La rivoluzione dello sguardo. Capolavori impressionisti e post-impressionisti dal Musée d’Orsay
A cura di Guy Cogeval e Isabelle Cahn. Direzione Scientifica di Gabriella Belli
I capolavori del Musée d’Orsay di Parigi saranno esposti in Italia.
Dal 19 marzo al 24 luglio 2011, al Mart di Rovereto si potranno ammirare oltre settanta dipinti provenienti dalla più importante collezione del XIX Secolo del mondo. E’ proprio il parigino Musée d’Orsay, infatti, che conserva le opere maggiormente significative, per numero e qualità, di quegli artisti che hanno cambiato alla fine dell’800 il corso della storia dell’arte moderna: se si parla di Impressionismo e Postimpressionismo non c’è infatti raccolta più prestigiosa di quella conservata oggi nel Museo francese, un luogo fondamentale per gli studi su Monet, Cézanne, Pissarro, Sisley, Renoir, Degas, Toulouse-Lautrec, Van Gogh, Gauguin, Morisot, Vuillard, Bonnard, Denis, Courbet.
I capolavori di questi ed altri artisti saranno presenti nella mostra del Mart: un’occasione unica per conoscere da vicino, attraverso opere esemplari, il più entusiasmante periodo della ricerca pittorica tra Ottocento e Novecento.
La rivoluzione dello sguardo. Capolavori impressionisti e post-impressionisti dal Musée d’Orsay, è resa possibile grazie all’accordo di collaborazione tra il Mart e il museo francese, che in fase di restauro (riapertura prevista per l’autunno 2011) ha concesso per la prima volta un nucleo così rilevante di opere in prestito per una itineranza di sole tre tappe, che ha toccato Australia, America e ora, unica sede il Mart, l’Italia.
Il progetto presenta un’eccezionale selezione di dipinti, dalla grande stagione dell’Impressionismo alla vigilia delle avanguardie:
Questi sono solo alcuni degli straordinari capolavori presenti nella mostra, che segue un percorso tematico, attraverso appunto quella “rivoluzione dello sguardo”, che gli artisti impressionisti e post-impressionisti tra Ottocento e Novecento hanno aperto alla visione della modernità.
L’esposizione La rivoluzione dello sguardo. Capolavori impressionisti e post-impressionisti dal Musée d’Orsay, ideata e curata da Guy Cogeval, presidente del Musée d’Orsay, e Isabelle Cahn, con la direzione scientifica di Gabriella Belli, direttore del Mart, propone dunque una rilettura di quel cruciale passaggio che ha preparato il terreno alle avanguardie artistiche europee del primo Novecento.
* Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (Paul Gauguin, 1897)
PAUL GAUGUIN, IL CRISTO GIALLO, 1888 (Wikipedia)
Bambini, a casa. A Rovereto ci sono i monologhi della vagina formato Mart
«I miei allievi turbati
dall’Origine del mondo»
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986)!!! USCIAMO DAL SILENZIO: DONNE E UOMINI, TUTTI E TUTTE - IN TUTTO IL MONDO!!!
Porre fine alle mutilazioni genitali femminili (MGF)!!! UN URLO LIBERATORIO E UN APPELLO DALLE DONNE DELL’ AFRICA: "VAGINA, VAGINA, VAGINA" di Sally Blakemore. -"La violenza contro donne e bambine/i è tenuta nascosta in tutte le culture"!!!
Federico La Sala (20.11.2011)
"L’origine du monde" e "Lichen" di Alice Munro
di Alessandra Sarchi *
Nel racconto Lichen, incluso nella raccolta The Progress of Love,1 Alice Munro mette in scena un repertorio di personaggi e di dinamiche relazionali piuttosto tipico della sua produzione narrativa: una coppia di ex coniugi, Stella e David, lei vitale anche se non più attraente d’aspetto, lui impegnato a ricacciare lo scorrere degli anni con fidanzate effimere e sempre più giovani; un vecchio padre ricoverato in una casa di cura; Catherine, una delle vittime dell’insaziabile quanto disperato istinto predatorio di David; sullo sfondo, chiamata in causa attraverso una fotografia, che ne ritrae solo il pube, e una telefonata alla quale non risponde, Dina, la studentessa con cui David vorrebbe sostituire la non più giovanissima Catherine.2
L’ambientazione rurale, lungo le rive di un lago, completa il quadro di questa middle station of life canadese con la quale Alice Munro ci ha da tempo familiarizzato, attraverso una produzione di racconti che costituisce un vasto insieme di variazioni sui temi del rapporto femminile/maschile, dell’autodeterminazione verso l’ethos comunitario, delle apparenze rispetto alle verità individuali, delle mistificazioni-rivelazioni della memoria.3
I personaggi e le situazioni raccontate da Munro nel loro essere ordinarie, nel loro essere scelte non perché eccezionali ma comuni, in che cosa ripongono la capacità di attrazione e di coinvolgimento per il lettore, al di là di una generica immedesimazione in vite caratterizzate, come quelle di molte donne del ceto medio occidentale da almeno due secoli a questa parte da un matrimonio o da un mancato matrimonio, da una parabola di emancipazione, da un tradimento, da un segreto legato a un’eredità, a un torto fatto o subito?
Con quali mezzi, di trama e di stile, la scrittrice riesce a sviluppare empatia e interesse? Si potrebbe dire che Munro rende interessanti le storie individuali tagliandone temporalmente i segmenti in modo che non siano mai lineari e attraversa la coscienza dei personaggi in modo che la raffigurazione interiore delle vite non aderisca mai del tutto alla loro manifestazione apparente. In ogni suo racconto opera uno scarto fra quanto i lettori, e i personaggi stessi, sanno e quanto realmente accade, è accaduto o accadrà.4
In questi punti di scollamento s’inserisce di norma la possibilità di una rivelazione che per le eroine femminili si traduce in un accrescimento di consapevolezza del proprio destino o dei fatti della vita. Ed è in questi stessi punti di incrinatura che il lettore avverte quel potenziamento della propria esperienza personale e conoscitiva che costituisce gran parte del fascino delle storie di Munro. I mediatori di tali scoperte sono frasi, pronunciate o scritte, lettere, immagini che riaffiorano o vengono ripensate per cogliere un senso che è sempre ulteriore, spesso mai definitivo, piuttosto, in grado di mantenere molte sfumature di segreto rispetto all’intreccio narrativo e all’interiorità dei personaggi.
Quando a fare da mediatore è un’immagine lo spazio semantico si amplia notevolmente, lo si vede molto bene ne La vergine mendicante (The Beggar Maid, uscito nella raccolta Who do you think you are?) che prende il titolo da un noto dipinto di Edward Burne Jones esplicitamente menzionato e descritto nel racconto, dove funge da snodo simbolico e da rispecchiamento del rapporto di coppia fra l’io narrante femminile, Rose, e il fidanzato Patrick, ma viene ribaltato nel finale dall’esito disastroso della relazione e perfino dall’impossibilità di mantenerne, a posteriori, un buon ricordo.5
Ancora più interessante è il caso di Lichene dove l’immagine che fa da motore allo srotolarsi di una trama essenzialmente priva di eventi è una fotografia, il cui soggetto e la cui descrizione costituiscono una vivissima ekphrasis del celeberrimo dipinto di Gustave Courbet, L’origine du monde.6
Fin dall’incipit del racconto, che inizia con la descrizione di un villino sul lago, troviamo un esempio della tecnica di frammentazione temporale applicata alla soggettività dello sguardo:
Il lettore è messo a confronto con un’immagine mentale ed emotiva, quella di David, che oltre ad essere scalata nel tempo, rispetto al momento del racconto situato molto dopo, è anche subito smentita, sia nella sua oggettiva materialità sia nell’opinione dei genitori di Stella. Anziché mirare a un effetto di realtà le descrizioni di Munro insinuano il dubbio e lo scomporsi in pluralità percettive del mondo, ed è proprio in questi spazi che si giocano le dinamiche di relazione e scoperta che interessano all’autrice.7
La fotografia ispirata al dipinto di Courbet compare quattro volte nel corso della storia, le prime due senza che si sappia cosa raffigura, quindi con un effetto di suspense e di attesa, una terza volta quando viene accuratamente descritta, e un’ultima quando ha subito un’alterazione del colore tale da risultare illeggibile, e tuttavia non meno carica di significato. Si tratta quindi di un oggetto fondamentale nella narrazione per lo svolgersi della trama e per la sua funzione di catalizzatore di senso.
La sua prima apparizione è nel corso di una conversazione che David e Stella hanno con alcuni conoscenti all’uscita del negozio di liquori in cui si sono fermati per acquistare la bottiglia di whisky che David regala ogni anno al padre di Stella, in occasione del compleanno. Alla bonaria esibizione di cordialità degli amici di Stella, Ron e Mary, fieri dei loro interessi da attivi pensionati, David risponde estraendo dalla tasca della giacca una fotografia che mostra a Ron, dichiarando con sprezzante sorriso che questo è uno dei suoi interessi. Poco dopo l’attenzione viene di nuovo riportata sulla fotografia poiché in auto David chiede a Stella se desidera vedere ciò che ha mostrato a Ron, augurandosi che questi l’abbia apprezzato. Stella declina, ma non viene risparmiata dalla visione della fotografia che David riesce a imporle mentre chiacchierano in cucina, durante i preparativi per la cena. «Ecco la mia nuova ragazza» dice.
La reazione di Stella è pronta e il personaggio, prima ancora che ci venga data una descrizione che qualifichi il soggetto della fotografia, opera una traslazione di ciò che vede: «Sembra un lichene. Solo che è un po’ troppo scuro. Mi ricorda del muschio su un sasso».
Ma cos’è che vede Stella incalzata da David, deciso a provocarla a tutti i costi?
Questa descrizione ricorda inequivocabilmente il dipinto di Courbet eseguito nel 1866, L’origine du monde, un dipinto destinato a essere ammirato, per un secolo intero, nell’ambito di un collezionismo sofisticato intellettuale ed esclusivo, dalla raccolta del diplomatico turco Khalil-Bey, suo primo proprietario, fino a quella del celebre psicanalista Jacques Lacan suo ultimo. L’estremo realismo con cui sono raffigurati i genitali di una fanciulla sdraiata, di cui si vedono solo le cosce e la prima parte dell’addome, e la sovrastruttura simbolica data dal titolo furono ritenuti motivi sufficienti a considerare il dipinto come destinato a una fruizione privatissima, quasi nascosta.8
"L’origine du monde" e "Lichen" di Alice Munro di Alessandra Sarchi *
L’immagine, tradotta in fotografia, entra viceversa nel racconto di Munro come oggetto proibito imposto con sfacciataggine all’attenzione. Con l’intento di scandalizzare Stella, che pazientemente ne sopporta le confidenze, David esibisce un trofeo - la fotografia - che dovrebbe testimoniare la sua passione per una giovanissima studentessa trasgressi-va con la quale intende soppiantare la fragile Catherine.9
Ma Stella trasferisce con un paragone visivo l’immagine dal campo erotico a quello funebre-animale (un roditore mutilato) a quello vegetale, (sembra un lichene); smorza la qualità estetica che pure riconosce - nelle gambe lisce, dorate e statuarie come colonne - e ne individua la natura di preda catturata, di residuo inanimato. In poche parole: ne coglie il valore di feticcio.10
L’immagine così riletta da Stella comunica la pena della condizione femminile, come oggetto passivo di desiderio, in cui lei stessa, Catherine e Dina sono accumunate, infatti nello scambio di battute che segue l’esibizione della fotografia risulta evidente il gioco dei ruoli e delle dinamiche antiche fra marito e moglie: David che millanta nuove conquiste amorose e Stella che ostenta freddezza, anche se prova fastidio nel rivedere in questa girandola vacua il fallimento del proprio rapporto con David («A Stella sfugge un sospiro più rumoroso ed esasperato di quanto fosse nelle sue intenzioni»).
Tuttavia l’immagine di una sessualità esibita, provocatoria e feticista, contenuta nella fotografia non è esclusivamente piegata a fare da specchio a una condizione femminile di minorità. Nel corso della cena David si assenta con una scusa per andare a fare una telefonata a Dina. Il telefono al quale la chiama suona a vuoto, David riprova con il numero di quello che sospetta essere il suo amante coetaneo, ma anche questo non risponde. Si fa allora prendere dall’angoscia e dal dubbio di essere a sua volta poco più che un diversivo per una ragazza troppo giovane per essere realmente interessata a lui. Nel frattempo Catherine, rimasta sola con Stella, le confessa che David, ossessionato dalla giovinezza, ha iniziato a tingersi i capelli.
L’umiliazione che, fino a questo punto del racconto, era quasi tutta al femminile diventa fardello comune, anche di David. Tutti, uomini e donne, invecchiano, s’ingannano con amori destinati a evaporare, con struggimenti che consumano. Cosa rimane in questo processo distruttivo? La fotografia, intenzionalmente lasciata da David in casa di Stella. Stella la ritrova una settimana più tardi mentre riordina il soggiorno, dietro le tende in un angolo della finestra. Ovviamente stando al sole è sbiadita, i colori hanno virato: l’immagine, qui alla sua finale apparizione, si è sfuocata del tutto. Le parole di Stella sono diventate realtà. Il contorno del seno è svanito. Impossibile riconoscere in quelle un paio di gambe. Il nero è diventato grigio, la tinta arida e tenue di un vegetale misteriosamente nutrito dalle rocce. «Colpa di David. L’ha lasciata lì al sole».
La fotografia è il lascito di David, l’eredità scomoda di un uomo e di una relazione da cui Stella avrebbe voluto liberarsi. Nel corso della loro vita coniugale, rievocata nel racconto, era stata Stella infatti a dire: «Siamo stati tanto tempo insieme, non si potrebbe tagliare corto ora?». Tagliar corto non è possibile perché David, nella cornice di una ex-coppia emancipata che non ha interrotto i propri rapporti, ha fatto di Stella, in questo compiacente, una confidente delle proprie traversie amorose prolungando un legame sempre pronto a riemergere nei ricordi comuni, nell’irrisolutezza delle reciproche ferite.
Ma il feticcio di David, un oggetto talmente carico di fantasmi che David chiede a Stella di custodirlo per lui, poiché dichiara di sentire l’irrefrenabile desiderio di mostrarlo a Catherine e rompere così nell’immediato una relazione già languente, ha subito una metamorfosi che ne ha rivelato appieno la natura. Bruciati dal sole i colori e i contorni, è emersa l’immagine vera, quella che Stella aveva visto oltre il visibile: di Dina a David non importava un granché, di lei non sarebbero rimasti che una macchia senza sagoma, un ricordo sbiadito e intercambiabile con quello di altre che l’avevano preceduta o che l’avrebbero seguita. Stella intuisce tutto questo al primo colpo, vede oltre quello che David le mostra, prevede l’esito di una storia che s’incarna nella metamorfosi materiale del suo feticcio fotografico.11
La fotografia sbiadita nel momento in cui non restituisce più le fattezze della ragazza, ma solo un mucchietto di pelo, ed è quindi al massimo grado finzione, deformazione e trasfigurazione del reale, coincide con la verità più profonda. Esattamente quello che Munro mette in atto con la propria scrittura piena di dettagli realistici che nulla hanno di meramente descrittivo ma tendono sempre a cogliere la piega in cui la realtà si trasforma in qualcosa d’altro. Il soggetto della fotografia è diventato un lichene, le parole di Stella si sono avverate. E che cos’è un lichene se non una sopravvivenza vegetale che caparbiamente afferma la propria vita sulle rocce inospitali di cui si nutre? Una pianta simbiotica che presuppone un equilibrio stabile con l’ambiente. Non più un animale mutilato ed esposto crudamente al nostro sguardo, bensì una pianta pervicace in grado di sopravvivere nelle condizioni meno favorevoli.
