In principio (o meglio, all’Inizio) [1991] *
Omosessualità, pedofilia e altre “perpetue” questioni (con tutte le loro devastanti implicazioni) assillano da secoli la vita istituzionale della Chiesa Cattolica. Ma da sempre si preferisce negare, razionalizzare, “occultare e mascherare - generalmente senza successo - l’umanità di scandali e mezzi scandali fin troppo umani all’interno della cristianità”(1).
Fare i conti e bene con la donna è stato sempre vietato. Riconoscere fondamentalmente che senza il libero e decisivo sì della donna (Maria) non sarebbe nato non solo Cristo ma nemmeno la Chiesa, per l’uomo della stessa Chiesa è paradossalmente “scandalo e follia”.
Alla vigilia del terzo millennio dopo Cristo, si gioca ancora ad opporre “autorità” e “tradizione” allo spirito di libertà del messaggio eu-angelico.
E’ vero che certe “squallide” omelie contro la metà e più del genere umano non fanno più un baffo a nessuno, e non si collocano oggi, per la loro impotenza e rabbia, né sul piano della cultura cristiana né sul piano della cultura umana semplicemente (almeno in linea di principio e in generale), ma è altrettanto vero che le varie e innumerevoli persuasioni “diaboliche” sulla donna dovrebbero essere messe al bando, come le armi atomiche e simili.
Dalla misoginia al ginocidio, come al genocidio, il passo non è lungo: la caccia alle streghe e l’Inquisizione, come Auschwitz e Hiroshima, non sono incidenti di percorso.
“Il deserto cresce” (Nietzsche) - in tutti i sensi, e non si può continuare come si è sempre fatto. Non abbiamo tempo, non più né molto. Tutta una mentalità di secoli deve essere messa sottosopra e l’intera società deve essere riorganizzata. Non ci sono altre strade. Bisogna pensare ancora, di nuovo e in altro modo - Dio, uomo e mondo. E a partire proprio da noi, da noi tutti.
Ad esempio, oggi non è possibile - è un’offesa all’intelligenza (Lorenzo Valla cosa ci ha insegnato?) e il segno di una tracotante perseveranza - continuare a “tradurre il racconto della creazione della donna con: Non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto che gli sia simile. Il testo originale ebraico dice: Gli farò un aiuto che sia l’altro di lui”. La differenza non è affatto innocente.
Come fa notare la teologa Wilma Gozzini che ha denunciato tale “vergognosa” situazione e che più volte ha “chiesto la correzione” di questo e altri passaggi del testo biblico (2), essa veicola tutt’altra visione della donna e del rapporto uomo-donna. “La donna è l’altro dell’uomo, uguale per diritti e doveri, ma anche diversa [...] L’altro che sta faccia a faccia è inquietante e scomodo e apre una sola alternativa. O lo si accoglie come unica possibilità data per vivere umanamente la propria storia, o lo si nega, assimilandolo - facendo simile ciò che altro - neutralizzando così l’alterità, non riconoscendogli autorità ma sottomissione, negandogli uguaglianza”.
Questo è il nodo da sciogliere e la sfida da accogliere. Si tratta, invero, di andare avanti coraggiosamente sulla strada indicata dallo stesso Giovanni Paolo II e trarre tutte le conseguenze dalla sua magisteriale convinzione, che il peccato originale “non può essere compreso adeguatamente senza riferirsi al mistero della creazione dell’essere umano - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio”, e che nella “non-somiglianza con Dio [...] consiste il peccato (3).
Infatti, se è così, non si può continuare (o lasciare che la situazione resti) come prima. Non è più concepibile che “l’apertura all’altro e il dono di sé, che dovrebbero essere la libera e vitale disposizione dell’essere umano in quanto tale, diventano una norma vincolante per una parte sola dell’umanità: il sesso femminile” (4); o, diversamente, che si neghi alla donna auto-possesso e auto-determinazione come autorità e uguaglianza. Questo è semplicemente satanico, cioè un ostacolo sulla strada dell’amore, della pace e della comprensione.
A tutti i livelli, e ad ogni modo, intestardirsi a “voler intendere la pura relazione [quella tra l’Io e il Tu, fls] come dipendenza significa voler svuotare della sua realtà uno dei portatori della relazione, e con ciò la relazione stessa” (5). Non altro.
Note:
1. Cfr. H. Kung, Essere cristiani, Milano, Mondadori, 1976, p. 19.
2. Cfr. W. Gozzini, Dio un po’ più materno? Suvvia..., “L’Unità” del 4.10.1990, p. 1. A riguardo, si cfr. anche M.C. Jacobelli, Il “Risus paschalis” e il fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia, Queriniana, 1990, p. 98.
3. Cfr. Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, pf. 9.
4. Cfr. C. Mancina, La Chiesa e la donna peccatrice, “L’Unità” del 10.12.1989, p.1.
5. Cfr. Buber, Il principio dialogico, Milano, Comunità, 1959, p. 74. Su questo tema, inoltre, cfr. I. Magli, Gesù di Nazaret. Tabù e trasgressione, Milano, Rizzoli, 1987, particolarmente il cap. IV e la conclusione.
*
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, "Introduzione", pp. 9-11.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
fls
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA: I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "#stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
P.S. - IL #BAMBINO SULLE SPALLE DEL GIGANTE: SAN CRISTOFORO.
CON FREUD, FACHINELLI, BATESON, E FOUCAULT, OLTRE: RIPARTIRE DA SHAKESPEARE, DALLA GRAZIA ("CHARIS"), E DALLA "NEXOLOGIA".
LA DIAGNOSI SOMIGLIA ALLA GRAZIA: RIPETIZIONE E RIPRESA.
Una formidabile sintesi sul problema e un brillante #segnavia per procedere bene e oltre. Ripartire proprio da quanto
"Porzia risponde:
RIPARTIRE DA SHAKESPEARE, DALLA INDICAZIONE DI "PORZIA" (NELLE VESTI DELL’AVVOCATO "BALDASSARE"):
A RENDERE OMAGGIO ALLE "FIGURE" DI PORZIA E A BALDASSARRE, E, PER MEGLIO, ACCOGLIERE LE INDICAZIONI DI SHAKESPEARE, forse, è da riflettere di più e meglio sul "Chi" fa la diagnosi.
"COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (S. FREUD, 1937): PORZIALMENTE. Se la "diagnosi #somiglia alla grazia", proprio da questo "dettaglio’ emerge la #questione su cui invita a riflettere Shakespeare ("#Amleto"), dal "biblico" #androcentrismo del #somigliare...
PARZIALMENTE: #PAOLINISMO. Da secoli Il #nodo dei "#nodi" (compreso il nodo dei "#Borromeo") è proprio ’nascosto" (come aveva cominciato a capire Freud e, quasi sicuramente, con l’aiuto dello stesso Shakespeare) nella lezione sulla grazia di "Dio" ("Charitas) del teologo di tutti i teologi dell’Occidente, Paolo di Tarso (1 Corinzi 13):
"DIA-GNOSI" DELLA "CADUTA": "THE TIME IS OUT OF JOINT" (#HAMLET, I.5). IN "PRINCIPIO" COSA "C’ERA", COSA C’E’, IL "DEUS #CHARITAS EST" GIOVANNEO O IL "DEUS #CARITAS EST" DEL #LATINORUM (ALESSANDROMANZONI)?
SHAKESPEARE CON PORZIA E BALDASSARE HA BEN CAPITO LA LEZIONE DEI "DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E SA BENISSIMO DELL’#AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE.
NOTE:
L’EUROPA E LE MITOLOGIE "COSTANTINIANE" (NICEA 325 - 2025): STORIA, ARTE, E STORIOGRAFIA...
IL RINASCIMENTO E LA MITOLOGIA DI "COME NASCONO I BAMBINI": "DOTTA IGNORANZA" (Cusano, 1440), CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453) E "DE PACE FIDEI" (Niccolò Cusano, 1453).
LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1572-1573) FU UNA "VITTORIA DI PIRRO":
CON LA MANCATA RISOLUZIONE DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA) NON A CASO LA SPAGNA E LA "CATTOLICISSIMA" CHIESA" APRONO ALLA GUERRA CONTRO EBREI E CONTRO MUSULMANI (GRANADA, 1492), CONTRO LUTERO E LA RIFORMA PROTESTANTE (1517) E CONTRO LA RIFORMA ANGLICANA (1534), E PORTERANNO CON L’INVINCIBILE ARMATA L’ATTACCO ALLA GRAN BRETAGNA (1588) DI ELISABETTA I.
L’Europa "cattolica" comincia a portare la "pace" e a fare il "deserto" dappertutto, e a buttare le basi per una "generica" devastazione e una distruzione globale.
CIVILTÀ DELL’ AMORE E VOLONTÀ DI GUERRA ... *
La liberazione, un’incompiuta che soffoca ancora
60 ANNI DI «I HAVE A DREAM». Ma per la giustizia e i diritti degli afroamericani, è sempre una soffocante estate, in cui - come Eric Garner, strangolato a New York, e come ha ripetuto per un’intera estate il movimento Black Lives Matter, la parola d’ordine è I can’t breathe
di Alessandro Portelli ([il manifesto, https://ilmanifesto.it/la-liberazione-unincompiuta-che-soffoca-ancora])
Come finisce il discorso di Martin Luther King del 28 febbraio 1963, lo ricordiamo tutti - la perorazione sul sogno, la luminosa visione futura. Quello che ci ricordiamo in pochi è come comincia: con un doppio riferimento alla storia. Le prime parole sono «Five score years ago» (e cioè «Cento anni fa»: score vuol dire venti).
Evocano l’incipit («Four score and seven years ago», 87 anni fa) del discorso del 1863 in cui Abraham Lincoln annunciava l’emancipazione degli schiavi rinviando al 1776 e all’indipendenza. Fin dalle prime parole, King avverte che la liberazione degli afroamericani è il compimento della liberazione del paese; ma questa liberazione è incompiuta, e quindi incompiuto è il paese.
King prosegue con una metafora che sembra quasi preparare l’immaterialità della perorazione conclusiva appoggiandola a una base di rapporti concreti - prepara il volo utopico finale partendo dal linguaggio mercantile, del commercio, del business: gli autori della Costituzione e della Dichiarazione d’Indipendenza, dice, «firmarono una cambiale (a promissory note) che ogni americano avrebbe ereditato. Era la promessa che tutti gli uomini - si, uomini neri come i bianchi - avrebbero goduto dei diritti inalienabili di vita, libertà e ricerca della felicità (...) Invece di onorare questa sacra obbligazione, l’America ha dato ai neri un assegno a vuoto (...) E noi oggi siamo qui per incassare questo assegno».
Ecco, il sogno resta sogno finché la cambiale non è pagata. Se li mettiamo insieme ci rendiamo conto che il sogno non era mero desiderio ma un concreto programma politico, basato sulle fondamenta stesse del paese. La ribellione all’America realmente esistente si legittima con il richiamo all’America nascente idealizzata. Finché questo debito non è saldato, l’America tradisce se stessa.
E continua a farlo. Molti anni prima di King, il poeta afroamericano Langston Hughes domandava: «Che ne è di un sogno rimandato? Avvizzisce come un chicco d’uva al sole, marcisce come una piaga purulenta, puzza come carne marcita, si affloscia come un carico troppo pesante - o esplode?». È esploso molte volte questo sogno differito per una cambiale non pagata - a Harlem, a Watts, a Detroit, a Milwaukee, a East Saint Louis...
Per due volte, King usa una bella parola sonora: sweltering. Vuol dire «soffocante»: «Questa soffocante estate del legittimo scontento nero» ... «il Mississippi, uno stato che soffoca nell’afa dell’ingiustizia». Le rivolte dei ghetti avvengono quasi sempre d’estate. Ma per la giustizia e i diritti degli afroamericani, è sempre una soffocante estate, in cui - come Eric Garner, strangolato a New York, e come ha ripetuto per un’intera estate il movimento Black Lives Matter, la parola d’ordine è I can’t breathe, non respiro.
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NOTA:
UNA QUESTION HAMLETICA, DI CADUTA "BIBLICA", NELLA CAVERNA "PLATONICA", E UNA MILLENARIA RICAPITOLAZIONE , ATEA E DEVOTA, NELLA LOGICA DEL "SAPIENTE" DI BOVILLUS) : "THE TIME IS OUT OF JOINT" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.2). Non nei millenni passati, la teologa Wilma Gozzini scriveva: “La donna è l’altro dell’ uomo , uguale per diritti e doveri, ma anche diversa [...] L’ altro che sta faccia a faccia è inquietante e scomodo e apre una sola alternativa. O lo si accoglie come unica possibilità data per vivere umanamente la propria storia, o lo si nega, assimilandolo - facendo simile ciò che altro - neutralizzando così l’alterità, non riconoscendogli autorità ma sottomissione, negandogli uguaglianza” ("L’Unità", 1990).
FLS
La metamorfosi sulla via di Damasco
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 3 agosto 2023
Due studi recentissimi prolungano la fortuna contemporanea di Paolo di Tarso e della sua opera. Si tratta di Vincenzo Vitiello, Nel silenzio del padre (Salerno Editrice) e Metamorfosi necessaria di JoséTolentino de Mendoça (Vita e pensiero). Essi si aggiungono a una già ricca serie di lavori apparsi all’inizio del nuovo secolo che hanno visto impegnati autori del calibro di Badiou, Agamben e Zizek, per citare solo i più noti.
Ma cosa significa rileggere oggi San Paolo? Innanzitutto ripensare la figura di Gesù non tanto come una figura storica o come un personaggio letterario, ma come evento. Se c’è, infatti, un tema cruciale che viene ripreso da questi due testi è il seguente: non si può comprendere la parola di Gesù se non a partire dalla sua incidenza su chi la ascolta. Per questo Paolo assimila Gesù a un evento. Ma cos’è un evento? È qualcosa che scompagina le leggi consuete del mondo, è un taglio nel loro ordine, una frattura, un trauma. Più di preciso, per Paolo l’“evento Gesù” è stato innanzitutto un incontro.
Questo incontro precede il pensiero, precede la traduzione militante del messaggio cristiano, precede la vita stessa di Paolo perché la istituisce come nuova. Il libro di Tolentino dedica pagine toccanti a questo evento che la leggenda racconta come una caduta di cavallo di Saul, persecutore accanito dei cristiani, e della perdita della sua vista. Accecamento dell’Ego, destituzione del suo prestigio, caduta con la faccia a terra. Passaggio brusco da Saul - che nel suo etimo significa “il più grande” - a Paolo - che nel suo etimo significa “il più piccolo”. Tolentino lo descrive come un “drammatico contromano”.
Ma è solo dall’incontro con l’evento-Cristo che Paolo diventa Paolo. È, più in generale, solo da questo incontro che il cristiano diventa cristiano. Il credere sorge, dunque, da una esperienza di metamorfosi. Prima è l’incontro e poi la fede, non il contrario. È quello che scrive Vitiello quando parla della sovversione cristiana del rapporto tra uomo e Dio: non dall’uomo a Dio, ma da Dio all’uomo. Paolo lo afferma nella Lettera ai Filippesi evocando la kenosis di Dio: Gesù è l’esito dello svuotamento (abbassamento, indebolimento) di Dio, del suo farsi uomo. Il Verbo, come recita il prologo del Vangelo di Giovanni, si è fatto carne. Nondimeno, compito dell’uomo, per Paolo, resta quello di vivere nel nome della Legge perché il suo rispetto per la Torah non viene mai meno.
Il suo martirio, come ricorda Vitiello, rovescia quello di Antigone. Se l’eroina sofoclea, col suo gesto di rivolta nei confronti della Legge, intende denunciarne il carattere disumano, Paolo assume la propria morte non per negare ma per istituire la Legge. Prima dell’incontro con Cristo - prima del tempo della sua conversione - egli era un esecutore irreprensibile della Legge. Ebreo, figlio di ebrei, il suo Dio è il Dio dell’Antica alleanza che ha parlato per via dei profeti, dunque, come si descrive nella prima Lettera ai Galati, «ero molto più zelante delle mie stesse tradizioni patrie». Poi accade l’evento dell’incontro che sposta irreversibilmente la direzione della propria vita e con essa il senso stesso della Legge. In gioco è una esperienza mistica che ruota attorno a una chiamata.
La conversione provocata dalla chiamata, come ricorda Tolentino, attraverso le parole di Paolo stesso, si differenzia sia dalla domanda greca di sapere, sia da quella giudea dei “segni”. L’universo simbolico del sapere e quello immaginario dei segni vengono disarticolati dalla centralità che Paolo attribuisce alla dimensione reale dell’incontro, dell’evento-Cristo. Si tratta di una metamorfosi, dell’acquisizione di una nuova forma di vita. Per Tolentino la parola chiave alla quale apre la conversione è speranza: la speranza che la morte non sia l’ultima parola sulla vita, la speranza che s’incarna nella resurrezione di Cristo, nel dare morte alla morte. Ma questa speranza non assume mai le forme della rassicurazione o del rifugio. Sarà questa invece la lettura freudiana della religione come fuga dalla realtà, regressione infantile della vita, rifiuto della sua asprezza. Nella speranza, come viene sostenuta da Paolo, è tutto il contrario.
La fede non è affatto rifugio, ma tribolazione, non è rassicurazione ma angoscia, non è accasamento ma esodo. È quello che ha sottolineato anche Heidegger nella sua lettura di Paolo: «per la vita cristiana - scrive - non c’è alcuna sicurezza».
È il valore che Paolo nella Lettera ai romani riconosce alla testimonianza di Abramo. La speranza che egli incarna è “la speranza contro ogni speranza”, la “speranza che non vede” poiché se vedesse quello che spera, scrive Paolo, come potrebbe sperarlo?
Più di preciso, la lettura di Vitiello fa emergere come l’esperienza paolina della conversione implichi non solo una trasformazione del soggetto, ma anche del senso del tempo. L’evento del Messia modifica il suo ordine: il passato è morto, l’età del peccato e della morte è scaduta per sempre; l’avvenire si apre come giorno della resurrezione e della vita eterna.
È la differenza profonda tra la concezione ebraica del tempo e quella cristiana: nella cristologia paolina l’adesso - il “grande Oggi” di Rosenzweig -, è il Kairos rivelato dall’evento-Cristo. «L’ora viene, ed è adesso», recita il Vangelo di Giovanni: la salvezza del Regno non è domani, ma adesso, accade oggi e non in un futuro sempre a venire. Nessuno più di Paolo ha avuto l’idea del Messia come evento, incontro, contingenza che si rivela “adesso”, nella vita individuale come in quella collettiva.
È quello che Kierkegaard indicava come compito di ogni cristiano: essere contemporaneo a Cristo. Per questo cristianesimo e gnosticismo risultano, come fa notare Vitiello, radicalmente eterogeni. Se il figlio di Dio si è fatto carne è perché la carne di cui si è fatto onora il mondo, è “carne sacra”, ricorda ancora giustamente Vitiello, come sacro è il mondo.
Nella Chiesa un processo che non potrà essere arrestato, dice Liviana Gazzetta, autrice di “Virgo et Sacerdos”
di Maria Rosaria De Rosa (Il paese delle donne on line - rivista,15 Febbraio 2021
Partiamo dall’attualità in questo incontro con Liviana Gazzetta, studiosa di storia delle donne - si è occupata dei movimenti femminili nell’Italia contemporanea - e autrice del libro appena pubblicato Virgo et Sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento, Edizioni Storia e Letteratura, Roma 2020.
Per la prima volta una donna parteciperà al Sinodo dei Vescovi non solo con funzioni consultive ma anche con diritto di voto. Il 6 febbraio papa Francesco ha nominato sottosegretaria del Sinodo suor Nathalie Becquart, religiosa saveriana, già direttrice del Servizio Nazionale per l’Evangelizzazione dei giovani e per le vocazioni della Conferenza dei Vescovi di Francia. A gennaio, il Papa ha aperto anche formalmente alle donne, nella liturgia cattolica, il Lettorato e l’Accolitato. Infine, per la prima volta, c’è una sottosegretaria di Stato, Francesca di Giovanni. E numerose sono le nomine di laici e di donne laiche in posti chiave, ad esempio la nomina di sei docenti universitarie e manager della finanza nel Consiglio per l’Economia Vaticana.
Perdonami se aggiungo al tuo elenco di fatti innovativi anche questo dato, che non è promosso dalla gerarchia, ma mi pare di grande rilievo: nel maggio del 2020 si è avuta la candidatura simbolica della teologa e biblista francese Anne Soupa (fondatrice del “Comité de la Jupe”) al ruolo di arcivescovo di Lione. Poi non dimenticherei l’incisiva lettera “Chiesa, chiedici scusa” firmata da centinaia e centinaia di credenti a vario titolo.
Nel merito della tua domanda, credo che all’interno della chiesa cattolica si sia aperto un processo che non potrà essere arrestato. Un processo che dal punto di vista storico si può leggere anche come riflesso di processi più ampi di crescita della soggettività femminile da cui il mondo cattolico non si difende più, come un tempo, secondo la logica intransigentistica. Dal punto di vista spirituale, poi, direi che questo processo dipende anche dalla ricchezza della ricerca femminile aperta tra teologhe, religiose, donne delle comunità: mentre il femminismo cosiddetto laico, a mio avviso, conosce le secche del materialismo e di una sostanziale mancanza di orizzonti, dentro la chiesa c’è invece una dinamicità intensa, spesso connessa alla contraddizione di fondo tra le grandi finalità universali della fede e le disparità di fatto ancora esistenti tra uomini e donne. Mi pare che, tenendo conto di questo, Bergoglio stia tentando di aprire lentamente, ma progressivamente, la chiesa a questa ricchezza, come parte di un tentativo più generale di riforma delle strutture ecclesiali.
In modo sintetico, e forse un po’ provocatorio, si potrebbe dire un po’ tutto e un po’ niente. Dal punto di vista sostanziale è diventato palese che le motivazioni legate all’impedimentum sexus non reggono assolutamente più. Nello stesso tempo pesa tutta la millenaria tradizione, che per il mondo cattolico gioca un ruolo molto importante (a differenza delle chiese evangeliche); pesa la posizione del Magistero, in particolare di papa Giovanni Paolo II con la sua “Ordinatio sacerdotalis”, che è stata presentata come sintesi definitiva (naturalmente negativa) sulla questione; pesa soprattutto il fatto che buona parte del potere effettivo nella chiesa è ancora nelle mani di uomini: la maggior parte dei quali non ha mosso un passo verso la comprensione di queste realtà.
Quello che emerge dalla mia ricerca, così come da parallele ricerche di Claude Langlois, è che è esistita una domanda femminile di sacerdozio che si è espressa ben prima del Concilio Vaticano II, presente anche in personalità che pure accettavano in toto la dottrina della chiesa o che addirittura erano su posizioni di intransigente opposizione al mondo moderno. La loro non era infatti una rivendicazione di diritto al ministero ordinato, ma una dedizione totale di sé, una forte vocazione che non trovava riconoscimento. Queste personalità manifestavano una sofferenza sottile ma profonda per la misoginia e il disprezzo che il clero mostrava nei confronti della loro ricerca spirituale. Era quindi l’identificazione con la Vergine, unita a una riflessione sul suo ruolo nel sacerdozio universale di Cristo (per questo l’appellativo di Virgo sacerdos), che consentiva di esprimere quel bisogno non riconosciuto.
La mia tesi è che il femminismo ha influito storicamente su entrambi i piani in cui è stata avanzata la domanda di sacerdozio. Il femminismo ha influito chiaramente sui processi di crescita della soggettività femminile che sono all’origine del piano rivendicativo al sacerdozio; ma ha influito anche indirettamente sul piano della vocazione: costituendo uno stimolo a pensare nuovi e più autonomi modi di vivere la femminilità, il movimento femminista ha per riflesso innescato processi di crescita anche in quelle donne cattoliche che, opponendosi alla domanda di diritti e libertà, finivano per cercare nuovi percorsi oltre i modelli tradizionali.
Il culto alla Virgo sacerdos (su cui il S. Uffizio pose una sorta di pietra tombale agli inizi del ‘900) ha avuto aspetti di originalità anche perché associata a una ricerca iconografica per accreditare forme di rappresentazione, appunto, sacerdotale della Madonna: una Vergine potente, mediatrice tra Dio e l’umanità, vestita con la pianeta dei preti, una Vergine come non l’abbiamo praticamente mai vista raffigurata nelle nostre chiese. Aggiungo che quasi tutte le famiglie religiose femminili che sono nate o hanno sviluppato una spiritualità legata al sacerdozio di Cristo (e la mia ricerca su questo si può dire solo agli inizi) hanno mostrato una grande consapevolezza delle insufficienze del clero maschile nello svolgimento del proprio ruolo e un’insospettata capacità di rielaborazione della tradizione teologica in un modo più favorevole alle donne.
Vorrei però citare come altrettanto inaspettate le reazioni dei teologi del S. Uffizio alla devozione di cui stiamo parlando: reazioni che mostrano un fastidio, un’insofferenza, una misoginia così profonde da far pensare a quanto poco i valori del cristianesimo dovessero aver permeato le loro vite...
Costituzione Apostolica “Praedicate Evangelium”
sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al Mondo,
19.03.2022
Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede *
INDICE
PREAMBOLO
1. Praedicate evangelium (cfr Mc 16,15; Mt 10,7-8): è il compito che il Signore Gesù ha affidato ai suoi discepoli. Questo mandato costituisce «il primo servizio che la Chiesa può rendere a ciascun uomo e all’intera umanità nel mondo odierno»[1]. A questo essa è stata chiamata: per annunciare il Vangelo del Figlio di Dio, Cristo Signore, e suscitare con esso in tutte le genti l’ascolto della fede (cfr Rm 1,1-5; Gal 3,5). La Chiesa adempie il suo mandato soprattutto quando testimonia, in parole e opere, la misericordia che ella stessa gratuitamente ha ricevuto. Di ciò il nostro Signore e Maestro ci ha lasciato l’esempio quando ha lavato i piedi ai suoi discepoli e ha detto che saremo beati se faremo anche noi così (cfr Gv 13,15-17). In questo modo «la comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo»[2]. Facendo così, il popolo di Dio adempie al comando del Signore, il quale chiedendo di annunciare il Vangelo, sollecitò a prendersi cura dei fratelli e delle sorelle più deboli, malati e sofferenti.
La conversione missionaria della Chiesa
2. La “conversione missionaria” della Chiesa[3] è destinata a rinnovare la Chiesa secondo l’immagine della missione d’amore propria di Cristo. I suoi discepoli e discepole sono quindi chiamati ad essere “luce del mondo” (Mt 5,14). Questo è il modo con cui la Chiesa riflette l’amore salvifico di Cristo che è la Luce del mondo (cfr Gv 8,12). Essa stessa diventa più radiosa quando porta agli uomini il dono soprannaturale della fede, «luce che orienta il nostro cammino nel tempo» e servendo il Vangelo perché questa luce «cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce»[4].
3. Nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia romana. Fu così nei momenti in cui più urgente si avvertì l’anelito di riforma, come avvenuto nel XVI secolo, con la Costituzione apostolica Immensa aeterni Dei di Sisto V (1588) e nel XX secolo, con la Costituzione apostolica Sapienti Consilio di Pio X (1908). Celebrato il Concilio Vaticano II, Paolo VI, riferendosi esplicitamente ai desideri espressi dai Padri Conciliari[5], con la Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae (1967), dispose e realizzò una riforma della Curia. Successivamente, Giovanni Paolo II promulgò la Costituzione apostolica Pastor bonus (1988), al fine di promuovere sempre la comunione nell’intero organismo della Chiesa.
In continuità con queste due recenti riforme e con gratitudine per il servizio generoso e competente che nel corso del tempo tanti membri della Curia hanno offerto al Romano Pontefice e alla Chiesa universale, questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo.
La Chiesa: mistero di comunione
4. Per la riforma della Curia romana è importante avere presente e valorizzare anche un altro aspetto del mistero della Chiesa: in essa la missione è talmente congiunta alla comunione da poter dire che scopo della missione è proprio quello «di far conoscere e di far vivere a tutti la «nuova» comunione che nel Figlio di Dio fatto uomo è entrata nella storia del mondo»[6].
Questa vita di comunione dona alla Chiesa il volto della sinodalità; una Chiesa, cioè, dell’ascolto reciproco «in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri, e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito della verità (cfr Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli dice alle Chiese (cfr Ap 2,7)»[7]. Questa sinodalità della Chiesa, poi, la si intenderà come il «camminare insieme del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore»[8]. Si tratta della missione della Chiesa, di quella comunione che è per la missione ed è essa stessa missionaria.
Il rinnovamento della Chiesa e, in essa, anche della Curia romana, non può che rispecchiare questa fondamentale reciprocità perché la comunità dei credenti possa avvicinarsi il più possibile all’esperienza di comunione missionaria vissuta dagli Apostoli con il Signore durante la sua vita terrena (cfr Mc 3,14) e, dopo la Pentecoste, sotto l’azione dello Spirito Santo, dalla prima comunità di Gerusalemme (cfr At 2,42).
Il servizio del Primato e del Collegio dei Vescovi
5. Fra questi doni dati dallo Spirito per il servizio degli uomini, eccelle quello degli Apostoli, che il Signore scelse e costituì come “gruppo” stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro[9]. Agli stessi Apostoli affidò una missione che durerà sino alla fine dei secoli. Per questo essi ebbero cura di istituire dei successori[10], sicché come Pietro e gli altri Apostoli costituirono, per volontà del Signore, un unico Collegio apostolico, così ancora oggi, nella Chiesa, società gerarchicamente organizzata[11], il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono uniti tra loro in un unico corpo episcopale, al quale i Vescovi appartengono in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del Collegio e con le sue membra, cioè con il Collegio stesso[12].
6. Insegna il Concilio Vaticano II: «L’unione collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli Vescovi con le Chiese particolari e con la Chiesa universale. Il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei fedeli. I singoli Vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari. Queste sono formate a immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica. Perciò i singoli Vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità»[13].
7. È importante sottolineare che grazie alla Divina Provvidenza nel corso del tempo sono state stabilite in diversi luoghi dagli Apostoli e dai loro successori varie Chiese, che si sono riunite in diversi gruppi, soprattutto le antiche Chiese patriarcali. L’emergere delle Conferenze episcopali nella Chiesa latina rappresenta una delle forme più recenti in cui la communio Episcoporum si è espressa al servizio della communio Ecclesiarum basata sulla communio fidelium. Pertanto, ferma restando la potestà propria del Vescovo, quale pastore della Chiesa particolare affidatagli, le Conferenze episcopali, incluse le loro Unioni regionali e continentali, insieme con le rispettive Strutture gerarchiche orientali sono attualmente uno dei modi più significativi di esprimere e servire la comunione ecclesiale nelle diverse regioni insieme al Romano Pontefice, garante dell’unità di fede e di comunione[14].
Il servizio della Curia romana
8. La Curia romana è al servizio del Papa, il quale, in quanto successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli[15]. In forza di tale legame l’opera della Curia romana è pure in rapporto organico con il Collegio dei Vescovi e con i singoli Vescovi, e anche con le Conferenze episcopali e le loro Unioni regionali e continentali, e le Strutture gerarchiche orientali, che sono di grande utilità pastorale ed esprimono la comunione affettiva ed effettiva tra i Vescovi. La Curia romana non si colloca tra il Papa e i Vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi secondo le modalità che sono proprie della natura di ciascuno.
9. L’attenzione che la presente Costituzione apostolica dà alle Conferenze episcopali e in maniera corrispondente ed adeguata alle Strutture gerarchiche orientali, si muove nell’intento di valorizzarle nelle loro potenzialità[16], senza che esse fungano da interposizione fra il Romano Pontefice e i Vescovi, bensì siano al loro pieno servizio. Le competenze che vengono loro assegnate nelle presenti disposizioni sono volte ad esprimere la dimensione collegiale del ministero episcopale e, indirettamente, a rinsaldare la comunione ecclesiale[17], dando concretezza all’esercizio congiunto di alcune funzioni pastorali per il bene dei fedeli delle rispettive nazioni o di un determinato territorio[18].
Ogni cristiano è un discepolo missionario
10. Il Papa, i Vescovi e gli altri ministri ordinati non sono gli unici evangelizzatori nella Chiesa. Essi «sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo»[19]. Ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è un discepolo-missionario «nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù»[20]. Non si può non tenerne conto nell’aggiornamento della Curia, la cui riforma, pertanto, deve prevedere il coinvolgimento di laiche e laici, anche in ruoli di governo e di responsabilità. La loro presenza e partecipazione è, inoltre, imprescindibile, perché essi cooperano al bene di tutta la Chiesa[21] e, per la loro vita familiare, per la loro conoscenza delle realtà sociali e per la loro fede che li porta a scoprire i cammini di Dio nel mondo, possono apportare validi contributi, soprattutto quando si tratta della promozione della famiglia e del rispetto dei valori della vita e del creato, del Vangelo come fermento delle realtà temporali e del discernimento dei segni dei tempi.
11. La riforma della Curia romana sarà reale e possibile se germoglierà da una riforma interiore, con la quale facciamo nostro «il paradigma della spiritualità del Concilio», espressa dall’«antica storia del Buon Samaritano»[22], di quell’uomo, che devia dal suo cammino per farsi prossimo ad un uomo mezzo morto che non appartiene al suo popolo e che neppure conosce. Si tratta qui di una spiritualità che ha la propria fonte nell’amore di Dio che ci ha amato per primo, quando noi eravamo ancora poveri e peccatori, e che ci ricorda che il nostro dovere è servire come Cristo i fratelli, soprattutto i più bisognosi, e che il volto di Cristo si riconosce nel volto di ogni essere umano, specialmente dell’uomo e della donna che soffrono (cfr Mt 25,40).
12. Deve pertanto essere chiaro che «la riforma non è fine a se stessa, ma un mezzo per dare una forte testimonianza cristiana; per favorire una più efficace evangelizzazione; per promuovere un più fecondo spirito ecumenico; per incoraggiare un dialogo più costruttivo con tutti. La riforma, auspicata vivamente dalla maggioranza dei Cardinali nell’ambito delle Congregazioni generali prima del Conclave, dovrà perfezionare ancora di più l’identità della stessa Curia romana, ossia quella di coadiuvare il Successore di Pietro nell’esercizio del suo supremo Ufficio pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari. Esercizio col quale si rafforzano l’unità di fede e la comunione del popolo di Dio e si promuove la missione propria della Chiesa nel mondo. Certamente raggiungere una tale meta non è facile: richiede tempo, determinazione e soprattutto la collaborazione di tutti. Ma per realizzare questo dobbiamo innanzitutto
Dato a Roma, presso San Pietro, nella Solennità di San Giuseppe Sposo della Beata Vergine Maria, il giorno 19 marzo 2022, decimo di Pontificato.
Francesco
* Fonte: Vatican.va - Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede (ripresa parziale).
Le illusioni di una teologia femminista: chi prenderà il posto della vittima?
di Ida Magli [1995]*
Questa, perciò, è la conclusione. Nessuna teologia femminista è possibile perché la struttura sacrificale che è stata posta alla base del cristianesimo da S. Paolo e, da allora, continuamente ribadita nei duemila anni di storia cristiana, pone alle donne un problema insolubile. Una religione sacrificale obbliga, prima di tutto, ad accettare di possedere una vittima, e subito dopo a stabilire chi debba essere il Sacrificatore e chi la Vittima. La vittima fino ad oggi è stata la Donna (le donne). Naturalmente questo significa anche che colui che ha designato la vittima - il Sacrificatore - è anche colui che detiene il Potere.
Come è chiaro, in queste brevi premesse si delinea la struttura di una società, anche se nel mondo moderno si continua a fare finta che esistano società «laiche», distinte dalle religioni. Il Protestantesimo è stato un tentativo implicito di scardinare il sistema del Potere legato al sacrificio della vittima. Ma non era ancora ben chiaro in Lutero che la discussione sul grado di realtà della presenza di Cristo nel «sacrificio della Messa» (si tende di solito a dimenticarsi che la Messa è appunto un «sacrificio») non era una polemica fra teologi e fra diverse interpretazioni delle Sacre Scritture, ma una domanda ben diversa: può sussistere una società senza sacrificio?
Interrogativi, questi, irrisolti, malgrado le diverse versioni del cristianesimo che si sono presentate lungo i secoli, perché in realtà, sotto le vesti della téologia, si discuteva(si discute) delle radici di fondazione della vita di gruppo.
Nel Protestantesimo, in teoria, la necessità della vittima è meno forte che nel Cattolicesimo, in quanto si tiene fermo il punto che il sacrificio vero, quello del Salvatore si è compiuto una volta per sempre; e la messa, di conseguenza, viene interpretata come «memoria», come semplice ricordo del sacrificio di Cristo. Nel Cattolicesimo, invece, con la riaffermata «transustanziazione» del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, il sacrificio è altrettanto reale, si compie nuovamente come sulla Croce.
Di fatto, sia l’una sia l’altra posizione girano intorno al problema irrisolvibile della necessità, o meno, della vittima. Sotto questo aspetto il cattolicesimo è tragicamente realista. Le chiese cattoliche piene di crocifissi, di corpi di martiri, di scene sanguinanti, lo dicono ad alta voce: vittime, vittime, vittime.
Nel protestantesimo, invece, esistono contraddizioni e ambiguità che, forse, sono ancor più significative. Prima di tutto, la rivendicata continuità con l’Antico Testamento, ossia con la cultura sacrificale per eccellenza.
Il cristianesimo originario, invece, e poi il cattolicesimo, almeno fino a ieri, hanno messo l’accento sulla rottura con l’ebraismo, e benché la polemica violentissima sul non riconoscimento dell’avvento del Salvatore e sull’uccisione del Figlio di Dio da parte degli Ebrei si sia svolta in termini teologici (e nell’antisemitismo concreto), in realtà era dettata dal trauma non cancellabile dell’assoluta novità portata dai Vangeli. Di fatto, però, sia l’una che l’altra Chiesa si basano fondamentalmente su S. Paolo e non su Gesù, cosa che riporta il problema alle sue radici: l’affermazione di Paolo che ogni cristiano è e deve essere, alter Christus e che «senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Lettera agli Ebrei, 9, 22). Dunque: la vittima è necessaria.
Se le cose stanno così, nulla di ciò di cui discutono le femministe ha un senso. La richiesta del sacerdozio per le donne, per esempio, non trova che giustificazioni superficiali di parità con gli uomini, se prima non si dice cosa si vuole fare di una religione sacrificale, e se si vuole, oppure no, conservare un’organizzazione di Potere del Sacrificatore. Chiedere il sacerdozio, infatti, significa questo: diventare Sacrificatori.
Nel protestantesimo, il sacerdozio è meno «forte» di quello cattolico a causa della mancanza reale del Sacrifìcio della vittima, ed è per questo che nelle Chiese riformate è stata più facile l’equiparazione delle donne nell’ufficio di Pastore. Ma il problema si sposta di poco. In realtà (e se ne hanno abbondanti prove nella storia del Calvinismo, del Giansenismo, del Puritanesimo, ecc.) le confessioni riformate sono più rigide e coercitive del cattolicesimo proprio perché, mancando un Potere forte che si assume la «rappresentanza» del gruppo davanti a Dio, e la valvola di sicurezza del «capro espiatorio», ossia di una vittima delegata al posto di tutti, l’ansia del singolo fedele, affidato soltanto a se stesso nei confronti della giustizia divina, aumenta a dismisura.
Dunque, le donne hanno di fronte a sé un problema irrisolvibile, se continuano a muoversi nelle religioni codificate sperando che siano possibili piccoli o grandi aggiustamenti, mirati in forma analogica sulle strutture maschili già esistenti. Dio è anche Madre, oltre che Padre? Sostituire alla grammatica maschile delle Sacre Scritture e della liturgia una corrispondente grammatica femminile? Oppure, inventare una grammatica «neutra»? Il Figlio è anche Figlia? Gesù non aveva sesso? Celebrare la Messa col miele al posto del vino? Tutte ipotesi, queste, già avanzate, con l’entusiasmo e con la spavalda sicurezza tipica del femminismo, da teologhe soprattutto statunitensi. Ma, come è evidente, prive di senso. Giochi da bambine.
