei quattro si fa intorno a un Più-uno, che, se è qualunque, deve comunque essere qualcuno. È a suo carico vegliare sugli effetti interni all’impresa e provocarne l’elaborazione. Terzo - Per prevenire l’effetto-colla, al termine fissato di un anno, due al massimo, si deve fare la permutazione. Quarto - Nessun progresso si deve attendere, tranne la periodica messa a cielo aperto dei risultati come delle crisi di lavoro. Quinto - Il sorteggio assicurerà il rinnovo regolare dei punti di riferimento creati al fine di vettorializzare l’insieme.”; "un’organizzazione circolare": " «Ciò non implica affatto un’organizzazione a testa in giù, ma un’organizzazione circolare il cui funzionamento, facile da programmare, si consoliderà con l’esperienza.» (J. Lacan, "D’écolage", Seminario dell’11 marzo 1980)
KANT CON SADE: «Dall’inconscio in poi, una struttura quadripartita è sempre esigibile nella costruzione di un ordinamento soggettivo.» (Jacques Lacan, «Kant con Sade», in Scritti, volume II, Edizioni Einaudi, Torino 2002, pag. 774->https://www.champlacanien.net/public/docu/5/epCartelAparicio.pdf].
"Leggendo Lacan, avrete probabilmente notato che egli sottolinea sovente il fatto che Freud abbia scritto
il suo testo sulla psicologia delle masse nell’epoca in cui si preoccupava
dell’istituzione analitica; ed è, sicuramente, una questione presente per
Lacan, nel momento in cui decide di fondare la sua Scuola, così come
è anche presente nel momento in cui decide di scioglierla. Quindi, una
volta stabilito l’obiettivo del lavoro, la questione, formulata in maniera
molto semplice, è: come organizzare il lavoro nell’ambito del gruppo?
Come riuscire a far lavorare insieme i membri del gruppo? Vi riformulo la
stessa domanda, ma in termini diversi: come stabilire un modo di legame
propizio alla realizzazione del compito che ci si è assegnati?
Ritengo che il Cartello risponda a questa domanda - ecco, quindi, il perché del Cartello. L’idea del Cartello trae origine dal viaggio di Lacan in Inghilterra, alla fine della guerra; egli era rimasto stupefatto quando Bion e Rickman, due psichiatri-psicoanalisti, gli raccontarono l’esperienza che avevano fatto durante la guerra. Allora lavoravano in un ospedale militare e venne loro assegnato il compito di occuparsi di ben 400 soldati, che erano degli irriducibili (formavano quella che in Francia si chiama «compagnia di disciplina»). Dunque, il compito di Bion e Rickman consisteva nel rieducare questi soldati, era un vero e proprio servizio di rieducazione. E questi psichiatri-psicoanalisti, negli anni ’40, ispirati dalla loro conoscenza della psicoanalisi e dal lavoro di Freud sulla psicologia delle masse, inventano - perché, in effetti, hanno inventato qualcosa - la creazione di piccoli gruppi su iniziativa dei soldati stessi. A quanto pare fu un grande successo! Bisognerebbe leggere il testo scritto da Lacan su questo tema, che si intitola «La psichiatria inglese e la guerra», perché è una meraviglia! Questo è ciò che volevo dire del Cartello." (Sol Aparicio - Rivista Intersezioni del Campo lacaniano n° 6 - FCL in Italia. Roma, 05/2012).
"Se si coglie che, nell’intento di Lacan, il lavoro della Scuola passava attraverso il cartello - e non il seminario, la conferenza, ecc..-, si comprende, allora, la funzione delle Sezioni della Scuola. Lacan aveva previsto tre Sezioni che corrispondevano a dei raggruppamenti di cartelli. Questo piano di Scuola, il Piano Lacan, non è mai stato realizzato. Secondo tale piano, il lavoro della Scuola si svolge in cartelli. Se ci sono dei corsi, dei seminari, delle conferenze, questo si fa al di fuori della Scuola. D’altronde, il Seminario di Lacan era al di fuori della Scuola. L’Atto di fondazione dice che lo specifico della Scuola, nel suo rapporto con la verità, è il lavoro per cartelli. La questione potrebbe essere d’attualità. Basterebbe deciderlo. Questo presupporrebbe d’interrogarsi sul perché il Piano Lacan non sia mai stato realizzato". (Il cartello nel mondo da JACQUES-ALAIN MILLER).
Federico La Sala
Diotima, Giulietta, Rosalinda e le altre / Nadia Fusini. Maestre d’amore
di Mattia Mossali *
In principio, fu Diotima. È proprio a questa figura misteriosa di donna, una sacerdotessa, venuta da Mantinea, che Socrate ha riconosciuto una conoscenza in più sull’amore. Invitato dagli altri commensali, tutti uomini, che chiedono di essere istruiti sul sapere erotico, Socrate sceglie di non parlare per sé; preferisce dichiararsi ignorante, com’era suo solito, e lascia che attraverso la sua bocca sia una donna a parlare. Socrate si fa ventriloquo di una voce femminile, quella di Diotima appunto, una voce di donna che lui non esita a riconoscere quale sua maestra, sapiente delle cose d’amore. E proprio da lei Socrate apprenderà la vera natura di Eros, daimon né bello né brutto, né buono né cattivo; una via di mezzo semmai, nel quale gli opposti convivono, agonisticamente, l’uno di fianco all’altro.
Non cela il suo stupore, Socrate, di fronte a quanto va apprendendo, proprio lui che pensava a Eros come a un gran dio, perché questo era quello che tutti dicevano. La risposta della sapiente Diotima non si fa attendere; la donna redarguisce l’allievo che pensa all’amore solo dal punto di vista dell’amato, e dunque come ad un sentimento sempre corrisposto e felice; l’amore, spiega, è anche e soprattutto “amore amante”, tensione verso l’altro, bisogno e desiderio, brama di possesso e insieme mancanza; gioia infinita, che si mischia alla prefigurazione del dolore della perdita. Questo è ciò che l’esperienza d’amore restituisce, e questa è l’esperienza, elevata a vera sapienza, che Diotima comunica, mentre feconda con le sue parole la mente degli uomini raccolti in quel simposio. Proprio così; lì dove l’amore è parlato, prima ancora che agito, è Diotima a fecondare. La sacerdotessa rovescia l’immagine che vuole che sia l’uomo a depositare il proprio seme nella donna, e parlando attraverso Socrate, la cui conoscenza è stata lei a forgiare, mostra fiera i frutti della propria fecondazione.
Se mi è concesso un confronto un po’ azzardato, è la stessa sorte che, in epoca moderna, si prenderà sulle spalle la grande Lou Andreas-Salomé. Novella Diotima, che senza alcuna modestia ebbe a definirsi nientemeno che esperta dell’amore, da lei dipenderà infatti il destino, e l’opera, dei suoi grandi amanti. Sarà Lou, per esempio, ad ispirare a Nietzsche quell’opera monumentale che è lo Zarathustra. Amò poi di un sincero amore materno il giovane Rilke, salvo poi indicargli la strada dell’autonomia, affinché in se stesso il poeta potesse scorgere la femminilità interiore che lei, dal canto suo, aveva già intravisto. In questo senso, sarà sempre Lou a permettere a Rilke di rinascere poeta. E non da ultimo, Freud, che in Lou riconosce subito un qualcosa di superiore, e che non a caso lega alla filosofia, per la sua capacità di andare sempre oltre: “Arriva lei, e aggiunge ciò che manca”, scriverà il padre della psicoanalisi, al quale toccherà anche di fare l’elogio funebre alla scomparsa dell’amica.
Ebbene, quando si parla d’amore, le donne sembrano saperne di più. E tra la Diotima del Simposio platonico e la moderna Lou Andreas-Salomé, Nadia Fusini nel suo nuovo saggio, uscito per Einaudi e intitolato non a caso Maestre d’amore, sceglie di convocare alcune delle eroine shakespeariane più note, iniziando da quelle delle tragedie, con Giulietta, Desdemona e Cleopatra, passando poi ai personaggi delle commedie, con la Elena di Tutto è bene quel che finisce bene, Caterina da La bisbetica domata, Rosalinda di Come vi piace, e ancora Viola da La dodicesima notte... Ma queste sono solo alcune delle voci che Fusini convoca tra le sue pagine, quasi volesse istituire una sorta di immaginaria genealogia nella quale a riecheggiare non è più l’eco stantio di un’antica subalternità, bensì l’accattivante esaltazione del free will, termine chiaramente da intendersi non solo come “propria volontà”, ma come pensiero - e dunque gesto - fondato sulla disobbedienza, sull’ostinazione. “Vogliono e desiderano anche loro, le donne”, chiarisce Fusini, “e svelano e rivelano, amanti come sono dell’esattezza, affinché tutti capiscano, la verità inconfutabile che per vivere, che è la stessa cosa che amare, bisogna disobbedire, e l’azione umana significativa è sempre trasgressiva”.
Sarà la coraggiosa trasgressione di queste donne - si tratta di donne moderne, sì, non più dame medievali - a dettarne il destino, un destino singolare ma mai individuale; un destino cioè che si iscrive sempre insieme con l’altro, sullo sfondo di un orizzonte dialogico, con un altro-uomo, un altro-maschio, eroe anch’egli a modo suo, che la donna prende per mano, come fa Giulietta con Romeo, al quale ordinerà di rinnegare il suo proprio nome. Non più Montecchi, e nemmeno Romeo, diverranno tutti e due quello che già sono, “tu un uomo e io una donna: basta coi nomi propri, basta con le proprietà dei nomi propri, basta...”
“Come le donne precocemente apprendano un fine intelletto d’amore lo racconta anche Shakespeare”; così esordisce Fusini, il cui intento dichiarato è proprio quello di penetrare dentro il discorso amoroso, per capire quale piega esso assume in quel mondo e in quel teatro, elisabettiano e giacomiano, nell’Inghilterra di fine Cinquecento e inizio Seicento.
Sarebbe ingenuo, dopotutto, credere che l’amore sia sempre lo stesso, o meglio, che il discorso d’amore attraversi il tempo e la storia senza subirne i condizionamenti. Al contrario, la storia influenza e detta la parola amorosa, diversificandola e imprimendole ogni volta una forma differente: dall’amore cristiano a quello cortese cantato dai trovatori, dall’amore romantico a quello sadico e voyeuristico di Artaud e Bataille. Se si guarda all’Inghilterra nel periodo early modern, allora non v’è dubbio alcuno che la novità del discorso amoroso debba essere ricercata nel teatro shakespeariano, nel quale prende corpo una vera e propria “scienza dell’amore” che trova il suo banco di prova lì dove sono le donne a prendere parola, “donne amanti”, che attraverso le loro peripezie mostrano “di che cosa si tratta quando si parla d’amore”.
Dunque Shakespeare e il femminile, tema tanto affascinante quanto rischioso se si considera che le donne in quello stesso teatro non recitavano.
Certo, nella finzione drammaturgica, delle donne non si può fare a meno, ma sul palco, queste, fisicamente non compaiono: le loro sembianze vengono assunte da giovinetti mascherati, travestiti, agghindati, la cui voce ha ancora un suono delicato, flebile. Ecco dunque che proprio qui, su questo punto, Fusini si scontra con un grande paradosso - parlare di un femminile che sembrerebbe essere di fatto assente -, che però lei risolve con intelligenza e sensibilità, perché se è vero che il focus della sua indagine è inizialmente l’Inghilterra tardo elisabettiana, è altrettanto vero che, giunti al termine di questo percorso avvincente, narrato secondo i ritmi di una prosa vibrante, si comprende come l’obiettivo ultimo della studiosa sia in realtà ben più ambizioso, e rintracci in Shakespeare i semi di un discorso che ancora sussurra alle orecchie di noi tutti, donne e uomini di oggi, qualcosa che ci insegna a pensare e vivere l’amore. Qualcosa sul come e sul perché l’amore sia la passione urgente, ambigua, ma necessaria che è. Sul perché quando “cadiamo” in amore, quando cioè cediamo alle sue lusinghe, allora lì, tutti, uomini e donne, gioiamo, patiamo, talvolta godiamo, altre volte simuliamo, proprio come le creature di cui Shakespeare ci parla.
E allora, chi sono le donne di cui Shakespeare ci parla, e che Nadia Fusini magistralmente ci racconta? E chi sono gli uomini - sì, anche loro sono protagonisti - che agiscono accanto alle nostre eroine?
In una Londra dove spopola l’uso del cross-dressing, particolare sul quale non a caso Fusini insiste, ovvero dove, grazie all’abbigliamento e al trucco, uomini e donne si fondono e si confondono, in un gioco divertito che sfida le costruzioni del genere (e di classe), mi chiedo se sia lecito pensare ai personaggi shakespeariani - da Giulietta e Romeo, Desdemona e Otello, Antonio e Cleopatra, a Rosalinda e Orlando, Caterina e Petruccio, Viola e Orsino - ancor più che come a personaggi reali, come a incarnazioni di sembianti differenti, sembianti di uomini e di donne di cui si mostra la direzione, la piega che assumono quando posti in relazione l’uno all’altro. Si tratta cioè di posizionamenti di corpi in amore, di posture da cui si guarda al mondo (e dunque anche all’amore), di cui Fusini offre lo spettro vario, consapevole che sì, certo, la critica ha preso l’amore e ne ha fatto oggetto di un discorso, ma l’amore è e resta prima di tutto un’esperienza, che trova la propria voce solo attraverso storie, racconti, metafore, ogni volta nuove e differenti.
E mentre ripercorre la vicenda amorosa di Cleopatra con Antonio, Fusini si domanda: “chi gode di più? l’uomo o la donna? [...] chi ama di più, gode forse di meno? E tra gli amanti, chi riceve di più? Chi spende di meno? In amore, non è osservabile il paradosso secondo il quale chi più dà, non diventa più povero?”. Sono tutte domande che volutamente non trovano risposta, perché Fusini sa che certe domande non possono risolversi in scena, sul palcoscenico: “La mascherata non maschera, semmai mette in scena le costruzioni del maschile e del femminile, e nel mentre le suggerisce, smentisce le attese più convenzionali”. A risolvere queste domande sarà allora lo spettatore, nel nostro caso, il lettore... noi, insomma, che nel teatro di Shakespeare, e nelle sue parole, troveremo la messa in scena di significati ineliminabili dell’esperienza umana; conoscenza e jouissance insieme, perché, Fusini lo dice chiaramente, uomini e donne possono conoscersi e amarsi anche parlando, non solo fottendo.
Fusini dichiara di aver scritto questo libro, dedicato alle donne in Shakespeare, per testare sul campo l’adagio lacaniano secondo il quale la donna “è l’ora della verità per un uomo”, in quanto è lei a mettere alla prova la facoltà di desiderare dell’uomo, ponendolo di fronte alla verità del suo desiderio, nonché di fronte ai suoi enigmi. E se è vero, come ci è stato insegnato, che il teatro assolve a funzioni catartiche, Maestre d’amore permette a noi lettori moderni di accostarci all’altro, a un’alterità che per qualcuno starà dentro di sé e per qualcun altro di fronte, un’alterità che tutti, in una qualche misura, temiamo, ma al contempo desideriamo.
* Fonte: Doppiozero, 8 Marzo 2021
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E RELIGIONE. Appunti intorno a "L’uomo Mosè" (Freud) e "l’etica della psicoanalisi" (J. Lacan):
"A PROPOSITO DI JUNG" (Elvio Fachinelli, 1967) E A PROPOSITO DI LACAN (E. Fachinelli, 1989). *
COSMOLOGIA E COSMOTEANDRIA. Forse è giunto, finalmente, il tempo della svolta antropologica e del sorgere della Terra: deporre l’elmo di Costantino e parlare nella luce del logos (eu-angelo) e non nel buio del logo (van-gelo)!
FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA MITOLOGIA. Oggi, forse, è tempo di riprendere il cammino e, come indicato da Michael Maier, portarsi oltre Tebe d’Egitto e di Grecia, oltre l’orizzonte tragico di Edipo, l’eroe dai piedi gonfi , oltre la stazione dell’ Emblema XXXIX ("Atalanta Fugiens", 1618), nella direzione di Nietzsche: "Ecce Homo. Come si diviene ciò che si è" (1888) e, finalmente, rileggere le note del 1982 su "Così parlò Edipo a Cuernevaca" e riflettere su quanto proviene dalla "voce" (1982) di Franca Ongaro Basaglia: "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (1978). **
"FREUD O JUNG?" (E. GLOVER, 1950). La lingua batte dove il dente duole: è "un’impostazione vicina a quella esigenza antropologica dell’estatico" su cui Elvio Fachinelli richiamava l’attenzione (già dal 1975, con le note critiche sul "quinto privilegio dell’inconscio" e nel 1989, con il suo ultimo lavoro, dedicato a "La mente estatica" - alla mente accogliente).
* Per Jung, si cfr. E. Fachinelli, "Il bambino dalle uova d’oro. Brevi scritti con testi di Freud, Reich, Benjamin e Rose Thè", Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 71-75; per Lacan, si cfr. E. Fachinelli, "Lacan e la Cosa", in "La mente estatica", Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195.
** Franca Ongaro Basaglia, "Una voce Riflessioni sulla donna", Il Saggiatore, Milano 1982.
Federico La Sala
André Green, a dieci anni dalla morte.
La ruota delle meraviglie, ovvero l’Edipo è per sempre
di Franca Munari *
La diversità delle configurazioni cliniche osservate nel campo psicoanalitico potrebbe essere paragonata a un sistema mitico il cui luogo geometrico sarebbe la rosa assente da ogni bouquet: l’Edipo introvabile. Ma una volta ancora, ci sarebbe l’inevitabile allusione al mito di riferimento collocato in posizione ordinatrice. (André Green, 1992, Slegare,169)
Il libro che ho amato, e amo, di più di André Green, uno dei più consunti nella mia libreria, è Slegare. Un’opera che riunisce i suoi lavori di “psicoanalisi applicata” alla letteratura e i suoi testi sull’Edipo.
Riferendosi a Freud Green scrive: “E’ lo spazio della scena teatrale, dunque sociale, che fa del fantasma una quasi realtà. Così mentre di solito si tende a fare del teatro un luogo di rappresentazione dell’immaginario per eccellenza, Freud, al contrario sottolinea la sua funzione “realizzante”. Il teatro rappresenta questo fantasma e l’incarna come se per lo spettatore fosse reale il tempo dello spettacolo” (Green, 1992, 161).
Per queste molte ragioni Green ci accompagnerà sulla scena di La Ruota delle Meraviglie (Wonder Wheel) (2017) film diretto da Woody Allen ambientato nella pittoresca spiaggia di Coney Island. La storia che qui si narra racconta del potente rilancio della conflittualità edipica che l’adolescente agisce all’interno del suo nucleo familiare. Situazione che sempre determina una riviviscenza dell’assetto e delle conflittualità edipiche dei genitori che, inevitabilmente catturati in questo gioco delle parti, “edipicamente” gli risponderanno.
Se è possibile individuare dei nuclei di snodo del complesso edipico nel corso dello sviluppo, nell’infanzia e nell’adolescenza, la sua funzione organizzativa agirà e si manifesterà però continuativamente nella vita psichica, dando forma e sostanza agli affetti, alle pulsioni e alle relazioni. Lo vediamo continuamente riemergere nei sogni, come in tutte le relazioni umane. Anche una sorta di shibolleth sociale, che permette anche quel continuo ribaltamento delle parti, che Green definisce un oggetto transizionale collettivo. Infatti “sono rari i soggetti che in età adulta non continuano a vivere intensamente le ripercussioni della loro infanzia edipica. E ci deve essere una grave disorganizzazione della personalità perché non ne sussista più alcuna testimonianza indiretta” (ibid., 127). Perché, mai si smette di essere figli se anche si è genitori, e nel complesso gioco delle identificazioni l’assunzione di parti dell’adulto da parte del bambino è sicuramente molto precoce. Le fantasie di impossessamento, come quelle dell’uccisione di un genitore, sono facilmente ribaltabili, anzi da lì tutto è iniziato: Laio, complice Giocasta cercò di uccidere Edipo per timore di poter essere da lui ucciso.
Quindi se da un lato l’edipo struttura la doppia differenza dei sessi e delle generazioni e dà “origine alla doppia identificazione maschile e femminile, interiorizzazione dei tratti che si suppongono appartenere ai genitori sessualmente differenziati” (ibid., 158-159), dall’altro perpetua nel corso di tutta l’umana esistenza, sia i conflitti relazionali propri della triangolazione che lo costituisce, sia i conflitti identitari, a partire da indifferenziazione/differenziazione, fino all’acquisizione di una identità sessuata. Va da sé che il complesso di castrazione avrà buon gioco nel declinare qui tutte le sue potenzialità strutturanti e destrutturanti (Green, 1990).
“L’uscita dal cerchio edipico avviene grazie all’identificazione con il rivale, alla desessualizzazione dei desideri verso l’oggetto d’amore, all’inibizione dell’aggressività. Il destino delle pulsioni subisce una sublimazione richiesta dal gruppo culturale e nuove scelte d’oggetto avvengono al di fuori dello spazio familiare” (Green, 1992, 159).
Percorsi complessi e facilmente soggetti a arresti e a movimenti regressivi, quindi per molte ragioni è estremamente facile ritornare sulle dinamiche edipiche e reiterarle.
Siamo nel 1950, le vite di 5 personaggi si intrecciano ai piedi della celebre ruota panoramica costruita negli anni venti: quella di Ginny ex attrice emotivamente instabile, ora cameriera presso un modesto ristorante di pesce; del suo secondo marito Humpty rozzo manovratore di giostre; del giovane Mickey un bagnino di bell’aspetto che coltiva aspirazioni da commediografo e sarà il narratore della storia; del preadolescente figlio di Ginny, Richie, un ragazzino piromane, appassionato di cinema come la madre; e di Carolina la figlia che Humpty non ha più voluto vedere perché ha sposato un potente e ricco gangster e che ora si rifugia da loro perché costretta a nascondersi per sfuggire a un gruppo di spietati gangster che le dà la caccia, perché ‘ha parlato’ con la polizia.
Ginny, perennemente insoddisfatta, depressa, preda di continui mal di testa, continua ad agire tradimenti nei confronti dei suoi partner, certa della importanza e della bontà salvifica di ogni nuova relazione, ora sta tradendo il marito con Mickey, il bagnino. Frustrata perché non è riuscita a fare l’attrice, conserva gli abiti di scena e i gioielli di quella breve parentesi della sua vita, di nascosto li indossa in casa, malamente, con la biancheria intima che affiora dalle scollature.
Di Carolina è subito gelosa, prima per le attenzioni del padre nei suoi confronti, poi dolorosamente, terribilmente per la sua relazione con Mickey che di lei si è innamorato. Fa in modo che venga trovata e catturata dai gangster che la stanno cercando.
Il libro che sulla spiaggia cade di mano a Mickey, casualità, pretesto per conoscere Carolina, è Amleto e Edipo di Jones, un testo del 1949, quindi recentissimo nel contesto del film.
Irresoluti, conflittuali, trascinati da forze che li governano, inconsapevoli dei propri fantasmi, gli attori di questa riedizione del mito, agiscono e recitano questo dramma, ma anche, consapevolmente, recitano nel dramma: Mickey, il personaggio del bagnino nel film, contemporaneamente recita come narratore, nel tempo di un racconto successivo agli eventi; Ginny costretta a fare la cameriera, dice di recitare la parte della cameriera e cerca di recitare, per se stessa e per Mickey, che ha compreso la sua deliberata responsabilità nell’aver consegnato Carolina ai gangster, un diniego della sua colpa. Lo fa, con uno straordinario pezzo di bravura, fra la ostentata finzione e la belle indifference isterica.
“Giocasta e lady Macbeth tengono lo stesso discorso a Edipo come a Macbeth. La prima si sforza di dissipare i timori del proprio sposo ed evoca l’incesto in sogno, la seconda vuol porre fine all’interrogarsi dell’assassino che si stupisce di non poter pronunciare il “Così sia” in risposta al “Dio vi benedica” uscito dalla bocca delle sue vittime mentre si appresta a uccidere nel sonno. ... Questo invito a non pensare, a non pensarci, riguarda solo il senso di colpa” (Green, 1992, 223).
Assistiamo qui al rimescolamento degli elementi che il mito organizza. Abbiamo un giovane uomo, Mickey, che si innamora di una donna matura, ma poi la lascia per una coetanea. Abbiamo una madre che tradisce il marito con un uomo che potrebbe esserle figlio e per cercare di conservarselo uccide la figliastra. Abbiamo un padre, geloso del potente marito della figlia, che, quando essa lascia il marito e gli chiede di proteggerla, la riaccoglie, anche inorgoglito dal suo riacquistato potere, pur sapendo con questo di mettere a repentaglio la sua nuova famiglia. Abbiamo una giovanissima donna, una adolescente ancora, assolutamente consapevole della sua capacità seduttiva, ma che continuamente invoca la sua impossibilità a comprendere, la sua immaturità, la sua insicurezza per ogni errore da lei commesso, come Giocasta, come lady Macbeth, come Ginny. Abbiamo un bambino piromane e affamato di storie che di fronte alla scena primaria che continuamente la madre gli ripropone, agisce compulsivamente eccitamento e distruttività. Il fuoco che lui pericolosamente accende di continuo è il fuoco che anima le due donne, Ginny e Carolina. La magia della straordinaria fotografia di Storaro concretamente le incendia illuminando i loro rossi capelli.
Si tratta del fuoco dell’Edipo.
Bibliografia
Green A. (1990). Il complesso di castrazione. Roma, Borla, 1991.
Green A. (1992). Slegare. Roma, Borla, 1994.
* Fonte: Centro Veneto di Psicoanalisi.
NOTA:"𝗟𝗮 𝗿𝘂𝗼𝘁𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗺𝗲𝗿𝗮𝘃𝗶𝗴𝗹𝗶𝗲, 𝗼𝘃𝘃𝗲𝗿𝗼 𝗹’𝗘𝗱𝗶𝗽𝗼 è 𝗽𝗲𝗿 𝘀𝗲𝗺𝗽𝗿𝗲"?!
Come in terra, così in cielo?! Meglio non affrettarsi...
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (Freud, 1929) E PSICOANALISI. «"Chissà che #caos avrai nella testa" dice una mamma al figlio facendo triathlon tra i fumetti, i giochi e le magliette sparse sul pavimento della cameretta.» (Dania Cusenza).
Non è meglio prima aprire la porta e uscire dalla caverna (Platone), dalla claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983), e riprendere la rivoluzione copernicana e la navigazione nell’oceano celeste (Keplero e Galileo)?!
Federico La Sala
CINEMA, PLATONISMO, E COSTITUZIONE.
L’occhio di Wenders
di Felice Cimatti (Fata Morgana web, 25 Aprile 2022)
«L’occhio» scriveva Jacques Lacan in un breve testo del 1961 dedicato a Maurice Merleau-Ponty, «è fatto proprio per non vedere» (Lacan 2013, p. 183). L’occhio, ovviamente, vede, tuttavia questo non vuol dire che sia fatto per vedere, nel senso usuale del verbo “vedere”. Il vedere, nella nostra tradizione, è il gesto sovrano attraverso cui il corpo del soggetto percettivo prende possesso del mondo; infatti, nella vista l’umano “abbraccia” con lo sguardo il campo del visibile che si offre a lui in tutta la sua estensione. Così lo spettacolo del mondo è l’oggetto che corrisponde al soggetto che lo contempla. Da notare che la posizione del soggetto dello sguardo è esterna rispetto a ciò che sta osservando, come se occupasse da una posizione privilegiata (secondo il Dizionario online Treccani vedere significa appunto “percepire stimoli esterni per mezzo della funzione visiva”). Chi vede è nel mondo, ma come se, in fondo, non ne facesse parte in senso proprio. C’è il mondo, e c’è chi lo vede, il soggetto.
Questo radicale dualismo produce, tuttavia, un effetto inaspettato, e forse è proprio riferendosi a questo effetto che Lacan può sostenere che l’occhio non è fatto per vedere: siccome l’occhio che guarda non ritiene di fare parte del mondo che sta osservando, ne segue che quello stesso occhio, alla fine, non riesce a partecipare veramente a ciò che vede: quest’occhio sovrano finisce per essere un occhio disattento perché troppo lontano da ciò che sta vedendo. Come dice in un’intervista Wim Wenders: «Senza dubbio l’intorpidimento del pubblico si sta estendendo; e i film diventano sempre meno “visibili”, per così dire. Non è un caso che l’ironia o le sottigliezze siano merce sempre più rara. E questo deriva dalla sazietà, dalla mole delle immagini riversate sul pubblico, dal fatto che ascoltando e guardando troppo, tutte le nostre impressioni vengono eccitate al massimo. Ogni genere di complessità, di diversità viene spazzato via» (Wenders 2022, p. 30).
Per vedere la complessità serve tempo, attenzione, pazienza, soprattutto vicinanza. Qualità che l’occhio sovrano non si può permettere, ché anzi può dirsi sovrano solo se rifiuta ogni vicinanza con ciò che sta vedendo. In questo senso il vedere in senso proprio, il vedere tattile, ravvicinato, che si “sporca” con il visibile, è al contrario un vedere che si lascia trasformare da ciò che vede. Si tratta di un vedere che non sa già in anticipo che cosa è che si sta vedendo, un vedere, cioè, che è tanto più libero quanto più è disposto a rinunciare alla posizione esterna e sovrana che, invece, qualifica il vedere che si colloca fuori del visibile. Il cinema, per Wenders, è appunto questo esperimento in cui qualcosa si offre alla vita, ma senza predeterminare che cos’è che si sta offrendo alla vista:
Si tratta di offrire qualcosa alla vista dello spettatore, evitando però che quanto si offre sia così saturo di “visibile” - così pieno di immagini, di sequenze visive, di potenza immaginaria - da impedire, paradossalmente, di vederlo. Il cineasta, per Wenders, lavora con il visibile, ma non per guidare lo sguardo dello spettatore, al contrario, per liberarlo dall’illusione della visione sovrana, piena di sé, lontana e supponente. La posta in gioco è liberare lo sguardo. O, per usare ancora la curiosa formula lacaniana, per liberarlo dalla credenza che l’occhio sia fatto per vedere. È per questa ragione che per Wenders il cinema è così legato alla contingenza, perché il bisogno di evitare la «manipolazione» non vale solo nei confronti dello spettatore, ma anche del regista rispetto al “proprio” stesso film: «Ogni giorno, mi trovo con la macchina da presa in un luogo determinato che mi dà qualcosa, sono profondamente legato, anche esposto, a una realtà che mi nutre. C’è sempre un paesaggio, oggetti, uccelli che volano attraversando il campo di ripresa, c’è qualcuno dietro la macchina da presa, ci sono colori e forme, c’è sempre una realtà presente» (ivi, pp. 57-58). In questo senso il vedere non sovrano, distaccato e dualistico, è un vedere tattile, sempre esposto all’urto imprevedibile con un evento fortuito: «Un paesaggio, oggetti, uccelli che volano attraversando il campo di ripresa».
L’occhio, per Wenders, vede solo se tocca ed è toccato. Solo se, per così dire, si lascia sporcare dal visibile. Allo stesso tempo questo vedere tattile, da scultore più che da pittore, richiede un continuo esercizio di allontanamento dal rischio di assumere una posizione definitiva sul mondo: se il soggetto sovrano è fuori dal mondo, il vedere alla Wenders è un vedere mobile, vagabondo, irrequieto, perché il visibile è sempre più ricco del nostro bisogno di fissarlo in un’immagine, per quanto splendida e definitiva:
Per «poter vedere» occorre allontanarsi dal visibile, ma anche ritornarci. Si tratta di un vedere che riesce propriamente a vedere solo nel movimento fra queste due posizioni, solo oscillando fra partire e tornare, così come una mano, per esplorare un oggetto, lo deve percorrere in tutte le dimensioni. Wenders, così, può rimanere fedele all’esigenza fondamentale di non manipolare lo sguardo dello spettatore solo “costringendolo” (ed è curioso, perché anche questa è una forma di manipolazione) a non fermarsi su un’immagine, solo facendolo “viaggiare” fra le immagini. Si tratta sempre della stessa operazione, rinunciare alla posizione sovrana dello sguardo, rinunciare al proprio potere di tirarsi fuori dal mondo. Si tratta di stare nel mondo, raccontandolo attraverso le immagini. Si tratta, in sostanza, di mettere in movimento le cose, cioè, appunto, liberarle dalla fissità a cui lo sguardo sovrano le costringe:
«Come fare per mettere in movimento le cose?», è questa la domanda fondamentale, e non solo per il cinema di Wenders. Una domanda del tutto analoga a quest’altra: come fare per tornare a vedere il mondo? E quindi, rovesciandola? Che posizione deve assumere il soggetto dello sguardo sovrano perché il mondo possa farsi vedere? In effetti, come dice Wenders, «le città hanno reso invisibile la terra» (ivi, p. 136), ossia, il nostro modo di vedere il mondo come se fosse il nostro mondo, cioè come nient’altro che l’oggetto della nostra sovrana potenza visiva, ha finito per rendere invisibile la terra. Si tratta di invertire questo movimento, restituire la visibilità al mondo, e quindi destituire la posizione privilegiata dello sguardo umano sul mondo:
Torniamo, allora, alla paradossale affermazione di Lacan, di un occhio che non è fatto per vedere, al contrario, di un occhio che deve lasciare al mondo la possibilità di farsi vedere e, soprattutto, di un occhio che si destituisce affinché sia il mondo stesso a vedere. Lo sguardo sovrano vede cose, vede e costruisce oggetti: l’occhio di Wenders, invece, cerca - facendo muovere le cose - di immaginare il movimento contrario; così, parlando ad un congresso di architetti, li esorta a «creare spazi liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro» (ivi, p. 137). Vedere il vuoto, cioè vedere il vuoto non come assenza di qualcosa, bensì vedere il vuoto come presenza, come pienezza di mondo e di vita: «Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo; pensare, invece, prenderne le distanze» (ivi, p. 72). A che il mondo sia, a questo serve l’occhio. "L’atto di vedere" di Wim Wenders
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA "KANT CON SADE" E SI AUTO-INTERPRETA CON "L’ORIGINE DEL MONDO" DI COURBET. Due note
"PERVERSIONI". UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
La legge del porno
di Vanni Codeluppi (Doppiozero, 11.05.2021).