Nell’ipertesto visivo e verbale che Munro costruisce, il lichene, che in inglese si pronuncia in maniera omofona al verbo “to liken” (congiungere, portare insieme per processo di rassomiglianza), quadro e fotografia, David e Stella, maschile e femminile si ritrovano assimilati a un processo di rigenerazione. Come il soggetto del dipinto L’origine du monde voleva essere una riflessione sul luogo oscuro da cui nasce la vita, così il lichene in cui si trasforma, per combustione prima dell’immaginario poi della materia vera e propria, è l’equivalente di un processo di generazione e rigenerazione che avviene per il tramite della parola.
Alice Munro, evitando in questo caso il paragone su cui era basato viceversa il racconto La vergine mendicante, ha operato in Lichene una doppia trasposizione: dal dipinto alla fotografia, dalla fotografia alla sua descrizione verbale, fino alla dissoluzione della sua materialità e alla sua trasformazione metamorfica e metaforica. Ed è tanto più significativo che nella finzione narrativa il dipinto sia stato tradotto in un’immagine fotografica: è alla fotografia che genericamente si attribuisce un valore testimoniale e documentaristico ma nel racconto, viceversa, si rivela ambigua e inaffidabile. Infatti non è il soggetto evidente della fotografia, il ritratto impudico del bacino di una giovane donna, ciò che Stella vede e verbalmente descrive, piuttosto un suo traslato. L’esito di un atto distruttivo, frutto dell’ennesima proiezione della paura di morte e invecchiamento di David che, non a caso, abbandona la fotografia in casa di Stella, per liberarsi del proprio demone.
In questa parabola s’inscrive il disegno delle vite sentimentali di Stella e David, ma anche una metafora della scrittura stessa di Alice Munro.
La fitta ribelle che colpisce Stella è l’incrinatura dove la narrazione di Munro si fa rivelatrice di ciò che soggiace e oppone resistenza al fluire consequenziale degli eventi e dei giorni.
Lichene può essere letto come un manifesto di poetica, poiché rispecchia la trasformazione laboriosa e dissimulata con cui Munro tratta i propri materiali narrativi, solo apparentemente resi al naturale, come il fluire disinvolto e casuale delle conversazioni e dei pensieri dei suoi personaggi.
Il riferimento al quadro di Courbet è perfettamente annegato e assorbito all’interno del testo, tanto che potrebbe sfuggire al lettore che non abbia nozione del dipinto, e non per questo il racconto perderebbe in efficacia espressiva o consequenzialità. La dissimulazione è una cifra profonda della scrittura di Munro, all’interno di quella medietas di vite e di orizzonti che con coerenza racconta, ma è anche un gesto autobiografico: in più di un’occasione Munro ha raccontato la difficoltà di dare a una vocazione, quella letteraria, vista come stravagante e perfino disdicevole, specie per una donna, all’interno della comunità in cui viveva.
La dissimulazione dei riferimenti, specie di quelli colti, e degli artifici rende la sua scrittura prossima agli effetti del più classico naturalismo, ma è in racconti come Lichene che intravediamo la grande manipolazione necessaria al raggiungimento di tale effetto e la fiducia, metaforicamente espressa nella combustione-metamorfosi della fotografia, che solo dopo avere bruciato molto la scrittura possa generare qualcosa di essenziale e destinato a sopravvivere.
È possibile circostanziare il modo in cui Munro venne a conoscenza del dipinto che in Lichene occupa un posto tanto centrale, anzi, che si direbbe al cuore della sua stessa composizione?
Il racconto fu scritto da Munro in un periodo precedente al 1985, prima data di pubbli-cazione. Non sappiamo se la scrittrice fosse a conoscenza dell’ubicazione de L’Origine du Monde, che rimase vaga nella bibliografia fino al 1986, quando Elisabeth Roudinesco nel secondo tomo de L’Histoire de la Psychanalise en France rese noto che il dipinto era stato posseduto da Jacques Lacan e custodito nella biblioteca-atelier della casa di campagna di Guitrancourt, dove lo psicanalista si ritirava per ricevere ospiti insieme alla seconda moglie, Sylvie Bataille. Il dipinto veniva occasionalmente mostrato, e con un certo cerimoniale da parte di Lacan, a visitatori speciali, artisti e studiosi.
Non è possibile escludere del tutto che Munro conoscesse tale ubicazione e i rituali di cui il dipinto era fatto oggetto, ma è più probabile che lo conoscesse attraverso quelle pubblicazioni come il numero 59 dell’«Art Press» del maggio 1982, dedicato all’osceno, o attraverso testi come Le Sexe de la femme di Gérard Zwang (Paris, 1976) o altri manuali di storia dell’erotismo in cui figurava il dipinto, riprodotto sempre con la fotografia, non dell’originale di Courbet, bensì di una fedele copia. D’altra parte, il quadro originale fu esposto al pubblico americano solo in occasione della mostra, Courbet reconsidered, organizzata da Linda Nochlin al Brooklyn Museum of Art nel 1988, mentre in Francia si vide per la prima volta nell’esposizione dedicata dal museo d’Ornans, nel 1991, ad André Masson.
Sappiamo che il dipinto, entrato a far parte della collezione del Museé d’Orsay nel 1995, dopo la morte di Sylvie Bataille (dicembre 1993) che lo aveva ereditato a sua volta in seguito alla morte di Lacan nel 1981, era stato provvisto di un pannello dipinto che ne copriva la vista. Tale pannello era stato espressamente commissionato al pittore surrealista André Masson, cognato di Sylvie Bataille, al fine di procurare una cortina domestica al dipinto di Courbet, che Lacan riteneva opportuno mostrare solo di persona a scelti visitatori, secondo un procedimento di svelamento per iniziati che aveva accompagnato il dipinto fin dalla sua nascita e dall’ingresso nella collezione del primo proprietario, il diplomatico turco Khalil-Bey che lo aveva tenuto, a sua volta, celato dietro un altro quadro.12
Il pannello commissionato a Masson consisteva di un paesaggio dipinto con un morbido tratto bianco su uno sfondo color ruggine; a chi conoscesse il retrostante supporto non sarebbe sfuggita l’analogia: Masson aveva dipinto una specie di negativo dell’originale, un paesaggio sagomato sul corpo nudo femminile in cui i seni erano diventati colline, mentre i ciuffi di pelo dell’organo sessuale in vista erano stati trasformati in un cespuglio.13 La cortina dipinta da Masson era in realtà una rilettura e una trasposizione grafica di per sé allusiva, una variazione sul tema non meno originale e arguta del dipinto di Courbet.
La storia collezionistica del quadro sembrerebbe dunque essere ‘mimata’ e allusa all’interno di Lichene. Darebbe soddisfazione ai filologi sapere che Munro fosse a conoscenza di tutti questi dettagli della vita del quadro: la sua appartenenza al celebre studioso del rapporto fra psicanalisi e linguaggio, il pannello di Masson - che trasfigurava il corpo della donna in vegetazione - così come, nel racconto di Munro, avviene alla fotografia; ma in realtà non ce n’è bisogno. Le opere d’arte provocano fra di loro cortocircuiti dell’immaginazione e risignificazioni, anche in assenza di quelle informazioni così necessarie, invece, al lavoro storico.
Di certo L’origine du Monde, uno dei dipinti meno noti del pittore fino a una quindicina di anni fa, è stato capace di innervare la creatività di numerosi artisti visivi, da André Masson a Marcel Duchamp che aveva incontrato Lacan nel 1958 e che rielaborò il dipinto nel suo Étant données, e numerose, soprattutto dagli anni ’90 in poi, sono anche le rielaborazioni letterarie.14 Tra queste ultime, Lichene è il racconto che meglio ha sfruttato il tema del desiderio e le sue possibilità metamorfiche. Ed è significativo che sia stato scritto quando ancora il quadro non era diventato, come è oggi, l’icona mediatica che contende la celebrità dei musei parigini alla Gioconda, ossia quando ancora l’immagine non era stata consumata e conservava invece intatto il proprio mistero, l’idea di accesso al proibito e la possibilità di rivelazione, la fantasticheria erotica e il culto feticistico iscritti nella sua forma e nella sua storia.
* "L’origine du monde e Lichen di Alice Munro" di Alessandra Sarchi ("Arabeschi",n. 2, luglio-dicembre 2013) - ripresa parziale, senza immagini e senza note.
Ferrara.
Courbet e le seduzioni di Madre-Materia
Il grande pittore francese, che per molti fu il padre del realismo, è al centro di una mostra che esamina il suo rapporto con la natura e il paesaggio. Ma l’impostazione è un po’ scontata
di Maurizio Cecchetti *
Gustave Courbet, "La quercia di Flagey" (1864)
L’idea magnifica dev’essere stata subito scartata: costretti a pagare il dazio per una mostra, quella appena inaugurata a Palazzo dei Diamanti a Ferrara (fino al 6 gennaio 2019), che ha ottenuto tanti prestiti stranieri, molti dalla Francia, ma anche da Washington (il più intrigante, La sorgente della Loue del 1864, mondo sotterraneo e quasi un oltretomba dell’Isola dei morti di Böcklin, che certamente ne prese visione, cui rimanda anche la luce lunare nel Castello di Chillon del 1876); e poi New York, Hartford, Saint Louis, New Haven, Fort Worth, Dallas, Ginevra, Londra, Cambridge, Liverpool, Bristol, Edimburgo, Francoforte, Monaco, l’Aia, Rotterdam, Bruxelles...
Nessun prestito italiano, così mi pare, nemmeno quella tela che il ministro Franceschini fece acquistare nel 2017 da un collezionista milanese e oggi depositata alla Galleria d’arte moderna di Roma, La vague del 1871, che raffigura una marina con due rocce in primo piano (non un capolavoro assoluto, ma certamente intonato al tema della mostra che indaga il rapporto del pittore con la natura e il paesaggio). Insomma, esposizione impegnativa, prestiti anche importanti, curatori e saggisti per lo più espressione delle istituzioni da cui provengono le opere.
La sostanza della mostra è tutta qui e ci si domanda a chi sia venuto in mente di farla. Soprattutto: perché a Ferrara? I saggi in catalogo sono oneste riletture di questioni ampiamente studiate, con qualche deroga dai confini, come nel saggio iniziale dello scrittore inglese Julian Barnes, che lega implicitamente natura, donna ed erotismo in quella che Giovanni Testori, per una mostra a Torino del 1988, chiamò Mater-Materia, da intendersi come corrispondenza fra madre e ciò che riceve la forma.
Barnes, in particolare, torna sul quadro “scandaloso” riemerso dall’ombra nel 1995 quando, per pagare i diritti della successione Lacan, gli eredi dello psicoanalista lo cedettero allo Stato che da allora lo espone al Museo d’Orsay: parlo dell’Origine del mondo, un corpo femminile nudo senza volto che mostra i genitali. Quadro carico di significati e di cui da qualche giorno si conosce anche l’identità della modella che prestò all’artista il suo corpo: non sarebbe Jo la Rossa, l’avvenente moglie irlandese del pittore Wistler, che quando questi si recò a Valparaiso per la guerra ispanocilena, ebbe una relazione con Courbet (che la ritrasse in vari quadri); si tratterebbe invece di Constance Quéniaux, un’ex ballerina dell’Opéra che non ebbe fortuna, finì per prostituirsi, ma poi risalì la scala sociale e fu anche la cortigiana di Khalil-Bey, il diplomatico ottomano che aveva commissionato a Courbet il dipinto.
Questo è quanto ha potuto scoprire il ricercatore francese Claude Schopp studiando le carte di Dumas figlio e ne dà conto in un saggio di prossima pubblicazione L’Origine du monde: Vie du modèle. Thierry Savatier, il maggiore studioso della storia di questo quadro, aveva fatto qualche anno fa l’ipotesi non del tutto peregrina che quel corpo dipinto, che soltanto in seguito prese il titolo L’origine du monde, rappresentasse una donna gravida. Idea suggestiva ma difficile da provare.
Comunque sia, quel quadro è certamente un buon appoggio per interpretare l’orizzonte nel quale la natura diventa per Courbet la carne stessa del mondo, e quindi si può a ragione parlare di Mater-Materia. Come ho avuto occasione di scrivere recentemente a proposito del quadro di Courbet, la ragione per cui l’Origine du monde va oltre le più raffinate obscénités, un tipico prodotto della misoginia erotica borghese, e sfiora soltanto quel limite superato il quale avrebbe potuto diventare un’opera pornografica, sta in ciò che il filosofo cattolico Jean-Luc Marion, parlando di questo dipinto, chiama «ispessimento della realtà» che consente all’Io di guardarla «senza farne una rappresentazione», un fenomeno che trova il proprio principio di esistenza nella pittura stessa che lo rende presente. In effetti, l’Origine du monde non è un joujou per guardoni (come spesso succede tuttavia al d’Orsay) o, come la Venere dei medici del Susini, che secondo Georges Didi-Huberman è la rappresentazione di un meraviglioso, perturbante e perverso giocattolo per uomini di scienza.
Ancora Marion spiega che il quadro di Courbet non è una immagine pruriginosa, ma il luogo pittorico «dove la carne invade tutta la scena»: Mater-Materia, ancora.
Detto questo, la fragilità dell’ipotesi espositiva coordinata da Maria Luisa Pacelli, direttrice di Palazzo dei Diamanti, si coglie anche nella concezione del catalogo (che tra l’altro ha spesso immagini stampate molto male, grigie o scure anche là dove Courbet diventa chiaro, vedi per esempio Bassa marea a Trouville del 1865): perché infatti collocare al centro del volume un’antologia della critica italiana, dal 1870 al 1988, curata da Barbara Guidi, ma non dar spazio a un confronto in mostra con opere di artisti italiani che si sono ispirati al realismo, al naturalismo e al materismo di Courbet?
Il vero atto di coraggio sarebbe stato questo: aprire il catalogo con quest’antologia, far seguire un’adeguata (ma non esagerata, com’è in realtà) sequenza di saggi critici meno convenzionali sul pittore francese e concludere con una ipotesi forse ancor più impegnativa: Courbet e Monet, due vie alla modernità e all’informale.
Questa idea prende spunto dall’impostazione che Francesco Arcangeli dava alla sua monografia su Courbet nel 1956 mettendogli di fronte Monet, e accomunandoli nelle definizioni di Ingres e Cezanne: «Quel giovanotto è un occhio» disse il pittore neoclassico a proposito di Courbet; Cezanne riprese il discorso esclamando: «Monet non è che un occhio, ma buon Dio che occhio!». Di Courbet invece disse: «Il suo contributo è il lirico apparire della natura».
Non dovremmo mai guardare Courbet come un volgare epicureo e neppure come un sostenitore della pittura politica: pur partecipe della Comune, pur sentendosi rivoluzionario (era anche un po’ sbruffone) sono passati questi tempi che avevano nelle falsificazioni ideologiche le loro armi critiche. Il realismo socialista con Courbet c’entra ben poco.
Arcangeli, che nel dopoguerra cominciò a delineare l’orizzonte degli “ultimi naturalisti”, risaliva a entrambi, a Courbet e a Monet, anche se la sua preferenza era per il secondo e il periodo finale di Giverny (i primi ad accorgersi di lui come precursore dell’espressionismo astratto furono appunto i pittori americani).
Sarebbe stato dunque un contributo di studio più proficuo per comprendere le linee su cui si è mossa l’arte nei primi due decenni del dopoguerra, senza nulla togliere credo alle seduzioni che attirano i turisti dell’arte che si drogano di impressionismo. Quadri come La valle della Loue sotto un cielo tempestoso del 1849, Paesaggio di Ornans del 1855-’60, Cascata della Pissouse del 1860, Il ruscello del 1855, La grotta Sarrazine, le due versioni della Sorgente della Loue e La roccia sgretolata, tutte del 1864, o ancora le onde e le marine che dipinge tra il 1869 e i primi anni Settanta dell’Ottocento, hanno al loro interno intere zone dove l’arte di Courbet si consegna alla felicità della pitturapittura, alla libertà della forma che possiede al tempo stesso matericità e autonomia visiva.