È vero che i teologi hanno continuamente rielaborato, sollecitati dai cambiamenti culturali e sociali che si verificano nella storia, le interpretazioni delle Sacre Scritture, con una disinvoltura stupefacente. Ma oggi si è di fronte ad una trasformazione culturale che non può essere paragonata a nessuna di quelle, sia pure grandissime, che si sono già verificate nell’itinerario storico dell’Occidente. Né l’abolizione della schiavitù, né l’invenzione del metodo scientifico, né l’accelerazione tecnologica, né l’instaurarsi della democrazia hanno messo in luce, travolgendole, le radici della fondazione della cultura e dell’assetto sociale. È questo, invece, che sta avvenendo, mano a mano che saltano i punti fermi della collocazione delle donne. Se la prima organizzazione dei gruppi umani, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, è avvenuta attraverso 1o scambio matrimoniale (e su questo non ci sono dubbi da parte di nessun studioso, né biologo, né antropologo, né archeologo, né etnologo, né storico); se, come afferma Lévi-Strauss, la società è nata con la «circolazione» delle donne, è questa radice che oggi, almeno in Occidente, anche in base a quel primo seme gettato da Gesù in questa direzione, sta per essere strappata, divelta. Le donne si rifiutano di «circolare». La messa in crisi dello scambio matrimoniale è molto di più che questo: è messa in crisi (come la storia qui appena tracciata dovrebbe dimostrare) del ruolo assegnato alla «femminilità», prima ancora che alle donne. Ed è sulla «femminilità» che si gioca il concetto di vittima.
Si ritorna, perciò, al problema di partenza: è necessaria la vittima per la sopravvivenza di un gruppo? E, se è necessaria, c’è qualcuno che voglia prendere il posto della vittima che le donne stanno per lasciare?
* Cfr. Ida Magli, Storia laica delle donne religiose, Longanesi, Milano 1995, pp. 312-315.
CONTRO IL "PADRE NOSTRO", MA CON IL "PADRE NOSTRO": SENZA LA MESSA A FUOCO DELL’ EDIPO COMPLETO (FREUD) NON SI ESCE DALLA TRAPPOLA DEL MENTITORE STORICAMENTE ISTITUZIONALIZZATA ... *
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l’iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 23.02.2016)
Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo - è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano. Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso». Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».
Addio al Padre *
"[...] Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non vi sia più spazio non soltanto per il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno concorso alla formazione e allo sviluppo della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso qualsiasi rilevanza e autorità. Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L’immagine di un Dio-Padre è ormai priva di senso.
Non può sussistere una religione fondata sull’importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi aborti confermando così che vuole la propria morte. D’altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in quanto non gli serve più a garantirne la sopravvivenza. Non serve né per l’al di là né per il di qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite, oppure vengono significativamente caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la propria vecchiaia. Alla vita nell’aldilà è ormai quasi impossibile credere e di fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.
La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d’organi hanno tolto concretamente e simbolicamente ogni trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però nessuno evidentemente pensa più.
Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità. Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d’organi costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.
Ma il trapianto d’organi significa l’annullamento delle specifiche individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell’istinto sempre presente nell’uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l’altro); significa avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di affermare l’esistenza del singolo, afferma la sua non-forma, la sua mancanza d’identità, la sua integrazione nell’identico. Passaggio indispensabile per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità» dell’omosessualità.
Non si può trarne che una sola conclusione: hanno voluto che l’omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma il primato dell’omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela, dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l’assoluta «differenza» del genere maschile e femminile, ossia la differenza per antonomasia. L’interscambiabilità dei corpi l’ha annientata. Dunque: nessun «Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna «Società», nessun «Futuro».
Naturalmente questo significa che si vuole la fine non soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della società europea, la fine dei «bianchi». L’omosessualità è strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchi".
* Cfr. Ida Magli Dopo l’Occidente, Rizzoli, Milano, 2012.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-EVANGELICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
FLS
IL SINODO APRE LE PORTE A FREUD
di DOMENICO DEL RIO (la Repubblica/Archivio, 06 ottobre 1990)
CITTA’ DEL VATICANO Date spazio alla psicoanalisi se volete capire che cosa avviene nell’ animo di un ministro di Dio! Aprite i seminari alle scoperte della psicologia del profondo! La raccomandazione è stata lanciata quasi ufficialmente al Sinodo dei vescovi. Non è stata la trovata di qualche padre sinodale americano o mitteleuropeo. La proposta è venuta dal lungo intervento di uno degli esperti di cui si è dotata la Segreteria speciale del Sinodo: padre Timoty J. Costello, un religioso della Congregazione dei Maristi, docente di Teologia negli Stati Uniti. Costello, che ha parlato alla presenza del papa, non ha pronunciato mai la parola psicoanalisi, ma ha usato terminologia ed espressioni equivalenti: moderna psicologia del profondo, livello inconscio, forze inconsce, blocchi occulti...
Una vera e propria lezione di psicoanalisi ai rappresentanti di tutti gli episcopati del mondo. E’ da qualche tempo che la psicoanalisi, dapprima completamente demonizzata, si è aperta qualche varco nella considerazione della Chiesa cattolica. Sulla strada di questi tentativi erano cadute vittime illustri, vescovi e preti, come Mendez Arceo, vescovo messicano di Cuernavaca, Ivan Illich e il più famoso e il più martoriato dal Sant’ Uffizio, Marc Oraison.
Ma è certamente eccezionale che, in una sede così autorevole come il Sinodo e con un intervento così articolato di un esperto della Segreteria, la moderna psicologia del profondo sia stata proposta come un mezzo per scrutare i cuori, come si diceva una volta, dei candidati al sacerdozio. Per una materia ancora in stato di sospetto, Costello ha fatto, evidentemente, le dovute distinzioni. Durante gli ultimi trent’ anni, ha detto, ci sono stati diversi casi di applicazioni indiscriminate di idee e di metodi psicologici alla formazione religiosa, spesso con risultati disastrosi. Non tutte le scuole di pensiero psicologico sono compatibili con la rivelazione cristiana. Scuola compatibile, invece, è l’ Università Gregoriana di Roma, diretta dai gesuiti. Costello l’ ha espressamente menzionata.
Il religioso marista ha cominciato col porsi alcuni interrogativi. Perché, ha detto, alcuni seminaristi e sacerdoti vanno bene e altri si stancano? Perché alcuni si tirano indietro? Perché vi sono fallimenti riguardo al celibato sacerdotale?. Per capire che cosa sta dietro a questi problemi, ha proseguito Costello, sono del parere che la Chiesa possa ricevere aiuto da alcune delle scoperte della moderna psicologia del profondo. Ad esempio, la ricerca intrapresa e pubblicata dal professor Luigi Rulla, gesuita, e dai suoi colleghi dell’ Università Gregoriana, tenta di chiarire il modo in cui i fattori psicologici possono influenzare la risposta di una persona alla Grazia e, tanto più, alla vocazione sacerdotale.
Rulla, che è anche medico e psichiatra, ha pubblicato cinque volumi sulla Antropologia della vocazione cristiana, il primo dei quali intitolato Psicologia del profondo e vocazione, editi in inglese dalla Gregoriana e in italiano dall’ editrice Piemme. La nostra, dice il gesuita, è in realtà una psicoanalisi adattata all’ antropologia cristiana.
Non penso che papa Wojtyla, presente al Sinodo, abbia trasalito. Il cardinale di Cracovia, prima di essere eletto papa, in alcune sue opere, per esempio in Persona e atto, aveva espresso posizioni conciliabili con una psicologia del profondo. E’ dunque sulla scorta dei lavori di padre Rulla e della conciliabilità di papa Wojtyla che Costello ha potuto illustrare perché si debbano mettere in funzione questi mezzi di conoscenza nel momento di decidere se un giovane è adatto o no a intraprendere la via del sacerdozio. E’ possibile, ha spiegato l’ esperto del Sinodo, che una persona fondamentalmente normale desideri e professi a livello conscio determinati ideali religiosi, pur essendo mossa, al tempo stesso, e senza esserne consapevole, da forze inconsce che possono essere opposte a questi stessi ideali. Come una porta girevole, una persona può proferire un sì consapevole e un no nello stesso preciso istante. Ciò lascia la persona in uno stato di dicotomia e di tensione interiore, definito incoerenza vocazionale. E’ letteralmente trascinata in direzioni diverse da due forze contrastanti. I suoi effetti sulla vita vocazionale possono essere drammatici.
Il relatore ha citato una ricerca secondo la quale il 60-80 per cento dei seminaristi sono deboli e vulnerabili sotto il profilo vocazionale. Come affrontare questa situazione? Gli attuali metodi di formazione, ha concluso Costello, non sono efficaci. Mi sembra che i metodi tradizionali della formazione religiosa e del discernimento vocazionale vadano completati, non sostituiti, con approcci che consentano al seminario di raggiungere le sue finalità con maggior efficacia. La chiave sta nella formazione dei formatori, la cui preparazione specifica dà la capacità di aiutare i seminaristi a individuare e a superare i blocchi occulti opposti all’ azione della Grazia di Dio nella loro vita.
In fatto di formazione dei seminaristi, ieri, un vescovo di Papua e Nuova Guinea, Gerard Francis Loft, nel sottolineare l’ urgenza di una maturità emotiva dei candidati al sacerdozio, ha suggerito sane relazioni tra i sacerdoti e le donne e una presenza di personale femminile nei seminari. La capacità di mantenere relazioni con i membri dell’ altro sesso, ha detto, è un dovere, specie in situazioni culturali dove la divisione tra i sessi è stata mantenuta rigidamente e in maniera non cristiana. Dopo tutto, le donne costituiscono più del 50 per cento della Chiesa e in gran parte sono fedeli praticanti. In una società dove le donne sono represse la Chiesa deve essere leader e fonte di ispirazione nel liberare chi è prigioniero. Ma come possiamo fare questo, se i nostri ministri sono tenuti nelle stesse catene e viene loro offerto un programma di formazione che li prepara in maniera malata a questo ruolo?
La prima radice
Il castigo ha sostituito il destino, ma le donne erano altro. Petrignani ri-legge Bompiani
di Sandra Petrignani (Il Foglio, 22 nov 2019)
Suggerisco di cominciare a leggere L’altra metà di Dio (Feltrinelli) dalla fine. Nel senso: suggerisco di leggere - per cominciare - l’ultimo capitolo dal titolo “Ri-epilogo” perché, appunto, è un epilogo ed è un riepilogo, che aiuterà a orientarsi nelle intenzioni dell’autrice, Ginevra Bompiani, e nelle tante storie che ri-legge e ri-racconta (quanti “ri”, giusti e necessari). Io l’ho letto alla fine, con enorme commozione, e poi ho anch’io riavvolto e ri-capito la messe delle storie.
Dice Ginevra: “Questo libro nasce dall’ansia”, non per le cose sue personali, ma per quel che ci tocca vivere nell’epoca in cui viviamo (e non solo noi donne). Spiega che ha diviso il testo in tre parti (Distruzione. Punizione. Mistificazione). Che ha voluto capire da dove è nata la “corsa suicida” che ci ha portato alla catastrofe del pianeta. Che il castigo ha sostituito il destino. Che l’Occidente (è sotto gli occhi di tutti) ha “definitivamente confuso la verità con la menzogna”.
Perché siamo a questo punto, è la grande domanda. Perché l’umanità si è data una storia così violenta, distruttiva e autodistruttiva? Avrebbe potuto andare diversamente? Volendo provare a rispondere, l’autrice si mette in marcia, e parte da lontano, da molto lontano, dalla silenziosa preistoria. Dall’inizio dei tempi, dal regno delle madri o matriarcato che dir si voglia, quando non c’erano ancora storie da leggere, ma solo da ascoltare, e poi dall’inizio delle storie scritte, almeno quelle che sono arrivate fino a noi.
Ma siccome “anche le storie hanno il loro inconscio”, Ginevra indaga nella loro misteriosa “primavoltità” (per citare con lei il neologismo di Bobi Bazlen), cerca l’ombra, la parte cancellata e orale che ha lasciato tracce delicate e sepolte, la parte lunare, quell’altra metà di Dio che è stata proditoriamente sottratta, “il femminile che non abbiamo ancora mai visto, affiancato a un maschile che non vediamo più”. Perché l’ipotesi (ma è molto più di un’ipotesi, ne restano tracce tangibili in tanti reperti archeologici e nel filo rosso che lega miti di civiltà diverse) è che “sia esistito un mondo in cui i valori maschili non sopraffacevano quelli femminili”, “un mondo vasto, splendido e mite” in cui regnavano le donne, che le armi non le conoscevano, non le costruivano, non le usavano e che dalle armi sarebbero state sopraffatte, sottomesse, ridotte al ruolo marginale di spose (nella migliore delle ipotesi).
E, dice Bompiani, “non vi è mistificazione più antica e più durevole, più tenace e silenziosa di quella che qualche migliaio di anni fa ha sostituito il mondo pacifico e egualitario delle società matriarcali con il patriarcato, facendo delle prime il grande rimosso della storia e dell’altro la nostra seconda natura”.
Non faccio che citare direttamente l’autrice perché il suo è un libro scritto in modo incantevole e preciso, dotto e visionario insieme, che convince e affascina nel suo stare saldo sui testi di riferimento, ma non per noiosamente chiosarli o non solo per interpretarli, bensì per interrogare senza fine l’immaginario umano: “Non cerco la Storia, ma le storie che ci hanno formati nel sonno”.
Che meraviglia. E così torniamo ad Adamo ed Eva, al sacrificio di Isacco, a Lot ridotta a statua di sale, alla Vergine Maria, cui non è concessa la divinità (nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: non dimentichiamo!), ma solo di essere “beata fra le donne”.
Man mano che si procede nella lettura viene un sentimento di rabbia e d’indignazione per la grande impostura che ci domina da sempre, per la vasta simbologia (non solo quella ebreo-cristiana sangue del nostro sangue. Bompiani va dritta alle origini risalendo all’ispirazione mesopotamica delle storie bibliche e della mitologia greca) che ci ha nutriti e resi quelli che siamo, mentre forse potevamo essere un’umanità diversa, materna, più somigliante in tutto al volto, così femminile, di Gesù Cristo, un figlio non a caso, figlio però di un padre dispotico e disposto a sacrificarlo (“riparando” al mancato sacrificio di Isacco che tragicamente lo annuncia) e di una madre dolorosa, completamente priva di potere.
La temeraria Ginevra si concede ogni tanto (spesso) il lusso di seguire libere associazioni e ci illumina sull’ispirazione di scrittori e filosofi amati (da Kafka a Wittgenstein, per citarne due soltanto) in una vertiginosa scorribanda culturale che non è mai schiacciante, voglio dire che non sopraffà il lettore, ma lo suggestiona, lo illumina e lo incanta, in una lingua di grande dolcezza, quella stessa lingua che fa dire a Franz Kafka, appunto: “Consideratemi un sogno”. Le cose viste “in sogno” dalla pizia Ginevra hanno la forza convincente del presagio cui non si sfugge, della verità intravista e terribile.
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
Classici.
Aristofane, la satira declinata al femminile
Una nuova edizione di “Lisistrata” curata da Perusino e tradotta da Beta è l’occasione per evidenziare come il grande autore greco metta in scena le donne con credibile efficacia
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 30 gennaio 2021)
Non c’è un’opera di Aristofane che non sia intrisa di una profonda passione civile e politica, nel senso più autentico dei termini. Perfino le più aeree, a fantasia sfrenata, le più surreali e metafisiche e mitiche, come le Nuvole o Gli uccelli, sono le satire più sorprendenti che siano state inventate nel gioco del paradosso: una reazione a catena che non finisce mai, di fronte all’assurdità, alla stupidità, all’egoismo, al sopruso dei singoli, delle città, di quella Atene che in perenne lotta contro Sparta sta vorticosamente precipitando verso l’auto-annientamento con la guerra del Peloponneso: dissidi interminabili, rotazioni di regimi demagogici e oligarchici, altro che democrazia, sanguinose battaglie, perdite di libertà, pur essendo scampati dall’invasore persiano grazie all’eroico sforzo comune, ma pronti a finire in bocca ai macedoni.
Quello di Aristofane è un mondo plurale, un brulichio di voci, di caratteri, a specchio della società contemporanea, che più sono parossisticamente aderenti alla realtà, più viaggiano verso l’universale. Aristofane, un genio del realismo fantastico, che usa la parodia con l’esuberanza e la disinvoltura di chi sa muoversi tra cielo e terra, tra l’infimo e l’altissimo, con la pesantezza e la leggerezza che solo il teatro di Shakespeare potrà avere. Lo guidava il senso dell’unità, del principio, dell’ordine, del piacere e della bellezza, tutti nascosti, proprio segreti, nello straripante mondo che raffigurava portando sempre all’estremo ogni tensione, ogni plurale possibilità.
Le tre commedie di Aristofane che hanno protagoniste le donne, scritte dal 411 al 391, sono al plurale. Contemporanea alle Tesmoforie (411) e pur avendo una protagonista guida, anche Lisistrata mette in scena un intero genere ( Valla Mondadori, ottima cura di Franca Perusino, efficace traduzione di Simone Beta: pagine 350, euro 50). Se dagli Acarnesi e dalla Pace Aristofane percorre tutte le strade per illustrare l’insensatezza comune che lo farà volare attraverso le Nuvole, e con gli Uccelli per descrivere i sofismi che sgretolano il buon senso e per colpire perfino Socrate; se si innalza in utopie e ribellioni e fughe del mondo fino a Nubicuculia, come il miglior antenato di Swift - mentre scenderà fin nell’Ade con Dioniso per riportare la poesia dell’odiosamato Euripide e di Eschilo sulla terra rovinata - con la trilogia al femminile Aristofane compie un viaggio altrettanto u- topistico e impercorribile: quello delle Amazzoni, o del governo femminile, in una escalation inarrivabile sotto tutti gli aspetti della immaginazione reale, fisica e prorompente, con le ali di quel dio Riso al quale credette Apuleio, e che Fellini onorò sempre, rinominandolo apposta nel Satyricon.
Nelle Tesmoforie il bersaglio femminile è un Euripide che ne mostrerebbe troppi difetti, ma poi se ne esce con la sua Elena in palinodia, e il gioco aggressivo finisce con un ritorno a casa, nell’ordine primitivo. Lisistrata bersaglia la dissennata litigiosità dei maschi guerrafondai, che più sono sobri e razionali, più trovano pretesti e cavilli di guerra, mentre la grande, saggia ebbrezza dionisiaca, di cui le donne sembrano le segrete protettrici, con il loro piacere inebriante, porta una sapienza superiore, la conciliazione e quella pace ’irragionevole’, che è l’unica via per la salvezza.
Perciò usano a ricatto l’estremo rimedio, quello dell’astensione dal sesso - e, se costrette, dal piacere - chiamando tutto il genere femminile delle città nemiche, Atene e Sparta, a giurare il patto di astinenza che dispiace a loro stesse, ma costringerà gli uomini a cessare la loro bellicosità, in nome del theleian kyprin, il piacere femminile, l’estasi dei riti della notte, sacri ad Afrodite. Come nelle Tesmoforie, la volgarità e l’oscenità si sfrena: cori di vecchi che portano il fuoco contro cori di vecchie che minacciano d’inondarli d’acqua per impedirgli di riprendere l’Acropoli di cui si sono impossessate con il tesoro che serve alla guerra, tra gli insulti e le scene più volgari, i quadri esilaranti della frustrazione del desiderio sceneggiati dalla coppia di Cinesia e Mirrina, e l’incontro degli ambasciatori resi impotenti dallo stesso urgere del loro classico strumento di potenza, il fallo. Lisistrata vincerà, anche sulle sue stesse amiche che non reggono la prova e tentano di defezionare con pretesti ridicoli; fiera di essere nominata con il proprio nome, per la virtù di un amore di patria superiore, con la splendida educazione che lei e le compagne hanno ricevuto. È riuscita a evitare la guerra. Ritorna all’ordine che accetta.
Come scrive Franca Perusino, « Lisistrata è una commedia al femminile, non una commedia femminista». Pochi anni dopo, nel 391, in quell’Atene decaduta e turpe, che le ombre di Eschilo e Sofocle, di Socrate e Platone hanno disertato, Le donne all’assemblea si spingeranno oltre. Le donne mascherate da uomini conquistano la maggioranza e impongono il comunismo, economico ed erotico. I giovani, prima di accoppiarsi con le coetanee, devono soddisfare le vecchie. È il trionfo della parodia più travolgente, che non risparmia nulla, nemmeno l’oscenità, le idee, il senso del mondo, lo stesso autore.
Certo, Aristofane non può accarezzare un pensiero femminista. Ma pur seguendo la molteplicità e la mutevolezza delle Nuvole, lo concepisce: non possiamo non vedere che queste commedie al femminile sono quanto di più ardito sia stato immaginato nei secoli. Di recente, l’ornitologo Richard O. Prum nell’Evoluzione della bellezza (Adelphi) cita l’esempio di Lisistrata per sostenere che l’evoluzione estetica, non quella adattativa, conta di più, ed è stata messa in atto dal genere femminile, anche per fare smorzare al partner maschile l’aggressività.
La scelta estetica non è tanto quella visiva, quanto quella legata alla sinestesia del piacere. Come sostiene Lisistrata, se le donne dovessero subire l’atto sessuale e non partecipassero col loro stesso piacere, gli uomini se ne stancherebbero presto. La reciprocità dell’eros, sostenuta in concordia da Lisistrata e dall’etologo Prum sembra ovvia e naturale, ma, chissà perché, nei secoli non tutti l’hanno pensata così. Anzi! L’aveva pensato il meraviglioso Aristofane, l’unico a cui Platone nel Simposio fa spiegare l’eros col mito degli esseri sferici primordiali, tragicamente segati in due da Zeus per la loro superbia, le cui metà non finiscono di attrarsi da allora, in conflitto.
COMUNE PATERNITÀ DI DIO E QUESTIONE ANTROPOLOGICA: IL PROBLEMA DEI "TRE ANELLI" E I "FRATELLI TUTTI". A che gioco giochiamo?... *
La fraternità come principio di ordine sociale
di Stefano Zamagni ("Bene comune", 31 dicembre 2020)
Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale è una autentica ispiera - il raggio di luce che, penetrando da una fessura in un ambiente in ombra, lo illumina rendendo visibile ciò che in esso staziona. Duplice la mira che la terza enciclica (dopo Lumen fidei, 2013 e Laudato sì, 2015) di papa Francesco persegue. Per un verso, risvegliare in tutti, credenti e non credenti o diversamente credenti, la passione per il bene comune, sollecitando tutti a trarne le conseguenze dirette. Per l’altro verso, fare chiarezza su concetti che troppo superficialmente vengono presi come sinonimi o quasi. La confusione di pensiero che ne deriva non giova né al dialogo né alla prospettazione delle necessarie linee di azione. Vedo di precisare.
Fraternità non ha lo stesso significato di fratellanza e ancor meno di solidarietà. Mentre quello di fratellanza è un concetto immanente che dice dell’appartenenza delle persone alla stessa specie o a una data comunità di destino, la fraternità è un concetto trascendente che pone il suo fondamento nel riconoscimento della comune paternità di Dio. La fratellanza unisce gli amici, ma li separa dai non amici; rende soci (socio è “colui che è associato per determinati interessi” (102) ) e quindi chiude gli uniti nei confronti degli altri.
La fraternità, invece, proprio in quanto viene dall’alto (la paternità di Dio) è universale e crea fratelli, non soci, e dunque tende a cancellare i confini naturali e storici che separano. Il terzo termine che appare nella bandiera della Rivoluzione Francese (Liberté, egalité, fraternité) scaturisce dall’eguaglianza della specie e della natura di tutti gli uomini. Ma, come si legge nella Lumen fidei, 54, qualsiasi fraternità che sia priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento, non riesce a sussistere.
Altrettanto diversa è la fraternità dalla solidarietà. È merito grande della cultura cristiana quello di aver saputo declinare, in termini sia istituzionali sia economici, il principio di fraternità facendolo diventare un asse portante dell’ordine sociale. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che essa ha conservato nel corso del tempo. Ci sono pagine della Regola di Francesco che aiutano bene a comprendere il senso proprio del principio di fraternità. Che è quello di costituire, ad un tempo, il complemento e il superamento del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, quello di fraternità è il principio che consente ai già eguali di esser diversi - si badi, non differenti.
La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma, cioè la loro singolarità. Questa compresenza di uguaglianza e singolarità è ciò che caratterizza in modo unico il principio di fraternità. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ‘900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Ma la buona società in cui vivere non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è vero.
Cosa fa la differenza? La gratuità. Dove essa manca non può esserci fraternità. La gratuità, non è una virtù etica, come è la giustizia. Essa riguarda la dimensione sovraetica dell’agire umano; la sua logica è quella della sovrabbondanza. La logica della giustizia, invece, è quella dell’equivalenza, come già Aristotele insegnava. Capiamo allora perché la fraternità va oltre la giustizia. In una società, solo perfettamente giusta - posto che ciò sia realizzabile - non vi sarebbe spazio per la speranza. Cosa potrebbero mai sperare per l’avvenire i suoi cittadini? Non così in una società dove il principio di fraternità fosse riuscito a mettere radici profonde, proprio perché la speranza si nutre di sovrabbondanza.
Sorge spontanea la domanda: perché papa Francesco ha scelto la parabola del buon Samaritano come fondamento del suo approccio alla fraternità? La domanda ha senso perché il testo evangelico nulla dice (né lascia intendere) a proposito della relazione di reciprocità che, come sappiamo, è necessaria per conservare nel tempo il legame di fraternità. I rapporti tra fratelli sono di reciprocità, non di scambio e tanto meno di comando. La reciprocità è un dare senza perdere e un prendere senza togliere. Tra il Samaritano e la vittima che giace distesa a terra non sorge alcuna reciprocità. La parabola, dunque, è più icona della solidarietà o della fratellanza che non della fraternità in senso proprio. E allora? Il fatto è che papa Francesco con questa sua scelta ha voluto che comprendessimo appieno la differenza tra prossimità e vicinanza. Il levita e il sacerdote erano certamente vicini della vittima (tutti e tre giudei), ma non si sono fatti prossimo della stessa. Alla fratellanza basta la vicinanza; la fraternità postula la prossimità.
Dove ci portano, sul piano della pratica, le sottolineature di cui sopra? Per ragioni di spazio, soffermo qui l’attenzione su alcune soltanto delle implicazioni rilevanti quelle che reputo più urgenti per il tempo presente. Primo, occorre, una volta per tutte, rendersi conto dei guasti seri che la matrice culturale dell’individualismo libertario va producendo. L’individualismo è la posizione filosofica secondo cui è l’individuo che attribuisce valore alle cose e perfino alle relazioni interpersonali. Ed è sempre l’individuo il solo a decidere cosa è bene e cosa è male; quel che è lecito e illecito. In altro modo, è bene tutto ciò cui l’individuo attribuisce valore. Non esistono valori oggettivi per l’individualismo, ma solo valori soggettivi ovvero preferenze legittime. Di qui l’implicazione secondo cui si deve agire “etsi communitas non daretur” (come se la comunità non esistesse).
D’altro canto, il libertarismo è la tesi secondo cui per fondare la libertà e la responsabilità individuale è necessario ricorrere all’idea di autocausazione, per la quale pienamente libero è solamente l’agente auto-causato, quasi fosse Dio. Si può ora capire perché dal connubio tra individualismo e libertarismo, cioè dall’individualismo libertario, sia potuta scaturire la parola d’ordine di questa epoca: “volo ergo sum”, cioè, “io sono quel che voglio”. La radicalizzazione dell’individualismo in termini libertari, e quindi antisociali, ha portato a concludere che ogni individuo ha “diritto” di espandersi fin dove la sua potenza glielo consente. E’ la libertà come scioglimento dai legami l’idea oggi dominante nelle nostre società. Poiché limiterebbero la libertà, i legami sono ciò che deve essere sciolto. Equiparando erroneamente il concetto di legame a quello di vincolo si confondono i condizionamenti della libertà - i vincoli - con le condizioni della libertà - i legami, appunto. E questo perché l’individualismo libertario non riesce a concettualizzare la libertà di soggetti “quae sine invicem esse non possunt” (che senza reciprocità non possono essere). Se si ammette che la persona è un ente in relazione di prossimità con l’altro, il libertarismo non ha ragione d’essere.
Un secondo potente invito che ci viene dall’incalzante magistero di papa Francesco è quello di affrettare i tempi del passaggio dal modello tradizionale (e ormai obsoleto) di responsabilità ad un modello più ricco, all’altezza delle sfide in atto. L’interpretazione tradizionale di responsabilità la identifica infatti con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, produce o pone in essere. Tale nozione, postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e in quanto tale di essere tenuto a “pagare” per le conseguenze negative che ne derivano. Questa, ancora prevalente, concezione della responsabilità lascia però in ombra il cosa significhi essere responsabili.
Da qualche tempo a questa parte, però, ha iniziato a prendere forma un’accezione di responsabilità che la colloca al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita, per fondare un impegno che vincoli nel mondo. Dal latino res-pondus, responsabilità significa essenzialmente portare il peso delle cose, prendersi cura dell’altro - come l’ “I care” di Lorenzo Milani (nella foto) ci ha insegnato. Non solamente si risponde “a” ma anche “di”. Da una parte, la responsabilità richiede, oggi, di porsi il problema dei vincoli cui le decisioni che assumiamo saranno esposte nel tempo per continuare ad essere efficaci. Dall’altra, la capacità di risposta non può essere solo riferita all’immediatezza delle circostanze presenti, ma deve includere quelle dimensioni temporali che assicurano una qualche continuità della risposta stessa. Ecco perché l’esperienza della responsabilità non può esaurirsi nella semplice imputabilità.
E’ rimasta giustamente celebre l’affermazione di M.L. King secondo cui “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”. Si è responsabili non solo e non tanto per quel che si fa, quanto piuttosto per quel che non si fa, pur potendolo fare. L’azione omissiva è sempre più grave di quella commissiva.
Di una terza implicazione pratica del discorso sviluppato in Fratelli tutti giova dire. Se si vuole avere ragione dell’indegno fenomeno delle crescenti ingiustizie sociali e della diffusione a macchia d’olio di atteggiamenti aporofobici - l’aporofobia nel senso di A. Cortina è il disprezzo del povero e del diverso - occorre pensare seriamente ad un modello credibile di governance a livello globale. Qual è la difficoltà a tale riguardo? Quella di come conciliare le regole della governance interna dei singoli paesi, ognuno dei quali ha la sua storia specifica, le sue norme sociali di comportamento, la sua matrice culturale con l’uniformità delle regole che inevitabilmente caratterizzano la governance globale. Mai dimenticare, infatti, che i vincoli esterni al paese, quando questo deve dare forma alle proprie politiche domestiche, comportano sempre un costo in termini di legittimità democratica - costo che, come in questo tempo sta accadendo, finisce col rafforzare le spinte irrazionali verso il populismo sovranista. Si tratta allora di scegliere tra due concezioni alternative di governance economica globale, note come “globalization enhancing global governance” e “democracy-enhancing global governance”.
L’idea di fondo della seconda opzione è che quando si mette mano al disegno delle regole a livello transnazionale occorre inserire tra gli obiettivi da perseguire non solamente l’aumento dell’efficienza nell’allocazione delle risorse, e quindi del reddito, ma anche l’allargamento della base democratica. Per dirla in altro modo, è bensì vero che la globalizzazione accresce lo spazio dei diritti umani negativi (cioè la libertà da), ma restringe lo spazio, se non corretta da clausole di salvaguardia sociale, dei diritti umani positivi (cioè la libertà di). Papa Francesco non esita a prendere posizione a favore della seconda opzione. (Cfr. n.154 e segg.).
Una novità di non poco conto di questa enciclica, che non è passata inosservata e che continuerà a lungo a far discutere, è costituita dal cap. V, significativamente e provocatoriamente intitolato “La migliore politica”. Vi sono due modi errati - ci dice papa Francesco - di porsi di fronte alle sfide di questo momento. Da un lato, quello di chi cede alla tentazione di restare al di sopra della realtà con l’utopia; dall’altro, quello di chi si colloca al di sotto della realtà con la distopia, con la rassegnazione. Non possiamo cadere in trappole del genere. Non possiamo vagare tra l’ottimismo spensierato di chi vede il processo storico come una marcia trionfale dell’umanità verso la sua completa realizzazione e il cinismo disperante di chi pensa, con Kafka, che “esiste un punto di arrivo, ma nessuna via”.
Accogliere lo sguardo della fraternità significa oggi, questo: non considerarsi né come il mero risultato di processi che cadono fuori del nostro controllo, né come una realtà autosufficiente senza bisogno di rapporti con l’altro. Significa, in altri termini, pensare che ciò che ci aspetta non è mai del tutto determinato da quanto ci precede. Se si vuole che l’ordine sociale che chiamiamo capitalismo possa rispettare pienamente il diritto di ciascun individuo a decidere da sé come dare valore alla propria vita e, al tempo stesso, possa dimostrare uguale considerazione per il destino di ciascuna persona, non c’è altra via che quella della politica, ma che sia migliore! Prendere atto che il capitalismo rischia oggi la paralisi, o, peggio, il collasso, perché sta diventando più capitalistico di quanto gli sia utile, è il primo passo per avviare un progetto credibile di trasformazione dell’esistente ordine sociale.
Un passo famoso di William Blake - poeta e artista nutrito delle Sacre Scritture - ci aiuta ad afferrare la potenza del principio di fraternità: “Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre”. Invero, è nella pratica del dono come gratuità che la persona incontra congiuntamente il proprio io, l’altro e Dio. Viviamo in un’epoca desertica del pensiero, che stenta a concepire la complessità della condizione umana. E’ un pensiero sbriciolato che fatica a vedere i rapporti fra le tante dimensioni della nostra crisi. Fraternità e amicizia sociale, al modo di vaccino sociale, ci indicano allora la via pervia di uscita dalla cupa situazione dell’esistente.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO: CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA ’CATTOLICA’!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Verso l’enciclica.
«Fratelli tutti», c’è un’alternativa nel mondo malato
Il 3 ottobre la sigla dell’atteso documento magistrale che sarà diffuso l’indomani, memoria di san Francesco d’Assisi
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 23 settembre 2020)
Una nuova enciclica è alle porte: Fratelli tutti è il titolo annunciato per un testo che esce in un crinale della storia segnato da una triplice crisi mondiale: socio-economica, ecologica e sanitaria. E che ancora una volta - 5 anni dopo la profetica Laudato si’ sulla cura della casa comune - ci interpella su un cambio di rotta e s’ispira al magistero di san Francesco traendo spunto dai suoi scritti. È proprio sulla tomba del santo d’Assisi che il 3 ottobre papa Francesco firmerà il documento sulla fraternità e l’amicizia sociale che nel titolo riprende alla lettera un passo delle Ammonizioni del Poverello. E proprio il 4 ottobre, festività del Santo, verrà pubblicata.
Il Papa ha deciso di siglarla dopo la Messa che celebrerà nella Basilica francescana, senza presenza di fedeli a motivo del Covid. E proprio dalle sue riflessioni sulla pandemia, su come guarire il mondo, riparare la casa comune dai danni umani e ambientali, ridurre le conseguenze della crescente diseguaglianza sociale ed economica, sembra scaturire l’urgenza del nuovo documento magisteriale.
La scelta delle date per la firma e la pubblicazione appaiono infatti significative anche nell’orizzonte del Giubileo della Terra promosso dalla famiglia ecumenica per la celebrazione del Tempo del Creato 2020 che si conclude proprio il 4 ottobre, affinché sia custodita la memoria del nostro esistere inter-relazionale. Perché, come ha affermato papa Francesco il 1° settembre nella Giornata mondiale per la Cura del creato, «esistiamo solo attraverso le relazioni: con Dio creatore, con i fratelli e le sorelle in quanto membri di una famiglia comune, e con tutte le creature che abitano la nostra stessa casa».
Se «tutto è in relazione», e se «tutti siamo sulla stessa barca» - come aveva ricordato il 27 marzo in piazza San Pietro, nel mezzo del lockdown - le comunità dei credenti debbono convergere «per dare vita a un mondo più giusto, pacifico e sostenibile», continuando a crescere «nella consapevolezza che tutti noi abitiamo una casa comune in quanto membri della stessa famiglia».
Ricordare costantemente che apparteniamo tutti alla stessa famiglia, che tutto è in relazione, significa aver presente «che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri». Papa Francesco ci ha abituati e provocati alle sintesi universali.
La prossima enciclica metterà dunque al centro la fratellanza, principio umano e cristiano costantemente promosso dal Papa, al centro dello storico «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune» - pietra miliare nel dialogo delle grandi religioni - firmato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi insieme ad Ahmed Al Tayyeb, grande Imam dell’Università Al-Azhar del Cairo. Ma la fratellanza è anche concetto che ha a che fare con le responsabilità globali di cui i modelli economici sono l’architettura principale. E quelli disegnati fin qui stanno dimostrando il loro fallimento: la pandemia ha solo accelerato il processo ma non è affatto la causa.
Ed è dunque significativo che la firma dell’enciclica avvenga anche nell’orizzonte dell’evento voluto ad Assisi dal Papa - «The Economy of Francesco» - e rivolto ai giovani per disegnare una nuova economia, un’iniziativa di enormi proporzioni che doveva svolgersi in maggio ma che proprio a causa del coronavirus si svolgerà dal 19 al 21 novembre online, sempre da Assisi.
Con essa papa Francesco manda a dire al vecchio regime dell’economia che non è più il tempo degli adoratori della finanza ma dell’economia reale fondata sulla persona: «Quest’anno - ha detto il 4 settembre rivolgendosi al gotha della finanza internazionale e della politica al Forum Ambrosetti di Cernobbio - il confronto su temi importanti relativi alla società, all’economia e all’innovazione richiede un impegno straordinario, per rispondere alle sfide provocate o rese più acute dall’emergenza sanitaria, economica e sociale».
Le parole di Bergoglio sono quelle, ripetute tante volte, su un modello di sviluppo economico che agli idoli della finanza non sacrifichi più la dignità dell’uomo stigmatizzando il «paradigma tecnocratico», quello per cui tutto è possibile nel nome dell’oligarchia del non-limite e del dominio su tutto. «Dall’esperienza della pandemia tutti stiamo imparando che nessuno si salva da solo - ha detto ancora il Papa al meeting economico -, abbiamo toccato con mano la fragilità che ci segna e ci accomuna. Abbiamo compreso meglio che ogni scelta personale ricade sulla vita del prossimo. Siamo stati costretti dagli eventi a guardare in faccia la nostra reciproca appartenenza, il nostro essere fratelli in una casa comune».
Ed è proprio «in questa situazione» che «l’economia, nel suo senso umanistico di "legge della casa del mondo", è un campo privilegiato per il suo stretto legame con le situazioni reali e concrete di ogni uomo e di ogni donna. Essa può diventare espressione di "cura", che non esclude ma include, non mortifica ma vivifica, non sacrifica la dignità dell’uomo agli idoli della finanza, non genera violenza e disuguaglianza, non usa il denaro per dominare ma per servire. L’autentico profitto, infatti, consiste in una ricchezza a cui tutti possano accedere».
Per il Papa si tratta quindi di rallentare un ritmo disumano di consumo e produzione per imparare a comprendere la natura e a riconnetterci con la realtà. Una conversione per la quale è indispensabile formare e sostenere nuove generazioni di economisti e imprenditori: è per questo il Papa le ha invitate in novembre «nella Assisi del giovane Francesco che, spogliatosi di tutto per scegliere Dio come stella polare della sua vita, si è fatto povero con i poveri e fratello universale. Dalla sua scelta di povertà scaturì anche una visione dell’economia che resta attualissima». Si noti: visione economica «attualissima». Si noti ancora: Assisi. Il luogo dove verrà pubblicata l’enciclica.
Dal 5 agosto papa Francesco ha inaugurato nelle udienze generali del mercoledì una serie di catechesi dal tema «Guarire il mondo», nelle quali riprende e approfondisce tutti questi grandi temi con uno sguardo di fede chiamando a «una rivoluzione della cura», perché «per uscire da una pandemia occorre curarsi e curarci a vicenda». «Quando l’ossessione di possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari - ha detto Francesco nell’udienza introduttiva -, quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il tessuto sociale, e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare».
E ha posto questa domanda: «Allora ci chiediamo: in che modo possiamo aiutare a guarire il nostro mondo, oggi?». E ancora, nella quarta catechesi, il 26 agosto: «Sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia sociale; è un virus che viene da un’economia malata. Dobbiamo dirlo semplicemente: l’economia è malata. Si è ammalata, è il frutto di una crescita economica iniqua che prescinde dai valori umani fondamentali. Tutti siamo preoccupati per le conseguenze sociali della pandemia. Tutti. Molti vogliono tornare alla normalità e riprendere le attività economiche. Certo, ma questa "normalità" non dovrebbe comprendere le ingiustizie sociali e il degrado dell’ambiente» dal quale dipende la nostra salute.