Come mai Beppe Grillo ha realizzato un video con il quale intendeva scagionare dalle accuse di violenza sessuale suo figlio e invece probabilmente ha inguaiato ancora di più quest’ultimo? Non sappiamo come questa vicenda finirà sul piano giudiziario, ma è interessante chiedersi come mai un comunicatore dalla lunga esperienza come lui è incappato in questo errore. Le ragioni possono essere diverse, ma una è meritevole di riflessione: Grillo probabilmente si è fatto influenzare da quello che pensano i giovani e ha scambiato le idee di questi per qualcosa che viene condiviso dall’intera società. Perciò ha fatto suoi i pensieri dei giovani, ritenendo che giocassero a favore di suo figlio. Nella società invece continua a essere predominante una legge morale che è differente, ma che è quella che trova una traduzione nella legge giudiziaria.
I giovani di oggi ritengono che sia normale adottare quella che possiamo chiamare “la legge del porno”. La possiamo chiamare così perché è frutto di quella massiccia diffusione di contenuti pornografici che è avvenuta negli ultimi anni grazie al sempre maggiore utilizzo del Web ed è stata analizzata da Marco Menicocci in Pornografia di massa (Altravista 2014). I dati disponibili su questo fenomeno sono scarsi, ma si pensi che negli Stati Uniti a novembre 2020 la parola “pornhub” è stata più ricercata su Google di “coronavirus” e “Trump”.
Questo fenomeno è particolarmente grave in un Paese come l’Italia, nel quale da sempre l’educazione sessuale non esiste e il processo di acculturazione dei più giovani rispetto al sesso viene in gran parte svolto da parte dei media. È però ben differente l’acculturazione al sesso del passato, basata sulla lettura occasionale di un fumetto o di un giornaletto illustrato oppure sulla visione di un film in un cinema specializzato, da quella che è presente nell’attuale era digitale. Una volta la società in qualche misura censurava e limitava l’esposizione al materiale pornografico, mentre oggi rispetto a ciò non esiste praticamente nessun vincolo. Va considerato che oggi le persone si rapportano al Web per molte ore ogni giorno, la metà degli adolescenti per più di cinque ore al giorno (DAD esclusa), secondo una recente indagine della Fondazione PRO. Inoltre, la potenza comunicativa dei media digitali odierni è decisamente superiore rispetto a quella dei media del passato.
I nuovi media, infatti, sono estremamente ricchi sul piano linguistico e offrono a un giovane di oggi un gigantesco supermercato liberamente accessibile sui cui scaffali si possono trovare pratiche sessuali di ogni genere. È ovvio perciò che tali pratiche vengano scambiate da persone facilmente influenzabili come i più giovani per la norma condivisa nella società.
Il vero problema però è che da molto tempo i materiali di tipo pornografico contengono una ideologia fortemente maschilista che prevede che la donna rivesta un ruolo subordinato e passivo. Forse perché sono nati come materiali prodotti da uomini per essere consumati da altri uomini . Sta di fatto che, come scriveva qualche tempo fa Pietro Adamo nel volume Il porno di massa (Cortina, 2004), «Almeno da metà anni Novanta la messa in scena hard ha privilegiato una potente e prepotente iconografia della violenza, organizzata in massima parte su meccanismi di esplicita subordinazione della femmina da parte del maschio». Negli ultimi anni, come si è detto, il consumo di materiale pornografico si è ampliato e ciò ha comportato che al suo interno sia entrata anche una audience femminile. Il porno continua però a essere caratterizzato da un’ideologia maschilista e le donne che lo consumano l’accettano solitamente anch’esse come qualcosa di normale.
Con la diffusione del consumo di materiale porno attraverso i potenti strumenti digitali di oggi tale ideologia si è rafforzata. E a volte si traduce in concreti comportamenti violenti, come è dimostrato dai sempre più frequenti stupri di gruppo. La scena di una gang bang in cui una donna si accoppia con molti uomini, se vista tante volte, può diventare qualcosa da praticare in un normale sabato sera. Questo non vuol dire naturalmente che chi guarda del materiale pornografico sia destinato a diventare uno stupratore. Vuol dire però che l’attuale iperconsumo di pornografia via Web “normalizza” in misura crescente la violenza verso le donne.
Perché nella cultura sociale si creano degli standard di riferimento per i comportamenti e questi vengono progressivamente condivisi. Non stiamo parlando dell’esistenza di un rapporto causa-effetto tra un messaggio pornografico e dei comportamenti illeciti sul piano morale, ma del fatto che i messaggi si sommano e sommandosi potenziano i loro effetti nella società. L’influenza di un singolo messaggio è trascurabile, ma non lo è quella di migliaia di messaggi. I quali producono pertanto nuovi standard all’interno della cultura sociale.
Non è un caso che dall’indagine Eurispes Sesso, erotismo e sentimenti, i giovani fuori dagli schemi di qualche tempo fa sia emerso come nelle coppie di giovani sposi intervistate più del 70% delle persone consuma abitualmente materiale pornografico, il 44% tradisce il proprio partner e quasi la metà vorrebbe ricorrere a pratiche sadomasochistiche.
Possiamo dire pertanto che da una decina d’anni, cioè da quando l’utilizzo di Pornhub, YouPorn e altri siti Web simili si è diffuso a livello di massa, nella società è nata anche una nuova morale sessuale. Una morale che abbiamo chiamato “la legge del porno” e che viene spesso condivisa da chi si è acculturato al suo interno al mondo del sesso. Generando così nella società una vera e propria frattura culturale, ma anche probabilmente dando vita a molti dei recenti fatti di cronaca nei quali le donne rivestono il ruolo di vittima.
Essere giusti con (Kant e) Freud....
PACCOTTIGLIA FREUDIANA
di Sergio Benvenuto *
Molti, e non solo psicoanalisti, votano a Sigmund Freud un vero culto. Per loro Freud non è solo l’inventore di una teoria e di una pratica che hanno marcato la nostra epoca, ma è un genio che raramente si è sbagliato. Il rovescio di questo culto della personalità sono i Freud bashers, quegli autori che non solo attaccano radicalmente Freud e la psicoanalisi, ma dedicano spesso gran parte della loro vita a distruggere il mito di Freud. Ho sempre cercato di sfuggire a questo doppio polo, per confrontarmi con un’immagine del tutto laica - né agiografica né spregiativa - di Freud.
In conclusione. Ho segnalato questi cedimenti intellettuali di Freud per liberarci di una persistente egemonia del pensiero freudiano? Ricordare le concessioni di Freud alla paccottiglia storiografica è parte della campagna per screditare Freud e la psicoanalisi?
No, perché sono convinto che Freud abbia detto alcune cose fondamentali, e che la pratica analitica non è riducibile a una pratica magica o suggestiva. Ma questo a condizione di non prendere Freud alla lettera, di non far parte di una sacrestia psicoanalitica del culto freudiano. Freud era un uomo della propria epoca, con pregiudizi e limiti di certi intellettuali razionalisti della propria epoca, aveva i suoi punti ciechi. Insomma, non si può comprare Freud in toto.
Ma proprio questo dovrebbe permetterci di mettere in luce ciò che in Freud non è effimero, fossero anche solo due o tre cose... Come facciamo del resto con quasi tutti i grandi autori del passato: distinguiamo ciò che resta di un autore, da aspetti transeunti legati alle mode e alle fisime del pubblico dell’epoca, a idiosincrasie personali che oggi non ci dicono più nulla.... Questo è vero per Platone, per Dante, per Molière, per Kant... per tutti. Occorre voltare pagina nella storiografia psicoanalitica: uscire dall’alternativa “ricostruzione pia e pietosa” versus “demistificazione demolitiva”, prendere la giusta distanza da Freud e dalla psicoanalisi. E costruire, anche attraverso Freud, una pratica della soggettività giusta per il XXI° secolo.
* Fonte: Le parole e le cose, 15 febbraio 2021 (ripresa parziale - senza note).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA: FREUD CON KANT.
FLS
L’Uno in psicoanalisi. Un fondamento fonduto. Il Seminario XIX “...o peggio” di Jacques Lacan
Da poco pubblicato nella sua edizione italiana da Einaudi, il Seminario XIX di Jacques Lacan dall’enigmatico titolo “...o peggio”, pronunciato durante l’anno accademico 1971-1972 torna su alcuni dei temi più importanti che hanno caratterizzato l’insegnamento dello psicoanalista francese. Come quello del concetto di Uno: che non è quello che la filosofia vorrebbe mettere a fondamento del pensiero, ma è quello equivoco, paradossale, ambiguo con cui ha a che fare l’inconscio
di Alessandro Siciliano (DinamoPress, 29 novembre 2020)
“Fondamento” è un termine che ricorre spesso nelle pagine di questo seminario (Jacques Lacan, Il seminario. Libro XIX. ... o peggio. 1971-1972, testo stabilito da Jacques-Alain Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2020). La questione che maggiormente interroga qui Lacan è quella dell’origine di ogni fondamento: l’Uno. Come si origina l’Uno? Com’è possibile che, dal nulla, si manifesti qualcosa come Uno? Come si passa dallo Zero all’Uno? Che dall’indifferenziato si stacchi ed emerga qualcosa come Uno, come principio, come inizio di una serie, di una struttura, è ciò che classicamente nel discorso della filosofia desta meraviglia. Perché c’è qualcosa, anziché il nulla? Con tale questione, dentro e fuori la filosofia, Lacan qui si confronta, a partire da quel dialogo platonico in cui a parlare, a dirsi, è proprio l’Uno stesso, il Parmenide.
C’è un’altra cosa che ricorre spesso, quando Lacan parla di fondamento in queste pagine, ed è una cautela, un’attenzione a «non considerare questo fondato come troppo fondamentale» (p. 209), vale a dire a non fare del fondamento qualcosa di immaginario, di consistente, di non rappresentarselo cioè come un mito.
Anziché dunque indagare il fondamento in quanto essere, Lacan si mette qui sulle tracce della sua esistenza al di qua di ogni essere, al di qua di ogni rappresentazione. In più momenti, gioca con i termini fonder e fondre, fondare e fondere. E ci dice: «per fondare, bisogna fondere». E poco dopo: «[...] Solo gli equivoci fondano e fondono. [...] Quello che mi interessa è il significante come Uno, e l’unico interesse del significante sono gli equivoci che possono scaturirne» (p. 205).
Abbiamo dunque qui una linea di ricerca piuttosto chiara - chiara nella sua paradossalità. Ciò che interessa lo psicoanalista in questo seminario è il significante come Uno, il primo significante, il punto di origine della batteria dei significanti che costituiscono un essere parlante. Saremmo portati a pensare che il significante come Uno abbia, tra le sue caratteristiche, innanzitutto quella di essere univoco, a senso unico, identico a sé. E invece Lacan ci dice che la psicoanalisi ha messo in luce che dal significante come Uno scaturiscono equivoci, e che tali equivoci sono il luogo privilegiato del lavoro di analisi.
Ma se l’Uno è uno, se esso non è due o molti, come può essere equivoco?
* I significanti come Uno - nell’algebra lacaniana S1 - sono i significanti padroni che determinano la vita di un soggetto, i punti in cui si fissano nell’inconscio i rapporti tra soggetto e discorso dell’Altro. Obiettivo di un’analisi è mettere al lavoro il soggetto al fine di reperirli, costruirli, fare in modo che possano produrre tutta la propria significazione attraverso quello che Jacques-Alain Miller ha delineato come un lavoro di amplificazione, prima, e riduzione, poi. Tramite il lavoro dell’analisi, il soggetto entra in contatto con il sapere che tali S1 organizzano inconsciamente.
«Nell’analisi, dice Lacan, prevale una cosa, e cioè che c’è un sapere che si trae dal soggetto. Al posto del polo del godimento» - nel posto in alto a destra nello schema dei quattro discorsi, posto detto del godimento o anche del lavoro - «il discorso analitico mette la S barrata. Questo sapere risulta dal vacillamento, dall’atto mancato, dal sogno, dal lavoro dell’analizzante». E qui ciò su cui vorrei portare maggiormente l’attenzione: «è un sapere che non è supposto, è sapere caduco, rimasuglio di sapere, surrogato di sapere. È questo l’inconscio» (p. 73).
Rimasuglio, surrogato, caduco. Perché Lacan non dice semplicemente che l’inconscio è un sapere propriamente detto, di cui il soggetto, tramite l’analisi, può venire a conoscenza? Perché invece ne sottolinea questo carattere parziale, surrogato, spezzettato, come qualcosa che si ottiene come resto e come scarto? Perché altrimenti non sarebbe l’inconscio freudiano, sarebbe invece un sapere che, inconsapevole, passa alla consapevolezza, in una sorta di insight integrale; sarebbe cioè possibile una piena traduzione dell’inconscio nella sfera della coscienza. Il sapere organizzato da questi S1 arriverebbe a essere un sapere articolato tutto nella dimensione della coscienza. Avremmo, cioè, una esautorazione dell’inconscio.
Ça rêve, ça rate, ça rit; sogna, fallisce e ride, l’inconscio (Jacques Lacan, Il mio insegnamento, la sua natura e i suoi fini, pp. 67-68). È per questo che la tesi che Lacan segue in questo seminario non è quella di certa filosofia, che lavora per la conoscenza dell’Uno, per cui “l’Uno è”, ma una tesi certamente inedita, quella per cui “c’è dell’Uno”, al partitivo. Non lo dice nemmeno correttamente, non dice “il y a de l’un”, ma pronuncia “yadl’un”, c’èdl’uno. Dunque ne indica il carattere di sincope, di surrogato, di pezzo (c’è dell’Uno), e lo fonde, con l’intenzione di studiarne il fondamento al di qua dell’essere. Si mette sulle tracce del fonduto del fondato, potremmo dire.
Come le fondamenta rispetto ai muri di un edificio, i significanti Uno fissano e stabilizzano una struttura di discorso. Una volta fissate le fondamenta, la struttura è fondata. Ma, lo abbiamo detto, ciò che ci interessa in psicoanalisi è, sì, il fondamento, da prendersi però nella sua natura di equivoco linguistico, o potremmo dire linguisterico con un termine che troviamo nel seminario dell’anno successivo a questo. Non dobbiamo, dice Lacan, considerare il fondamento come troppo fondamentale, giacché è grazie all’equivoco e non al significato o al senso, che può risuonare al meglio il significante radicato nell’inconscio, nella carne del soggetto. È col lavoro dell’interpretazione analitica, che mira a «produrre delle onde» semantiche al fine di far vacillare il senso stabilito e stabile, che meglio può evidenziarsi, può dimostrarsi il punto di scaturigine della significazione, il significante come Uno.
*
A proposito di muri e fondamenta, nel capitolo che Jacques-Alain Miller titola Topologia della parola troviamo una metafora che parla proprio del muro. Qui Lacan si interroga sul senso, sulla necessità di un suo sgonfiamento in psicoanalisi. Il riferimento è ad alcuni manoscritti di Leonardo Da Vinci riguardanti la figurazione. «Guardate il muro», dice Leonardo. Sul muro si possono scorgere delle macchie, piccole increspature, talvolta delle muffe. «Una macchia di muffa è un’ottima occasione per trasformarla in una madonna», ci dice Lacan con Leonardo, «oppure in un atleta muscoloso. La muffa si presta particolarmente bene perché presenta sempre delle ombre, dei buchi. È molto importante accorgersi che sui muri c’è un genere di cose che si prestano alla figurazione, alla creazione artistica, come si dice. La macchia stessa è il figurativo in quanto tale» (p. 68).
Qui Lacan ci invita a considerare il muro nel suo al di qua e nel suo al di là. Al di qua del muro, abbiamo l’osservatore, che guarda le immagini che si formano a partire da macchie, buchi e ombre, e attraverso cui costruisce le figure in cui il desiderio si articola e si capta. Sono queste figure, dice Lacan, che si prestano a far «risonare la lira del desiderio», l’erotismo. È questo il territorio privilegiato del senso, del compiacimento e dell’alimentazione del desiderio nel suo versante immaginario. Una figura, potremmo dire così, è una organizzazione di senso a opera del desiderio inconscio, a partire da macchie e ombre. «C’è un senso, dice Lacan, per coloro che, davanti al muro, si compiacciono delle macchie di muffa che si rivelano tanto adatte a essere trasformate in una madonna o in un dorso di atleta. Ma noi non possiamo accontentarci di questi sensi confusionali [sens-confusions]. In fin dei conti non servono ad altro che a far risonare la lira del desiderio, l’erotismo, per chiamare le cose con il loro nome» (p. 70).
«Voi comprendete fintantoché il significante non vi ferma. Ora, comprendere è sempre essere a propria volta compresi negli effetti del discorso» (p.147). E così Lacan ci invita a portare l’attenzione a ciò che c’è al di là del muro. Incontriamo subito l’impasse: «Al di là del muro, tanto per dirvelo subito, non c’è altro, per quel che ne sappiamo, se non quel reale che si segnala precisamente come impossibile, per l’impossibilità di raggiungerlo al di là del muro» (p. 69). Nessuna illusione, dunque, di accedere a un al di là del muro, alla manifestazione del fondamento reale. Ciò con cui siamo confrontati in quanto esseri parlanti è il muro del linguaggio. Volerne cogliere l’al di là reale richiede un certo lavoro, che è quello della scienza e, in particolare delle matematiche. La scienza moderna ha trovato il modo, con i numeri e le formule, di avere a che fare con ciò che c’è dietro il muro. Ma per il soggetto che frequenta l’esperienza analitica, che è “affetto” dal significante nei suoi equivoci, non si dà un discorso di ciò che “lavora” dietro il muro.
Che non si dia discorso, però, non significa che non si dia una certa forma di “contatto”, cosa a cui una psicoanalisi punta. Sul muro dell’essere parlante c’è infatti un “clivaggio”, «c’è qualcosa che è installato davanti, e che ho chiamato parola e linguaggio, mentre dietro qualcosa lavora, forse matematicamente» (p. 70). Un clivaggio, una sfaldatura sul muro, una fessura. Di ciò che dietro al muro lavora, qualcosa passa da questa fessura; e forse questo qualcosa ha a che fare con la formazione di certe macchie, certe increspature, certe muffe.
È per tale motivo che in psicoanalisi «l’unico interesse del significante sono gli equivoci che possono scaturirne». Dall’ordine della figura, nella sua forma stabilita, attraverso la presa in carico degli equivoci di quella stessa figura, di ciò che nella figura non quadra, una psicoanalisi lavora in negativo; dalla figura alla macchia, dalla macchia alla muffa, dalla muffa alla fessura. Ci si indirizza cioè verso i punti di insorgenza della fenditura sul muro, anziché soffermarsi sulla contemplazione, o sulla riconfigurazione delle figure sul muro, e questo significa orientare un’analisi verso il reale, verso la causa materiale del proprio dire.
Quando l’equivoco significante viene messo al lavoro dall’interpretazione analitica, sua omologa, si tocca indirettamente il punto di scaturigine dell’equivoco stesso, il c’è dell’Uno del significante nella sua “natura” di surrogato, di rimasuglio parziale e informe. È per questo che in Ancora, seminario dell’anno successivo, Lacan dirà che, più che il linguaggio, il campo di lavoro di una psicoanalisi è lalangue, lalingua. Anche qui, un fonduto! Che cos’è lalingua? La fusione equivoca e crea un litorale tra la lallazione e il linguaggio articolato, oltre che richiamare il pezzo di corpo. Lacan ne dà una definizione: «Una lingua fra tante altre non è niente di più che l’integrale degli equivoci che la sua storia vi ha lasciato persistere» (Jacques Lacan, Altri scritti, p. 488).
Lalingua per Lacan è un luogo di impasti e disimpasti tra simbolico e reale, luogo in cui il significante affetta il corpo, in cui carne e parola si mescolano e si fondono, in cui l’una fonda l’altra fondendovisi. «Siamo affetti da lalingua innanzitutto in quanto essa comporta degli effetti che sono affetti. Se si può dire che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, è nella misura in cui gli effetti di lalingua, già lì come sapere, vanno ben oltre tutto ciò che l’essere parlante ha la possibilità di enunciare» (Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX, pp. 132-133).
* L’Uno della psicoanalisi non è l’Uno dell’essere, della forma, della rappresentazione, ma bensì il cèd’luno, informe, in tutta la sua equivocità, qualcosa che esiste al di qua o al di là di ogni essere, punto di insorgenza di ciò che sarà figurato. Obiettivo di un’analisi è seguire le tracce del significante come Uno per metterlo «spalle al muro» (p. 148). Operazione da cui il senso stesso risulta rinnovato.
Questa «etica del ben dire», del ben dire quello che del significante come Uno c’è, è ciò che una psicoanalisi può «permettere di sperare»: sperare cioè di «mettere in chiaro l’inconscio di cui siete soggetti» e di «ritrovarcisi» (Jacques Lacan, Altri scritti, p. 530 e p. 526). Ritrovarcisi in ciò che, di questo Uno-tutto-solo, c’è.
CHE DIRE DEL REALE? E CHE DIRE DEL "SEMINARIO PERPETUO"?! RITORNARE A FREUD E AD ALESSANDRO MANZONI... *
FORSE è meglio riprendere il filo del discorso dalle riflessioni "fallimentari" di Freud sul "caso clinico di Dora" o, se si vuole e meglio, della "Madonna Sistina"(cfr. S. Freud, "Frammento di un’analisi d’isteria", 1901) e, rianalizzando la ’possessione’ di Lacan per "L’origine del mondo" di Courbet, ripartire dalle indicazioni critiche di Alessandro Manzoni sul caso della monaca di Monza e di un’antropologia zoppa e cieca - edipica, appunto - fondata sull’ordine simbolico della madre. Vogliamo o non vogliamo uscire dalla caverna?! Boh e bah?!
Che dire del reale?
Il seminario perpetuo: il tardo e l’ultimo Lacan di Gioele P. Cima.
di FELICE CIMATTI (Fata Morgana Web, 30 Agosto 2020) *
Se c’è qualcosa che l’interminabile vicenda del virus Sars-Cov-2 ci sta, a suo modo, “dicendo”, è proprio quanto sia indicibile il reale. Un reale che è tanto più indicibile quanto più, ovviamente, ne diciamo. Più i discorsi e le parole aumentano meno riescono anche solo a graffiare il reale del virus. In effetti ogni giorno ci viene detto che ne sappiamo di più, sulla sua origine, sulla sua struttura molecolare, sugli effetti che causa, sulle sue mutazioni, e così via. Tuttavia rimane l’insoddisfazione per questo sapere, che ci dà sempre più notizie su come è fatto il virus, ma non aggiunge nulla sul fatto indicibile che c’è il virus. Secondo lo psicoanalista Jacques Lacan nell’irriducibile scarto fra come e che - scarto che è al centro delle ultime vertiginose pagine del Tractatus logico-philosophicus - precipita il disagio umano che la psicoanalisi ha la pretesa non certo di “curare” ma almeno di mostrare.
Ma in che consiste, propriamente, questo scarto? Torniamo al virus, l’oggetto assoluto del nostro tempo. Anche se sapessimo tutto del virus, ma proprio tutto, rimarrebbe senza risposta la domanda su quello che rappresenta il virus nelle nostre vite. Rimarrebbe cioè senza risposta il senso del virus. Ora, è evidente che quel senso non esiste, dal momento che non esiste qualcuno o qualcosa che stabilisce il senso di un evento, tantomeno di un virus: tuttavia l’animale umano è l’animale che, parlando e parlandosi, non fa che interrogarsi sul senso. Per questa ragione per Lacan la struttura mentale umana è tendenzialmente paranoide, perché cerca e vede dovunque un senso possibile. Ma siccome il senso di un virus non esiste nello stesso modo in cui esiste il suo genoma, ecco allora che si apre un intervallo sconfinato - lo scarto fra “come” e “che” - dove si colloca un domandare senza risposta. Ma si può dire che esista il senso di qualcosa? In realtà “esiste” solo nei discorsi che intrecciamo intorno ad esso. Ma questo vuol dire che, propriamente, il senso non è reale. Siamo arrivati al punto, gli umani sono malati di senso, ossia sono malati di irrealtà.
In questa diagnosi lacaniana è implicito un immediato paradosso, dal momento che la psicoanalisi è, secondo la celebre definizione data da una delle prime persone ad essere trattate secondo questo metodo, Bertha Pappenheim (Anna O.), una “talking cure”, cioè una cura parlata, fatta esclusivamente di parole e discorsi. Come può allora il senso curare l’inesausto bisogno di senso? Evidentemente non può. Lacan si scontrò sempre con questa evidenza, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, in cui cercò in molti modi diversi di fare a meno del senso. La storia dettagliata di questi anni decisivi è ora raccontata in modo analitico e perspicuo nel libro di Gioele Cima, Il Seminario Perpetuo. Il tardo e l’ultimo Lacan, Orthotes 2020. Si tratta di un libro davvero importante, sia per il tema che affronta, sia per l’accuratezza della ricostruzione storico-teorica con cui questa vicenda viene ricostruita.
Se ora torniamo al tema del “reale” (come quello del suolo di Marte ripreso da una sonda automatica: forse solo una macchina può sopportare la vista del reale del mondo) e alla sua elusività, già il titolo ci mette sulla giusta strada: il Seminario perpetuo è un seminario che non finisce, che non può finire, perché non c’è modo di fermare la deriva del senso. Tuttavia Lacan non ha cercato altro che un modo per farla finita con il senso. Si coglie così la rilevanza filosofica del lavoro teorico di Lacan, che si estende oltre l’ambito della psicoanalisi, che poi è il motivo per cui la filosofia, in particolare in Italia, è così interessata a Lacan. Nell’ultimo e ultimissimo Lacan, per usare l’espressione di Cima, in questione non è altro che il tema dell’intrinseca elusività del senso. E quindi, rovesciando la prospettiva, il tema non è altro che l’intrinseca inafferrabilità del reale.
Ma in che senso (non si scappa mai dal senso, appunto), infine, quello del senso costituirebbe un problema? Se ci si preoccupa del senso si sta trascurando il reale, cioè la vita effettiva che si sta effettivamente vivendo. La vita qui, ora, la vita che si sta vivendo non quella del come la si sta vivendo (un “come” che non sarà mai davvero come avremmo voluto viverla). Si pensi al tipo di esistenza che il reale del virus ha, almeno momentaneamente, interrotto, la vita al tempo del capitalismo planetario: quella del desiderio, dell’investimento su di sé, del viaggio perpetuo; una vita, appunto, sempre spostata oltre l’istante presente. Vivere nel senso significa non vivere nel reale. Significa vivere nella mente e non nel corpo, nell’aspettativa e non nel momento. Vivere nello scarto.
Scartare lo scarto, si potrebbe dire con un facile gioco di parole. La psicoanalisi non consiste in altro: non provare ad attribuire un senso allo scarto fra “come” e “che”, bensì proprio e soltanto nel provare a uscire da quel buco e cercare di godersi la vita che c’è, non quella che potrebbe esserci. Per questa ragione, come osserva Cima, «la psicoanalisi dunque, pur essendole tanto prossima da “tender[vi] irresistibilmente”, è l’ultimo baluardo contro il trionfo della religione» (ivi, p. 449), cioè contro il trionfo del senso. Può non essere inutile precisare che quando Lacan parla di “religione” non parla tanto di Dio e dell’Inferno, quanto di tutte le manifestazioni del senso ultimo, come il Mercato per un economista, la Scienza per un medico o l’Ambiente per un ecologista. La psicoanalisi, in quanto pratica del reale, non sa che farsene del senso.
Per questo la psicoanalisi è intrinsecamente realista, perché non crede al senso, qualunque esso sia, soprattutto non crede ovviamente che esista un senso psicoanalitico: «Il senso è una componente irriducibile ed essenziale della vita di ogni soggetto: il fatto stesso che si parli, inevitabilmente, presuppone l’ipotesi Dio, e la religione lavorerebbe proprio da industria del senso, una macchina inarrestabile che mette il soggetto al riparo dalla desolante indifferenza del reale» (ivi, pp. 449-450).
Questa ammissione di brutale realismo - e quindi di ateismo - pone l’analista in una posizione molto scomoda, dal momento che tipicamente le persone vanno in analisi proprio per trovare un senso alla propria esistenza. Ma un analista che sia colluso con questo desiderio passa dalla parte della religione in quanto discorso del senso, cioè passa dalla parte della malattia e non della “cura”: mentre invece «Il discorso dell’analista è il rovescio di quello del padrone in virtù del suo costitutivo decentramento dalla posizione dominante: esso è uno scarto senza padronanza che l’analista “deve sostenere da solo sino al momento in cui finalmente l’altro ne riconosca la funzione”» (ivi, p. 78). Si va in analisi per fare esperienza del non avere bisogno di un senso. Si va in analisi per diventare realisti, quindi per non credere né in Dio né nel Mercato: infatti «La psicoanalisi [...] [funziona] proprio come operatore di non-senso, perpetuando la demistificazione radicale delle elucubrazioni ideologiche» (ivi, p. 448).
Ma che significa, in definitiva, diventare realisti, o atei che in fondo è la stessa cosa? Alla conclusione della sua accuratissima ricostruzione storica del pensiero dell’ultimissimo pensiero lacaniano, cioè di quel pensiero che si può osare solo da vecchi, quando ci si è liberati di ogni estrinseca sovrastruttura teorica, Cima mostra un Lacan che si sbarazza anche dell’ultimo feticcio della psicoanalisi; di quello stesso “inconscio” che in fondo, come sostiene nel suo ultimo Seminario, il xxvii, Dissolution del 1980, non è altro che un «malinteso». Ma se l’inconscio è un malinteso, che ne è, infine, della psicoanalisi? Se prendiamo sul serio la proposta di Cima, cioè la psicoanalisi come un ateo e materialistico «operatore del non-senso», allora la psicoanalisi non solo non sta né può stare dalla parte della religione (neanche quella mite del dialogo e della misericordia) e dell’etica (qualunque essa sia, da quella fenomenologica dell’empatia a quella dell’intersoggettività ermeneutica); la psicoanalisi diventa una prassi che smonta ogni malinteso ideologico del senso, una prassi che non sembra avere altro scopo che collocare ogni “parlessere” nella sua irriducibile singolarità corporea, quello che Lacan chiama «sinthomo» (cioè «il modo singolare in cui ciascun soggetto “gode” del proprio inconscio»; p. 388). Liberarsi dell’inconscio, vuol dire, allora, liberarsi della stessa psicoanalisi, cioè del bisogno di un sapere che guidi alla ricerca del senso:
Gioele P. Cima, Il seminario perpetuo: il tardo e l’ultimo Lacan, Orthotes, Nocera Inferiore (Sa) 2020.
"L’origine du monde" e "Lichen" di Alice Munro
di Alessandra Sarchi *
Nel racconto Lichen, incluso nella raccolta The Progress of Love,1 Alice Munro mette in scena un repertorio di personaggi e di dinamiche relazionali piuttosto tipico della sua produzione narrativa: una coppia di ex coniugi, Stella e David, lei vitale anche se non più attraente d’aspetto, lui impegnato a ricacciare lo scorrere degli anni con fidanzate effimere e sempre più giovani; un vecchio padre ricoverato in una casa di cura; Catherine, una delle vittime dell’insaziabile quanto disperato istinto predatorio di David; sullo sfondo, chiamata in causa attraverso una fotografia, che ne ritrae solo il pube, e una telefonata alla quale non risponde, Dina, la studentessa con cui David vorrebbe sostituire la non più giovanissima Catherine.2
L’ambientazione rurale, lungo le rive di un lago, completa il quadro di questa middle station of life canadese con la quale Alice Munro ci ha da tempo familiarizzato, attraverso una produzione di racconti che costituisce un vasto insieme di variazioni sui temi del rapporto femminile/maschile, dell’autodeterminazione verso l’ethos comunitario, delle apparenze rispetto alle verità individuali, delle mistificazioni-rivelazioni della memoria.3
I personaggi e le situazioni raccontate da Munro nel loro essere ordinarie, nel loro essere scelte non perché eccezionali ma comuni, in che cosa ripongono la capacità di attrazione e di coinvolgimento per il lettore, al di là di una generica immedesimazione in vite caratterizzate, come quelle di molte donne del ceto medio occidentale da almeno due secoli a questa parte da un matrimonio o da un mancato matrimonio, da una parabola di emancipazione, da un tradimento, da un segreto legato a un’eredità, a un torto fatto o subito?