Ho citato all’inizio La sorgente della Loue di Washington. Quadro arcano, dove nemmeno le luci della luna hanno accesso, una bocca di caverna che, come le varie tele della sorgente Sarrazine, parlano della notte in cui vaghiamo, come sulla barca di Caronte, in cerca della luce; ma anche come se provassimo nostalgia per la caverna dell’origine o per il grembo materno da cui uscimmo. C’è, in questa visione, un legame col corpo femminile come entità misteriosa, che attrae e spaventa, dove si vorrebbe tornare ma, al tempo stesso, è sentito come prigione. Così le osservazioni di Barnes sull’Origine del mondo ci ricollegano a questo sentimento di Courbet per la natura madre e matrigna, dove il ciclo vitale ha anche le sue leggi ferree e crudeli, che l’uomo crede di dominare, per esempio, attraverso la caccia, come si vede nella sezione conclusiva della mostra, dove svetta l’inquietante “ombra” del Cacciatore a cavallo.
* Avvenire, venerdì 28 settembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
PER NON DIVENTARE UN "BOCCALONE", UNA "BOCCALONE", PENSARE BENE PRIMA DI APRIRE LA BOCCA... *
Dalle masse di gas sulfurei che dalla "fessa" della Madre Terra salivano in superficie nella zona di Delfi (o se si vuole, di Cuma), nell’antica Grecia (nell’antica Campania), la Sibilla sapeva saggiamente (e ambiguamente) portare alla luce una figura (e una risposta) piena di significato da interpretare, da decifrare.
Se è vero, come è vero, che "nessuno di noi avrebbe potuto aprir bocca a questo mondo" e (mangiare e) dire qualcosa, se non ci fosse stato (e non ci fosse) "L’origine du monde" ( si cfr. "DA DOVE VENIAMO? CHI SIAMO? DOVE ANDIAMO?"), il problema è proprio quello di capire che cosa vogliamo significare con l’espressione "quiddhu è nnu FESSA" (quello è una "bocca aperta"), "queddha è nna FESSA" (quella è una "bocca aperta") - e saper distinguere tra (il cibo sano e) le notizie vere e (il cibo "adulterato" e ) le notizie false ("fake news"), tra ev-angelo ("buona-notizia") e vangelo (van-gelo, che "cattiva-notizia"!), tra "dio" (amore, "charitas") e "mammona" (caro-prezzo, "caritas"!).
ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE: “FAQ”, “FAKE”, “FUCK”, ORMAI DI USO COMUNE.
Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo! Dante l’ha detto da tempo. O no?!
Avendo letto l’intervento di Sergio Notario e molto apprezzato il suo riferimento all’eufemismo piemontese ("Bòja Fàuss"), colgo l’occasione per ricordare che anche in Piemonte c’è la presenza delle Sibille (di cui qui - e altrove si è parlato) e segnalo a Lui e alla redazione della Fondazione il lavoro di Marco Piccat, "La raffigurazione delle Sibille nel Saluzzese e nelle zone circostanti".
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. -- "FAKE" E "WAKE": LA BACCHETTA DELLA VITA. UNA LEZIONE DI JAMES JOYCE.
Massimo Recalcati nel suo nuovo saggio racconta come i grandi pittori ci indicano una via laica al sacro
Per avvicinarci all’Essere ci resta solo l’arte
di Gregorio Botta (la Repubblica, 19.11.2016)
Quando la psicoanalisi si avvicina all’arte gli esiti sono raramente felici: la tentazione di scavare nelle psicologie degli autori, di rintracciare ferite biografiche, di leggere l’opera come un sintomo è forte. Massimo Recalcati lo sa e nel suo “Il mistero delle cose”(Feltrinelli) dichiara subito che non correrà questo rischio: «In questo libro l’uso della psicanalisi per leggere l’opera ha rifiutato metodicamente ogni sua applicazione patografica». L’arte non è un paziente, e non va messa sul lettino. Bene.
Allora perché parlarne inforcando gli occhiali di Lacan?
Perché si muove sullo stesso terreno della psicoanalisi: l’una e l’altra parlano della stessa cosa, sono impegnate nella stessa lotta di Giacobbe con l’angelo sconosciuto. È la battaglia per dare forma a ciò che è «irraffigurabile, all’alterità assoluta che sfugge sempre alla rappresentazione». La missione è avvicinarsi il più possibile al mistero dell’essere, portare l’uomo sulla soglia dell’indicibile.
Ungaretti cercava di «popolare di nomi il silenzio». È questo che deve fare l’arte secondo Recalcati. Per il suo libro ha scelto nove artisti (Giorgio Morandi, Alberto Burri, Emilio Vedova, William Congdon, Giorgio Celiberti, Jannis Kounellis, Claudio Parmiggiani, Alessandro Papetti e Giovanni Frangi), alcuni del secolo scorso altri nostri contemporanei, tutti italiani di nascita o di adozione. Sono autori molto diversi tra loro (e non solo per fama e mercato). È difficile immaginare - per esempio - due artisti più lontani di Vedova e Parmiggiani: il primo un espressionista radicale ed estremo, l’altro un silenzioso poeta dell’assenza. Eppure, leggendo i densi saggi che Recalcati dedica a ognuno di loro si scopre il sottile filo rosso che lega l’uno all’altro: tutti sacerdoti solitari di un movimento che insegue il sogno di rendere visibile l’invisibile, come diceva Paul Klee, di toccare il mistero delle cose, (la definizione che dà il titolo al libro è di Kounellis).
Prendiamo Morandi: nessuno certo si sogna di leggere la sua opera solo come quella di un semplice artista figurativo, ostinato oppositore delle correnti astrattiste del suo tempo. Le sue nature morte racchiudono una visione profonda. Compito del pittore - scriveva lui stesso - «è far cadere quei diaframmi, quelle immagini convenzionali che si frappongono tra lui e le cose». Dunque non si tratta solo di dipingere vasi e barattoli con i magnifici colori tonali della sua tavolozza. Si tratta di molto di più: di rompere gli schemi visivi e mentali con cui siamo abituati a classificarli, registrarli e anestetizzarli nella nostra coscienza. Si tratta di rivelare la stupefacente intensità della loro presenza. È un lavoro lento, paziente, ripetitivo - quasi una preghiera laica quotidiana - il cui scopo è cogliere l’eternità degli oggetti immersi nel tempo. La bottiglia, dunque, è molto di più di una bottiglia, è «l’icona di un assoluto altrimenti irraggiungibile, evoca la presenza della Cosa, del reale in quanto impossibile da rappresentare».
Morandi insegue questo obiettivo puntando a una progressiva smaterializzazione dei suoi oggetti: li sfinisce e li consuma a forza di osservarli e dipingerli. Negli ultimi acquerelli gli oggetti sono talmente rarefatti da diventare puri segni, ciò che resta di loro levita in uno spazio luminoso, anzi diventano quello stesso spazio luminoso. È la trasfigurazione finale: «È questo, se si vuole, il cristianesimo di fondo della sua opera. Dio ha il volto dell’uomo».
Percorsi paralleli compiono gli altri otto artisti: dalle ferite di Burri che aprono una squarcio sull’inconscio dell’opera all’energia di Vedova che invece produce inconscio; dall’americano Congdon folgorato in Italia dal crocifis- so a Celiberti ossessionato dai muri dopo un viaggio negli orrori del campo nazista di Terezìn; dalle visioni di Papetti che emergono dalla fanghiglia al viaggio al termine della notte e del nero di Giovanni Frangi; dalle ombre di fumo che dipingono il tempo di Parmiggiani a Kounellis, che evoca il sacro mettendo in scena semplici e comuni oggetti.
Ecco, il sacro: tabù dell’Occidente, grande rimosso del nostro tempo. Forse è questo il tema vero del libro di Recalcati. «L’arte comporta una vocazione sacra, se per sacro si intende l’accesso alla relazione con ciò che sfugge a ogni principio di relazione». Sacro, quindi, come mistero irriducibile dell’essere, non come territorio di questa o quella religione: anzi se c’è una cosa da cui gli artisti devono fuggire è la scorciatoia del contenuto, la tentazione di mettere in scena narrazioni descrittive. L’opera non racconta, è. Incarna quella che Lacan chiamava estimità: una definizione che nasce da un ossimoro apparente, la congiunzione di un sentimento di intimità e di estraneità. «La sua estimità sta nell’essere una parte del mondo e insieme un’apparizione che esorbita la scena consolidata del mondo». La bellezza, diceva Rilke, non è che il tremendo al suo inizio.
Certo sono parole inattuali. Il mainstream è un altro: tra gli smalti brillanti del post-pop e i manifesti di un’estetica dedicata all’impegno politico, tra le ultime e stanche provocazioni e i bombardamenti sensoriali di mezzi digitali sempre più potenti, le vie imboccate dall’arte dei nostri giorni sono diversissime. Ma non bisogna lasciarsi spaventare dalle mode contemporanee: Agamben ci ha ricordato che è davvero contemporaneo solo chi non coincide perfettamente col suo tempo, e proprio per questo è capace di percepirlo. In fondo l’arte è nata dal rapporto con il sacro. E proprio quando ci ricorda che è ancora questo, oggi, il suo compito, Recalcati non coincide con il suo tempo. Ciò che rende tanto più necessario il suo libro.
I tabù del mondo
Se il desiderio si trasforma in una trappola
La mantide religiosa incarna la femmina assassina e mostra il nesso tra godimento sessuale e morte Lacan usa la sua immagine per spiegare che l’angoscia non sorge dal confronto con la nostra libertà ma quando ci sentiamo ridotti ad oggetti passivi e siamo dati in pasto alle pulsioni dell’Altro
Questo cannibalismo atroce che fa tremare l’immaginario maschile si ritrova nei fantasmi della letteratura popolare e in quelli dei nevrotici studiati da Freud
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 04.09.2016)
Uno strano e inquietante insetto ha da sempre catturato attorno a sé l’interesse degli studiosi più diversi. Si tratta della Mantide religiosa. Il suo nome antico di Mantis, che significa “profetessa”, è già significativo di un certo alone di sacralità che la circonda. Rogers Callois, fondatore nel 1938 con Georges Bataille e Michel Leiris del celebre Collegio di Sociologia, né ha, in pagine memorabili contenute ne Il mito e l’uomo, scolpito il ritratto.
La caratteristica principale di questo insetto femmina, dalle proporzioni infinitamente più grandi di quelle del maschio, è quella di divorare il proprio partner durante o dopo l’accoppiamento sessuale. Ma il suo “carisma” non si realizza solo in questo modo.
Al suo sguardo era attribuito sin dall’antichità un potere magico. Nella Roma imperiale si diceva che se qualcuno cadeva malato era colpa dello sguardo della Mantide che era caduto sullo sventurato. Ma il punto cruciale che ha reso questo insetto un oggetto di studio costante nei secoli resta indubbiamente la convergenza inquietante di appetito sessuale e voluttà alimentare.
In un articolo del 1784 scritto da J.L.M. Poiret viene resa nota l’osservazione della Mantide che decapita il maschio prima di accoppiarsi con lui per divorarlo interamente dopo la copula. Questo cannibalismo atroce non può non fare tremare l’immaginario maschile. Gli etologi si sono interessati alle ragioni di questo comportamento.
Per alcuni l’orrenda decapitazione del maschio prima del rapporto sessuale è finalizzata ad incentivare i movimenti spasmodici del coito rendendo l’erezione più turgida. Ma l’insaziabilità della Mantide si manifesta altresì nel fatto che proprio durante il coito inizia il divoramento del suo amante.
Decapitato e divorato il povero mantide si trova senza alcuna voglia ad essere protagonista di uno dei peggiori incubi di Dario Argento. Si tratta di un cannibalismo primordiale che mescola insieme la pulsione sessuale alla pulsione orale. Ella non gode dell’organo sessuale del maschio ma del suo corpo intero.
Nella lettura popolare di tutti i tempi il motivo degli spettri femminili che divorano i loro amanti è assai ricorrente. Si tratta di creature demoniache che hanno solitamente l’aspetto di donne di estrema bellezza che seducono le loro vittime prima di nutrirsi del loro corpo. La stessa vagina si presta in questi racconti a diventare una sorta di arma micidiale che anzichè provocare il piacere del maschio lo può inghiottire minacciosamente.
Callois riporta a questo proposito un racconto eschimese dell’Ottocento dove un celibe viene sedotto da una bellissima giovane. Nella notte d’amore trascorsa insieme, l’uomo finì però per sprofondare letteralmente nel corpo di lei fino a scomparire del tutto. Al risveglio mentre la bella preda uscì dall’igloo per urinare, espulse dalla sua vagina lo scheletro del suo povero amante! Freud stesso aveva rintracciato la frequenza dell’immagine della vagina dentata nei fantasmi sessuali dei nevrotici a cui, per esempio, riconduceva il sintomo dell’eiaculazione precoce.
Il tabù della Mantide inscena quello della femmina assassina che avvelena, contagia, inghiotte, divora il maschio che vorrebbe godere di lei. Ma più in generale mostra il nesso profondo che unisce il godimento sessuale alla morte. È un tema ampiamente sviluppato da Freud: esiste una prossimità profonda tra il pieno soddisfacimento sessuale e l’esperienza della morte.
Jacques Lacan nelle lezioni di apertura del Seminario X (1962-63) dedicato al tema dell’angoscia ha rievocato lo spirito maledetto della Mantide religiosa. Volete sapere quando si prova l’angoscia? Volete sapere in che condizione ci si trova quando si è angosciati? Lacan porta i suoi allievi a seguirlo in un sentiero stretto. Diversamente da quello che pensavano Freud, Heidegger e Sartre l’angoscia non è senza oggetto, non è percezione del nulla o della nostra libertà. Egli rievoca la Mantide per contestare l’idea di matrice esistenzialista che l’angoscia ci confronti con la nostra libertà più propria e con il dilemma della scelta.
Dalla Mantide Lacan trae un altro insegnamento sull’angoscia: essa sorge non quando siamo confrontati con la nostra libertà ma, al contrario, quando ci sentiamo ridotti ad oggetti passivi del desiderio dell’Altro che si para dinnanzi a noi come un enigma invalicabile. È quello che avviene in un bambino inerme di fronte all’onnipotenza dell’Altro che si prende cura di lui. Cosa vorrà da me? Cosa mi farà? Mi divorerà, mi ucciderà o mi risparmierà? L’angoscia appare quando siamo confrontati con il carattere radicalmente enigmatico del desiderio dell’Altro.
La figura della Mantide religiosa si presta più di ogni altra ad incarnare questo carattere. Provate, dice Lacan ai suoi allievi sbigottiti, ad immaginare di essere di fronte ad una Mantide e pensate di avere stampata sul vostro volto l’immagine del mantide maschio e, dunque, di conoscere la sorte spaventosa che vi attende. Immaginatevi cioè di essere “presi” come oggetto del godimento dell’Altro.
Ecco questa condizione è all’origine dell’angoscia: essere gettati in pasto al desiderio dell’Altro, assoggettati, subordinati, sovrastati dal desiderio dell’Altro. In questo senso l’angoscia non segnala affatto la nostra libertà ma il sentirsi inchiodati all’immagine dell’oggetto del godimento dell’Altro - del mantide maschio - senza alcuna possibilità di fuga.
I tabù del mondo
Non crediamo più nel miracolo della pittura
Scultura, video, performance, invenzioni multimediali... Nel nostro tempo sembra non esserci spazio per i quadri. Eppure i grandi artisti hanno sempre cercato un rapporto con l’assoluto, l’irraffigurabile, l’impossibile
Qualcuno, come fece Morandi, raccoglierà la sfida? Avrà il coraggio di dipingere per dare voce al silenzio?
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 17.04.2016)
Le tendenze egemoniche dell’arte contemporanea hanno ormai da tempo sentenziato la morte della pittura. Scultura, video, fotografia, performances, installazioni, Body art, invenzioni multimediali, giochi interattivi, hanno ormai occupato i musei decretando lo stato marginale, comatoso e destinato all’estinzione, della pittura. Tutti sembrano concordi: il gesto estremo di Jackson Pollock che piazza la tela a terra sgocciolandovi sopra del colore avrebbe dato la stura ad un movimento di uscita fuori dal recinto limitato e asfittico del “quadro” che non conosce ritorni possibili.