Per il Papa è il momento di riscoprire «alcuni princìpi sociali che sono fondamentali» e che «la Chiesa ha sviluppato nel corso dei secoli, e alla luce del Vangelo», perché «possono aiutarci ad andare avanti, per preparare il futuro di cui abbiamo bisogno». È lui stesso a indicare «i principali, tra loro strettamente connessi: il principio della dignità della persona, il principio del bene comune, il principio dell’opzione preferenziale per i poveri, il principio della destinazione universale dei beni, il principio della solidarietà, della sussidiarietà, il principio della cura per la nostra casa comune. Questi princìpi aiutano i dirigenti, i responsabili della società a portare avanti la crescita e anche, come in questo caso di pandemia, la guarigione del tessuto personale e sociale. Tutti questi princìpi esprimono, in modi diversi, le virtù della fede, della speranza e dell’amore».
Se dunque la pandemia ha evidenziato ancora di più la nostra interdipendenza, il Papa ci sta dicendo che per uscire migliori dalla crisi si deve agire insieme: «E lo faremo - ha detto - alla luce del Vangelo, delle virtù teologali e dei princìpi della dottrina sociale della Chiesa. Esploreremo insieme come la nostra tradizione sociale cattolica può aiutare la famiglia umana a guarire questo mondo che soffre di gravi malattie. È mio desiderio riflettere e lavorare tutti insieme, come discepoli di Gesù che guarisce, per costruire un mondo migliore, pieno di speranza per le future generazioni», per «costruire una "civiltà dell’amore", come amava dire san Paolo VI».
Da queste catechesi sembra dunque mostrarsi in filigrana la nuova enciclica Fratelli tutti, che dopo la Laudato si’ non potrà che segnare un balzo avanti nel solco della dottrina sociale della Chiesa, e non solo.
Hiroshima e Nagasaki. 75 anni dopo l’atomica: i vescovi Usa pregano con i giapponesi
Messaggio della Conferenza episcopale americana che chiede, richiamando papa Francesco, l’abolizione delle armi di distruzione di massa. A Hiroshima cerimonia annuale al cenotafio con misure antivirus
di Silvia Guzzetti (Avvenire, sabato 1 agosto 2020)
"Io e i miei confratelli vescovi piangiamo, insieme ai nostri fratelli giapponesi, per le vite innocenti che sono state annientate e per le generazioni che hanno continuato a soffrire le conseguenze sull’ambiente e sulla salute di questi tragici attacchi".
Comincia cosi il comunicato dell’arcivescovo José H. Gomez di Los Angeles, presidente della Conferenza episcopale cattolica statunitense, in occasione del 75esimo anniversario del lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki che ricorre rispettivamente il 6 e il 9 agosto prossimi e che sancì l’inizio della fine della Seconda Guerra Mondiale.
"In questa solenne occasione uniamo la nostra voce a quella di papa Francesco per chiedere ai nostri leader nazionali e internazionali di perseverare nei loro sforzi per abolire le armi di distruzione di massa che minacciano l’esistenza della razza umana e del nostro pianeta", scrivono ancora i vescovi degli Stati Uniti, "Chiediamo alla nostra Santa Madre Maria, la Regina della pace, di pregare per la famiglia umana e per ciascuno di noi".
Il comunicato continua con la speranza, espressa dai vescovi, che "ricordandoci la violenza e le ingiustizie del passato possiamo impegnarci ad essere costruttori di pace, vocazione alla quale ci chiama Gesù Cristo. Possiamo sempre cercare la strada della pace e alternative all’uso della guerra come mezzo per risolvere le differenze tra le nazioni e i popoli".
La commissione Giustizia e Pace Internazionale della Conferenza episcopale americana ha anche diffuso materiali di preghiera, studio e azione che aiutino i fedeli a organizzare iniziative per commemorare l’anniversario del lancio della bomba il prossimo 6 e 9 agosto.
A riprendere l’appello dei vescovi americani contro l’uso e il possesso di armi nucleari, facendo proprie le forti parole pronunciate lo scorso 24 novembre da papa Francesco in occasione della sua visita in Giappone, è anche la Conferenza episcopale cattolica giapponese che rilancia l’iniziativa della "10 giorni di preghiera per la pace", celebrata ogni anno tra il 6 e il 15 agosto. La "10 giorni" è partita dopo l’invito alla riconciliazione di san Giovanni Paolo II ad Hiroshima, il 25 febbraio 1981, durante la sua storica visita nel Paese.
Vi sarà anche quest’anno, anche se con misure molto rigorose per fermare il coronavirus, la tradizionale cerimonia davanti al cenotafio per le vittime della bomba atomica ad Hiroshima che non è mai stata cancellata a partire dal 1952, quando venne costruito il monumento. Alle 8.15 proprio quando la bomba venne lasciata cadere, il 6 agosto 1945, sulla città giapponese, suonerà la campana della pace e, in tutta la città, si sentirà l’urlo delle sirene. I cittadini, nelle case e negli uffici, si fermeranno per un minuto per ricordare le vittime e pregare per una pace mondiale duratura.
Quest’anno le misure antivirus prevedono che il numero dei partecipanti venga limitato a 880 persone, sedute a distanza di due metri le une dalle altre, sul prato davanti al monumento. Dovrebbe partecipare di persona il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres.
Il settimanale “Economist” racconta anche di un nuovo modo giapponese di preservare la memoria della tragedia di Hiroshima e Nagasaki. I Consigli comunali delle due città hanno, infatti, deciso di reclutare diversi volontari perché diventino “denshosha”, ovvero trasmettitori dell’eredità della storia della due bombe. I sopravvissuti, conosciuti col termine “hibakusha”, sono ormai ottantenni e, con la loro morte, i racconti di quel bombardamento, tristemente unico nella storia dell’umanità, rischiano di scomparire. I "denshosha" e, a volte, si tratta di figli o nipoti dei sopravvissuti, ascoltano con grande attenzione la storia dei due bombardamenti e la imparano per raccontarla a loro volta cosi che non venga dimenticata.
C’è grande preoccupazione, in Giappone, che la lezione delle bombe scompaia e, insieme ad essa, la consapevolezza degli orrori di quella tragedia. Meno del 30% dei giapponesi per esempio - e nelle due città di Hiroshima e Nagasaki la percentuale è anche più alta - è in grado di ricordare, con precisione, le date dei bombardamenti.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VENTICINQUE SECOLI DI LETARGO ... *
Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso
di Emanuele Zoppellari Perale (il Tascabile, 26.11.2019)
Due anni fa Roberto Calasso diagnosticò la condizione che viviamo come “l’innominabile attuale”, predominio del pensiero secolare e dei suoi limiti a scapito del sacro. Il libro di tutti i libri si muove, in direzione contraria, verso le storie che compongono l’Antico Testamento.
Già ne L’innominabile attuale l’autore sembrava voler parlare “a chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione - o, più precisamente, la superstizione - della società”. Ora, in un continente di templi vuoti e storie deboli, Calasso torna a quelle storie forti che per millenni hanno riempito i templi. Muovendosi da questa prospettiva, Il libro di tutti i libri segue con coerenza i fili del discorso che il suo autore è andato intessendo da quasi quarant’anni: il mito ( Le nozze di Cadmo e Armonia ; Ka), il sacrificio (L’ardore), l’elezione (K.), il passaggio dalla dieta frugivora all’imitazione dei carnivori (Il cacciatore celeste).
Ma il suo campo d’indagine, questa volta, è tra i più enigmatici. La Bibbia, ineguagliata per clamorose omissioni e contraddizioni inspiegabili, resta infinita, tuttora ineludibile e sconvolgente. Di fronte alle sue storie, i “secoli contati” che E.M. Cioran attribuiva al cristianesimo e al religioso in generale parrebbero ancora lontani. Non a torto Goethe lo definì, appunto, “il libro di tutti i libri”, da cui qualsiasi altro parte per poi tornarvi, e nella cui lettura, dedalo iniziatico, invitava a perdersi e ritrovarsi di continuo.
Le nozze di Cadmo e Armonia si apre con una frase di Sallustio, “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, valida anche in questo caso. Lo sguardo di Calasso non è insensibile alla filologia - come altrimenti affrontare un libro composto da una collezione di testi ebraici arrivataci passando tramite il greco dei Settanta al latino della Vulgata fino al volgare in cui la leggiamo? - e ciononostante evita di rimanere invischiato nella pedante miopia di erudizione e accademismo. Tiene conto, altresì, del dato storico: gli Ebrei rientrati a Canaan dall’Egitto non sconfissero davvero Gerico - dicono gli archeologi - ma la trovarono già distrutta, e la vicenda di Mosè non ha riscontro in fonti esterne alla Bibbia, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa. Importa poco: non si tratta di una ricostruzione storica di fatti accertati. Qui è il racconto a parlare, ed è al sapore massimo di ogni sua parola che si rivolge l’attenzione come metodo critico - persino e soprattutto nei suoi interstizi, nei suoi punti di rottura, nelle pieghe del testo e in ciò che implicano o presuppongono, in ciò che la narrazione omette, o ripete ossessivamente.
La lettura della Bibbia secondo Calasso è a sua volta un invito a rileggere la Bibbia al di là o a prescindere dalle sue innumeri interpretazioni, seguendone il mŷthos e considerandola un intreccio favoloso e unitario (la “fiaba delle fiabe” di Cristina Campo), una biblioteca sterminata ma essenzialmente coesa in cui tutte le storie sono “sinottiche e simultanee” e tutti i versetti collegati a ciascun altro versetto, perché ogni cosa è sullo stesso piano.
Si pensi che di frequente nel testo ebraico i periodi si aprono con la congiunzione vav, spesso tradotta “così”, che meglio corrisponderebbe al nostro “e”. È il potere della paratassi: permette di dire, non di spiegare. E la Bibbia, più che spiegare, capire o consolare, vuole raccontare.
E che cosa racconta questa storia, che secondo una tradizione ebraica il suo autore, il Dio Iahvè, avrebbe avuto come figlia unica e amatissima all’alba di ogni tempo, e che avrebbe dondolato sulle ginocchia, prima di donarla a Mosè e al suo popolo, purché questo non dimenticasse mai di riservargli uno spazio? Ebbene, racconta principalmente di eletti.
L’elezione è un avvenimento innaturale, un sovvertimento dell’ordine delle cose. La storia che Dio vuole scrivere supera, ribalta e nega la legge naturale di necessità con cui si svolgono ordinariamente le cose - legge che, tuttavia, Dio stesso ha creato. È un paradosso che la Bibbia enuncia in più punti, ma a cui saggiamente non intende fornire una spiegazione.
Innanzitutto, coloro che Iahvè sceglie, coloro che riempie di grazia, non sono necessariamente - anzi, non sono pressoché mai - scelti per merito. Il caso del patriarca Abramo è paradigmatico: in 75 anni, scrive Calasso,
non aveva fatto altro che seguire il padre. Nulla lo distingueva, se non aver sposato una donna molto bella, senza averne avuto figli. E ancora viveva al seguito del padre [...] Abramo non era re né sacerdote [né] capofamiglia. E non si faceva notare neppure per devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvè.
O si prenda suo nipote Giacobbe. Aveva raggirato il fratello Esaù, aveva ingannato il padre Isacco per ottenere la sua benedizione, aveva truffato e mentito per avere ciò che desiderava da chiunque avesse incontrato e se l’era sempre cavata, col sotterfugio o con la fuga. Eppure è l’unico, in tutta la Bibbia, a cui si spalancano le porte dell’invisibile, nella forma di una scala che sale ai cieli.
Né Abele, né Isacco, né Giacobbe, né Giuseppe, né Salomone furono primogeniti, mentre nel loro mondo la primogenitura - fatto naturale e indelebile - garantiva un vantaggio e un onore perpetui. Iahvè stesso volle per Sé i primogeniti, per esempio quando li reclamò con l’ultima piaga d’Egitto, la più letale. E ciononostante, i Suoi protagonisti non sono primogeniti, anzi, scavalcano il diritto naturale stabilito dalla primogenitura. La legge a cui obbediscono, o meglio, la legge che li ha scelti, si beffa della legge di necessità che vincola questo mondo. La loro legge è di quell’altro, ed è la grazia. Gli ultimi saranno i primi, si è detto in seguito.
Non la legge di natura, dunque, ma nemmeno l’ordine stabilito da opere e meriti. Qual è infatti il merito di Abele, che sacrificò gli animali, rispetto al demerito di Caino, che sacrificò i frutti della terra? Quale il merito di Sem, figlio di Noè e progenitore degli Ebrei, rispetto al demerito di suo fratello Iafeth, presumibilmente un giusto, che tuttavia non fu scelto? Regna soltanto il puro arbitrio di Dio, cui Abramo dovette obbedire quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco, benché gli fosse stato promesso che proprio tramite Isacco sarebbe passata la sua infinita stirpe. Qui sta la “differenza irriducibile” della Bibbia: è una storia che, prima di ogni altra cosa, non segue leggi a noi comprensibili.
Per questo essere ‘scelti’ è quanto di più terrificante possa avvenire, poiché l’elezione determina l’esclusione dell’ordine naturale delle cose e l’appartenenza esclusiva all’invisibile. La Bibbia parla di “terrore dell’elezione”. Essere scelti significa che la propria storia non è più soltanto propria: è essenzialmente di Dio, e tramite essa passa una storia più grande, insondabile, i cui limiti si estendono oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi nostra capacità di pensare una storia.
“Se la grazia agisse soltanto come favore e non come condanna” - si legge nel libro -, se non persistesse inspiegato “il mistero della fortuna dei malvagi e delle sofferenze dei giusti”, vivremmo un mondo
La Bibbia di Calasso racconta precisamente quest’altra macchina, che ci lascia nello sconcerto come un roveto che arde senza consumarsi, e di fronte alla quale il mondo secolare e scientifico impallidisce.
Saul, per esempio, sapeva bene che essere eletti non significa avere il favore di Iahvè. Un giorno suo padre l’aveva mandato a cercare due asine smarrite. Persosi lungo la strada, aveva incontrato Samuele, un “veggente”. Questi certo poteva mostrargli la via di casa, e invece scelse di rivelargli che era destinato a diventare il primo re d’Israele. “Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui” commenta Calasso. “Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente, come quando camminava per sentieri sconosciuti alla ricerca delle asine del padre, annoiato, distratto. [...] Ormai nulla di simile sarebbe accaduto nella sua vita”. La sua storia non era più la sua. Serviva a una storia più grande, in cui lui doveva addirittura interpretare una parte negativa.
La Bibbia non tace che sia una sensazione tremenda, e afferma inoltre che vivere come eletti sotto lo sguardo perenne di Dio sia la massima oppressione. È la condanna e il privilegio del popolo ebraico, ed è ciò che più di tutto lamenta Giobbe, a cui l’incessante attenzione divina toglie il fiato. Kafka una volta
Anche ciò che è sacro oscilla tra ciò che deve essere preservato e ciò che viene allontanato o, come suggerisce la parola stessa, sacrificato. L’essere sacro è l’essere eletto, auratico e inestimabile (“The temple is holy” dice il Canto XCVII di Ezra Pound “because it is not for sale”). “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe [...] non appartengono più a se stessi, perdono ogni pretesa di autosufficienza. È il contrario di ciò che accade nel mondo secolare”. Dopotutto, se non si riconosce l’invisibile, nulla più può essere fatto sacro.
Questa storia di eletti che Iahvè scrive nel mondo si serve di due meccanismi: il divieto e la sua infrazione. E il primo a infrangere i divieti divini è Iahvè stesso. Il più grande nemico di idoli e tentativi di rappresentare il divino creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, come il primo di tutti gli idoli. A Davide non perdonò mai di aver mandato Uria a morire in guerra per prendere sua moglie Betsabea, eppure è da Betsabea che nacque Salomone, ed è da Salomone che passa la genealogia da cui venne, un giorno, Gesù. Dio proibisce e condanna, ma la storia che vuole raccontare necessita del male e della trasgressione, e questo, dalla nostra prospettiva, pare inaccettabile.
Perché Dio dovrebbe operare contro Se stesso e la propria parola? Forse perché, su questa via né regolare né “aequa” (così nella Vulgata), non potevano esserci “una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti - o altrimenti salvifici - sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia”, racconto che viola le regole umane e persino le regole divine accessibili all’essere umano.
Sta qui il nesso per comprendere quello che è forse il passaggio più sconvolgente della Bibbia, ossia, tra Antico e Nuovo Testamento, il superamento dell’ordine sacrificale col sacrifico unico di Dio a Dio stesso. In precedenza, nel Tempio di Gerusalemme e prima ancora, il sacrificio riscattava la vita con la vita. “Ciò che faceva [...] di quei quadrupedi l’unico oggetto regolare delle offerte era [il fatto che erano] vivi. Se il debito era la vita, non poteva essere saldato se non con altra vita. Sempre insufficiente, certo. Perciò gli olocausti andavano ripetuti”.
Poi, secondo il racconto, qualcosa avvenne per cui non sarebbe più stato necessario sacrificare, e il sangue di un unico eletto, questa volta un “essere divino”, sarebbe bastato per l’eternità. Ma così facendo la salvezza contraddiceva o quantomeno abrogava le ancestrali leggi della Tōrāh sulla necessità del sacrificio. E ancor più sconvolgente è il fatto, ben compreso da Simone Weil, che l’“Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Nell’allusione al Nuovo Testamento, che rimane distante, oggetto - forse - di un’opera futura, Il libro di tutti libri si muove all’ombra di questa domanda impervia e scandalosa, la domanda delle domande, incapace di risposta e per questo in grado di far tremare l’innominabile attuale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
L’esilio e la promessa...
Ricordare è verbo di futuro
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
Sono i segni religiosi quelli che più incidono la terra e dicono il carattere di una cultura. Templi, altari, edicole, croci, steli separano nel territorio il sacro dal profano, rivelano e danno nomi e vocazioni alle terre, trasformano gli spazi in luoghi. La terra porta iscritte nelle sue ferite i nostri vizi e le nostre virtù. Accoglie mite le nostre tracce, si lascia, mansueta, associare alle nostre sorti, e con una sua misteriosa e reale reciprocità comunica con noi. Tra le note della profezia c’è anche la capacità di interpretate il linguaggio della creazione, di raccontarcelo, di parlare al nostro posto e in nostro nome. Cosa direbbero, oggi, i profeti di fronte piaghe che stiamo producendo nel nostro pianeta? Quali parole di fuoco pronunzierebbero di fronte alle nostre "alture" popolate di idoli? Come profetizzerebbero davanti alle nostre miopie e ai nostri egoismi collettivi? Forse griderebbero, comporrebbero nuovi poemi, canterebbero, cantano, Laudato si’.
«Mi fu quindi rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi: Monti d’Israele, udite la parola del Signore Dio. Così dice il Signore Dio ai monti e alle colline, alle gole e alle valli: Ecco, manderò sopra di voi la spada e distruggerò le vostre alture"» (Ezechiele 6,1-3). Ezechiele profetizza contro i monti, resi complici innocenti delle infedeltà del popolo. Quelle colline, quelle valli e gole sono anche simbolo di quella creazione che "geme" in attesa di esseri umani suoi degni custodi. Sono gli animali, piante, suolo e sottosuolo, oceani e mari, che ogni giorno, e ogni giorno di più, subiscono le conseguenze della trasformazione della nostra vocazione da accudimento in tirannia. I profeti parlano anche per loro e al loro posto - ancora in mezzo tra terra e uomo, tra uomini e cielo, mediatori inchiodati su croci come messaggi di carne.
Fn dal suo primo insediamento in Caanan, il popolo di Israele ha sentito costantemente la seduzione dei culti cananei. Forte era il fascino di quegli dèi semplici, naturali, scanditi dai ritmi e dalle immagini della fertilità, e che si potevano vedere, raffigurare, toccare, ha avvertito la tentazione della loro prostituzione sacra che, sulle alture, offriva vie immediate di unione con le divinità. E se non ci fossero stati i profeti, YHWH, il nome del loro Dio diverso e unico, con il passare del tempo sarebbe diventato uno dei tanti nomi uno dei tanti dèi dei molti pantheon dei popoli vicini e vincitori. I profeti sono amici di Dio e amici dell’uomo, che ripetono: l’uomo è diverso perché Dio è diverso. Tengono alto e trascendente Dio per tenere più alto possibile l’uomo, per non ridurlo a consumatore-consumato di idoli manufatti. I profeti fanno sì che la naturale contaminazione che una fede riceve dall’incontro con gli altri popoli, non superi una soglia critica e faccia perdere il filo rosso dell’alleanza e dell’anima collettiva.
Senza il contagio religioso con Babilonia, con l’Egitto e coi popoli cananei, non avremmo molte pagine, bellissime, della Bibbia. Ma se quella fertilizzazione mutua fosse entrata nelle midolla e nel cuore della Promessa, del Sinai, della Legge e del Patto, quel popolo diverso dalla fede diversa sarebbe stato riassorbito nelle religioni naturali del Vicino Oriente. Il profeta è sentinella anche perché suona la tromba e dà l’allarme quando la contaminazione supera il punto critico e diventa assimilazione e sincretismo. E sa che c’è un luogo dove queste contaminazioni non possono e non devono entrare: il tempio, il luogo che custodisce la nostra storia più intima, l’altare del patto, il cuore del nostro nome. E, come conseguenza, il popolo di Israele non deve entrare nei templi degli altri popoli e adorare le loro divinità. Non solo perché quei popoli sono adoratori di idoli (Israele non ha sempre pensato che tutti gli altri dèi fossero idoli), ma perché il giorno che un popolo inizia a entrare e pregare in più di un tempio sta dicendo che, in fondo, non crede davvero a nessun dio (come quell’uomo che dicendo "ti amo" a più di una donna, in realtà sta dicendo che non ne ama davvero nessuna). Ecco perché la lotta dei profeti ai santuari delle alture ci dice, in poesia, cose molto serie - la poesia dice sempre cose molto serie.
Quando, ad esempio, le comunità nate da un carisma attraversano grandi crisi, la tentazione non sta l’eliminazione o la cancellazione del "Dio" della prima alleanza, ma nell’introduzione nel proprio tempio di altre divinità che iniziano ad affiancarsi al primo "culto". Si importano preghiere, canzoni, pratiche più vicine allo spirito del tempo, più semplici e comprensibili, che rispondono meglio ai gusti dei "consumatori". Entro un certo limite, questi arrivi possono aiutare e arricchire. Ma se queste pratiche estranee entrano dentro "il tempio", e se noi iniziamo a frequentare i templi degli altri senza distinguerli più dal nostro, la contaminazione inizia a minare il patto e la promessa; e arriverà presto il giorno in cui ci troveremo a parlare con il nostro primo Dio in templi tutti uguali, e non accadrà più nulla - molte crisi esistenziali, individuali e comunitarie, nascono da operazioni di affollamento del luogo del primo incontro, che diventa così fitto da non riuscire vedere né udire più nulla.
Ma i santuari e i templi erano anche i luoghi dei sacrifici di animali e di bambini. Dietro alla critica dei culti cananei e babilonesi c’è sempre, nei profeti grandi, la critica all’uso del sacrificio come moneta per commerciare con un Dio commerciante.
La polemica durissima dei profeti contro l’oro e l’argento, non è una critica economica né etica al denaro usato per i commerci umani; è una critica teologica e quindi antropologica, è una condanna ad una visione economica della fede e quindi della vita.
L’oro è pericolosissimo perché diventa il materiale con cui si fabbricano gli idoli: le statuette di Baal o di Astarte ieri, oggi i prodotti e i beni che, come nuovi idoli, ci vendono una sottospecie di eterna giovinezza. Più oro si possiede più grande è il prezzo che possiamo pagare per i nostri sacrifici.
I ladri che profanano il luogo santo non sono allora ladri di cose o di denaro; sono ladri religiosi, che sottraggono all’uomo la sua dignità e lo riducono a servo di idoli: «Getteranno l’argento per le strade e il loro oro si cambierà in immondizia, con esso non si sfameranno, non si riempiranno il ventre... Della bellezza dei loro gioielli fecero oggetto d’orgoglio e fabbricarono con essi le abominevoli statue dei loro idoli. Per questo li tratterò come immondizia... Sarà profanato il mio tesoro [tempio], vi entreranno i ladri e lo profaneranno» (7,19-22). Il denaro e l’oro sono immondizia quando non sono usati per vivere ma per fabbricare ogni sorta di idolo. Questa natura profonda delle ricchezze si rivela in pienezza soltanto alla fine («Viene la fine, viene la fine su di te»: 7,6).
Alla fine della vita, quando sarà evidente la differenza radicale tra le ricchezze (materiali e non) che abbiamo usato per sfamare e sfamarci, e le altre che abbiamo usato per creare o comprare idoli venditori di illusioni. Oppure nelle altre "fini", quando dentro una grossa crisi, malattia, depressione, capiamo che potremo ricominciare solo se impariamo a riconoscere altre ricchezze che ancora non abbiamo visto, in noi e attorno a noi.
Al centro di queste parole durissime che il profeta alza contro le alture, gli idoli e le infedeltà del popolo, ci raggiunge come raggio di sole aurorale un altro brano di teologia del resto (la Bibbia potrebbe essere raccontata come storia del resto fedele): «Tuttavia farò sopravvivere in mezzo alle nazioni alcuni di voi scampati alla spada, quando vi disperderò nei vari paesi. I vostri scampati si ricorderanno di me fra le nazioni in mezzo alle quali saranno deportati ... Sapranno allora che io sono il Signore» (6,8-10).
Tuttavia: i profeti amano molto questo avverbio, perché completa e addolcisce le loro parole di giudizio. I falsi profeti non conoscono i tuttavia, perché sono ideologici e ruffiani. Tuttavia è anche l’avverbio dei bravi educatori, degli insegnanti, dei responsabili di comunità, che dopo aver avuto la forza del giudizio di verità riescono ad aggiungere il "tuttavia" della mansuetudine e della pietas, che è sale e il lievito della pasta che stanno impastando.
Questo brano sul resto ci dice qualcosa di essenziale. Quando negli esili vogliamo provare a ricominciare veramente, sono due le cose davvero necessarie. A ricominciare non è il tutto, ma una parte, un piccolo resto vivo. Avevamo formato una famiglia, fatto nascere una comunità, un’impresa. Poi è arrivata la crisi, e quindi la deportazione e l’esilio. Ci siamo dispersi e contaminati con molti popoli. Se un giorno vorremo continuare la stessa prima storia dobbiamo vincere la nostalgia dell’intero, non lasciarci sedurre dal richiamo fortissimo del tutto, perché, semplicemente, quell’intero e quel tutto non ci sono più. Ma possiamo continuare veramente la nostra storia su quella piccola parte rimasta viva: due lavoratori della fabbrica, un bambino, quella sola parola buona che si è salvata dalle tante cattiverie che ci siamo detti.
La seconda cosa riguarda il significato del bellissimo verbo biblico ricordare ("si ricorderanno di me"). Nell’umanesimo biblico ricordare non è il verbo del passato, è il verbo di futuro. Si ricorda nel deserto, nei campi di mattoni, nell’esilio, e si ricorda per continuare a credere nella promessa che deve venire e verrà. Nel deserto dove ci ha gettato il tradimento del nostro patto matrimoniale, non si ricomincia celebrando un nuovo patto su un nuovo altare, ma ricordando che quelle parole erano state vere, perché una parte vera del nostro cuore non era mai uscita da quella chiesa e da quel primo altare. È imparando a ricordare che si inizia a risorgere.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’INDICAZIONE DI MANDELA....
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
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L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
PENSARE L’«EDIPO COMPLETO» (S. FREUD). UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
L’Occidente è colpevole. Ma l’Occidente è la salvezza
Psichiatra e antropologa marocchina, Rita El Khayat parla in questa intervista di colonialismo, migrazioni e Primavere Arabe. «In certi momenti storici è meglio un regime forte. Tra Assad e Isis scelgo Assad».
di Lorenzo Cremonesi (Corriere della Sera, La Lettura, 13.05.2018)
Non si tira indietro nell’accusare «il colonialismo e i danni gravissimi che ha causato ai Paesi arabi e nelle province del mondo islamico». Però è anche profondamente innamorata della cultura occidentale, della sua difesa per i diritti umani e delle donne in particolare. «La mia salvezza intellettuale e civile è cominciata quando giovanissima ho studiato la lingua francese», non si stanca di ripetere. E ai migranti che attraversano il Mediterraneo per approdare in Europa non lesina critiche. «Mi stupisce la caparbietà con cui restano attaccati ai valori e alle tradizioni dei loro Paesi d’origine. Proprio non li capisco!», esclama. «Hanno rischiato la vita per venire in Occidente. Ma se non vogliono cambiare ciò che hanno lasciato, allora perché non se ne rimangono a casa loro? Se credono che a Roma o a Parigi si possono uccidere le figlie che rifiutano di sposare i mariti scelti per loro dalle famiglie non hanno compreso davvero nulla di questo nuovo mondo, meglio che tornino da dove sono partiti».
Il coraggio intellettuale di Rita El Khayat sta anche nella sua aperta disponibilità ad affrontare la complessità delle contraddizioni di un pensiero libero come il suo. Nata nel 1944 a Rabat, marocchina legata alle tradizioni del Maghreb profondo, è scrittrice (ha pubblicato una quarantina di saggi, di cui 14 tradotti in italiano), ma anche psichiatra, antropologa, ha scelto di esercitare a Casablanca la professione di «antropo-psichiatra». Il prossimo 18 maggio parteciperà a Milano a un convegno promosso dall’Asla (Associazione studi legali associati) in un seminario dedicato a Donne e potere.
Partiamo dal tema che tratterà in Italia: non crede vi siano ben poche differenze tra donne e uomini di potere?
«Assolutamente sì. Non cambia niente. Le donne al comando si comportano esattamente come hanno sempre fatto gli uomini, con le stesse ingiustizie, le stesse prevaricazioni e nepotismi, lo stesso sistema di privilegi per chi obbedisce e di punizioni per chi si oppone. Semmai le donne sono ancora più dure, più spietate e più forti degli uomini, proprio per il fatto che hanno dovuto faticare molto di più per imporsi. Lo noto in Francia come in Marocco e nel resto del Maghreb. Ma sono in atto mutamenti epocali. Dove le donne sono diventate economicamente indipendenti avvengono importanti processi di adattamento reciproci tra i due sessi; necessiteranno decenni per trovare nuovi equilibri».
In Medio Oriente ci eravamo illusi che le Primavere Arabe portassero giustizia e libertà. Ma alle vecchie dittature laiche si sono contrapposti i radicalismi islamici oscurantisti e fanatici. Ci siamo trovati a dover scegliere tra la repressione di Bashar Assad e gli orrori di Isis. Lei cosa sceglierebbe?
«Nel 2011, all’inizio delle cosiddette Primavere arabe, stavo con le piazze della rivoluzione. Consideravo Assad uno spietato e sanguinario dittatore. Ma poi, quando ho visto cosa Isis faceva alle donne, lo scempio dei diritti umani, le ragazze yazide vendute in piazza come schiave sessuali, mi sono detta: “Mio Dio, meglio Bashar. Se vince Isis torneremo al Medio Evo”. Ho scritto un libro su questo mio ripensamento. Al caos preferisco un regime ordinato che garantisca la crescita economica e la scolarizzazione diffusa. In certi periodi storici un regime forte come quelli di Franco o Salazar può rivelarsi utile. Più tardi potranno arrivare le riforme in senso democratico ed emergere quelle che Karl Marx definiva le sovrastrutture volte a migliorare la qualità della vita umana».
Dunque, in Egitto, meglio Hosni Mubarak e il regime ancora più duro di Abdel Fattah al Sisi? Un Libia meglio Gheddafi, meglio la vecchia nomenklatura corrotta in Tunisia?
«Le Primavere arabe sono state un movimento di protesta elitario esaltato dalla stampa occidentale, che però non era una vera rivoluzione per il fatto che mancava di leader e di chiare ideologie. Le minoranze che manifestavano in piazza sapevano cosa volevano abbattere, ma non avevano alcuna idea su come e con cosa sostituirlo. Così sono arrivati i movimenti islamici ben organizzati. Alcune conseguenze sono stati i peggioramenti dei diritti civili, inclusi quelli delle donne. Però poi ogni Paese va visto e compreso nella sua storia particolare».
Per esempio?
«Molti anni fa visitai l’Iraq di Saddam Hussein. Era una dittatura, certo. Ma il livello delle scuole era buono, il Paese funzionava. Gheddafi però non lo pongo sullo stesso piano: era un pazzo, uno psicopatico, una personalità con gravissimi disturbi psichici. Aggiungo che il Maghreb è una realtà diversa dai Paesi arabi. In Marocco, dopo gli attentati terroristici di Casablanca nel 2003, abbiamo avuto riforme radicali, è stato cambiato il diritto di famiglia. -Nel 2012, dopo il caso di Amina Filali, la sedicenne suicida perché secondo le nostre vecchie leggi costretta a sposare il suo violentatore, abbiamo riformato ulteriormente i nostri codici. Ora sono vietati i matrimoni ai minorenni e le ragazze hanno diritto di scelta. Però resta il problema dell’ignoranza diffusa. Per i poveri che non vanno a scuola in realtà cambia ben poco. Se non conosci i tuoi diritti non sai neppure come difenderti. È una legge universale.
Noi oggi abbiamo una donna a capo del ministero della Famiglia che ha avuto il coraggio di affermare che le famiglie che hanno un reddito quotidiano pari a 1,80 euro non sono povere. Quando le è stato chiesto cosa farebbe se sua figlia fosse violentata lei ha risposto che la cosa è impossibile, lasciando intendere che le violenze sessuali accadono solo tra poveri. Può anche essere vero. Ma i poveri costituiscono la maggioranza della popolazione dall’India all’Afghanistan al Medio Oriente allargato».
Nel suo libro «Il complesso di Medea», dopo aver trattato delle ingiustizie subite dalle donne nelle società mediterranee dove imperano le tre religioni monoteiste, affronta anche un tema molto delicato: sovente sono le donne anziane a comportarsi nel modo più duro e intransigente nei confronti delle ragazze, specie se belle e vergini. Tra l’altro spesso nelle società tribali sono le anziane a effettuare l’infibulazione sulle bambine e sono prima di tutti le madri a costringere le figlie nei matrimoni combinati. Donne vecchie contro giovani?
«In Marocco diciamo che il paradiso è sotto i talloni delle madri. In un mio libro del 1986 ho analizzato il vecchio sistema patriarcale giungendo alla conclusione che senza un forte matriarcato non può esistere il patriarcato. Parliamo di un sistema sociale che privilegia il gruppo, la tribù, il nucleo familiare allargato. Il maschio anziano domina, ma alle sue fondamenta sta la madre, la donna che da giovane ha rispettato le regole, ha generato figli funzionali al gruppo e nella maturità assurge a pilastro fondamentale della casa perpetuando le leggi che stanno alla radice di quel modo di essere. In quel mondo gli anziani non saranno mai abbandonati. I vecchi sono come i totem freudiani, rappresentano il potere e la sua continuità. Si tratta di un sistema sociale chiuso, assolutamente diverso dall’individualismo liberale occidentale, dove le giovani donne devono stare in casa a generare e curare i bambini. I figli maschi sono formalmente più liberi delle sorelle, però la loro dipendenza dalla madre è molto più forte».
Ovvio che lei abbia sempre scelto l’individualismo occidentale al tribalismo orientale, vero?
«Sempre. Non ho mai avuto dubbi! La mia libertà di donna, di intellettuale, di individuo con diritti e doveri non poteva esprimersi in altro modo se non nei canoni culturali e sociali occidentali. Mia madre non ebbe la mia libertà, sognava di studiare francese, ma le fu vietato, fu una vittima. Io amo scrivere negli aeroporti, viaggiare, essere sola a pensare. Se avessi dovuto sacrificare le mie aspirazioni personali alle regole sociali tribali non sarei mai diventata ciò che sono».
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
Federico La Sala
FILOSOFIA DELLA RIVELAZIONE. "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": "GENERARE DIO". L’immaginario del cattolicesimo romano....
Narciso e l’arte di restare a galla: una lezione di Massimo Cacciari
di Luisa Muraro *
Narciso non sapeva niente di narcisismo. Il pastorello vanitoso si sporge per specchiarsi, casca nello stagno e annega. Doveva venire in Italia a imparare dai nostri uomini di spicco. Specchiarsi e, soprattutto, restare a galla, è un’arte. Per esempio, come fa il narciso italiano quando succedono cose notevoli che lo mettono ai margini? Aspetta un po’ che passino ma se non passano, come sta succedendo con il femminismo?
Massimo Cacciari, intervistato sul suo ultimo libro risponde con una lezione esemplare.
Il suo libro è di argomento teologico ed è il giorno di Natale. Il Professore si vanta di aver fatto una scoperta filosofica, teologica e politica su Maria di Nazareth. L’intervistatore, Nicola Mirenzi, è ammirato ma mostra incredulità. L’intervistato ammette di non essere stato il primo e fa il nome di un grande teologo del passato. L’intervistatore chiede: come mai neanche le femministe si sono dedicate a pensare la grandezza di Maria? Neanche loro, conferma il professore. Dice il falso ma lui non teme che la verità gli secchi la lingua perché non la sa, lui di femminismo non ha mai voluto saper niente con un minimo di precisione. L’ignoranza, però, non basta più con i tempi che corrono, ci vuole un tampone e Cacciari l’ha pronto. Ripete un elogio del femminismo fatto da altri (sempre lo stesso, “ultima vera rivoluzione” ecc.). Intanto pensa: nessuno può lontanamente aver visto quello che ho visto io! E a voce alta dice: le femministe “sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione, hanno guardato Maria come una figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre”. Questa è la mossa classica dell’intellettuale italiano: s’inventa una posizione “femminista” fasulla, che gli pare verosimile e che trova facile da eliminare.
Termina così l’intervista; la trovate su Huffington Post, che in seguito ha pubblicato l’intervento di Nadia Lucchesi su questo argomento; lo trovate anche qui.
Inventarsi un femminismo finto, dopo quasi mezzo secolo di un movimento che sta modificando i tratti di una civiltà, e uno studioso di chiara fama che crede di poterlo fare impunemente, tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei suoi pari e dei mass-media che vanno per la maggiore. È questo un andazzo che è durato troppo e danneggia il nostro paese. Da notare però anche, in questo caso, un certo desiderio maschile di mettersi alla luce della differenza femminile. Nadia Lucchesi e le sue amiche sono intervenute a smentire il Professore con molta serenità, come se, sotto le sue arie da grande pensatore, riconoscessero uno dei pastori che andarono alla grotta di Betlemme. (Luisa Muraro)
Il commento di Nadia Lucchesi e amiche all’intervista di Massimo Cacciari
Se i filosofi hanno ignorato Maria, le filosofe ne hanno invece valorizzata la figura, liberandola dagli stereotipi e dalle incomprensioni della tradizione. Penso, per nominarne alcune, a María Zambrano, a Simone Weil e a Edith Stein. Le femministe hanno guardato ben oltre la lettura maschilista dell’incarnazione: come scriveva Luisa Muraro nel 2011 «Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico, ma anche le agnostiche si sono dedicate a strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti)... Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini. Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni Ottanta, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso...» (Maria. Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa, Il manifesto - Alias, 24 dicembre 2011).
Infatti, Luce Irigaray ha pubblicato nel 2010 «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), mentre nel 2002 Nadia Lucchesi aveva dato alle stampe «Frutto del ventre, frutto della mente: Maria, madre del Cristianesimo» (Luciana Tufani, Ferrara 2002).
Nel 2014 si è svolto a Venezia il convegno «Rivisitazione di Maria. Per una teologia in lingua materna», a cura di Laura Guadagnin e Grazia Sterlocchi delle associazioni Settima Stanza e Waves in collaborazione col Centro Donna, mentre a Roma, all’interno del progetto speciale culturale Biblioteche di Roma 2014 «Presenza e mistero di Maria», Annarosa Buttarelli e Suor Michela Porcellato sono intervenute sul tema: «La sovranità di Maria di Nazareth».