Con quali mezzi, di trama e di stile, la scrittrice riesce a sviluppare empatia e interesse? Si potrebbe dire che Munro rende interessanti le storie individuali tagliandone temporalmente i segmenti in modo che non siano mai lineari e attraversa la coscienza dei personaggi in modo che la raffigurazione interiore delle vite non aderisca mai del tutto alla loro manifestazione apparente. In ogni suo racconto opera uno scarto fra quanto i lettori, e i personaggi stessi, sanno e quanto realmente accade, è accaduto o accadrà.4
In questi punti di scollamento s’inserisce di norma la possibilità di una rivelazione che per le eroine femminili si traduce in un accrescimento di consapevolezza del proprio destino o dei fatti della vita. Ed è in questi stessi punti di incrinatura che il lettore avverte quel potenziamento della propria esperienza personale e conoscitiva che costituisce gran parte del fascino delle storie di Munro. I mediatori di tali scoperte sono frasi, pronunciate o scritte, lettere, immagini che riaffiorano o vengono ripensate per cogliere un senso che è sempre ulteriore, spesso mai definitivo, piuttosto, in grado di mantenere molte sfumature di segreto rispetto all’intreccio narrativo e all’interiorità dei personaggi.
Quando a fare da mediatore è un’immagine lo spazio semantico si amplia notevolmente, lo si vede molto bene ne La vergine mendicante (The Beggar Maid, uscito nella raccolta Who do you think you are?) che prende il titolo da un noto dipinto di Edward Burne Jones esplicitamente menzionato e descritto nel racconto, dove funge da snodo simbolico e da rispecchiamento del rapporto di coppia fra l’io narrante femminile, Rose, e il fidanzato Patrick, ma viene ribaltato nel finale dall’esito disastroso della relazione e perfino dall’impossibilità di mantenerne, a posteriori, un buon ricordo.5
Ancora più interessante è il caso di Lichene dove l’immagine che fa da motore allo srotolarsi di una trama essenzialmente priva di eventi è una fotografia, il cui soggetto e la cui descrizione costituiscono una vivissima ekphrasis del celeberrimo dipinto di Gustave Courbet, L’origine du monde.6
Fin dall’incipit del racconto, che inizia con la descrizione di un villino sul lago, troviamo un esempio della tecnica di frammentazione temporale applicata alla soggettività dello sguardo:
Il lettore è messo a confronto con un’immagine mentale ed emotiva, quella di David, che oltre ad essere scalata nel tempo, rispetto al momento del racconto situato molto dopo, è anche subito smentita, sia nella sua oggettiva materialità sia nell’opinione dei genitori di Stella. Anziché mirare a un effetto di realtà le descrizioni di Munro insinuano il dubbio e lo scomporsi in pluralità percettive del mondo, ed è proprio in questi spazi che si giocano le dinamiche di relazione e scoperta che interessano all’autrice.7
La fotografia ispirata al dipinto di Courbet compare quattro volte nel corso della storia, le prime due senza che si sappia cosa raffigura, quindi con un effetto di suspense e di attesa, una terza volta quando viene accuratamente descritta, e un’ultima quando ha subito un’alterazione del colore tale da risultare illeggibile, e tuttavia non meno carica di significato. Si tratta quindi di un oggetto fondamentale nella narrazione per lo svolgersi della trama e per la sua funzione di catalizzatore di senso.
La sua prima apparizione è nel corso di una conversazione che David e Stella hanno con alcuni conoscenti all’uscita del negozio di liquori in cui si sono fermati per acquistare la bottiglia di whisky che David regala ogni anno al padre di Stella, in occasione del compleanno. Alla bonaria esibizione di cordialità degli amici di Stella, Ron e Mary, fieri dei loro interessi da attivi pensionati, David risponde estraendo dalla tasca della giacca una fotografia che mostra a Ron, dichiarando con sprezzante sorriso che questo è uno dei suoi interessi. Poco dopo l’attenzione viene di nuovo riportata sulla fotografia poiché in auto David chiede a Stella se desidera vedere ciò che ha mostrato a Ron, augurandosi che questi l’abbia apprezzato. Stella declina, ma non viene risparmiata dalla visione della fotografia che David riesce a imporle mentre chiacchierano in cucina, durante i preparativi per la cena. «Ecco la mia nuova ragazza» dice.
La reazione di Stella è pronta e il personaggio, prima ancora che ci venga data una descrizione che qualifichi il soggetto della fotografia, opera una traslazione di ciò che vede: «Sembra un lichene. Solo che è un po’ troppo scuro. Mi ricorda del muschio su un sasso».
Ma cos’è che vede Stella incalzata da David, deciso a provocarla a tutti i costi?
Questa descrizione ricorda inequivocabilmente il dipinto di Courbet eseguito nel 1866, L’origine du monde, un dipinto destinato a essere ammirato, per un secolo intero, nell’ambito di un collezionismo sofisticato intellettuale ed esclusivo, dalla raccolta del diplomatico turco Khalil-Bey, suo primo proprietario, fino a quella del celebre psicanalista Jacques Lacan suo ultimo. L’estremo realismo con cui sono raffigurati i genitali di una fanciulla sdraiata, di cui si vedono solo le cosce e la prima parte dell’addome, e la sovrastruttura simbolica data dal titolo furono ritenuti motivi sufficienti a considerare il dipinto come destinato a una fruizione privatissima, quasi nascosta.8
"L’origine du monde" e "Lichen" di Alice Munro di Alessandra Sarchi *
L’immagine, tradotta in fotografia, entra viceversa nel racconto di Munro come oggetto proibito imposto con sfacciataggine all’attenzione. Con l’intento di scandalizzare Stella, che pazientemente ne sopporta le confidenze, David esibisce un trofeo - la fotografia - che dovrebbe testimoniare la sua passione per una giovanissima studentessa trasgressi-va con la quale intende soppiantare la fragile Catherine.9
Ma Stella trasferisce con un paragone visivo l’immagine dal campo erotico a quello funebre-animale (un roditore mutilato) a quello vegetale, (sembra un lichene); smorza la qualità estetica che pure riconosce - nelle gambe lisce, dorate e statuarie come colonne - e ne individua la natura di preda catturata, di residuo inanimato. In poche parole: ne coglie il valore di feticcio.10
L’immagine così riletta da Stella comunica la pena della condizione femminile, come oggetto passivo di desiderio, in cui lei stessa, Catherine e Dina sono accumunate, infatti nello scambio di battute che segue l’esibizione della fotografia risulta evidente il gioco dei ruoli e delle dinamiche antiche fra marito e moglie: David che millanta nuove conquiste amorose e Stella che ostenta freddezza, anche se prova fastidio nel rivedere in questa girandola vacua il fallimento del proprio rapporto con David («A Stella sfugge un sospiro più rumoroso ed esasperato di quanto fosse nelle sue intenzioni»).
Tuttavia l’immagine di una sessualità esibita, provocatoria e feticista, contenuta nella fotografia non è esclusivamente piegata a fare da specchio a una condizione femminile di minorità. Nel corso della cena David si assenta con una scusa per andare a fare una telefonata a Dina. Il telefono al quale la chiama suona a vuoto, David riprova con il numero di quello che sospetta essere il suo amante coetaneo, ma anche questo non risponde. Si fa allora prendere dall’angoscia e dal dubbio di essere a sua volta poco più che un diversivo per una ragazza troppo giovane per essere realmente interessata a lui. Nel frattempo Catherine, rimasta sola con Stella, le confessa che David, ossessionato dalla giovinezza, ha iniziato a tingersi i capelli.
L’umiliazione che, fino a questo punto del racconto, era quasi tutta al femminile diventa fardello comune, anche di David. Tutti, uomini e donne, invecchiano, s’ingannano con amori destinati a evaporare, con struggimenti che consumano. Cosa rimane in questo processo distruttivo? La fotografia, intenzionalmente lasciata da David in casa di Stella. Stella la ritrova una settimana più tardi mentre riordina il soggiorno, dietro le tende in un angolo della finestra. Ovviamente stando al sole è sbiadita, i colori hanno virato: l’immagine, qui alla sua finale apparizione, si è sfuocata del tutto. Le parole di Stella sono diventate realtà. Il contorno del seno è svanito. Impossibile riconoscere in quelle un paio di gambe. Il nero è diventato grigio, la tinta arida e tenue di un vegetale misteriosamente nutrito dalle rocce. «Colpa di David. L’ha lasciata lì al sole».
La fotografia è il lascito di David, l’eredità scomoda di un uomo e di una relazione da cui Stella avrebbe voluto liberarsi. Nel corso della loro vita coniugale, rievocata nel racconto, era stata Stella infatti a dire: «Siamo stati tanto tempo insieme, non si potrebbe tagliare corto ora?». Tagliar corto non è possibile perché David, nella cornice di una ex-coppia emancipata che non ha interrotto i propri rapporti, ha fatto di Stella, in questo compiacente, una confidente delle proprie traversie amorose prolungando un legame sempre pronto a riemergere nei ricordi comuni, nell’irrisolutezza delle reciproche ferite.
Ma il feticcio di David, un oggetto talmente carico di fantasmi che David chiede a Stella di custodirlo per lui, poiché dichiara di sentire l’irrefrenabile desiderio di mostrarlo a Catherine e rompere così nell’immediato una relazione già languente, ha subito una metamorfosi che ne ha rivelato appieno la natura. Bruciati dal sole i colori e i contorni, è emersa l’immagine vera, quella che Stella aveva visto oltre il visibile: di Dina a David non importava un granché, di lei non sarebbero rimasti che una macchia senza sagoma, un ricordo sbiadito e intercambiabile con quello di altre che l’avevano preceduta o che l’avrebbero seguita. Stella intuisce tutto questo al primo colpo, vede oltre quello che David le mostra, prevede l’esito di una storia che s’incarna nella metamorfosi materiale del suo feticcio fotografico.11
La fotografia sbiadita nel momento in cui non restituisce più le fattezze della ragazza, ma solo un mucchietto di pelo, ed è quindi al massimo grado finzione, deformazione e trasfigurazione del reale, coincide con la verità più profonda. Esattamente quello che Munro mette in atto con la propria scrittura piena di dettagli realistici che nulla hanno di meramente descrittivo ma tendono sempre a cogliere la piega in cui la realtà si trasforma in qualcosa d’altro. Il soggetto della fotografia è diventato un lichene, le parole di Stella si sono avverate. E che cos’è un lichene se non una sopravvivenza vegetale che caparbiamente afferma la propria vita sulle rocce inospitali di cui si nutre? Una pianta simbiotica che presuppone un equilibrio stabile con l’ambiente. Non più un animale mutilato ed esposto crudamente al nostro sguardo, bensì una pianta pervicace in grado di sopravvivere nelle condizioni meno favorevoli.
Nell’ipertesto visivo e verbale che Munro costruisce, il lichene, che in inglese si pronuncia in maniera omofona al verbo “to liken” (congiungere, portare insieme per processo di rassomiglianza), quadro e fotografia, David e Stella, maschile e femminile si ritrovano assimilati a un processo di rigenerazione. Come il soggetto del dipinto L’origine du monde voleva essere una riflessione sul luogo oscuro da cui nasce la vita, così il lichene in cui si trasforma, per combustione prima dell’immaginario poi della materia vera e propria, è l’equivalente di un processo di generazione e rigenerazione che avviene per il tramite della parola.
Alice Munro, evitando in questo caso il paragone su cui era basato viceversa il racconto La vergine mendicante, ha operato in Lichene una doppia trasposizione: dal dipinto alla fotografia, dalla fotografia alla sua descrizione verbale, fino alla dissoluzione della sua materialità e alla sua trasformazione metamorfica e metaforica. Ed è tanto più significativo che nella finzione narrativa il dipinto sia stato tradotto in un’immagine fotografica: è alla fotografia che genericamente si attribuisce un valore testimoniale e documentaristico ma nel racconto, viceversa, si rivela ambigua e inaffidabile. Infatti non è il soggetto evidente della fotografia, il ritratto impudico del bacino di una giovane donna, ciò che Stella vede e verbalmente descrive, piuttosto un suo traslato. L’esito di un atto distruttivo, frutto dell’ennesima proiezione della paura di morte e invecchiamento di David che, non a caso, abbandona la fotografia in casa di Stella, per liberarsi del proprio demone.
In questa parabola s’inscrive il disegno delle vite sentimentali di Stella e David, ma anche una metafora della scrittura stessa di Alice Munro.
La fitta ribelle che colpisce Stella è l’incrinatura dove la narrazione di Munro si fa rivelatrice di ciò che soggiace e oppone resistenza al fluire consequenziale degli eventi e dei giorni.
Lichene può essere letto come un manifesto di poetica, poiché rispecchia la trasformazione laboriosa e dissimulata con cui Munro tratta i propri materiali narrativi, solo apparentemente resi al naturale, come il fluire disinvolto e casuale delle conversazioni e dei pensieri dei suoi personaggi.
Il riferimento al quadro di Courbet è perfettamente annegato e assorbito all’interno del testo, tanto che potrebbe sfuggire al lettore che non abbia nozione del dipinto, e non per questo il racconto perderebbe in efficacia espressiva o consequenzialità. La dissimulazione è una cifra profonda della scrittura di Munro, all’interno di quella medietas di vite e di orizzonti che con coerenza racconta, ma è anche un gesto autobiografico: in più di un’occasione Munro ha raccontato la difficoltà di dare a una vocazione, quella letteraria, vista come stravagante e perfino disdicevole, specie per una donna, all’interno della comunità in cui viveva.
La dissimulazione dei riferimenti, specie di quelli colti, e degli artifici rende la sua scrittura prossima agli effetti del più classico naturalismo, ma è in racconti come Lichene che intravediamo la grande manipolazione necessaria al raggiungimento di tale effetto e la fiducia, metaforicamente espressa nella combustione-metamorfosi della fotografia, che solo dopo avere bruciato molto la scrittura possa generare qualcosa di essenziale e destinato a sopravvivere.
È possibile circostanziare il modo in cui Munro venne a conoscenza del dipinto che in Lichene occupa un posto tanto centrale, anzi, che si direbbe al cuore della sua stessa composizione?
Il racconto fu scritto da Munro in un periodo precedente al 1985, prima data di pubbli-cazione. Non sappiamo se la scrittrice fosse a conoscenza dell’ubicazione de L’Origine du Monde, che rimase vaga nella bibliografia fino al 1986, quando Elisabeth Roudinesco nel secondo tomo de L’Histoire de la Psychanalise en France rese noto che il dipinto era stato posseduto da Jacques Lacan e custodito nella biblioteca-atelier della casa di campagna di Guitrancourt, dove lo psicanalista si ritirava per ricevere ospiti insieme alla seconda moglie, Sylvie Bataille. Il dipinto veniva occasionalmente mostrato, e con un certo cerimoniale da parte di Lacan, a visitatori speciali, artisti e studiosi.
Non è possibile escludere del tutto che Munro conoscesse tale ubicazione e i rituali di cui il dipinto era fatto oggetto, ma è più probabile che lo conoscesse attraverso quelle pubblicazioni come il numero 59 dell’«Art Press» del maggio 1982, dedicato all’osceno, o attraverso testi come Le Sexe de la femme di Gérard Zwang (Paris, 1976) o altri manuali di storia dell’erotismo in cui figurava il dipinto, riprodotto sempre con la fotografia, non dell’originale di Courbet, bensì di una fedele copia. D’altra parte, il quadro originale fu esposto al pubblico americano solo in occasione della mostra, Courbet reconsidered, organizzata da Linda Nochlin al Brooklyn Museum of Art nel 1988, mentre in Francia si vide per la prima volta nell’esposizione dedicata dal museo d’Ornans, nel 1991, ad André Masson.
Sappiamo che il dipinto, entrato a far parte della collezione del Museé d’Orsay nel 1995, dopo la morte di Sylvie Bataille (dicembre 1993) che lo aveva ereditato a sua volta in seguito alla morte di Lacan nel 1981, era stato provvisto di un pannello dipinto che ne copriva la vista. Tale pannello era stato espressamente commissionato al pittore surrealista André Masson, cognato di Sylvie Bataille, al fine di procurare una cortina domestica al dipinto di Courbet, che Lacan riteneva opportuno mostrare solo di persona a scelti visitatori, secondo un procedimento di svelamento per iniziati che aveva accompagnato il dipinto fin dalla sua nascita e dall’ingresso nella collezione del primo proprietario, il diplomatico turco Khalil-Bey che lo aveva tenuto, a sua volta, celato dietro un altro quadro.12
Il pannello commissionato a Masson consisteva di un paesaggio dipinto con un morbido tratto bianco su uno sfondo color ruggine; a chi conoscesse il retrostante supporto non sarebbe sfuggita l’analogia: Masson aveva dipinto una specie di negativo dell’originale, un paesaggio sagomato sul corpo nudo femminile in cui i seni erano diventati colline, mentre i ciuffi di pelo dell’organo sessuale in vista erano stati trasformati in un cespuglio.13 La cortina dipinta da Masson era in realtà una rilettura e una trasposizione grafica di per sé allusiva, una variazione sul tema non meno originale e arguta del dipinto di Courbet.
La storia collezionistica del quadro sembrerebbe dunque essere ‘mimata’ e allusa all’interno di Lichene. Darebbe soddisfazione ai filologi sapere che Munro fosse a conoscenza di tutti questi dettagli della vita del quadro: la sua appartenenza al celebre studioso del rapporto fra psicanalisi e linguaggio, il pannello di Masson - che trasfigurava il corpo della donna in vegetazione - così come, nel racconto di Munro, avviene alla fotografia; ma in realtà non ce n’è bisogno. Le opere d’arte provocano fra di loro cortocircuiti dell’immaginazione e risignificazioni, anche in assenza di quelle informazioni così necessarie, invece, al lavoro storico.
Di certo L’origine du Monde, uno dei dipinti meno noti del pittore fino a una quindicina di anni fa, è stato capace di innervare la creatività di numerosi artisti visivi, da André Masson a Marcel Duchamp che aveva incontrato Lacan nel 1958 e che rielaborò il dipinto nel suo Étant données, e numerose, soprattutto dagli anni ’90 in poi, sono anche le rielaborazioni letterarie.14 Tra queste ultime, Lichene è il racconto che meglio ha sfruttato il tema del desiderio e le sue possibilità metamorfiche. Ed è significativo che sia stato scritto quando ancora il quadro non era diventato, come è oggi, l’icona mediatica che contende la celebrità dei musei parigini alla Gioconda, ossia quando ancora l’immagine non era stata consumata e conservava invece intatto il proprio mistero, l’idea di accesso al proibito e la possibilità di rivelazione, la fantasticheria erotica e il culto feticistico iscritti nella sua forma e nella sua storia.
* "L’origine du monde e Lichen di Alice Munro" di Alessandra Sarchi ("Arabeschi",n. 2, luglio-dicembre 2013) - ripresa parziale, senza immagini e senza note.
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud) *
Un libro su Santa Teresa d’Avila, una serenata in forma di fiction
Lacan e Kristeva come godono i santi
Un’analisi dedicata alla beata spagnola e alla sua estasi. Come interpretare questa forma sublime di rapimento? Perché il sesso non spiega tutto
di NADIA FUSINI (la Repubblica, 27.01.2009) *
Teresa, mon amour è non solo il titolo dell’ultimo libro di Julia Kristeva (tradotto da Alessia Piovanello per Donzelli Editore, pagg.628, euro 35,00); è il ritornello che l’attraversa, quasi il libro tutto fosse una canzone, una lunghissima serenata che l’autrice dedica alla santa spagnola, alla sua estasi. In copertina, of course, la Transverberazione di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Subito comprendiamo che lacaniano sarà il corteggiamento, debitore al medesimo fremito barocco che scioglie perfino il marmo della famosa scultura.
E non a caso Jacques Lacan sceglieva lo stesso gruppo marmoreo a copertina del suo seminario Encore dell’anno accademico 1972-73. Dove nel capitolo sesto a chi volesse intendere l’amore divino e il godimento mistico si raccomandava di andare a Roma a contemplare la statua del Bernini. Guardatela e vedrete, affermava Lacan, vedrete che lei gode! Non c’è dubbio. E di che cosa gode? Di che cosa godono i mistici, le mistiche? Fino al secolo scorso, fino a Charcot, fino a Freud si sarebbe detto che era una faccenda puramente sessuale, energia libidica repressa, e così via.
No, dice Lacan, non è una questione di fottere, o meno. C’è di più. In quell’attacco c’è un vero e proprio passaggio all’ ex-sistenza, un passaggio in quell’"ex", in quel "fuori" che fa da prefisso alla parola ex-stasi.
In mille variazioni Julia Kristeva riprende il motivo lacaniano, intrecciando il delirio mistico alla dimensione immaginativa e alla scrittura, e in quest’ultima versione, in quanto scrittrice, fa "sua" la santa. Letteralmente se ne appropria. Si identifica. Una volta adottata questa chiave - la vera estasi è la scrittura - non ci vuole molto a stabilire una stretta affinità tra la santa e la scrittrice. Tanto più che Teresa, oltre che santa e scrittrice e fondatrice, fu interprete e analista dell’anima.
A dare più brio alla serenata, l’inno a Teresa viene affidato a un alter ego, tale Sylvia Leclercq, psicoterapeuta, ossessionata, invasata dalla santa, intorno alla quale monta la sua fiction; fiction postmoderna, più che letteratura vera e propria, perché solo nel registro di una bulimica assimilazione, che procede per scorci temporali e incroci spaziali, pare a Sylvia di riuscire ad afferrare la vita della santa. Se Sylvia legge con passione le opere di Teresa, è per comprendere se stessa, le donne di oggi che incontra in terapia. E si esalta a certe affinità che intravvede. E’ meno sensibile alle differenze.
Il termine fiction piace alla dotta dottoressa di Linguistica e Semiotica Julia Kristeva, che in questa sua opera si sforza al massimo di rendere contemporaneo il suo soggetto anche grazie a una scrittura che si vuole veloce, gergale. E si concede vezzi modaioli che per via di slang ci presentano Teresa come "un big-bang fatto donna" (p.588); mentre per descrivere la sua religiosa confidenza con Dio si ricorre all’ espressione: "fare una Tac al mistero del Signore (p.274). Abbondano allusioni all’idea della rete. Internet, default sono termini che tornano. E i corsi di Derrida e di Kristeva alla Columbia University vengono citati come occasioni uniche per i pochi privilegiati che li frequentarono per penetrare, o meglio decostruire i misteri della rete che per l’appunto connetterebbe i mistici e i kamikaze.
La nebulosa mistica si espande così in nebbia religiosa, e si aprono a ventaglio nel libro scottanti temi di attualità, tra cui sovrani i problemi del fanatismo e della fede: con Teresa sempre al centro, al crocevia di pensieri e concezioni di sé e del mondo che cambiano, che la vedono accanto a Montaigne, a Spinoza, a Cervantes. Teresa esponente sublime del Siglo de Oro. E ragazza d’oggi, runaway girl. Come Louise Bourgeois. Come Julia Kristeva. Tutte donne capaci di darsi un altro padre, un’altra patria. E di farsi un nome!
In questo senso, Teresa mon amour è una "installazione" (p.577). E forse proprio tale termine meglio descrive questo strano libro troppo lungo, interessante quando si presenta come "una avventura nel cuore del credere" (p.565). Meno, quando riduce quell’avventura a una spiegazione della vita umana tutta - sia barocca sia contemporanea sia mistica sia mondana - in chiave di parafrasi attualizzante tradotta in termini psicoanalitici della vita medesima. A proposito della scrittura teresiana Kristeva parla di "una scrittura fuori genere, perché li mescola tutti" (p.311). Così fa lei qui; trasportata non dall’estasi, ma da una specie di hybris intellettuale che di certo non le manca, si fa una e trina: autrice, narratrice, protagonista del racconto, che è insieme una biografia, una autobiografia, un saggio, una fiction; alla fine, un monumento alla diva Julia.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud)
INTERVISTA A JULIA KRISTEVA. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma, detto questo, la studiosa ri-cade nelle braccia dell’autorità paterna (della versione cattolico-romana del cristianesimo ... ancora edipica)
Federico La Sala
CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! .... *
Massimo Recalcati, il nuovo saggio
Il coraggio di affrontare il desiderio
Il ritratto del nevrotico e il significato del sacrificio sono al centro del volume (Raffaello Cortina) dell’autore, in cui il sapere teorico si unisce all’esperienza di terapeuta
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 10.04.2018)
È un ritratto potente, e per certi aspetti sconsolato, del nevrotico quello che emerge dalle pagine di Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale (Raffaello Cortina, 2017), il recente saggio di Massimo Recalcati che sviluppa e approfondisce temi già toccati in libri precedenti, e in particolare in L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica (stesso editore, 2010). Nei brevi e limpidi capitoli di questo libro il sapere teorico si unisce all’esperienza di terapeuta e anche alla memoria personale, come se l’autore, individuato uno dei peggiori e più insidiosi nemici della vita umana, intendesse stanarlo e aggredirlo moltiplicando i punti di vista e le possibili strategie. Ed ecco emergere, pagina dopo pagina, la cupa figura dello «schiavo del peccato», del rinunciante sempre invischiato nell’economia perversa del «fantasma sacrificale». Tutto ciò di cui non gode, pensa quest’uomo, costituisce un capitale, o meglio un investimento che gli sarà restituito a tempo debito. Non c’è impoverimento della propria vita (e di quella di chi gli è vicino!) che non gli appaia conveniente in nome di un finto ideale di purezza e superiorità morale che è solo un alibi per non assumersi mai la responsabilità del proprio desiderio.
Nello Zarathustra, Friedrich Nietzsche escogitò la metafora del «cammello» per irridere questa vita tanto priva di spirito quanto fondata sulla penitenza e l’ascetismo. Lo sguardo rivolto a terra, la schiena carica di pesi, il «cammello» è la perfetta incarnazione di un’esistenza del tutto spogliata di senso da un imperativo morale che sembra sempre giungere da fuori e dall’alto, ed esige cieca obbedienza e rassegnazione. Recalcati non ha dubbi: così sottomessa a una Legge che si afferma negando il desiderio, l’esistenza dello «schiavo della colpa» è un errore irredimibile, una pulsione di morte travestita da virtù. «La vita interiore prende il posto della vita: ruminazione incessante, abnegazione, autocolpevolizzazione, risentimento, sacrificio di sé».
Il compito dell’analisi, per Recalcati, è riconoscere che proprio l’identificazione della vita e del sacrificio è «la malattia più grande del nevrotico». La posta in gioco è altissima, perché consiste nella possibilità di fondare e rafforzare un’alleanza vitale fra la Legge e il desiderio. Se c’è una «colpa», essa va riconosciuta nell’aver tradito la propria singolarità e tutte le sue inclinazioni, di non essersi caricati sulle spalle l’unico peso che è davvero necessario assumersi, che è quello di ciò che si vuole.
Si leggono queste pagine di Recalcati come un messaggio di speranza ancora più che come un rigoroso discorso scientifico e filosofico, capace di far interagire, con grande sapienza dialettica, i Vangeli e Nietzsche, Søren Kierkegaard e Jacques Lacan. Uno dei meriti dei saggi di Recalcati è quello di far sempre proseguire per conto suo il lettore nel percorso iniziato con la lettura.
Tutto sommato, è della nostra vita che si tratta, e del rischio perenne di sprecarla e dissiparla. Proprio per questo, mi sembra urgente formulare a questo bel libro, e al suo autore, una domanda: una volta liberati dal «fantasma sacrificale», come diventiamo in grado di riconoscere ciò che davvero vogliamo, e che ci definisce come individui? Non è questo un altro pezzo di strada lungo il cammino in direzione della nostra libertà?
Per il momento Recalcati confina questa ulteriore questione in una nota a piè di pagina. Ma mi sembra che valga la pena di scavare ancora in un terreno così fertile. Magari in un nuovo libro, dedicato questa volta all’arte più difficile che esiste: quella di conoscere sé stessi.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..... *
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che
Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale.
Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto - tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io - ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità.
L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” - un “territorio straniero interno” - che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa.
La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio - come la luce all’ombra - ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio - assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” - non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale.
È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “ femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio - la vita della singolarità - è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala.
La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità.
La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo.
La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER NON DIVENTARE UN "BOCCALONE", UNA "BOCCALONE", PENSARE BENE PRIMA DI APRIRE LA BOCCA... *
Dalle masse di gas sulfurei che dalla "fessa" della Madre Terra salivano in superficie nella zona di Delfi (o se si vuole, di Cuma), nell’antica Grecia (nell’antica Campania), la Sibilla sapeva saggiamente (e ambiguamente) portare alla luce una figura (e una risposta) piena di significato da interpretare, da decifrare.
Se è vero, come è vero, che "nessuno di noi avrebbe potuto aprir bocca a questo mondo" e (mangiare e) dire qualcosa, se non ci fosse stato (e non ci fosse) "L’origine du monde" ( si cfr. "DA DOVE VENIAMO? CHI SIAMO? DOVE ANDIAMO?"), il problema è proprio quello di capire che cosa vogliamo significare con l’espressione "quiddhu è nnu FESSA" (quello è una "bocca aperta"), "queddha è nna FESSA" (quella è una "bocca aperta") - e saper distinguere tra (il cibo sano e) le notizie vere e (il cibo "adulterato" e ) le notizie false ("fake news"), tra ev-angelo ("buona-notizia") e vangelo (van-gelo, che "cattiva-notizia"!), tra "dio" (amore, "charitas") e "mammona" (caro-prezzo, "caritas"!).
ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE: “FAQ”, “FAKE”, “FUCK”, ORMAI DI USO COMUNE.
Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo! Dante l’ha detto da tempo. O no?!
Avendo letto l’intervento di Sergio Notario e molto apprezzato il suo riferimento all’eufemismo piemontese ("Bòja Fàuss"), colgo l’occasione per ricordare che anche in Piemonte c’è la presenza delle Sibille (di cui qui - e altrove si è parlato) e segnalo a Lui e alla redazione della Fondazione il lavoro di Marco Piccat, "La raffigurazione delle Sibille nel Saluzzese e nelle zone circostanti".
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. -- "FAKE" E "WAKE": LA BACCHETTA DELLA VITA. UNA LEZIONE DI JAMES JOYCE.
USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ! PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! ... *
Giacomo Contri
“Grazie a Lacan ho viaggiato su una nave pirata. La sua è l’intelligenza più spericolata nella quale mi sono imbattuto. Era il pazzo fuggito dalla gabbia, faceva paura"
di ANTONIO GNOLI (la Repubblica, 16.07.2017) *
Giacomo Contri ha introdotto Jacques Lacan in Italia. Lacan genio e provocatore: fumo (molto per alcuni) e arrosto. "Quando portai gli Scritti di Lacan in Italia la psicoanalisi si era ridotta al palloncino in mano alla creatura, robetta infantile, pisciatine nel letto, sgridate e avvertimenti. E allora ecco giungere un signore, con i suoi baveri di pelliccia e il fumo dei sigari, a portare lo scompiglio. Sì, improvvisamente, senza preavviso, il pazzo era fuggito dalla gabbia e tutti ne ebbero paura o ne furono soggiogati". Gli Écrits ai quali Contri allude comparvero in Francia mezzo secolo fa e in traduzione da Einaudi una decina di anni dopo. Rappresentarono, per molti versi, una svolta, un vocabolario nuovo: a volte astruso, altre affascinante su cui far poggiare quel vasto e traballante regno della psicoanalisi. "A quell’epoca Lacan aveva solo sporadici lettori in Italia. Ricordo ancora una quartina che Elvio Fachinelli mi dedicò: "Mena Lacan per l’aia/ Giacomo Contri analista/ Prima che sian migliaia/ Sparagli a vista". Elvio fu un amico, ma poi il fuoco ha abbondato" . Contri sembra un personaggio disegnato da Max Bunker, alias Magnus, l’accostamento mi viene anche notando una pila di fumetti, seminascosta tra una tenda e il mobile.
Legge anche fumetti?
"Perché non dovrei? È letteratura popolare, ne ho una biblioteca enorme".
Cosa la seduce del fumetto?
"La mitologia che le immagini si portano dietro. Il lato mitologico dell’esistenza fu avversato da Platone, che poi non disdegnò di usare il mito. Freud invece ne ha spremuto il succo".
Ha senso dirsi oggi freudiani?
" È soltanto un modo di dire, un’etichetta e niente più. È venuta meno quella unicità che Freud stesso si era attribuito con i suoi libri e le sue parole. Solo io, ripeteva, posso dire che cosa è o non è la psicoanalisi. Parlava come il Papa".
Poteva permetterselo?
" Certo, costruì la psicoanalisi come se fosse una scienza sperimentale. L’osservazione era il primo momento della sperimentazione. E il territorio delle nevrosi è in larga parte esplorabile".
Ma la nevrosi non è proprio ciò che sfugge alla sperimentazione? Ciascuno vive soggettivamente la propria nevrosi.
" Magari fosse così. La verità è che la nevrosi, come la psicosi, è una gabbia coattiva, non la si vive secondo un modo proprio. Voglio dire che la nevrosi è come un cristallo, incapace di varianti".
Ma allora perché Freud è tramontato?
"Sono tramontati i freudiani. Rimozione, coazione a ripetere, fissazione, angoscia non sono affatto tramontate".
Lei come è finito a occuparsi di psicoanalisi?