Non mancano i teorici più radicali di queste tendenze che considerano la pittura orfana di uno spazio bidimensionale che farebbe sussistere una versione ancora fatalmente “modernista” e anacronisticamente idealizzata dell’opera d’arte (tra i tanti possibili mi limito ad evocare Bois e Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondadori 2003).
Dunque buttare nella pattumiera la pittura, come un residuo arcaico del Novecento, sembra essere un cavallo vincente del conformismo intellettuale del nostro tempo. Ad esso si accompagna il culto sempre crescente dell’escrementizio, del rifiuto, dello scarto, dell’abietto, dell’informe, dell’orrido, del vandalismo, dell’esibizionismo ostentato, dell’osceno, della provocazione e della trasgressione perversa (sempre più farsescamente e paradossalmente conformistiche) unito a quello, diametricalmente opposto, della diuresi concettuale, dell’evaporazione minimalistica, della sterilizzazione concettuale dell’opera. Il principio ispiratore è che l’arte deve trascendere la dimensione formale del suo oggetto per coincidere con l’azione stessa dell’artista.
La genesi sublimatoria dell’opera, come viene chiarita da Freud e da Lacan, che comporta, invece, una elevazione dell’oggetto artistico (di qualunque materiale esso sia composto) alla dignità di una icona, subisce un brusco cambiamento di direzione: dall’elevazione alla degradazione, dall’idealismo ingenuo della superficie pittorica al carattere informe, sensoriale, materiale e tecnologico delle nuove pratiche dell’arte. Alla natura verticale della sublimazione si sostituisce quella orizzontale della desublimazione “basso materialista”. Il coro sembra uniforme e compatto e non lascia speranze: la pittura non ha più posto nelle tendenze egemoni dell’arte contemporanea.
L’isolamento di coloro che nel nostro tempo non rinunciano ad essere pittori ricorda l’insuperabile lezione di Giorgio Morandi che in piena tempesta avanguardista e sperimentale, attraversando il sangue della seconda guerra mondiale, riesce a mantenersi assolutamente anacronistico rispetto alle “mode” imperanti del suo tempo restando fedele alla pittura. Egli continua a pensare e a praticare la “sua” pittura come pittura di cose. Dipinge bottiglie, caffettiere, tazze e fiori, non come semplici presenze nel mondo ma come cifre del mistero dell’assoluta presenza e dell’assoluta assenza.
Nella fedeltà morandiana allo Stesso non risiede una lezione alla quale dovremmo guardare con ammirazione? Non sarebbe auspicabile tornare alla grandezza pura di questa fedeltà? È qualcosa che si può ritrovare anche in artisti contemporanei come Jannis Kounellis o Claudio Parmiggiani che, sulla scia di Alberto Burri, pur avendo dilatato il confine del “quadro”, hanno, non a caso, sempre voluto essere considerati dei pittori.
Ma cosa significa essere pittori senza quadro? Significa non cedere sul compito più alto della grande arte. Quale? Quello di provare a raffigurare quello che sfugge alla raffigurazione, di rendere visibile ciò che sfugge al visibile, di dare, come scrive Parmiggiani, “voce al silenzio”. Ma non è forse diventato un vero e proprio tabù ricordare che l’opera d’arte, come sanno bene i grandi artisti, intrattiene sempre un rapporto con l’assoluto, con l’irraffigurabile, con l’impossibile, con tutto ciò con cui non è possibile stabilire alcun rapporto?
Certo, nella storia dell’arte questo “assoluto” è stato nominato in modi differenti (Cristo, il volto dei santi, la Natura, l’Infinito, il Colore, la Materia, ecc.), ma in ciascuna sua espressione ritorna l’idea dell’opera d’arte come un ponte che, come ha dichiarato Jannis Kounellis, deve poter aprire sul “Mistero delle cose”. Questo significa che l’opera d’arte quando è tale vive della sua sola immanenza anti-illustrativa - ogni opera non vuole dire niente, non significa niente se non se stessa -, ma proprio per questo deve rifiutarsi ad ogni sua riduzione tautologica.
L’immanenza dell’opera porta infatti sempre con sé l’apertura di una trascendenza come una piega interna della sua totale immanenza. Lo si vede magistralmente nelle sagome delle bottiglie di Morandi come nei sacchi di Burri, nelle Delocazioni di Parmiggiani, come nei binari coi sacchi di carbone o negli abiti trafitti da croci di ferro di Kounellis.
Qualcuno, come fece Morandi e come hanno fatto con mezzi diversi artisti come, appunto, Burri, Kounellis e Parmiggiani, raccoglierà la sfida che il nostro tempo getta sulla grande arte? Farà ancora esistere il miracolo di una forma sottratta al culto dell’abietto o al minimalismo sterile della tautologia? Qualcuno avrà il coraggio di fare esistere ancora la pittura come apertura inaudita sull’invisibile? Come invocazione e preghiera dell’assoluto?
L’elevazione dell’oggetto artistico alla dignità di un’icona lascia il posto alla degradazione e al carattere informe delle nuove pratiche
La Vagina di Anish Kapoor semina il panico a Versailles
L’artista anglo-indiano Anish Kapoor inaugurerà il prossimo 7 Giugno la sua installazione "Dirty Corner" a Versailles. Ma cosa succede se l’opera in questione rappresenta dichiaratamente l’organo genitale femminile? È questo l’oggetto della polemica che in questi giorni infiamma la Francia.
di Marina Piccola Cerrotta (Fanpage, 6 giugno 2015 - ripresa parziale).
Come già era successo in precedenza con l’opera di Paul McCarthy, il sex toy chiamato "Tree" in Place Vendrome, la Francia non riesce a convivere serenamente con la prossima installazione di Anish Kapoor, che avverrà il 7 Giugno a Versailles. Il "Dirty Corner" (Angolo Osceno), così si chiama l’opera, sta causando un’enorme polemica, e prima ancora di essere inaugurata. Ma come mai un artista così famoso e geniale viene contestato dalla patria della "liberté"?
Anish Kapoor e il Dirty Corner
in foto: L’artista Anish Kapoor e il suo Dirty Corner
Anish Kapoor è conosciuto come uno dei più grandi interpreti del panorama dell’arte contemporanea mondiale. Le sue opere, è risaputo, tendono verso tematiche sessuali, e non è la prima volta che nei suoi lavori compaiono rappresentazioni di organi genitali. L’ultima volta è stata a Marzo, nella Lisson Gallery di Londra, dove la vagina è stata rappresentata in marmo rosa, con un incredibile tocco di sensualità. Consapevoli del fatto che l’opera di Kapoor si basa anche su questo, perché si grida allo scandalo? Pare che l’oggetto della discussione sia la location scelta per il "Dirty Corner". A detta dei francesi, infatti, questo tipo di installazione a Versailles macchierebbe la compostezza e lo sfarzo di quella dimora che è stata la casa della famiglia reale. Tale affermazione potrebbe essere condivisibile, se solo non vi fosse stata un Rivoluzione contro la monarchia; se solo, proprio a causa della famiglia reale, la Francia non avesse sofferto la fame; se solo Maria Antonietta e Luigi XVI, come tanti altri, non fossero stati ghigliottinati. A questo punto, pare proprio che Versailles sia molto più audace di quanto i francesi vogliono far credere.
Dirty Corner e una statua della reggia di Versailles
in foto: Il contrasto tra il Dirty Corner e una statua della Reggia di Versailles
L’arte di Kapoor è incredibilmente complessa, e si concentra molto sui colori. Il loro utilizzo è strettamente legato alla cultura indiana da cui proviene, e ognuno di essi ha un significato preciso per l’artista: il rosso è passione, il blu ha un’accezione spirituale ed infinita. In Dirty Corner è presente non solo il concetto di unità spaziale, al cui interno le opere si inseriscono modificando l’ambiente, ma anche quello della sessualità, tema a cui Kapoor fa costantemente riferimento. La sua affinità con la corrente dell’Arte Povera lo porta anche ad avere un’incredibile attenzione per l’uso dei materiali, come il già citato marmo rosa, il granito o il gesso, solo per dirne alcuni. Il suo lavoro va dall’ispirazione allo studio, nei minimi particolari, della realizzazione del suo lavoro. È un fantastico conoscitore dei pigmenti e delle loro qualità, e li usa sapientemente all’interno delle sue opere, coniugando architettura e sostanza, e creando opere in cui la percezione dello spazio da parte dell’occhio umano viene alterata. È il caso di "The dark brother" al Madre di Napoli dove l’artista anglo-indiano crea un vuoto all’interno del pavimento del Museo, ma ne ricopre la superficie con un pigmento nero che non fa risaltare la luce. Il risultato, è la sensazione che si tratti di qualcosa che è solo disegnato in superficie.
The Dark Brother, Anish Kapoor
in foto: The Dark Brother di Anish Kapoor a MADRE di Napoli
Se l’opera degli artisti contemporanei, dunque, si basa su tematiche tanto moderne quanto a volte spudorate, è giusto storcere il naso e puntare il dito (ancora una volta) contro tali installazioni? La nostra epoca artistica è quella in cui sentiamo il peso di ciò che è stato già fatto. L’arte ha bisogno di sperimentazioni, di strade nuove. Ha bisogno di respirare. Ed è ciò che Anish Kapoor si propone di fare. D’altronde, potrebbe non essere la "vagina" in quanto tale a destare scalpore, quanto le modalità con le quali è stata creata, e il fatto che l’arte contemporanea non va proprio a genio a tutti, soprattutto se contrasta con opere artistiche ed architettoniche antiche. Molto prima di Kapoor, infatti, c’è stato Gustave Courbet. E pare proprio che per quanto riguarda la sua Origine du Monde non si sia ancora gridato allo scandalo. Almeno non ancora, dal 1866.
Gustave Courbet, L’Origine du monde
in foto: L’Origine du Monde di Gustave Courbet
continua su: http://www.fanpage.it/la-vagina-di-anish-kapoor-semina-il-panico-a-versailles/
http://www.fanpage.it/
Per chi suona l’ora della fine del maschio
di Julia Kristeva *
La virilità appare in crisi perché si trasforma. Da sempre? Ho potuto constatarlo a Versailles, alla luce del sole. Nella sala del pendolo di Luigi XV troneggia, sotto forma di mobile sprezzantemente osceno, un orologio astronomico impostato per segnare l’ora sino al 9999. Il robot androide (fantoccio fallico, ode a Priapo) divarica le gambe rococò per mettere in evidenza la potenza virile che si suppone governi il regno, uomini e donne, la terra e le stelle.
Che quell’essere scabroso sia stato agghindato con tutti gli intarsi dorati di Francia per nascondere l’inizio della fine del maschio occidentale, del maschio in generale?
Il pendolo, progettato dall’orologiaio reale Claude-Siméon Passemant, ci prova: l’automa androide è un sosia di Luigi XV. Il re "beneamato", che com’è noto rimase sempre un orfano ansioso, fu un cacciatore intrepido ed è passato alla storia come predatore sessuale: innanzitutto della propria sposa (dalla quale ebbe dieci figli, tre morti in giovane età), e poi delle tante amanti "grandi" e "piccole" (ebbe almeno 14 figli illegittimi). Senza contare che Madame de Pompadour, non paga d’essere la favorita, pare si atteggiasse a primo ministro, prendendosela con lo sfrontato orologiaio che si permetteva di esporre gli ingranaggi fisici dell’autorità.
A meno che l’ingegnoso artigiano non abbia invece voluto proclamare di fronte alla corte e al mondo, stupefatti, che la "virilità" - maschile, monarchica, politica - fosse sul punto di scomparire. "Signore e Signori", dice in sostanza l’ingegnere del re, "il personaggio principale altri non è che il Tempo, accompagnato solo dai suoi: coloro che lo sanno misurare, calcolare, riprodurre, pensare...". Questo, perlomeno, è ciò che sostiene Nivi, una psicologa che mi assomiglia e che ritiene che i francesi siano in anticipo sugli altri quando annunciano al mondo intero che "il re è nudo" e il maschio pure. Le "folies françaises" non sono nate con il Sofitel o il Carlton.
La virilità, mito superato e realtà indispensabile, cosa sarà mai, in effetti? La prestazione di un atleta sessuale? L’autorità del maschio? L’arte di vivere propria di un essere umano dotato di cromosomi e testosterone? La sua parola, la sua scrittura? La paura della castrazione? Terribile o giubilatoria, questa sottopone la sessualità maschile a una prova radicale e complessa. Georges Bataille (rivista L’Acéphale, 1936-1939; L’Erotisme, 1957) ne ha sondato i tormenti e i trionfi estatici, sino alla decapitazione praticata oggi dagli jihadisti folli di Dio. Questo rito immemore e antichissimo concretizza lo spettro del perdere e del far perdere l’organo capitale (testa e/o pene), e attizzando l’abiezione mortifera dei fanatici mobilita industrie militari, mafie, trattative politiche e voyeurismo iperconnesso.
Rimane la virilità simbolica, il cui mito si rifugia ormai negli eroi dei tempi moderni. "Il sapiente", sereno, ascetico. "L’artista", che si diverte proclamandosi "ateo del sesso": la sua libidine è interamente assorbita dall’invenzione di nuovi linguaggi, si perdona e ci perdona, accompagnato da un’intensa miscela di spiritualità. E infine "il politico", ultimo custode della posa fallica: ne gode, ne approfitta, se ne fa grande e non l’abbandona soprattutto nelle inevitabili traversate del deserto, poiché questa fede senza innocenza non conosce la parola "mai".
Il matrimonio è alla portata di tutti, certuni e certune preferiscono coprirsi il volto con un velo, mentre altri vogliono essere tutto e avere tutto... L’emancipazione delle donne e i loro progressi sociali, che accentuano la bisessualità fisica delle madri e delle amanti, oggi sconvolgono gli uomini, che di fronte a loro percepiscono un «rischio di omosessualità» (Colette) - a meno che non si tratti di una speranza.
Il maschio occidentale tuttavia non ha perso, benché le vite quotidiane siano più difficili da elaborare rispetto alle tecniche, alle rivoluzioni, alla governance politica, al culto o alla blasfemia. Nuovi legami amorosi sono più che mai necessari, perché i due sessi - che non se ne stanno tranquilli sulle due sponde della differenza sessuale - accordino le proprie esperienze interiori, i loro stati quantici. (Traduzione di Marzia Porta)
* Julia Kristeva (nella foto), linguista, psicanalista, filosofa e scrittrice, ha appena pubblicato in Francia il romanzo L’horologe enchantée (Fayard) e il 22/6 sarà al 17° Suq Festival di Genova per la prima rappresentazione italiana del suo testo teatrale Teresa mon amour.
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Quel gesto spudorato con cui le donne cambiarono la storia
Per la prima volta un libro fotografico racconta il simbolo delle lotte femministe
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 03.07.2014)
QUASI sempre sorridono. E anche quando la bocca disegna rabbia, lo sguardo è ironico, luminoso, fiero della nuova sfida. Ridono le donne, così meravigliosamente diverse tra loro. Giovani e vecchie, anche molto vecchie, filiformi e grasse, borghesi up-to-date e casalinghe in vestaglia, botticelliane e goffe, tutte lunarmente distanti da canoni estetici omologanti. Sono le donne degli anni Settanta, ritratte mentre compongono nell’aria quel gesto spudorato che segnerà la storia del femminismo. Un triangolo fatto con le dita, unendo le punte dei pollici e quelle degli indici. In mezzo il vuoto, il varco di libertà attraverso cui passò una rivoluzione. Forse l’unica che ci siastata veramente in Italia.