Raffaella Molinari e Monica Palma, relatrici di un intervento dal titolo «Maria della Sororità, Nostra Signora Nostra Sorella» continuano il lavoro straordinario di Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente.
Da più di cinquant’anni, inoltre, Angela Volpini diffonde un’immagine di Maria che rappresenta l’umanità realizzata e ci insegna la “via della felicità sulla terra”.
Non parlo dei tantissimi contributi delle teologhe cattoliche e non, che hanno interpretato in modo non tradizionale la figura della Vergine, della Maestra di Sapienza: cito, per nominarne solo una, Elisabeth Schüssler-Fiorenza, teologa statunitense, femminista cattolica, autrice di due opere fondamentali: «In memoria di Lei» (Claudiana, Torino 1990) e «Gesù, figlio di Myriam, profeta della Sophia» (Claudiana, Torino 1996).
* www.libreriadelledonne.it, 19 gennaio 2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Federico La Sala
BIOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA.... *
L’amore è davvero cieco così il cervello si spegne e la scienza non lo sa spiegare
È la Francesca di Dante il simbolo tragico della forza sprigionata dalle nostre passioni
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 29.09.2017)
Un saggio di Grazia Attili indaga le basi biologiche del sentimento più grande e misterioso. Studi ed esperimenti confermano le intuizioni dei poeti, ma non rispondono alla domanda cruciale: come accade? Consapevole di quanto l’amore plasmasse la vita quotidiana nel mondo occidentale, ma anche in altre culture, Sigmund Freud scrisse parole illuminanti in un suo saggio del 1915: «Indubbiamente l’amore fra i sessi è una delle cose più importanti della vita, e l’unione del soddisfacimento spirituale e fisico che si attinge nel godimento d’amore ne rappresenta precisamente uno dei vertici. Soltanto nella scienza si ha ritegno ad ammetterlo ».
È passato da allora più di un secolo ma la complessità dell’esperienza amorosa è ancora oggi difficile da decodificare in campo scientifico perché vi è un ritegno, più che comprensibile, ad entrare nell’intimità della vita individuale, ma anche a tradurre questo sentimento in un linguaggio troppo distante da quello che usano gli innamorati.
Ma l’amore non è solo quello del batticuore e del desiderio che si prova per la persona che si ama, anche il corpo e lo stesso cervello ne sono coinvolti, come viene raccontato nel libro Il cervello in amore (il Mulino, pag. 230) dalla psicologa e docente universitaria Grazia Attili.
Già in altri suoi libri Attili aveva esplorato l’esperienza amorosa in una chiave evoluzionistica mettendo in luce come l’amore dei genitori per i figli, ma anche fra partner sentimentali comporti l’attivazione di circuiti cerebrali che sostengono la relazione affettiva favorendo la propagazione delle specificità genetiche alle generazioni successive e la stessa sopravvivenza della specie umana. In questo nuovo libro esplora ulteriormente le basi biologiche dell’amore sentimentale con un’attenta revisione delle nuove scoperte nel campo dei neurormoni. Quando si pensa alla persona che si ama e ancora di più quando si è con lei si verifica nel cervello una tempesta ormonale, di cui la dopamina è la grande protagonista. Nel viso e negli occhi della persona innamorata si coglie il piacere che sta vivendo, ma che a volte suscita pensieri così insistenti da divenire travolgenti, quasi ossessivi.
Non può non ritornare in mente la tragica figura di Francesca da Rimini, che Dante incontra all’Inferno e che racconta il turbine da cui è stata travolta: «Amor che a’nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona». Ma il confine fra passione e innamoramento e delirio amoroso a volte può sfumare. Come per esempio nel film di François Truffaut Adele H., in cui la protagonista, la secondogenita di Victor Hugo, si innamora di un ufficiale inglese e lo insegue in Canada nonostante il divieto paterno, fino a perdere il senno.
Ma che cos’è che fa scivolare l’amore in un’ossessione che fa perdere il senso della realtà? A questo interrogativo cerca di rispondere il libro di Grazia Attili: nell’amore sentimentale, come hanno messo in luce le ricerche che hanno studiato il cervello delle persone innamorate utilizzando la risonanza magnetica, si verificano grandi cambiamenti. Le aree connesse alla sensazione di piacere e di euforia si attivano fortemente, ad esempio quando si guarda la foto della persona che si ama, mentre si disattivano le aree cerebrali connesse al riconoscimento delle emozioni negative e alla cognizione sociale. In altre parole gli studi confermano il detto “l’amore è cieco” proprio perché si verifica una specie di cecità mentale che compromette il riconoscimento delle qualità meno attraenti della persona che si ama.
È più che mai vero quello che scrisse Freud: artisti, poeti e scrittori hanno saputo raccontare le esperienze umane anticipando anche di molti secoli quello che la scienza ha cercato di scoprire molto dopo. Ma nel caso dell’amore la scienza sta compiendo i primi passi e ancora oggi non è in grado di spiegarne l’enigma: perché ci innamoriamo, perché succede proprio in un determinato momento della vita, perché siamo attratti da quella persona, ma anche perché può finire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Antropologia e teologia....
"EROS", "AGAPE", "CHARITAS". L’ALLEANZA DI FUOCO: L’ANTICO TESTAMENTO E IL SESSO.
SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA".
La lezione di Sigmund Freud (l’"Istruzione sessuale dei bambini")
Federico La Sala
"DEUS CHARITAS EST" (1 Gv.): LO SPIRITO CHRISTICO, LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO... *
“Maschio e femmina Dio li creò”
di Enzo Bianchi *
Nel libro della Genesi, il primo libro della bibbia, il libro dell’in-principio (be-re’shit: Gen 1,1) troviamo due racconti della creazione, composti da autori e redattori umani, dunque segnati da una precisa cultura, in un tempo definito della nostra storia. Appartengono a un genere letterario che qualifichiamo come mitico: il mito è un racconto situato culturalmente, dotato di una visione specifica, ma che vuole significare ciò che è universale, costitutivamente antropologico; ovvero, nel nostro caso, cosa ne è dell’’adam, dell’essere umano, il “terrestre”. Sono redazioni diverse e non contemporanee della creazione, ma sono stati posti intenzionalmente l’uno dopo l’altro dai redattori finali della Torah: non giustapposti, ma collocati in successione, in modo che apparisse la dinamica dell’umanizzazione.
Nel primo racconto (Gen 1,1-2,4a), un vero e proprio inno, una narrazione ritmata e ripetitiva, è contenuta la creazione dell’’adam, dell’umano, descritta con un testo che nella sua armonia poetica scandisce il cuore del messaggio biblico su Dio e l’umanità nei suoi rapporti con Dio e con gli animali. Ascoltiamola in una versione calco dell’ebraico: “Ed ’Elohimdisse: Facciamo ’adam in nostra immagine, come nostra somiglianza: dominino i pesci del mare, i volatili dei cieli, il bestiame, tutta la terra e ogni strisciante sulla terra. Ed ’Elohim creò ha-’adam in sua immagine, in immagine di ’Elohim lo creò, maschio e femmina li creò” (Gen 1,26-27).
Chi è l’umano creato “in immagine di Dio”, chi è rispetto a Dio e rispetto agli animali? E cosa comporta quel singolare “lo creò”, ripetuto nel duale “maschio e femmina li creò”? Gli esseri umani, l’umanità immagine di Dio è in relazione con Dio stesso e con le altre creature. L’essere umano è in sé relazione, e ciò che lo attesta in modo paradigmatico è la differenza sessuale, perché l’umano esiste in quanto maschio e femmina, con tutte le possibili varianti e intersecazioni di questa polarità. Gli umani sono immagine di Dio, ciascuno di loro nell’umanità di cui fa parte, in sé sono uniti e si completano accettando la differenza reciproca. In questo testo vi è un’immensa valorizzazione del rapporto uomo-donna, valorizzazione della completezza: non c’è una svalutazione della sessualità né una visione cinica o angosciata della differenza sessuale! La sessualità è positiva e Dio vuole che l’uomo e la donna insieme portino a compimento l’opera di umanizzazione: creati a immagine di Dio, devono diventargli conformi, somiglianti.
Ciò deve avvenire nel vivere: nella vita e solo nella vita! Vivere significa venire al mondo, abitarlo, stare tra co-creature di cui gli umani devono assumersi una responsabilità. Gli umani hanno un corpo come gli animali, sono animali, ma sono anche diversi da loro, innanzitutto nella responsabilità. L’umano è e deve farsi responsabile della terra e dell’ambiente, non è la terra che deve essere responsabile dell’umanità.
Nel secondo racconto (Gen 2,4b-25), più antico di secoli, o forse addirittura di più di un millennio confluiscono elementi mitologici di diverse culture e intende collocare l’umano nel mondo e metterlo in relazione, riaffermare attraverso un altro percorso che l’umano è relazione, è alterità. Ora, la differenza sessuale è parabola di ogni alterità, in nome della quale l’altro, “gli altri - come diceva Jean-Paul Sartre - sono l’inferno”, o meglio, possono esserlo. L’umano è veramente tale quando vive la relazione, ma ogni relazione di differenza comporta tensione e conflitto. Il rapporto uomo-donna è l’epifania della differenza e della reciproca alterità. Solo nella relazione l’umano trova vita e felicità, ma la relazione va imparata, ordinata, esercitata, perché in essa occorre dominare l’animalità presente in ciascuno, che nel rapporto si manifesta come violenza.
Ecco dunque l’umano, un essere in relazione con la terra da cui è tratto, con gli animali in quanto animale, con l’altro da sé che ha il suo stesso soffio di vita ricevuto da Dio e infine con Dio stesso . È in questo fascio di relazioni che l’umano, uomo e donna, si umanizza. E quando il terrestre, uscito dal torpore in cui Dio lo aveva posto, vede l’altro lato, il partner, allora parla con stupore. Ecco l’accesso alla parola, possibile quando c’è di fronte l’altro: finalmente un partner degno, che accende la parola, che abilita all’io-tu, al dialogo, alla relazione! Finalmente - dice l’uomo - un essere che è “osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne. La si chiamerà ’isshah perché da ’ish è stata tratta” (Gen 2,23). La relazione ormai è inaugurata: ecco l’uomo e la donna.
Ma se oggi riusciamo a fare questa lettura delle prime due pagine della Bibbia, occorre però ricordare che l’interpretazione non è sempre stata questa. Né si dimentichi che già nell’ultima parte del secondo racconto vi sono in luce tutti i segni del dramma che attraversa la storia fino a noi, fino al femminicidio che purtroppo tante volte appare ancora nei nostri giorni. In verità l’umano, ha-’adam, già qui si rivela in tutta la sua problematicità. Infatti, non appena l’uomo vede la donna, non parla alla donna, non imbocca la strada dell’io-tu, ma parla a se stesso: “Questa sì che osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne”. In tal modo esprime una verità, e cioè che la donna ha la stessa natura e perciò la stessa dignità e vocazione dell’uomo, ma la dice male, esprimendo subito la sua possessività: osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne. Parla a se stesso e parla del suo possesso. La donna tace, è ridotta al silenzio e per l’uomo appare una cosa. Egli dice: “È stata tratta da me, è mia carne”, e così nega ogni alterità, quell’alterità che richiede che la donna sia un soggetto di fronte a lui. Subito la volontà e il progetto di Dio sono traditi, e il dramma che seguirà immediatamente è già abbozzato qui, nell’emergere della differenza negata!
Scriveva Thomas Stearns Eliot in uno dei suoi Quattro quartetti : “Nel mio principio è la mia fine ... Nella mia fine è il mio principio” (East Coker, inizio e fine del testo). In queste prime pagine dell’in-principio c’è già tutta la storia dell’umanità, c’è già il misconoscimento dell’altro partner, c’è già la pretesa che l’altro sia un possesso omologo, che l’altro non sia altro, differente, diverso! Culture patriarcali e rare culture matriarcali manifestano la lotta tra i sessi, manifestano la ferita che ognuno di noi sente di fronte alla differenza: ne è attratto ma ne ha paura, vuole relazione ma ne vuole il possesso, vuole comunione ma anche guerra.
Queste pagine tentano allora di dirci come le singolarità di ciascuno di noi, dovute a molte differenze, a partire da quella sessuale, devono coniugarsi affinché vi siano vita e felicità, seppur segnate dal limite. La differenza sessuale maschio-femmina è paradigma di ogni differenza, ma tutte le differenze sono legate a quel tragitto che ognuno umano compie, tra la nascita e la morte, quando ognuno di noi ritornerà alla terra da cui è stato tratto (cf. Gen 3,19), dunque ritornerà a colui che l’ha creato. Allora ciascuno darà una risposta personalissima alla domanda sul cammino di umanizzazione rivoltagli da Dio. Mi riferisco alla prima domanda di Dio, narrata subito dopo nella Genesi, domanda rinnovata in ogni giorno della nostra vita: “’Adam, dove sei?” (Gen 3,9). Nella nostra fine è la risposta alla domanda dell’in-principio, alla responsabilità dell’umanizzazione. (fonte: Monastero di Bose)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FEDE E CARITA’ ("CHARITAS"): CREDERE "ALL’AMORE" ("CHARITATI"). Enzo Bianchi si domanda "come si può credere in Dio se non si crede nell’altro?", ma non si rende conto che è il quadro teologico costantiniano e mammonico che va abbandonato!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ... *
Una guerra contro le donne
di Tamar Pitch (Il Mulino, 18 settembre 2017)
Chi stupra è sempre l’Altro: i neri per i bianchi, i poveri per i ricchi, gli stranieri per gli autoctoni, e viceversa. Lo stupro è ciò che distingue “il noi”, gli uomini che sposiamo, da “gli altri”, gli uomini che stuprano. Lo stupro, nonché l’accusa di stupro, segna un confine. Un confine, tuttavia, tra gli uomini: noi e loro si riferisce infatti al modo prevalente, sia nell’immaginario sia nelle pratiche e nelle norme, con cui lo stupro è visto e vissuto dagli uomini. E da alcune donne, certo, visto che partecipiamo di questa cultura. Da cui si evince che misoginia e sessismo sono sempre intrecciate a razzismo e xenofobia.
L’ormai enorme letteratura femminista ha messo in luce, tra le altre cose, l’identificazione delle donne, dei loro corpi, della loro capacità riproduttiva con la “comunità”, il “territorio”, la tradizione, l’identità (etnica, nazionale) e dunque il futuro. Di qui l’esigenza di dominare e controllare le “nostre” donne, nonché lo sconcerto e il disagio maschili di fronte alla libertà rivendicata e agita dalle donne.
Stupri e femminicidi vengono così raccontati diversamente a seconda di chi sono gli autori e le loro vittime. Orrore e scandalo quando una di “noi” (ossia una che è ritenuta appartenere al gruppo dei maschi autoctoni, o comunque di quelli cui la “comunità” si riferisce) è violentata o uccisa da uno di “loro”. Perplessità e incredulità quando è uno di “noi” a stuprare e uccidere. In ambedue i casi, il vissuto e la soggettività delle donne sono ignorate. O ci si erge a protettori e vendicatori di chi ha osato mettere le mani su una “cosa” nostra (e dunque in qualche modo le vere “vittime” non sono le donne, ma questi “noi”) oppure “quella se l’è cercata”, ci ha “sfidato”, e in fondo dunque si merita quello che le è capitato. È singolare come questo tipo di narrazione sia ancora così presente, nei nostri media, tradizionali e nuovi, quando invece la vita, l’esperienza e la soggettività femminili sono tanto mutate. Ciò che infatti manca a questa narrazione sono precisamente le voci delle donne, che, interrogate, racconterebbero, tutte, l’onnipresenza della violenza maschile: per strada, al lavoro, ma ancor di più dentro le sicure mura di casa. Se c’è un confine che lo stupro traccia, è quello tra gli uomini e le donne (o chi è “ridotto” nella posizione femminile). Non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutti gli stupratori sono uomini, diceva già trent’anni fa Ida Dominjanni.
Stupri e femminicidi avvengono ovunque nel mondo, e nella maggior parte dei casi ad opera di uomini che le donne conoscono bene, mariti fidanzati padri fratelli amici e così via. Poi ci sono gli stupri invisibili, quelli di cui poco o niente si sa e si dice, quelli che non vengono riconosciuti come tali, a danno delle sex workers o, ancor peggio, delle ragazzine prostituite sulle nostre strade, da parte dei suddetti mariti e padri (di altre). Nonché degli uomini delle forze dell’ordine (su cui c’è un’ampia letteratura) che si avvalgono del loro potere di ricatto e dell’omertà diffusa. Perché le sex workers non sono per definizione proprietà di alcun uomo ( a parte il loro eventuale protettore, ma di questo parlo più avanti) e sono quindi di tutti: loro sì, se vengono violentate o uccise, “se la sono cercata”. E gli integerrimi italiani che vanno con le ragazzine, sempre più spesso minorenni, vittime di tratta, non sono forse, per le nostre stesse leggi, violentatori seriali?
Una vittima, per essere riconosciuta tale, deve avere caratteristiche e comportamenti che rispondono allo stereotipo della donna o ragazza “perbene”, ma deve anche essere violentata, meglio in strada e di giorno, da uno (se di più, meglio) sconosciuto, meglio se povero e scuro di pelle. E meglio ancora se questa vittima urla o viene visibilmente ferita. Sembra incredibile quanto questo sia vero, per i media, a quasi quarant’anni dal documentario Processo per stupro e dopo le mille battaglie femministe e la nuova ondata rappresentata dal movimento Nonunadimeno, che riprende l’analogo movimento nato in Argentina e poi diffusosi in tutta l’America Latina.
Insomma, le donne si muovono ormai a livello globale contro violenze e sopraffazioni di uomini singoli o in gruppo e contro le istituzioni che fanno poco per contrastare queste violenze o addirittura le legittimano. I contesti sociali, culturali, politici sono diversi e questa diversità va presa in considerazione per capire le differenze quantitative e qualitative della violenza maschile contro le donne, ma sempre di patriarcato si dovrebbe parlare: ossia di un sistema complesso di potere e dominio maschili onnipervasivi, per battere il quale non bastano certo parità e pari opportunità (negli anni Settanta dicevamo che no, non era metà della torta che volevamo, ma una torta del tutto diversa). Questo sistema è in crisi per via del fatto che sempre più donne gli negano consenso e complicità, cosa che in certi casi può esacerbare violenza e ferocia.
Si ha l’impressione che sia in corso una guerra contro le donne, e tra uomini, per il controllo delle donne e dei loro corpi. È una guerra combattuta con le armi e con gli stupri e, oggi, anche con e su i social media. Difficile, se non impossibile, sconfiggere il patriarcato (soltanto) con il diritto penale. Del quale ci si può e ci si deve servire, naturalmente, ma sempre sapendo che la giustizia penale, a sua volta, è connotata da sessismo, razzismo e classismo. I decreti sicurezza (da ultimo quello firmato Minniti) parlano appunto questa lingua: non sono solo razzisti e classisti, sono anche sessisti, laddove è del tutto ovvio che il soggetto standard di questi decreti è maschio, adulto, non troppo povero. Berlusconi proponeva di mettere un poliziotto a fianco di ogni bella donna (le brutte si arrangiassero). Magari meglio una poliziotta...
Le politiche e le retoriche della sicurezza tendono a una specie di sterilizzazione del territorio urbano, mirano a rendere invisibili povertà e disagio, a recintare più o meno simbolicamente lo spazio dei perbene a difesa dai permale. Ma, benché esse si avvalgano spesso dell’evocazione del femminile (bisogna proteggere donne, vecchi, bambini: i cosiddetti soggetti vulnerabili), sono del tutto cieche e inutili, se non controproducenti, rispetto al contrasto delle violenze contro le donne. Le quali, come dicevo, non avvengono solo e nemmeno soprattutto negli angoli bui delle vie cittadine. Ho detto e scritto più volte che, se seguissimo fino in fondo la logica delle politiche di sicurezza, allora, per proteggere le donne, dovremmo cacciare tutti gli uomini da ogni casa, città, Paese, continente, universo mondo.
Una città, un Paese, un continente sono “sicuri” per tutti se le donne, tutte le donne, possono attraversarli liberamente, di giorno, di notte, vestite come vogliono, ubriache o sobrie. La libertà, per le donne, è un esercizio ancora difficile e contrastato, praticamente ovunque. Ci muoviamo, più o meno consapevolmente, con prudenza, ci neghiamo, più o meno consapevolmente, molte delle libertà di cui gli uomini godono senza rendersene conto. Gesti, atteggiamenti, parole, comportamenti maschili ci ricordano tutti i giorni che dobbiamo stare attente (non serve proprio che ce lo ribadiscano sindaci, ministri, poliziotti), l’aggressione e la violenza sono sempre in agguato. Però, è esattamente il contrario che serve: ai tempi si diceva “riprendiamoci la notte”, e anche adesso andiamo per le strade per dire che vogliamo andare e fare ciò che più ci piace, senza protettori.
Già, il termine protettore. In italiano ha un’ambivalenza significativa: il protettore delle donne che si prostituiscono è precisamente la figura simbolo della protezione maschile, una protezione che implica soggezione e acquiescenza, pena non solo l’abbandono ma la punizione. Sottrarsi alla protezione, sia reale sia introiettata, è invece un passo necessario per affermare la propria libertà. Ed è ciò che le donne, singolarmente e collettivamente, stanno facendo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
Fatima, una storia tra fede e politica
Il contesto nazionale, la restaurazione cristiana del Portogallo, il conflitto mondiale, la guerra fredda, il Concilio, la decolonizzazione
di MARCO RONCALLI (La Stampa, 10/05/2017)
Roma. Un culto che prima si afferma a livello nazionale e poi si dilata nel mondo per un secolo conquistando fedeli, vescovi, Papi. E tutto che inizia con tre pastorelli analfabeti - Jacinta, Francisco e Lúcia -e il racconto dell’ apparizione di una “signora vestita di bianco”: che il 13 maggio 1917 li invita a dire il rosario per i peccatori e la fine della guerra; il 13 giugno ripete l’invito ed esorta Lúcia a imparare a leggere; il 13 luglio torna a chiedere preghiere per la fine della guerra, promettendo un miracolo entro tre mesi e rivelando loro un “segreto”; il 13 agosto dice di usare le donazioni per il culto; il 13 settembre insiste sulla preghiera per la fine del conflitto e chiede una cappella a Fatima; il 13 ottobre - ultima apparizione, durante la quale si verifica un fenomeno solare (il miracolo promesso?) - rivela come richiesta della Madonna del Rosario preghiere e penitenze, garantendo un rapido rientro dei soldati a casa.
Fermandosi solo sulle relazioni coeve alle apparizioni del ‘17, con le risposte semplici dei tre bambini, considerando che la guerra cessò solo alla fine del ‘18, non è facile capire la devozione popolare concentratasi subito su Fatima.
E forse ha ragione José Barreto nel suo saggio “I messaggi di Fatima tra anticomunismo, religiosità popolare e riconquista cattolica” pubblicato da poco su “Memoria e Ricerca” del Mulino, ad allargare lo sguardo anche alla cornice storica e socio-politica. Proviamo a seguirlo.
«Con Fatima - scrive - si aprì un canale di comunicazione con il sovrannaturale in un periodo tormentato della storia contemporanea portoghese, iniziato con la rivoluzione repubblicana del 1910 durante il quale si era verificata la maggiore offensiva contro la Chiesa mai registrata nel Paese». Chiesa che nel precedente periodo del costituzionalismo monarchico (1834-1910), pur con il cattolicesimo come religione di Stato, aveva vissuto una situazione definita da Manuel Clemente «una gabbia e nemmeno dorata».
È dunque un periodo particolare quello che vede la diffusione dei messaggi di Fatima: di guerra, e in Portogallo di guerra di religione. Con una imperante laicizzazione della società che vede scuole cattoliche chiuse, preti detenuti, beni ecclesiastici nazionalizzati, aule di culto e seminari trasformati in uffici pubblici, e vescovi importanti accusati di comportamenti contrari alle leggi e spediti in esilio persino durante le apparizioni del settembre e ottobre ’17.
«Il tentativo di connotare politicamente Fatima era inevitabile, e iniziò immediatamente a partire dal 1917», ha scritto Barreto. Aggiungendo: «I repubblicani denunciarono lo sfruttamento della “superstizione” popolare da parte delle forze anti-repubblicane; quest’ultime interpretarono le apparizioni della Vergine come le precorritrici del “miracolo” dello schiacciamento della “serpe giacobina“ riferendosi al colpo di Stato del dicembre 1917 di Sidonio Pais che destituì i repubblicani radicali e instaurò un regime presidenzialista terminato nel dicembre successivo».
Se si può convenire che, nella regione di Fatima, nei confronti dell’offensiva antireligiosa non ci fu allora una vigorosa resistenza cattolica, né ci fu un immediato consenso del clero sulle apparizioni, così come non è corretto indicare in quel periodo una correlazione tra apparizioni e militanza antirepubblicana, successivamente invece, la trasformazione di Fatima in una “Lourdes portoghese” finì per riflettere nei fatti un’opposizione allo spirito della repubblica atea e massonica. Senza dimenticare che le apparizioni potevano leggersi come un segno di salvezza per un Paese preda di angosce con le sue truppe in trincea a fianco dell’Intesa, preda di incertezze per la scarsità di beni primari e via dicendo.
Detto questo, restando sul fronte politico, è indubbio che è il golpe militare del dicembre ‘17 a riportare la riappacificazione tra il governo e la Chiesa e il riallacciamento delle relazioni diplomatiche con il Vaticano: che avranno pienezza con la dittatura militare (1926-1933) e larga parte dell’ Estado Novo (1933-1968 con Salazar e 1968-1974 con Caetano nel segno delle “tre F”: fado, futbol, Fatima . Ed è solo in questo arco cronologico che pare convincente l’affermarsi di una connotazione anche ideologica - in chiave anticomunista - dei messaggi mariani. Del resto l’ufficializzazione del culto di Fatima passò attraverso tutte le indagini canoniche avviate nel 1922 e concluse ben otto anni dopo con il riconoscimento formale del carattere sovrannaturale dei fatti, mentre in attesa del verdetto si registrarono un impegno del clero nella ricostruzione ufficiale della storia delle apparizioni, una vasta propaganda sulla stampa cattolica, visite importanti, e persino - dopo che Benedetto XV non si era mai pronunciato - la “indiretta approvazione” di Fatima da parte di Pio XI che nel 1929 benedice una statua della Vergine di Fatima arrivata dal Portogallo al Pontificio Collegio Portoghese di Roma. Lo stesso Pio XI di cui il cardinale Confalonieri che era stato suo segretario riportava questa frase a proposito di mistiche che gli inviavano lettere su lettere circa rivelazioni di Maria: «...Se ha qualcosa da farmi sapere, potrebbe dirlo a me».
Quando nel 1930 il vescovo di Leiria-Fatima Correia da Silva dichiara le apparizioni «degne di essere credute», morti Francisco e Jacinta, è Lúcia l’unica testimone di esse: entrata nel frattempo tra le Suore dorotee di Porto e inviata in Spagna, nel monastero di Tuy ha continuato ad avere visioni e locuzioni interiori (nel ’25 la richiesta di diffondere la «comunione dei cinque primi sabati» in riparazione dei peccati) e ha già steso la prima delle sei “Memorie” (1922, 1937, due nel 1941, 1989, 1993, edite in Italia dalla Queriniana con il titolo “Lucia racconta Fatima”, a cura di António Maria Martins) dedicate ai fatti della Cova da Iria e alle rivelazioni. Rivelazioni che, a ben vedere - una volta rese note - palesano intrecci con drammi del XX secolo: dalle guerre mondiali alla parabola della Russia sovietica.
Tra le istruzioni che alla fine del maggio ‘30 Lúcia afferma di aver ricevuto dal cielo - preceduta da un «se non mi sbaglio» - ecco la promessa divina di «porre fine alla persecuzione in Russia se il Santo Padre avesse, insieme a tutti i vescovi del mondo, compiuto un solenne e pubblico atto di riparazione e di consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria». Sino a questo momento, fissato in una lettera al confessore, il gesuita José Bernardo Gonçalves, non si trova alcun riferimento pubblico o privato alla Russia e al comunismo, ma proprio nel febbraio precedente, peggiorate le condizioni di ortodossi e cattolici, congelate le trattative segrete che la Santa Sede aveva provato a tessere con i sovietici, Pio XI pubblicamente aveva chiesto a tutto il mondo cristiano una «crociata di preghiera per la Russia». In ogni caso, come ha osservato Barreto nel saggio citato, «le istruzioni celesti ricevute da Lúcia nel ‘30 non ottennero una grande attenzione dal vescovo di Leiria fino al ‘36, quando il Fronte Popolare prese il potere nella vicina Spagna». E proprio in quel periodo Lúcia accettò la proposta del suo confessore di insistere con il vescovo e il Vaticano sul tema della «consacrazione della Russia», pur rinnovando per scritto il timore di «essersi lasciata illudere dall’immaginazione», o da qualche «illusione diabolica»,come scrisse in due lettere del 18 maggio e 5 giugno 1936.
L’anno dopo, imperversando la guerra civile spagnola, il vescovo di Leiria mette a conoscenza Papa Ratti delle richieste celesti a Lúcia circa la «consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e Maria» da effettuarsi insieme a «tutti i vescovi del mondo cattolico», e l’approvazione papale della devozione dei «primi sabati», come condizioni per la fine della persecuzione religiosa in Russia. Nella lettera (riportata tra i Novos Documentos de Fátima editi dall’ Apostolado da Imprensa nel 1984), il vescovo ricordava a Pio XI come già nelle raccomandazioni che la Vergine di Fatima aveva fatto nel 1917 fosse chiaro «come Nostra Signora stesse preparando la lotta contro il comunismo», dal quale il Portogallo era stato sino ad allora preservato. Il Pontefice non risponde a questa richiesta (come non rispose ad una analoga richiesta di un’ altra veggente portoghese, Alexandrina da Costa, ai tempi screditata e poi beatificata da Giovanni Paolo II). «Quanto alla consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria, non è stata fatta nel mese di maggio come lei si aspettava. Si farà certamente, ma non subito», così Lúcia il 15 giugno del ’40 a padre Gonçalves.
Nel frattempo successore di Pio XI è Papa Pacelli. Obbedendo al vescovo di Leiria e di Gurza, Lúcia gli scrive nell’ottobre ’40 collocando per la prima volta la richiesta celeste di consacrazione della Russia nel 1917, come parte del segreto da lei custodito dal 13 luglio di quell’anno (lettera che sarà resa nota pubblicamente solo negli anni ’70).
Nell’estate del ’41 mentre è in corso l’invasione dell’Urss da parte della Germania, il vescovo di Leiria ordina a Lúcia di redigere una nuova memoria sulla guerra e la Russia. E a questo testo - completato nell’ottobre ’41 - Lúcia affida la versione definitiva delle due prime parti del segreto (la terza parte, redatta nel ’44 e inviata a Roma nel ’57, sarebbe stata divulgata da Giovanni Paolo II nel 2000) che Pio XII rende pubbliche nel ’42, la visione di un pezzo di inferno («un grande mare di fuoco» con immersi «i demoni e le anime») e il messaggio della Vergine sulla consacrazione della Russia («se ascolterete le mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni....»).
Nel frattempo il testo del “segreto”, integro, per sunto, stralci, con riferimenti alla Russia alterati o tagliati, gira per il mondo. Ed è Pio XII che il 31 ottobre ‘42, data delle nozze d’argento delle apparizioni e della sua consacrazione episcopale, con un radiomessaggio consacra il «genere umano» al Cuore immacolato di Maria, invocata con il titolo di “Regina della pace” (come aveva fatto Benedetto XV). In questa preghiera il Papa si allontanava dalla richiesta precisa della Vergine, ma faceva allusioni alla devozione mariana dei russi «popoli separati dall’errore e la discordia», e alla loro auspicata ricongiunzione «all’unico gregge di Cristo, sotto un unico, vero pastore». Nello stesso testo anche però un riferimento all’intervento celeste grazie al quale la «nave dello stato portoghese «persasi «nella tormenta anti-cristiana e anti-nazionale» aveva ritrovato «il filo delle sue più belle tradizioni che la rendevano una nazione fedelissima» e persino un omaggio anche alla classe politica del cambiamento, definita «uno strumento della Provvidenza». Da non dimenticare che Paolo VI alla chiusura della terza sessione del Vaticano II avrebbe fatto riferimento a questa consacrazione del predecessore inviando con una missione la simbolica rosa d’oro al santuario della Madonna di Fatima.
Non solo. Come ha scritto sulla rivista “Jesus” Alberto Guasco: «Se una rivelazione ex post eventu è manna per critici e avversari, Pio XII mostra invece di prenderla sul serio». Eccolo così promuovere l’istituzione della festa del Cuore immacolato di Maria (1944), far incoronare la Madonna di Fatima regina del mondo (1946), ripetere la consacrazione in una lettera apostolica del 7 luglio 1952. A quella data Pio XII conosce anche la terza parte del segreto ricevuta in busta chiusa dal vescovo di Leiria, ma non ne ha ritenuto opportuna la divulgazione. A quella data le peregrinazioni dell’immagine di Fatima continuano in tutto il mondo e sulla “Piazza Bianca” del santuario si sono già viste scene come quella dell’ottobre 1951: con il noto predicatore americano Fulton Sheen, che davanti a 100mila pellegrini profetizza, come risultato delle preghiere dei milioni di fedeli lì affluiti, la trasformazione del simbolo del martello e della falce in una croce e una luna sotto i piedi dell’Immacolata.
Non tutti però manifestano in quel periodo entusiasmi così accesi. Anzi già dalla fine della guerra, Fatima occupa discussioni fra teologi, avviate da Edouard Dhanis, il gesuita belga che ne ha diviso la storia in due parti - una vecchia sulle testimonianze raccolte nel 1917, una nuova sul corpus originale integrato con i nuovi dati contenuti nelle “memorie”- scrivendo già nel ’44: «Siamo portati a credere che, nel corso degli anni, alcuni eventi esterni e certe esperienze spirituali di Lúcia abbiano arricchito il contenuto originale del segreto». Senza porre in causa la sincerità della veggente, Dhanis osservava che «il modo poco oggettivo in cui nel segreto erano state descritte le cause che avevano provocato la Guerra [mondiale] poteva solo essere spiegato dalla influenza che la Guerra civile spagnola aveva avuto sul pensiero di Lúcia». -In effetti, il segreto imputava alla Russia tutta la responsabilità per le guerre e le persecuzioni verso la Chiesa, seppure all’interno di una concezione non storica e apocalittica di questi flagelli come punizione divina per i peccati del mondo. Le tesi di Dhanis poi rettore della Pontificia Università Gregoriana, sarebbero state duramente dibattute negli ambienti vicini a Fatima costringendolo a toni più concilianti. Lui, membro sino alla morte della Commissione teologica internazionale, a fare da apripista per altri teologi come nel suo caso accusati dai tradizionalisti di essere «nemici di Fatima».
Accuse dalle quali non furono risparmiati Papi come Giovanni XXIII e Paolo VI, invitati più volte a rinnovare in modo completo la consacrazione e a divulgare l’ultima parte del segreto, non disposti in tempi di Ostpolitik e di Concilio, a lasciar passare interpretazioni del messaggio di Fatima ultraconservatrici, anti-ecumeniche, in un quadro rinnovato nel quale la Chiesa tesseva nuove relazioni ad Est, affievolendo le aspettative delle tesi legate all’«ultimo segreto di Fatima» che per molti si sarebbe riferito ad una grave crisi interna alla Chiesa causata dal Concilio. Il resto è noto: nel ‘59 e nel ‘65 Giovanni XXIII e Paolo VI lessero il segreto e decisero di non divulgarlo (facendo alimentare nuove speculazioni).
Negli anni ’60 la questione coloniale segnò un divario tra Vaticano e governo portoghese già alle prese con una vera opposizione cattolica interna intensificatasi con l’inasprimento delle guerre in Africa e l’esilio forzato del vescovo di Porto nel 1959. Proprio quest’ultimo, Ferreira Gomes, rientrando nel ’70 dal suo esilio in Francia, fu il primo prelato portoghese a formulare aperte critiche nei confronti di Fatima (già da lui definita una «Lourdes reazionaria»), sottolineandone aspetti di «culto magico» e «religione utilitaristica». «Per i cattolici che in questo periodo combattevano il regime in Portogallo, Fatima ebbe un significato molto diverso, se non opposto, a quello che avrebbe avuto per la lotta di liberazione polacca degli ani ’80», ha notato Barreceto. Aggiungendo che: «L’episcopato portoghese, tra la crescente contestazione proveniente dalla Chiesa e le critiche cattoliche internazionali, riuscì, seppur tardivamente, a svincolarsi dal regime poco prima della rivoluzione dell’aprile 1974 che ne decretò la fine». Apparentemente incurante degli sconvolgimenti politici, il santuario di Fatima continuò ad accogliere folle di devoti. Anzi la forza della fede popolare protesse la Chiesa dal potere rivoluzionario del biennio ‘74-‘76.
Morto Paolo VI e subito dopo Giovanni Paolo I, che da patriarca di Venezia aveva incontrato Lucìa, ecco Giovanni Paolo II: il “Papa di Fatima” nonché «protagonista della terza parte del segreto». Il Papa che a Fatima nel 1982 non esita a riconoscere che la Vergine gli ha salvato la vita, che ripete la consacrazione del mondo (13 maggio ‘82 e 25 marzo ‘84), che beatifica i due pastorelli che ora Francesco canonizza; che ha consentito la divulgazione del terzo segreto con tanto di “guida alla lettura” dell’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger. Sì, il futuro Benedetto XVI, che nel 1996 a Fatima, ricordò l’invito vero di Maria che «parla ai piccoli per mostrarci quanto è necessario sapere: cioè, prestare attenzione all’unico necessario: credere in Gesù Cristo» . Quanto al resto ci vengono in mente solo le parole di Paul Claudel che definì Fatima «un’esplosione traboccante del sovrannaturale in un mondo dominato dal materiale».
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* www.lastampa.it, 10.05.2017.
Quando Gesù rese libera la Donna
Censurata per secoli dalla Chiesa la parabola dell’adultera rivela tutta la misericordia divina. Perché Cristo difende anche la figura femminile dalla violenza del mondo maschile
di Enzo Bianchi priore della comunità monastica di Bose *
Gesù andò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio, e tutto il popolo veniva da lui; e sedutosi, insegnava loro. Ora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu dunque che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova, per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva per terra con il dito. Ma poiché continuavano a interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma essi, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Ora, Gesù, alzatosi, le disse:
«Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ella disse: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più».
Questo brano ha conosciuto una sorte particolarissima, che attesta il suo carattere scandaloso e imbarazzante: è stato infatti “censurato” dalla Chiesa!
È assente nei manoscritti più antichi, è ignorato dai padri latini fino al IV secolo, per cinque secoli non è stato proclamato nella liturgia e non ci sono commenti a esso da parte dei padri greci del primo millennio. Al termine di un lungo e travagliato migrare tra i manoscritti è stato inserito nel vangelo secondo Giovanni, dopo il settimo capitolo e prima del versetto 15 dell’ottavo.
Non è una scena insolita: spesso i vangeli annotano che gli avversari di Gesù tentano di metterlo in contraddizione con la Legge di Dio, per poterlo accusare di bestemmia, di disobbedienza al Dio vivente. A quegli scribi e farisei, in realtà, non importava nulla della donna, per loro era importante trovare motivi di condanna contro Gesù: non volevano lapidare l’adultera, ma far lapidare Gesù! Questi uomini religiosi fanno irruzione nell’uditorio di Gesù, portano davanti a lui una donna sorpresa in flagrante adulterio, la collocano in mezzo a tutti e si affrettano a dichiarare: «Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa».
Tale dichiarazione sembra formalmente ineccepibile, perché cita la Legge; a uno sguardo attento, però, si coglie che il loro ricorso alla Torah è parziale. La Legge, infatti, prevedeva la pena di morte per entrambi gli adulteri e attestava la stessa pena, mediante lapidazione, mentre se erano già sposati allora si ricorreva allo strangolamento. Resta però altamente significativo che solo lei sia stata catturata e portata davanti a Gesù, mentre l’uomo che ha commesso adulterio con lei, e secondo la Legge è colpevole come lei, non risulta né imputato né condotto in giudizio!