" La prima cosa che mi è accaduta è stata laurearmi in medicina. Ma non avrei mai fatto il medico. Mi iscrissi nel 1961, l’anno dopo cominciai a frequentare l’istituto di psicologia e in particolare entrai in contatto con Marcello Cesa- Bianchi. A quel tempo la psicoanalisi freudiana si incarnava in Cesare Musatti e nel suo allievo Franco Fornari. Poi lasciai Milano e presi la strada per Parigi. Pensai di trovare lì il clima culturale giusto".
Come si adattò?
"Cominciai a frequentare l’École pratique. I primi contatti furono con Roger Bastide, Roland Barthes e Claude Lefort. Avevo grande stima per Louis Althusser, e per il suo modo originale di leggere Marx e uccidere la moglie. Neanche Jarry avrebbe saputo tenere insieme quelle due tragedie".
Che cosa le legava?
"Fu un omicidio ad alto tasso simbolico. Consumato contro la sua comunità intellettuale, che gli faceva abbastanza schifo".
Mi sembra un accostamento azzardato.
"E perché? In entrambi i casi agiva contro l’autorità: il matrimonio, gli affetti, le lusinghe. Disse che su Marx si era inventato tutto e che li aveva presi in giro. Trovo divertente che per molto tempo Étienne Balibar, suo allievo prediletto, tutte le settimane gli portasse i panini in manicomio!".
Lei lo avrebbe fatto per Lacan?
"Il manicomio di Lacan era il mondo!".
Come lo ha conosciuto?
" Sentii parlare dei suoi celebri seminari. Avevo conosciuto François Wahl, il direttore delle edizioni Seuil, suo amico. Gli chiesi se poteva introdurmi. Venivo da un po’ di letture psicoanalitiche e nel 1968 ebbi tra le mani gli Écrits. Lacan abitava in rue de Lille. Giunsi in una tarda mattina con la mia personalissima mitologia sull’uomo. Faceva molto freddo. Mi venne ad aprire Gloria, la segretaria".
E Lacan?
" Arrivò dopo un po’. Guardai quest’uomo che sembrava avesse fretta. Avemmo una conversazione rapida e insensata. A un certo punto mi chiese cosa stessi leggendo, risposi Max Weber. Il colloquio si interruppe a quel punto".
Forse si aspettava che citasse un suo libro.
"Non era tipo da accettare piaggerie. Andai a trovarlo diverse volte. Mi considerava un potenziale allievo. Cominciai l’analisi con lui".
Era necessaria?
"Beh, se volevo lavorarci assieme era una premessa indispensabile. Le sue sedute psicanalitiche erano famose per la rapidità, non superavano mai il quarto d’ora".
Finita la seduta come si sentiva?
" Bene, mi piacevano quegli incontri. Avevo la netta sensazione che qualcosa di non presente in me uscisse dal mio pensiero".
Catherine Millot in un recente libro (edito da Cortina) ha raccontato il Lacan privato, ne esce un ritratto piuttosto insolito, perfino sorprendente.
" Ho conosciuto bene Catherine, una donna bellissima che fu prima amante e poi compagna di Lacan. Non ho letto il libro, ma credo sapesse molte cose della sua vita privata".
E lei cosa sapeva del Lacan meno noto?
"Aveva ereditato qualcosa del vecchio surrealismo".
Un provocatore?
" Un provocatore e un maramaldo, nel senso " tu uccidi un Io morto". Non aveva nessuna fiducia nell’Io; nel pensiero; nella norma. Semplicemente era dalla parte della legge simbolica non da quella giuridica. Mi torna in mente un piccolo episodio".
Quale?
"Eravamo in macchina, lui guidava con molta spericolatezza e detestava i semafori. Diventava matto davanti a un semaforo rosso. Era uno dei suoi tratti patologici: non accettare la norma".
Insomma un pessimo cittadino.
" Non era un esempio di urbanità e di disciplina. Per lui il diritto era una entità impensabile. Come impensabile era la libertà. Anni dopo, staccandomi da quella visione, sostenni che dopotutto la vita psichica è vita giuridica".
Un’affermazione misteriosa.
" Frutto delle mie letture kelseniane. Kelsen teorizzò una cosa che ho fatto mia: l’uomo non è imputabile perché è libero; è libero perché è imputabile".
È libero perché una norma può condannarlo?
"Secoli di discussioni sul libero arbitrio sono stati azzerati. La vita psichica è vita giuridica perché niente di quello che facciamo è esente dall’imputabilità. Noi compiamo atti che sono imputabili da altri secondo norma".
Che ruolo gioca la colpa?
" Nessuno. Da quando in qua il delitto è fonte e senso di colpa? Quando Freud legge Delitto e castigo vuole capire perché Raskolnikov prima uccide la vecchia e poi tenta di tutto per farsi scoprire. Il motivo è chiaro: Raskolnikov deve dare un contenuto alla propria colpa. È il senso di colpa che giustifica il delitto e non viceversa".
Il crimine come gratificazione?
" Perfino nella Bibbia si dice: guardatevi da questi uomini, commettono le ingiustizie più atroci e sono felici".
Più che la Bibbia sembra il Marchese De Sade.
"Mi viene in mente il saggio di Lacan su Kant contro Sade".
Le viene in mente perché?
"Sono messe a confronto due forme di perversione".
Sade certamente, ma Kant?
" Kant è uno scrittore dell’orrore e della perversione. È il prezzo che paga per essere il pensatore della purezza e della ragione. Dietro il suo pietismo cristiano si nasconde la più formidabile macchina anticristiana che la modernità abbia mai costruito".
Qual è il suo rapporto con la religione?
"Perché me lo chiede?".
Ci sono molte tracce nel suo pensiero.
"Il cattolicesimo è stato uno dei miei orientamenti. Potevo gettare la fede alle ortiche o tentare di fare un passo ulteriore".
Verso quale direzione?
" Mi sono convinto che Gesù non fosse un semplice maestro, un guaritore o un santone. Era un pensatore, come fu Platone prima di lui o Galileo e Marx dopo di lui. La mia considerazione non implica nessun riferimento alla sua esistenza storica. Per me è sufficiente sapere che il suo pensiero formale si è costituito nella seconda metà del primo secolo".
Si sostiene che sia stato Paolo a dare forma a quel pensiero.
"Si è spesso detto che, stringi stringi, Paolo abbia inventato il cristianesimo. Secondo me lo ha messo in bella copia. La verità è che il cristianesimo nasce da un oscuro pensiero che lo precede".
Oscuro perché? La predicazione del Cristo fu semplice e diretta.
"Nel senso dello "Spirito" che precede la "lettera". Il pensiero di Gesù non è ontologico, né metafisico, mantiene una distanza netta dal pensiero greco. Né tanto meno è un pensiero teologico".
Non è un pensiero religioso?
"È un pensiero che non è né ha religione. È il pensiero dell’innocenza ".
Però lei è cattolico.
"Apostolico e romano. Da questo punto di vista definirei la Chiesa non un unione mistica né di massa, ma una costellazione di legami sociali. Se ha senso distinguere una fede questa può solo consistere in un giudizio di affidabilità. Fede è comprendere se un pensiero è affidabile. Altrimenti è solo un gadget dello spirito".
So che lei si è affidato a don Giussani.
"Sono stato tra i primi a partecipare al movimento di Comunione e Liberazione fondato da don Giussani".
Come avvenne l’incontro?
" Al ginnasio dove lui insegnava religione. Lo incontrai nel 1956. Fino al 1969 sono stato ad ascoltarlo. Nella piattezza abitudinaria del mio credo fu un fulmine a ciel sereno. Parlava di Gesù come di un "fatto"".
Come un fatto in che senso?
" Fuori dalle traiettorie teologiche e morali. Meritava di essere ascoltato. Era un prete che non aveva niente del prete. Il che sembra quasi impossibile".
È una notazione interessante.
"Mi pare fosse Guicciardini a parlare della scelleratezza dei preti. E Giussani non aveva niente di scellerato".
La sua lezione in che cosa è consistita?
" Forse nella difficile collocazione del suo pensiero. Aveva un orientamento che chiamerei il senso del religioso. Che è molto diverso dalla religione in quanto tale. È arduo definire Giussani cattolico e forse anche per questo non ha mai contrastato le cose ufficiali del cattolicesimo. L’ultima volta che lo vidi fu in casa di amici comuni".
Un congedo?
"In un certo senso. Era sulla sedia a rotelle. Mi guardò con quegli occhi grandi e sporgenti che accentuavano il volto scavato: Giacomo, disse stringendomi la mano, non si capisce più niente".
Cosa c’era da capire?
" Non c’era una risposta canonica in grado di spiegare quella confessione che mi fu fatta all’inizio del nuovo secolo. Un uomo che aveva lottato per tutta la vita per un fine improvvisamente si trovava davanti a un fallimento epocale e certo non bastavano, a rendergli meno amara la situazione, le decine di migliaia di persone che componevano il suo movimento. La verità è che don Giussani è stato uno degli uomini più soli che abbia mai conosciuto".
Ma ha coinvolto e fatto crescere un movimento.
" È vero, ma mi fermerei lì. Quel " non si capisce più niente" lo avevo vissuto molti anni prima e fu il motivo per passare armi e bagagli a Freud e poi a Lacan".
Forse a questo punto bisognerebbe accennare al cattolicesimo di Lacan.
"Ah! Diceva di avere un grande amore per il cattolicesimo. Ma nelle sue migliaia di pagine non ho letto nulla di significativo sull’argomento. Dal cattolicesimo aveva ereditato l’amore per le chiese barocche e l’ipocrisia suprema".
Dopo tanti anni di frequentazione non le è venuta la tentazione di liberarsi di Lacan?
"La sua fu l’intelligenza più spericolata nella quale mi sono imbattuto. Con lui è stato come andare dagli Appennini alle Ande senza cercare la mamma. No, non intendo liberarmi dall’esperienza di avere viaggiato su una nave pirata".
Che cosa è un maestro per lei?
" Il maestro non è la buona via, ma tant’è ci passiamo tutti. A Lacan il maître non piaceva né come maestro né come padrone. Ma lui fu maledettamente entrambe le cose".
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!:
I tre passi fondamentali della perversione
di Massimo Recalcati (DoppioZero, 13.03.2017)
Possiamo riassumere l’illusione perversa in tre passi distinti. Il primo passo è quello critico. Il perverso ambisce a denunciare la Legge degli uomini come un’impostura, a smascherarne la falsità e l’ipocrisia, a sviluppare una serrata critica alla dimensione disciplinare, repressiva, assoggettante della Legge. Per Sade la Legge assomiglia ad un “serpente velenoso”. La Legge degli uomini è un veleno perché trasforma la vera virtù - la spinta acefala della pulsione - in vizio, perché associa la virtù al giudizio morale imboccando la strada superegoica dell’esaltazione idealizzante del sacrificio e della colpa.
La critica della Legge è un punto fondamentale del pensiero perverso. Non a caso Sade assume l’atto perverso come una sorta di “negazione della negazione”: negazione di quella negazione morale che la Virtù eserciterebbe sul Vizio. Nega la negazione della vita promossa dalla Legge; solo il Vizio, non la Virtù, sarebbe, infatti, l’espressione naturale - “senza Legge” - della vita. Il carattere di impostura e di artificio simbolico della Legge consiste invece nel fatto che essa allontana l’uomo dalla Natura rendendolo schiavo, prigioniero della Legge stessa, la quale non sarebbe altro che una manifestazione della difesa impaurita del soggetto nei confronti dell’eccesso indomabile del godimento. È la prossimità paradossale che Lacan sottolinea tra Kant e Sade: eleggere il godimento - la “volontà di godimento” sadiana - come nuovo imperativo universale della Legge al quale vengono subordinate le vite individuali e i loro interessi più empirici.
La colpa e la maledizione della Legge degli uomini è negare la realtà della Legge del godimento. La Legge degli uomini aliena la vita dalla sua Origine, da quel godimento compatibile col corpo che Sade vede incarnarsi nella vita della Natura. Non è quindi un caso che il progetto sadiano consista nel tentativo di rinaturalizzare l’uomo, di ricuperarne l’Origine, l’innocenza della vita al di qua dell’esistenza della Legge.
Il secondo passo è quello fondazionista. Il progetto perverso non può essere contenuto nella sola critica alla Legge. La sua esigenza è assai più radicale. Esso non si accontenta della versione paolina della Legge nella sua dialettica col desiderio (interdizione-trasgressione), ma pretende di riscrivere ex-novo la Legge, di rifondare la Legge, di dare alla Legge un nuovo fondamento. Il “senza Legge” del godimento perverso non è quindi un vero “senza Legge” perché il godimento diviene la nuova e unica forma possibile della Legge una volta abbandonata l’impostura della Legge degli uomini. Il vero perverso non gode, infatti, nella trasgressione della Legge - è questo è semmai il tratto perverso che può accompagnare il desiderio nevrotico -, ma aspira alla sua rifondazione radicale.
Quale? Qual è la Legge delle Leggi alla quale il perverso si vota come un “crociato”, come un “cavaliere della fede”, per usare le espressioni che Lacan propone nel Seminario XVI? Qual è la Legge delle Leggi che dovrebbe oltrepassare la maledizione colpevolizzante della Legge degli uomini? Questa Legge - nella lettura perversa della vita - è la Legge della Natura che, non a caso, Sade concepisce come una sorta di “armonia invertita” e che Pasolini sintetizza nella prima battuta di uno dei membri del diabolico quartetto del suo Salò : “l’eccesso è Bene”. Battuta che eleva l’eccesso alla sola forma possibile della Legge, alla sua forma compiuta, ovvero inumana.
Il terzo e più fondamentale passo è però quello metamorfico. Il passo più essenziale della perversione non è infatti né quello della critica alla Legge, né quello della spinta alla sua rifondazione. Il passo più essenziale - il più decisivo passo - è quello della metamorfosi dell’umano. Quale metamorfosi? Quella che Lacan nel Seminario X descrive come trasformazione del Soggetto sbarrato nell’oggetto piccolo (a). Si tratta di una metamorfosi masochista.
Il perverso non si limita a realizzare il godimento di fronte alla negatività infelice del desiderio, ma punta a trasformare il soggetto stesso del desiderio, il soggetto diviso, sbarrato, mancante, il soggetto che non può mai coincidere con se stesso - il soggetto dell’inconscio - in un oggetto inerte che non conosce mancanza, non conosce divisione, non conosce desiderio, non conosce negatività. In Sade questa metamorfosi rinvia alle figure di Dio e dell’animale come due forme di vita che escludono la distanza che separa il corpo dal godimento. L’esito ultimo della metamorfosi perversa è quello di assimilarsi a Dio (“Dio è presente ovunque in Sade”, ha scritto Lacan ) o, ma è, paradossalmente, la stessa cosa nella logica perversa, all’animale. Dio e l’animale sono, infatti, due forme di vita nelle quali la disgiunzione che distanzia e che separa il godimento dal corpo viene annullata.
La metamorfosi perversa eleva il masochismo a forma compiuta della perversione. Solo nel masochismo può realizzarsi pienamente la soppressione del soggetto diviso come indice della forma umana della vita perché nel sadismo sopravvive ancora una quota di soggettività, una quota di volontà, di intenzionalità. Il sadico vuole godere, agisce per sottomettere l’Altro al suo regime volontaristico gettandolo nell’angoscia, ma non può mai coincidere con l’oggetto del suo godimento. La sua resta ancora una spinta a godere che denuncia paradossalmente lo scarto che continua a sussistere tra corpo e godimento. Nel sadismo - come mostrano le pagine sartriane de L’essere e il nulla dedicate al desiderio sadico - sussiste una spinta a godere che mentre vorrebbe annullare la distanza insopprimibile tra il godimento e il corpo è costretto a rivelarla eternamente. Questa distanza può essere soppressa (illusoriamente) solo nell’inerzia della posizione masochista. Per questo secondo Lacan, diversamente da Freud, non esiste alcuna simmetria tra sadismo e masochismo; l’uno non è il polo attivo (sadismo), né l’altro quello passivo (masochismo) di una identica economia pulsionale. Piuttosto secondo Lacan è il masochismo a realizzare la metamorfosi compiuta del soggetto alla quale punta il disegno perverso.
Nel masochista più che nel sadico ci troviamo di fronte a una totale abolizione del soggetto diviso del desiderio. Il masochista si gode, infatti, solo in quanto oggetto; si rende oggetto compatto come un minerale, una pietra, un “cane”, un “detrito”, uno “scarto”, come afferma Lacan. Puro oggetto, impersonalità pura dell’oggetto e del godimento Uno.
L’aspirazione più estrema della perversione è quella di realizzarsi - come scrive puntualmente Lacan in Kant con Sade - in una “vicinanza” assoluta con la Cosa. Il masochista è un Dio che non conosce la morte: essere un cane, uno scarto, un detrito significa realizzare una forma di vita (inumana) in cui la mancanza e il desiderio siano finalmente aboliti. La sua impersonalità spurga la vita dall’angoscia per la morte e per l’eccesso anarchico della vita. Essa vuole restituire al corpo - sottratto alla Legge del linguaggio - la sua integrità assoluta di corpo di godimento, compatto come il cemento, libero da ogni forma di mancanza.
In questo senso il masochismo è il tentativo più radicale di raggiungere, in vita, una forma di vita (impersonale) che non conosce più l’assillo della mancanza. Una vita che è già non-vita; quella di un Dio o di un animale. Operazione di messa a morte della forma umana della vita. Per il masochista il desiderio è morto e, di conseguenza, il godimento può finalmente darsi, nel corpo, come assoluto. Essere cane, scarto o detrito realizza una forma di vita dove la mancanza è dichiarata illusoriamente estinta. Il desiderio morto e il godimento reso assoluto; la vita finalmente libera dall’angoscia della morte.
I tabù del mondo
Se il desiderio si trasforma in una trappola
La mantide religiosa incarna la femmina assassina e mostra il nesso tra godimento sessuale e morte Lacan usa la sua immagine per spiegare che l’angoscia non sorge dal confronto con la nostra libertà ma quando ci sentiamo ridotti ad oggetti passivi e siamo dati in pasto alle pulsioni dell’Altro
Questo cannibalismo atroce che fa tremare l’immaginario maschile si ritrova nei fantasmi della letteratura popolare e in quelli dei nevrotici studiati da Freud
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 04.09.2016)
Uno strano e inquietante insetto ha da sempre catturato attorno a sé l’interesse degli studiosi più diversi. Si tratta della Mantide religiosa. Il suo nome antico di Mantis, che significa “profetessa”, è già significativo di un certo alone di sacralità che la circonda. Rogers Callois, fondatore nel 1938 con Georges Bataille e Michel Leiris del celebre Collegio di Sociologia, né ha, in pagine memorabili contenute ne Il mito e l’uomo, scolpito il ritratto.
La caratteristica principale di questo insetto femmina, dalle proporzioni infinitamente più grandi di quelle del maschio, è quella di divorare il proprio partner durante o dopo l’accoppiamento sessuale. Ma il suo “carisma” non si realizza solo in questo modo.
Al suo sguardo era attribuito sin dall’antichità un potere magico. Nella Roma imperiale si diceva che se qualcuno cadeva malato era colpa dello sguardo della Mantide che era caduto sullo sventurato. Ma il punto cruciale che ha reso questo insetto un oggetto di studio costante nei secoli resta indubbiamente la convergenza inquietante di appetito sessuale e voluttà alimentare.
In un articolo del 1784 scritto da J.L.M. Poiret viene resa nota l’osservazione della Mantide che decapita il maschio prima di accoppiarsi con lui per divorarlo interamente dopo la copula. Questo cannibalismo atroce non può non fare tremare l’immaginario maschile. Gli etologi si sono interessati alle ragioni di questo comportamento.
Per alcuni l’orrenda decapitazione del maschio prima del rapporto sessuale è finalizzata ad incentivare i movimenti spasmodici del coito rendendo l’erezione più turgida. Ma l’insaziabilità della Mantide si manifesta altresì nel fatto che proprio durante il coito inizia il divoramento del suo amante.
Decapitato e divorato il povero mantide si trova senza alcuna voglia ad essere protagonista di uno dei peggiori incubi di Dario Argento. Si tratta di un cannibalismo primordiale che mescola insieme la pulsione sessuale alla pulsione orale. Ella non gode dell’organo sessuale del maschio ma del suo corpo intero.
Nella lettura popolare di tutti i tempi il motivo degli spettri femminili che divorano i loro amanti è assai ricorrente. Si tratta di creature demoniache che hanno solitamente l’aspetto di donne di estrema bellezza che seducono le loro vittime prima di nutrirsi del loro corpo. La stessa vagina si presta in questi racconti a diventare una sorta di arma micidiale che anzichè provocare il piacere del maschio lo può inghiottire minacciosamente.
Callois riporta a questo proposito un racconto eschimese dell’Ottocento dove un celibe viene sedotto da una bellissima giovane. Nella notte d’amore trascorsa insieme, l’uomo finì però per sprofondare letteralmente nel corpo di lei fino a scomparire del tutto. Al risveglio mentre la bella preda uscì dall’igloo per urinare, espulse dalla sua vagina lo scheletro del suo povero amante! Freud stesso aveva rintracciato la frequenza dell’immagine della vagina dentata nei fantasmi sessuali dei nevrotici a cui, per esempio, riconduceva il sintomo dell’eiaculazione precoce.
Il tabù della Mantide inscena quello della femmina assassina che avvelena, contagia, inghiotte, divora il maschio che vorrebbe godere di lei. Ma più in generale mostra il nesso profondo che unisce il godimento sessuale alla morte. È un tema ampiamente sviluppato da Freud: esiste una prossimità profonda tra il pieno soddisfacimento sessuale e l’esperienza della morte.
Jacques Lacan nelle lezioni di apertura del Seminario X (1962-63) dedicato al tema dell’angoscia ha rievocato lo spirito maledetto della Mantide religiosa. Volete sapere quando si prova l’angoscia? Volete sapere in che condizione ci si trova quando si è angosciati? Lacan porta i suoi allievi a seguirlo in un sentiero stretto. Diversamente da quello che pensavano Freud, Heidegger e Sartre l’angoscia non è senza oggetto, non è percezione del nulla o della nostra libertà. Egli rievoca la Mantide per contestare l’idea di matrice esistenzialista che l’angoscia ci confronti con la nostra libertà più propria e con il dilemma della scelta.
Dalla Mantide Lacan trae un altro insegnamento sull’angoscia: essa sorge non quando siamo confrontati con la nostra libertà ma, al contrario, quando ci sentiamo ridotti ad oggetti passivi del desiderio dell’Altro che si para dinnanzi a noi come un enigma invalicabile. È quello che avviene in un bambino inerme di fronte all’onnipotenza dell’Altro che si prende cura di lui. Cosa vorrà da me? Cosa mi farà? Mi divorerà, mi ucciderà o mi risparmierà? L’angoscia appare quando siamo confrontati con il carattere radicalmente enigmatico del desiderio dell’Altro.
La figura della Mantide religiosa si presta più di ogni altra ad incarnare questo carattere. Provate, dice Lacan ai suoi allievi sbigottiti, ad immaginare di essere di fronte ad una Mantide e pensate di avere stampata sul vostro volto l’immagine del mantide maschio e, dunque, di conoscere la sorte spaventosa che vi attende. Immaginatevi cioè di essere “presi” come oggetto del godimento dell’Altro.
Ecco questa condizione è all’origine dell’angoscia: essere gettati in pasto al desiderio dell’Altro, assoggettati, subordinati, sovrastati dal desiderio dell’Altro. In questo senso l’angoscia non segnala affatto la nostra libertà ma il sentirsi inchiodati all’immagine dell’oggetto del godimento dell’Altro - del mantide maschio - senza alcuna possibilità di fuga.
I tabù del mondo
Quanta fragilità dietro l’esibizione di potenza virile
Gonfiare i muscoli, esibire il corpo come un trofeo competere alla morte per l’affermazione professionale accumulare denaro... Sono tutti tratti che indicano una sopravvalutazione della prestanza fisica nel genere maschile, rappresentata nella cultura greca e romana dalla figura mitologica di Priapo
Nel priapismo psichico come nel mito antico la sessualità non si apre allo scambio con l’Altro ma deve solo convalidare la propria forza invincibile
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 10.07.2016)
Il genere maschile è ingombrato dal fallo, sentenziava Lacan. In modo prosaico questo ingombro occupa sin dall’inizio l’immaginario dei bambini intenti a giocare a chi tra loro è dotato di maggior forza nel getto della pipì o a misurarsi con vergogna o senso di superiorità l’organo sessuale. L’attaccamento dell’uomo al proprio fallo è una costante difficile da spezzare. L’effetto maggiore di questo ingombro è una certa idiozia che, per esempio, costringe gran parte dei maschi a trascorrere tutta la propria vita gareggiando a chi la fa più lontano!
È la stessa idiozia che alcuni anni fa mi si manifestò inequivocabilmente mentre passeggiando per Roma rimasi ad osservare le scene finali della celebrazione di un matrimonio. Gli sposi, giovani e belli come vuole il copione più tradizionale, si stavano concedendo agli sguardi ammirati e felici del loro pubblico appena usciti dal grande portone della Chiesa. Una bella macchina d’epoca, addobbata per l’occasione, li attendeva a pochi passi. Concedendosi alle richieste di parenti e amici a scambiarsi un bacio i due giovani sposi si strinsero l’uno all’altra teneramente, ma, mentre le labbra di lei si offrivano inermi e soavi a quelle dell’uomo appena divenuto suo marito, questi con la coda dell’occhio non riuscì a resistere alla tentazione di contemplare la vettura notando che su di un parafango era caduto un notevole escremento di piccione. Sgusciò allora rapidissimo fuori dall’abbraccio amorevole della sua giovane sposa precipitandosi con un fazzoletto nelle mani verso l’auto per ripristinare la sua bellezza immacolata insopportabilmente offesa dal genere animale.
L’ingombro fallico, come si vede bene in questa scena, come in quella dei bambini che giocano a chi la fa più lontano, comporta davvero una certa idiozia. Una raffigurazione mitologica di questo ingombro è quella della figura mitologica di Priapo che troviamo nella cultura greca e romana. Fu la gelosia furiosa di Era nei confronti della madre di Priapo, Afrodite, verso la quale Zeus non nascondeva il suo interesse, a vendicarsi dotandolo di organi genitali enormi. Il culto di Priapo si trova anche collegato ai riti e alle orge dionisiache. Spesso viene associato all’asino per sottolineare il carattere testardo e autonomo del suo organo genitale. Si racconta anche che le vergini patrizie si raccomandassero a Priapo affinchè rendesse piacevoli le loro prime notti d’amore.
Più cinicamente la clinica medica definisce col termine “priapismo” la presenza di lunghe erezioni dissociate dall’eccitamento sessuale che possono anche provocare dei danni all’organo sessuale maschile. Nel linguaggio comune questa patologia tende ad essere confusa con quella dell’ipersessualità (satiriasi), ovvero al corrispettivo maschile della ninfomania caratterizzata dalla presenza di uno smodato desiderio sessuale che sembra non trovare mai appagamento.
Dal punto di vista della vita psichica con il complesso di Priapo potremmo nominare l’incidenza negativa della sopravalutazione mascolina dell’importanza del fallo. Tutto sembra ruotare attorno alla propria prestanza virile. Questo non riguarda solo l’importanza attribuita alla pulsione sessuale e alla sua spinta indomita, ma finisce per investire tutta la vita del soggetto. Potenziare i propri muscoli, esibire il proprio corpo virile come un trofeo, competere alla morte per la propria affermazione professionale, accumulare denari, concentrarsi sulla propria immagine piuttosto che sul rapporto con l’Altro sono tutti tratti tipici del priapismo psichico.
Le sue radici affondano ovviamente nel terreno del narcisismo ma con una variante significativa: mentre Narciso eleva la propria immagine ad esclusivo oggetto di investimento pulsionale, il priapismo psichico eleva il proprio fallo a misura unica del valore. Il rapporto sessuale non è vissuto eroticamente, ma solo come una prestazione della propria potenza.
In questo senso anche nel priapismo psichico, come nel mito antico, assistiamo ad uno sviluppo abnorme dell’organo genitale: la sessualità non si apre allo scambio con l’Altro ma deve solo convalidare la propria forza invincibile. È il motivo della coazione che caratterizza il priapismo psichico: l’erezione diventa una necessità da esibire costantemente sino a diventare una vera e propria schiavitù a cui si è sottoposti più che una manifestazione di libertà e vitalità.
È questo il punto centrale del complesso di Priapo: l’attaccamento non è tanto all’organo in quanto tale, ma all’immagine della potenza virile che deve essere esibita costantemente proprio perché è vissuta come pericolante, fragile, incerta. È quello che si nota in certi cultori estremi del carattere atletico e muscolare del proprio corpo. Si tratta più di un obbligo che di un piacere che deve compensare un dubbio sulla propria identità fallica: il corpo si gonfia come se fosse un fallo in erezione perpetua.
Non a caso Priapo non è che il simbolo di un asino (ecco di nuovo l’idea lacaniana dell’idiozia fallica) o, se si preferisce, di un gigante di argilla. Accade anche al protagonista della nostra breve storiella romana: l’autovettura d’epoca non è una semplice autovettura, ma uno specchio che restituisce una immagine della propria potenza fallica desolatamente macchiata da una cacca di piccione, la quale, come tutto ciò che macchia lo splendore della propria erezione permanente, deve essere cancellata al più presto.
Jacques Lacan, incandescenza del reale
Psicoanalisi. Dieci incontri in forma di saggio con il maestro francese: un libro di Alex Pagliardini
di Rocco Ronchi (il manifesto, Alias, 01.05.2016)
Da tempo, ormai, intorno all’opera di Jacques Lacan si è andato concentrando un interesse che va ben oltre i confini della psicanalisi, di cui Lacan è stato un impareggiabile maestro. Lo si deve, senza dubbio, al fatto che alla formazione di quel pensiero hanno concorso in modo determinante altri saperi: dall’antropologia alla linguistica, alla filosofia, per arrivare, infine, alle matematiche e alla biologia.
Tuttavia, non è soltanto in ragione di questa ricchezza di riferimenti teorici che la psicanalisi lacaniana è così trasversalmente presente nel dibattito intellettuale: la sua centralità si deve a un’altra ragione, una ragione speculativa. Per quanto possa essere forte la tendenza a evadere i problemi essenziali, ogni epoca è infatti chiamata prima o poi a una resa dei conti. Ci sono urgenze che non dipendono dalla buona volontà degli uomini ma sono inscritte nella natura delle cose. Ci sono domande che devono essere poste. Anche le epoche, come gli esseri umani, percepiscono che il tempo è scarso e che, come disse Seneca, la vita rischia esaurirsi in una vana attesa, senza mai essere stata veramente vissuta.
La domanda speculativa è allora quella che chiede cosa sia veramente reale per noi, cosa «valga» per noi come indiscutibilmente reale. Per un lunghissimo periodo della storia questa domanda ha avuto come risposta: Dio. Dio era il massimamente reale per un uomo del Medioevo. La modernità gli ha sostituito la storia, l’uomo al lavoro, artefice del proprio destino. Quanto ai tempi attuali, i post-moderni” ci hanno insegnato che è il senso dell’irrealtà a prevalere. Neanche le catastrofi sembrano sfuggire a questa dimensione immaginaria. Ma nessuna epoca, nemmeno la nostra, può differire all’infinito la questione del reale. Prima o poi lo deve incontrare.
Jacques Lacan diceva di sé, come teorico, di aver inventato un solo concetto: quello di «reale». Per questo è diventato un imprescindibile punto di riferimento del pensiero speculativo contemporaneo. Ne è prova anche l’ultimo lavoro di Alex Pagliardini, Il sintomo di Lacan Dieci incontri con il reale (Galaad edizioni, pp. 382, euro 16,00). L’autore è uno psicanalista, non un filosofo, dunque la sua è una preoccupazione soprattutto clinica, riguarda la domanda che viene posta da qualcuno che si presenta nel suo studio portando con sé un disagio di cui ignora la causa.
Tuttavia, se leggiamo la definizione di pratica analitica alla fine del primo capitolo, dedicato alla nozione di trauma, non abbiamo dubbi sull’intenzione speculativa che attraversa il testo di Pagliardini. «La pratica analitica - scrive - deve produrre l’impossibile, incontrarlo come tale». Lo stile espositivo è perentorio: invece di nascondersi nelle pieghe della sfuggente scrittura lacaniana o, ancora peggio, di mimarla, Pagliardini osa dire in modo diretto, prendendo posizione.
In quella secca definizione si dice innanzi tutto che la meta della pratica analitica è incontrare il reale come tale; e si dice anche che il reale è quell’impossibile che bisogna produrre nel corso dell’analisi. L’analisi, infatti, non è dialogo, non è conversazione, non mira alla produzione di un senso condiviso. L’analisi non è «esperienza vissuta».
Tutte queste interpretazioni, care a una certa psicanalisi «umanistica», perdono di vista l’elemento propriamente traumatico, il valore di «evento» che una buona analisi dovrebbe invece sempre comportare e che lo psicanalista, soprattutto se lacaniano, deve sapere produrre.
«Impossibile» è così una buona approssimazione alla natura del trauma, perché indica l’accadere di qualcosa che eccede la capacità rappresentativa del soggetto: non è l’irreale, ma il reale portato al suo punto di incandescenza, un reale così massimamente reale da non essere più nemmeno a misura del soggetto (non più «possibile», quindi), un reale che incide il soggetto, marchiandolo a fuoco.