È merito di una piccola casa editrice, Derive Approdi, riproporre dopo quarant’anni l’album fotografico del gesto iconico delle lotte femministe. Nelle mani era custodito lo scandalo. Le dita ribelli annunciavano al mondo che le donne erano padrone: del corpo, della sessualità, della contraccezione. Di nuove relazioni sentimentali e sociali. Di un modo diverso di stare a casa, in fabbrica o all’università. E di un nuovo immaginario che ribaltava logiche patriarcali.
La favola bella della costola di Adamo era finita. Cominciava un’altra storia, narrata per la prima volta da una voce femminile ( Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte , a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, pagg.168, euro 20). Ma come nacque quella “mossa simbolica” destinata a sconvolgere un paese che ancora ammetteva il delitto d’onore, “le pene corporali” dei mariti e dei padri, un diritto di famiglia arretrato? Al pari di tanti segni consegnati al mito, è difficile rintracciarne l’origine.
Rovistando tra le memorie femministe, Laura Corradi ci conduce a Parigi, tra migliaia di persone riunite alla Mutualité. È il 1971, l’atmosfera carica di pathos. Performance musicali, filmati e testi recitati evocano le violenze contro le donne. Tra gli ospiti illustri anche Simone de Beauvoir. Dalla platea s’alza una giovane militante italiana che unisce pollici e indici per aria. Il gesto della vagina.
«Istintivamente mi venne da fare così», racconta ora Giovanna Pala. «Il simbolo, per la prima volta, l’avevo visto sulla copertina di una rivista francese, Le Torchion Brule . Mi aveva colpito per l’immediatezza del messaggio. Quando alcuni ragazzi alzarono il pugno chiuso, io feci quell’altro segno, anche per affermare la mia diversità». L’Espresso, ancora in formato lenzuolo, uscì con una foto di Giovanna in copertina. E in pochi mesi l’impudico gesto si sarebbe impadronito del movimento delle donne.
Se molte cose del femminismo le avevamo importate dal Nord America, la rivoluzione del triangolo fece il percorso inverso, dall’Europa a New York. Bisogna però aggiungere che Oltreoceano, sin dalla metà degli anni Sessanta, la Vagina painting della giapponese Kubota aveva inaugurato la stagione creativa delle Betty Dodson, Judy Chicago e Niki de Saint Phalle, tutte decise a violare nell’arte il tabù dell’iconografia vulvare. Per l’ignaro Courbet dell’ Origine del mondo cominciava un’epoca di rinnovata fortuna.
Non tutte le donne approvavano. Molte se ne ritraevano con fastidio o ne denunciavano l’ambivalenza. Miriam Mafai, rievocando le piazze ardenti di quegli anni, confessa lo smarrimento delle più anziane. Anche Paola Agosti, sapientissima fotografa del movimento, ammette la fatica del confronto con “l’ideologia femminista”.
E gli uomini? Tra tante militanti, sociologhe, antropologhe, filosofe, storiche dell’arte e registe interpellate dal Gesto femminista , s’avverte la mancanza di una voce maschile. Come reagirono alla provocazione? “Sordi” e “ciechi”, sintetizza nel suo bel saggio Letizia Paolozzi. Sappiamo poco di ciò che accadde all’identità dell’uomo. Quasi nessuno intercettò il baldanzoso gesto che rovesciava il mondo. Ritirarsi nel proprio guscio fu la pratica più diffusa. Far finta di niente, sperare che la ricreazione finisse. Ma la campanella sarebbe suonata troppo tardi.
E oggi, cos’è rimasto del significato politico di quel simbolo? Se esporre allora l’organo della sessualità ebbe un’innegabile carica dirompente, riproporlo oggi diventa un atto imputabile di ambiguità. Consegnato il gesto delle mani al robivecchi del femminismo, sopravvive invece il segno genitale che in anni più recenti ha nutrito in America l’iconografia delle Vagina Warriors e del V-day. Una bandiera estetica che rischia di annacquare la portata sovversiva delle origini.
Le “vagine parlanti” di Eva Ensler - nota con lucidità Laura Corradi - tendono a inchiodare le donne al sesso biologico, esattamente come nel passato. La sessualità diventa la componente predominante dell’identità femminile, lasciando in ombra quelle trasformazioni sociali ed economiche che un tempo erano parte essenziale della protesta. Lo spiegano bene le femministe culturalmente più agguerrite: emanciparsi non significa solo far carriera o amabilmente colloquiare con il proprio organo sessuale.
Non è un caso che sull’attivismo nordamericano cresciuto intorno ai Monologhi della Ensler siano fioccate accuse di colonialismo: è la critica mossa dalle donne escluse, quelle del vasto mondo non occidentale. Anche sul topless delle Femen, le studentesse che mettono in mostra il corpo al posto delle armi, s’allunga il sospetto di voyerismo. E qualche perplessità sollevano gli show che spettacolarizzano il dolore delle donne puntando sull’effetto mediatico e su corpi attraenti.
Il salto di civiltà viene disegnato anche dalle diverse “parole d’ordine” scandite nel tempo. Da “Il corpo è mio e lo gestisco io”, didascalia del femminismo storico, a “Figa è bello” e “Fuck me” ora orgogliosamente esibiti su magliette aderenti. Ancor più di poderosi trattati, pochi slogan possono raccontare il tramonto di una speranza collettiva. E spiegare perché oggi le ragazze, molto più libere sessualmente, sorridano di meno di quelle nonne assai più libere nella testa.
Noi Donne
Le attività, i pensieri e i movimenti di genere
I settant’anni della rivista dove tutto cominciò
la Repubblica, 03.07.2014.
LUGLIO 1944. Noi Donne esce dalla clandestinità. Settant’anni fa una tipografia di Napoli manda in stampa il primo numero ufficiale dello storico giornale. La direzione è di Laura Bracco con la collaborazione di Nadia Spano e Rosetta Longo. L’intento è quello di fare circolare un foglio politico nel quale si ritrovino le energie femminili che vogliono partecipare alla costruzione di una società diversa, sia nell’Italia occupata che in quella parte del Paese già liberata.
Dal terzo numero direzione e amministrazione si spostano a Roma e alla Bracco si affianca Vittoria Giunti, insegnante che usciva dalla lotta antifascista clandestina. Dal 1945 agli anni Novanta il giornale sarà editato grazie all’Unione delle donne italiane: inizialmente mensile, diverrà un settimanale con la direzione di Giuliana Dal Pozzo e di Miriam Mafai. Nel 1981 torna a uscire con cadenza mensile e dal 1990 cammina in autonomia dall’Udi, ma con uguale impegno: raccontare le attività, i pensieri e i movimenti delle donne, promuovere le campagne per la parità di genere.
Contrordine compagni! Il porno non è per tutti
Mosca, svelata la collezione di stampe e libri erotici nella biblioteca Lenin nascosta in una stanza che era aperta solo ai membri del Politburo
di Giulia Merlo (il Fatto, 29.06.2014)
In Unione Sovietica il porno si nascondeva in biblioteca. Lontano dagli occhi del popolo, ma a piena disposizione dei capi del partito comunista, molti dei quali erano assidui frequentatori di quell’ala segreta della Biblioteca di Stato di Mosca. Ancora oggi la scandalosa raccolta si trova lì, chiusa a doppia mandata dietro una porticina tra gli scaffali del nono piano della biblioteca Lenin, dove sono archiviate tutte le pubblicazioni marchiate come “ideologicamente dannose”.
Migliaia di libri, disegni, fotografie e film connessi in un modo o nell’altro al sesso sono stati conservati qui: una collezione di circa 12mila oggetti provenienti da tutto il mondo, dalle stampe giapponesi del ‘700 agli Harmony americani dell’era nixoniana. La stanza è uno dei tanti segreti che si annidano nel passato dell’austera Russia bolscevica ed anche oggi la sua esistenza non è nota alla maggior parte dei frequentatori della grande biblioteca.
“L’abbiamo mantenuta intatta, come cimelio di un’epoca passata”, ha spiegato la bibliotecaria Marina Chestnykh, che si occupa di curare la raccolta erotica. Lei stessa l’ha scoperta solo nel 1990, dieci anni dopo aver iniziato a lavorare alla Biblioteca di Stato. La storia dell’archivio segreto è iniziata nel 1920, quando il museo d’arte di Mosca venne trasformato nella Biblioteca nazionale, intitolata a Lenin. Accanto ai libri della nuova cultura russa, i bolscevichi trasformarono i piani alti in un deposito dove accumulare la stampa clandestina e i libri confiscati alla nobiltà russa dopo la rivoluzione.
LA MAGGIOR PARTE del materiale viene, però, dalla collezione privata di Nikolai Skorodumov, il direttore della biblioteca dell’università di Mosca. Dietro l’immagine pubblica del tranquillo funzionario, Skorodumov collezionò per tutta la vita volumi sia russi che stranieri e soprattutto a tema erotico. Come riuscisse ad aggirare la censura sovietica, rimane un mistero. Alcuni dicono importasse i volumi sfruttando la sua posizione all’università e facendoli passare per materiale di interesse scientifico, altre voci raccontano che godesse della protezione del comandante della polizia di Stalin, anche lui cultore di romanzi erotici.
Dopo la morte del collezionista, la censura scoprì un tesoro di carta di oltre 40 mila volumi, 7mila dei quali a contenuto erotico. Una raccolta che non poteva certo essere lasciata alla vedova - sostennero le autorità - perchè “tenerli in una casa privata presenta enormi rischi”. E quale posto migliore, se non la stanza all’ultimo piano della biblioteca Lenin. Una stanza che divenne improvvisamente molto visitata dagli alti membri del Politburo. “Erano più interessati alle immagini più che ai libri - ha raccontato la bibliotecaria - ed entravano quando volevano, senza bisogno di permessi”.
La particolare raccolta ha continuato ad essere ampliata fino agli anni Ottanta, con il materiale sequestrato alle dogane: libri in inglese ma anche film e cartoline considerate licenziose e dunque poco adatte ai cittadini russi. “Non venivano raccolti con metodo e non esiste un catalogo - ha spiegato la Chestnykh - prendevano tutto quello che gli sembrava inappropriato e lo portavano qui”. Il risultato è un curioso collage: fotografie dei Beatles, un libro sul Kama Sutra in inglese, un catalogo di dipinti di Picasso e una raccolta di scritti di De Sade.
La stanza, oggi come ieri, continua a galleggiare nel limbo della semi-clandestinità. La sovrintendenza della biblioteca di Stato, infatti, è divisa tra chi vorrebbe valorizzare la piccola raccolta e chi invece la considera una spesa inutile. Anche dopo la caduta dell’Urss, il nono piano della Biblioteca Lenin resta un luogo di misteri e sguardi ammiccanti.
“L’origine del mondo”, la donna del quadro di Courbet ha un volto
Francia, mostrato «il vero viso» della modella. Gli esperti divisi
Parigi Non è solo il ritratto di un sesso femminile: “L’origine del mondo” di Gustave Courbet ha anche un volto. È quanto sostiene Jean-Jacques Fernier, autore del “Catalogo ragionato” dell’opera del maestro del realismo francese e ritenuto uno dei più grandi esperti del pittore, annunciando di avere identificato una tela raffigurante la testa della modella che posò per il celebre quadro dipinto nel 1866 e conservato al Museo d’Orsay di Parigi. In sostanza: l’originale sarebbe stato ritagliato.
La notizia viene data in «esclusiva mondiale» dal settimanale Paris Match che parla di «una scoperta miracolosa». Ma altri esperti di Courbet reagiscono invece con scetticismo. Contattato dall’ANSA, il Museo d’Orsay «per ora non vuole commentare l’informazione in quanto l’opera appartiene a un privato».
È infatti un appassionato d’arte - che preferisce mantenere l’anonimato - che nel 2010 comprò per 1.400 euro da un antiquario parigino l’olio su tela di 33 centimetri per 41 centimetri, senza firma, e raffigurante una testa di donna leggermente inclinata sul fianco con i capelli lunghi, castani, sciolti sulle spalle, gli occhi aperti rivolti verso l’alto, la bocca semiaperta. Dalle prime valutazioni degli esperti emerge che possa trattarsi di un Courbet.
L’analisi scientifica della tela, i fili della trama, le proporzioni, i pigmenti e la tecnica pittorica, la prova che il bordo sia stato ritagliato lasciando intravedere il drappeggio della camicia e forse persino le iniziali dell’artista disegnate nell’orecchio: tutto fa pensare che il ritratto sia la parte superiore de “L’origine del mondo”. Il quadro viene quindi sottoposto al vaglio di Fernier che non ha dubbi: «E’ autentico». E non è tutto: l’esperto si spinge a ipotizzare che l’opera originale rappresentasse la modella nella sua interezza, «con le due braccia aperte, mentre esprime la pienezza del suo essere», e misurasse «120 centimetri per un metro o anche più».
Il soggetto ritratto è probabilmente una giovane donna irlandese di nome Joanna Hifferman, che in quegli anni era la modella preferita di Courbet (e l’amante dell’artista americano James Whistler). Il pittore fece un altro ritratto nel 1866 che ritraeva la bella Joanna, intitolato “La belle irlandaise”. “Tete de femme”, così è stata intitolata la tela rivelazione, sarà inserita nel “Catalogo ragionato” di Fernier, ed è ormai valutata 40 milioni di euro. “L’origine del mondo” ha raggiunto le collezioni del museo d’Orsay solo nel 1995 e prima, è stato poco visto e mai esposto al pubblico.
Secondo gli esperti, il quadro venne commissionato all’artista dal diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey (1831-1879), ambasciatore dell’impero ottomano ad Atene, per la sua personale galleria di dipinti erotici che includeva prestigiosi quadri come “Le Bain Turc” di Ingres.
Il dipinto passò poi attraverso una serie di collezioni private, riuscendo a sfuggire al saccheggio dei nazisti durante la Seconda Guerra mondiale, prima di arrivare nel 1954 nella raccolta dello psicanalista Jacques Lacan che lo teneva dissimulato dietro a un pannello. L’opera venne infine donata dagli eredi di Lacan allo Stato francese e da allora è esposta nelle collezioni del museo parigino.
Speciale /Palazzo Marino
Un mito in mostra. Amore e Psiche la favola di Apuleio incanta gli artisti
Il neoclassicismo la reinterpreta con la raffinatezza delle opere di Canova e Gérard esposte a Milano
Le vicissitudini della fanciulla che fa innamorare un dio narrano l’epopea di un’anima
di Marco Vallora (La Stampa, 5.12.2012)
Sul cartiglio delle cinquecentesche incisioni attribuite all’ancora misterioso «Maestro del Dado» (un pozzo, da cui tutti attingono, per l’iconografia pittorica della storia di Amore e Psiche) si legge: «Narra Apuleio, che (mentre egli cangiato in asino serviva a genti ladre) / una sposa rubbaro... ». Inizia così la gloriosa epopea d’una delle favole più note dell’antichità, piena di peripezie e sorprese narrative, inscatolate, a pressione, entro le Metamorfosi di Apuleio, scrittore nomade e «discepolo platonico».
Proto-romanzo d’avventura (secondo secolo d. C.) influenzato da Luciano, riscoperto da Boccaccio, tradotto da Boiardo. Racconta la magica trasformazione di Lucio in un asino, venduto a dei ladroni. Gli stessi che hanno rapito una fanciulla e la tengono a languire in una caverna. (Qui si ripara anche l’asino: sant’Agostino ribattezzò l’ Asino d’oro le Metamorfosi ). Una vecchia nutrice con fuso, interrompendo il suo filare, proprio come s’interrompe miracolosamente il romanzo, le racconta la favola di Amore (Eros) e Psiche, che si snoda per molti libri e numerosi «ricami» di luoghi, coinvolgendo cielo, terra, Inferi.