Cerchiamo di sostare per un momento su questa scena. Ci sono alcuni che hanno portato a Gesù una donna, perché sia condannata. Ma Gesù inizia a rispondere agli accusatori parlando con il corpo, non con parole: si china, abbassandosi, rompe il cerchio della «violenza mimetica » (René Girard), spezza il faccia a faccia con quei farisei e si mette a scrivere per terra, in assoluto silenzio.
Dalla posizione di chi è seduto passa a quella di chi si china verso terra; di più, in questo modo si inchina di fronte alla donna che è in piedi davanti a lui! Poiché però gli accusatori insistono nell’interrogarlo, dopo quel lungo e per loro fastidioso silenzio riempito solo dal suo mimo profetico, Gesù si alza e non risponde direttamente alla questione postagli, ma fa un’affermazione che contiene in sé anche una domanda: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
Poi si china di nuovo e torna a scrivere per terra. Così una parola di Gesù, una parola sola ma incisiva (al punto da essere divenuta proverbiale) e autentica, una di quelle domande che ci scuotono e ci fanno leggere in profondità noi stessi, impedisce a quegli uomini di fare violenza in nome della Legge. Solo Dio, e quindi solo Gesù, potrebbe condannare quella donna.
Ebbene, qui Gesù - mi si permetta di dire - “evangelizza” Dio, cioè rende Dio Vangelo, buona notizia per quella donna. Gesù, l’unico uomo che ha raccontato in pienezza di Dio, che ne è stato l’esegesi vivente, afferma che di fronte al peccatore, alla peccatrice, Dio ha un solo sentimento: non la condanna, non il castigo, ma il desiderio che si converta e viva. Gesù, inviato da Dio «non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» anche qui agisce come aveva annunciato all’inizio del suo ministero: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Solo quando tutti se ne sono andati egli si alza in piedi e sta di fronte alla donna. Lei, posta lì in piedi in mezzo a tutti, ora è finalmente restituita alla sua identità di donna e vede Gesù in piedi davanti a sé: così è possibile l’incontro vero.
Infine, Gesù conclude questo incontro con un’affermazione straordinaria: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più». Sono parole assolutamente gratuite e unilaterali. Ecco la gratuità di quella assoluzione: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di misericordia preveniente offre a quella donna la possibilità di cambiare.
Non sappiamo se questa donna perdonata dopo l’incontro con Gesù abbia cambiato vita; sappiamo solo che, affinché cambiasse vita e tornasse a vivere, Dio, che non vuole la morte del peccatore, l’ha perdonata attraverso Gesù e l’ha inviata verso la libertà: «Va’, va’ verso te stessa e non peccare più»... Le persone religiose vorrebbero che a questo punto Gesù avesse detto alla donna: «Ti sei esaminata? Sai cosa hai fatto? Ne comprendi la gravità? Sei pentita della tua colpa? La detesti? Prometti di non farlo più? Sei disposta a subire la giusta pena?». Queste omissioni nelle parole di Gesù scandalizzano ancora, oggi come ieri!
Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l’unicità di Gesù. Questo incontro tra Gesù e la donna sorpresa in adulterio non ci rivela solo la misericordia di Gesù, ma anche la sua capacità di difendere la donna da un cerchio di uomini, sempre pronti a giustificare se stessi e a condannare le donne. Purtroppo tutta la storia dei credenti, dell’antica come della nuova alleanza, testimonierà questo «occhio spione, esigente e condannante» degli uomini religiosi nei confronti delle donne, ritenute colpevoli per la loro condizione - dicono gli uomini - di creature sempre tentatrici e facili alla tentazione. Questo esempio di Gesù sarà poco compreso e ancor meno vissuto, ma sarà comunque memorizzato nel vangelo e vi saranno sempre lettori che vi troveranno una buona notizia.
* la Repubblica, 08.11.2016
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
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fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
I FIGLI
di KHALIL GIBRAN *
E una donna che portava un bimbo al seno disse,
Parla con noi dei Figli.
E lui disse:
I vostri figli non sono vostri figli.
Essi sono i figli e le figlie della brama della Vita per la vita.
Essi vengono attraverso voi ma non per voi.
E benché essi siano con voi essi non appartengono a voi.
Voi potete dare loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri,
Poiché essi hanno i propri pensieri.
Voi potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime,
Poiché le loro anime dimorano case di domani, che non potrete visitare, neppure in sogno.
Potrete essere come loro, ma non cercate di farli simili a voi,
Poiché la vita procede e non si ferma a ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli, come frecce vive, sono scoccate lontano.
L’Arciere vede il bersaglio sulla strada dell’infinito, ed Egli con forza vi tende
affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Piegatevi nelle mani dell’Arciere con gioia:
Poiché come egli ama la freccia che vola, così Egli ama l’equilibrio dell’arco
* da: " Il Profeta" di Khalil Gibran
Addio a Ida Magli, antropologa controcorrente
Aveva 91 anni, autrice del longseller ’Gesù di Nazareth’
di Redazione ANSA ROMA *
(ANSA) - ROMA, 21 FEB - E’ morta oggi nella sua casa a Roma, a 91 anni l’antropologa e scrittrice Ida Magli, l’autrice di ’Matriarcato e potere delle donne’ e del longseller ’Gesu’ di Nazareth -Tabu e Trasgressione. Lo annuncia lo scrittore Giordano Bruno Guerri, vicino alla famiglia dell’antropologa. Presidente della Fondazione del Vittoriale, Guerri nel 2015 la premiò con l’ultimo riconoscimento, ’Il Premio Vittoriale’ ricevuto dalla Magli per "il suo prezioso contributo di scrittrice e intellettuale della scena letteraria".
"E’ morta a casa sua, serena e lucida accanto al figlio. Si era rotta il femore alcune settimane fa. L’intervento era andato bene ma era molto depressa perchè pensava di non poter essere più indipendente" spiega Giordano Bruno Guerri che con lei scrisse anche un libro intervista nel 1996 ’Per una rivoluzione italiana’ (Baldini&Castoldi). La Magli, nata a Roma, nel 1925, aveva finito di scrivere un nuovo libro: ’Figli dell’uomo: Storia del bambino, storia dell’odio’ che dovrebbe uscire per la Bur.
* ANSA, 21 febbraio 2016 23:28
Ida Magli
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l’iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 23.02.2013)
Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo - è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano.
Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso».
Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».
Ida Magli, antropologa controcorrente.
Un ricordo-omaggio di Loredana Lipperini:
"Come fosse ieri. Una voce sottile, modi gentili, una donna piccolina, un’aula universitaria piena di sole. Frase dopo frase, ci insegnava a temere gli stereotipi, le frasi fatte, le prese di posizione scontate. Ai tempi, le femministe facevano i girotondi? E lei ci raccontava i pericoli di usare il simbolo (il cerchio) senza conoscerne il significato. Perché usando i simboli si viene usate, diceva, e qualsiasi conquista sociale, senza mutare i simboli, rifluisce via come acqua. Era il 1980. Era scomoda. Era attenta. Qui, per dire, Ida Magli mette in guardia, anche, dall’utopia di Gilania - Sotto le vesti della Dea (dal suo profilo "fb". 21.02.2016)
L’amicizia uomo/donna
Meccaniche divine
di Marco Vannini *
Una diffusa opinione vuole che l’amicizia tra uomo e donna non sia possibile se non intercorre (o non sia intercorsa) tra loro anche una relazione sessuale. Un’amicizia solo spirituale sarebbe dunque qualcosa di artificioso, di ingannevole prima di tutto nei confronti di se stessi. Questa opinione presuppone che la pienezza dell’amore tra uomo e donna si manifesti nel rapporto sessuale, verso il quale tenderebbe inesorabilmente l’amore stesso come a suo compimento, e, in questo senso l’amicizia sarebbe solo una fase inferiore, più povera e modesta.
La diffusione di questa opinione dipende dal predominio di quella che Platone nel Convito chiama la Venere Pandemia, cioè volgare, nel duplice senso della parola in italiano: ampiamente diffusa tra il popolo e anche lontana dall’eleganza di ciò che è nobile. Ma la Venere Pandemia esiste, non dobbiamo negarlo, in quanto è vero che una corrente erotica passa necessariamente nei rapporti tra uomo e donna. Eros, demone mediatore tra l’uomo e Dio, incessantemente richiama verso la bellezza e spinge a ricercare l’unione con essa, e la prima forma con cui ciò si manifesta è, appunto, il desiderio sessuale. Perciò in tutti è diffusa la Venere Pandemia, che, si badi bene, è una dea e come tale va onorata. Ovvero, fuori dal mito, dobbiamo riconoscere che al fondo della natura umana esiste, insopprimibile, Eros, l’amore, che è innanzitutto desiderio di unione con un corpo. Questo onesto riconoscimento è il punto di partenza per comprendere quel mistero dell’amore che Diotima, sacerdotessa di Mantinea, rivela a Socrate. Perché il desiderio sessuale è solo la prima e più comune manifestazione della potenza del demone, che muta forma e diventa più ricco e più gioioso col crescere. Sottolineiamo questo punto. Come notava Simone Weil, solo un’epoca miserabile come la nostra può prendere sul serio Freud, l’anti-Platone per eccellenza, e la sua concezione per cui l’eros sessuale è primario, rispetto al quale sono diminuzioni le altre forme di amore.
In realtà, quando l’amore è forte, esso si muove di grado in grado verso il più, e lascia il meno, come dice la mistica medievale Margherita Porete, ripetendo, senza affatto saperlo, l’insegnamento impartito a Socrate da Diotima, a testimonianza che davvero le donne hanno “intelletto d’amore”. Così anche Agostino, nelle sue Confessioni, ricordando la giovinezza, ora che è grande e che sa cosa davvero sia l’Amore, che è Dio, riconosce che stava allora cercando l’amore: non sapeva cosa fosse, non sapeva amare, ma era l’amore che stava amando. Amare amabam perché è l’amore che si ama davvero: l’amore è il soggetto che ama, l’oggetto amato e, insieme, l’atto stesso di amare. La creatura, con la finitezza, è ciò che risveglia in noi quella “divina follia” con la quale giungono all’uomo tutti i doni più belli da parte di Dio: allora la Venere Pandemia cede il posto alla Venere Urania, che conduce l’uomo verso il cielo. L’amicizia non è una forma imperfetta di eros, ma, al contrario, il suo grado più alto.
Meister Eckhart scrive che l’amore per una creatura è in realtà amore di se stessi e da questo amore non si ricava che amarezza, giacché tutte le creature sono un nulla, dal momento che ricevono tutto il loro essere da Dio, e il contatto con il nulla non fa altro che male. L’amore per una creatura è un miracolo, di cui non c’è niente di più bello ma neanche di più straziante, perché mette davanti la finitezza, la molteplicità, e così la lontananza dall’Uno, in cui, solo, è la pace. In questo senso, scrive sempre Eckhart, dove entra la creatura, esce Dio. L’amore che ha un perché non è puro, in quanto dove c’è il perché c’è l’utile, comunque configurato. L’amore puro è senza perché. Infatti l’anima ha due occhi: uno guarda la creatura, e la ama con un amore carico di tenerezza e compassione proprio per la sua finitezza; l’altro guarda l’eterno, l’Uno, e nell’Uno ama tutte le creature di un amore che non è più per i corpi, ma per le anime che cerca di rendere migliori, così come viene reso migliore da questo amore.
Questo vale indipendentemente dal sesso. L’amicizia non è qualcosa che si deve cercare, chiedere o sperare: è una virtù, e come tale la si esercita e basta, come scrive Simone Weil. L’amicizia non è uno stato d’animo che va e viene, non è un sentimento, ma riguarda quello che i mistici chiamano il fondo dell’anima, ben più profondo dei mutevoli sentimenti, inaccessibile a tutto, fuori che a Dio nella sua nuda essenza. Riguarda non l’anima, ma lo spirito, è lì non v’è più maschio o femmina, come scrive Paolo, dove non ha più peso il sesso.
D’altra parte però non v’è dubbio che l’essere umano sia sessuato, e sesso significa divisione (sexus da secare): siamo maschi e femmine e per natura cerchiamo quella metà che ci manca, senza la quale si resta non psicologicamente pacificati, carichi di incomprensione e risentimento. Perciò è in un’amica che un uomo trova il perfetto completamento, così come una donna lo trova in un amico: certo, una corrente di Eros c’è, e deve esserci, perché lo spirito non può essere perfetto se prima il corpo e l’anima non sono perfetti, insegna ancora Eckhart, riferendosi a ciò che poi i tedeschi (come Goethe e Nietzsche) hanno chiamato Vergeistigung, spiritualizzazione, o Sublimation, ma in un senso opposto a quello in cui lo usa Freud (che lo ha rubato a Nietzsche): non mistificazione dell’istinto sessuale, ma suo inveramento.
Proprio nell’amicizia, dunque, ricca dell’eros tra uomo e donna, più che mai si manifesta la grazia di quel «sentimento popolare che nasce da meccaniche divine», come dice una canzone dei nostri giorni, l’Amore «che muove il sole e l’altre stelle». Ne possiamo addurre testimonianze infinite: dall’antichità a oggi, la storia ne è piena. Da quelle celebri come Chiara e Francesco, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, Giovanna di Chantal e Francesco di Sales, a quelle di intellettuali come Madame Guyon e François de Fénelon, Adrienne von Speyr e Hans Urs von Balthasar o Raïssa e Jacques Maritain, che furono anche moglie e marito. Non si tratta dunque di qualcosa che vale solo per religiosi e religiose, santi e intellettuali. Valga l’esempio di due nostri contemporanei: il domenicano Antonio Lupi e la giovane Tilde Manzotti, in cui epistolario (Amare infinitamente. Epistolario 1938-1939, a cura di Elena Cammarata, San Leolino, Editore Féeria, 2014, pagine 90, euro 12) mostra, ancora una volta, la bellezza e la profondità dell’amicizia tra uomo e donna.
* L’Osservatore Romano, supplemento "Donne, Chiesa, Mondo", gennaio 2016
Sepulveda (1490-1573)
Guerre in nome del Vangelo
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.1.2016)
Nel 1545, mentre si aprono i lavori del Concilio di Trento, termina la stesura di un libro che legittima la guerra speciale per la conquista del Nuovo Mondo. La pubblicazione è però ritardata dai domenicani. Il suo autore, Juan Ginés de Sepulveda, aveva studiato anche a Bologna seguendo gli insegnamenti di Pomponazzi; dal 1536 era diventato storiografo di Carlo V, ma anche cappellano reale. Con Erasmo da Rotterdam aveva avuto scambi di consensi e di critiche. Nel clima umanistico di quell’epoca ha un suo peso, tanto che il cardinal Gaetano lo incaricò tra il 1527 e il 1529 di rivedere il testo del Nuovo Testamento.
Quel libro che dicevamo e che l’Università di Salamanca nel 1547 ha l’incarico di vagliare, si intitola Democrates alter. Oggi si dovrebbe subito precisare che contiene idee politicamente scorrette. Si possono riassumere così: erano legittime le guerre contro gli indigeni americani e lecito era catturarli come schiavi, data la loro natura inferiore. Non entreremo nei dettagli e nelle questioni sollevate dall’opera, che fu tradotta da Quodlibet nel 2009, aggiungiamo soltanto che ora esce il primo Democrates di Juan Ginés de Sepulveda, libro che vide la luce a Roma nel 1535. Ovvero nell’anno in cui Carlo V strappò all’Impero Ottomano la città di Tunisi e giunse a Roma cercando di convincere papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, da poco eletto, a convocare un concilio.
Questo primo trattato si presenta con un titolo lungo, accattivante ed esplicativo, Democrate. Dialogo sull’accordo tra la professione delle armi e la fede cristiana. Pone questioni come la seguente: è possibile intraprendere una guerra tenendo conto dei precetti evangelici? Respingendo gli ideali pacifisti di Erasmo, criticando Machiavelli che imputava al cristianesimo un infiacchimento degli animi e non poche colpe per la decadenza politica e militare, Sepulveda diventa il teorico della guerra umanitaria, un concetto che fu molto gradito al colonialismo europeo dell’epoca e dei secoli successivi.
Ora Quodlibet propone la traduzione con il testo latino a fronte, a cura di Vincenzo Lavenia, anche di questo primo Democrate. Va ricordato che Erasmo nella Querela pacis e negli Adagia aveva preso le distanze dal «Dio degli eserciti», quello caro all’Antico Testamento, a taluni pontefici nonché a numerosi interpreti che legittimavano l’uso delle armi, e scrisse parole chiare (riportate da Lavenia nella sua introduzione): «Un dottore davvero cristiano non approva mai la guerra; forse in qualche caso la permette, ma controvoglia e con dolore». Machiavelli, al contrario, più suadente del sommo umanista, attento nell’anteporre la forza alla giustizia, anzi vedendo la seconda dipendere dalla prima, credeva la guerra una realtà inevitabile (per Hegel sarà anche utile) e nei Discorsi attaccava senza mezzi termini il cristianesimo trapponendovi gli ideali pagani: «La religione antica... Non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato gli uomini più umili e contemplativi che gli attivi». Parole scritte in un mondo in cui la Chiesa non scarseggiava di guerrafondai, papi inclusi.
Sepulveda nel suo primo Democrate entra in questo ideale dibattito e fa proferire ad Alfonso la risposta al quesito se la professione delle armi contrasti con la dottrina cristiana: «Anch’io in passato mi sono lasciato irretire da quella tesi; non perché ritenga che ai cristiani la fede proibisca di fare guerra (spesso mi pare che vi siano cause assai giuste, anzi necessarie, per intraprenderla), ma perché accadono molte cose nella vita per le quali a un uomo di valore è necessario perdere la buona fama (di cui deve avere massima cura) oppure mettere da parte i precetti della religione».
Più avanti Sepulveda affronta il problema discettando del «giusto per natura»; riflette sul giudizio di chi deve stabilire cosa sia bene e male. Giunge tra l’altro a ricordare che la guerra «secondo il diritto di natura» è fatta anche dalle bestie.
Affrontando il tema «Per quali cause si debba muovere guerra» ricorda: «Non si dovrà affatto pensare che sia contro la religione o turpe rivendicare i propri beni sottratti o punire i malvagi. Né ci si dovrà vergognare di imitare Abramo, uomo giusto e chiamato amico di Dio. Egli molti secoli prima che fossero dettate le leggi degli ebrei, seguendo il diritto di natura mosse guerra contro quattro re che esultavano per la vittoria e li mise in fuga...». Il resto viene da sé. E tale dibattito torna ad avere una certa attualità.
Marco Marzano
Professore ordinario di Sociologia all’Università di Bergamo *
Ho l’impressione che siano pochi i preti italiani che si attengono fedelmente alla norma celibataria. Un buon numero di loro, qualcuno dice addirittura i tre quarti del totale, è omosessuale e usa il celibato come uno splendido alibi per non dover fornire giustificazioni del desiderio di non avere relazioni sentimentali con le donne e di non sposarsi. Tra gli eterosessuali ve ne sono molti che hanno relazioni regolari e durature, anche con figli. Molti altri hanno solo relazioni occasionali, più o meno numerose. Una vita di assoluta castità non è comunque, anche per quei pochi under settanta che la praticano, sintomo di serenità spirituale o di pace interiore. Perché spesso dà luogo a fenomeni patologici, come l’alcolismo (molto diffuso) o altre forme di dipendenza, e si accompagna ad uno stato depressivo e di profonda infelicità.
In ogni caso, una condotta sessuale attiva può essere vissuta dai preti in modi molto diversi: talvolta con terrificanti sensi di colpa, talaltra con la serenità di chi invece ha compreso di aver diritto a una vita affettiva autonoma dalle imposizioni dell’istituzione. E questo non dipende dagli orientamenti sessuali. Ho intervistato qualche tempo fa un prete gay che mi rivelò il desiderio di vivere il suo amore alla luce del sole. Oggi ha lasciato anche lui. L’idea che il celibato sia lo strumento principale per avere dei presbiteri completamente devoti alla loro comunità e che questa loro devozione soddisfi i bisogni affettivi dei sacerdoti, che li gratifichi come li gratificherebbe l’amore di una compagna o di un compagno e di una famiglia, è una menzogna assoluta.
Il celibato è in realtà la “regola di ingaggio” che consente alla Chiesa di disporre di funzionari a tempo pieno ad essa pienamente dedicati e ricattabili. Semplificando all’estremo, è come se l’istituzione dicesse al suo funzionario: “Tu sapevi quando hai accettato l’ingaggio che c’era questa regola. La puoi violare, ma ti sentirai in colpa e sarai comunque costretto a nasconderti. Perché, quando non rispetti il celibato, sentirai di aver tradito la fiducia del tuo gregge, al quale noi istituzione (con il tuo concorso!) abbiamo insegnato che tu devi essere puro e casto. Noi ti perdoneremo quando ignorerai il divieto. E ti copriremo anche se serve, ad esempio trasferendoti in un altro luogo se hai una donna che ti insegue o mandandoti in clinica invece di denunciarti se hai commesso qualche crimine legato alla sessualità.”
Il celibato diventa la premessa della sacralizzazione della figura asessuata del prete, la condizione della sua superiorità rispetto agli altri fedeli, il segno più tangibile che egli è più puro di loro e che la sua vita coincide con il suo ruolo pubblico. In questa metamorfosi egli si disumanizza, riducendosi a mero simbolo, privato del diritto ad avere una vita privata. Per qualche prete questo regime psichico è la premessa di un narcisismo incontenibile, della convinzione di essere più simile a Gesù che ai propri simili. E di avere un naturale diritto a comandare. Per altri è una terribile camicia di forza che spinge verso il dolore e la morte interiore.
Di seguito pubblico la lettera di una lettrice:
Perché il problema grosso secondo me è proprio questo!
*
Il FattoQuotidiano.it / BLOG /di Marco Marzano | 24 settembre 2015
Fuori la Chiesa dalle lenzuola d’Irlanda
di Deborah Dirani (L’Huffington Post, 27/05/2015)
Che enorme occasione di evangelizzazione ha perso, ancora una volta, la Chiesa di Roma definendo la vittoria dell’amore irlandese una sconfitta per l’umanità. E che infinita tristezza racchiudono le parole del suo Segretario di Stato, un servo di Dio, in teoria. Un servo di quel Dio che raccontano essere buono e misericordioso, incline al perdono e dispensatore di infinito amore. Così lo raccontano, così ce lo propongono dal giorno in cui veniamo al mondo in quella parte di mondo in cui quel Dio lì ancora resiste. Per quanto? Per quanto potrà resistere l’incoerenza di questa chiesa che si riempie la bocca della necessità dell’amore e si chiude gli occhi davanti a una sua umana forma?
L’umanità non è sconfitta per il riconoscimento del diritto di sposarsi tra persone dello stesso sesso, l’umanità è sconfitta ogni volta che non accetta se stessa, in tutte le sue infinite sfumature. L’umanità è sconfitta ogni volta che si ostina, granitica, a non accettare la propria evoluzione. Lo chiamano oscurantismo, io necessità di controllo sociale. Del resto non sono certo la prima a identificare nelle religioni la beatificazione di questa umanissima esigenza: l’ordine sociale va mantenuto, ad ogni costo. Anche se questo costo sono donne ammalate bruciate su un rogo, infedeli trapassati da una spada, miscredenti infiammati o ostracizzati. Il rogo e la spada sono memoria lontana (mai abbastanza), l’ostracismo è il presente di una congregazione di anziani incapaci di mettere in pratica ciò di cui parlano.
Non sono cattolica, non lo sono per la mia impossibilità di accettare l’ineluttabilità di un destino che non mi posso scegliere, innanzitutto. Non lo sono per la poca misericordia nella quale continuo a imbattermi tra i massimi rappresentanti di questa vecchia Chiesa. No, non parlo dei preti di periferia, di quelli che si preoccupano più della vita che del suo ordine: quelli so che ci sono e a loro destino la mia più profonda e sincera ammirazione. Parlo di quei pii uomini ostinati a confondere la salvezza delle anime devote con la quotidianità della vita, con la necessità inviolabile che ogni essere umano ha di amare e di vedere legittimamente riconosciuto il suo amore.
Sotto le lenzuola la Chiesa, lo Stato e la politica non hanno il diritto di entrare: nessuno può decidere sulla liceità di un amplesso, nessuno può definire giusto un sentimento stigmatizzandone al contempo una delle sue possibili sfumature. L’omosessualità è vita, nonostante non sia in grado di generarne. Continuare a negarne la dignità è un errore talmente colossale da meritare, questo sì, le fiamme dell’inferno.
Pietro Parolin, portavoce del pensiero della Chiesa di Cristo, è molto triste per la vittoria del referendum sulle unioni gay avvenuta in un pio Stato quale è l’Irlanda. Ad avercelo vicino mi premurerei di passargli un fazzoletto per asciugarsi le lacrime, quindi gli consiglierei di essere molto felice perché quella che lo rattrista in realtà è la vittoria del principe dei suoi valori: l’amore. Non mi preoccuperei di snocciolargli il rosario delle empietà di cui la sua Chiesa continua a macchiarsi, tra preti che amano un po’ troppo i bambini e cercano di soffiare a Robert Mapplethorpe un posto nell’Olimpo dei fotografi del nudo.
Non mi preoccuperei neanche di ricordargli che tanti di quei bambini troppo amati sono diventati degli adulti incapaci di amare a causa di qualche innamorato con la tonaca. A che serve rinfacciare gli orrori commessi a chi ne è ben consapevole, nonostante l’omertoso silenzio dietro il quale per tanto tempo ha trovato un sicuro rifugio? Com’è, pure che diceva il Figlio di Dio? Ah, ecco: "Chi è senza peccato...". No, a Pietro Parolin offrirei una birretta, gli proporrei un brindisi: "Alla salute dell’amore, Monsignore!". Perché nonostante lei e quelli come lei alla fine vince lui, non dovunque, ma non dispero. Il tempo e la storia sono dalla mia parte.
Anche lei, o chi verrà dopo di lei, Monsignore, sarà costretto a piegare il capo davanti alla meravigliosa realtà della natura umana che ama. Non importa chi e non importa come: anche lei piegherà il capo e onorerà chi mette in pratica nella sua vita la parola di quel Dio di cui lei è devoto. Nel frattempo, Monsignore, mi premurerò di farle arrivare una buona scorta di fazzolettini, prevedo che in futuro gliene serviranno molti, moltissimi. E meno male!
Pontificia commissione biblica*
Lo storico parere della Pontificia commissione biblica (1976)
* A seguito dei numerosi riferimenti fatti da papa Francesco alla necessità di ripensare il ruolo della donna nella Chiesa, pubblichiamo la prima (e nostra) traduzione italiana del documento di lavoro elaborato nella primavera del 1976 dalla Pontificia commissione biblica sul ruolo delle donne nella Scrittura, apparso in inglese in appendice al vol. di A. Swidler, L. Swidler (a cura di), Women Priests, Paulist Press, New York 1977, 338-346.
Il testo porta la firma, oltre che del presidente della Commissione e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede card. Franjo Seper, e del segretario, mons. Albert Deschamps, vescovo titolare di Tunisi, dei membri che facevano allora parte della Commissione: Jose Alonso-Diaz, Jean-Dominique Barthelemy, Pierre Benoit, Raymond Brown, Henri Cazelles, Alfons Deissler, Ignace de la Potterie, Jacques Dupont, Salvatore Garofalo, Joachim Gnilka, Pierre Grelot, Alexander Kerrigan, Lucien Legrand, Stanislas Lyonnet, Carlo Maria Martini, Antonio Moreno Casamitjana, Ceslas Spicq, David Stanley, Benjamin Wambacq, Marino Maccarelli (segretario tecnico).
Sono noti anche i risultati delle votazioni: su 20 membri erano presenti in 17; non sono noti i nomi dei tre assenti.
Le 3 questioni sottoposte a voto, tutte approvate, erano: 1) il Nuovo Testamento non afferma in modo chiaro se le donne possono diventare prete (voto unanime); 2) i motivi scritturistici non sono sufficienti da soli a escludere la possibilità dell’ordinazione delle donne (12 a 5); 3) il piano di Cristo non sarebbe violato con l’ordinazione delle donne (12 a 5).
La dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede circa la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale Inter insignores, che porta la data del 15 ottobre 1976 - firmata a nome della Congregazione dal card. Seper -, non tenne conto di questo documento (ndr).
*
FONTE: IL REGNO - 15/04/2015
Del genere e della specie. Francesco e Nanni
di GIUSEPPE PANISSIDI *
I recenti interventi di Papa Francesco e l’ultimo film di Nanni Moretti aiutano a ripensare la questione della differenza di genere, intrecciandola alla dimensione dell’ordine simbolico e dell’ordine sociale entro cui questa differenza si inscrive. L’importanza della partecipazione diretta delle donne ai grandi movimenti progressivi dell’umanità. *
[...] Sull’Avanti! del marzo del 1917, in una recensione a una rappresentazione di “Casa di bambola” di Ibsen, Gramsci si interroga e ci interroga sulle ragioni dell’apparente insensibilità degli spettatori - uomini e donne - di fronte al dramma di Nora Elmer, la quale “abbandona la casa, il marito, i figli, per cercare se stessa”. E non esita a ricondurre un comportamento siffatto alla morale borghese più retrograda, incapace di comprendere che “la famiglia non è più un istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l’intima fusione di due anime che trovano l’una nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente; per il quale la donna è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente”.
Lucida ed acuta in Gramsci la consapevolezza della necessità storica e politica della formazione di una nuova personalità femminile, una questione di alto spessore morale e civile. “Finché la donna, scrive nelle “Note su Machiavelli”, non avrà raggiunto non solo una reale indipendenza di fronte all’uomo, ma anche un nuovo modo di concepire se stessa e la sua parte nei rapporti sessuali, la questione sessuale rimarrà ricca di caratteri morbosi e occorrerà esser cauti in ogni innovazione legislativa”. Quella fase di storia e di cultura non permetteva a Gramsci di allargare il suo campo di riflessione a una visione più avanzata delle specifiche questioni agitate dai movimenti femministi e dalle loro rivendicazioni dell’emancipazione, in un quadro di completa auto-affermazione. Precondizione irrinunciabile a una nuova e più autentica dimensione di genere, abitata - questo il lontano auspicio di F. Engels, nell’aurora del socialismo moderno - da “una generazione di uomini i quali, durante la loro vita, non si saranno mai trovati nella circostanza di comperarsi la concessione di una donna con il denaro o mediante altra forza sociale, e una generazione di donne che non si saranno mai trovate nella circostanza né di concedersi a un uomo per qualsiasi motivo che non sia vero amore, né di rifiutare di concedersi all’uomo che amano”.
Papa: "Teoria gender espressione di frustrazione che cancella differenze"
Bergoglio, nel corso dell’udienza del mercoledì, dedicata oggi al tema della complementarietà tra uomo e donna, mette in guardia: "Rischiamo un passo indietro, la rimozione della differenza infatti è il problema non la soluzione". Francia insiste su ambasciatore gay *
CITTA’ DEL VATICANO - "Mi chiedo se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione che mira a cancellare la differenza perché non sa più confrontarsi con essa". Lo ha detto oggi il Papa, nel corso dell’udienza del mercoledì oggi dedicata al tema della complementarietà tra uomo e donna, come preparazione al Sinodo sulla famiglia del prossimo ottobre. Ma così - ha aggiunto - "rischiamo un passo indietro, la rimozione della differenza infatti è il problema non la soluzione", "per risolvere i loro problemi di relazione l’uomo e la donna devono invece parlarsi di più, ascoltarsi di più, trattarsi con rispetto e cooperare con amicizia".
E ha insistito: "Come tutti sappiamo, la differenza sessuale è presente in tante forme di vita, nella lunga scala dei viventi...La differenza tra uomo e donna non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre ad immagine e somiglianza di dio. L’esperienza ce lo insegna: per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione - nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede - i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna. La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di questa differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo". Per questo, Papa Francesco esorta gli intellettuali a non trattare il legame matrimoniale e familiare come se fosse un tema "diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta".
Intanto non si placa la tensione tra Eliseo e Vaticano sulla vicenda dell’ambasciatore Laurent Stefanin, non ancora accreditato presso la Santa sede, probabilmente a causa del suo orientamento omosessuale. La Francia non ha intenzione di indietreggiare: "La Francia ha fatto la scelta di avere un ambasciatore presso il Vaticano e la scelta è caduta su Laurent Stefanini. Questa resta la posizione della Francia", ha detto Stéphane Le Foll, portavoce del governo.
Non è la prima volta che Francesco muove una critica del genere: già il mese scorso, in occasione della sua visita a Napoli, incontrando una coppia sposata da 31 anni, aveva definito la teoria del gender "quello sbaglio della mente umana che fa tanta confusione".
Sulle parole del Pontefice era tornato anche l cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, nella prolusione al Consiglio permanente della Cei a fine marzo: "Il gender - aveva detto il presidente della Cei - si nasconde dietro a valori veri come parità, equità, autonomia, lotta al bullismo e alla violenza, promozione, non discriminazione ma, in realtà, pone la scure alla radice stessa dell’umano per edificare un transumano in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità".
* la Repubblica, 15 aprile 2015 (ripresa parziale).
Regno Unito, Libby Lane nominata primo vescovo donna anglicano
LONDRA - La Chiesa anglicana ha nominato il suo primo vescovo donna, scegliendo per la sede di Stockport, nell’Inghilterra settentrionale, la reverenda Libby Lane. Lo storico annuncio è stato dato un mese dopo che il Sinodo generale ha formalmente riconosciuto una legislazione che permette alle donne di diventare vescovo. La nomina ha ribaltato così una tradizione secolare e mettendo fine a una ’querelle’ su cui si era profondamente divisa.
Come accennato, dopo un dibattito prolungato e spesso dai toni accesi, il Sinodo generale della Chiesa Anglicana aveva votato a luglio di consentire alle donne di diventare vescovo; e il 17 novembre ha formalmente adottato la decisione con la modifica della legge canonica, ultimo passaggio nel processo legislativo per mettere fine a secoli di monopolio maschile. Le donne possono essere sacerdoti della Chiesa d’Inghilterra dal 1994.
"E’ un giorno straordinario per me e -io ritengo- un giornata storica per la Chiesa", ha detto il vescovo Lane, subito dopo l’investitura. Lane, che ha 48 anni, è pastore dal 2007 nelle chiese di St. Peter, a Hale, e St. Elizabeth, ad Ashley, nella diocesi di Chester.
* la Repubblica, 17 dicembre 2014 (ripresa parziale).
Nel suo nuovo saggio Vito Mancuso analizza l’emozione umana più forte
E svela i limiti della morale sessuale cattolica
Il patto mancato tra amore sacro e amor profano
La dottrina ecclesiastica assegna il primato alla biologia, negando la libertà di scelta
La Chiesa si apra alla contraccezione ai rapporti pre-nuziali e ai matrimoni gay
di Vito Mancuso (la Repubblica, 18.09.2014)
LA PRIMA elementare critica che occorre muovere alla morale sessuale cattolica è che semplicemente non funziona, come dimostra il fatto che la gran parte dei cattolici la disattende. L’etica autentica nasce dalla concretezza della vita e torna alla concretezza della vita. L’attuale etica sessuale ecclesiastica invece si rivela astratta, scolastica, libresca, non nasce dalla vita ma dal desiderio di conformità alle decisioni magisteriali del passato.
In questa prospettiva per la morale sessuale ecclesiastica il ruolo decisivo spetta al concetto di lex naturalis, nella convinzione che obbedire alla natura e ai suoi cicli equivalga a obbedire a Dio. La natura è assunta come criterio di legislazione etica, natura come legge, da cui procede una legge ritenuta naturale.
Le cose però non stanno così. Oltre al logos la natura conosce anche il caos, e per questo essa non è la longa manus di Dio, e obbedire alla natura non equivale necessariamente a obbedire a Dio. Chi ritiene il contrario deve essere coerente e istituire la diretta connessione Dio-natura non solo per le manifestazioni naturali benigne, ma anche per quelle maligne, le malattie e le sciagure naturali. La lettura astratta e ideologica della natura ha condotto a un duplice risultato: da un lato alla trasformazione della morale in moralismo; dall’altro alla perdita di contatto con la coscienza contemporanea per la quale il concetto di legge naturale risulta del tutto vuoto.
Conosce solo la biologia.
Il fatto di concepire la natura come governata direttamente da Dio e quindi tale da assumere valore di lex naturalis ha condotto la morale ecclesiastica ad assegnare un primato indiscusso alla biologia e ai suoi ritmi, a scapito della coscienza e della sua spiritualità. Ne è scaturita una morale sessuale contrassegnata da una visione biologistica della sessualità, intendendo con ciò la riconduzione del sesso pressoché solo alla procreazione. Il primato della funzione biologica procreativa ha avuto nei secoli anche un altro effetto negativo: quello di concepire la donna quasi esclusivamente in funzione della generazione dei figli.
Non conosce bene la biologia.
La morale sessuale ecclesiastica parla così tanto di natura e di natura umana, ma in realtà, a causa della sua astrattezza e del suo dogmatismo, mostra di non conoscere adeguatamente la natura umana, in particolare la natura femminile. Stante l’assunto dell’inscindibilità tra amplesso e procreazione, essa propone ai coniugi che intendono evitare una gravidanza di ricorrere ai periodi infecondi per fare l’amore e di astenersi nei periodi fecondi, ma viene a rappresentare in questo modo una potente quanto nociva mortificazione dell’istinto naturale.
Infatti il periodo in cui nella donna è più forte il desiderio di rapporti sessuali è proprio quello dell’ovulazione, nel pieno del periodo fertile quando la donna risulta più disposta e più disponibile, più attratta e più attraente.
Gli specialisti spiegano che ciò avviene perché nei giorni fertili gli ormoni sessuali femminili risultano più concentrati. Quasi tutte le persone, cattolici compresi, naturalmente si guardano bene dal prendere in considerazione tali precetti elaborati da una morale di uomini celibi, e infatti secondo la rivista scientifica «Human Reproduction» della Oxford University Press durante l’ovulazione la frequenza dell’attività sessuale risulta aumentata del 24%.
Ignora il primato della coscienza.
Occorre chiedersi che cosa sia più umano: la libertà che comprende, vuole e decide, oppure la sottomissione a una necessità biologica che impone se stessa quale criterio dell’agire e del non-agire? Io credo che la dignità della persona umana consista nell’uso libero e responsabile della propria intelligenza e della propria volontà. Io credo che la vera natura della persona umana non sia espressa dal ritmo del ciclo biologico, ma dall’intelligenza e dalla volontà responsabili. Io credo, in altri termini, nel primato della coscienza. E dicendo questo, non faccio che esprimere il senso più profondo della tradizione giudaico- cristiana.
Non rispetta il dato biblico.
Con ciò non intendo ovviamente le considerazioni spesso arretrate sulla donna e sulla vita sessuale contenute nei vari libri biblici. Intendo piuttosto la logica complessiva del messaggio biblico, ovvero la sua dinamica evolutiva. All’interno della Bibbia infatti si ritrovano affermazioni a favore della poligamia e altre a favore della monogamia, e così è per la dissolubilità e l’indissolubilità del matrimonio, la fecondità e la verginità, l’inferiorità e la parità della donna, la svalutazione e l’esaltazione del corpo. Tutto ciò costituisce un preciso insegnamento sulla imprescindibilità del contesto storico. Ma c’è un’altra importante considerazione. Nel libro biblico interamente dedicato all’amore erotico, il Cantico dei cantici, nel quale la sessualità costituisce il centro specifico del messaggio. Non vi è neppure un minimo accenno alla funzione riproduttiva della sessualità e l’amore erotico non ha altra giustificazione che non se stesso, in quanto manifestazione della più generale fioritura dell’essere.
Conclusione.
La morale sessuale della Chiesa cattolica vorrebbe essere fondata sull’oggettività di una presunta legge naturale su cui il soggetto dovrebbe normare la propria particolare situazione. Alla prova dei fatti però essa risulta un peso troppo gravoso da portare: lo è a livello pratico, per l’impossibilità di attuarla con efficacia e con coerenza; e lo è a livello intellettuale, per il massiccio ricorso a ciò che Rahner chiamava «cattiva argomentazione in teologia morale».
Occorre intraprendere un profondo percorso di rinnovamento in materia di etica sessuale, analogo a quello compiuto nell’ambito della morale sociale dove la Chiesa è passata dal ragionare sulla base di un astratto criterio oggettivo (i diritti della verità) a un più concreto criterio soggettivo (i diritti della persona), cambio di prospettiva che l’ha condotta dall’Inquisizione al rispetto della libertà religiosa della coscienza. Il medesimo criterio applicato nell’ambito dell’etica sessuale porterebbe la Chiesa cattolica alle seguenti necessarie aperture: sì alla contraccezione; sì ai rapporti prematrimoniali; sì al riconoscimento delle coppie omosessuali.