La filosofia speculativa questo impossibile se lo era figurato nella forma del sublime, che - dopotutto - non è altro se non l’eccesso del reale all’opera. Per questo Pagliardini non considera il trauma nella sua dimensione empirica: non è un fatto - scrive - non è un accadimento nel tempo lineare (la cosiddetta scena primaria che segnerebbe l’esistenza del nevrotico). Il suo piano è, come direbbero i filosofi, trascendentale.
In alcune, intense pagine, Pagliardini mostra come il trauma non smetta mai di accadere nel corso di «una vita», proprio perché esso, come tale, ha la forma dell’accadere «puro» e non della cosa «accaduta». La cattiva psicanalisi è invece quella che confonde i due piani mettendo il blablabla del «senso» dove c’è «evento» e cercando di addomesticare l’impossibile.
Le parole che nel testo di Pagliardini ricorrono con più insistenza nei momenti topici della sua argomentazione provengono tutte dalla filosofia: l’inconscio, scrive, è atto e, precisamente atto in atto, la sua dimensione non è quella della materia ma quella della energheia, dell’attività. Esso va colto sotto il profilo del divenire, ma è un divenire, scrive Pagliardini, che non è uno scorrere bensì un fieri, vale a dire una causalità creatrice di effetti imprevedibili.
Non è solo questione di echi evocati bergsoniani o gentiliani, peraltro insoliti tra gli psicanalisti lacaniani, ma di una proposta (indiretta) di revisione della metafisica sottesa dalla psicanalisi: se la pratica analitica incontra il reale, corrispondendo in tal modo a un’urgenza che l’epoca sente ormai come indifferibile, dovrà dotarsi di una concettualità adeguata a questo scopo speculativo.
IL SOGGETTO COLLETTIVO
Dalla psicanalisi a due alla psicanalisi a enne
di Antonello Sciacchitano (psychiatryonline, 19 marzo, 2016)
L’Elvio, nel senso di Fachinelli, non si è mai concesso al maestro.
Ogni volta che passava per Milano - siamo negli anni Settanta - Lacan faceva visita a Fachinelli o gli lasciava un biglietto per dirgli che l’aveva cercato.
Cosa cercava Lacan in Fachinelli?
Per rispondere a questa domanda bisogna aver ben presente il sintomo (o la sublimazione?) di Lacan. Più vicino alla perversione che alla nevrosi, il sintomo di Lacan, che si poneva in posizione di maestro, era mes élèves; gli allievi erano il feticcio di Lacan. Riuscì ad averne un migliaio, che seguivano i suoi seminari; il top, se non sbaglio, ai seminari su Joyce senza inconscio.
Non soddisfatto di mille, Lacan cercava l’uno. Fachinelli era l’uno che gli mancava. Cosa aveva di speciale Elvio? Semplice: Elvio era un lacaniano pensante; era diverso dagli allievi parigini di Lacan, che erano semplicemente lacaniani. Cosa pensava Elvio? Pensava la psicanalisi del collettivo, una dimensione carente in Freud, fissato alla psicanalisi individuale, e appena abbozzata in Lacan con la teoria del discorso come legame sociale. Ma l’ “Elvio cacato” praticava effettivamente - non solo pensava - una psicanalisi collettiva, cioè di tutti e per tutti, senza bisogno di indottrinare nessuno; la “faceva” all’asilo non autoritario di Porta Cicca, quartiere popolare e ai tempi degradato di Milano.
Insomma, Elvio era il prezioso pezzo mancante alla collezione di allievi del maestro parigino. Il collezionista forse pensava di farlo suo, sfruttando la posizione ambigua - un po’ dentro, un po’ fuori - di Elvio rispetto alla società musattiana di psicanalisi. Ingenuo, il maestro. Elvio non entrò mai nel cerchio magico che il maestro cercava di disegnare in Italia, il “tripode” di Verdiglione, Contri, Drazien, che avrebbe dovuto formare il nucleo di una scuola lacaniana in Italia. Insomma, non glielo diede.
Dettagli personali a parte, che sono di scarso interesse, la lezione che il potenziale allievo diede all’attuale maestro, ha una rilevanza teorica non piccola, tuttora da recepire e che forse il maestro non recepì.
Si tratta della freudiana Versagung, che dovrebbe caratterizzare il regime in cui condurre l’analisi terapeutica. I freudiani ortodossi traducono con “frustrazione”, nel senso che in analisi non si dovrebbe soddisfare il desiderio del paziente. I lacaniani, che pretendono - wollen, si direbbe in tedesco - tornare a Freud, oscillano tra varie versioni: dalla “disdetta” al “diniego”, passando per l’improbabile dottrina morale lacaniana, per cui l’etica dello psicanalista sarebbe non cedere sul proprio desiderio.
Niente di tutto questo. La Versagung è la funzione dell’oggetto del desiderio che “non si concede” al soggetto. Sich versagen in tedesco significa “non concedersi” (la negazione è nel prefisso ver); non significa “dire di no”, ma “non dire di sì”; introduce così una sospensione temporale nel cui intervallo fa avvenire qualcosa del soggetto.
La mia versione non antropomorfa di questa situazione è che l’oggetto del desiderio, essendo infinito, non si concede al soggetto finito. Ma non entro nei dettagli di una complessa topologia, che non ha niente a che vedere con la topologistica lacaniana. Mi limito a ricordare che, originario del Trentino, Elvio sapeva un po’ di tedesco. E diede una lezione di tedesco al maestro francese.
I tabù del mondo
La perversione non è un comportamento sessuale deviato, visto che la trasgressione è comune a tutte le forme di erotismo. È piuttosto una sfida impossibile contro qualsiasi regola, qualsiasi precetto legato alla cultura, in nome di un concetto astratto di Natura Una tendenza che ai giorni nostri è forte più che mai
Il nostro lato Sade
il libertino che sfida la Legge
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 06.03.2016)
Nessuna figura come quella del perverso si candida ad infrangere ogni tabù. È la sua professione e il suo programma. È la sola perversione degna di questo nome: sfidare la Legge degli uomini mostrando la sua natura falsa e ipocrita, poiché la sola Legge che conta è quella del proprio godimento.
Un luogo comune, avallato anche da una certa psicoanalisi, ha voluto invece considerare la perversione come una aberrazione del comportamento sessuale, come un vizio che sottolineerebbe il carattere deviato, anarchico, esorbitante della sessualità. In realtà, da questo punto di vista, gli esseri umani sarebbero tutti egualmente perversi. Il desiderio sessuale è, infatti, abitato strutturalmente da una dimensione lussuriosa. Freud parlava a questo proposito già della sessualità del bambino come di una sessualità perversa-polimorfa. Mentre nel mondo animale il sesso sembra rispondere alla bussola infallibile dell’istinto, la sessualità umana eccede quella guida, la sconvolge; non si piega né alla finalità riproduttiva, né a quella del rapporto sessuale come semplice congiunzione dei genitali. Lacan ironizzava affermando che nella sessualità umana non c’è mai nulla di naturale, nulla di realistico: i gusti e le pratiche sessuali non sono piegati alla legge biologica dell’istinto ma appaiono sempre devianti, strambi, simili a dei collage surrealisti.
La vera perversione non si manifesta dunque nelle pratiche sessuali fuori norma anche perché è la sessualità umana come tale a essere “normalmente” perversa. Né si manifesta nella spinta a trasgredire la Legge perché nella trasgressione della Legge c’è già una qualche forma di riconoscimento del valore simbolico della Legge. Ne è una prova il senso di colpa che accompagna solitamente ogni atto trasgressivo.
Nell’Epistola ai Romani Paolo di Tarso ha messo bene in evidenza il nesso che lega la Legge al peccato. Solo se esiste una Legge può esistere anche il senso della sua trasgressione, ovvero il senso del peccato. È questa la dimensione della perversione che accompagna ordinariamente il desiderio umano, il quale può intensificarsi e inebriarsi grazie all’esistenza di un limite e al brivido provocato dal suo oltrepassamento trasgressivo.
Lo insegna anche il mito biblico di Genesi: è l’interdizione dell’oggetto (il frutto dell’albero della conoscenza) che lo rende un oggetto di desiderio. Più si rende un oggetto qualsiasi proibito e inaccessibile, più si alimenta il suo desiderio. Questa spinta del desiderio a superare il limite della Legge, non definisce però ancora la vera perversione.
Per intenderne davvero il significato bisogna abbandonare la dialettica tra Legge e desiderio sul quale si fonda l’iscrizione simbolica del tabù. Il vero perverso, infatti, vuole distruggere ogni tabù, cioè vuole liberare il desiderio da ogni forma di Legge, vuole sfidare la Legge degli uomini nel nome di un’altra Legge.
È quello che Lacan vede incarnarsi nell’opera libertina del marchese De Sade. Questi non si accontenta della versione paolina della Legge e della sua trasgressione. Questa nuova Legge con la quale il vero perverso pretende di smascherare la Legge degli uomini come un’impostura, una maschera, un artifizio ipocrita è la Legge del godimento. Essa non trova posto nei Codici, ma è per Sade iscritta nella Natura.
È il fondamento vitalistico che anima il sogno del perverso: seguire la Legge della Natura per raggiungere un godimento puro, non ancora corrotto dal linguaggio. Per questo la pedofilia è una delle espressioni più forti e inquietanti della perversione: godere dell’innocente significa ricuperare un godimento pieno, assoluto, non ancora contaminato dall’esistenza della Legge. Nessun tabù, compreso quello dell’incesto, deve ostacolare questo dispiegamento onnipotente e cinico del godimento.
Il disegno politico della perversione si chiarisce così come lo sforzo inumano di liberare le leggi della Natura dalle catene repressive delle Leggi della Cultura per riportare l’uomo al suo fondamento materialistico, vitalistico, come spiega pedagogicamente M.me Saint-Ange alla sua giovane depravata discepola Eugénie ne La filosofia nel boudoir: «Spezza le tue catene a qualunque costo, disprezza le vane rimostranze di una madre imbecille, a cui non devi che odio e disprezzo. Se tuo padre ti desidera, concediti: goda di te, ma senza incatenarti; spezza il giogo se vuole asservirti... Fotti, insomma, fotti: è per questo che sei al mondo. Nessun limite ai tuoi piaceri se non quelli delle tue forze o delle tue volontà».
Il teatro perverso di Sade, le giovani donne straziate, degradate, seviziate, umiliate dai loro carnefici, non ha altro fine che questo: riportare il godimento alla sua Origine, liberandolo definitivamente da ogni mancanza. Il richiamo alla Legge della Natura avviene così contro la Legge degli uomini, falsa e corrotta. Il vero crimine non è, infatti, quello del libertino, ma quello della Legge che osa imporre dei limiti al godimento; il vero crimine non è quello sadiano, ma quello dell’uomo falsamente morale che non rispetta le leggi della Natura.
Sade ci costringe a invertire il punto di vista morale della distinzione tra Bene e Male, tra Virtù e Vizio. Il vero peccato non è quello del libertino - il Vizio - ma quello della morale - la Virtù - che nega i desideri “naturali” che costituiscono l’essere umano. La Legge degli uomini è vista come un serpente o una vipera velenosa dalla quale bisogna difendersi. Essa impone sacrifici, limiti, soglie simboliche inutili che mutilano la spinta auto-affermativa di godimento della vita. In questo il marchese de Sade anticipa una svolta epocale in corso del nostro tempo dove i suoi proseliti si moltiplicano mostrando che la Legge degli uomini è solo una maschera artefatta della sola Legge che conta: l’affermazione incontrastata della propria volontà di godimento.
La sottile invidia di Lacan e Derrida
di NADIA FUSINI *
Joyce non è uno scrittore come gli altri. Tale lapalissiana verità appare manifesta in ogni sua opera. La questione è: in che differisce dagli altri scrittori? E in che senso la sua differenza lo mette au dehors de la littérature, quasi in conflitto con essa? O dovremmo riconoscere che tale differenza è un superamento rabelaisiano? Una pantagruelica risata che affonda nel mare del ridicolo l’ atto stesso dello scrivere? La differenza, sappiamo, non è questione di più o meno; né di essenza. Non è, voglio dire, che Joyce sia più o meno scrittore di un altro. Né che per essenza si distingua da chi, pur sempre scrittore, lo sia in modo più rispettoso delle regole e convenzioni.
No, con Joyce, è piuttosto una questione di qualità e di carattere - definire i quali non è affatto facile. In modo diverso ci provano - a definire l’ operazione di scrittura joyciana - due studiosi non di letteratura: un filosofo il primo, uno psicoanalista il secondo, che con l’ ombra di Joyce, dell’ Ulisse - e soprattutto del Finnegans Wake - si confrontano.
Mi riferisco a Jacques Lacan, il quale dedicò allo scrittore irlandese un corso di lezioni dal novembre 197 al maggio del 1976. L’ edizione italiana, per l’ impeccabile cura di Antonio di Ciaccia, esce ora presso Astrolabio col titolo Il seminario Libro XXIII, Il Sinthomo (pagg. 246, euro 21). Essa include le lezioni del seminario dell’ anno 1975-76; in appendice, la conferenza che Jacques Lacan tenne alla Sorbona il 16 giugno del 1975, in apertura del V Simposio internazionale dedicato a James Joyce, l’ intervento di Jacques Aubert al seminario di Lacan, più le sue Note di Lettura (sempre in veste di addetto ai lavori joyciani), e infine le Note passo passo di Jacques-Alain Miller, che interviene nella funzione di erede e solo "stabilizzatore" del testo del genero Lacan: insomma, nei panni di colui che dice l’ ultima parola, del testimone oculare, o piuttosto auricolare, che con fare proprietario ci assicura dell’ esistenza di Lacan in carne ed ossa... Del quale si definisce il "bastone", che sarebbe poi, edipicamente, la terza gamba... (L’ insieme di tali personali relazioni lui li chiama anche "effetti di vincolo": definizione quanto mai appropriata di un’ eredità tanto contestata!).
L’ altro appassionato lettore di Joyce è un altro Jacques di nome, di cognome Derrida. Siamo questa volta a Francoforte, sempre a un Simposio che nel fatidico mese di giugno viene dedicato a James Joyce - questa volta è l’ anno 1984. Ma già due anni prima, nel novembre 1982, a Parigi, questo Jacques si era lasciato andare a un breve e improvvisato discorso su Joyce, sollecitato sempre da quel Jacques (ancora!) Aubert già menzionato. (I due interventi: Ulisse grammofono, Due parole per Joyce, sono reperibili presso Il Melangolo, per la cura di Maurizio Ferraris, pagg. 143, euro 15.)
Se ve li segnalo, questi due Jacques (Derrida, Lacan), è perché nell’ appassionata e appassionante attrazione, che li avvince al primo e unico Jacques-James, e cioè Joyce, che si tratti di transfert, o di platonica seduzione, si dimostra la potenza speciale della parola joyciana. Per comprendere la quale entrambi arrischiano e impegnano la loro sofisticata attrezzatura intellettuale, sfoderano le proprie straordinarie capacità retoriche, per alla fine dichiarare comunque, che Joyce è il migliore in campo. è il solo scrittore. E se i due Jacques, il filosofo, e lo psicoanalista, lo sono un poco (scrittori) è perché lo "imitano".
L’ avvincente legame che il filosofo e lo psicoanalista dimostrano interesserà senz’altro i joyciani del mondo United (e sono tanti i suoi fan); e se tanto mi dà tanto, gli scrittori viventi, che se vigili e svegli non possono non rendersi conto che è un problema venire dopo di James Joyce. E più in generale interesserà i lettori tutti, sia quelli che abbiano superato le difficoltà di leggerlo, e soddisfatti siano giunti in vetta; sia quelli che frustrati abbiano abbandonato l’ impervia scalata.
Colpisce come i nostri due Jacques (Lacan, Derrida) si apprestino alla conquista della vetta Joyce per una spinta, direi, di invidia; intanto, constatano una maitrise, una superiorità magistrale dello scrittore irlandese, che consiste nella sprezzante sicurezza con cui fin dall’ inizio Joyce si pone e si impone come autore e autorità insieme.
Non è solo per scherzo, ma seriamente, che fin dall’ inizio Joyce rivendica per sé una immortalità sostanzialmente legata all’ ottusità dell’ accademia; a quello che Lacan altrove chiama il disperante, ottuso sapere universitario. E non c’ è dubbio, constata Lacan, che ci riesca. Joyce ha reso schiava l’ accademia, e si è assicurato così più o meno l’ eternità. Verrà letto, verrà commentato, verrà spiegato, nei secoli dei secoli.
In questo senso, rincara Derrida, lo scrittore Joyce non è affatto un sognatore né un idealista; è un produttore. Un calcolatore. Se è vero come è vero (e Joyce lo capisce presto) che lo scrittore nasce dopo l’opera, e dunque non è il libro che ha bisogno di lui, ma il contrario; se è vero come è vero che è a partire dal libro che esiste lo scrittore che lo ha scritto, Joyce farà in modo che il libro che scriverà sia "indecifrabile", così piegando nei secoli a venire i professori universitari a chiosare quella immensa costruzione linguistica che ha il suo nome. Al servizio del suo nome, questi illustri signori porteranno non soltanto acqua al mulino del suo immenso, ultramondano egotismo, ma riveriranno nel libro che distrugge la lingua stessa in cui si scrive la più grande sfida che uno scrittore abbia lanciato contro di sé. Contro la significazione tutta.
Per questo, mentre tra sé e sé e di fronte ai proprii allievi si trastulla con Joyce, Lacan ha ragione a chiedersi: a partire da quando si è pazzi? è una domanda impegnativa, che insorge evidentemente nelle vicinanze di qualcuno che ha sfiorato tale condizione. Ma l’ha schivata; perché a partire da quando qualcuno ha preso a leggerlo, Joyce non è stato più pazzo. Anche se scrivendo, e rappresentandosi nella propria opera come il figlio, da un certo punto in poi si è creduto il Padre, e cioè Dio stesso.
L’ impegnativa liturgia che viene riservata al corpus joyciano riguarda, ripeto, non soltanto professori universitari, e difatti qui vi parlo di Derrida e di Lacan. E in un certo senso, del loro rispettivo "complesso di Joyce". Derrida confessa di provare un sentimento per Joyce che è piuttosto un "risentimento". Un’ ammirazione, che non è amore. Non è sicuro di amare Joyce, afferma. Né di amarlo sempre. Ma come dimenticarsi di lui? Di quell’ atto babelico con cui ha dichiarato guerra a noi poveri lettori? Perché come altro definire la veglia di Finnegan? Se non come una guerra? O come una risata? Come si fa a non sentire la sua (di Joyce) risata, la sua vendetta contro il dio di Babele? E che vuol dire leggere Joyce?
Non ha ancora cominciato a leggere Joyce, riconosce Derrida, pur scrivendone. E rivela: «Ogni volta che scrivo, un fantasma di Joyce è all’ arrembaggio». è la potente macchina di lettura, con tanto di firma e controfirma al servizio del suo nome, che grazie alla propria opera Joyce ha costruito; è quel brevetto, che fa impressione a Derrida. Lo riconosce: c’ è invidia. Invidia per una capacità di programmazione e di realizzazione di un potente progetto di mondializzazione della propria opera, che forse, al livello della filosofia universitaria, Derrida stesso ha tentato. E specialmente in America, ha portato a buon fine, pare.
Mentre nel caso di Lacan, a che gli serve Joyce? Perché legge Joyce? Perché a Lacan, come del resto a Freud, piacciono gli scrittori. E gli piacciono, perché possono chiarire, esemplificare quello strano funzionamento del pensiero che, già Freud l’ aveva detto, e Lacan lo ripete e sintetizza così: «L’ inconscio è strutturato come un linguaggio». Quanto a giochi linguistici, doppi sensi, battute di spirito, e così via, sappiamo bene quanto Joyce ci si diverta. E quanto Lacan ne sia appassionato, e non per capriccio; ma perché è a quel modo che qualcosa parla, che altrimenti non può, non sa parlare. Non è il percorso lineare, grammaticale, sintattico che può intonarci a quel che non fa che smarrirsi, perdere la strada, ingarbugliarsi, a quel che si lega e si scioglie e insieme si sfalda, si sfilaccia. è un esercizio del pensiero, quello che richiede Lacan, che non tutti sopportano, poiché mette in crisi prese troppo nette, fa saltare i ponti, e su un terreno minato non tutti amano passeggiare.
Naturalmente con Joyce, quanto a giochi linguistici, Lacan va a nozze. Ma non si ferma qui. Lui si chiede perché Joyce scriva. è chiaro a Lacan che scrivere è nel caso di Joyce un sintomo. Solo che con la parola "sintomo" ora Lacan non intende più, con Freud, quell’ azione che nella radice greca del termine indicava una caduta, un inciampo. E riprende piuttosto la parola secondo l’ antica grafia francese e la scrive così: sinthome, perché nel pronunciarlo in francese sfumi in saint’ homme, evocando nel suono la parola "sant’ uomo". Che potrebbe essere quel sant’ uomo, o povero cristo del padre; o perfino S. Tommaso d’ Aquino. Lacan parla addirittura di sinthome madaquin, in cui dovrebbe risuonare per l’ appunto Saint Thomas d’ Aquin.
Del resto, sappiamo tutti quanto Joyce avesse sbavato su quel sant’ uomo. Se è un sant’ uomo che col sinthomo viene alla mente di Lacan, è perché in tutta l’ opera di Joyce lui vede lo sforzo di liberarsi della carenza del padre, e farsene un altro grazie al proprio nome, alla propria firma, alla propria opera. Lacan ci fa scoprire, in altre parole, una verità che noi joyciani patiti avevamo colto nell’ opera a livello tematico: non avevamo dubbi che l’ Ulisse testimoniasse del fatto che Joyce si fa carico del problema del padre, e in quel rapporto resta preso, pur rinnegandolo. E avevamo letto questo come il suo sintomo. Non avevamo però fatto il passo ulteriore, che Lacan ci fa fare: e cioè, che se Joyce si salva, è perché Joyce fa di sé un libro.
La Vagina di Anish Kapoor semina il panico a Versailles
L’artista anglo-indiano Anish Kapoor inaugurerà il prossimo 7 Giugno la sua installazione "Dirty Corner" a Versailles. Ma cosa succede se l’opera in questione rappresenta dichiaratamente l’organo genitale femminile? È questo l’oggetto della polemica che in questi giorni infiamma la Francia.
di Marina Piccola Cerrotta (Fanpage, 6 giugno 2015 - ripresa parziale).
Come già era successo in precedenza con l’opera di Paul McCarthy, il sex toy chiamato "Tree" in Place Vendrome, la Francia non riesce a convivere serenamente con la prossima installazione di Anish Kapoor, che avverrà il 7 Giugno a Versailles. Il "Dirty Corner" (Angolo Osceno), così si chiama l’opera, sta causando un’enorme polemica, e prima ancora di essere inaugurata. Ma come mai un artista così famoso e geniale viene contestato dalla patria della "liberté"?
Anish Kapoor e il Dirty Corner
in foto: L’artista Anish Kapoor e il suo Dirty Corner
Anish Kapoor è conosciuto come uno dei più grandi interpreti del panorama dell’arte contemporanea mondiale. Le sue opere, è risaputo, tendono verso tematiche sessuali, e non è la prima volta che nei suoi lavori compaiono rappresentazioni di organi genitali. L’ultima volta è stata a Marzo, nella Lisson Gallery di Londra, dove la vagina è stata rappresentata in marmo rosa, con un incredibile tocco di sensualità. Consapevoli del fatto che l’opera di Kapoor si basa anche su questo, perché si grida allo scandalo? Pare che l’oggetto della discussione sia la location scelta per il "Dirty Corner". A detta dei francesi, infatti, questo tipo di installazione a Versailles macchierebbe la compostezza e lo sfarzo di quella dimora che è stata la casa della famiglia reale. Tale affermazione potrebbe essere condivisibile, se solo non vi fosse stata un Rivoluzione contro la monarchia; se solo, proprio a causa della famiglia reale, la Francia non avesse sofferto la fame; se solo Maria Antonietta e Luigi XVI, come tanti altri, non fossero stati ghigliottinati. A questo punto, pare proprio che Versailles sia molto più audace di quanto i francesi vogliono far credere.
Dirty Corner e una statua della reggia di Versailles
in foto: Il contrasto tra il Dirty Corner e una statua della Reggia di Versailles
L’arte di Kapoor è incredibilmente complessa, e si concentra molto sui colori. Il loro utilizzo è strettamente legato alla cultura indiana da cui proviene, e ognuno di essi ha un significato preciso per l’artista: il rosso è passione, il blu ha un’accezione spirituale ed infinita. In Dirty Corner è presente non solo il concetto di unità spaziale, al cui interno le opere si inseriscono modificando l’ambiente, ma anche quello della sessualità, tema a cui Kapoor fa costantemente riferimento. La sua affinità con la corrente dell’Arte Povera lo porta anche ad avere un’incredibile attenzione per l’uso dei materiali, come il già citato marmo rosa, il granito o il gesso, solo per dirne alcuni. Il suo lavoro va dall’ispirazione allo studio, nei minimi particolari, della realizzazione del suo lavoro. È un fantastico conoscitore dei pigmenti e delle loro qualità, e li usa sapientemente all’interno delle sue opere, coniugando architettura e sostanza, e creando opere in cui la percezione dello spazio da parte dell’occhio umano viene alterata. È il caso di "The dark brother" al Madre di Napoli dove l’artista anglo-indiano crea un vuoto all’interno del pavimento del Museo, ma ne ricopre la superficie con un pigmento nero che non fa risaltare la luce. Il risultato, è la sensazione che si tratti di qualcosa che è solo disegnato in superficie.
The Dark Brother, Anish Kapoor
in foto: The Dark Brother di Anish Kapoor a MADRE di Napoli
Se l’opera degli artisti contemporanei, dunque, si basa su tematiche tanto moderne quanto a volte spudorate, è giusto storcere il naso e puntare il dito (ancora una volta) contro tali installazioni? La nostra epoca artistica è quella in cui sentiamo il peso di ciò che è stato già fatto. L’arte ha bisogno di sperimentazioni, di strade nuove. Ha bisogno di respirare. Ed è ciò che Anish Kapoor si propone di fare. D’altronde, potrebbe non essere la "vagina" in quanto tale a destare scalpore, quanto le modalità con le quali è stata creata, e il fatto che l’arte contemporanea non va proprio a genio a tutti, soprattutto se contrasta con opere artistiche ed architettoniche antiche. Molto prima di Kapoor, infatti, c’è stato Gustave Courbet. E pare proprio che per quanto riguarda la sua Origine du Monde non si sia ancora gridato allo scandalo. Almeno non ancora, dal 1866.
Gustave Courbet, L’Origine du monde
in foto: L’Origine du Monde di Gustave Courbet
continua su: http://www.fanpage.it/la-vagina-di-anish-kapoor-semina-il-panico-a-versailles/
http://www.fanpage.it/
Per chi suona l’ora della fine del maschio
di Julia Kristeva *
La virilità appare in crisi perché si trasforma. Da sempre? Ho potuto constatarlo a Versailles, alla luce del sole. Nella sala del pendolo di Luigi XV troneggia, sotto forma di mobile sprezzantemente osceno, un orologio astronomico impostato per segnare l’ora sino al 9999. Il robot androide (fantoccio fallico, ode a Priapo) divarica le gambe rococò per mettere in evidenza la potenza virile che si suppone governi il regno, uomini e donne, la terra e le stelle.
Che quell’essere scabroso sia stato agghindato con tutti gli intarsi dorati di Francia per nascondere l’inizio della fine del maschio occidentale, del maschio in generale?
Il pendolo, progettato dall’orologiaio reale Claude-Siméon Passemant, ci prova: l’automa androide è un sosia di Luigi XV. Il re "beneamato", che com’è noto rimase sempre un orfano ansioso, fu un cacciatore intrepido ed è passato alla storia come predatore sessuale: innanzitutto della propria sposa (dalla quale ebbe dieci figli, tre morti in giovane età), e poi delle tante amanti "grandi" e "piccole" (ebbe almeno 14 figli illegittimi). Senza contare che Madame de Pompadour, non paga d’essere la favorita, pare si atteggiasse a primo ministro, prendendosela con lo sfrontato orologiaio che si permetteva di esporre gli ingranaggi fisici dell’autorità.
A meno che l’ingegnoso artigiano non abbia invece voluto proclamare di fronte alla corte e al mondo, stupefatti, che la "virilità" - maschile, monarchica, politica - fosse sul punto di scomparire. "Signore e Signori", dice in sostanza l’ingegnere del re, "il personaggio principale altri non è che il Tempo, accompagnato solo dai suoi: coloro che lo sanno misurare, calcolare, riprodurre, pensare...". Questo, perlomeno, è ciò che sostiene Nivi, una psicologa che mi assomiglia e che ritiene che i francesi siano in anticipo sugli altri quando annunciano al mondo intero che "il re è nudo" e il maschio pure. Le "folies françaises" non sono nate con il Sofitel o il Carlton.
La virilità, mito superato e realtà indispensabile, cosa sarà mai, in effetti? La prestazione di un atleta sessuale? L’autorità del maschio? L’arte di vivere propria di un essere umano dotato di cromosomi e testosterone? La sua parola, la sua scrittura? La paura della castrazione? Terribile o giubilatoria, questa sottopone la sessualità maschile a una prova radicale e complessa. Georges Bataille (rivista L’Acéphale, 1936-1939; L’Erotisme, 1957) ne ha sondato i tormenti e i trionfi estatici, sino alla decapitazione praticata oggi dagli jihadisti folli di Dio. Questo rito immemore e antichissimo concretizza lo spettro del perdere e del far perdere l’organo capitale (testa e/o pene), e attizzando l’abiezione mortifera dei fanatici mobilita industrie militari, mafie, trattative politiche e voyeurismo iperconnesso.
Rimane la virilità simbolica, il cui mito si rifugia ormai negli eroi dei tempi moderni. "Il sapiente", sereno, ascetico. "L’artista", che si diverte proclamandosi "ateo del sesso": la sua libidine è interamente assorbita dall’invenzione di nuovi linguaggi, si perdona e ci perdona, accompagnato da un’intensa miscela di spiritualità. E infine "il politico", ultimo custode della posa fallica: ne gode, ne approfitta, se ne fa grande e non l’abbandona soprattutto nelle inevitabili traversate del deserto, poiché questa fede senza innocenza non conosce la parola "mai".
Il matrimonio è alla portata di tutti, certuni e certune preferiscono coprirsi il volto con un velo, mentre altri vogliono essere tutto e avere tutto... L’emancipazione delle donne e i loro progressi sociali, che accentuano la bisessualità fisica delle madri e delle amanti, oggi sconvolgono gli uomini, che di fronte a loro percepiscono un «rischio di omosessualità» (Colette) - a meno che non si tratti di una speranza.
Il maschio occidentale tuttavia non ha perso, benché le vite quotidiane siano più difficili da elaborare rispetto alle tecniche, alle rivoluzioni, alla governance politica, al culto o alla blasfemia. Nuovi legami amorosi sono più che mai necessari, perché i due sessi - che non se ne stanno tranquilli sulle due sponde della differenza sessuale - accordino le proprie esperienze interiori, i loro stati quantici. (Traduzione di Marzia Porta)
* Julia Kristeva (nella foto), linguista, psicanalista, filosofa e scrittrice, ha appena pubblicato in Francia il romanzo L’horologe enchantée (Fayard) e il 22/6 sarà al 17° Suq Festival di Genova per la prima rappresentazione italiana del suo testo teatrale Teresa mon amour.
*
Quel gesto spudorato con cui le donne cambiarono la storia
Per la prima volta un libro fotografico racconta il simbolo delle lotte femministe
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 03.07.2014)
QUASI sempre sorridono. E anche quando la bocca disegna rabbia, lo sguardo è ironico, luminoso, fiero della nuova sfida. Ridono le donne, così meravigliosamente diverse tra loro. Giovani e vecchie, anche molto vecchie, filiformi e grasse, borghesi up-to-date e casalinghe in vestaglia, botticelliane e goffe, tutte lunarmente distanti da canoni estetici omologanti. Sono le donne degli anni Settanta, ritratte mentre compongono nell’aria quel gesto spudorato che segnerà la storia del femminismo. Un triangolo fatto con le dita, unendo le punte dei pollici e quelle degli indici. In mezzo il vuoto, il varco di libertà attraverso cui passò una rivoluzione. Forse l’unica che ci siastata veramente in Italia.
È merito di una piccola casa editrice, Derive Approdi, riproporre dopo quarant’anni l’album fotografico del gesto iconico delle lotte femministe. Nelle mani era custodito lo scandalo. Le dita ribelli annunciavano al mondo che le donne erano padrone: del corpo, della sessualità, della contraccezione. Di nuove relazioni sentimentali e sociali. Di un modo diverso di stare a casa, in fabbrica o all’università. E di un nuovo immaginario che ribaltava logiche patriarcali.
La favola bella della costola di Adamo era finita. Cominciava un’altra storia, narrata per la prima volta da una voce femminile ( Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte , a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, pagg.168, euro 20). Ma come nacque quella “mossa simbolica” destinata a sconvolgere un paese che ancora ammetteva il delitto d’onore, “le pene corporali” dei mariti e dei padri, un diritto di famiglia arretrato? Al pari di tanti segni consegnati al mito, è difficile rintracciarne l’origine.