Psiche è una bella fanciulla non nobile, così bella che nelle sue contrade la nominano Afrodite. Ma Venere in persona s’ingelosisce di questo suo doppio terrestre, troppo bella e difficile, per trovare un marito. Ed invia il suo figliolo Eros sulla terra, a colpirla con le sue temibili frecce, per farla innamorare della prima persona che capiti, purché mostruosa. Ma è Eros ad essere colpito della sua venustà: s’innamora di Psiche, ottenendo da lei di amarlo solo di notte. L’iconografia pittorica omaggia spesso questo mistero: coltri e baldacchini manieristi, atmosfere notturne, lanterne e fiaccole, bende e panneggi, ed Eros che depone le sue frecce, accanto alle complici lenzuola, quasi fossero occhiali e cellulari messi in carica. Mentre Psiche si rode di curiosità, soprattutto se hai delle sorelle invidiose, che intrigano, come nella falsariga classica di Cenerentola. Facendole credere che lui è un obbrobrioso mostro serpentinato, e sennò, perché non si mostrerebbe, come un consorte qualsiasi?
Infatti, proprio come capita nelle fiabe migliori (che in fondo si equivalgono) è l’interdetto, che maggiormente le brucia e la scotta. Proprio come nella fiaba di Barbablù o nella storia nordica di Lohengrin, che un’unica cosa chiede, di non chiedergli il suo nome. Ed in più, in questo caso, d’essere amato senza immagine, senz’esser guardato: paradosso figurativo, che ha turbato molta pittura. Una notte, munita d’un coltello (in realtà sarebbe un rasoio) per tema di trovarsi di fronte ad un mostro, e di una lucerna, che finalmente le sveli l’enigma, e che in realtà c’illumina regalmente quelle perfette fattezze nude, di putto serenamente addormentato, Psiche rimane incantata a rimirarselo, come se il tempo non esistesse più. Ma la curiositàdonna va punita, così dalla lucerna esausta scende una goccia malandrina, che ustiona il corpo nudo e tradisce il tradimento. Sulle sue ali di Cupido, Eros fugge via irato, mentre desolata Psiche, che lo ha amato d’un amore invincibile, vaga per il mondo spoglio, impossibilitata a reincontrarlo. Ci si mettono gli Dei (consigli parlamentari nell’Olimpo, così ben rappresentati da Giulio Romano, a Palazzo Tè) a complicare le cose e a divertire il lettore.
Venere stessa, tra il piccato e il pietoso, offre ancora un’ultima chance alla peregrina disperata, infilandola come un fuso, dentro terribili prove iniziatiche, che il Flauto Magico, al confronto, la diresti una passeggiata galante e cicisbea. Discese agli Inferi a dialogare con Proserpina (mito dell’inverno e della resurrezione primaverile). Pecore furiose da tosare dei loro velli d’oro, coppe da riempire a fonti inesistenti, semi da dividere, come in una trasmissione misterica della Carrà.
Così ti rendi conto che Apuleio, nato a Madaura e nutrito di cultura orientalnordafricana, sacerdote e avvocato di grido chierico vagante ed iniziato dei Misteri Eleusini, è anche un adepto della cultura neo-platonica, che vuole conciliare la filosofia pagana con il messaggio cristiano. Tra l’altro Apuleio ha sposato Pudentilla, madre molto più vecchia e poco avvenente del suo compagno di studi Ponziano, che muore giovane, lasciandolo tra parenti che lo accusano di plagio e di magia, e lui deve difendersi da solo dalla pena di morte.
Dunque si tratta dell’epopea mistica quotidiana d’un’anima, o Psiche (con ali di farfalla, non a caso: vista l’omonimia in lingua greca di psyké) che deve ricongiungersi con il suo Amore incorruttibile e divino, perché Eros (come l’amore carnale) non è che un viatico graduale verso la Perfezione Ideale. Lo ritroverà in cielo, nel banchetto regale che gli Dei hanno allestito per lei, fanciulla povera e fortunata, assunta nei saloni eleganti d’una reggia chiamata Olimpo.
Allora si capisce perché Raffaello, quando deve celebrare, tra l’esubero di tutte le grottesche di Penni, Perin del Vaga, Giovanni da Udine (suggestionate dalla recente scoperta epocale della creduta «grotta» della Domus Aurea) la storia della fanciulla plebea Francesca Ordeaschi, che va sposa con il nobile senese Agostino Chigi, committente della villa, scelga proprio questa storia allegorica ed edificante. E via così, nel Rinascimento: con Giulio Romano a Mantova, Dosso Dossi nei suoi lividi rami, Zucchi con i suoi dettagli medicei, Vouet ed i caravaggeschi, che sfruttano gli effetti notturni e tenebrosi: una goccia bollente per un amore eterno.
Poi viene il neoclassicismo, con Canova e Gerard (protagonisti della mostra di Palazzo Marino), Cavaceppi & C., storie d’ali di farfalla, infragilite nei marmi, un Giove winckelmanniano, che approfitta per lumacare con Eros, ed infine il Romanticismo, che insiste sugli aspetti più terribilisti (per proiettarsi poi sulla nostra contemporaneità, con allusioni in Fabio Mauri, Pistoletto e Paolini). Un’anima, che nel periodo Impero si fa anche specchierina da camera, per riflettere i patemi ed i pallori di troppe signorine innamorate.
Canova. Nel marmo la leggerezza di una farfalla
Amore e Psiche stanti fu scolpito nel 1797. Gioachino Murat l’acquistò per 2000 zecchini
di Fiorella Minervino (La Stampa, 5.12.2012)
Gli orari L’ingresso alla mostra a Palazzo Marino di Milano è gratuito. Si entra tutti i giorni dalle ore 9,30 alle 20 (ultimo ingresso alle ore 19,30) giovedì dalle ore 9,30 alle 22,30 (ultimo ingresso alle ore 22) Chiusure anticipate 7 dicembre, chiusura alle 12. 24 e 31 dicembre, chiusura alle 18 Aperture straordinarie 8 e 25 dicembre e 1 gennaio 2013 Informazioni al pubblico 24h/24 Numero verde gratuito 800.14.96.17
L’allestimento Sopra la mostra nell’allestimento di Elisabetta Greci nella Sala Alessi di Palazzo Marino a Milano
Il giardino comincia già fuori, in piazza della Scala, all’entrata della mostra e procede tra i profumi che si diffondono nella Sala Alessi oltre le tre pareti ricoperte di erba sintetica fino all’ultimo spazio destinato all’incantevole Amore e Psiche stanti del Canova. Nulla meglio di questo prato ripensato alla maniera neoclassica per illustrare la favola di Apuleio nelle Metamorfosi, dove la coppia mitologica raffigura l’unione fra anima umana e amore divino. Un luogo adatto a ospitare il capolavoro, forse non il più celebre ma prediletto dall’autore, il campione italiano del Neoclassicismo.
Antonio Canova voleva calarsi nello spirito e nel clima dei classici, greci e latini, tanto da farsi leggere nel suo studio mentre lavorava fin tre volte al giorno i testi di Omero, Tacito, Polibio. Felice esito dell’amore intenso per la classicità evocata dal Winckelmann, il bello ideale universale e la quieta grandezza, la scultura in arrivo dal Louvre grandeggia nella luce che la avvolge e nella platonica serenità che promana.
Due teneri giovinetti sono fissati nel marmo candido (Canova li definiva «un gruppetto pudico») e dominano la scena ravvicinati nel turbamento dei corpi nudi levigati e sinuosi sopra il piedestallo adorno di preziose ghirlande di fiori. Il dio poggia la testa sulla spalla di lei cingendola castamente con il braccio, Psiche di bellezza mirabile e dalla nudità appena celata dal delicatissimo velo ai fianchi, posa delicatamente la farfalla, simbolo dell’anima, nella mano di lui. È un gesto sublime, un attimo sospeso, fuori dal tempo, dove l’umano si lega all’eterno. Il prodigio delle dita, la grazia nelle pose, la finezza dei riccioli nella capigliatura di Psyche e lo squisito panneggio sui fianchi raccontano sino a che punto il marmo potesse piegarsi al soffio nuovo dell’arte di Canova, alla «bella natura», il suo ideale di bellezza perfetta.
Alti 150 centimetri circa, i due adolescenti si incontrano e congiungono a nozze, immemori delle mille prove sostenute e dei dissidi celesti nell’Olimpo che li hanno divisi, uniti nella lucentezza e candore del marmo di Carrara dove Canova agitava lo scalpello con la facilità d’un pennello. Figlio d’uno scalpellino di Possagno, dove era nato nel 1757, aveva presto imparato, anche dai copisti di marmi antichi a Roma, a modellare la materia con maestria e scienza personale. Un procedimento che conduceva dal bozzetto vibrante di creta al gesso affidato agli aiutanti, da volgere poi al marmo con numerose rifiniture, come raccontò Hayez. Canova realizzò il gruppo nel 1797 a Roma, mentre si diceva così preoccupato per la desolata nostra nazione e «l’Europa tutta talmente ruinosa che sarei contento di andare in America». L’opera era destinata al colonnello John Campbell in sostituzione della versione famosa (sempre al Louvre) Amore e Psiche giacenti 1787- 83; finirono entrambe nel 1801 per 2000 zecchini a Gioachino Murat, esposte nella galleria del castello di Villiers, dove Napoleone potè ammirarle.
Fama e gloria coronarono il Canova già in vita, come forse nessuno degli artisti amici o ammirati, quali Mengs, Thorwalsen, e fin Piranesi o Batoni, Gavin Hamilton, Proudhon, neppure David. Non volle o mai riconobbe allievi, collezionò cariche e incarichi, con l’esimio merito di ricondurre nel 1815 in Italia dal Louvre alcune opere sottratte dai francesi, incaricato da Pio VII come delegato dello Stato Pontificio a Parigi. Fu venerato e onorato da Papi e dai sovrani d’ Europa, per cui lavorò, compresi Napoleone e Giuseppina Beauharnais e il figlio Eugenio vicerè d’Italia con sede a Milano e Monza. Fedele alla propria arte e condizionato da una salute cagionevole mori a Venezia nel 1822, per poi riposare a Possagno dove è affidato alla storia nel museo a lui dedicato. Oggi il suo genio torna a risplendere in questa mostra a Milano, città che seppe apprezzarlo e amarlo.
Ed è occasione davvero rara questa offerta dall’Eni, di mettere a confronto il celebre scultore con il pittore francese Gérard, nato a Roma da madre italiana, il maggior allievo di David. Le curatrici dell’evento Valeria Merlini e Daniela Storti, si dichiarano assai soddisfatte della formula annuale e di presentare i due esponenti del Neoclassicismo in una città neoclassica come Milano.
La Merlini aggiunge che questa è l’opportunità di raffrontare pittura e scultura nelle differenze e aspetti comuni, come le diverse sensibilità e sensualità degli autori. Poi spiega: «Ci lavoriamo dalla scorsa primavera e aspettiamo oltre 200 mila visitatori. Negli anni passati siamo stati premiati da un pubblico vario per età, cultura e provenienza. Per spiegare a chi viene il valore e i segreti di due capolavori sullo stesso tema, creati a un anno di distanza e per la prima volta esposti insieme, ci affidiamo a un gruppo di giovani storici dell’arte che guidano i visitatori della Sala Alessi».
Gèrard. La moderna sensualità di due innamorati
Piaceva anche ad Ingres Psyché et l’Amour che tiene testa quasi ad armi pari alla scultura con cui si confronta
di Francesco Poli (La Stampa, 5.12.2012)
Ingres, molto spesso acidamente critico nei riguardi dei suoi colleghi, aveva dichiarato una volta che «Gérard ha abbandonato la pittura e la pittura ha abbandonato lui », aggiungendo però che «quando ha realizzato Psiche e Amore è stato un grande pittore; ha realizzato un capolavoro...».
E in effetti per l’ingrato Ingres (Gérard era stato tra i pochi ad aiutarlo agli inizi, quando era entrato nello studio di David) questo dipinto, esposto con grande successo al Salon parigino del 1798, è stato un punto di riferimento fondamentale. Non tanto come esempio (già allora in auge) di una tematica mitologica disimpegnata e «graziosa», con algide e sofisticate valenze erotiche, ma anche soprattutto per la peculiare elaborazione del linguaggio neoclassico. Gérard lo caratterizza con una straordinaria levità e levigatezza pittorica, e con un formalismo purista tale da subordinare persino la correttezza anatomica all’armonia complessiva dell’impianto compositivo (basta osservare la «impossibile» spalla di Psiche o il collo di Cupido).
Nella suggestiva messa in scena allestita dentro il grande salone di Palazzo Marino, il quadro di François Gérard è il co-protagonista insieme al capolavoro di Antonio Canova, Amore e Psiche stanti, del 1797. La pittura che si confronta con la scultura una bellissima sfida (incentrata su un tema mitico e intramontabile) che nonostante la celebrità dell’avversario, e il fascino assoluto della sua opera marmorea, Gérard è in grado di sostenere quasi ad armi pari.
Bisogna guardarlo a lungo il suo dipinto con le figure in grandezza naturale, per rendersi conto, con uno sguardo attuale (al di là della valutazione storico -critica della indubbia importanza dell’artista) della straniante e «moderna» qualità di questa composizione figurativa ma irreale, e non solo perché mitica.
Più rispettoso di Canova del racconto che si legge nell’ Asino d’oro di Apuleio, Gérard ci presenta Psiche nel momento in cui l’invisibile (per lei) Amore le sta per dare un bacio abbracciandola. Ed è per questo che, sorpresa e misteriosamente incantata, i suoi occhi non guardano lui ma davanti verso il vuoto, o meglio (e qui l’artificio del pittore è geniale) verso di noi, i curiosi esterni.
Questo incrocio di sguardi fra lei e noi crea una sottile e intensa tensione estetica, che fissa visivamente e direi anche strutturalmente tutta la visione pittorica. Dico fissa, perché l’artista ha dipinto i personaggi in modo tale da quasi annullare l’illusione della forza di gravità, senza ombre portate e senza una convincente integrazione con il paesaggio che fa da sfondo. Inoltre, una ulteriore essenziale magia (o astuzia) pittorica è determinata dalla raffinatissima strategia dell’abbraccio che non è tale.
Infatti le braccia di Amore sono attorno e vicinissime al corpo di Psiche ma non lo toccano (anche se c’è una intenzionale ambiguità per quello che riguarda la mano sinistra che sembra toccare la spalla in direzione del seno). Tutto ciò crea un effetto di sospensione, una sensazione di aerea immaterialità e di metafisica idealità.
Così Gérard riesce a trasmettere attraverso la forma (molto più che nella raffigurazione descrittiva) un aspetto cruciale del significato profondo della favola mitica, che ci parla di cose indefinibili come l’anima e l’amore, e cioè del mistero della vita umana terrena e del sogno di quella ultraterrena.
Nell’iconografia antica (per esempio nella copia romana da un originale ellenico) Psiche ha delle ali di farfalla, ma come nel caso di Canova anche Gérard ha pensato che fossero sufficienti quelle di Cupido, e ha inserito una farfalla vera, non nelle mani dei personaggi come ha fatto lo scultore, ma in volo nel cielo sopra la testa di lei ( psiche in greco vuol dire farfalla). Questo lepidottero ha una sua precisa valenza simbolica ed è allo stesso tempo un particolare naturalistico, dalla fragile e delicata leggerezza. Ma si può leggere formalmente anche come una metafora strutturale di tutto l’insieme della composizione, che si libra sulla tela con la stessa eterea grazia sospesa.
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 9 luglio 2011)
Era negli intenti del Cardinal Ravasi - con la mostra che si è aperta questa settimana in Vaticano - rilanciare quel dialogo tra arte e fede che in un passato, ormai remoto, ha offerto grandi capolavori e una fioritura di arte sacra di inarrivabile livello. Qualche perplessità, tuttavia, suscita l’iniziativa. E non solo per la constatazione desolante di che cosa abbia significato per la Chiesa l’arte negli ultimi secoli - tra orrendi edifici, terrificanti dipinti e raccapriccianti sculture (l’ultima delle quali un controverso omaggio a Giovanni Paolo II) - ma soprattutto per il venir meno del linguaggio con cui tutto questo dovrebbe esprimersi. In altre parole che idea di bellezza ha la Chiesa e in quale direzione va l’arte contemporanea, chiamata da Ravasi ad assolvere a un compito di testimonianza?