Qualcuno a questo punto si chiederà se si possa ancora parlare di etica cattolica. E io rispondo che in realtà non esiste una specifica etica cattolica, l’etica è la scienza teorica e pratica del bene, e il bene, per definizione, è universale. Ne consegue che non si tratta di preoccuparsi di salvaguardare lo specifico dell’etica cattolica, si tratta di voler pensare in prospettiva universale, cioè veramente cattolica, aggettivo che com’è noto significa proprio universale (dal greco katholikós formato dalla preposizione katà, «verso», e dall’aggettivo hólos, «tutt’intero»).
Quando il Papa parla del sesso dell’anima
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.09.2014)
«LA NOSTRA piccola anima non si perderà mai se continua a essere anche una donna, vicina a queste due grandi donne che ci accompagnano nella vita, Maria e la Chiesa»: così ieri nell’omelia mattutina ha affermato papa Francesco. Sono parole sorprendenti.
IL Papa sostiene forse che l’anima è una donna? Che la nostra anima cioè possiede un sesso e la sua identità è femminile? Oppure si tratta solo di un’immagine poetica, dettata dal fatto che il termine anima in italiano e nelle principali lingue occidentali (spagnolo compreso, nonostante l’articolo maschile al singolare) è femminile?
Quello che è sicuro è che nell’omelia di ieri il Papa ha affermato una delle più tradizionali dottrine cattoliche di sempre, cioè che Maria, madre biologica di Gesù, è anche la madre spirituale di ogni cristiano e che in questa prospettiva anche la Chiesa assume un volto femminile e materno. La Chiesa infatti, «quando fa la stessa strada di Gesù e di Maria», è madre, così che, ha continuato il Papa, «queste due donne, Maria e la Chiesa, generano Cristo in noi». A questo punto però, in analogia con le due donne maggiori, il Papa è giunto a parlare dell’anima umana come di una terza donna, che assomiglia alle prime due anche se è più piccola: «La nostra piccola anima non si perderà mai se continua a essere una donna». Ritorna così la questione: si tratta solo di un’immagine poetica oppure realmente l’anima va pensata al femminile?
La dottrina ecclesiastica sull’anima si può compendiare in tre precise affermazioni che ne dichiarano l’identità, l’origine e il destino. Quanto all’identità, il cattolicesimo pensa l’anima come un’essenza spirituale strettamente unita con il corpo materiale cui conferisce forma, e per questo parla di essa in termini di forma corporis (con evidente eredità aristotelica). Quanto all’origine, la dottrina cattolica sostiene che l’anima viene creata direttamente da Dio senza nessun concorso dei genitori, e che ciò avviene nello stesso istante del concepimento biologico, quando lo spermatozoo maschile feconda l’ovulo femminile (non più quaranta giorni dopo, come affermava san Tommaso d’Aquino e altri insigni teologi del passato). Quanto al suo destino, il cattolicesimo afferma che l’anima è immortale (con evidente eredità platonica), sostenendo che essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo; anzi, essa verrà di nuovo unita al corpo alla fine dei tempi quando i corpi di carne verranno richiamati in vita.
Al di là della plausibilità di queste dottrine da me indagate analiticamente nel libro L’anima e il suo destino , va notata l’assenza nella dottrina cattolica di ogni riferimento al sesso dell’anima. Anzi, essendo l’anima un’essenza spirituale, ed essendo lo Spirito al di là di ogni determinazione sessuale che consenta di parlarne in termini maschili o femminili (l’apposito termine è femminile in ebraico, maschile in latino, neutro in greco), sembrerebbe di dover concludere che l’affermazione di ieri di papa Francesco rientra nell’ambito delle immagini poetiche che i predicatori amano utilizzare nelle loro omelie senza nessuna diretta attinenza alla realtà ontologica dell’anima.
Io però ritengo che non sia così, e al contrario scorgo dietro l’intuizione papale un concetto molto importante che occorre sottolineare e su cui si dovrebbe riflettere attentamente. Per comprenderlo occorre rispondere a due domande, la prima delle quali è la seguente: quale fenomeno fisico portiamo al pensiero quando pronunciamo il termine anima?
Rispondere è decisivo, perché se non si è in grado di mostrare il fenomeno fisico per esprimere il quale è sorto il concetto di anima, tale concetto risulta nulla più che un mitico retaggio del passato. La mia risposta è la seguente: il fenomeno fisico che supporta il concetto di anima è la vita. Vita, ovvero quella particolare disposizione dell’energia che fa sì che un fenomeno fisico (un fiore, un orso) sia “animato”, a differenza di un altro fenomeno fisico (una pietra, una nuvola) che invece è “inanimato”. Il concetto di anima esprime la particolare condizione dell’energia in alcuni fenomeni fisici secondo cui il totale della loro energia non è del tutto condensanoscenze. to nella loro massa materiale, in essi rimane un’eccedenza di energia libera che consente al corpo di muoversi, di essere animato cioè vivente.
Ora la seconda domanda: qual è la logica fondamentale mediante cui si muove quel surplus di energia libera che ci fa esseri vivi e che chiamiamo anima, ma che potremmo anche chiamare vita? La mia risposta è la seguente: è la logica della relazione, dell’armonia relazionale, della cooperazione. La vita non è un fenomeno individuale, ma è da subito un fenomeno sociale, aggregativo: perché essa possa sorgere occorre l’aggregazione di quattro componenti biochimici quali proteine, zuccheri, grassi, acidi nucleici; perché essa possa evolversi occorre l’aggregazione di miliardi di cellule, e poi di tessuti, organi, sistemi di organi; perché essa possa esprimere sapienza occorre l’aggregazione di esperienze e coanche Ne viene che il nome filosofico della vita in tutte le sue manifestazioni è relazione.
E la relazione, eccoci al punto, è l’essenza della femminilità; di ciò che Goethe a conclusione del Faust denomina «das Ewig-Weibliche», l’Eterno Femminile, intendendo con ciò la logica al contempo naturale e divina mediante cui la vita si genera e si diffonde nel mondo, la medesima logica che salva Faust dal patto con Mefistofele donando alla sua anima «il perdono meritato». Anche il gesuita Teilhard de Chardin amava ricorrere al femminile per connotare la logica che muove la materia: «Il Femminino ossia l’Unitivo».
L’anima spirituale è quindi femminile, ha detto bene il Papa, lo è in quanto espressione della logica orizzontale della relazione, ben distinta dalla logica verticale dell’imposizione deduttiva che caratterizza l’archetipo del maschile. Tale consapevolezza del genere femminile della grammatica della vita spirituale si va sempre più diffondendo nel mondo, così che la Chiesa cattolica potrà uscire dalla sua crisi solo aprendosi al mondo femminile in tutte le sue strutture. Ovviamente gerarchia compresa. Il primo passo è il diaconato, e questo è possibile anche domani solo che il papa lo voglia davvero e non siano solo retorica omiletica le sue parole sulla femminilità della Chiesa. Non sarebbe ora di mettere fine al paradosso di una Chiesa che è donna, e la cui gerarchia è composta solo da maschi?
Il volto femminile di Dio
di Ludovica Eugenio (“Leggendaria”, gennaio 2014)
Durante il volo di ritorno dalla Giornata mondiale della Gioventù, svoltasi a Rio de Janeiro nel luglio del 2013, papa Francesco, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha affermato di voler «lavorare più duramente per sviluppare una profonda teologia della donna». Che cosa questo significhi concretamente lo si vedrà in futuro, ma quello che è certo è che queste parole lasciano trasparire la mancanza di un riconoscimento della strada che la teologia femminile, vitale e creativa, ha compiuto nel corso di tanti anni. Concetto, questo, espresso limpidamente dalla teologa brasiliana Ivone Gebara in un articolo per Brasil de fato (2 agosto 2013): «Come può papa Francesco semplicemente ignorare la forza del movimento femminista e la sua espressione nella teologia femminista cattolica?», ha scritto.
Sottolineando come l’abbondante e innovativa produzione teologica femminista continui a risultare «inadeguata per la razionalità teologica maschile» e a rappresentare «una minaccia al potere maschile dominante nelle Chiese», Ivone Gebara denuncia come «la maggior parte degli uomini di Chiesa e dei fedeli» consideri la teologia «una scienza eterna basata su verità immutabili e insegnata soprattutto da uomini», oppure, e in seconda battuta, dalle stesse donne ma «secondo la scienza maschile prestabilita». Si ha qui una rappresentazione plastica, di fatto, delle coordinate da cui ha preso le mosse ed entro cui si è sviluppato il pensiero teologico femminile. Così come nella società, infatti, anche nella Chiesa le donne hanno avuto un ruolo fondamentalmente marginale, nonostante l’affermazione solenne, nella Lettera di San Paolo ai Galati , che con il Battesimo non vi sono più distinzioni di etnia, di condizione sociale, di genere (Gal 3,28).
In un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile, in cui sono sempre stati gli uomini a creare dottrina, morale, leggi, spiritualità, a celebrare i sacramenti e a trasmettere il Vangelo, la sapienza femminile è rimasta inespressa, complice anche una misoginia - strisciante ma non troppo - di cui la teologia maschile si è fatta portatrice (l’autore della prima Lettera a Timoteo, ma anche Tertulliano, nel II secolo, e persino Agostino e Tommaso d’Aquino, fino a Martin Lutero).
Sulla ricchezza della donna sono state le donne stesse a riflettere. E hanno cominciato a farlo in tempi piuttosto recenti, da quando cioè, negli anni Sessanta e Settanta, hanno assunto consapevolezza della loro condizione di “secondo sesso” dando il via alla lotta per la propria emancipazione; questa riflessione è approdata anche al mondo religioso, a partire dalla convinzione che il volto delle donne potesse essere un riflesso del volto femminile di Dio e che tale dimensione, oscurata nel corso di quasi due millenni, dovesse andare recuperata.
Con molti percorsi diversi, e a partire da contesti differenti, le donne hanno cominciato a cercare nuovi modi di esprimere il divino e modelli di spiritualità che tenessero conto dell’identità femminile, schiacciata nei secoli da una cultura e da una società fondamentalmente patriarcali. È stato così che, a livello planetario, l’analisi della subalternità della donna e l’elaborazione di una strada che portasse a un cambiamento e a un recupero delle ricchezze spirituali femminili nella Chiesa hanno cominciato a prendere corpo in forme diverse, con una critica profonda condotta in nome delle verità evangeliche storicamente tradite: in tutti i continenti si sono sviluppati gruppi di riflessione, con un accento diverso a seconda del contesto; dalla connotazione più spirituale e di supporto al ministero dell’Europa, a quella di preghiera e lettura politica del Nordamerica, a quella comunitaria dell’America Latina, a quella solidaristica dell’Asia e impegnata nel settore dell’assistenza sanitaria dell’Africa. Lentamente le donne hanno preso coscienza dell’emarginazione di cui erano state vittime nella Chiesa e hanno voluto vedere riconosciuta la loro dignità calpestata da na cultura ecclesiastica sessista, maschilista e patriarcale.
Hanno preso in mano il Vangelo, senza altra mediazione che la loro sapienza e la loro esperienza, e hanno compreso il loro valore altissimo agli occhi di Dio, a fronte di quanto per secoli erano state abituate ad ascoltare e che avevano interiorizzato. In questa nuova e radicale presa di coscienza, l’affermazione del sé femminile è passata, per le religiose, attraverso l’abbandono dell’abito - simbolo del potere maschile che le aveva schiacciate - o attraverso una forte critica dall’interno, con uno spirito di riforma.
La teologia femminile, nata nel Nordamerica, ed espressa in lingua inglese a partire da un’identità di matrice europea, è da subito teologia femminista, declinata secondo una molteplicità di orientamenti: da quello radicale a quello sociale, culturale, della liberazione, tutti accomunati, tuttavia, da un medesimo punto di partenza, quello del racconto del libro della Genesi, in cui uomo e donna sono creati, entrambi, a immagine e somiglianza di Dio. I diversi filoni filosofico-politici hanno generalmente un altro elemento comune: quello della solidarietà di Dio nei confronti della donna nella sua lotta per la dignità e del rifiuto di un’immagine prettamente maschile di Dio.
Ne sono una imprescindibile espressione le prime opere della teologia femminista, da Mary Daly e il suo Al di là di Dio Padre. Verso una filosofia della liberazione delle donne a Rosemary Radford Ruether e il suo saggio Sexism and the God-Talk. Toward a Feminist Theology , che riprende la figura di Dio come liberatore, quale era stata trasmessa dalla tradizione profetica biblica, a Elisabeth Schüssler Fiorenza, il cui notissimo In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane dà particolare risalto al simbolo biblico di Sophia. Caratteristica dell’opera teologica femminista è il rifiuto delle interpretazioni maschili e patriarcali o androcentriche riguardanti società e Chiesa, e una ridefinizione in termini positivi delle coordinate della comunità, concepita come luogo di uguaglianza, di parità di generi, etnie e di reciprocità nel rapporto dell’essere umano con la natura, con un forte orientamento all’azione concreta.
Rispetto alla teologia femminista statunitense di origine anglo-europea, quella nata nel contesto afro americano aggiunge alla riflessione un ulteriore tassello della storia dell’emarginazione femminile con il dato del pregiudizio razziale e della classe sociale. Le teologhe nere degli Stati Uniti - un nome tra tutti, quello di Alice Walker - danno vita alla teologia womanist che contempla la liberazione per ogni persona vittima di oppressione a causa della razza, del genere o della classe sociale.
Analoga è l’esperienza delle donne statunitensi di origine ispanica (la loro teologia, denominata a volte “latina”, porterà anche l’etichetta mujerista ), la cui riflessione teologica contempla il radicamento all’interno di una comunità in cui forte è la rilevanza di una religione tradizionalmente e culturalmente marcata da tratti popolari, mentre quelle di origine asiatiche porteranno con sé, nella propria elaborazione teologica, il segno forte della compresenza e convivenza di diverse tradizioni religiose. Ne emerge, in tutti i casi, un forte legame con la prassi della vita quotidiana, campo di battaglia dell’identità femminile, e con la comunità di appartenenza, legami indissolubili nella lotta quotidiana per l’affermazione della dignità femminile. E questo, l’affermazione della dignità femminile, è il perno attorno al quale ruota tutta la riflessione e la produzione teologica al di fuori dei confini degli Stati Uniti.
È la lotta delle donne africane - Teresia Hinga, in Kenya, parla delle molteplici reti di oppressione di cui le donne sono vittime, aggiungendo alle diverse forme di oppressione già analizzate quelle del militarismo e del colonialismo. In tale contesto, non si tratta di cercare un’integrazione delle donne in un sistema che è “sbagliato”, e in cui le donne dovrebbero adattare le proprie doti e ricchezze a un mondo androcentrico, quanto di trasformare quel sistema ridefinendone le coordinate, in modo da raggiungere una reciprocità totale tra uomo e donna.
Le donne traggono forza da una verità inconfutabile: il Dio che ha resuscitato Gesù dai morti vuole che esse abbiano vita in pienezza, le ama e desidera che trovino la loro realizzazione, e le accompagna giorno dopo giorno nelle loro fatiche. È tuttavia evidente che, in questa ritrovata relazione d’amore, la teologia femminile abbia trovato difficoltà nell’attribuire al Dio che le ama le immagini e i simboli esclusivamente maschili della tradizione, simbolo ed espressione di una concezione gerarchica dei rapporti tra uomo e donna che via via, da un punto di vista sociale, viene superata. Nel momento in cui l’uomo non è più signore, anche l’immagine di un Dio maschile e potente che chiede obbedienza come un padrone perde terreno. Dio è un Dio d’amore e di compassione che sta accanto a chi soffre, ma è soprattutto - e questo è un elemento di grande novità - qualcuno con il quale si dispiega una sostanziale relazione di reciprocità, un fluire di sentimenti che vanno in entrambe le direzioni, da Dio alla donna e viceversa. Il modello è quello del Cantico dei Cantici (Dio lo sposo), ma Dio è anche spirito vitale che risiede dentro la donna.
L’amore di Dio rende le donne libere di agire nella storia, forti, senza più bisogno di un Dio che viene in aiuto ma consapevoli di un Dio che è dentro di loro, sempre, come forza creatrice e di trasformazione che non può essere contenuta in nessuna immagine tradizionale. Di qui, un altro grande interrogativo che le donne si pongono nel loro fare teologia: se, cioè, e in che misura, e in che modo, l’essere femminile possa essere segno e sacramento della realtà divina e della sua azione.
Detto in modo più semplice: Dio può essere espresso al femminile? La risposta è lineare: sì, se le donne riescono a riprendersi la propria identità di esseri amati da Dio. È questo meccanismo che rende possibile alle donne dare a Dio nomi femminili, sottraendolo all’abitudine più che consolidata (degli uomini di Chiesa, in quanto detentori dell’autorità) di attribuirgli tratti esclusivamente maschili e riferiti al potere maschile (come dimostra l’arte pittorica di secoli), abitudine che ha provocato, nella storia, effetti devastantanti.
In primo luogo, la riconduzione esclusiva dell’immagine di Dio a una lettura letterale, che ne fa un idolo, e totalmente interno a parametri umani, cosa che cancella il tratto di mistero santo. La preghiera e la catechesi sono impregnati di questa immagine maschile dominante di Dio.
In secondo luogo, il linguaggio del potere maschile condiziona pesantemente l’immaginario sociale, definendo le dinamiche di un patriarcato che si esprime e si riflette nella società e nella Chiesa (il Re dei Re), divinizzando, allo stesso modo, la figura maschile: secondo le parole di Mary Daly, «se Dio è maschio, il maschio è Dio». Ne consegue che se il maschile è la realtà più vicina a Dio, il femminile se ne distanzi. Ciò ha provocato l’effetto di convincere le donne di non poter essere degne di fronte a Dio nella loro identità femminile, ma solo nella propria dimensione spirituale, negando a se stesse, dunque, il proprio valore di esseri determinati e sessuati, e creando una dipendenza sempre più marcata rispetto agli uomini, veri e legittimi detentori di un rapporto privilegiato con Dio.
Ecco, dunque, che trovare il volto femminile di Dio significa anche eliminare l’idolo nonché scalzare il potere patriarcale rendendo possibile immaginare Dio al di fuori dei limitanti parametri umani: come dire che Dio è un “lui”, è una “lei”, e allo stesso tempo - e proprio per questo - va molto al di là di tutto ciò. Ecco poste le basi per il rispetto della differenza e per la possibilità di pari diritti, nella società e nella Chiesa.
D’altra parte, un’immagine femminile di Dio è particolarmente evocativa: quella della madre, simbolo di origine della vita, amore, cura, nutrimento. Si tratta di un’immagine di cui è ricca la Bibbia (una per tutte, Is 49,15, «Si dimentica forse una donna del suo bambino...», a proposito del rapporto che Dio ha con il suo popolo).
Tale immagine, tuttavia, ha un carattere ambivalente perché, se assunta come unico modello di realizzazione della donna - come accaduto nella società patriarcale, che ha fatto della maternità un’istituzione - risulta limitante. Senza dire che non per tutti o per tutte l’immagine materna è necessariamente un’immagine positiva e che, soprattutto, l’immagine materna può ricondurre a un ruolo passivo. In linea generale, tuttavia, la possibilità di parlare di Dio come di una madre affettuosa e amorevole consente di aggiungere all’immagine del rapporto tra Dio e essere umano la dimensione unica della relazione con una realtà piena di mistero che dà la vita e che ama la sua creatura e ne ha compassione.
Importante, a questo proposito, l’ “esperimento mentale” portato avanti da Sally McFague sul modello di Dio come madre ( Models of God. Theology for an Ecological, Nuclear Age ), in cui stabilisce un nesso profondo tra maternità e giustizia (la madre come essere d’amore che dà la vita e che desidera la realizzazione e il benessere dei suoi figli, secondo uno spirito di equità e di attenzione ai più bisognosi). In questo senso, Dio è madre. Ma Dio è anche molto altro. È sophia , sapienza, ossia - come afferma Elisabeth Schüssler Fiorenza - Dio nella sua forza redentrice nel mondo. Questa immagine è utilizzata nei libri sapienziali, ma anche dai Vangeli e da Paolo per identificare Cristo. Ancora, dunque, un’immagine femminile per esprimere il mistero di Dio, che si affianca a quella della colomba per rappresentare lo Spirito, a quella di Dio come la donna che cerca la moneta perduta (Lc 15,8-10).
Questa ricerca delle immagini femminili di Dio, tuttavia, non deve indurre nella tentazione di veicolare una concezione dualistica e biologica di un Dio con due volti, uno maschile e uno femminile, ripetendo l’associazione stereotipata del tratto maschile con tutto ciò che è forte e attivo e di quello femminile con l’aspetto passivo e accogliente. Ciò infatti non sarebbe che un ritorno al mondo patriarcale cui si intendeva sottrarre l’immagine di Dio, con un ruolo nuovamente subalterno della donna.
Guardando a questo ricchissimo e composito patrimonio di riflessione individuale e corale delle donne, quale futuro si prospetta, oggi, per la teologia femminile?
Se le parole apparentemente incoraggianti, ricordate all’inizio, con cui papa Francesco sottolinea la necessità di dare risalto alla teologia femminile concedono spazio alla speranza di un rinnovato rispetto e di un più ampio spazio per il volto plurale della Chiesa - e in questo orizzonte ampio, dunque, anche per le donne - molte sono le teologhe che esprimono un certo disincanto.
Come Patricia Paz, che nel suo blog sul portale Religiòn Digital contesta una sorta di “ghettizzazione” del pensiero teologico femminile: «Mi risulta inaccettabile - afferma - continuare a sentir parlare delle donne come se fosse un gruppo di persone immature incapaci di assumere decisioni e che hanno bisogno che altri, gli uomini, dicano loro cosa possono o non possono fare. È ora di iniziare a parlare con le donne e non delle donne».
* Ludovica Eugenio , laureata in Storia delle origini cristiane, è da più di vent’anni redattrice presso il settimanale di informazione religiosa Adista . Alla professione giornalistica affianca la passione per la traduzione. Di recente ha pubblicato insieme al giornalista Mauro Castagnaro, Il dissenso soffocato. Un’agenda per papa Francesco (Meridiana, Bari, 2013)
Le prime a sapere sono le donne
di Tomaso Montanari (il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2013)
La domenica di Pasqua non è cominciata: è ancora buio, l’alba è lontana. Ma tre donne, le Marie, sono già sveglie: hanno camminato a lungo, sono arrivate dove giace il loro amico e maestro Gesù, morto sulla croce. Vogliono ungerne il corpo con unguenti profumati: l’ultimo atto di amore, prima di chiuderlo nel sepolcro, prima di non vederlo più. Ma, ecco, appena arrivate alla tomba, ci trovano seduto sopra un angelo: un ragazzo biondo, bellissimo, coperto solo da un mantello candido. Come in una nuova annunciazione, l’angelo chiede: «Perché cercate tra i morti quello che è vivo?». E aggiunge: «Non è qui, è resuscitato!». La tomba, infatti, è scoperchiata e il ragazzo ne regge il coperchio di pietra: e nelle sue mani sembra di plastica, di polistirolo, tanto è leggera, per lui. Intorno, a confermarne le parole inaudite, si apre un abisso di luce e di nuvole: il paradiso stesso, sceso in terra.
E le Marie che fanno? Sono scosse, colpite, quasi tramortite. Si gettano a terra, si inchinano, si prostrano. Maddalena non ha ancora capito che il suo unguento, ormai, non servirà più: e sembra offrirlo, con generosa ingenuità.
Bartolomeo Schedoni (un pittore vissuto a Parma a cavallo tra Cinque e Seicento) ci presta lo sguardo della sua fantasia, le sue mani, la sua sensibilità. Sul fondo nero i colori spiccano come smalti lucidi, le figure ritagliate sembrano sagome di cartone. È come se un uomo della generazione e della cultura di Pontormo avesse potuto vedere il mondo e i suoi colori attraverso gli occhi di Caravaggio: un strano incrocio, straordinariamente affascinante.
La pittura ha il dono di fermare l’attimo. Sotto questo cielo elettrico, carico di pioggia, Bartolomeo vuol fermare per sempre il momento decisivo per la storia umana: queste tre donne sono le prime a sapere che la morte non è la fine. Che dopo la morte c’è la resurrezione: come dopo la notte arriva la luce dell’alba. La luce dell’alba che, nel quadro, dissipa le tenebre della notte, con un effetto di controluce che estende all’aria, alla terra, al cielo e a tutte le cose la tensione e il dramma della storia.
Le Marie distendono le braccia, aprono le mani, mettono in gioco il loro corpo: ad ogni parola dell’angelo i loro muscoli si tendono sempre di più, le labbra si aprono all’incredulità, le braccia all’emozione. Tra un attimo scapperanno via: ad avvertire Pietro e gli altri, a dire al mondo che la morte è stata sconfitta. Proprio come la notte è ferita e uccisa dalla luce di Schedoni, e dai suoi colori indimenticabili.
Lettera a Papa Francesco sulla posizione delle donne nella Chiesa
di Giancarla Codrignani *
Da: GIANCARLA CODRIGNANI
RENDO PUBBLICA LA LETTERA INVIATA A PAPA FRANCESCO: SONO STATA SOLLECITATA DALL’ INTERESSE CHE DIMOSTRA PER RIFORMARE LA POSIZIONE DELLE DONNE NELLA CHIESA. ALCUNI INDIZI (divieto al sacerdozio femminile, intervento ai convegno dei ginecologi, scomunica di un prete americano favorevole all’ordinazione delle donne) E DALLA NOTIZIA, FORNITA DA "EL PAIS" E RIPRESA DA "FAMIGLIA CRISTIANA", CHE ANTICIPA L’IPOTESI DELL’INSERIMENTO DI UNA DONNA NEL COLLEGIO CARDINALIZIO. SE FOSSE VERO, PAPA FRANCESCO OTTERREBBE UN GRANDE SUCCESSO MEDIATICO, MA NON INCONTREREBBE IL FAVORE DELLE DONNE, CHE NON CHIEDONO UN POSTO NELLA GERARCHIA CHE LE OMOLOGHI AL MODELLO MASCHILE ANCHE NELLA CHIESA, MA IL RICONOSCIMENTO DELLA LORO SOGGETTIVITA’ AUTONOMA.
HO ALLEGATO ALLA LETTERA UN DOCUMENTO DI CARLO MARIA MARTINI CHE, INTERVENENDO AD UN CONVEGNO NEL 1981, ESPRESSE IN MODO STRAORDINARIAMENTE EFFICACE IL SENSO CHE DEVE AVERE IL TARDIVO RICONOSCIMENTO DELLA POSIZIONE DELLE DONNE NELLA CHIESA.
LA LETTERA NON E’ PIU’ RISERVATA
Caro Papa Francesco,
come non provare sentimenti di amicizia e di fraternità nei suoi confronti e non solidarizzare con i segnali che viene lanciando attraverso l’infittirsi di relazioni con persone più o meno note della società italiana? Non intendo accrescere il numero dei corrispondenti che incomincia, forse, a farsi molesto; ma sono indotta a interpellarla dopo la notizia del suo intento di pronunciarsi sullo spazio da assegnare alle donne nella Chiesa. Presumo sia anche per lei un dato di realtà che non i disegni di Dio, bensì i ruoli gerarchicamente diversi che uomini e donne hanno storicamente assunto comportano differenze che non vanno sottovalutate, soprattutto se si ricercano nuovi equilibri.
Essendo anche lei un uomo come gli altri, sa bene che difficilmente agli uomini capita di dire parole adeguate quando parlano con noi, soprattutto se pensano di parlare "per" noi. Anche la Chiesa ci conosce solo attraverso una convenzione che non corrisponde alla nostra ermeneutica, di credenti e di non credenti: senza una donna non ci sarebbe stata nascita, senza un’altra donna non ci sarebbe stato annuncio (sarebbero mai arrivati al sepolcro vuoto gli apostoli senza Maria di Magdala?). Come "genere" siamo meno sensibili alle ambizioni di potere che sono incoerenti, almeno nella Chiesa, anche per un uomo. Tuttavia non siamo così stolte da non esser state sempre consapevoli che, anche se in dottrina non si ritrovano giustificazioni alla discriminazione, la Chiesa è rimasta maschile fin da quando la tradizione dei primi secoli ha trasmesso gli scritti dei "padri" della Chiesa e non delle madri, menzionate solo in quanto viri dimidiati.
Carlo Maria Martini fin dal 1981 ha posto l’urgenza di un nuovo riconoscimento della presenza femminile nella Chiesa, ma non ne sono seguite innovazioni. Anzi l’attribuzione al nostro genere di uno speciale "genio femminile" è rimasto nel tradizionalismo e non sono sembrate amicali le misure adottate dal suo predecessore per accertare l’ortodossia della Federazione delle suore americane (LCWR).
Per questo sono certa della sua informazione previa sull’ormai imponente letteratura specifica di teologhe e filosofe e dell’ opinione femminil-femminista (uso l’aggettivo, anche se riprovato da rappresentanti della gerarchia poco attenti alle dinamiche sociali) del popolo di DIo e anche della condivisione delle idee con donne religiose e laiche cattoliche (ma non solo).
Tuttavia oso esprimerle la mia preoccupazione: in tempi in cui la Chiesa soffre abbandoni "di genere", le donne si aspettano di ottenere non rappresentanza, ma riconoscimento di soggettività. Non le deluda. Perdoni la confidenza nella sua disponibilità. La ricordo con sentimenti di fiducia e affetto
G.C.
Perché, si chiede ad esempio la donna, identificare l’immagine di Dio con quella trasmessaci da una cultura maschilista? Quale l’annuncio kerigmatico per lei, non rinchiuso in una visione moralistica? Quali indicazioni per un cammino spirituale e di santità che la stimolino adeguatamente? Quali indicazioni per una rinnovata prassi pastorale, per un cammino vocazionale per il matrimonio, per la consacrazione religiosa, la famiglia, in considerazione della nuova coscienza di sé che la donna ha acquisito? Quali indicazioni per un linguaggio globale, anche liturgico, che non faccia sentire esclusa, nella sua elaborazione, la donna?
Perché così poche e inadeguate risposte alla valorizzazione del proprio corpo, dell’amore fisico, dei problemi della maternità responsabile?
Perché la pur grande presenza delle donne nella Chiesa non ha inciso nelle sue strutture? E nella prassi pastorale perché attribuire alla donna solo quei compiti che lo schema ideologico e culturale della società le attribuiva, e perché non esplicitare i suoi carismi "opera dello Spirito Santo"?
I ruoli ecclesiali affidati alle donne sono allora secondo i carismi di una Chiesa condotta dallo Spirito oppure ancora frutto di una mentalità maschile?
Le donne si chiedono tutto questo. Non sempre lo esprimono. Sentono ancora timore a infrangere una “iconografia” della donna cristiana, dentro la quale peraltro stentano a riconoscersi e non riescono più ad adattarsi.
La Chiesa deve porsi in ascolto. Deve lasciarle esprimere da protagoniste. Il loro modo di leggere, interpretare la vita ha una rilevanza che deve segnare un cammino pastorale che non può vedere le donne perennemente soggette o brave e fedeli esecutrici, quasi vergognose o timide di fronte alla forza che potrebbero esprimere in novità.
I ministeri, carismi, servizi, sono doni per la comunità ed esigono una profonda e attenta rilettura che apra nuove vie alla comprensione del ruolo delle donne nella Chiesa.
La filosofia e la teologia nelle loro varie branche, l’esegesi biblica, la pastorale hanno un compito urgente da svolgere con gli strumenti che a loro sono propri.
Le scienze umane aprono loro ampi spazi di documentazione e di fondazione. Ma anche la vita delle donne, anzi, dalla loro vita parte un richiamo fortissimo di novità. Le più mature non esprimono vane rivendicazioni di false parità: chiedono di costruire in pienezza e con coraggio, mettendo in discussione se stesse, la società e la Chiesa.
* Il Dialogo, Mercoledì 30 Ottobre,2013
Tesi non convincenti di teologi su “confronti”
di David Gabrielli
in “confronti” - il mensile di fede politica e vita quotidiana - n. 10 dell’ottobre 2013
Ho letto con particolare interesse il numero monografico di settembre di Confronti , curato dal sempre solerte Brunetto Salvarani e dedicato quest’anno al tema «Religioni e sessualità». Ho trovato assai stimolanti molti dei contributi che l’arricchiscono. Qui, a quattro di essi (dedicati, si potrebbe dire, a «Cattolicesimo e sessualità»), vorrei esprimere una mia opinione, assai critica, su alcune tesi. Concordo pienamente con Giancarla Codrignani, quando tra l’altro afferma: «Il nuovo catechismo [della Chiesa cattolica, varato da Giovanni Paolo II nel 1992] unifica - parr. 2351-57 - adulterio, masturbazione, omosessualità, prostituzione e stupro, mostrando totale ignoranza di ciò di cui intende fare dottrina». Mi ritrovo, poi, abbastanza, nelle riflessioni di Luca Zottoli su «Il Concilio Vaticano II e la sessualità»; mi pare invece indifendibile quanto lo stesso autore, docente di teologia morale a Modena, afferma ne «Il dibattito sulla Humanae vitae fra dottrina e vita quotidiana», cioè sull’enciclica con cui Paolo VI, nel 1968, dichiarava immorale la contraccezione.
Da una parte lo studioso difende quel testo come un atto del magistero che i fedeli debbono accogliere; dall’altra tiene però conto delle difficoltà di molti coniugi a seguire quelle indicazioni e dunque, nel contempo, suggerisce ai confessori di valutarli con misericordia, secondo la «legge della gradualità», e sperando che essi arriveranno infine a fare proprie le normative papali.
L’ Humanae vitae - è bene ricordare - fu accolta con disagio da molti episcopati, con malessere da gran parte del mondo teologico, con aperto dissenso da diversi teologi/e e da moltissimi fedeli: come mai? Il quesito, riproposto anche oggi, all’osso si può riassumere così: chi rifiuta l’enciclica lo fa perché indisposto ad assumersi il peso che comporta seguire il Vangelo o non, invece, perché ha fondati motivi di ritenere quella normativa estranea al messaggio di Gesù e legata piuttosto ad una radicata sessuofobia e ad una mentalità - rispettabile ma in nessun modo obbligante - che quasi eleva a divinità la «legge naturale» come intesa dal magistero ecclesiastico? Condivido il secondo corno del dilemma, e perciò tutte le argomentazioni di Zottoli mi sembrano un castello di carta ideologico per salvare comunque il principio dell’autorità papale; non lo sfiora l’idea che la normativa espressa da Paolo VI sia un abuso di potere. Eppure fior di teologi e teologhe hanno dimostrato, con una logica ardua da contrastare, l’impossibilità di fondare biblicamente e antropologicamente i no dell’enciclica, pur sempre ripetuti con instancabile zelo anche da papa Wojtyla. Insomma, dal labirinto di quel testo non si esce, pensano in molti, se non rifiutandone le tesi di fondo.
D’altronde, senza dover citare teologi... pericolosi, trovo davvero strano che su Confronti non si siano ricordate le parole del cardinale Carlo Maria Martini nel 2011: dall’ Humanae vitae «è derivato un grave danno» giacché, a causa del divieto della contraccezione, «molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone». E, evidenziata la decisione «personale» di Paolo VI, il porporato aggiungeva: «In passato la Chiesa si è forse pronunciata anche troppo intorno al sesto comandamento. Talvolta sarebbe stato meglio tacere».
Analoga critica vorrei fare alle tesi di Giacomo Coccolini ne «La teologia del corpo in Giovanni Paolo II». Egli - a ragione - sottolinea la novità e, direi, l’arditezza delle catechesi proposte da papa Wojtyla in 133 udienze generali dal 1979 all’84; ma, poi, il docente presso l’Istituto di scienze religiose di Bologna bypassa tranquillamente quella che non si può non definire una lampante contraddizione: quel pontefice, infatti, dopo tante alate parole sull’amore, ribadì con tenacia le normative di Paolo VI e del cardinale Ratzinger in materia di sessualità, che pur erano figlie di un’altra ed avversa teologia.
Altri si ritroveranno nelle tesi dei due teologi citati, e avranno le loro ragioni; ma io resto del parere che con i silenzi sulle aporie del magistero papale si faccia un’analisi monca e fragilissima della tensione norma/coscienza, e una teologia che non ha futuro.
Anche gli uomini recitano il rosario
di Katie Grimes (Adista” - documenti - n. 33 del 28 settembre 2013)
Il mese scorso, di ritorno dal suo celebratissimo viaggio in Brasile, papa Francesco ha espresso alcuni commenti a braccio, producendo reazioni in tutta la blogosfera cattolica. Pur riaffermando il perenne divieto della Chiesa all’ordinazione delle donne, il papa ha fatto appello a ciò che ha definito «una vera e profonda teologia delle donne nella Chiesa».
In molti hanno accolto con favore le sue parole, interpretandole come prova del suo apprezzamento per il genere femminile. Ma io non sono così sicura che dovremmo leggere queste parole come “una buona notizia”. Il problema sembra esattamente l’opposto di ciò che papa Francesco ha sostenuto. Io non biasimo la mancanza di questa “teologia delle donne”, ma il fatto che tanti rappresentanti della Chiesa la considerino necessaria.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva già tentato di delineare “una teologia delle donne” con la sua lettera apostolica del 1988 Mulieris dignitatem, individuando due dimensioni della vocazione delle donne: la maternità di stile mariano e la verginità. Tuttavia, piuttosto che criticare questa specifica teologia delle donne, voglio individuare i problemi legati ai presupposti di tale progetto.
La ricerca di una teologia delle donne, sostengo io, rende queste ulteriormente estranee, ponendole sotto la luce circoscritta dello sguardo maschile. Perché nessun papa ha mai scritto una lettera sul ruolo degli uomini nella Chiesa e nella società? O ha mai riflettuto su una “teologia dei maschi”?
La risposta è semplice: i papi non hanno mai messo in discussione il significato teologico del loro sesso, perché il potere ha trovato nella mascolinità la propria giustificazione. Esercitando il potere sociale ed ecclesiale, i maschi hanno voluto dare l’impressione di legiferare in quanto esseri umani. Gli autori del Magistero hanno anche utilizzato la parola “uomini” per indicare l’intera specie umana: le donne possono essere uomini, ma gli uomini non possono mai essere donne. Le donne non sono mai il metro di paragone, rappresentano l’eccezione.
Ciò vale per tutti i gruppi socialmente potenti. Ad esempio, negli Stati Uniti, i tradizionali opinionisti hanno sempre fatto riferimento alla costante supremazia bianca nel Paese non come al “problema bianco”, ma come al “problema nero”, o alla “questione razziale”. Allora come oggi, il fatto di essere bianco appare normativo, scontato e subliminale. Solo i neri devono spiegarsi. Invece di chiedere una «vera e profonda teologia delle donne», avrei preferito che il papa invocasse una critica più incisiva del sessismo, della misoginia e dell’androcentrismo. Invece di una teologia più profonda delle donne, avrei voluto che riconoscesse la necessità di più teologia fatta dalle donne.
Un papa non ha mai scritto una lettera affermando la dignità della popolazione maschile, anche perché questa non è mai stata messa in dubbio. La Chiesa ha sempre onorato e rispettato la dignità della mascolinità. Noi di solito dobbiamo affermare esplicitamente la dignità solo di quei gruppi a cui essa viene negata nelle vicende concrete della vita quotidiana.
Analogamente, il posto degli uomini nella Chiesa è stato dato sempre per scontato: sembra così ovvio da non dover essere discusso. Ma se papa Francesco parla della mancanza di un’adeguata teologia delle donne, vuol dire che 2000 anni non sono stati sufficienti per capire ciò che Dio vuole per le donne. Come può essere? Cosa c’è di così difficile da capire delle donne?
Forse gli autori contemporanei del Magistero considerano le donne così fastidiosamente complesse perché mirano all’impossibile: la produzione di una teoria che le renda sostanzialmente e complessivamente diverse dagli uomini, ma fondamentalmente uguali a loro. Le autorità cattoliche non hanno mai trovato questo problema così complicato. Tommaso d’Aquino ha dedicato una sola quaestio (ST 92 I.) in tutta la sua Summa alla discussione esplicita sulle donne. Ha parlato più spesso degli angeli che della “donna”.