Rovistando tra le memorie femministe, Laura Corradi ci conduce a Parigi, tra migliaia di persone riunite alla Mutualité. È il 1971, l’atmosfera carica di pathos. Performance musicali, filmati e testi recitati evocano le violenze contro le donne. Tra gli ospiti illustri anche Simone de Beauvoir. Dalla platea s’alza una giovane militante italiana che unisce pollici e indici per aria. Il gesto della vagina.
«Istintivamente mi venne da fare così», racconta ora Giovanna Pala. «Il simbolo, per la prima volta, l’avevo visto sulla copertina di una rivista francese, Le Torchion Brule . Mi aveva colpito per l’immediatezza del messaggio. Quando alcuni ragazzi alzarono il pugno chiuso, io feci quell’altro segno, anche per affermare la mia diversità». L’Espresso, ancora in formato lenzuolo, uscì con una foto di Giovanna in copertina. E in pochi mesi l’impudico gesto si sarebbe impadronito del movimento delle donne.
Se molte cose del femminismo le avevamo importate dal Nord America, la rivoluzione del triangolo fece il percorso inverso, dall’Europa a New York. Bisogna però aggiungere che Oltreoceano, sin dalla metà degli anni Sessanta, la Vagina painting della giapponese Kubota aveva inaugurato la stagione creativa delle Betty Dodson, Judy Chicago e Niki de Saint Phalle, tutte decise a violare nell’arte il tabù dell’iconografia vulvare. Per l’ignaro Courbet dell’ Origine del mondo cominciava un’epoca di rinnovata fortuna.
Non tutte le donne approvavano. Molte se ne ritraevano con fastidio o ne denunciavano l’ambivalenza. Miriam Mafai, rievocando le piazze ardenti di quegli anni, confessa lo smarrimento delle più anziane. Anche Paola Agosti, sapientissima fotografa del movimento, ammette la fatica del confronto con “l’ideologia femminista”.
E gli uomini? Tra tante militanti, sociologhe, antropologhe, filosofe, storiche dell’arte e registe interpellate dal Gesto femminista , s’avverte la mancanza di una voce maschile. Come reagirono alla provocazione? “Sordi” e “ciechi”, sintetizza nel suo bel saggio Letizia Paolozzi. Sappiamo poco di ciò che accadde all’identità dell’uomo. Quasi nessuno intercettò il baldanzoso gesto che rovesciava il mondo. Ritirarsi nel proprio guscio fu la pratica più diffusa. Far finta di niente, sperare che la ricreazione finisse. Ma la campanella sarebbe suonata troppo tardi.
E oggi, cos’è rimasto del significato politico di quel simbolo? Se esporre allora l’organo della sessualità ebbe un’innegabile carica dirompente, riproporlo oggi diventa un atto imputabile di ambiguità. Consegnato il gesto delle mani al robivecchi del femminismo, sopravvive invece il segno genitale che in anni più recenti ha nutrito in America l’iconografia delle Vagina Warriors e del V-day. Una bandiera estetica che rischia di annacquare la portata sovversiva delle origini.
Le “vagine parlanti” di Eva Ensler - nota con lucidità Laura Corradi - tendono a inchiodare le donne al sesso biologico, esattamente come nel passato. La sessualità diventa la componente predominante dell’identità femminile, lasciando in ombra quelle trasformazioni sociali ed economiche che un tempo erano parte essenziale della protesta. Lo spiegano bene le femministe culturalmente più agguerrite: emanciparsi non significa solo far carriera o amabilmente colloquiare con il proprio organo sessuale.
Non è un caso che sull’attivismo nordamericano cresciuto intorno ai Monologhi della Ensler siano fioccate accuse di colonialismo: è la critica mossa dalle donne escluse, quelle del vasto mondo non occidentale. Anche sul topless delle Femen, le studentesse che mettono in mostra il corpo al posto delle armi, s’allunga il sospetto di voyerismo. E qualche perplessità sollevano gli show che spettacolarizzano il dolore delle donne puntando sull’effetto mediatico e su corpi attraenti.
Il salto di civiltà viene disegnato anche dalle diverse “parole d’ordine” scandite nel tempo. Da “Il corpo è mio e lo gestisco io”, didascalia del femminismo storico, a “Figa è bello” e “Fuck me” ora orgogliosamente esibiti su magliette aderenti. Ancor più di poderosi trattati, pochi slogan possono raccontare il tramonto di una speranza collettiva. E spiegare perché oggi le ragazze, molto più libere sessualmente, sorridano di meno di quelle nonne assai più libere nella testa.
Noi Donne
Le attività, i pensieri e i movimenti di genere
I settant’anni della rivista dove tutto cominciò
la Repubblica, 03.07.2014.
LUGLIO 1944. Noi Donne esce dalla clandestinità. Settant’anni fa una tipografia di Napoli manda in stampa il primo numero ufficiale dello storico giornale. La direzione è di Laura Bracco con la collaborazione di Nadia Spano e Rosetta Longo. L’intento è quello di fare circolare un foglio politico nel quale si ritrovino le energie femminili che vogliono partecipare alla costruzione di una società diversa, sia nell’Italia occupata che in quella parte del Paese già liberata.
Dal terzo numero direzione e amministrazione si spostano a Roma e alla Bracco si affianca Vittoria Giunti, insegnante che usciva dalla lotta antifascista clandestina. Dal 1945 agli anni Novanta il giornale sarà editato grazie all’Unione delle donne italiane: inizialmente mensile, diverrà un settimanale con la direzione di Giuliana Dal Pozzo e di Miriam Mafai. Nel 1981 torna a uscire con cadenza mensile e dal 1990 cammina in autonomia dall’Udi, ma con uguale impegno: raccontare le attività, i pensieri e i movimenti delle donne, promuovere le campagne per la parità di genere.
Contrordine compagni! Il porno non è per tutti
Mosca, svelata la collezione di stampe e libri erotici nella biblioteca Lenin nascosta in una stanza che era aperta solo ai membri del Politburo
di Giulia Merlo (il Fatto, 29.06.2014)
In Unione Sovietica il porno si nascondeva in biblioteca. Lontano dagli occhi del popolo, ma a piena disposizione dei capi del partito comunista, molti dei quali erano assidui frequentatori di quell’ala segreta della Biblioteca di Stato di Mosca. Ancora oggi la scandalosa raccolta si trova lì, chiusa a doppia mandata dietro una porticina tra gli scaffali del nono piano della biblioteca Lenin, dove sono archiviate tutte le pubblicazioni marchiate come “ideologicamente dannose”.
Migliaia di libri, disegni, fotografie e film connessi in un modo o nell’altro al sesso sono stati conservati qui: una collezione di circa 12mila oggetti provenienti da tutto il mondo, dalle stampe giapponesi del ‘700 agli Harmony americani dell’era nixoniana. La stanza è uno dei tanti segreti che si annidano nel passato dell’austera Russia bolscevica ed anche oggi la sua esistenza non è nota alla maggior parte dei frequentatori della grande biblioteca.
“L’abbiamo mantenuta intatta, come cimelio di un’epoca passata”, ha spiegato la bibliotecaria Marina Chestnykh, che si occupa di curare la raccolta erotica. Lei stessa l’ha scoperta solo nel 1990, dieci anni dopo aver iniziato a lavorare alla Biblioteca di Stato. La storia dell’archivio segreto è iniziata nel 1920, quando il museo d’arte di Mosca venne trasformato nella Biblioteca nazionale, intitolata a Lenin. Accanto ai libri della nuova cultura russa, i bolscevichi trasformarono i piani alti in un deposito dove accumulare la stampa clandestina e i libri confiscati alla nobiltà russa dopo la rivoluzione.
LA MAGGIOR PARTE del materiale viene, però, dalla collezione privata di Nikolai Skorodumov, il direttore della biblioteca dell’università di Mosca. Dietro l’immagine pubblica del tranquillo funzionario, Skorodumov collezionò per tutta la vita volumi sia russi che stranieri e soprattutto a tema erotico. Come riuscisse ad aggirare la censura sovietica, rimane un mistero. Alcuni dicono importasse i volumi sfruttando la sua posizione all’università e facendoli passare per materiale di interesse scientifico, altre voci raccontano che godesse della protezione del comandante della polizia di Stalin, anche lui cultore di romanzi erotici.
Dopo la morte del collezionista, la censura scoprì un tesoro di carta di oltre 40 mila volumi, 7mila dei quali a contenuto erotico. Una raccolta che non poteva certo essere lasciata alla vedova - sostennero le autorità - perchè “tenerli in una casa privata presenta enormi rischi”. E quale posto migliore, se non la stanza all’ultimo piano della biblioteca Lenin. Una stanza che divenne improvvisamente molto visitata dagli alti membri del Politburo. “Erano più interessati alle immagini più che ai libri - ha raccontato la bibliotecaria - ed entravano quando volevano, senza bisogno di permessi”.
La particolare raccolta ha continuato ad essere ampliata fino agli anni Ottanta, con il materiale sequestrato alle dogane: libri in inglese ma anche film e cartoline considerate licenziose e dunque poco adatte ai cittadini russi. “Non venivano raccolti con metodo e non esiste un catalogo - ha spiegato la Chestnykh - prendevano tutto quello che gli sembrava inappropriato e lo portavano qui”. Il risultato è un curioso collage: fotografie dei Beatles, un libro sul Kama Sutra in inglese, un catalogo di dipinti di Picasso e una raccolta di scritti di De Sade.
La stanza, oggi come ieri, continua a galleggiare nel limbo della semi-clandestinità. La sovrintendenza della biblioteca di Stato, infatti, è divisa tra chi vorrebbe valorizzare la piccola raccolta e chi invece la considera una spesa inutile. Anche dopo la caduta dell’Urss, il nono piano della Biblioteca Lenin resta un luogo di misteri e sguardi ammiccanti.
Jacques Lacan e l’inconscio visto da vicino
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 20.12.2013)
La parte più rilevante dell’insegnamento di Jacques Lacan è orale. Essa si condensa nei suoi famosi Seminari che a partire dai primi anni Cinquanta egli tiene continuativamente sino alla sua morte avvenuta nel settembre del 1981. E tuttavia la celebrità pubblica di Lacan coinciderà con la pubblicazione dei suoi Scritti nel 1966. Questa raccolta volutamente al limite della leggibilità uscì in piena epoca strutturalista e il suo successo consacrò lo psicoanalista francese come uno dei più grandi pensatori del Novecento.
Emergeva lì il senso più autentico del suo “ritorno a Freud”: l’inconscio non è il sottosuolo, l’irrazionale romantico, l’animale imbizzarrito, il selvaggio caotico, l’istintuale. Lacan ci mostra come l’inconscio di Freud sia strutturato come un linguaggio, appaia cioè come una vera e propria ragione sebbene diversa da quella che regola i nostri comportamenti diurni. Si tratta della ragione che anima la trama complessa dei nostri sogni e il tessuto scabroso dei nostri sintomi, della ragione che sostiene l’istanza del desiderio inconscio.
Di qui il nuovo orientamento che egli imprime alla pratica analitica: contro le derive post-freudiane che tendevano a concepire il lavoro dell’analisi come una rieducazione emotiva e disciplinare del paziente, Lacan mostra che la “disalienazione” prodotta dall’esperienza dell’analisi non consiste nel raddrizzamento ortopedico dell’Io, ma nel fare emergere la verità del desiderio inconscio come ciò che spiazza l’Io costringendolo a ridimensionare il proprio narcisismo.
La pubblicazione per Einaudi degli Altri scritti di Lacan, apparsi originariamente in lingua francese nel 2001 a cura di Jacques-Alain Miller, è di straordinario interesse perché ci consente di dettagliare ancora meglio la visione lacaniana della psicoanalisi che senza negare il potere rivelatore della parola affronta con più decisione tutti i suoi limiti.
Questa raccolta riunisce testi che vanno dalla fine degli anni Trenta sino alla fine degli anni Settanta. In cinquant’anni si srotola una vita dedicata allo studio e alla pratica clinica della psicoanalisi. Il lettore potrà così trovare testi capitali per la ricostruzione genealogica del suo pensiero - come il celebreI complessi familiari del 1938 che anticipa un grande tema della contemporaneità come quello del tramonto dell’Imago paterna - o altri che lo sintetizzano con grande energia come Televisione o Radiofonia.
Ma non manca in questa raccolta il Lacan maestro che possiamo ritrovare nei brillanti e inediti resoconti del suo insegnamento. Il clinico curioso che offre un intenso e rispettoso ritratto di Wilfred Bion e della sua esperienza pionieristica nell’applicazione della psicoanalisi ai gruppi di soldati che nel corso della Seconda guerra abbandonavano traumatizzati il fronte. L’intellettuale appassionato che omaggia Merleau-Ponty o che resta affascinato dagli ideogrammi della lingua giapponese e dalla scrittura neologistica di James Joyce. Il capo scuola impegnato nella trasmissione della psicoanalisi e nel dare vita ad una comunità di psicoanalisti capace di non tradire il sapere di cui essa si vorrebbe destinataria.
Qui Lacan sbatte la testa contro il muro della contraddizione che separa la formazione dell’analista da ogni sua possibile regolamentazione. Per questo si congeda identificandosi con Tommaso D’Aquino nel momento finale della sua vita, mostrando come il destino dello psicoanalista sia quello dello scarto, null’altro che “Sicut palea”, povero letame di cui si è nutrito l’humus umano.
“L’origine del mondo”, la donna del quadro di Courbet ha un volto
Francia, mostrato «il vero viso» della modella. Gli esperti divisi *
Parigi Non è solo il ritratto di un sesso femminile: “L’origine del mondo” di Gustave Courbet ha anche un volto. È quanto sostiene Jean-Jacques Fernier, autore del “Catalogo ragionato” dell’opera del maestro del realismo francese e ritenuto uno dei più grandi esperti del pittore, annunciando di avere identificato una tela raffigurante la testa della modella che posò per il celebre quadro dipinto nel 1866 e conservato al Museo d’Orsay di Parigi. In sostanza: l’originale sarebbe stato ritagliato.
La notizia viene data in «esclusiva mondiale» dal settimanale Paris Match che parla di «una scoperta miracolosa». Ma altri esperti di Courbet reagiscono invece con scetticismo. Contattato dall’ANSA, il Museo d’Orsay «per ora non vuole commentare l’informazione in quanto l’opera appartiene a un privato».
È infatti un appassionato d’arte - che preferisce mantenere l’anonimato - che nel 2010 comprò per 1.400 euro da un antiquario parigino l’olio su tela di 33 centimetri per 41 centimetri, senza firma, e raffigurante una testa di donna leggermente inclinata sul fianco con i capelli lunghi, castani, sciolti sulle spalle, gli occhi aperti rivolti verso l’alto, la bocca semiaperta. Dalle prime valutazioni degli esperti emerge che possa trattarsi di un Courbet.
L’analisi scientifica della tela, i fili della trama, le proporzioni, i pigmenti e la tecnica pittorica, la prova che il bordo sia stato ritagliato lasciando intravedere il drappeggio della camicia e forse persino le iniziali dell’artista disegnate nell’orecchio: tutto fa pensare che il ritratto sia la parte superiore de “L’origine del mondo”. Il quadro viene quindi sottoposto al vaglio di Fernier che non ha dubbi: «E’ autentico». E non è tutto: l’esperto si spinge a ipotizzare che l’opera originale rappresentasse la modella nella sua interezza, «con le due braccia aperte, mentre esprime la pienezza del suo essere», e misurasse «120 centimetri per un metro o anche più».
Il soggetto ritratto è probabilmente una giovane donna irlandese di nome Joanna Hifferman, che in quegli anni era la modella preferita di Courbet (e l’amante dell’artista americano James Whistler). Il pittore fece un altro ritratto nel 1866 che ritraeva la bella Joanna, intitolato “La belle irlandaise”. “Tete de femme”, così è stata intitolata la tela rivelazione, sarà inserita nel “Catalogo ragionato” di Fernier, ed è ormai valutata 40 milioni di euro. “L’origine del mondo” ha raggiunto le collezioni del museo d’Orsay solo nel 1995 e prima, è stato poco visto e mai esposto al pubblico.
Secondo gli esperti, il quadro venne commissionato all’artista dal diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey (1831-1879), ambasciatore dell’impero ottomano ad Atene, per la sua personale galleria di dipinti erotici che includeva prestigiosi quadri come “Le Bain Turc” di Ingres.
Il dipinto passò poi attraverso una serie di collezioni private, riuscendo a sfuggire al saccheggio dei nazisti durante la Seconda Guerra mondiale, prima di arrivare nel 1954 nella raccolta dello psicanalista Jacques Lacan che lo teneva dissimulato dietro a un pannello. L’opera venne infine donata dagli eredi di Lacan allo Stato francese e da allora è esposta nelle collezioni del museo parigino.
Tutto Lacan in due volumi il nuovo lavoro di Recalcati
Dall’etica al desiderio, i pensieri di un maestro
Tutto su Lacan
Il primo volume, appena pubblicato, è sul soggetto e i sentimenti
di Roberto Esposito (la Repubblica, 28.11.2012)
Noi, i soggetti. Ma chi siamo, noi? E cosa vuol dire “soggetto”? Che rapporto passa tra me e l’altro, all’interno della comunità? Ma anche tra me e ciò che, senza appartenermi, come il linguaggio che parlo, mi condiziona, mi modella, mi altera? E ancora: cosa è, per ciascuno di noi, il desiderio? A quale legge risponde? E come si articola con l’etica, l’arte, l’amore? Sono le grandi domande che si pone, e ci pone, Massimo Recalcati in Jacques Lacan. Desiderio, godimento, soggettivazione (Cortina), prima parte di un dittico, straordinario per quantità e qualità, cui seguirà un’altra sulla clinica psicoanalitica. Si tratta del suo ultimo libro, ma anche, più a fondo, del libro della sua vita. Certamente Recalcati ne scriverà ancora molti. Ma il libro della vita è un’altra cosa. È il libro cui dedichiamo la vita, ingaggiando una battaglia che non possiamo mai davvero vincere. E che poi, a un certo momento, sorprendendoci, la vita scrive attraverso di noi.
Si potrebbe dire che questo, a conti fatti, è quanto ci ha insegnato Lacan. La sua è un’opera “difficile” - non perché lontana dalla nostra esperienza, ma perché, al contrario, tanto prossima ad essa che quasi non riusciamo a metterla a fuoco e oggettivarla. La forza e il fascino del libro di Recalcati stanno appunto in questa consapevolezza. Nel sapere, e nel dirci, che le tesi di Lacan non possono essere descritte dall’esterno, come una qualsiasi teoria, ma vanno riconosciute dentro di noi - nei nostri gesti e nelle nostre parole, nei nostri impulsi e nei nostri smarrimenti. In questo senso va intesa quella “sovversione del soggetto” cui, fin dai primi seminari, Lacan dedica la propria opera - e dunque, come si diceva, la propria vita. Contro l’idea di una padronanza del soggetto su se stesso egli ci insegna che diveniamo ciò che siamo soltanto attraverso la mediazione simbolica dell’Altro - di un terzo che s’interpone nella relazione narcisistica tra noi e la nostra immagine, complicandola ma anche vivificandola, dando senso a ciò che sembra non averne.
Recalcati ricostruisce in tutte le sue pieghe lo sviluppo, tutt’altro che lineare, di un pensiero, come quello di Lacan, costituito nel punto di confluenza e di tensione tra esistenzialismo e strutturalismo, capace di assorbire, traducendoli in un impasto originalissimo, gli influssi di Hegel e Heidegger, di Sartre e Kojève, di Saussurre e Jakobson - per non parlare di Freud, restato fino all’ultimo il suo interlocutore privilegiato.
In questo quadro complesso e in continua evoluzione, quale è il suo punto di partenza - il nucleo rovente da cui si può dire nasca la necessità del suo pensiero? Si tratta del fatto che, nel rifiuto narcisistico dell’altro, nel tentativo inane di ricucire la propria faglia originaria, il soggetto mostra di odiare innanzitutto se stesso. In questo modo - nel nodo mortifero che lega Narciso a Caino - si può rinvenire la radice dei totalitarismi e della guerra, a ridosso dei quali Lacan comincia a lavorare.
Quello che, nella stretta distruttiva tra Immaginario e Reale, risulta escluso è il piano del Simbolico, della relazione con l’altro, intesa come domanda di riconoscimento reciproco, come legge della parola e del dono. Quando la tendenza all’immunità - alla chiusura identitaria - prevale sulla passione per la comunità, l’Io batte contro il proprio limite rimbalzando sull’altro, secondo una pulsione di morte che finisce per risucchiarli entrambi nel proprio vortice. I grandi temi dell’inconscio come linguaggio, del nome del padre, della dialettica tra desiderio e godimento, sono tutti modi per proporre, da parte di Lacan, la medesima esigenza. Che è quella, per un soggetto esposto alla propria alterità, di non identificarsi con se stesso, ma senza perdersi nell’altro. Di sfuggire alla ricerca compulsiva di un godimento senza limiti, ma anche alla legge di un desiderio senza realizzazione.
L’originalità di Lacan - nell’interpretazione di Recalcati - sta nella capacità di tenersi lontano da entrambi questi estremi. Di non contrapporre il godimento al desiderio, ma di cercare di articolarli in una forma che fa di uno il contenuto dell’altro. Il processo di soggettivazione - vale a dire di elaborazione, da parte dell’io, dell’alterità da cui proviene - è il luogo di questa alleanza, la zona mobile in cui le acque del desiderio confluiscono in quelle del godimento, pur senza mischiarsi. Godere nel desiderio, attraverso il desiderio - vale a dire non di una pienezza irraggiungibile, ma della differenza che ci attraversa e ci costituisce: ecco la sfida, il luogo impervio della nostra responsabilità etica verso l’altro, che né la dissipazione libertina di Sade né la morale sacrificale di Kant potevano mai attingere.
È il tema su cui sono tornati con efficacia anche Bruno Moroncini e Rosanna Petrillo in L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Lacan (Cronopio). Quali sono i segni di questa possibile giuntura tra godimento e desiderio, pulsione e legge, uno e altro? Lacan li rintraccia intanto in un’etica del reale - non dei valori trascendenti - che, pur consapevole della necessità che ci governa, la apre alla contingenza dell’incontro inatteso, come quella che, nell’interpretazione sartriana, fa di Flaubert non un idiota, ma un genio.
Ma li ritrova anche nella dinamica dell’amore - come ciò che riscatta l’impossibilità degli amanti di ottenere un godimento reciproco. Mentre il maschio non può godere che di se stesso e in se stesso, la domanda della donna è senza limiti e dunque mai soddisfatta. Vero amore è quello che, anziché rimuoverla, riconosce questa distanza, rinunciando al godimento assoluto. Non l’abolizione della mancanza, ma la sua condivisione nell’abbandono e nel rischio che ne deriva. L’arte, in una diversa esperienza di sublimazione, riproduce tale condizione. Anche in essa la pulsione si afferma circoscrivendo un vuoto - elevando il proprio oggetto alla dignità della Cosa. Come provano i quadri di Cézanne, ma anche la scatola di fiammiferi di Prévert, in una pratica artistica intesa come organizzazione del vuoto, presenza e assenza si sovrappongono in una forma che fa dell’una l’espressione rovesciata dell’altra, così come, in tutta l’arte contemporanea, la figura si rivolge all’infigurabile.
Ancora una volta il soggetto si riconosce assoggettato a qualcosa che lo domina, su cui egli non può avere controllo. E tuttavia, ciò non ne determina né la dissoluzione né la soggezione a una potenza straniera. C’è sempre, in ogni esistenza, una sporgenza rispetto al proprio destino, un punto di resistenza alla ripetizione che coincide con la singolarità della vita. È proprio l’assenza di governo di sé, l’esposizione all’Altro, che riapre il cerchio della necessità alla dimensione del possibile. Forse, si potrebbe aggiungere, l’unico terreno sul quale questa possibilità appare più appannata, nell’opera di Lacan, è quello della politica.
Non a caso il libro di Recalcati percorre i territori della filosofia, dell’etica, dell’estetica, ma non quello della politica. Forse perché alla politica non basta la soggettivazione in quanto tale, e neanche l’incrocio dell’uno con l’altro. Occorre anche una linea conflittuale che, all’interno della società, aggreghi gli uni contro, o almeno di fronte, agli altri. Ecco è la questione ultima, lasciata aperta da Lacan, con cui la ricerca di Recalcati è chiamata a confrontarsi.
L’epoca senza Edipo
Il desiderio onnipotente di Deleuze e Guattari
Quarant’anni fa il testo dei due studiosi che ha fatto storia
Ma quelle tesi così decisive hanno avuto anche effetti negativi
di Massimo Recalcati (La Repubblica, 17.11.2012)
Quest’anno ricorre il quarantennale dell’uscita di un libro che fece epoca: l’Anti- Edipo di Deleuze e Guattari che uscì a Parigi nel 1972. Si tratta della più potente critica alla pratica e alla teoria della psicoanalisi mossa da “sinistra”. Oggi, come sappiamo, imperversa la critica conservatrice: contro la psicoanalisi vengono invocati la psicologia scientifica, il potere chimico dello psicofarmaco, l’autorità esclusiva della psichiatria nel trattamento del disagio mentale. Invece gli autori dell’Anti- Edipo (un filosofo già molto noto e un brillante psichiatra analizzante di Lacan con il quale ruppe bruscamente) non rimproverano affatto alla psicoanalisi di non essere sufficientemente scientifica nella sue affermazioni teoriche e nella sua pratica clinica, ma qualcosa di assai più radicale. Le rimproverano di essere al servizio del potere e dell’ordine stabilito.
La loro accusa è che la psicoanalisi dopo aver scoperto il “desiderio inconscio” ha volutamente ridotto la portata rivoluzionaria di questa scoperta mettendosi al servizio del padrone. Su cosa si reggerebbe il culto psicoanalitico dell’Edipo se non sull’obbedienza cieca alla Legge repressiva e mortificante del padre? Nonostante la violenza spietata degli Anti-Edipo gli psicoanalisti dovrebbero leggere e rileggere ancora oggi la loro opera come un grande vento di primavera.
Sotto la retorica rivoluzionaria della liberazione del corpo schizo, fuori-Legge, del “corpo senza organi” come macchina desiderante, come fabbrica produttiva del godimento pulsionale, questo libro contiene una serie di rilievi alla psicoanalisi che non si possono accantonare: la critica relativa all’uso paranoico e violento dell’interpretazione (se un paziente dice X vuole dire Y), una rappresentazione dell’inconscio come teatrino familaristico, chiuso su se stesso, che perderebbe di vista il suo carattere sociale e i suoi infiniti concatenamenti collettivi, una apologia conformista e moralista del principio di realtà e dell’adattamento come fine ultimo della pratica analitica, l’uso tutto politico del denaro che seleziona i pazienti in base al loro reddito, una valorizzazione del-l’Io e del suo principio di prestazione, eccetera.
Eppure questo libro va molto al di là di questo, perché ha mobilitato alla rivolta una intera generazione, quella del ’77. Quest’opera è una critica politica alla psicoanalisi che non promuove tanto una improbabile teoria alternativa a quella psicoanalitica (la schizoanalisi) ma una vera e propria teoria della rivoluzione dove “tutto è possibile”.
A questa teoria si sono abbeverati con entusiasmo i giovani della mia generazione. Foucault aveva dichiarato che il nostro secolo forse sarebbe stato deleuziano. Aveva ragione ma in un senso probabilmente molto diverso da quello che auspicava. Il deleuzismo è sfuggito dalle mani di Deleuze (come spesso accade per tutti gli “ismi”).
L’Anti- Edipo ha dato involontariamente la stura ad un elogio incondizionato del carattere rivoluzionario del desiderio contro la Legge che ha finito paradossalmente per colludere con l’orgia dissipativa che ha caratterizzato i flussi - non delle macchine desideranti come si auspicavano Deleuze e Guattari - ma di denaro e di godimento che hanno alimentato la macchina impazzita del discorso del capitalista.
Lacan aveva provato a segnalare ai due questo pericolo. In una intervista rilasciata a Rinascita nel maggio del 1977 a chi gli chiedeva un parere sull’Anti- Edipo rispose che «L’Edipo costituisce di per se stesso un tale problema per me che non penso che ciò che Deluze e Guattari hanno voluto intitolare l’Anti- Edipo possa avere il minimo interesse».
Lacan avverte che non bisogna premere il grilletto troppo rapidamente sul padre. La contrapposizione rivoluzionaria tra le macchine desideranti e la Legge, tra la spinta impersonale e de-territorializzante della potenza del desiderio e la tendenza conservatrice alla territorializzazione rigida del potere e delle sue istituzioni (Chiesa, Esercito, famiglia, psicoanalisi...) rischiava di dissolvere il senso etico della responsabilità soggettiva.
Per Deleuze e Guattari la parola soggetto è infatti una parola da mettere al bando, così come Legge, castrazione, mancanza. L’Anti-Edipo compie un elogio a senso unico della forza della pulsione che lo fa scivolare fatalmente in una prospettiva di naturalizzazione vitalistica dell’umano.
La liberazione dei flussi del desiderio reagisce giustamente al culto rassegnato del principio di realtà al quale sembra votarsi la psicoanalisi, senza accorgersi di generare un nuovo mostro: il mito della schizofrenia come nome della vita che rigetta ogni forma di limite. Il mito del corpo schizo come corpo anarchico, a pezzi, pieno, senza organi, costruito come una macchina pulsionale che gode ovunque, antagonista alla gerarchia dell’Edipo, si è tradotto nei flussi della macchina cinica e perversa del discorso capitalista.
Eppure l’Anti-Edipo a rileggerlo oggi è anche molto più di questo. Non è solo la celebrazione di un desiderio che non riesce a fare i conti con la Legge della castrazione. C’è una linea più sottile che attraversa questo libro e che la nostra generazione non è riuscita probabilmente a cogliere sino in fondo. È un grande tema dell’Anti-Edipo anche se non il tema centrale. Deleuze e Guattari lo ripropongono attraverso le parole dello psicoanalista Reich: «perché le masse hanno desiderato il fascismo? ». Problema che ritroviamo intatto già in Spinoza: perchè gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro libertà?
In Millepiani Deleuze e Guattari, quasi dieci anni dopo l’Anti- Edipo, devono ritornare sull’opposizione tra desiderio e Legge con una precisazione che avrebbe dovuto essere presa più sul serio. Attenzioni ai micro-fascismi, ai micro-edipi che s’insediano proprio là dove pensavamo ci fosse il flusso liberatorio del desiderio. «La madre - scrivono i due - può credersi autorizzata a masturbare il figlio, il padre può diventare mamma». Un’autocritica che suona anticipatrice dei nostri tempi.
Come Nietzsche avvertiva gli uomini che vivevano nell’annuncio liberatorio della morte di Dio del rischio di generare nuovi idoli (lo scientismo, il fanatismo ideologico, l’ateismo stesso, ogni specie di fondamentalismo), allo stesso modo Deleuze e Guattari avvertono che esiste un pericolo insidioso inscritto nella stessa teoria del desiderio come flusso infinito, come “linea di fuga” che oltrepassa costantemente il limite. Attenzione, sembrano dirci, che questa linea «non si converta in distruzione, abolizione pura e semplice, passione d’abolizione». Attenzione che questa “linea di fuga” che rigetta il limite non diventi una “linea di Morte”.
La violenza sulle donne e l’incapacità di fare i conti con la solitudine
Quel maschio fragile che non accetta limiti
Viene meno la legge della parola che dovrebbe governare le nostre relazioni
di Massimo Recalcati, analista lacaniano (la Repubblica, o5.05.2012)
La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell’umiliazione dell’insulto e dell’aggressione verbale. La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta.
Questa legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, non è una norma giuridica. Ma questa legge è il comandamento etico di ogni Civiltà. Essa afferma che l’umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l’umano è l’esperienza del limite. E che quando questo limite viene valicato c’è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento di sé e dell’altro. Per questo la condizione che rende possibile l’amore - come forma pienamente umana del legame - è - come teorizzava Winnicott - la capacità di restare soli, di accettare il proprio limite.
Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine. Sappiamo che molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della legge della parola funziona una sorta di legge del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica l’esterno come luogo di minaccia.
Il passaggio all’atto violento che conclude tragicamente una relazione mostra che quell’unione non era fatta da due solitudini ma si fondava sul rifiuto angosciato della solitudine, sul rifiuto rabbioso nei confronti del limite, non sulla legge della parola ma sulla sua negazione. Rivendicare un diritto di proprietà assoluto - di vita e di morte - sul proprio partner non è mai una manifestazione dell’amore ma, come ricordava recentemente Adriano Sofri su queste stesse pagine, la sua profanazione. Qui il narcisismo estremo si mescola con un profondo sentimento depressivo: non sopporto di non essere più tutto per te e dunque ti uccido perché non voglio riconoscere che in realtà non sono niente senza di te. Uccidersi dopo aver ucciso tutti: il mondo finisce con la mia vita (narcisismo), ma solo perché senza la tua io non sono più niente (depressione).