È un problema non irrilevante, per chi adotta la fede come criterio, osservare il profondo relativismo delle nuove tendenze, le quali sempre meno sono interessate alla bellezza (il cui ripudio è discusso da Roger Scruton in un libro appena edito da V&P) e sempre più al mercato.
L’arte del passato è stata grande perché grande fu il potere della Chiesa. Potente la committenza dei papi, fecondo il dialogo con gli artisti, e indiscutibile la tradizione. Niente di tutto questo è rimasto. E neppure un miracolo, crediamo, potrebbe far tornare ciò che è definitivamente sparito.
Manet
La luce del nero
Al Museo d’Orsay. Dalla religione all’erotismo, dal realismo al romanticismo
L’artista che fuggiva (con polemiche) da ogni schema
di Stefano Montefiori Corriere della Sera 5.5.11
La prima opera della grande esposizione «Manet, inventeur du Moderne» non appartiene al protagonista. Appena entrati nella mostra del museo d’Orsay, si viene accolti dall’ «Omaggio a Delacroix» che Henri Fantin-Latour presentò al Salone di pittura e scultura del 1864: due gruppi di pittori, tra i quali Édouard Manet, posano attorno all’autoritratto di Delacroix. Manet, il pittore realista della vita moderna parigina, accostato al maestro del romanticismo letterario. Una sfida, una sorta di dichiarazione di intenti che si dipana nel percorso successivo: mostrare l’artista nella sua complessità, nella sua capacità di coniugare realismo e romanticismo, attraverso nove sezioni che strappano Manet al riduttivo cliché di padre dell’impressionismo. «Manet è stato il più grande di noi, era in grado di fare la luce del nero» , disse Camille Pissarro a proposito del singolare interesse di Manet per il nero, che ancora una volta lo distanziò dall’ostracismo della tradizione verso il non colore. Il suo amico Claude Monet, per esempio, lo odiava tanto che il giorno del suoi funerali, agli inservienti che stavano per poggiare un panno nero sulla bara, il ministro Clemenceau gridò «No! No, niente nero per Monet» . Manet, invece, non aveva paura di estrarre la luminosità anche dalle tenebre.
Nato a Parigi nel 1832 dal giudice Auguste Manet, Édouard venne indirizzato dal padre alla carriera di alto funzionario: invece di frequentare l’École des Beaux Arts, il giovane Manet fu costretto a imbarcarsi per un anno e a tentare poi l’ingresso all’École Navale. Per sua fortuna venne respinto e gli venne finalmente concessa la possibilità di seguire la sua indole entrando nello studio di Thomas Couture, uno dei grandi pittori dell’epoca.
I suoi primi biografi, come Zola, hanno a lungo preferito sorvolare sugli esordi «conformisti» di Manet, suggerendo che nulla gli sarebbe rimasto dei sei anni trascorsi con Couture, accusato di essere uno dei troppi pompiers (pittori ufficiali) dell’epoca. Invece Manet ricavò da Couture un certo gusto per ritratti e studi meno accademici, rivelando subito la capacità di non lasciarsi ingabbiare in uno schema e di moltiplicare le fonti della sua ispirazione. Ecco poi la parte della mostra dedicata alla grande amicizia tra Édouard Manet e Charles Baudelaire, che però coniò la formula di «pittore della vita moderna» - che tanto sarebbe piaciuta a Manet - per l’illustratore Constantin Guys.
Entra in scena Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, a cominciare dalla «Chanteuse de rue» fino alle due opere più celebri di Manet, «Le déjeuner sur l’herbe» e «Olympia» , dove il pittore crea scandalo accostando echi e tecniche della pittura classica a un realismo quasi fotografico e soprattutto a soggetti giudicati osceni. Nella colazione sull’erba, concepita dopo avere ammirato il «Concerto campestre» di Tiziano al Louvre, Victorine è nuda accanto a due giovani vestiti con abiti contemporanei ed eleganti, Gustave Manet (fratello del pittore) e l’amico scultore olandese Ferdinand Leenhoff; sullo sfondo, un’altra donna nuda (a posare fu sempre Victorine) si bagna nel fiume.
«Un soggetto scabroso dipinto con riferimenti a Raffaello e Tiziano - spiega il curatore della mostra Stéphane Guégan -. Manet voleva portare il mondo moderno all’interno della grande tradizione. Per i critici, un tentativo insopportabile» . Rifiutato dal Salone ufficiale, «Le déjeuner sur l’herbe» venne esposto al «Salon des réfusés» , voluto nel 1863 da Napoleone III per dare spazio ad almeno alcune tra le 3000 opere respinte dall’Accademia delle belle arti. Ma anche qui il dipinto, poi giudicato uno dei maggiori capolavori dell’Ottocento, venne accusato di perversione per la presenza delle due figure femminili nude accanto agli uomini vestiti e di pessima fattura tecnica: non venne perdonato a Manet un uso, appunto, moderno, spregiudicato, della prospettiva.
Due anni dopo, si replica con «Olympia» : dopo la Venere di Urbino di Tiziano o la Maya Desnuda di Goya, ecco Victorine Meurent ritratta nuda, il volto tra l’inespressivo e lo sfacciato e ai piedi del letto un allegorico gatto nero con la coda rialzata. Olympia era a quei tempi un classico nome da prostituta, e l’ambientazione ricorda le cartoline licenziose che circolavano sottobanco nei salotti parigini.
Anche nella pittura religiosa, alla quale il museo d’Orsay dedica una sezione corposa, Manet sfida le convenzioni, dipingendo il Cristo più per eclettismo e volontà di variare i temi che per reale sentimento metafisico. Ultimo dei classici o primo dei moder- ni? Ambiguo, sempre. Protagonista assieme a Sisley e Pissarro del Salone dei rifiutati, nel maggio del 1874 Manet rifiutò però di partecipare alla prima esposizione degli «impressionisti» , dei quali pure era considerato il capofila. Critiche anche da questa parte, quindi, con Edgar Degas che arrivò a trattarlo da «disertore» . Ma anche in questa voglia di libertà, di indipendenza da correnti e movimenti collettivi, sta la modernità di Édouard Manet.
Piss Christ: il malinteso
di Sébastien Lapaque
in “www.temoignagechretien.fr” del 15 aprile 2011 (traduzione: www.finesettimana.org) *
È da tempo che le bestemmie anticristiane non mi turbano più. Sono perfino tentato di accordare loro certe virtù educative. Pacifico vagabondo inchiodato ad una croce di legno dai violenti del suo tempo, il Salvatore del Mondo può ben essere coperto di sputi da quelli di oggi.
il Cristo degli oltraggi
“Si ignobilis, si inglorius, si inhonorabilis, meus erit Christus”, scrive Tertulliano, la cui prosa dalle erubescenze di lava in fusione in questo momento mi deliziano. “Se è senza splendore, se è senza gloria, se è infamato, è il Cristo che cerco.”
Ecco per gli agguerriti gradassi di Avignone partiti in crociata contro la presentazione al museo d’arte contemporanea di una fotografia dell’americano Andres Serrano che riproduce in grande formato l’immersione sacrilega di un piccolo crocifisso nell’urina.
“Si ignobilis, si inglorius, si inhonorabilis, meus erit Christus”: poche opere contemporanee illustrano in maniera più selvaggia l’esortazione del Grande scrittore cartaginese di questa fotografia di forza mostruosa in rosso e giallo intitolata Piss Christ.
Sua Eccellenza Mons. Arcivescovo di Avignone ha avuto torto a sollecitare il suo ritiro presso le autorità competenti. Avrebbe fatto meglio a salire in cattedra a prendere l’avversario in contropiede valorizzando le verità che ci fa sentire sulla coabitazione della grandezza e dell’abiezione.
Cristo e il piscio: sono le due estremità tra cui l’umanità si dibatte, più pronta ad annegare nel secondo che a gettarsi ai piedi del primo. Un cristiano non può spaventarsi per la coesistenza degli opposti: è il grande mistero.
lo scontro dei contrari
L’opera presentata ad Avignone ci ricorda che tra Cristo e i Rifiuti non c’è distanza. Un cristiano della scuola antica, un cristiano nato prima che si fosse presa l’abitudine di trapiantare ai battezzati dei cervelli di scimmia o di pecora, non ne sarebbe scandalizzato.
Léon Bloy avrebbe probabilmente adorato Piss Christ, quel quadro che dice tutto in due parole. Artista d’avanguardia nel suo genere, il Mendicante ingrato gustava gli happening selvaggi e lo scontro dei contrari.
Ricordate le sue Propos d’un entrepreneur de démolition: “Ci sono solo due cose, capite, che si possano mettere su una tomba e che vi facciano un ottimo effetto: la Croce del salvatore delle anime o un enorme escremento umano! Allora, scegliete, canaglie!” Ma le canaglie non vogliono più scegliere. Fanno petizioni, manifestano, dissimulano la loro vigliaccheria dietro pseudonimi su internet.
Eppure non c’è da stupirsi degli oltraggi che continua a ricevere Gesù. Un Dio al riparo dagli sberleffi, un Dio al riparo dalle bestemmie, un Dio al riparo dal marciume umano sarebbe adatto ai pagani o ai filosofi. Non sarebbe il Cristo che cerco, il Cristo che voglio, il Cristo che amo, venuto a sollevarmi dal canale di scolo o, chissà, dall’urina in cui stavo marcendo.
quale rabbia o quale risentimento amoroso?
No, davvero, le bestemmie che toccano il Redentore non mi turbano più. È poco dire che ne ha viste e ne ha vissute ben altre, a cominciare da tutte quelle che gli faccio subire giorno dopo giorno. Non conosco niente delle preferenze segrete di Andres Serrano, ignoro quale rabbia o quale risentimento amoroso si dissimuli dietro il suo Piss Christ. Ma gli argomenti di coloro che pretendono che sia troppo facile sfogare così il proprio nichilismo sulle spalle dei credenti non mi interessano. Quello che mi interessa, è proprio quel nichilismo che tocca Cristo, un nichilismo a cui ho voglia di rispondere come il curato di campagna di Georges Bernanos ad un personaggio del romanzo: “Lei potrebbe mostrargli i pugni, sputargli in faccia, frustarlo con delle verghe ed infine inchiodarlo ad una croce, che importa? È già stato fatto.”
Quando sento dei cattolici spiegare che i musulmani sanno farsi sentire e difendersi meglio controle ingiurie quando l’immagine di Allah o di Maometto viene travisata, vado su tutte le furie. Così vicini alla Stupidità, così lontani dal Senso. Non chiedo certo a tutti quei temerari Crociati di leggere i Padri - Tertulliano, contro Marcione, libro III - ma potrebbero di tanto in tanto uscire dalle loro fila per prestarsi ad esercizi di judo metafisico.
Della Croce del Salvatore si fa troppo spesso un ciondolo, un motivo decorativo, un segno senza significato. Ed ecco che attraverso il gesto brutale di Andres Serrano essa viene restituita alla sua brutalità: la Croce ridiventata scandalo - dal greco skandalon, l’ostacolo.
Al Musée des Beaux Arts di Avignone, ci si ferma. Ha perso i contorni vaporosi di simbolo per ridiventare il patibolo infamante su cui è stato inchiodato Gesù, morto tra due banditi, schernito, per aver predicato il perdono delle offese, la pietà per i vinti e l’attenzione per gli oppressi.
* PISS CHRIST (Wikipedia - testo inglese, con foto).
* PISS CHRIST (Wikipedia - testo italiano, senza foto)
* PAUL GAUGUIN, IL CRISTO GIALLO, 1888 (Wikipedia)
THIERRY SAVATIER RICOSTRUISCE LE VICENDE DEL QUADRO DI COURBET.
AFFASCINÒ GONCOURT, SFUGGÌ AI NAZISTI E FINÌ NELLO STUDIO DELLO PSICOANALISTA
L’ origine del mondo, storia di un tabù
Tutti i collezionisti tennero il dipinto dietro un pannello.
Lacan si divertiva a guardare le facce degli spettatori
di Sergio Luzzatto (Corriere della Sera, 24 maggio 2008) *
Non era mai stato facile superare l’ esame del gusto di Edmond de Goncourt. E meno che mai dopo il 1870, quando, sia il disastro della guerra franco-prussiana, sia lo strazio per la morte del fratello Jules avevano reso il suo Journal lo sfogatoio di un uomo invecchiato e inacidito. Così, ad esempio, in data 30 giugno 1889. Mentre si celebrava in pompa magna il centenario della Rivoluzione francese, Edmond annotava, feroce: «Se esiste nel collezionismo un certificato di pessimo gusto, è la collezione di piatti della Rivoluzione messa insieme da Champfleury. Credo che nella ceramica di tutti i popoli, dall’ inizio dei tempi, nulla sia stato prodotto di tanto brutto, di tanto idiota, di tanto rivelatore dello stato anti-artistico di una società».
Ma proprio il giorno prima, sabato 29 giugno, il diario di Edmond aveva registrato un giudizio positivo: per una volta, un’ opera d’ arte era uscita promossa dall’ esame del severissimo connaisseur. Era successo dopo la visita a un antiquario parigino specializzato in arte orientale. Deluso dai nuovi arrivi di oggettistica giapponese, Goncourt stava per andarsene quando il commerciante aveva aperto il pannello di una cornice chiusa a chiave, rivelandogliene il contenuto nascosto. Ben altro che una giapponeseria: «È il quadro dipinto da Courbet per Khalil-Bey, un ventre di donna dal monte di Venere nero e prominente, sullo spiraglio d’ una vulva rosa... Davanti a questa tela che non avevo mai visto, devo fare ammenda e rendere onore a Courbet: quel ventre è bello come la carne di un Correggio».
Sebbene affidato al segreto del Journal, come doveva essere costato caro un simile riconoscimento all’ indole fiera di Edmond de Goncourt! Lui che di Gustave Courbet (grande amico di Champfleury) aveva sempre pensato tutto il male possibile, e che, quando aveva visto con Jules - oltre vent’ anni prima, nel 1867 - la collezione privata del diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey, ne era rimasto letteralmente inorridito! Inorridito dai «corpi terrei, sporchi, merdosi» delle «due lesbiche» ritratte da Courbet nel Sonno, come pure dai corpi femminili «rigidi come manichini» ritratti nel Bagno turco da un altro «imbecille popolare», Dominique Ingres!
Nel 1867, però, a nessun visitatore era stata mostrata l’ opera più scandalosa della collezione di Khalil-Bey, la piccola tela che Goncourt avrebbe scoperto due decenni più tardi nella bottega di un mercante d’ arte giapponese. A nessuno era stata mostrata L’ origine del mondo.
Oggi, la tela di Courbet è tranquillamente esposta accanto ad altri suoi capolavori in una sala del Musée d’ Orsay, a Parigi. Ci è arrivata nel 1995, e rapidamente si è conquistata un posto di riguardo nelle preferenze dei visitatori: al borsino delle cartoline più vendute nel negozio del museo, risulta seconda soltanto al Moulin de la Galette di Renoir.
Su Google Images, chi digiti «l’ origine du monde» viene subissato da centinaia di migliaia di links, il video tappezzato da innumerevoli repliche o varianti di uno stesso monte di Venere nero e di uno stesso spiraglio di vulva rosa. Ma appunto, questa è la storia di oggi, o di ieri. Fino agli sgoccioli del Novecento - per un secolo e passa dopo che Courbet l’ aveva dipinta, nell’ estate del 1866 - L’ origine del mondo ha conosciuto un destino esattamente contrario. Non un massimo di notorietà e di visibilità, ma un massimo di segretezza e di dissimulazione.