Per gran parte della sua storia, la Chiesa non ha avuto bisogno di giustificare la sua fede nella supremazia maschile dinanzi a un coro di scettici. Le società in cui la Chiesa era inserita erano in genere d’accordo con loro. Gli autori cattolici hanno dunque investito la maggior parte delle risorse della retorica ecclesiale nella difesa della posizione della Chiesa su punti controversi.
Nel XX secolo, però, qualcosa ha iniziato a cambiare. La fede della Chiesa nella superiorità degli uomini rispetto alle donne non è sembrata più così ovvia. Nel tentativo di difendere la Chiesa da un fiorente movimento per i diritti delle donne, Pio XI ha scritto nel 1930 la Casti Connubii. Riaffermando la condizione dell’uomo come capo famiglia, ha insistito sull’importanza della sottomissione coniugale delle mogli, criticando aspramente tutti coloro che sostenevano «essere quella una indegna servitù di un coniuge all’altro» e che «i diritti tra i coniugi devono essere tutti uguali». Quando Giovanni Paolo II è stato eletto, tali proclami erano caduti in disgrazia anche presso le donne cattoliche più conservatrici. I vecchi insegnamenti non erano più difendibili. Capovolgendo le posizioni, Giovanni Paolo II ha affermato l’incondizionata uguaglianza di donne e uomini per la prima volta nella storia della Chiesa.
Ma questo non ha risolto tutti i problemi. Non volendo in alcun modo aprire il sacerdozio a “uomini di genere femminile”, la Chiesa aveva bisogno di giustificare la sua intenzione di continuare a riservare l’ordinazione solo agli “uomini di genere maschile”. E dal momento che il divieto in relazione al sacerdozio femminile aveva sempre poggiato in maniera piuttosto decisa sull’evidente disuguaglianza delle donne rispetto agli uomini, la Chiesa si è trovata in un vicolo cieco. La complementarità sessuale, che fonda il sacerdozio esclusivamente maschile sulla differenza sessuale, piuttosto che sulla disuguaglianza sessuale, è diventata la soluzione a questo problema.
Tale ideologia divide sempre più il discepolato in base a criteri sessuali, sottolineando nelle donne l’iconica rappresentazione di Maria e negli uomini la rappresentazione di Gesù. Solo gli uomini possono stare sull’altare in persona Christi, perché Gesù Cristo era un uomo. Una “teologia del corpo” che tenta di attribuire importanza teologica e ontologica agli organi riproduttivi. Cosicché il significato di “donna” e di “uomo” può essere colto nel funzionamento eterosessuale dei loro organi genitali.
Nel suo libro del 2010, In cielo e in terra, l’allora cardinal Bergoglio ha descritto perfettamente questa linea di pensiero: «La tradizione fondata teologicamente vuole che ciò che è sacerdotale passi per l’uomo. La donna ha un’altra funzione nel cristianesimo, riflessa nella figura di Marta. È colei che accoglie, colei che contiene, la madre della comunità. La donna ha il dono della maternità, della tenerezza: se tutte queste ricchezze non si integrano, una comunità religiosa si trasforma in una società non solo maschilista, ma anche austera, dura ed erroneamente sacralizzata. Il fatto che la donna non possa esercitare il sacerdozio non significa che valga meno dell’uomo. Nella nostra concezione, in realtà, la Vergine Maria è superiore agli apostoli. Secondo un monaco del II secolo, tra i cristiani esistono tre dimensioni femminili: Maria, come madre del Signore, la Chiesa e l’Anima. La presenza femminile nella Chiesa non è stata sottolineata molto perché la tentazione del maschilismo non ha permesso di dare visibilità al ruolo che spetta alle donne nella comunità».
Giovanni Paolo II presenta nella Mulieris dignitatem una descrizione più completa di Maria come icona della femminilità. Come «il nuovo principio» della dignità e della vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna, vanificando la disobbedienza di Eva. Attraverso il suo “fiat” liberamente esercitato, Maria ha la funzione di «rappresentante e archetipo di tutto il genere umano». In questo, «rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne». Ma «d’altra parte, l’evento di Nazareth mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo che può appartenere solo alla “donna”, Maria: l’unione tra madre e figlio». Allo stesso modo in cui Maria agisce come un modello per le donne più che per gli uomini, così Gesù serve da modello per gli uomini più che per le donne. «Proprio perché l’amore divino di Cristo è amore di Sposo», argomenta Giovanni Paolo II, «esso è il paradigma e l’esemplare di ogni amore umano, in particolare dell’amore degli uomini-maschi».
I papi identificano giustamente la gravidanza come una capacità unica delle donne, ma interpretandola in modo teologicamente discutibile. Stando a loro, ci troviamo nella strana posizione di sostenere che il semplice possesso di un utero fornisce alle donne una più intensa esperienza di unione corporale con Dio rispetto a quanto possa fare un uomo. Tuttavia, se Maria ha effettivamente raggiunto l’unione con Dio portando il Figlio di Dio nel suo corpo, e se unicamente le donne possono rimanere incinte, nessuna donna prima o dopo Maria ha mai dato vita a Dio. La gravidanza di Maria si pone come un evento storico unico e irripetibile. (...). Contrariamente a quanto sostenuto dal papa, con la sua gravidanza Maria rivela la sua differenza da tutte le altre donne almeno tanto quanto la sua somiglianza come loro rappresentante. Nessuna donna, tranne Maria, è giunta all’unione del corpo con Dio attraverso la gravidanza. Esattamente come gli uomini cattolici, le donne cattoliche vivono l’unione corporale con Dio durante l’Eucaristia.
Dobbiamo affrontare un altro problema. Giovanni Paolo II crede che Maria e Gesù rappresentino un modello di genere per una seconda ragione. La femminilità, sostiene Giovanni Paolo II, esprime una passività essenziale, mentre la mascolinità incarna l’attività. «Lo Sposo è colui che ama. La Sposa viene amata: è colei che riceve l’amore, per amare a sua volta».
Ma il “sì” di Maria alla gravidanza è davvero così diverso dal “sì” offerto da Gesù nel giardino del Getsemani? Entrambi i “fiat” sono stati una risposta di sottomissione alla volontà di Dio. Proprio come Maria ha accolto la gravidanza, così Gesù ha accettato la crocifissione. (...). Sia Maria che Gesù rispondono all’amore offerto da Dio e dicono di sì con i loro corpi. Come spose, accettano il dono del loro amante e lo restituiscono con i loro corpi. Seguendo lo schema di Giovanni Paolo II, Dio Padre ha amato sia Maria che Gesù in modo maschile e sia Maria che Gesù lo hanno riamato in modo femminile. (...).
Le donne non rappresentano né un problema da risolvere né un mistero da spiegare. Contro la volontà di papa Francesco di attribuire alle donne una categoria teologica a se stante, affermiamo l’esistenza di un solo discepolato e di una sola salvezza.
E l’Osservatore si schiera contro femminicidio e stupri
di Marida Lombardo Pijola (Il Messaggero, 1 settembre 2013)
Contro gli stupri di guerra, che annientano la vita delle donne con più efficacia di quanto non riescano a fare mitra e carri armati. Contro gli stupri in pace, che ne massacrano a migliaia negli anfratti nella loro vita quotidiana, sepolti nella densità collettiva del silenzio. Contro il femminicidio. Contro le violenze domestiche, che distruggono famiglie intere, svuotandole di senso persino agli occhi del clero cattolico. Contro ogni orrore in danno di una donna. La Chiesa è sempre e comunque accanto a lei, rossa com’è. Rossa perché il rosso è colore di ogni cosa che riguardi lei. Rosso di violenza, rosso di stupro, rosso di allegria, rosso di coraggio, rosso di calore come il fuoco, rosso di parto come la vita, rosso come dev’essere, per chi sa immaginarlo, il colore della dignità. Ecco perché il rosso è il colore delle donne, spiega Giulia Galeotti nell’editoriale che introduce l’inserto ”Donna Chiesa Mondo”, in prossima uscita con l’Osservatore Romano, dedicato a un tema sul quale la Chiesa di Francesco proclama un impegno, annuncia una battaglia, diffonde un dolore: la violenza contro le donne. Quattro pagine dense di storie, reportage, denunce. Per schierarsi al fianco delle donne che subiscono brutalità.
LE PRIORITÀ
Ci si schiera contro gli stupri di guerra, armi belliche che disseminano disperazione umiliazione morte quasi più delle bombe e delle smitragliate. Uno sterminio di genere, una guerra nella guerra, una barbarie. L’inserto dell’Osservatore pubblica e fa propria la proposta del ministro degli Esteri britannico, William Hauge, che ha inserito la lotta agli stupri di guerra tra le priorità nazionali e internazionali, incoraggiando una dichiarazione contro queste pratiche da parte del G8. «Assieme alla Chiesa cattolica- scrive Hauge- possiamo sfidare la cultura dell’impunità e del silenzio». Sfida raccolta.
IL CORAGGIO DELLE DONNE
E intanto dall’inserto emergono figure femminili del passato e del presente scolpite nel dramma, nel dolore, nel coraggio. Pauline Aweto, filosofa nigeriana, combatte intensamente in Africa contro gli stupri, anche di massa, «che hanno natura pubblica, trasmettono intenzionalmente l’Aids, riguardano pure le donne incinte e vengono spesso seguiti dall’omicidio». Combatte pure contro le mutilazioni genitali, «non ancora debellate, anche a causa di medici che ci lucrano». Di Teresa Grigolini, suora comboniana, verosimilmente prossima alla beatificazione, Lucetta Scaraffia racconta il martirio, lo stesso di tante suore missionarie in zone di guerra, che sono tutt’ora a rischio di subire stupri. Teresa fu prima prigioniera e poi moglie forzata, costretta a rinunciare ai voti.
SUOR CLAUDIA
E poi le missionarie moderne in zone di pace, come suor Claudia, che alla Caritas di Milano, racconta Ritanna Armeni, accoglie, conforta e riabilita le donne maltrattate, aiutandole a fuggire dai loro mariti, quando occorre, «perché nel momento in cui in una famiglia entrano la sopraffazione e la fine della dignità femminile, viene meno il progetto di Dio». Dignità femminili sfregiate ovunque, in ogni momento. Khady, africana, scaraventata come schiava nel carico di un mercante di uomini perché non aveva saputo dare un figlio a suo marito; le filippine ricattate sessualmente dai funzionari delle ambasciate del Medio Oriente in cambio della possibilità di tornare in patria; le alunne congolesi abusate dai loro insegnanti (100 casi in 3 mesi in 2 scuole). Dolori infiniti, sconosciuti. Chissà quanti. Chissà dove
Tra i requisiti del pontefice da eleggere - disse il cardinale Bergoglio pochi giorni prima di lasciare Buenos Aires in partenza per il conclave del marzo scorso - c’è anche quello che “il nuovo Papa deve essere in grado di ripulire la Curia romana”.
Pedro Almodovar: “Il Papa annulli il celibato per i preti e tratti meglio le donne”
Pedro Almodovar, intervistato a Los Angeles in occasione dell’uscita del suo ultimo film, ha rilasciato dichiarazioni sul Vaticano, le lobby gay e le trasformazioni che secondo lui la Chiesa dovrebbe attuare *
Il famoso regista Pedro Almodovar si trova a Los Angeles per presentare il suo nuovo film “I’m so excited”, una pellicola che tratta metaforicamente la politica spagnola. Intervistato dai giornalisti, ha voluto parlare del Papa soffermandosi in particolare sulla notizia dell’esistenza di lobby omosessuali dentro la Chiesa: “Conosco il problema, sono molto curioso della sessualità nel Vaticano, voglio saperne di più” , ha dichiarato.
“Sono serio, il Vaticano è molto lontano dalla realtà e dai problemi contemporanei- ha continuato il regista - Penso che dovrebbero finirla col celibato dei sacerdoti, ci sono molti problemi che potrebbero eliminare così. I religiosi sono esseri umani e la sessualità per noi è un dono, una cosa naturale che Dio ci ha dato, ma per loro è una punizione; credo che molti problemi della chiesa cattolica, a partire dagli scandali degli abusi sessuali nei seminari, sparirebbero. Quindi da qui, da Los Angeles, dico al nuovo Papa: per favore, annulli il celibato. Ma ho anche una cosa da dire sulle donne. Credo che in Europa non ci sia nessuna istituzione che tratti peggio il genere femminile”.
Almodovar spende parole anche riguardo le suore, dicendo che è ingiusto che non possano confessare e che siano trattate come se fossero “inferiori”. “E vorrei dare al Papa un consiglio - ha concluso - permetta alle suore di essere preti: io vorrei confessarmi con una di loro e ricevere la comunione da una donna”.
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 14 maggio 2013)
Il femminicidio è, nel suo simbolismo profondo, un atto culturale e quindi di responsabilità collettiva. Viviamo in un sistema di formazione che esalta la violenza sui deboli, che coltiva l’odio di genere e abolisce il rispetto dell’altro. La cultura di mercato sta sostituendo la cultura dei diritti e dei doveri e nel grande mercato internazionale una delle merci più richieste è il corpo femminile.
La cosa peggiore è che le donne stesse hanno talmente bene introiettato il concetto di merce da comportarsi spesso e con molta naturalezza come tale. Non che sentirsi merce porti felicità, ma può dare una inebriante sensazione di essere al centro del desiderio e dell’avidità mercantile, di smuovere un turbine di denaro. Senza rendersi conto che ogni mercificazione comporta servitù e dipendenza, umiliazione e degrado.
Se partiamo da questa constatazione ci rendiamo conto che il femminicidio non si può risolvere solo con le manette e leggi piu severe, anche se manette e leggi piu severe servono. Per cambiare veramente ci vuole una educazione dal basso, che imponga un nuovo concetto di integrità della persona, che esiga rispetto verso la libertà dell’altro. Nonostante le tante dichiarazione di emancipazione infatti la distinzione dei ruoli è ancora molto forte.
L’Italia poi, come dice l’Onu, è uno degli ultimi Paesi europei in fatto di partecipazione maschile ai lavori domestici e di accudimento. Provate ad andare in un negozio di giocattoli. Ancora oggi la divisione è netta: bambole, cucinette, piccola sartoria per le bambine; fucilini, trenini, camion, e guerra in miniatura per i bambini.
Da tempi lontanissimi si è radicata l’idea che il diritto più naturale e intoccabile del maschio umano sia la proprietà della famiglia. Proprietà che dà diritto al controllo maritale, all’impronta del proprio sangue, del proprio nome, di una propria idea di educazione. Toccare tale principio crea spesso risentimenti viscerali e selvaggi. Da quando, in un famoso processo divino, descritto così bene da Eschilo, Apollo ha stabilito che il vero motore della vita è il padre e la madre è solo il vaso che contiene il seme maschile, gli uomini si sono appropriati storicamente di un potere intimo e immutabile che costituisce, ancora per troppi, la base dell’identità virile.
Tutti i casi di violenza di questi ultimi anni mostrano una stessa struttura: una coppia che si sceglie e si ama. A un certo punto la donna decide di andare via o di rompere il rapporto. E l’uomo, che ha puntato tutto su quella proprietà, entra in crisi, diventa intollerante e violento, fino ad arrivare all’omicidio. Seguito spesso dal suicidio, segno che si tratta di una vera e propria tragedia per chi non sa accettare i cambiamenti, la perdita dei privilegi, la soppressione del concetto di proprietà.
Se vogliamo che questa violenza cessi, dobbiamo lavorare su quel sentimento di proprietà: «Io ti amo e quindi sei mia», dato troppo spesso come naturale e assecondato da troppe retoriche sentimentali.
Le donne come soggetti, oltre il ruolo di madri e spose
di Maria Cristina Bartolomei (“Jesus”, gennaio 2013)
L’atmosfera natalizia colora di sé l’inizio del nuovo anno, proseguendo liturgicamente nella celebrazione della maternità di Maria, della Sacra Famiglia e dell’Epifania. Anche indipendentemente dalla fede, tali festività comunicano un forte messaggio simbolico di attenzione al mistero di vita nuova che ogni neonato reca con sé in dono per tutti, alla famiglia e, in modo tutto particolare, alla figura della madre. Ma quanto tali simboli hanno veramente improntato di sé la nostra civiltà? Gli orrendi crimini che si consumano oggi sui bambini (pedofilia, traffico d’organi, sfruttamento del lavoro, schiavizzazione, prostituzione) sono versioni aggiornate di una violenza sui minori che, semmai, in epoca moderna si è attenuata, e che oggi viene almeno condannata e combattuta sul piano sociale e legislativo.
Sembra invece accrescersi, anziché attenuarsi, la violenza sulle donne, che presenta forme sempre più estreme. Maltrattamenti, stupri, molestie, molte forme di oppressione e schiavizzazione, fino al femminicidio: nel 2012 nella sola Italia più di cento donne sono state uccise da uomini quasi sempre loro partner o familiari. Una strage sulla quale ci si deve interrogare e che impone risposte sul piano del costume e della cultura.
Quando si parla della famiglia non si dovrebbe dimenticare, accanto a tutte le note positive, anche tale nota sinistra: di famiglia le donne non solo vivono, ma anche muoiono. Per questo, la stessa esaltazione della figura materna può rivelarsi un’arma a doppio taglio, giacché rischia di ridurre la donna a una, per quanto nobile e altissima, funzione, invece di valorizzarla in sé, in quanto essere umano.
L’attenzione alla madre può infatti celare e indurre una distorsione dello sguardo: la donna vale in quanto e perché genera, perché genera uomini. E, così, le categorie entro le quali la vita femminile è stata a lungo compresa e compressa (vergine-sposa-madre), che ci danno un’immagine della donna non come un soggetto che guarda il mondo, ma come un oggetto, come una guardata dagli uomini, definita dalla sua relazione con l’universo maschile.
Mai si è, invece, pensato di poter comprendere l’uomo riducendolo alle categorie di vergine-sposo-padre, che pure gli si attagliano. La coscienza media ecclesiale non si sente investita dal fenomeno della violenza sulle donne quanto dovrebbe, giacché, nonostante la forza liberante dell’Evangelo, della prassi di Gesù e della comunità cristiana primitiva, e benché il cristianesimo abbia contribuito moltissimo alla liberazione delle donne, le tradizioni e la mentalità ecclesiastiche sono state e sono ancor oggi profondamente contaminate da misoginia, dal disprezzo per le donne, dalla non percezione della necessità del loro apporto nella vita sociale e ancor più ecclesiale, dal non riconoscimento che la loro umanità e quella dell’uomo sono equivalenti nella loro diversità, segnate da una non adeguata coscienza della piena soggettività e libertà femminili e da molte consuetudini e pregiudizi ad esse avverse.
Il 25 novembre scorso si è celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nello stesso giorno ricorre la memoria liturgica di santa Caterina d’Alessandria che, secondo la tradizione, subì il martirio nel 305: si era infatti rifiutata di adorare gli dei pagani durante i festeggiamenti per il tetrarca Massimino Daia, cercando, anzi, con argomentazioni profonde, di convertire quest’ultimo. Data la sua giovinezza, bellezza e il suo essere di stirpe regale, l’imperatore tentò di salvarla, inviandole un gruppo di filosofi e retori per indurla ad abiurare la sua fede. Ma fu lei a persuaderli: aderirono al cristianesimo e morirono martiri.
È difficile distinguere in tutto ciò la storia dalla leggenda (tanto che per quattro decenni la Chiesa cattolica la escluse dal martirologio, riammettendovela nel 2002), essendo i documenti disponibili assai tardivi. Santa Caterina - alla quale Giustiniano intitolò il celebre monastero sul monte Sinai, dove narra la leggenda il suo corpo sia stato trasportato dagli angeli - è tuttavia venerata da tempi antichissimi da tutte le Chiese cristiane che ammettono il culto dei santi e che ci hanno in tal modo trasmesso il messaggio della capacità apostolica, teologica e filosofica delle donne.
Una cosa così inaudita per la cultura patriarcale e androcentrica da far pensare che la storia sia vera: tanto è difficile immaginare che se la siano inventata! La figura di santa Caterina addita una via decisiva: valorizzare le capacità dello spirito e della mente delle donne, liberandole dall’essere ridotte allo sguardo della cultura androcentrica. Ciò è a vantaggio non solo delle donne, ma di tutta l’umanità, e al fine di una maggiore trasparenza della Chiesa nel servizio all’Evangelo.
Il rinnovamento della società e della politica in crisi richiede l’apporto delle donne. E perché il messaggio evangelico possa raggiungere le donne, queste debbono sentirsi rispettate e riconosciute: non ci sarà un’evangelizzazione veramente nuova senza che le donne ne siano piene destinatarie e coprotagoniste.
“Non chiedete a noi la soluzione”
di Nadia Somma (il Fatto, 18.01.2013)
Le donne sono l’anello debole di una società in cui è parzialmente ancora inculcata l’assurda mentalità della femmina come oggetto del possesso. Lo dico con tutto il rammarico, ma sarebbe bene che di sera non uscissero da sole”, così Francesco Dettori, procuratore capo del Tribunale di Bergamo, ha commentato i tre stupri avvenuti in pochi giorni tra Milano e Bergamo.
Eppure anche le sue parole rivelano quel senso di possesso della donna come oggetto, qualcosa che deve essere tutelato e difeso. La tutela della donna, una soluzione antica per una violenza altrettanto antica. Antica quanto inutile. Dopo i tanti vademecum antistupro, i consigli su come vestirsi, atteggiarsi e camminare, i collari antiaggressione, ecco il consiglio di non uscire di casa o di farlo ma accompagnate (da un fidanzato, fratello, marito, padre?).
Chi ci protegge dai protettori?
Ma lo stupro, come la violenza sulle donne, non è un problema di comportamenti femminili e tantomeno di sicurezza. La brutale aggressione avvenuta a l’Aquila che ridusse in fin di vita una studentessa avvenne ad opera di un militare che era in missione proprio per la sicurezza della città. “Chi ci protegge dai protettori? ” domandava un antico slogan femminista. È sempre fuorviante e sbagliato ricercare le cause in comportamenti delle vittime: gli inutili consigli sull’abbigliamento e gli inviti a non essere “provocanti sessualmente” sono solo giustificati dai pregiudizi sullo stupro che colpevolizzano la donna o la responsabilizzano. La violenza sessuale non scaturisce dall’eros perché è legata alla volontà di denigrare, umiliare la vittima e annichilirla. È una metafora della morte ed è piuttosto affine a thanatos.
Cambiare subito l’obbiettivo degli appelli
Testimonianze di stupratori confermano che la scelta della vittima è fatta a prescindere dall’età, dall’aspetto fisico, o dal comportamento. Quanto a non uscire di casa che cosa si dovrebbe consigliare alle donne che con gli autori delle violenze convivono?
Sappiamo che le violenze sulle donne da parte di estranei sono solo la più piccola percentuale delle violenze che colpiscono le donne perché nel 75% dei casi, secondo i dati dei centri antiviolenza, sono attuate dal partner.
I messaggi o i consigli rivolti alle donne per evitare lo stupro servono solo ad alimentare e mantenere in vita un retaggio culturale che vorremmo lasciarci alle spalle e che continuano a esporre le donne alla stigmatizzazione sociale quando sono aggredite e non agevolano lo svelamento della violenza per permettere loro di elaborarla e chiedere aiuto. Il piano del problema resta di cultura e di civiltà.
Ci piacerebbe una volta tanto che i messaggi sullo stupro fossero rivolti agli aggressori, e che non si possa più chiedere alle donne di scegliere tra autodeterminazione e incolumità fisica o sessuale, tra la loro libertà e la loro vita.
Benedetto XVI e la laicità cattolica
di Giancarla Codrignani
La responsabilità assunte in questi giorni da Papa Benedetto XVI sono la dimostrazione più evidente della necessità espressa dal Concilio Vaticano II di aprire le porte alla collegialità, abbandonando le tentazioni dogmatiche a favore della pastoralità, valore evidentemente superiore. Definire i matrimoni omosessuali "una grave ferita inflitta alla giustizia e alla pace" e aborto ed eutanasia "attentati e delitti contro la vita (che) chi vuole la pace non può tollerare" è una caduta di stile inaccettabile.
La Chiesa ha il diritto di rivolgersi ai suoi fedeli ricordando la coerenza con i princìpi, ma non di riferirsi al vincolo della pace, comune a tutti gli umani, in relazione a condizioni di vita rese drammatiche proprio dai pregiudizi, a cui non è neppure immaginabile dichiarare guerra. Tanto più che il primo e più grave delitto e attentato contro la vita è proprio la guerra, che ancora resta giustificata nel catechismo cattolico.
Ma più grave è la mancanza di rispetto nei confronti dei fratelli omosessuali, tanto più che un teologo dovrebbe ripensare - ormai da gran tempo - il senso profondo della sessualità e della "natura" alla luce di quel Dio che è anche per lui Amore. La mia generazione ha pagato la crescita della coscienza a proprie spese: al liceo scoprendo i pronomi "strani" nei testi greci amorosi e, una volta recuperato il senso dell’essere persona sessuata in forma "etero" e riconosciuta la criminalità del nazismo nella priorità della persecuzione degli omosessuali, incontrando attorno a sé la persistenza dal pregiudizio.
L’avanzamento culturale ha evidenziato quanto grande sia il numero dei discriminati per differenze che debbono far riflettere sulla ricchezza dell’umanità. Come donna mi è venuto solo tardivamente di pensare alle migliaia e migliaia di donne lesbiche che nei secoli furono sposate e generarono figli subendo, ignare quasi sempre anche a se stesse, la violenza del sesso legittimato e benedetto.
Oggi la crudeltà di giudizi non negoziabili dovrebbe essere evitata, soprattutto dopo che i casi di pedofilia non più celati, per essere quasi sempre a danno di bimbi e adolescenti maschi, hanno svelato che dietro le ombre di gravi delitti - che per la chiesa sono anche peccati - si delineano responsabilità dovute a concezioni deterministiche della corporeità e alla definizione dei comportamenti "naturali" o "innaturali" per dogma presunto.
Una delle donne invitate cinquant’anni fa al Vaticano II polemizzò sulla formula del matrimonio religioso fondato su mutuo aiuto, procreazione e - orribile in un sacramento che evidentemente riconosce nella benedizione del prete ai due sposi (che pur sono i reali ministri del rito) l’autorizzazione a "fare le brutte cose" - il remedium concupiscentiae. Ebbe infatti ad ammonire: "Voi padri conciliari ricordate che le vostre madri vi hanno concepito nell’amore e non nella concupiscenza".
Anche questo è un segno che il Vaticano II ha dato indicazioni aperte a realizzazioni che - a dispetto di ogni disputa sulla discontinuità prodotta dal Concilio di Giovanni XXIII - vanno "oltre": per la prima volta nei testi della Chiesa cattolica la Gaudium et Spes riconosceva che principio fondante del matrimonio è l’amore degli sposi. Perché mai dovremmo oggi sentire offensivo "per la giustizia e la pace" l’amore comunque si presenti (soprattutto nella laicità sociale degli stati) e il senso profondo di una sessualità e di una "natura" quando diventano per tutti - i credenti osservanti non sono obbligati dalla legge "permissiva" - diritti alla mutua assistenza, alla cura del prossimo, alla vita?
* FINESETTIMANA.ORG, 16 dicembre 2012
L’ordinazione di donne correggerebbe un’ingiustizia
di editoriale
in “National Catholic Reporter” del 3 dicembre 2012
(traduzione: www.finesettimana.org)
La chiamata al ministero ordinato è un dono di Dio. È radicato nel battesimo e richiamato e affermato dalla comunità perché è autentico ed evidente nella persona come carisma. Le donne cattoliche che hanno riconosciuto una chiamata al presbiterato e la cui chiamata è stata confermata dalla comunità dovrebbero essere ordinate nelle Chiesa Cattolica Romana. Sbarrare alle donne la possibilità dell’ordinazione al ministero è un’ingiustizia che non si può permettere.
L’affermazione peggiore contenuta nel comunicato stampa del 19 novembre che annunciava “scomunica, dimissioni e riduzione allo stato laicale” di Roy Bourgeois è che Bourgeois con la sua “disobbedienza” e la sua “campagna contro l’insegnamento della Chiesa cattolica”... “ignorasse le sensibilità dei credenti”. Nulla potrebbe essere più lontano dal vero. Bourgeois, attento in tutta la sua vita all’ascolto degli emarginati, ha sentito la voce dei fedeli ed ha risposto a questa voce. Bourgeois arriva al cuore del problema. Ha detto che nessuno può dire chi Dio chiama, chi Dio può o non può chiamare al magistero ordinato. Ha detto che affermare che l’anatomia sia in qualche modo una barriera alla capacità di Dio di chiamare un figlio di Dio, pone ulteriori limiti assurdi al potere di Dio. La maggioranza dei fedeli crede questo.
Rivediamo la cronistoria della risposta di Roma alla richiesta dei fedeli di ordinare delle donne. Nell’aprile 1976 la Pontificia Commissione biblica giunge a maggioranza a questa conclusione: non sembra che il Nuovo Testamento di per sé ci permetta di definire in modo chiaro ed una volta per tutte il problema del possibile accesso delle donne al presbiterato. In una deliberazione successiva, la commissione votò 12 a 5 a favore dell’opinione che la Scrittura da sola non escluda l’ordinazione delle donne, e 12 a 5 a favore dell’opinione che la chiesa potrebbe ordinare donne al presbiterato senza andare contro le intenzioni originali di Cristo.
In Inter Insigniores (datato 15 ottobre 1976, ma reso pubblico nel gennaio successivo), la Congregazione per la dottrina della fede ha scritto: “La Chiesa, per fedeltà all’esempio del suo Signore, non si considera autorizzata ad ammettere le donne all’Ordinazione sacerdotale”. Tale dichiarazione, pubblicata con l’approvazione di Papa Paolo VI, era un relativamente modesto “non si considera autorizzata”.
Papa Giovanni Paolo II alzò considerevolmente la posta in Ordinatio Sacerdotalis (22 maggio 1994): “Dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”. Giovanni Paolo II voleva dichiarare il divieto “irriformabile”, una presa di posizione molto più forte di “tenuta in modo definitivo”. La cosa incontrò una sostanziale resistenza da parte di vescovi di alto rango che si riunirono in uno speciale incontro in Vaticano nel marzo 1995 per discutere il documento, incontro di cui NCR parlò all’epoca. Anche allora, vescovi attenti ai bisogni pastorali della chiesa avevano ottenuto una concessione alla possibilità di cambiamento dell’insegnamento.
Ma quella piccolissima vittoria fu effimera. Nell’ottobre 1995, la Congregazione per la dottrina agì ulteriormente, rilasciando un responsum ad propositum dubium riguardante la natura dell’insegnamento in Ordinatio Sacerdotalis:“L’insegnamento richiede un assenso definitivo poiché, fondato sulla parola scritta di Dio, costantemente preservato e applicato fin dall’inizio nella tradizione della Chiesa, è stato stabilito infallibilmente dal magistero ordinario e universale”. Il divieto all’ordinazione delle donne appartiene “al deposito della fede”, disse il responsum.
Lo scopo del responsum era di bloccare ogni discussione. In una lettera di presentazione al responsum, il cardinale Joseph Ratzinger, che era a capo della Congregazione, chiedeva ai presidenti delle conferenze episcopali di “fare tutto il possibile per assicurare la sua distribuzione e ricezione favorevole, facendo particolare attenzione che soprattutto da parte di teologi, operatori pastorali e religiosi, non fossero riproposte posizioni ambigue o contrarie.”
Malgrado la sicurezza con cui Ordinatio Sacerdotalis e il responsum furono diffusi, essi non rispondevano a tutte le domande sul problema.
Molti fecero notare che dire che l’insegnamento era “fondato sulla Parola scritta di Dio” ignorava completamente le conclusioni della Pontificia Commissione Biblica del 1976.
Altri fecero notare che la Congregazione per la dottrina non fece una richiesta di infallibilità papale, ma disse che ciò che il papa insegnava in Ordinatio sacerdotalis era ciò che “era stato stabilito infallibilmente dal magistero ordinario e universale”. Anche questo, tuttavia, è stato posto in discussione, perché in ogni epoca c’erano molti vescovi in varie parti del mondo che avevano serie riserve su tale insegnamento, benché pochi le esprimessero in pubblico.
In un articolo su The Tablet nel dicembre 1995, il gesuita Francis A. Sullivan, autorità teologica nel magistero, citava il Canone 749, affermando che nessuna dottrina deve essere intesa come definita infallibilmente a meno che questo fatto sia chiaramente affermato. Sullivan scriveva: “Il problema che mi rimane è se sia un fatto affermato chiaramente che i vescovi della Chiesa cattolica siano convinti dell’insegnamento quanto lo è evidentemente Papa Giovanni Paolo II.
Il responsum prese quasi tutti i vescovi alla sprovvista. Benché datato ottobre, non fu reso pubblico che il 18 novembre. L’arcivescovo William Keeler di Baltimora, allora presidente uscente della Conferenza episcopale statunitense, ricevette il documento senza nessun avvertimento tre ore dopo che i vescovi avevano rinviato il loro incontro annuale. Un vescovo disse al NCR che aveva saputo del documento leggendo il New York Times. Disse che molti vescovi erano profondamente preoccupati dalla dichiarazione. Sia lui che altri vescovi parlarono solo in maniera anonima.
Il Vaticano aveva già cominciato a giocare le sue carte per bloccare interrogazioni. Come riferì il gesuita Thomas Reese nel suo libro del 1989 Archbishop: Inside the Power Structure of the American Catholic Church, sotto Giovanni Paolo II, il modo di considerare l’insegnamento contro l’ordinazione delle donne da parte di un prete potenziale candidato all’episcopato, era diventato una cartina di tornasole per sapere se potesse essere promosso a vescovo.
Meno di un anno dopo la pubblicazione di Ordinatio Sacerdotalis, Suor Mercy Carmel McEnroy fu rimossa dal suo incarico di ruolo di insegnamento di teologia al St. Meinrad Seminary nell’Indiana per il suo pubblico dissenso dall’insegnamento della Chiesa: aveva firmato una lettera aperta al papa chiedendo l’ordinazione delle donne. Molto probabilmente McEnroy è stata la prima vittima di Ordinatio Sacerdotalis, ma ce ne sono state molte altre. Roy Bourgeois è stato la vittima più recente.
Il beato John Henry Newman aveva detto che ci sono tre magisteri nella Chiesa: i vescovi, i teologie il popolo. Sul problema dell’ordinazione delle donne, due delle tre voci sono state messe a tacere, questo è il motivo per cui la terza voce deve ora farsi sentire. Dobbiamo parlarne a voce alta e forte in tutti gli spazi pubblici che abbiamo a disposizione: durante le riunione dei comitati di parrocchia, nei gruppi di condivisione della fede, nelle convocazioni della diocesi e durante seminari accademici. Dovremmo scrivere delle lettere ai preti, ai redattori-capo dei giornali locali e alle reti televisive.
Il nostro messaggio è questo: noi crediamo che, per il sensus fidelium, l’esclusione delle donne dal magistero ordinato non ha alcun fondamento nelle Scritture né alcun altro fondamento logico convincente; quindi le donne dovrebbero essere ordinate. Abbiamo preso atto del consenso dei fedeli nelle parrocchie, in occasione di conferenze e di riunioni di famiglia. Individui e gruppi hanno studiato e pregato su quel problema. La direttrice esecutiva della Women’s Ordination Conference ci assicura, ad esempio, che i fedeli sono giunti a questa conclusione dopo una valutazione preceduta da preghiera e studio - sì, perfino studiando Ordinatio sacerdotalis. NCR unisce la sua voce a quella di Roy Bourgeois e invita la Chiesa cattolica a correggere questo ingiusto insegnamento.
Padre Roy espulso in relazione all’ordinazione di donne: come giudicherà la storia?
di Bryan Cones
in “www.uscatholic.org” (U.S.Catholics In Conversation with American Catholics) del 21 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Con molta tristezza ho letto la notizia dell’inevitabile riduzione allo stato laicale di padre Roy Bourgeois e della sua espulsione dalla congregazione dei Maryknoll dopo più di 40 anni di servizio. Dico “inevitabile” perché non ho mai avuto alcuna fiducia nella possibilità che la tattica dello stallo di Maryknoll di questi ultimi anni potesse mai avere successo. Bourgeois ha segnato il suo destino quando ha pubblicamente concelebrato nel 2008 un’ordinazione del gruppo Womenpriests; anche se avesse accettato di “ritrattare” il suo sostegno per l’ordinazione di donne al presbiterato, dubito che gli sarebbe mai stato permesso di esercitare pubblicamente la sua funzione di prete.
Il problema per il Vaticano è che coloro che lì decidono usano l’estrema arma del loro arsenale quando si arriva a punire preti che pubblicamente si esprimono in disaccordo sul tema dell’ordinazione delle donne. Secondo quanto afferma il National Catholic Reporter, anche il modo in cui è stato applicato è stato fuori dall’ordinario. La Congregazione per la dottrina della fede avrebbe potuto ridurre Bourgeois allo stato laicale senza che fosse espulso dalla congregazione dei Maryknoll (revocando la scomunica), ma non lo ha fatto. Usando su di lui anche l’ultima oncia del loro potere, in realtà hanno disarmato se stessi. Ora non hanno assolutamente alcun controllo su ciò che può fare Bourgeois.
Ad esempio, cosa succede se la gente continua a trattarlo da prete? Se celebra l’eucaristia con lui, se riceve la comunione da lui? In altre parole, cosa succede se la gente ignora completamente l’uso da parte del Vaticano dell’opzione nucleare nei suoi confronti? Con molta probabilità, alcune persone lo faranno, benché noi non sappiamo quali saranno le prossime mosse di Bourgeois.
Sono veramente deluso per il fatto che non possiamo avere un dialogo teologico da adulti sul problema dell’ordinazione delle donne, o almeno sul sessismo che esiste nella Chiesa. Ma non posso far a meno di pensare a che cosa succederà se verrà il giorno, forse tra decenni o tra secoli, in cui un futuro papa riaprirà la discussione che Giovanni Paolo II ha chiuso in Ordinatio Sacerdotalis. Mi sembra molto improbabile che tra 100 anni il dialogo sarà ancora come è adesso.
Molti teologi, un numero significativo, hanno affermato che l’ultima dichiarazione del papa, secondo cui la chiesa non avrebbe autorità per ordinare le donne, è reversibile. Ma nello stesso momento, i cattolici sono tenuti alla direttiva vaticana che prevede semplicemente che di questo non si parla.
Il prete, le donne e il Vaticano
di Louis Frayasse
in “Réforme” n° 3490 del 29 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Roy Bourgeois, prete cattolico americano impegnato a favore dell’ordinazione delle donne, è stato ridotto [ndr.:o innalzato?] allo stato laicale dal Vaticano.
Un giudizio senza appello. Il 4 ottobre scorso, la Congregazione per la dottrina della fede, incaricata della conservazione del dogma cattolico, ha destituito il prete americano Roy Bourgeois, riducendolo allo stato laicale. La decisione era attesa da diversi anni. Nell’agosto 2008, Roy Bourgeois aveva concelebrato l’eucaristia in occasione dell’ordinazione presbiterale di una donna, Janice Sevre-Suszynska, delitto passibile di scomunica automatica nella Chiesa cattolica.
Il caso ha avuto molta risonanza oltre Atlantico in quanto Roy Bourgeois, oggi settantaquattrenne, è una figura familiare per molti americani. Da più di vent’anni questo prete della Società delle missioni estere cattoliche d’America, meglio conosciuta con il nome di società di Maryknoll, porta avanti una battaglia accanita all’interno della sua organizzazione, SOA Watch.
SOA Watch è nata nel 1990, un anno dopo l’assassinio di sei preti gesuiti in Salvador da parte dei soldati formati alla Scuola delle Americhe (School of the America, SOA, ribattezzata Western Hemisphere Institute for Security Cooperation, nel 2001). Dalla sua creazione nel 1946, questa scuola militare dell’esercito ha accolto decine di migliaia di soldati latino-americani per dispensare loro una formazione centrata attorno alle tecniche della contro-insurrezione. Il principale rimprovero rivolto alla SOA/WHINSEC è aver contribuito a formare - in particolare all’uso della tortura - gli ufficiali degli eserciti dei diversi regimi dittatoriali del secolo scorso in America Latina. Quegli ufficiali sarebbero responsabili della tortura, della morte o della scomparsa di centinaia di migliaia di persone in America Latina.