Nulla come la violenza sessuale calpesta odiosamente la legge della parola. Perché la sessualità umana dovrebbe essere passione erotica per l’incontro con l’Altro, mentre riducendosi a pura sopraffazione disumanizza il corpo della donna riducendolo a puro strumento di godimento. Il consenso dell’incontro viene rotto da un vandalismo osceno. Non bisogna però limitarsi a condannare la bestialità di questa violenza. C’è qui qualcosa di scabroso che tocca il fantasma sessuale maschile come tale. Una donna per un uomo non è solo l’incarnazione del limite, ma è anche l’incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione, come accade al tormentato protagonista di un classico romanzo di Moravia come La noia: nulla, nessuna somma di denaro, nessuna cosa, nessun oggetto, può trattenere ciò che per principio è sfuggente - simile al tempo nella fisica contemporanea, teorizzava Marcel Proust a proposito della sua Albertine.
Per questa ragione Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile. Mentre il primo è centrato sull’avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull’appropriazione dell’oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sull’"idiozia del fallo", quello femminile appare senza misura, irriducibile ad un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all’ingombro fallico. In questo senso il godimento femminile sarebbe radicalmente "etero"; sarebbe cioè un godimento che sfugge ai miraggi della padronanza fallica. Tra di loro gli uomini esorcizzano l’incontro con questo godimento "infinito" dichiarandole "tutte puttane". E’ un fatto, ma è soprattutto una difesa per proteggersi da ciò che non intendono e non riescono a governare. Lo dicevano a loro modo anche Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell’illuminismo assimilavano la donna all’ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una identità rigida perché non hanno confini, perché sono sempre altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros.
E’ di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini, di ribadire su di esso una falsa padronanza. E’ chiaro per lo psicoanalista che questa violenza - anche quando viene esercitata da uomini potenti - non esprime solo l’arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generato da una angoscia profonda, da un vero e proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo. Questa è del resto la bellezza e la gioia dell’amore, quando c’è. Non il rispecchiamento della propria potenza attraverso l’altro. Per un uomo amare una donna è davvero un’impresa contro la sua natura fallica, è poter amare l’etero, l’Altro come totalmente Altro, è poter amare la legge della parola.
THIERRY SAVATIER RICOSTRUISCE LE VICENDE DEL QUADRO DI COURBET.
AFFASCINÒ GONCOURT, SFUGGÌ AI NAZISTI E FINÌ NELLO STUDIO DELLO PSICOANALISTA
L’ origine del mondo, storia di un tabù
Tutti i collezionisti tennero il dipinto dietro un pannello.
Lacan si divertiva a guardare le facce degli spettatori
di Sergio Luzzatto (Corriere della Sera, 24 maggio 2008) *
Non era mai stato facile superare l’ esame del gusto di Edmond de Goncourt. E meno che mai dopo il 1870, quando, sia il disastro della guerra franco-prussiana, sia lo strazio per la morte del fratello Jules avevano reso il suo Journal lo sfogatoio di un uomo invecchiato e inacidito. Così, ad esempio, in data 30 giugno 1889. Mentre si celebrava in pompa magna il centenario della Rivoluzione francese, Edmond annotava, feroce: «Se esiste nel collezionismo un certificato di pessimo gusto, è la collezione di piatti della Rivoluzione messa insieme da Champfleury. Credo che nella ceramica di tutti i popoli, dall’ inizio dei tempi, nulla sia stato prodotto di tanto brutto, di tanto idiota, di tanto rivelatore dello stato anti-artistico di una società».
Ma proprio il giorno prima, sabato 29 giugno, il diario di Edmond aveva registrato un giudizio positivo: per una volta, un’ opera d’ arte era uscita promossa dall’ esame del severissimo connaisseur. Era successo dopo la visita a un antiquario parigino specializzato in arte orientale. Deluso dai nuovi arrivi di oggettistica giapponese, Goncourt stava per andarsene quando il commerciante aveva aperto il pannello di una cornice chiusa a chiave, rivelandogliene il contenuto nascosto. Ben altro che una giapponeseria: «È il quadro dipinto da Courbet per Khalil-Bey, un ventre di donna dal monte di Venere nero e prominente, sullo spiraglio d’ una vulva rosa... Davanti a questa tela che non avevo mai visto, devo fare ammenda e rendere onore a Courbet: quel ventre è bello come la carne di un Correggio».
Sebbene affidato al segreto del Journal, come doveva essere costato caro un simile riconoscimento all’ indole fiera di Edmond de Goncourt! Lui che di Gustave Courbet (grande amico di Champfleury) aveva sempre pensato tutto il male possibile, e che, quando aveva visto con Jules - oltre vent’ anni prima, nel 1867 - la collezione privata del diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey, ne era rimasto letteralmente inorridito! Inorridito dai «corpi terrei, sporchi, merdosi» delle «due lesbiche» ritratte da Courbet nel Sonno, come pure dai corpi femminili «rigidi come manichini» ritratti nel Bagno turco da un altro «imbecille popolare», Dominique Ingres!
Nel 1867, però, a nessun visitatore era stata mostrata l’ opera più scandalosa della collezione di Khalil-Bey, la piccola tela che Goncourt avrebbe scoperto due decenni più tardi nella bottega di un mercante d’ arte giapponese. A nessuno era stata mostrata L’ origine del mondo.
Oggi, la tela di Courbet è tranquillamente esposta accanto ad altri suoi capolavori in una sala del Musée d’ Orsay, a Parigi. Ci è arrivata nel 1995, e rapidamente si è conquistata un posto di riguardo nelle preferenze dei visitatori: al borsino delle cartoline più vendute nel negozio del museo, risulta seconda soltanto al Moulin de la Galette di Renoir.
Su Google Images, chi digiti «l’ origine du monde» viene subissato da centinaia di migliaia di links, il video tappezzato da innumerevoli repliche o varianti di uno stesso monte di Venere nero e di uno stesso spiraglio di vulva rosa. Ma appunto, questa è la storia di oggi, o di ieri. Fino agli sgoccioli del Novecento - per un secolo e passa dopo che Courbet l’ aveva dipinta, nell’ estate del 1866 - L’ origine del mondo ha conosciuto un destino esattamente contrario. Non un massimo di notorietà e di visibilità, ma un massimo di segretezza e di dissimulazione.
Impossibile stupirsene, se è vero che il dipinto di Courbet rappresentava ben di più che una semplice sfida al vittoriano (o al comune) senso del pudore. L’ origine del mondo non era, banalmente, un nudo più spinto di altri nella lunga storia dei nudi. Era qualcosa di unico nella pittura occidentale, perché rappresentava precisamente quanto gli artisti avevano da sempre evitato di illustrare: il sesso femminile. Courbet aveva scelto addirittura di escludere dal quadro il viso della modella, non dipingendone che il ventre. E così facendo, aveva trasformato una donna senza volto nella donna in generale. La madre di tutti gli uomini e di tutte le donne di ogni tempo. La madre di ognuno di noi. Per questo, scrivere la storia del dipinto di Courbet equivale a scrivere, in fondo, la storia moderna di un tabù.
Che è poi quanto si è proposto il critico francese Thierry Savatier in un bel libro tradotto ora dalle edizioni Medusa, Courbet e «L’ origine del mondo». Dove vengono puntualmente ricostruite le circostanze di nascita della tela, dalla curiosa figura del committente, il dignitario ottomano Khalil-Bey, alla misteriosa figura della modella, legittima proprietaria della vulva rosa: tradizionalmente ritenuta un’ amante occasionale di Courbet, Joanna Hifferman detta Jo l’ Irlandese, mentre Savatier suppone che l’ artista si sia ispirato piuttosto a una fotografia licenziosa. E dove, soprattutto, vengono sapientemente ricostruite le misteriose identità dei successivi proprietari del quadro, di cui Khalil-Bey si era sbarazzato quasi subito dopo averlo acquistato da Courbet.
Colui che più a lungo possedette L’ origine del mondo (per quarantadue anni, dal 1912 al 1954) fu un collezionista ungherese di origini israelite, il barone Ferenc Hatvany. Come i proprietari precedenti, teneva il quadro nascosto dietro un pannello rappresentante un altro soggetto, e non lo mostrava che ad alcuni ospiti fortunati. Nel 1942, i progressi dell’ antisemitismo in Ungheria convinsero Hatvany a depositare nel forziere di una banca di Budapest, intestati a un prestanome «ariano», i pezzi della collezione che più gli erano cari: Courbet compreso.
Sicché due anni dopo, quando il plenipotenziario del Terzo Reich per la Soluzione finale del problema ebraico in Ungheria - Adolf Eichmann - sequestrò il grosso della collezione Hatvany e lo fece inviare in Germania, non gli riuscì di mettere le mani su L’ origine del mondo. Ci riuscirono invece, all’ inizio del ’ 45, i «liberatori» sovietici, dai quali Hatvany dovette ricomprare il dipinto sotto banco, dopo la fine della seconda guerra mondiale.
L’ ultimo privato che possedette il quadro di Courbet fu uno psicanalista francese, cui il barone ungherese lo aveva venduto poco prima di morire: il più adatto dei proprietari possibili, il più professionalmente consapevole del duplice significato della parola «possesso» applicata a un soggetto del genere. Anche Jacques Lacan conservava L’ origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’ élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur.
* * *
Il saggio
Il volume del critico francese Thierry Savatier - Courbet e «L’ origine del mondo» - Storia di un quadro scandaloso, traduzione di Roberto Peverelli, Edizioni Medusa, pp. 344, 18,50 - è in libreria da oggi. Il saggio racconta la storia di un quadro definito «osceno» da più generazioni: dal committente, un diplomatico ottomano, all’ ultimo proprietario privato, lo psicoanalista Jacques Lacan.
*Sergio Luzzatto
* Corriere della Sera, 24 maggio 2008
Amnesty contro il nuovo Egitto
L’orrore dei “test di verginità”
di Maurizio Caprara (Corriere della Sera, 24 marzo 2011)
Proprio perché i faticosi passi del nuovo Egitto verso un sistema democratico vanno incoraggiati, è bene non tenere basso l’allarme che merita una denuncia di Amnesty International su «test di verginità» ai quali sarebbero state sottoposte donne scese in piazza dopo la caduta della trentennale presidenza illiberale di Hosni Mubarak.
Secondo le informazioni raccolte dall’organizzazione non governativa attiva in oltre 150 Paesi, il 9 marzo scorso i militari che hanno caricato una manifestazione nella piazza Tahrir del Cairo - ormai celebre perché il suo nome viene associato a richieste di libertà - non si sono limitati a mettere agli arresti almeno 18 delle partecipanti. Queste donne, ha riassunto Amnesty, hanno raccontato di essere state «picchiate, sottoposte a scariche elettriche, obbligate a denudarsi mentre i soldati le fotografavano e infine costrette a subire un "test di verginità"sotto la minaccia di essere incriminate per prostituzione». Una donna che si è dichiarata vergine e che non sarebbe risultata tale secondo le sconce verifiche dei controllori della sua illibatezza, poco conta se in camice bianco o divisa, avrebbe subito un pestaggio e scariche elettriche.
Brutalità del genere non sono una novità di questa stagione di democrazia egiziana, ancora da costruire e con davanti a sé un percorso né breve né lineare. Fuorviante, irresponsabile sarebbe oggi prendere a pretesto la denuncia di Amnesty per sostenere che il popolo egiziano stava meglio prima. Mubarak avallò condanne a morte. Le sue prigioni non vengono ricordate per condizioni civili. Non vanno dimenticate le sue elezioni finte, le sue intimidazioni sistematiche verso il formarsi di opposizioni come ne esistono nelle democrazie.
È però un dovere, per chi difende i valori di un vivere libero e civile e per i governi occidentali, far presente ai militari egiziani che metodi e torture come quelli descritti non aiutano i Paesi amici ad aiutarli. Sono sevizie, stupri di Stato. Strascichi di orrori comunque da estirpare.
Parla lo psicoanalista Massimo Recalcati, autore di un saggio sulla evaporazione della figura paterna: «Oggi prevale una incestuosità diffusa, un modello di paternità che autorizza alla più totale dissoluzione dei No»
Formatosi come filosofo, è tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia. Insegna Psicopatologia del comportamento alimentare all’Università di Pavia e Sociologia dei fenomeni collettivi all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.
di Beppe Sabaste (l’Unità, 17.04.2011)
È meglio la questione dell’eredità e della trasmissione di un «ordine simbolico» della madre e del padre nella formazione dell’individuo. Se sull’«ordine simbolico della madre» esiste una letteratura intensa prodotta da anni di pensiero femminile (penso al gruppo Diotima e a Luisa Muraro) la questione dell’imago paterna «nell’epoca dell’evaporazione del padre» è oggi riassunta con chiarezza dallo psicoanalista Massimo Recalcati in un libro di cui consiglio a chiunque la lettura: Cosa resta del padre? È un saggio di psicanalisi impregnato di filosofia (l’etica dell’alterità di Emmanuel Lévinas è sottesa lungo tutto il discorso), fortemente influenzato dal pensiero clinico di Jacques Lacan; ma per mostrarne subito la politicità attuale e stringente riporto quasi per intero la lunga nota a pagina 14: «L’espressione “papi”, recentemente alla ribalta della cronaca politica italiana a causa di innumerevoli giovani (papi-girls) che così si rivolgono al loro seduttore, mette in evidenza la degenerazione ipermoderna della Legge simbolica del padre. La figura del padre ridotta a “papi”, anziché sostenere il valore virtuoso del limite, diviene ciò che autorizza alla sua più totale dissoluzione. Il denaro elargito non come riconoscimento di un lavoro, ma come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di se stessi rapidamente, senza rinuncia né fatica, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili come strumenti di godimento, il disprezzo per la verità, l’opposizione ostentata nei confronti delle istituzioni e della legge, (...) il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà senza vincoli, l’assenza di pudore e di senso di colpa costituiscono alcuni tratti del ribaltamento della funzione simbolica del padre che trovano una loro sintesi impressionante nella figura di Silvio Berlusconi. Il passaggio dal padre della legge simbolica al “papi” del godimento non definisce soltanto una metamorfosi dello statuto profondo del potere (dal regime edipico della democrazia al sultanato postideologico di tipo perverso), ma rivela anche la possibilità che ciò che resta del padre nell’epoca della sua evaporazione sia solo una versione cinico-materialistica del godimento».
«Sì, il libro è fortemente politico mi dice Massimo Recalcati perché nella dimensione contemporanea prevale una incestuosità diffusa, di cui una manifestazione è che le istituzioni diventano proprietà delle persone come corpi, in un processo di proprietà o appropriazione senza responsabilità, come la legge ad personam. La vocazione della paternità implica invece una responsabilità senza appropriazione, senza proprietà. È questa la cifra politica del mio studio».
Se la figura del padre si è vaporizzata, suggerisce Recalcati, possiamo però pensare al padre come «resto», non un Ideale ma la singolarità incarnata di una vita che ci precede, testimonianza etica di una possibilità di vivere, fallire, perdersi, riorientarsi e immaginare. In questo senso il libro di Recalcati può affiancarsi a un altro piccolo classico contemporaneo, L’uomo flessibile di Richard Sennett, che descrive il mutamento antropologico dietro la retorica della «precarietà»: la perdita di un senso della durata che rende incomprensibili parole come dedizione, impegno, relazione, perdita di un senso narrativo dell’esistenza, quindi della possibilità di immaginare e progettare la propria vita, del cui progetto è parte integrante e necessaria anche l’esperienza, oserei dire l’epica, del fallire. Elogio del fallimento è il titolo di un bellissimo paragrafo del saggio di Recalcati, dove si legge che «la psicoanalisi non tesse l’elogio della prestazione», «è antagonista al narcisismo dell’apparizione, a quel successo dell’io che abbaglia e cattura i giovani di oggi», ma «punta piuttosto a scorticare l’involucro narcisistico dell’immagine per porre il soggetto di fronte alla verità del proprio desiderio»: «il fallimento è uno zoppicamento salutare dell’efficienza della prestazione». Recalcati illumina quindi una singolare convergenza tra l’insegnamento clinico di Lacan e la lungimirante critica alla barbarie consumista dell’eretico Pier Paolo Pasolini: l’immaginazione al potere dello slogan del ’68 si è ahimè realizzata, ma in senso opposto (e perverso) a quello auspicato.
Con la sparizione del padre, ovvero dell’esperienza del limite e della conflittualità, del No che orienta e stimola l’affacciarsi nel giovane di un’identità desiderante, di una trasgressione che nasce dal desiderio di infrangere la Legge rappresentata dalla figura paterna, anche il godimento, osservava Lacan, diventa «smarrito». Con parole nostre: l’innesto del feticismo della merce preconizzato da Marx nel «capitalismo culturale» (quello dell’intrattenimento) descritto da James Rifkin, fa del Potere una centrale di spaccio istituzionalizzato di droga, una fabbrica di sogni che produce incubi. Lost in the supermarket, cantava Joe Strummer, perso nel supermercato, luogo simbolico e globale della trasformazione dei sudditi in consumatori, in una spirale di dannazione fatta di facile godimento e libertà illimitata fino all’intossicazione, non contrastata da nessun Padre ma anzi proposta da chi ne occupa il suo spazio vacante, il «papi». Quella che Lacan definiva «l’astuzia fondamentale del discorso del capitalista» consiste, spiega Recalcati, nell’intrecciare la dimensione illusoria e salvifica dell’oggetto-merce o idolo con la vacuità di un godimento. La schiavitù del soggetto all’oggetto (anche sessuale) è la tragica realtà del coincidere oggi in Italia di potere economico e potere politico in un nuovo fascismo pubblicitario.
La psicoanalisi, ci insegna Recalcati, è chiave e strumento per decostruire la libertà immaginaria della nuova alienazione. «Lacan è stato un grande maestro perché la sua virtù più profonda era di aprire interrogativi invece che fornire risposte. La sua forza non era solo retorica ma capace di incarnarsi in una parola viva, centrata non sul libresco e l’accademico, ma sul desiderio. Sono nato come filosofo mi dice sono stato fabbricato come professore di filosofia, poi sono inciampato nei miei sintomi e sono diventato psicoanalista... La differenza è che la filosofia si preoccupa della verità universale, trascendentale, la psicanalisi della verità più infima e scabrosa, quella che ci risponde nel nostro peggio» (anche il berlusconi che è dentro di noi).
Jacques Lacan guru o maestro? La psicanalisi è divisa
Perché la sua eredità divide la psicoanalisi
Il suo stile tortuoso e aforismatico serviva a mimare l’oggetto stesso del discorso: l’inconscio
Rese nuovamente vivente Freud e lo innestò nella cultura più avanzata del ’900
"Fate come me, non imitatemi" ripeteva agli allievi E alla fine sciolse la sua Scuola
La sua voce è stata capace di adunare folle, ha avuto il carattere di un evento Oggi è forse meno di moda ma è sempre più studiato
Il 9 settembre del 1981 moriva l’analista francese, un personaggio idolatrato e controverso. Ecco cosa resta del suo pensiero
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 08.09.2011)
Quando venne annunciata la morte di Lacan, il 9 settembre del 1981, il suo era per me un nome tra gli altri, associato alla stagione dello strutturalismo francese (Lévi-Strauss, Althusser, Barthes, Foucault). Solo più tardi incontrai il suo testo, prima gli Scritti, pubblicati nel 1966, e in seguito la serie dei Seminari che tenne a Parigi per ventisei anni, ininterrottamente dal 1953 al 1979. Gli Scritti mi fecero l’impressione di un muro inaggirabile e illeggibile. Ma sufficiente a provocare l’amore per Lacan, l’a-mur, come avrebbe detto il Maestro. Perché nell’amore è sempre in gioco un ostacolo, una distanza irrecuperabile, una lontananza, un muro, appunto. Compresi solo col tempo che il suo stile aforismatico, l’andamento volutamente tortuoso della sua parola, non era un vezzo ma esprimeva un principio di metodo decisivo: rispecchiare la tortuosità propria dell’oggetto di cui essa parlava, l’imprevedibilità e l’indecifrabilità di un sogno, di un sintomo o di un lapsus, mimare la voce stessa dell’inconscio. Sapevo che c’era stata la sua voce, una voce capace di adunare le folle e non solo di analisti. La voce di Lacan ebbe negli anni Sessanta-Settanta il carattere di un evento. Mondano? Sciamanico? Intellettuale? E’ sicuro che provocava transfert, generava passioni, animava desideri. Parlo ai muri? Si chiedeva di tanto in tanto, come quando raccontò ai suoi allievi di aver sognato di trovarsi in un aula deserta.
Solitudine di Lacan. Strano paradosso. Nessuno psicoanalista dopo Freud è stato più popolare di lui e nessuno ha portato sulle spalle il peso di una solitudine così profonda. Lacan reietto, diffamato, scomunicato, allontanato dalla Associazione internazionale di psicoanalisi dopo un processo farsesco. L’accusa: ha troppi allievi, troppe analisi didattiche, troppo transfert! La sua innovazione della tecnica psicoanalitica - le cosiddette sedute a tempo variabile - venne considerata una vera e propria eresia. Lacan l’eccentrico. I suoi scritti, la sua parola, la sua voce, i suoi modi, il suo stile dandy, i suoi sigari ritorti, i suoi papillons e le sue camice mao, i suoi vizi di collezionista, il suo libertinismo. Lacan folle, infatuato di se stesso, Lacan-Narciso, Lacan-Guru. Dicono non tollerasse di fermarsi ai semafori. Lui che teorizzò paolinianamente il nesso fondamentale che lega la Legge (della castrazione) al desiderio, non sapeva sopportare nemmeno i limiti definiti dal codice della strada...
Come contrasta questo ritratto, soprattutto per gli analisti lacaniani che come me non lo hanno mai conosciuto ma solo letto e studiato, con il rigore del suo insegnamento! Fu uno psichiatra tra i più brillanti della sua generazione, sviluppò una teoria strutturale della psicosi, ripensò la dottrina analitica nei suoi fondamenti, preservò l’idea freudiana della psicoanalisi come pratica della parola e di conseguenza rifiutò l’oscurantismo di un inconscio come pura irrazionalità, come istintualità animale, come sotterraneo delle emozioni, ma anche quella psicologia dell’Io che sembrava voler riabilitare una versione conformista e cognitivista della personalità dimenticando che, come aveva sostenuto il padre della psicoanalisi, "l’Io non è padrone nemmeno in casa propria".
Rese nuovamente vivente Freud, gli tolse di dosso la polvere dell’ortodossia scolastica e delle biblioteche, lo innestò nella cultura più avanzata del Novecento, lo liberò dalle catene di una concezione stadiale e istintuale della soggettività. La sua libertà di pensiero non diede mai adito a nessun eclettismo e a nessun empirismo: nel campo della psicoanalisi, ripeteva, si può dire tutto quel che si vuole, ma non fare tutto ciò che si vuole. Praticò assiduamente e con successo la psicoanalisi per più di mezzo secolo. La sua opera è oggi forse meno di moda, ma sempre più studiata in tutto il mondo (anche dagli analisti freudiani dell’International Psychoanalytical Association) con il rispetto che si deve ad un classico. Se però consideriamo "classico" non un’opera morta, ma, come suggeriva Italo Calvino, un’opera talmente ampia da risultare inesauribile.
E’ possibile che in questo nuovo secolo, che un esercito agguerrito (neuroscienze, cognitivisti, comportamentisti, psichiatria organicista) vorrebbe sancire la fine senza ritorno della psicoanalisi, l’eredità di Lacan non sia più solo una lotta fratricida tra "lacaniani" che invocano il privilegio dell’amore del loro Maestro, ma coincida con l’avvenire stesso della psicoanalisi. Lacan come patrimonio dell’identità freudiana della psicoanalisi.
Perché la gente andava in massa ad ascoltarlo? Perché ricercava in lui un sapere sulle cose dell’amore e sulla disarmonia fondamentale che caratterizza il rapporto tra i sessi. Come possiamo cavarcela di fronte a questa disarmonia, come possiamo supplire, direbbe Lacan, l’inesistenza del rapporto sessuale? Dietro il teorico ultraumanista dell’inconscio strutturato come un linguaggio, dobbiamo sempre vedere all’opera il Lacan neo-esistenzialista che interroga la differenza sessuale e il mistero irrisolvibile del desiderio umano.
Nemico del controtransfert, Lacan assimilava l’analista alla figura del morto nel gioco del bridge. Ma gli avversari del controtransfert e della implicazione della soggettività e dell’umanità dell’analista nel processo della cura, quali sono stati gli analisti lacaniani, hanno spesso fatto del transfert un uso selvaggio e eticamente scriteriato. L’impassibilità dell’analista ha dato luogo ad un potere e ad una idealizzazione senza confini. La parola singolarissima del Maestro ha generato scimmiottamenti farseschi e un gergo da setta spesso incomprensibile anche a coloro che lo utilizzavano (o lo utilizzano), che ha contribuito non poco ad isolare la comunità lacaniana dal resto della comunità psicoanalitica. Lacan aveva previsto questo rischio: "fate come me, non imitatemi!", ripeteva ai suoi allievi idolatri.
Teorico lucidissimo della clinica, analista creativo, lettore di Freud insuperabile, intellettuale privo di conformismi teorici e avido di sapere, interprete visionario del suo tempo, Lacan amava i suoi allievi, anche se in una conferenza rivolta ai cattolici sostenne che tacere l’amore fosse la sola condizione per condurre un’analisi sino in fondo, per separare l’analizzante dal suo analista. Forse per questa ragione negli ultimi tempi del suo insegnamento la voce di Lacan smise di parlare.
Anziano e affascinato dalla topologia si limitava a fare nodi borromei di fronte ad una platea sempre più gremita, sedotta e terrorizzata dal Maître. Poco prima di morire decise di dissolvere la sua creatura più preziosa, quell’Ecole freudienne de Paris che, "solo come sono sempre stato", Lacan fondò nel 1964 all’indomani della sua espulsione dall’IPA. Silenzio e dissoluzione; non erano gesti di teatro. Nel punto più estremo della sua vita si accorse forse di non aver taciuto sufficientemente l’amore. Sciolse allora quella colla (école) che era diventata la sua Scuola anche per liberare finalmente i suoi allievi dal peso ingombrante del suo desiderio. Lacan prigioniero dell’amore che aveva scatenato, Lacan pietra di scarto, resto, oggetto piccolo (a), oggetto perduto. Lacan, mon amur.
Il racconto di Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore delle opere di Lacan
"tra Sedute e seminari ho vissuto la sua utopia"
di Luciana Sica (la Repubblica, 08.09.2011)
«Ero il suo "mon cher monsieur Di Sciascià", mi chiamava così»: Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore dell’opera di Jacques Lacan, ha 28 anni nel ’72 quando incontra il maestro all’École freudienne de Paris. «C’era stato un convegno, ma lo avevo visto uscire durante il mio intervento. La sera lo incontro a un rinfresco pieno di gente, mi passa vicino, gli dò la mano e lui mi fa "Antonio!". Preso alla sprovvista, chiedo "ma come fa a sapere il mio nome?"... "L’ha detto stamattina!". E ripete una mia frase: "davanti alla propria donna, un analista non è un analista". A quel tempo ero in una situazione personale molto critica, cosa che lo ha interessato davvero molto».
Perché?
«Perché allora ero un prete, e vivevo in un convento. Dopo la laurea in Teologia, studiavo Psicologia a Lovanio, in Belgio. Ma mi ero innamorato e la mia vita era stata messa a soqquadro. La passione per un ideale era entrata in collisione con una passione fatta di carne».
Allora comincia l’analisi con Lacan.
«Sì, ed è durata fino alla sua morte... All’inizio doveva essere solo un "controllo", ero già in analisi, ma lui mi fa capire rapidamente che devo parlare di me: "Bisogna scegliere, ragazzo mio. Bisogna scegliere". Ma raccontare le sedute con Lacan è difficile, proprio perché non assomigliano a niente».
Intanto lei frequenta anche il seminario del ’72-’73 sul godimento femminile, proprio quello in uscita da Einaudi col titolo Ancora. Com’è stato ascoltare dal vivo il suo maestro?
«Il seminario m’ha preso molto, almeno per una ragione: con Encore - che nella pronuncia francese può significare anche "un corpo" e "in corpo"- la jouissance della donna si situa in una dimensione mistica. E io, Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila li ho letti a sedici anni. All’epoca capivo un millesimo di quello che diceva Lacan, mentre oggi - avendo a disposizione tutti i suoi seminari - penso di aver colto quella sua logica ferrea per quanto a tratti astrusa».
Un po’ astruso è questo "Libro XX" - come sempre "stabilito" da Jacques-Alain Miller, genero e custode del Verbo lacaniano. C’è una traccia per renderlo più accessibile?
«"Che cosa vuole una donna?": Lacan riprende quella domanda irrisolta che l’ultimo Freud formula nel ’33, sei anni prima di morire. E tenta una risposta, che non poco ha intrigato il femminismo e il suo pensiero della differenza. La donna - dice Lacan - è presa da un godimento che non è quello maschile e non ne è complementare, ma è di più, è qualcos’altro. Se il godimento maschile è centrato su una sola parte del corpo, quello femminile si fonda invece sulla singolarità e può condurre all’esperienza della gioia mistica. Se il maschio gode del suo potere, la donna può godere della sua pura esistenza, e da oggetto di piacere diventare causa del desiderio».
Come a dire: nel godimento, la donna rivendica di non essere una, ma unica?
«La donna che dice "Io sono l’unica!" è folle - e lo stesso vale per gli uomini, che in genere però non si sentono unici ma piuttosto "l’eccezione". Quello che Lacan indica è che le donne, ma eventualmente anche gli uomini, possono arrivare a un’unicità che corrisponde al loro essere. A dire qualcosa come "io sono questo, riesco a essere così, e questo godimento è mio e di nessun altro"... Per Lacan, è poi lo stesso analista che deve attenersi alla posizione femminile, spingendo il paziente a essere non "come tutti", ma "come è". E sul piano politico, forse oggi somiglierà anche a un’utopia, c’è un forte antagonismo a una società ordinata nel segno della gregarietà e la "scoperta" che ognuno, uno per uno, ha da dire qualcosa di creativo».
Oggi lei che ricorda soprattutto di Lacan?
«Ricordo un uomo molto vivo, che ti metteva di fronte al tuo problema in un modo altrettanto vivo. Sembrava irruento, aveva un atteggiamento del tipo "e dai, muoviti!". Era sempre ironico, si prendeva gioco del mondo e di sé, non si prendeva sul serio e anzi era anche infastidito da tutta quell’attenzione...».
Negli ultimi anni Lacan tende a cadere nell’afasia, disegna nodi borromei, ha comportamenti sconcertanti con i pazienti che arriva anche a maltrattare... A lei sembrava equilibrato?
«Io l’ho sempre visto normale. Tranquillo, tranquillissimo».
Lacan per lei non rappresenterà una religione laica?
«Direi proprio di no, o almeno lo spero. Per me lui è uno che ha capito come funziona questo coso che chiamiamo inconscio: palpitante come un cuore, una bocca, una zona erogena che si apre e si chiude».
Desidero dunque sono
“Liberiamo la fantasia dalla logica del capriccio"
Massimo Recalcati a colloquio con Luciana Sica
Il nuovo saggio dello psicoanalista Recalcati offre una lettura politica di come si è modificato ciò che vogliamo
"Se la spinta al godimento diventa compulsiva e non conosce limiti viene meno l’idea di legame sociale"
"Quella che stiamo vivendo è un’angoscia di fronte all’eccesso: come se ci mancasse un progetto, una prospettiva"
"Bisogna ritrovare una dimensione creativa rispetto ai nostri slanci per allontanarci dall’omologazione"
di Luciana Sica (la Repubblica, 17.01.2012)
«Una sedia a rotelle fatta viaggiare a una velocità ingovernabile... Lacan ha proposto un’immagine alla Hitchcock per raffigurare un’economia che già negli anni Settanta considerava destinata fatalmente a scoppiare. Non parlava certo da economista e in più era un liberale conservatore, eppure sul "discorso del capitalista" è stato di una chiaroveggenza speciale. Perché ne coglieva la dimensione "pulsionale" con il trionfo del narcisismo e il culto dell’homo felix impegnato nella ricerca del proprio benessere individuale. Qualcosa di "folle", di "infernale", di "insostenibile"».
Massimo Recalcati parla dell’aspetto "politico" del suo nuovo libro che declina le varie sfaccettature del desiderio, con tutto il peso affidato dalla psicoanalisi a questa sua parola chiave. Ma è evidente tra le righe la consapevolezza del passaggio epocale che viviamo e sullo sfondo il naufragio dei grandi ideali collettivi della modernità occidentale. Anche a dispetto della dedica in codice «a Jacques Lacan, mon a-mur» - omaggio al maestro scomparso trent’anni fa - Ritratti del desiderio non è destinato solo agli specialisti del lacanismo (Cortina). Proprio perché è scritto da un analista che nella sua riflessione sui movimenti inconsci dell’esperienza umana non rinuncia a mantenere uno sguardo critico sui grandi cambiamenti sociali, sui nuovi modi di pensare e di vivere.
Lei scrive che la grande crisi dell’economia capitalista - questa sorta di implosione dell’Occidente - "non è solo finanziaria ma innanzitutto etica". Perché?
«Perché questa è una crisi che evidenzia il disprezzo e il misconoscimento del Bene comune, l’accaparramento senza freni delle risorse di tutti: il lavoro, le leggi, le istituzioni, la natura... Quando la spinta al godimento diventa compulsiva e non conosce limiti, quando l’avidità non ha più fondo, è la stessa idea di comunità che viene meno. Per dirla in termini analitici, è la pulsione di morte che prevale e travolge la dimensione del legame sociale».