Impossibile stupirsene, se è vero che il dipinto di Courbet rappresentava ben di più che una semplice sfida al vittoriano (o al comune) senso del pudore. L’ origine del mondo non era, banalmente, un nudo più spinto di altri nella lunga storia dei nudi. Era qualcosa di unico nella pittura occidentale, perché rappresentava precisamente quanto gli artisti avevano da sempre evitato di illustrare: il sesso femminile. Courbet aveva scelto addirittura di escludere dal quadro il viso della modella, non dipingendone che il ventre. E così facendo, aveva trasformato una donna senza volto nella donna in generale. La madre di tutti gli uomini e di tutte le donne di ogni tempo. La madre di ognuno di noi. Per questo, scrivere la storia del dipinto di Courbet equivale a scrivere, in fondo, la storia moderna di un tabù.
Che è poi quanto si è proposto il critico francese Thierry Savatier in un bel libro tradotto ora dalle edizioni Medusa, Courbet e «L’ origine del mondo». Dove vengono puntualmente ricostruite le circostanze di nascita della tela, dalla curiosa figura del committente, il dignitario ottomano Khalil-Bey, alla misteriosa figura della modella, legittima proprietaria della vulva rosa: tradizionalmente ritenuta un’ amante occasionale di Courbet, Joanna Hifferman detta Jo l’ Irlandese, mentre Savatier suppone che l’ artista si sia ispirato piuttosto a una fotografia licenziosa. E dove, soprattutto, vengono sapientemente ricostruite le misteriose identità dei successivi proprietari del quadro, di cui Khalil-Bey si era sbarazzato quasi subito dopo averlo acquistato da Courbet.
Colui che più a lungo possedette L’ origine del mondo (per quarantadue anni, dal 1912 al 1954) fu un collezionista ungherese di origini israelite, il barone Ferenc Hatvany. Come i proprietari precedenti, teneva il quadro nascosto dietro un pannello rappresentante un altro soggetto, e non lo mostrava che ad alcuni ospiti fortunati. Nel 1942, i progressi dell’ antisemitismo in Ungheria convinsero Hatvany a depositare nel forziere di una banca di Budapest, intestati a un prestanome «ariano», i pezzi della collezione che più gli erano cari: Courbet compreso.
Sicché due anni dopo, quando il plenipotenziario del Terzo Reich per la Soluzione finale del problema ebraico in Ungheria - Adolf Eichmann - sequestrò il grosso della collezione Hatvany e lo fece inviare in Germania, non gli riuscì di mettere le mani su L’ origine del mondo. Ci riuscirono invece, all’ inizio del ’ 45, i «liberatori» sovietici, dai quali Hatvany dovette ricomprare il dipinto sotto banco, dopo la fine della seconda guerra mondiale.
L’ ultimo privato che possedette il quadro di Courbet fu uno psicanalista francese, cui il barone ungherese lo aveva venduto poco prima di morire: il più adatto dei proprietari possibili, il più professionalmente consapevole del duplice significato della parola «possesso» applicata a un soggetto del genere. Anche Jacques Lacan conservava L’ origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’ élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur.
*Luzzatto Sergio
* Corriere della Sera, 24 maggio 2008
La Gare d’Orsay si ferma al Mart
di Fernando Mazzocca (Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2011)
Il Musée d’Orsay - in corso di riallestimento - sta cambiando pelle. Riaprirà nel prossimo autunno, probabilmente non senza polemiche, così come avvenne in occasione della sua apertura, nel 1986, quando la trasformazione di una vecchia stazione ferroviaria a sede del maggior museo dell’Ottocento del mondo suscitò accese discussioni, soprattutto da parte di chi non approvava quella spiazzante scelta museografica e le soluzioni espositive proposte da Gae Aulenti.
Vedremo in autunno. Per ora, vista la parziale chiusura per lavori, un importante nucleo di oltre settanta dipinti impressionisti e post impressionisti del museo è stato selezionato dal presidente Guy Cogeval per una strepitosa tournée che, dopo aver toccato l’Australia e l’America, fa ora la sua ultima ed unica "fermata" in Italia, al Mart di Rovereto. Cogeval ha appena dato prova - curando le due magnifiche mostre di Gérôme e di Monet la scorsa stagione a Parigi - di saper rimettere in gioco senza pregiudizi la storia dell’arte dell’Ottocento. Ma questa occasione espositiva appare davvero come una sorta di prova generale di quanto avverrà nel riallestimento del popolarissimo museo parigino in termini di nuove riflessioni sulla dinamica e sugli esiti della rivoluzione impressionista.
Rispetto ai "pastoni" che sono stati serviti e si continuano a servire ai danni del pubblico più ingenuo con rassegne chiavi in mano dedicate agli impressionisti o a i loro succedanei, qui siamo dinnanzi a tutt’altra vivanda. Prima di tutto si tratta di veri e non di sedicenti capolavori. Poi, questi capolavori sono stati attentamente selezionati per fornire una nuova riflessione - affidata alle otto sezioni della mostra - su quei protagonisti e su quelle opere che hanno veramente cambiato il nostro modo di vedere e considerare l’arte.
La rassegna del Mart parte da due prime sezioni che spiegano con chiarezza come mutò in pochi anni il sistema delle arti. I giovani ribelli dell’Impressionismo riuscirono a scardinare le gerarchie tradizionali e a rivendicare la libertà di creare contro il controllo delle accademie e dei salon tradizionali. Rivedicarono anche la libertà di esporre attraverso canali alternativi come il Salon des Refusés e il Salon des Indépendants. E infine seppero far conoscere le loro opere attraverso nuove figure di letterati, di critici e di mercanti indipendenti e coraggiosi. Due quadri manifesto come Un atelier Batignolles di Fantin-Latour e Omaggio a Cézanne di Maurice Denis hanno rappresentato (rivoluzionando l’iconografia del ritratto di gruppo) questo nuovo mondo, riunito attorno alle figure carismatiche di Manet e di Cézanne.
Ma rispetto a quanti erano riusciti a far fronte comune, a trovare dei sostenitori e a riconoscersi come movimento (è il caso degli impressionisti), si profilò anche la figura dell’artista assolutamente isolato, che si emarginava volutamente dalla società e non si riconosceva in alcun sistema, neppure alternativo. «Profeta o reietto? Genio o alienato? Demiurgo o fallito?», l’artista ribelle aveva finito con alimentare il mito del genio pazzo o maledetto, che ha esercitato e continua a esercitare uno straordinario fascino sul pubblico. Van Gogh, Gauguin e Cézanne, rappresentati in mostra con opere emblematiche come i rispettivi autoritratti, La stanza di Van Gogh ad Arles, l’Autoritratto con il Cristo giallo e la Casa dell’impiccato, sono stati giustamente scelti come i protagonisti di questo nuovo modo, senza ritorno, di concepire l’arte.
La vita e la pittura di Van Gogh sembravano confermare la teoria sostenuta allora da Cesare Lombroso dell’associazione tra genio e follia. In realtà egli visse l’arte come una missione sacra ed esclusiva, in cui sacrificare tutto se stesso. Mentre Gauguin doveva considerarsi un essere superiore, capace di creare un collegamento tra il mondo visibile e l’invisibile. Questa sua vocazione, per cui si era autoritratto insieme a un antico Crocifisso, lo sospingeva in Oceania alla ricerca, attraverso una vita autentica e selvaggia, di una rigenerazione espressa in una pittura destinata a conquistare un posto davvero speciale nell’immaginario popolare.
A Cézanne era bastato invece rifugiarsi nella campagna di Arles, dove si isolò divenendo un asociale, per realizzare un primitivismo del tutto formale che è un altro mito dell’arte moderna. Invece gli impressionisti, radicati a Parigi, consacrarono altri luoghi, tra le rive della Senna alla periferia della città e i boulevard affollati del centro, e altre scene di vita, quella mondana che si svolgeva nei numerosi locali dedicati al divertimento tra il Bois de Boulogne e gli Champs-Elysées, nei quadri - tutti un’esplosione di luci e di colori - scelti per la terza e la quarta sezione della mostra.
Poi il registro è destinato ancora a mutare con le opere riunite sotto la tematica de L’ascolto interiore, dove viene seguito il percorso - e siamo verso la fine del secolo - dal naturalismo estroverso degli impressionisti alla visualizzazione dei percorsi psichici realizzata dai simbolisti come Puvis de Chavannes, Khnopff, Bernard e Vuillard.
Sempre le problematiche dell’intimità ricompaiono nella sezione intitolata In famiglia, dove appunto i grandi ritratti familiari di Bazille o Denis ci conducono a riconsiderare uno degli aspetti più importanti dell’evoluzione della società borghese e della sua morale. Quest’ultima venne spesso sovvertita dagli artisti come nel caso del capolavoro maledetto di Courbet L’origine del mondo, opera centrale della riflessione sul tema Maschile-Femminile. La rappresentazione in primo piano del sesso di una donna sconosciuta, esibito come un trofeo su un lenzuolo bianco, rimane uno dei limiti estremi mai osati dalla pittura.
Amnesty contro il nuovo Egitto
L’orrore dei “test di verginità”
di Maurizio Caprara (Corriere della Sera, 24 marzo 2011)
Proprio perché i faticosi passi del nuovo Egitto verso un sistema democratico vanno incoraggiati, è bene non tenere basso l’allarme che merita una denuncia di Amnesty International su «test di verginità» ai quali sarebbero state sottoposte donne scese in piazza dopo la caduta della trentennale presidenza illiberale di Hosni Mubarak.
Secondo le informazioni raccolte dall’organizzazione non governativa attiva in oltre 150 Paesi, il 9 marzo scorso i militari che hanno caricato una manifestazione nella piazza Tahrir del Cairo - ormai celebre perché il suo nome viene associato a richieste di libertà - non si sono limitati a mettere agli arresti almeno 18 delle partecipanti. Queste donne, ha riassunto Amnesty, hanno raccontato di essere state «picchiate, sottoposte a scariche elettriche, obbligate a denudarsi mentre i soldati le fotografavano e infine costrette a subire un "test di verginità"sotto la minaccia di essere incriminate per prostituzione». Una donna che si è dichiarata vergine e che non sarebbe risultata tale secondo le sconce verifiche dei controllori della sua illibatezza, poco conta se in camice bianco o divisa, avrebbe subito un pestaggio e scariche elettriche.
Brutalità del genere non sono una novità di questa stagione di democrazia egiziana, ancora da costruire e con davanti a sé un percorso né breve né lineare. Fuorviante, irresponsabile sarebbe oggi prendere a pretesto la denuncia di Amnesty per sostenere che il popolo egiziano stava meglio prima. Mubarak avallò condanne a morte. Le sue prigioni non vengono ricordate per condizioni civili. Non vanno dimenticate le sue elezioni finte, le sue intimidazioni sistematiche verso il formarsi di opposizioni come ne esistono nelle democrazie.
È però un dovere, per chi difende i valori di un vivere libero e civile e per i governi occidentali, far presente ai militari egiziani che metodi e torture come quelli descritti non aiutano i Paesi amici ad aiutarli. Sono sevizie, stupri di Stato. Strascichi di orrori comunque da estirpare.
Errore shock, ritirato il nuovo catechismo
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 13 aprile 2011)
Domande brevi, e risposte concise, seguite da un commento ugualmente sintetico sulla fede spiegata ai ragazzi. Ma forse la fretta ha giocato un brutto scherzo durante la revisione di YouCat, acronimo di Youth Catechism, il libro sul catechismo fatto per i giovani e impreziosito dalla Premessa di Benedetto XVI, anticipato ieri da Repubblica. E un errore sulla delicatissima questione della contraccezione farà ora mandare al macero le decine di migliaia di copie già stampate e presenti nelle librerie.
Il punto controverso ruota attorno alla domanda numero 420 delle 527 riunite nel volume. Dove ci si chiede: «Può una coppia cristiana fare ricorso ai metodi anticoncezionali?». E la risposta tranciante è: «Sì, una coppia cristiana può e deve essere responsabile nella sua facoltà di poter donare la vita». Come si evince da un’affermazione così assertiva, oltretutto non conseguente alla logica della domanda, l’errore risiede nella traduzione della stessa domanda. Tanto è vero che al punto successivo si legge: «Perché non tutti i mezzi per evitare il concepimento di un figlio sono ugualmente buoni?». E la risposta fa chiarezza sulla «regolazione consapevole del concepimento» e quindi sulla «pianificazione naturale della famiglia», cioè la prassi prescritta dalla dottrina.
Già ieri mattina alcuni acuti osservatori di cose religiose avevano notato la contraddizione. Nel pomeriggio poi il Catholic News Service (Cns), l’agenzia dei vescovi americani, dava la notizia della sospensione temporanea del libro, spiegando la decisione con il fatto che la traduzione italiana dava «erroneamente l’impressione che le coppie cattoliche possano usare "metodi contraccettivi"».
L’edizione italiana è stata così sospesa in modo che, spiega una portavoce della casa di pubblicazione Città Nuova, Elena Cardinali, «l’editore italiano possa rivedere il testo». Il testo, che si trovava in libreria già nei giorni scorsi, ben visibile in particolare a Roma nei negozi lungo via della Conciliazione che sfociano su piazza San Pietro, ha venduto 14 mila copie.
L’errore presente in italiano non si rileva né nell’edizione originale tedesca, della nota casa cattolica Pattloch, né in quella americana in inglese. Nel volume vengono trattati in modo soft temi controversi come la contraccezione, l’eutanasia passiva, il celibato, l’omosessualità e il divorzio. Il testo italiano ha avuto la supervisione del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia.
Questa mattina in Vaticano è prevista in ogni caso un’annunciata conferenza stampa, alla quale parteciperanno il cardinale Stanyslaw Rylko, capo dicastero per i Laici, l’arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn (l’edizione originale è a cura della Conferenza episcopale austriaca), e monsignor Rino Fisichella, capo dicastero per la Nuova evangelizzazione. YouCat doveva essere un’operazione di largo respiro, lanciata in vista della visita del Papa fra il 16 e il 21 agosto prossimo a Madrid per la Giornata mondiale della Gioventù. Rischia invece di essere un caso per un deprecabile errore di traduzione.
Il teologo David Berger:
“Papa Benedetto XVI è gay”
Secondo lo studioso “quando si parla tra studiosi in privato, tutti concordano sull’omosessualità di Ratzinger”. Indignati i cattolici
di Emiliana Costa *
“Papa Ratzinger è gay”. La scioccante dichiarazione è di David Berger, il teologo tedesco che nel novembre scorso era salito alla ribalta delle cronache per aver fatto coming out e aver lanciato input pruriginosi sull’omosessualità di molti preti nella chiesa cattolica. A distanza di pochi mesi, Berger è tornato con un pettegolezzo choc sulle inclinazioni sessuali di Benedetto XVI. E lo ha fatto dalle colonne del mensile gay “Fresh”.
Secondo il teologo “quando si parla tra studiosi in privato, tutti concordano sull’omosessualità di Ratzinger. Lui viene da una cultura clericale nella quale il tema dell’amore per persone dello stesso sesso era totalmente tabù. Quello che odia in sé lo proietta sugli altri e lo disprezza”.
Nel suo libro “Una sola illusione: un teologo gay nella Chiesa cattolica”ci sarebbero anche le dichiarazioni della giornalista Valeska von Roques, secondo cui Benedetto XVI durante la sua attività di cardinale avrebbe avuto storie omosessuali con alcune guardie svizzere.
“Il Papa - ha aggiunto Berger - è costantemente preoccupato dell’omosessualità, la prima cosa che ha fatto nel 2005 è stato un documento contro i preti gay, per lui sono pericolosi”. Secondo il teologo, Benedetto XVI avrebbe avuto contatti regolari con cardinali omosessuali.
Mentre sul web, la notizia rimbalza da un portale all’altro, il mondo cattolico si indigna davanti a simili dichiarazioni. Il sito cattolico kath.net sostiene che quella di Berger sia pura diffamazione di un uomo potente come papa Ratzinger. Anzi alcuni sono molto taglienti e ribattono che la tesi di Berger dimostrerebbe come l’omosessualità spenga il cervello.
Kreuz.net definisce Berger una “latrina omosessuale”, in quanto “avrebbe insultato il Papa nello squallido mensile omosessuale descrivendolo come un sodomita”.
* REPORTER: Emiliana Costa, 15 aprile 2011