C’è un’angoscia particolare che accompagna questi "anni terribili" di impoverimento anche emotivo, anche intellettuale?
«L’angoscia contemporanea non è l’angoscia di fronte al nulla di cui parlano i filosofi, ma piuttosto è l’angoscia di fronte all’eccesso: come se mancasse una prospettiva, un progetto. Non sorge dalla mancanza ma da un troppo pieno, dalla sensazione di essere imprigionati in un sistema che ci avvolge e ci comprime e sembra non permettere - nemmeno nella fantasia - di un altro mondo, di un altro orizzonte... Il nostro è senz’altro il tempo di un immiserimento materiale e mentale diffuso, è un tempo di precarietà dove l’angoscia - come dimostra la diffusione epidemica del panico - è di massa. Ma io tendo a escludere che sarà una condizione permanente».
La notte buia che viviamo potrà diventare "un fattore di rigenerazione", permetterci di riconoscere finalmente "il punto luminoso del desiderio": non è un catastrofista, lei. In cosa ripone la sua fiducia?
«L’angoscia non si limita a paralizzarci, ma può diventare la causa di un nuovo desiderio. Tutta questa circolazione cieca di godimento è senza soddisfazione, tende a produrre solo distruzione, ma ora il declino del "discorso del capitalista" può aprire a nuove possibilità di vita. Nella nostra esperienza clinica l’angoscia non è mai solo un vicolo cieco, ma segnala sempre la prossimità del soggetto alla verità (rimossa) del proprio desiderio, mettendolo di fronte a ciò che abitualmente cerca di evitare».
Ma, per dirla con Carver, di che cosa parliamo quando parliamo di desiderio?
«Intanto di una forza inconscia che spinge alla relazione con l’Altro e che sempre implica un inciampo, uno sbandamento, una perdita di padronanza... Non sono "io" che decido il mio desiderio, è il desiderio che decide di me, mi rapisce e mi anima. Secondo la lezione lacaniana, non è necessariamente infelice e neppure è riducibile a un sentimento di mancanza. L’insoddisfazione è un tratto strutturale dell’isteria, non del desiderio che è piuttosto una potenza, uno slancio che mostra come la vita diventa umana solo attraverso l’Eros, il legame, il riconoscimento della dipendenza, della differenza, della vulnerabilità. Certamente va messa in conto anche una certa quota di solitudine nel movimento di separazione, di distacco, di rottura e di sovversione dell’ordine familiare. E neppure esiste una misura giusta per definire un desiderio "normale" in quanto unico e irripetibile, inventivo e incomparabile, devianza singolare che sfugge, resiste, ad ogni tentativo di omologazione autoritaria».
Desiderio invidioso, amoroso, sessuale. Desiderio dell’altro, d’altro, di niente... La sua è una singolare galleria di esperienze che nella vita s’impastano. Ma perché il desiderio assoluto - quello "puro", come nel caso dell’intransigenza di Antigone - è destinato allo scacco?
«Lacan affermava che la sola vera colpa dell’uomo è quella di venire meno al proprio desiderio. La clinica psicoanalitica conferma che l’infelicità è spesso legata al fatto che la nostra vita non è coerente con ciò che desideriamo. E invita ad essere responsabili rispetto al desiderio che non può essere mai associato al capriccio, perché ogni volta che sono chiamato a scegliere "ne va della mia esistenza", come direbbe Heidegger. È senz’altro il caso di Antigone che persegue il suo desiderio - dare una sepoltura degna al fratello - senza esitazioni e contro ogni Legge, ma perdendo tutto, morendo sepolta viva. La sua tragedia svela come non ci sia mai nessuno, né un dio né un padre, a garantire che l’assunzione del desiderio sia generativa e non si riveli destinata allo smarrimento».
Un’ultima domanda: il Censis di De Rita ha fatto un abbondante uso di metafore utilizzate nei suoi lavori, segno che le interpretazioni rituali non bastano più per capire in profondità quel che succede. Allora si ricorre al pensiero di un analista tutt’altro che estraneo alla dimensione "politica". Lei che ne pensa?
«È importante che le categorie della psicoanalisi escano dalla così tanto decantata "stanza dell’analisi" ed entrino nel mondo storico e politico. L’isolamento della nostra disciplina non è "splendido" - come diceva Freud a Jones - ma rischia di manifestare solo la mummificazione dell’analista come pezzo del museo delle cere dell’Ottocento. La psicoanalisi può invece dare prova della sua efficacia sia come una terapeutica alternativa a quelle pratiche di normalizzazione e di medicalizzazione della vita oggi alla moda, sia come una teoria critica della società. In un tempo abitato da monadi che godono senza limiti di una libertà triste, è chiamata a essere una sentinella della dimensione creativa del desiderio, che già nel suo etimo indica un cielo aperto... Se infatti sidera in latino vuol dire stelle, sarà proprio di questo che si parla: dell’attesa e la ricerca della propria stella».
Jacques-Alain Miller, L’Uno-tutto-solo
di DAVIDE D’ALESSANDRO (Il Foglio, 30 OTT 2018)
Elucidare l’insegnamento di Lacan, stabilire i testi dei suoi Seminari, in realtà un unico intenso Seminario, una serie lunga una vita. Questo il compito che si è dato (e che gli è stato affidato) Jacques-Alain Miller. Lo ha svolto e lo svolge da maestro, magistralmente, come emerge anche dal suo ultimo libro, firmato con Antonio Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano, edito da Astrolabio. Vi sono alcune perle di Miller nello scaffale dello stesso editore romano. Ricordo, tra gli altri, Chi sono i vostri psicoanalisti?, Introduzione alla clinica lacaniana, I paradigmi del godimento, Logiche della vita amorosa. Sintomo e fantasma. Il Gide di Lacan. Ora, però, seduti e attenti, perché L’Uno-tutto-solo, il suo corso dell’anno accademico 2010-2011 dal titolo L’Essere e l’Uno, obbliga alla massima concentrazione, essendo un’esplorazione dei campi lacaniani più suggestivi, tra reale, godimento femminile, essere ed esistenza, l’essere che è il desiderio, il punto di capitone e, dulcis in fundo, un imperdibile Sartre e Lacan.
Elucidare, dunque, l’insegnamento di Lacan. Avrei scritto elucidare l’opera di Lacan, se Miller non mi avesse fulminato già dalle prime righe: “Se c’è un termine inesistente in Lacan, un termine che non pronuncia né scrive mai per indicare il prodotto del proprio lavoro, è per l’appunto il termine ‘opera’. Preferiva piuttosto offrire al pubblico qualcosa come uno stuzzichino che mettesse appetito, annunciando all’infinito il piatto forte. Proponeva un menù sotto forma di feuilleton. Il suo Seminario era un feuilleton sullo stile delle serie televisive americane, tanto di moda al giorno d’oggi. Allo stesso modo, i suoi personaggi, chiamiamoli così, ripartono ogni volta per nuove avventure. Proprio così: il Seminario di Lacan è una serie”.
Non esiste l’opera di Lacan, la teoria di Lacan. Esiste il suo insegnamento. È stato ed è un signore dell’insegnamento: enseigneur. Per trasformare l’insegnamento in opera, passando dall’udibile al leggibile, occorre “l’ufficio di un altro che prenda in carico la sua trasformazione”. L’altro è Miller: “Leggere il Seminario significa assistere all’invenzione di un sapere. Non posso dire che nasce nel dialogo, sebbene qua e là Lacan abbia dato la parola a qualcuno. È un’invenzione che suppone che sia indirizzato all’Altro, a degli psicoanalisti, senza tuttavia che Lacan abbia mai convalidato questa loro qualifica”.
Come procede Lacan nel suo Seminario? Spiega Miller: “Lacan procede essenzialmente tramite argomentazione. È questo che mi ha attratto. Un certo numero di persone è sedotto quando nel Seminario Lacan poetizza, proferisce, declama. Devo constatare che un gran numero di persone lo percepisce come un profeta romantico. Ogni tanto, del resto, egli parla per rime emettendo tremolii di voce senza tuttavia lasciarsi andare troppo e, una volta ottenuto l’effetto voluto, ricomincia con il suo tono abituale. Evidentemente queste rime hanno un loro posto nell’argomentazione. [...] La mia traduzione di Lacan prende come punto di orientamento innanzitutto l’argomentazione. Leggo i detriti della stenografia con l’idea che l’argomentazione deve essere impeccabile. Ricostituisco la catena di deduzioni e rimetto al suo posto l’anello mancante della catena. Lo faccio ora molto più spesso di quanto non l’abbia fatto in precedenza. Forse ero più timido? Lasciavo comunque con più facilità che il lettore se la sbrogliasse da solo. Cosa che, per quanto mi riguarda, faccio a volte nel mio Corso”.
Un compito meraviglioso. E mi piace farlo aderire al ruolo dell’analista davanti al proprio analizzante. È presente, elucida alcuni suoi passi, ma è giusto che sia l’analizzante a sbrogliare la matassa, a metterci tanto di suo, perché, non dimentichiamolo, è della propria matassa, non della matassa dell’analista o di un altro, che si parla. Della propria cura o, meglio, della propria esperienza. Ne scrive Miller nel capitolo dal titolo Finestra sul reale: “Per un certo periodo Lacan ha parlato della cura psicoanalitica. Era il tempo in cui bisognava sdoganare la psicoanalisi facendola passare per una terapeutica, vale a dire un’azione che ha come scopo la guarigione. Poi sostituisce il termine cura con un’espressione che prima aveva usato solo qualche volta: esperienza analitica. ‘Esperienza’ nel senso che in analisi avvengono cose molto singolari. Utilizzare il termine ‘esperienza’ ha il vantaggio di non specificare che ne risulterebbe una qualche guarigione, cosa che è prudente e realistica”.
Infatti, nel libro-Corso ci si preoccupa di presentare la psicoanalisi non solo come strumento di azione verso ciò da cui si può guarire, ma anche verso ciò che non ci abbandonerà mai. La risposta al muro che appare invalicabile, all’incurabile, è sempre e soltanto singolare, la risposta è sempre e soltanto nell’Uno-tutto-solo. La psicoanalisi è un viaggio, un’esperienza, uno stile di vita (lo stile è l’uomo), soluzione di un’impasse originaria, passe: “Quella che Lacan chiama passe è il momento in cui un’analisi consegna allo psicoanalizzante il suo essere: momento in cui, una volta percorsi gli effetti di causalità simbolica, si ottiene una riduzione della finzione che si parla o si stabilisce in termini di mancanza. Mancanza-a-essere: in termini freudiani, castrazione o tappo della mancanza a essere, nei termini, invece, dei post freudiani, in particolare di Abraham, oggetto pregenitale”.
La psicoanalisi pone l’essere discorsivo davanti all’essere eterno. Chiarisce Miller: “Potreste pensare che basti essere atei per corrispondere a questo metro, ma si tratta di qualcos’altro, si tratta infatti di abbandonare la nozione della persistenza di un mondo e dell’essere parlante come essere nel mondo. Pensarlo come essere nel discorso impedisce che si trasferiscano su di esso le proprietà che si attribuivano al suo essere nel mondo. Ciò richiede una disciplina dura, richiede che si pensi opponendosi alla routine del proprio piccolo mondo, che d’altra parte coincide con quello grande. Esige che ci si addestri a quanto comporta, quando è seria, la pratica della psicoanalisi”.
Antonio Di Ciaccia scrive che “nell’arco di trent’anni Jacques-Alain Miller ha commentato e chiarito l’insegnamento di Lacan. Senza il suo lavoro, Lacan sarebbe rimasto oscuro. Come afferma in questo volume, Miller si è adoperato per ‘tradurre’ Lacan in francese, affinché fosse più accessibile, senza tuttavia dimenticare che l’oscurità del testo di Lacan era in funzione, com’egli stesso diceva, di quella ricerca personale indispensabile affinché la psicoanalisi non si riduca a una sequela di parole vuote e banali. Lacan considerava il suo insegnamento isomorfo all’inconscio, ossia ‘lo si capisce solo quando si è giunti al punto di capirlo’. Come l’analisi è un aiuto a elucidare l’inconscio, così L’orientamento lacaniano è un aiuto a elucidare l’insegnamento di Lacan”.
Elucidando l’insegnamento di Lacan elucidiamo il nostro inconscio. Elucidando il nostro inconscio, l’Uno-tutto-solo si rivela. Miller definisce l’Uno a pagina cento...Uno, coincidenza che avrebbe illuminato Lacan:
Non solo la psicoanalisi è un’esperienza. Lo è anche la lettura di Lacan, lo è anche la lettura (di Lacan) di Jacques-Alain Miller. Anche l’orientamento lacaniano è un’esperienza. Di più, un modo di pensare e di vivere. La mancanza e il tutto.
LACAN: UNA SCIENZA DI FANTASMI
di Lorenzo Curti (Philosophy Kitchen, Recensioni/Maggio2020)
In questo breve ma densissimo volume, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, (Orthotes 2019) Federico Leoni continua il suo lavoro di originale rilettura delle riflessioni di Jacques Lacan, facendo funzionare il complesso, monumentale e oscuro svolgersi del pensiero dello psicoanalista parigino come pungolo per costruire nuove possibilità di traiettorie teoriche. Infatti, questo libro non vuole essere tanto un testo d’introduzione a Lacan quanto la continua interrogazione e scavatura di alcune delle sue più importanti riflessioni.
Un’indicazione sulla lettura del testo ci viene direttamente dall’autore alla fine del libro: “Questo è un libro insistente. Ogni capitolo mostra una stessa cosa, che si presenta ora come Uno, ora come tratto, ora come voce, ora come mana, ora come fantasma, ora come oggetto, ora come gesto, ora come miniatura, ora come ideogramma.” (Leoni 2019, p. 173). Questa “stessa cosa” che Leoni ci mostra in Una Scienza di Fantasmi è l’evento - sempre attivo - dell’insorgenza e dell’inscrizione che produce il continuo processo di soggettivazione. Il libro è, allora, una sorta di indagine sul “supporto” di questo processo, non ritrovato in un fondamento certo e stabile quanto definito e perciò perduto, ma in una materia fluida e inafferrabile che anima la soggettivazione sempre in atto. Cercheremo di riattraversare l’insistenza di questa “stessa cosa” attraverso due vettori in particolare: l’Uno e la perversione.
La struttura di questo libro è permeata da una modalità particolare, che viene in qualche modo rivelato verso la fine del libro: l’obliquità. L’obliquità, o inclinazione, è proprio quella del diwan, del lettino freudiano, residuo della regressione ipnotica (anticamera della psicoanalisi). Questa strana angolatura, caposaldo del metodo clinico psicoanalitico, viene applicata costantemente nel testo sul continuo torcersi del pensiero dei filosofi interpellati. Questo non significa che i filosofi (fra i più presenti troviamo Leibniz, Kant, Cartesio, Bergson e Deleuze) vengano interrogati sui loro fatti privati, ma che le loro teorie, in qualche modo, vengano rese “spurie”, inclinate e condotte verso nuove possibilità. E non è un caso che nell’obliquità e nell’inclinazione ci stia anche la deviazione: infatti ciò che per eccellenza de-via in psicoanalisi è la per-versione, la negativa freudiana della nevrosi, ciò che modifica la rotta e batte strade nuove.
L’Uno, rintracciato e moltiplicato in varie figure (come il mana, il gesto, la voce, l’oggetto), è il protagonista indiscusso di questo libro e ne è anche il ritmo, la scia continua che permette ai molti percorsi anche eterogenei dipanati dall’autore di scandirsi in maniera sempre più coordinata. E, in qualche modo, da un punto di vista letterario, si potrebbe ascrivere questo libro di filosofia al genere del picaresco: assistiamo infatti a un continuo peregrinare avventuroso di questo Uno, dalla psicoanalisi lacaniana ai vari pensieri filosofici indagati, fino all’arte e alla letteratura. Un’altra maniera di mettere a fuoco la centralità di questo Uno ce la suggerisce Leoni stesso attraverso l’altro protagonista di questo libro, il fantasma, paradossalmente più nascosto rispetto alla onnipresenza dell’Uno. L’Uno è il fantasma di questo saggio filosofico, nel senso che è la cornice che anima la sua struttura e attraverso la quale si determina un continuo assemblaggio fra psicoanalisi e filosofia.
L’Uno non è, però, una nozione priva di ambiguità e addirittura strane sorte di pregiudizi sia nell’ambito filosofico che in quello della psicoanalisi lacaniana, come nota Leoni stesso. Sul lato filosofico, nel testo si insiste su come l’Uno sia uno dei marchi dell’elaborazione filosofica sin da Platone e dal platonismo (in Plotino l’Uno trova il suo apice) e non a caso Leoni riprende il Parmenide di Platone che si interroga sull’Uno e il Moltepice (Leoni 2019, p. 103). D’altronde lo stesso Lacan a suo modo notava nel seminario XVI (La logique du fantasme, ancora inedito in italiano) che Platone e Plotino sono fra i pochi filosofi che non cadono nell’errore di sovrapporre Essere e Uno e che riescono a fornire una riflessione specifica su questa dimensione dell’Uno (Leoni 2019, p. 21). Nonostante ciò, secondo Leoni, “dell’Uno non ne è più nulla, nella filosofia, da un certo punto in poi, e salvo diramazioni preziose quanto isolate” (p. 6).
Sul lato psicoanalitico si può dire che il tema dell’Uno emerge in punti diversi dello svolgimento dei seminari lacaniani. All’inizio più che essere un Uno filosofico, l’uno lacaniano è l’eredità dell’einziger Zug (tratto unico o unario) del Progetto di una psicologia freudiano del 1895. Da qui Lacan inizia a elaborare la nozione di tratto unario, che definisce una visione dell’incidenza del significante a partire da un tratto traumatico originario e di “partenza” per l’identificazione e perciò soggettivazione (Seminario IX). Più tardi questo tratto unario assumerà forme differenti nel Seminario XVII subendo una torsione e divenendo S1, il significante padrone cui ci si identifica e da cui origina la catena significante. Solo a partire dal Seminario XIX Lacan (2011) inizia a porre la questione di un Uno filosofico-psicoanalitico, e lo fa confrontandosi soprattutto con Platone e la teoria degli insiemi di Cantor e Frege. Insomma, sembra che si passi da un uno dalla lettera minuscola all’Uno con la maiuscola.
Quando Miller (2013) ripercorre le riflessioni di Lacan sull’Essere e l’Uno mette in luce come Lacan passi da una “ontologia” (o ancor meglio una para-ontologia) a una “henologia”, un discorso sull’Uno. Nella lettura milleriana l’Uno di questo Lacan è esemplificabile nella messa a fuoco della dimensione del “corpo che si gode”, narcisisticamente e autisticamente, che diviene sempre più centrale nella costruzione teorica lacaniana. L’immagine dell’Uno che si è andata a definire sempre di più nella psicoanalisi lacaniana è quella concentrata dalla formula milleriana dell’Uno-tutto-solo o Uno-senza-Altro, che rifugge dalla dialettica che si istituisce fra un soggetto e l’Altro, per richiudersi su sé stesso in un godimento sterile e “perverso”.
Ma è proprio a partire da un’altra lettura della perversione che Leoni vuole riconsiderare filosoficamente la nozione di Uno psicoanalitico, con l’obiettivo di mostrarne una dimensione nascosta e ricavata proprio dalla elaborazione lacaniana.
La perversione, nell’ambito clinico lacaniano, viene spesso indicata come quella struttura per la quale il soggetto si colloca nella posizione di oggetto inscalfibile, scaricando sull’Altro l’angoscia generata in lui dalla divisione inferta nel soggetto dal linguaggio. Il perverso vuole dividere l’Altro, proiettare su di lui l’angoscia della castrazione che non intende sostenere su sé stesso addirittura arrivare ad angosciare Dio, l’Altro per eccellenza (Recalcati, 2016; Lacan, 2004).
Un altro modo di dire la questione della perversione (ed è a partire da questa altra angolazione che parte la riflessione di Leoni), non contraddicendo necessariamente le altre letture ma facendo emergere un lato “positivo-creativo”, è che il soggetto della perversione “comprende” la struttura e il funzionamento del linguaggio e che in qualche modo usi questa “competenza” riversandola sull’Altro. È in questo senso che, nella prospettiva della teologia psicopatologica paolino-lacaniana suggerita da Leoni nel primo capitolo, se il nevrotico vive nel dramma innescato dalla Legge e lo psicotico non riconosce, forclude questa dimensione della Legge, non accedendo completamente al Simbolico, il perverso conosce questa Legge per negarla e superarla, per andare aldilà di essa e collocarsi al posto di Dio (pp. 8-11). Il soggetto perverso si sistemerebbe nella posizione di colui che scrive, letteralmente crea la Legge, addirittura identificandosi con essa. In questa direzione, si può suggerire, a ulteriore chiarimento, l’immagine prototipica data dall’inserto filosofico-politico di Sade (autore caro a Lacan) all’interno della sua Filosofia nel boudoir. Qui viene messo in luce come il perverso conosca lo strumento della Legge e del suo istituirsi e come utilizzi questo sapere per creare e immaginare un nuovo tipo di società iperbolica, sebbene basata su principi razionali, macabramente illuministici e “formalizzati” su un piano giuridico-filosofico.
A partire da questo lato creativo della posizione soggettiva della perversione, Leoni ci interroga sulla possibilità di concettualizzare la filosofia non come un processo paranoico (la diagnosi che Freud aveva, a suo tempo, affibbiato, e con una certa logica, alla filosofia) di iperuniversalizzazione e astrazione, purificazione dei pensieri e dei concetti. Piuttosto l’autore ci spinge a immaginare la filosofia come un processo perverso, la messa in atto di una possibilità di continua scrittura e riscrittura creativa del pensiero e del mondo a partire dall’invenzione filosofica.
Infatti, si può dire che la scrittura leoniana di questo testo sia in un certo qual modo perversa, producendo deviazioni, scatenamenti e misurandosi con un’esplorazioni dei possibili. Nel quinto capitolo, Leoni si riallaccia, e non a caso, proprio alla figura di Bafometto (p. 85), principe infernale delle metamorfosi e idolo templare protagonista del romanzo del filosofo “perverso” Klossowski. Nel testo klossowskiano, infatti, si esplicherebbe una condizione di continua trasformazione e implicazione di “tratti dentro altri tratti”:
Dunque, in questa direzione obliqua e deviata, l’Uno inizia ad apparire non tanto come un Uno che accade, uno spazio definito nello spazio-tempo o nel soggetto, quanto il supporto continuo, la piega nel soggetto che permette che una soggettivazione, continuamente in genesi e in divenire, accada (Leoni 2019 p. 51). Dunque, se questo Uno non è l’Uno-tutto-solo della perversione, che Uno perverso della creazione sarebbe? L’Uno, che qui viene ripreso a partire dal Seminario XIX di Lacan (2011), non è semplicemente un momento atavico, uno stadio larvale della soggettività che precede cronologicamente l’incontro del soggetto con l’Altro. Viene, invece, indicato come quell’evento, o ancora meglio come quel rimasuglio dell’evento (eco de l’Y a d’l’Un lacaniano) che permette strutturalmente l’emergere di una dialettica fra il soggetto dell’Altro. L’Uno non sarebbe, dunque, un soggetto che può mettersi in dialettica con un Altro (e che eventualmente sceglie di non farlo) ma sarebbe l’evento stesso della possibilità di un’emergenza del rapporto fra un soggetto e l’Altro, in altre parole il suo supporto. È come dire che nell’Uno sta già il Due e il molteplice, nel senso che l’Uno permette, ponendosi come fondamento, l’articolarsi fra più elementi, fra più Uni:
Uno, dunque, che nel suo continuo mettere in atto la divisione senza esserne compromesso (una sorta di fondo psicotico a ogni nevrosi), mostra la natura continuamente metamorfica della soggettivazione, del suo incessante divenire all’interno di una logica sostenuta dallo scandire di questo Uno fondamentale. Dunque, nella lettura di Leoni, se l’Altro è il “regime” dove si sono dati dei legami e delle leggi secondo un ordine simbolico (istituito), l’Uno sarebbe il supporto che permette che questi rapporti si istituiscano senza esso si istituisca mai.
Ancora, per rimanere nel solco del complesso svilupparsi della riflessione lacaniana attraverso i suoi seminari, il tratto unario, l’elemento di identificazione a un tratto dal soggetto che fa partire la sua soggettivazione, è sostenuto dalla dimensione dell’uniano, appunto da quel yadlun (“c’è dell’uno”) inassimilabile e allo stesso tempo motore e supporto della possibilità di far partire la soggettivazione dall’identificazione del tratto unario. Certo, seguendo Lacan non troviamo un Uno tutto-pieno, monolitico e compatto, le sue fondamenta sono instabili. L’Uno lacaniano del Seminario XIX è rappresentabile, infatti, da una sacca vuota con un buco: «Si vous en voulez une figure, je représenterais le fondement du Yad’lun comme un sac. Il ne peut avoir l’Un que dans la figure d’un sac, qui est un sac troué» (Lacan, 2011 p. 147) [1]. Insomma, di questo Uno non si sa mai quanto ce n’è davvero dentro al sacco.
[1] Se volete una figura, io rappresenterei il fondamento di Yadl’un come un sacco. Non si può avere l’Uno se non dentro la figura di un sacco, che è un sacco bucato. (traduzione mia)
Non è un caso che l’Uno di Lacan sia inavvicinabile dal linguaggio ordinato dell’istituirsi del simbolico e che lo psicoanalista francese idei proprio per questo Uno il neologismo yadlun. Questo ci porta nella dimensione della lalangue (che Leoni incrocia nell’indagine su grido e voce nel capitolo otto) di una lingua primitiva rispetto all’intervento regolativo e differenziante del simbolico, capace dunque di mostrare, più che significantizzare, l’ambigua e inafferrabile consistenza di questo Uno.
LACAN: UNA SCIENZA DI FANTASMI
di Lorenzo Curti (Philosophy Kitchen, Recensioni/Maggio2020)
In questo breve ma densissimo volume, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, (Orthotes 2019) Federico Leoni continua il suo lavoro di originale rilettura delle riflessioni di Jacques Lacan, facendo funzionare il complesso, monumentale e oscuro svolgersi del pensiero dello psicoanalista parigino come pungolo per costruire nuove possibilità di traiettorie teoriche. Infatti, questo libro non vuole essere tanto un testo d’introduzione a Lacan quanto la continua interrogazione e scavatura di alcune delle sue più importanti riflessioni.
Un’indicazione sulla lettura del testo ci viene direttamente dall’autore alla fine del libro: “Questo è un libro insistente. Ogni capitolo mostra una stessa cosa, che si presenta ora come Uno, ora come tratto, ora come voce, ora come mana, ora come fantasma, ora come oggetto, ora come gesto, ora come miniatura, ora come ideogramma.” (Leoni 2019, p. 173). Questa “stessa cosa” che Leoni ci mostra in Una Scienza di Fantasmi è l’evento - sempre attivo - dell’insorgenza e dell’inscrizione che produce il continuo processo di soggettivazione. Il libro è, allora, una sorta di indagine sul “supporto” di questo processo, non ritrovato in un fondamento certo e stabile quanto definito e perciò perduto, ma in una materia fluida e inafferrabile che anima la soggettivazione sempre in atto. Cercheremo di riattraversare l’insistenza di questa “stessa cosa” attraverso due vettori in particolare: l’Uno e la perversione.
E se Leoni ci indica un modo per immaginare come un soggetto venga fuori da questo Uno è attraverso l’immagine di un piano che si piega su se stesso, producendo una singolarità in continua trasformazione, la soggettivazione sempre in divenire. È così che il soggetto appare come una monade, piega e unità singolare in cui tutto il mondo si inclina attraverso quel particolarissimo vertice che è il fantasma, meccanismo di cornice-interfaccia della realtà e allo stesso tempo suo assemblaggio. Il fantasma è, infatti, già nella riflessione lacaniana, la dimensione che permette al soggetto di aprire una vasta gamma di possibili incontri con l’oggetto piccolo a. S◊a, il matema del fantasma che Lacan (2013) indica nel Seminario VI, va a significare proprio questo: il punzone ◊ che contiene in sé più simboli (maggiore, minore, et, vel) rappresenta la plurimità delle possibilità di rapporto fra il soggetto diviso (S) del desiderio e l’oggetto causativo del desiderio, l’oggetto piccolo (a), resto di una delle forme dell’Uno lacaniano, Das Ding, la Cosa perduta per sempre dal soggetto nella rimozione originaria.
Certo, ogni singolarità, ogni soggetto non può solo creare a partire dal suo fantasma ed è inevitabilmente posto sotto il giogo della legge della coazione a ripetere. Eppure, partendo da una sorta di teoria della registrazione, Leoni nell’ottavo capitolo mette in luce come anche la più fedele registrazione sia in qualche modo una deformazione, un cambiare strada, un de-viare dall’originale (Leoni 2019 p.129). In questo senso ci viene da suggerire l’associazione a un pensatore a suo modo decisamente perverso, William S. Burroughs, che insisteva sul ruolo dello scrittore come registratore, come supporto apparentemente passivo degli avvenimenti della realtà: “Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere... Sono uno strumento di registrazione... Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”...” (Burroughs 1959 p. 199). Nonostante ciò, la vera operazione di Burroughs non si risolveva qui: lo scrittore per lui non si può limitare a ripetere a pappagallo ciò che della realtà si imprime su di lui ma ricostruisce e trasforma il testo della realtà attraverso tagli, sovrapposizioni e giustapposizioni attraverso cui inserisce nella ripetizione un brulicante continuo differenziarsi dentro al testo stesso attraverso la tecnica del cut-up, in cui il testo viene tagliato e poi ricomposto, e la tecnica del fold-in, dove, ancor più significativamente, il testo viene piegato su se stesso.
Pieghe e monadi, dunque, sono le forme filosofiche attraverso le quali Leoni ci vuole restituire una visione della soggettivazione vista dalla prospettiva di una scienza dei fantasmi, delle singolarità. Quello che si configura in questa scienza dei fantasmi è una posizione etica (Leoni p. 105) per indagare il soggetto nella sua prospettiva singolare a partire da una presa in carico del fantasma da cui lo si guarda, indicazione questa preziosa anche per la clinica. Scienza assolutamente soggettiva da una parte e dall’altra, invece, “unica scienza rigorosa”, con le parole di Husserl, perché consapevole di indagare il fantasma a partire da una cornice che è già a sua volta un fantasma:
Dunque, la scienza del fantasma auspicata da Leoni sarebbe una scienza capace di mettere in luce la cornice verso cui si tende nella scrittura, la cornice “oggetto di studio”, ma anche la cornice da cui si scrive (in qualche modo, un riconoscimento del fantasma dell’autore) ma soprattutto “ragnatela di strade resesi possibili”, l’esplicazione effettiva “in cui” questa scienza scrive e si dipana. È in questo senso che il testo propone non solo una questione “epistemologica” ma soprattutto una dimensione etica, di riconoscimento e di accoglimento del fantasma singolare all’interno dell’elaborazione del pensiero, che ne è la cornice stessa ma che costituisce anche il metodo di assemblaggio degli oggetti di studio, modificandoli.
A partire dalla definizione di questa scienza, Leoni negli ultimi capitoli del libro ci permette di vedere almeno due vertici a partire dai quali si può fare una scienza di fantasmi. Da una parte troviamo il filosofo “perverso”, che dopo Nietzsche è costretto a confrontarsi con la morte di Dio e alle nuove possibilità che gli sono date da scriversi. In qualche modo il filosofo perverso è un filosofo della contingenza lacaniana, colui che fa passare “ciò che non cessa di non scriversi” al “ciò che cessa di non scriversi”.
Dall’altra, invece, in una posizione differente da quella del filosofo troviamo lo psicoanalista, che può manifestarsi attraverso più forme di singolarità: cadavere, santo (saint homme) e addirittura idiota. A differenza del filosofo, che fa emergere nuovi possibili attraverso assemblaggi fantasmatici, nella posizione di colui che “crea”, lo psicoanalista si pone in una posizione di annullamento, di “cadaverizzazione”, per permettere all’analizzante di incontrare e attraversare il suo proprio fantasma singolare.
Una scienza di fantasmi, per concludere, è un libro che, fedele alla scena carrolliana descritta da Deleuze in Logica del senso, ci mostra uno scorrere obliquo e continuo di Uni, oggetti, figure, disegnando una ragnatela di associazioni attraverso le quali si inizia a vedere un fantasma emergente, una cornice ritmica. Questo testo vuole già essere, dunque, una messa alla prova di una possibile scienza dei fantasmi che animano il soggetto, lasciando libero di emergere, unico e singolare, un fantasma che anima la complessa struttura del testo:
Bibliografia:
Burroughs, W. S. (1959), Pasto nudo, tr. it. F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2012
Lacan, J. (2004) Seminario X. L’angoscia, tr. it. A Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007
Lacan, J. Séminaire XIX ...ou Pire, Seuil, Paris, 2011
Lacan, J. (2013) Seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione, tr. it. A. Di Ciaccia e Lieselotte Longato, Einaudi, Torino 2016
Miller, J. A. L’Essere e l’Uno. La Psicoanalisi, 53/54, Astrolabio, 2013, pp. 177-227
Leoni, F., Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2013
Recalcati, M., Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto. Raffaello Cortina, Milano, 2016