Fin dalla sua fondazione, l’obiettivo di SOA Watch è quello di far chiudere la Scuola delle Americhe e di modificare radicalmente la politica estera americana in America Latina. Per far questo, l’organizzazione organizza della manifestazioni, dei digiuni e delle veglie silenziose, nonché delle azioni di lobbying mediatico e parlamentare. Militante infaticabile, Roy Bourgeois ha passato diversi anni in prigione per essere entrato all’interno del recinto della scuola militare. Come coronamento di due decenni di attivismo, Roy Bourgeois e SOA Watch sono nominati per il premio Nobel per la pace 2010 dall’American Friends Service Committee, un’organizzazione quacchera, essa stessa premiata nel 1947.
Tuttavia, dopo diversi anni, Roy Bourgeois si è impegnato in un’altra lotta: quella dell’ordinazione delle donne all’interno della Chiesa cattolica. A causa della sua scomunica e della sua riduzione allo stato laicale, è stato costretto a lasciare la società di Maryknoll, in cui ha operato per 40 anni.
“Il Vaticano e Maryknoll possono destituirmi, ma non possono far scomparire il problema dell’uguaglianza dei sessi nella Chiesa cattolica”, ha dichiarato in un comunicato. “La rivendicazione dell’uguaglianza dei sessi è radicata nella giustizia e nella dignità e non scomparirà. Quando c’è un’ingiustizia, il silenzio è la voce della complicità. La mia coscienza mi ha imposto di rompere questo silenzio e di affrontare il peccato di sessismo nella mia Chiesa.”
Recentemente, Roy Bourgeois si era avvicinato all’associazione Roma Catholic Women Priests (RCWP, donne prete cattoliche), un organismo internazionale che rivendica l’accesso delle donne al presbiterato nella Chiesa cattolica.
“Roy è sempre stato solidale con tutti coloro che credono nell’ordinazione delle donne all’interno di una Chiesa non clericale e non gerarchica, afferma Bridget MaryMeehan, membro dell’associazione RCWP e ordinata vescovo nel 2009. La Chiesa cattolica non può continuare la sua discriminazione nei confronti delle donne e attribuirne la responsabilità a Dio. Tutti i battezzati sono a immagine di Cristo e, per questo, sia uomini che donne possono celebrare la messa. Noi non desideriamo lasciare la Chiesa cattolica perché la amiamo, ma desideriamo invece trasformarla affinché riconosca l’uguaglianza di tutti davanti al Vangelo, preconizzata da Gesù”.
Oggi, l’associazione RCWP rivendica la presenza di 150 donne prete nel mondo, la maggior parte delle quali negli Stati Uniti. Le prime sono state ordinate nel 2002 da un vescovo cattolico, Romulo Antonio Braschi, e questo permette alle donne prete di affermare, malgrado la scomunica automatica di cui sono vittime, che la loro ordinazione è valida, poiché non ha infranto la successione apostolica.
“Non si tratta semplicemente di inserire pienamente le donne nella Chiesa, spiega Janice Sevre- Duszynska, la cui ordinazione nel 2008 è all’origine dell’espulsione di Roy Bourgeois. Quello che noi rivendichiamo, è un presbiterato rinnovato in una Chiesa cattolica trasformata, una Chiesa nella quale tutti - divorziati, non cattolici, omosessuali - siano i benvenuti. Spero che i preti maschi trovino il coraggio di dire “ora basta”, e che chiederanno più giustizia ai loro vescovi.” Per il momento le donne prete RCWP celebrano la messa in “chiese case” o in locali presi in affitto ad altre denominazioni cristiane.
Continuano a porre, senza cedimenti, il problema delle donne all’interno della Chiesa cattolica
di Giovanni Panettiere (Quotidiano.net, 29 novembre 2012)
CHI HA UCCISO le donne vescovo? Chi ha affossato la riforma della Chiesa d’Inghilterra? I successori degli apostoli? I parroci? No Signore, i laici. Metà dei quali di sesso femminile. A decretarlo l’analisi del voto al Sinodo generale che una decina di giorni fa ha bocciato l’ordinazione episcopale in rosa. Servivano i due terzi dei suffragi in ciascuna delle tre camere dell’assemblea (vescovi, preti e laici). I bookmakers scommettevano su una vittoria al filo di lana dei progressisti. Si sbagliavano: 44 voti a favore e tre contrari fra i vescovi, 148 sì e 45 no nel clero, ’solo’ 132 favorevoli e 74 contrari tra i laici.
ORA si è venuto a sapere che nella terza camera metà dei no all’ordinazione episcopale femminile
sono arrivati dalle rappresentanti del gentil sesso. Susie Leafe ha votato contro la riforma:
DI TUTT’ALTRO avviso il segretario generale del Sinodo, William Fittall, che è già al lavoro per
ribaltare il responso del 20 novembre. Nel documento intitolato Women in the Episcopate-Where
Next? sottolinea:
I LIBERAL sognano di poter tornare a discutere la questione, magari partendo dalla bozza Fittall, già nel Sinodo generale di luglio, anche se, di regola, servirebbero tre-cinque anni per poter ripresentare una proposta cassata dall’assemblea generale. Dalla loro hanno il fatto che la riforma non è passata per un soffio. Vedremo se basterà. La volontà finale del fronte riformatore è quella di sottoporre al Parlamento di Sua Maestà la delibera favorevole all’ordinazione episcopale femminile entro e non oltre il 2015. Non si deve dimenticare che il diritto costituzionale britannico e gli stretti rapporti tra Stato e Canterbury conferiscono al Sinodo la possibilità di avanzare e approvare proposte di legge inerenti la Chiesa di Inghilterra, ma la parola finale resta al Parlamento.
INSOMMA, la corsa contro il tempo è appena iniziata. C’è da chiedersi se la fretta sia la migliore consigliera dei progressisti. Verissimo che la riforma, cifre alla mano, è a un tiro di schioppo, ma è altrettanto vero che, se Eva si oppone alle donne vescovo, la strada del cambiamento si fa lunga e dall’ incerto destino. Con il rischio che i riformatori perdano non più la battaglia, ma la guerra
Padre Roy Bourgeois è stato espulso dalla società Maryknoll e ridotto allo stato laicale
di APIC
in “www.catholink.ch” del 21 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Padre Roy Bourgeois, militante per la pace e figura di contestatore dei missionari di Maryknoll, negli Stati Uniti, è stato canonicamente espulso dalla Società delle missioni estere cattoliche d’America. Questa decisione della Congregazione per la dottrina della fede è stata resa pubblica il 20 novembre 2012 dalla società missionaria americana. Ridotto allo stato laicale e scomunicato, Roy Bourgeois è stato destituito dallo stato clericale.
Padre Roy Bourgeois è conosciuto da anni a livello internazionale per la sua lotta a favore della chiusura della “Scuola delle Americhe” - un centro di addestramento dei militari latino-americani situato a Fort Benning, nello stato americano della Georgia.
Il prete, che apparteneva ai missionari di Maryknoll da quarant’anni, aveva partecipato il 9 agosto 2008 ad una cerimonia di ordinazione organizzata dal movimento delle donne prete cattoliche romane (Roma Catholic Womenpriests). Si trattava dell’ordinazione sacerdotale di Janice Sevre- Duszynska, un’ordinazione illecita non riconosciuta dalla Chiesa cattolica, in cui non ci sono donne prete.
Il religioso è stato punito per la sua partecipazione a questo simulacro di ordinazione che si è svolto in una chiesta appartenente alla “Unitarian Universalist Church” a Lexington, nel Kentucky. In seguito a questo atto illecito, padre Bourgeois aveva ricevuto una lettera dal Vaticano nel 2008 che lo minacciava di scomunica latae sententiae (cioè automatica) se non avesse ritrattato.
All’epoca era stato convocato alla sede della sua congregazione, a Maryknoll (New York), dove era stato ricevuto dal superiore generale di allora, Padre John Sivalon, e da altri due membri del Consiglio generale. Nel giugno scorso era stato ricevuto dall’attuale superiore generale, Padre Edward Doucherty. In quell’occasione non si era parlato della sua espulsione. Il giornale americano “National Catholic Reporter”, citando il padre domenicano Tom Doyle, “specialista di diritto canonico e difensore di Padre Bourgeois, scrive che la decisione romana è stata presa uniteralmente il 4 ottobre 2012.
L’ex prete di Maryknoll ha rifiutato piegarsi alla richiesta esplicita di Roma di rinunciare al suo sostegno all’ordinazione delle donne ed è rimasto fermo sulle sue posizioni. Ha risposto al Vaticano affermando di ritenere che Dio chiami al sacerdozio sia gli uomini che le donne e che, per lui, dichiarare una cosa diversa a questo proposito e ritrattare per salvare il suo sacerdozio o la sua pensione equivarrebbe ad una menzogna.
“Sono giunto alla convinzione che le donne possano essere ordinate anche nella nostra Chiesa cattolica”, aveva dichiarato il giorno dopo quella cerimonia controversa. In questi ultimi anni ha ovunque militato contro gli insegnamenti della Chiesa cattolica relativi al non accesso delle donne al sacerdozio.
In un comunicato, la società di Maryknoll si dice rattristata dal fallimento del tentativo di riconciliazione con la Chiesa cattolica voluto sia dalla congregazione che da Roma. La società missionaria “ringrazia calorosamente padre Bourgeois per il suo servizio alla missione, e tutti i membri gli augurano il meglio nella sua vita personale”. In spirito di equità e di carità, sottolinea la società, “Maryknoll assisterà Bourgeois in questa transizione”.
Lui incapace di accettare l’emancipazione
di Giulia Galeotti (l’Osservatore Romano, 25 novembre 2012)
È il mostruoso volto dell’incapacità di entrare in relazione con il prossimo. Percuotere e uccidere chi è fisicamente più debole è una disumana dimostrazione di codardia e di viltà. Questi abusi particolarmente subdoli e striscianti, capaci di infiltrarsi sempre più nella quotidianità delle nostre mura (anche occidentali), violentano le migliaia di vittime colpite silenziosamente giorno dopo giorno sotto i nostri sguardi distratti. Ma violentano anche la società nel suo insieme.
Perché se sempre e in ogni sua forma la violenza volta le spalle alla speranza, la violenza degli uni sulle altre è il cemento che immobilizza il domani. Che preclude ogni incontro e asfissia la vita. I dati sono allarmanti. Solo in Italia, una donna viene uccisa ogni sessanta ore. È un fenomeno nuovo, o forse oggi siamo più informati, più capaci di leggere la realtà per quello che veramente è? Se così fosse, sarebbe comunque già una conquista. Una società civile in grado di dare un nome ai carnefici.
Abbiamo però un dubbio. Che questa spirale tentacolare - nel suo spingere troppi uomini a usare la propria superiorità fisica contro le donne di casa loro, donne che spesso frequentano e "amano" - sia mossa dalla incapacità di accettare nella quotidianità concreta l’emancipazione femminile. Che la donna, conquistati i diritti, sia diventata cittadina a pieno titolo è un giro di boa troppo grande da accettare nei rapporti domestici di ogni giorno. La crudeltà - si sa - è in grado di alleviare momentaneamente la frustrazione, di attutire il senso di impotenza, ed è anche su questa consapevolezza che occorre lavorare per cercare di estirparne gli esiti.
La giornata mondiale contro la violenza sulle donne vuole dunque svegliarci dall’indifferenza. Vuole pungolarci dalla assuefazione che corrode il senso critico, giacché non reagendo finiamo per essere complici del rinsecchimento delle radici del nostro vivere civile. Vuole mettere fine a quel lasciarci scivolare addosso dati che turbano nell’immediato, senza però penetrare davvero nelle nostre coscienze. Dati, inoltre, che molte, troppe di noi hanno provato sulla propria pelle, nei modi, nelle situazioni e attraverso le mani più varie. Sta qui molta della forza di questa violenza, sta nel suo nutrirsi del senso di colpa, nell’approfittarsi della vergogna.
Siamo imbevuti tutti di violenza sin da bambini, i colpevoli e le vittime. Da subito ci viene insegnato - a noi maschi - a desiderarla, cercarla, esercitarla. Il cibo con cui cresciamo non è un veleno a costo zero. Da subito ci viene insegnato - a noi femmine - che, un po’ almeno, ce la siamo cercata.
Che, soprattutto, la giornata mondiale del 25 novembre lasci in noi la consapevolezza che la violenza contro le donne infligge a tutti una ferita mortale. Perché vittima è anche la società nel suo complesso, quella società composta da quanti esercitano questa violenza, da quante la subiscono e da quanti la registrano immobili (e dunque colpevoli). Il danno è immenso. È la negazione della ragione. È il rifiuto dell’altro. È l’antitesi del nostro essere esseri umani. Come scrive Vasilij Grossman in Vita e destino, "dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne".
Come migliorare l’uguaglianza tra uomini e donne nella Chiesa?
intervista ad Anne Soupa, a cura di Claire Lesegretain
in “La Croix” del 24 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Mentre in questo fine settimana a Parigi i partecipanti alle Settimane sociali di Francia riflettono sul tema “Uomini e donne, il nuovo stato di fatto”, la biblista Anne Soupa (1) propone una lettura diversa dei testi della Genesi invocati dalla Chiesa per istituire una vocazione specifica per la donna. Per la cofondatrice del Comité de la jupe e della Conférence catholique des baptisé(e)s francophones, il problema delle donne si pone oggi in maniera urgente nella Chiesa.
“I due testi della creazione della Genesi non fanno alcuna distinzione tra l’essere umano maschile e l’essere umano femminile. La creazione cosiddetta “seconda” della donna “tratta da una costola di Adamo” (Gn 2,22) è solo una lettura culturale, esegeticamente sbagliata. Infatti, la parola Adam designa l’essere umano. Il che capovolge totalmente la lettura classica: è la donna ad essere citata per prima nella Bibbia, e non l’uomo! Ugualmente, ci si è basati sulla frase di Dio “Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gn 2,18) per istituire una vocazione specifica alla donna.
Ora, questa concezione ecclesiale secondo la quale la donna è l’ “aiuto” dell’uomo è un’interpretazione non consona, in quanto l’essere maschile, in quel punto del brano, non esiste ancora. Dire, come Giovanni Paolo II, anche se con grande nobiltà, che “la donna ha la vocazione di esistere per gli altri” è affermare qualcosa su quel che sarebbe la “natura femminile” che non sta in nessun testo biblico.
Per migliorare l’uguaglianza tra uomini e donne nella Chiesa, occorre permettere una vera cittadinanza delle donne nella Chiesa. È urgente che le donne che sono private di parola - in maniera equivalente alla privazione di diritti civici a lungo vissuta nella società civile - diventino soggetti di parola. Certo, ci sono donne nei consigli pastorali o che insegnano nella facoltà di teologia... Ma le omelie domenicali - luogo di formazione cristiana per il 95% dei cattolici - a loro sono precluse.
Questa situazione, dovuta alla riforma gregoriana - che ha affidato al solo clero le funzioni di insegnamento, governo e santificazione -, è superata. Deve essere riformata a livello universale, perché è un papa, Gregorio VII, ad averla istituita.
Fintanto che la Chiesa e la società civile praticamente coincidevano, l’istituzione ecclesiale non era percepita come retrograda. Ma a partire dall’emancipazione della donna negli anni 60 e con il Vaticano II che ha incoraggiato il laicato, si è costituito un vero e proprio proletariato di donne nella Chiesa.
Da cinque decenni, molte donne si sono silenziosamente allontanate dalla Chiesa, ne abbiamo la prova anche nella lenta estinzione delle congregazione femminili apostoliche. Come potrebbe una donna colta e autonoma accettare la tutela dei fratelli dell’ordine? Di fronte a questa situazione inedita, la Chiesa prosegue senza consultazioni, fornendo solo discorsi lontani dalla realtà. C’è in questo una drammatica cecità.”
NOTE SUL TEMA:
Violenza donne: una lunga scia di sangue *
Il 25 novembre l’Onu celebra la donna. Quella sulle donne è la forma di violenza più diffusa, senza confini di ambiente, religione, cultura e nazionalità.
Lo dimostra la statistica e lo conferma la cronaca. Sono centinaia le donne che ogni anno vengono uccise dalla violenza ed una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita.
La data del 25 novembre fu scelta in ricordo del brutale assassinio del 1960 delle tre sorelle Mirabal, considerate esempio di donne rivoluzionarie per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo (1930-1961), il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell’arretratezza e nel caos per oltre 30 anni
Nel 2012 sono state oltre 100 in Italia le donne uccise per gelosia, motivi sessuali o da violenze familiari. Tra loro ci sono:
Sabrina, Blotti, il 31 maggio a Cesena viene uccisa a colpi di pistola dal marito per gelosia
Alessandra Sorrentino, il 2 luglio scorso a Palma Campania muore con un paio di forbici conficcati dal marito perche’ geloso
Maria Anastasi, il 4 luglio a Trapani viene ammazzata a picconate. Dell’omicidio sono accusati il marito e l’amante di lui
Sandra Lunardini, il 24 luglio a Milano viene uccisa da tre proiettili al petto, sparati dal fidanzato geloso
Laila Mastari, il 4 settembre a Torino viene uccisa uccisa dall’ex fidanzato con 19 coltellate
Carmela Petruzzi, il 19 ottobre a Palermo muore con una coltellata alla gola per difendere la sorella Lucia, minacciata a morte dall’ex fidanzato
In precedenza altri casi di violenza sfociata in omicidio hanno conquistato per molti mesi le prime pagine dei giornali.
Melania Rea, il 18 aprile del 2011 viene uccisa nel bosco di Ripe Civitella. Il marito , Domenico Parolisi e’ accusato dell’omicidio
Yara Gambirasio, il 26 novembre del 2010 scompare a Brembate di Sopra. Ritrova morta tre mesi dopo. Non identificato ancora l’assassino
Sarah Scazzi, il 26 agosto del 2010 la quindicenne di Avetrana, viene uccisa nel garage della casa dello zio.
Chiara Poggi, il 14 agosto del 2007 viene uccisa nella sua abitazione. Il fidanzato, Alberto Stasi, ritenuto inzialmente colpevole, e’ stato assolto anche in appello
Simonetta Cesaroni, il 7 agosto del 1990 viene uccisa a coltellate a Roma. L’ex fidanzato Raniero Busco, condannato in primo grado a 24 anni, viene assolto in appello quest’anno
Se in tutto il mondo le donne ballano in piazza contro la violenza
Una giornata per dire basta al femminicidio
di Elena Stancanelli (la Repubblica, 23.11.2012)
NESSUNA di loro stava tradendo, o raccogliendo le sue cose per andarsene, quando è stata ammazzata. Cento donne inermi, uccise a freddo come farebbe un killer. Invece i loro assassini sono uomini che conoscevano bene. Cento donne diverse, giovanissime, madri, professioniste, migranti, e un’unica responsabi-lità: essere femmina.
Come si può comprendere e quindi combattere un crimine, che si fonda su una motivazione tanto spaventosa, irrazionale, disincarnata? Inaspriremo la pena, faremo del femminicidio un reato che prevede l’ergastolo. Ma questo orrore, questa mostruosa guerra civile, la si combatte soprattutto nella testa delle persone. Cosa dovremmo modificare, perché non si verifichino le circostanze che armano la mano di un uomo? Dovremmo imparare insieme a loro ad uscire da una relazione, così come ci sembra divertente e senza conseguenze entrarci.
Quanto coraggio ci vuole a strapparsi via di dosso la persona alla quale hai dato tutta la tua intimità, i giorni, il corpo? Eppure dobbiamo riuscirci, se noi abbiamo prodotto questa serialità sentimentale, e fare in modo che quella disperazione non generi mostri, fantasmi. Un uomo che uccide una donna - la donna con cui un tempo faceva l’amore, figli, sogni - deve averla cancellata, non ricordare più neanche più il suo nome. Deve aver fatto di lei un simbolo, una sagoma di cartone sulla quale sparare per sfogarsi.
Contro questa follia, il 25 novembre è stata proclamata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E per tutta la settimana che segue ci saranno incontri, piazze, spettacoli, grazie alla devozione e la fatica di Snoq (Se non ora quando).
“Ferite a morte” è il titolo dello spettacolo scritto da Serena Dandini, dove le storie di cronaca verranno raccontate da intellettuali e attrici: Paola Cortellesi, Anna Bonaiuto, Concita de Gregorio... E sarà inoltre l’occasione per lanciare un’altra giornata, quella del 14 febbraio 2013. One billion rising: in piedi, e balliamo. L’ha immaginata Eve Ensler, l’autrice dei Monologhi della Vagina, e sarà una festa in tutto il mondo.
Un giorno speciale nel quale le donne, e gli uomini, manifesteranno per lo sforzo di capirsi, di mettere da parte paure e reciproche diffidenze, e immaginare un riconoscimento del diritto ad amarsi e lasciarsi, ad essere felici e infelici. E dove tutto questo è ancora lontano a venire, semplicemente a poter essere femmina senza l’incubo dello stupro, la violenza, l’impossibilità di lavorare, camminare per strada da sola, vivere.
Molte persone, famose e non, hanno già aderito, e balleranno. Di tutto quanto potrà essere fatto, questo ballo mondiale mi sembra che risponda con più precisione a quell’idea di libertà del corpo, a quella necessità di tornare a guardarsi come persone e non come fantasmi di un’ossessione.
Racconta la mitologia che Tiresia, l’indovino, un giorno passeggiando vide due serpenti intrecciati in un amplesso. Ne uccise uno, per sfregio. La femmina. Per punizione fu tramutato all’istante in una donna. Da donna visse e amò per sette anni. Fin quando, incontrando di nuovo due serpenti avvinti in un identico accoppiamento, ne uccise di nuovo uno. Il maschio, stavolta. E per questo tornò a essere un uomo. Qualche tempo dopo Zeus ed Era lo interpellarono, non riuscendo a risolvere una disputa che li divideva: sono gli uomini o le donne a provare più piacere sessuale? Tiresia rispose che se il piacere potesse essere diviso in dieci parti, una sarebbe quella dell’uomo e nove quelle della donna. Era, furibonda, lo accecò: certi segreti non si rivelano. Zeus, per consolarlo, gli donò la facoltà di prevedere il futuro.
Qualunque sia la verità, più o meno è questo il campo di battaglia. Quello che non sappiamo le une degli altri, un mistero che talvolta ci sembra sublime, e fa scattare il nostro desiderio, altre orrorifico. Un male dal quale non c’è scampo, se non attraverso la distruzione. Ma seppure il corpo è la contesa, il corpo, ovviamente, è anche il confine invalicabile. Scriveva Walt Whitman “If anything is sacred/the human body is sacred”.
Femminicidio: ribelliamoci ora
di Roberta Agostini (l’Unità, 24.11.2012)
Sono più di cento le donne uccise fino ad oggi nel nostro paese. Dal sud al nord senza distinzione di nessun tipo, reddito, livello di istruzione, etnia, appartenenza religiosa. Un solo elemento unifica queste morti: sono tutte o quasi state uccise da chi conoscevano, il partner, un familiare, un cosiddetto amico. Uccise perché donne, ma in realtà i dati non li conosciamo veramente perché non abbiamo un sistema informativo che ci consenta di monitorare il fenomeno nei suoi diversi aspetti. L’ultima ricerca approfondita l’ha fatta l’Istat nel 2007. L’anno dopo un gruppo di giornaliste e scrittrici ha pubblicato un libro «Amorosi assassini» analizzando per un anno le pagine dei quotidiani e raccogliendo in ordine cronologico, mese per mese, circa trecento casi di violenza e tracciando una terribile e dolorosa fotografia della vita e della morte di quelle donne.
Ma quante rimangono in silenzio? Le donne pagano con la vita per aver detto un no, quel «no» che fu pronunciato da Franca Viola tanti anni fa, che ha cambiato i rapporti tra uomini e donne nel Paese, ma che ancora non si è affermato, così come le parole autonomia ed eguaglianza.
Intorno a questo 25 novembre ci siamo ritrovate in tante occasioni, associazioni, ong, donne impegnate nella politica e nelle istituzioni per discutere di come rilanciare la battaglia contro la violenza. Un primo obiettivo concreto, importantissimo è stato raggiunto anche grazie al nostro impegno parlamentare e alla raccolta di firme che abbiamo promosso in molte città: il governo il 27 settembre scorso ha firmato la convenzione di Istanbul e dobbiamo fare in modo che la legge di ratifica venga approvata entro la fine di questa legislatura, dotando il nostro Paese di uno strumento essenziale di contrasto alla violenza. In più occasioni dalla presentazione della convenzione «No more», promossa da numerose ed importanti associazioni, alle iniziative di «Se non ora quando», fino alla presentazione della proposta di legge del Pd al senato ci siamo tutte dichiarate d’accordo sul fatto che la violenza non è un fatto privato e non è neppure un’emergenza, ma un dato strutturale in una società che pone donne ed uomini in una relazione di disparità e di dominio.
Per combatterla servono politiche concrete in un’ottica multidisciplinare ed integrata: serve uno sforzo coordinato tra enti locali e livelli nazionale e sovranazionale. Serve una rete forte e sinergica tra i diversi attori del contrasto: centri antiviolenza, magistratura, forze dell’ordine, presidi sociali e sanitari e serve la loro formazione aggiornata e costante. Servono risorse per le politiche di accoglienza delle vittime (in Italia ci sono 500 posti letto e ne servirebbero 5000) e per le politiche di prevenzione. Serve una cultura nuova e diversa di educazione alla parità e al rispetto, una battaglia della quale dovrebbero essere protagonisti la scuola, gli insegnanti, i ragazzi ed i mass-media, tutti. Di fronte ad un fenomeno tanto complesso, le politiche giudiziarie e di sicurezza possono essere una risposta solo molto parziale. Serve una reazione civile, una nuova consapevolezza dell’autonomia e della libertà femminile, dalle quali nascono nuove relazioni tra uomini e donne che poggiano sulla reciprocità, sul rispetto e non sul dominio. Un riconoscimento reciproco tra uomini e donne fondato sul senso dei propri limiti. Domani sceglieremo il futuro candidato alla presidenza del consiglio, ma saremo uniti, uomini e donne, per ribadire il nostro impegno costante contro la violenza.
Accendere la luce sulla violenza. Domani le donne si mobilitano
di Cristiana Cella (l’Unità, 24.11.2012)
Per troppi anni le donne italiane vittime di violenze, intimidazioni e umiliazioni, sono state private della loro libertà e dei loro diritti, nascoste sotto un burka fatto di paura, ignoranza, omertà, vergogna, silenzio. E il silenzio è anch’esso violenza. Per anni, violenze psicologiche e fisiche, fino agli omicidi, sono state rinchiuse nell’ambito ambiguo del privato, nella colpevole tolleranza di una cultura distorta e diffusa, nella palude del sommerso. Non esistono neppure dati certi. Nell’unica ricerca del 2007, dell’Istat, si parla di 6 milioni di donne vittime di stupro, minacce e molestie. Quasi sempre ignorate. Si è giustificata la violenza con la gelosia, la passione, il dolore di essere abbandonati. Le parole sono importanti, hanno conseguenze e l’amore non ha nulla a che fare con la violenza. Le cose, adesso, cominciano finalmente a cambiare, grazie alla tenacia di donne coraggiose, che hanno continuato a denunciare, proteggere e combattere, nelle loro vicende personali, nelle associazioni, nei media e nei Centri Antiviolenza. La parola femminicidio è entrata con forza nel vocabolario, come «specifico reato e crimine contro l’umanità», come scrive Barbara Spinelli.
Nel 2012 l’Italia è scesa dal 74° all’80° posto - dopo il Ghana e il Bangladesh - nella classifica del Gender Gap Report sulla condizione della donna nel mondo, stilata dal World Economic Forum. Nel 2011 e nel 2012 le nazioni Unite e il Comitato Cedaw hanno redarguito il nostro Paese, preoccupati non solo per la diffusione della violenza contro donne e bambine e per l’elevato numero di femminicidi ma anche per « il persistere di tendenze socio-culturali che minimizzano o giustificano la violenza domestica». Nel testo della Convenzione «No more» (www.nomoreviolenza.it), promossa da diverse associazioni di donne si chiede al Governo di verificare l’efficacia del Piano Nazionale contro la violenza varato nel 2011, perché la protezione della vita e della libertà delle donne diventi subito priorità dell’agenda politica. La prima risposta è stata quella del Presidente Napolitano che ha mandato ieri una lettera di ringraziamento al Cooordinamento delle Associazioni promotrici. Cinquanta parlamentari hanno, intanto, aderito all’interpellanza lanciata da Rosa Callipari del Pd.
La data di domani non sarà più solo una ricorrenza formale e scomoda. Ma una giornata di mobilitazione nazionale per divulgare, riflettere e trovare soluzioni concrete. Urgenti, perché il fenomeno non fa che aumentare. In media ci sono più di 100 femminicidi all’anno, quest’anno, siamo già a 115, una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita. Secondo le anticipazioni dei dati 2012 di Telefono Rosa questo tipo di abusi, all’interno dei rapporti amorosi, ha raggiunto l’85% di tutte le violenze, il 3% in più del 2011. Per il 25 novembre, Telefono Rosa ha organizzato al Centrale Teatro Preneste, a Roma, alle ore 10, uno spettacolo (15 22, scritto da Pina Debbi, regia Tiziana Sensi; titolo che prende spunto dal numero nazionale antiviolenza che dal 19 dicembre sarà gestito da Telefono Rosa) per far conoscere e riflettere sul fenomeno. Moltissime le iniziative di associazioni di donne per accendere i riflettori sulla ‘normalità’ di questa inaccettabile tragedia che si consuma ogni giorno. Far luce e trovare soluzioni sono le parole d’ordine della giornata di domani. Simbolicamente, dalle ore 17 in poi, si illuminerà anche il Colosseo. Far luce anche su quelle forme di violenza meno conosciute, come stalking, intimidazioni e minacce, di cui sono vittime le donne per il loro lavoro.
Il 27 si terrà a Montecitorio, un convegno sulle gravi minacce di cui sono state vittime nel 2012 molte giornaliste. Nasce in questi giorni anche una nuova associazione, «Hands off WomenHow», con l’obiettivo di creare una rete internazionale di associazioni e persone per contrastare la violenza sulle donne. In questi giorni si rinnova anche il sito zeroviolenzadonne.it. Cambiare è possibile ma richiede il coinvolgimento di tutta la società, soprattutto degli uomini.
Siamo alla violenza di genere? Femminicidio, questione maschile e
Chiesa
di Andrea Lebra (Settimana, n. 31, 2 settembre 2012)
Caro Direttore,
secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la prima causa di uccisione nel mondo e in Europa delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte di persone conosciute. Nel nostro Paese non trascorre settimana senza che i mass-media diano notizie di donne assassinate da congiunti stretti o, comunque, nell’ambito familiare.
Dall’inizio del 2012 al momento in cui vengono stese queste note, 73 risultano essere le vittime. Nel 2011 le donne assassinate in Italia sono state 120 (58 al Nord, 21 al Centro, 30 al Sud e 11 nelle isole). Nel 2010 se ne sono contate 127 e 119 nel 2009. Nel 2008 sono state 112 e 107 nel 2007. In media, dunque, più di due femminicidi alla settimana. L’ultima vittima, in ordine di tempo, si chiamava Maria Anastasi, 39 anni, siciliana, madre di tre figli, al nono mese di gravidanza, presa a picconate e data alle fiamme dal marito il 5 luglio nella campagna di Trapani.
Scorrendo le storie delle donne assassinate c’è da rimanere sbigottiti, anche solo nel prendere atto delle modalità con le quali il delitto è stato perpetrato: accoltellata, strangolata, soffocata, uccisa a pugni, picchiata a morte, bruciata viva, sgozzata, buttata dal balcone, presa a martellate, colpita con un’arma da fuoco... I nomi, l’età, le città cambiano. Le storie invece si ripetono: sono per lo più gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Gli organi di stampa parlano di omicidi passionali, di storie di raptus, di amori sbagliati, di gelosia, di follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i crimini vengano per lo più commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa.
In ambito sociologico, criminologico e antropologico, da un po’ di tempo è stato coniato un neologismo per descrivere il fenomeno: femminicidio (o femmicidio). Un termine inventato per indicare l’omicidio della donna in quanto donna, ovvero l’omicidio basato sul genere. Secondo i criminologi, la “colpa” delle vittime del femminicidio è fondamentalmente quella di aver trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione e da certa cultura che continua a non accettare che uomo e donna sono ontologicamente uguali e radicalmente differenti.
Ne ha dato una definizione compiuta l’antropologa messicana Marcela Lagarde: “Femminicidio è la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, lavorativa, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dalla sviluppo e dalla democrazia”.
Un termine che qualcuno ha criticato, ma che è stato utilizzato anche dall’inviata dell’ONU, nel rendere noto, pochi giorni fa, il primo rapporto sul femminicidio (appunto) in Italia. Rashida Manjoo ha definito “grave e insostenibile” la situazione. “Queste morti - ha affermato - non sono incidenti isolati che arrivano in maniera inaspettata e immediata: sono l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine a una serie di violenze continuative nel tempo. La gran parte di violenze non è denunciata perché non è sempre percepita come un crimine”.
Il rapporto dell’Onu mette sotto accusa la cultura patriarcale ed evidenzia come l’origine di questa forma di violenza, fuori e dentro la famiglia, sia imputabile al persistere, in taluni soggetti maschili, del bisogno ancestrale di esercitare dominio sulle donne, considerate oggetti e non soggetti. Rashida Manjoo, nel valutare ciò che l’Italia sta facendo per porre rimedio ad un dato così allarmante, è piuttosto severa: stigmatizza come “non appropriate” le “risposte” dello Stato italiano, ed arriva a definire il femminicidio “crimine di Stato” perché di fatto “tollerato dalle pubbliche istituzioni”. Vale la pena ricordare, in questi giorni di tagli e di spending review, quanto ancora affermato dalla relatrice speciale ONU contro la violenza sulle donne: “L’attuale situazione politica ed economica dell’Italia non può essere utilizzata come giustificazione della violenza su donne e bambine in questo Paese”.
Il problema, molto serio, dovrebbe essere affrontato a più livelli, soprattutto nei luoghi della formazione e dell’informazione. Siamo, infatti, indubbiamente di fronte ad una nuova e irrimandabile “questione maschile” che, in verità, rimane ancora da comprendere nel suo significato più profondo, a livello sociale, culturale ed etico.
La cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale: un messaggio devastante alimentato da una proiezione permanente di immagini, dossier, pubblicità che legittimano la violenza. Si ha l’impressione che, soprattutto in certe zone dell’Italia, persistano attitudini socioculturali inclini a “condonare” la violenza domestica. Forse è proprio da questo dato allarmante che bisogna partire per prevenire e contrastare il femminicidio.
Inutile dire che di passi avanti in questi ultimi anni ci sono stati. L’attenzione alla protezione delle donne che decidono di uscire da situazioni di violenza è sempre maggiore. Tuttavia troppe sono ancora le donne ammazzate perché è carente una reazione collettiva forte ad una cultura assassina, che riporta in auge pregiudizi e stereotipi antichissimi legati alla virilità, all’onore, al ruolo degli uomini e delle donne nella coppia e nella società.
Per sconfiggere la cultura androcentrica e patriarcale è necessaria una più ferma presa di posizione netta da parte di tutte le persone responsabili fortunatamente presenti nelle istituzioni e nella società. La violenza nei confronti delle donne deve essere considerata socialmente inaccettabile. Le nostre città devono distinguersi per come scelgono di prevenire e contrastare la violenza contro le donne e non per l’inerzia o la stanchezza con le quali, tacendo, finiscono di fatto con l’assecondarla. In questo contesto il ruolo della Chiesa è (dovrebbe essere) di assoluta importanza.
Ed allora mi chiedo e le chiedo, caro direttore: perché questo argomento non è quasi mai affrontato in ambito ecclesiale? perché la tutela della dignità della donna è per lo più ritenuta di competenza di specifiche organizzazioni sociali femminili? perché il tema della violenza domestica o dello sfruttamento sessuale della donna viene sistematicamente ignorato a livello di pastorale ordinaria? perché i presbiteri, nelle loro omelie, preferiscono per lo più “glissare” su argomenti così scabrosi? perché le nostre comunità sembrano impreparate a ripensare con coraggio la questione di genere, con una sguardo che non si fermi alla sola “questione femminile”, ma affronti anche il grande tema rimosso della “mascolinità!”?
Educare alla vita buona del vangelo non andrebbe declinato anche al femminile, se non altro per prendere atto che società civile e mondo ecclesiale hanno un debito nei confronti della donna e molto da farsi perdonare? E’ sufficiente riempirsi la bocca di proclami sulla raggiunta parità delle donne e, davanti al grido e all’urlo degli abusi compiuti a loro danno, rinunciare ad aggredire il male alla radice, non sapendo fare altro che limitarsi ad invocare misure repressive più incisive?
Friburgo, il fantasma di Martin Lutero
Preti in rivolta contro il Papa
di Marco Politi (il Fatto, 21.06.2012)
I preti tedeschi si ribellano al Vaticano. Duecento preti e diaconi della diocesi di Friburgo hanno firmato un appello su Internet, sostenendo la legittimità della comunione ai divorziati risposati. Il luogo è simbolico. La diocesi di Friburgo è retta dall’arcivescovo Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale tedesca. È come se a Genova, sede del cardinale Bagnasco presidente della Cei, duecento sacerdoti comunicassero ufficialmente di dare regolarmente l’ostia ai fedeli in secondo matrimonio.
A Friburgo i duecento contestatori dichiarano che verso i divorziati risposati bisogna usare “misericordia” e non nascondono la loro scelta: “Nelle nostre comunità i divorziati risposati prendono parte alla comunione con il nostro consenso. Sono presenti nel consiglio parrocchiale e partecipano ad altri servizi pastorali”. È una contestazione frontale delle istruzioni vaticane, ma soprattutto una rivolta contro l’inazione del pontefice che da anni - già da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede - si occupava della questione e non ha mai preso una decisione per superare un divieto, che colpisce dolorosamente proprio i fedeli più assidui.
A FRIBURGO il vicario generale della diocesi ha tentato di persuadere il clero a non firmare o a ritirare il consenso. Soltanto due dei firmatari lo hanno ascoltato. In realtà dietro l’appello c’è una galassia di preti in tutta la Germania, ma anche in tante parti del mondo. Italia compresa, dove molti parroci non infieriscono contro i divorziati risposati negando loro l’eucaristia.
Stephan Wahl, uno dei preti più noti in Germania per avere predicato il vangelo alla televisione per dodici anni nella popolare trasmissione “La parola della domenica” (Wort am Sonntag), ha commentato in maniera pregnante: “Come cattolico e come sacerdote mi è insopportabile che, secondo l’attuale normativa (ecclesiastica), è più facile che un sacerdote colpevole di abusi possa distribuire il sacramento (dell’eucaristia) piuttosto che un divorziato riceverlo”. I preti contestatori tedeschi rimarcano di essere ben consapevoli di “agire contro le norme canoniche attualmente in vigore nella Chiesa cattolica romana”, ma sostengono che in base all’attuale Codice di diritto canonico il principio supremo, a cui orientarsi, è la “salvezza delle anime”. Perciò ribadiscono: “Consideriamo urgentemente necessaria una nuova normativa canonica per i divorziati risposati”.
LO STESSO Ratzinger, da teologo, era del parere che di fronte ad un primo matrimonio “spezzatosi da lungo tempo e in maniera irreparabile”, e alla luce di una seconda unione rivelatasi negli anni un’autentica “realtà etica”, fosse giusto - su testimonianza del parroco e della comunità - “concedere la comunione a coloro che vivono un simile secondo matrimonio”. Correva l’anno 1972, quando Ratzinger difendeva tesi del genere.
Da allora il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI hanno battuto ossessivamente sul tasto dell’indissolubilità del matrimonio, rifiutando qualsiasi soluzione. Benché - come ha fatto notare lo scrittore cattolico Messori durante le giornate della famiglia a Milano, benedette dal Papa - il cattolicesimo sia l’unica tra le confessioni cristiane e le religioni mondiali a negare la possibilità del divorzio. Di una presunta “legge naturale”, in proposito, è inutile parlare.
Il presidente dell’episcopato tedesco Zollitsch, sebbene attaccato a sua volta dai preti tradizionalisti riuniti nella “Rete dei sacerdoti cattolici”, ha deciso dopo qualche esitazione di ricevere una delegazione dei contestatori. Dovrebbe accadere oggi. Un atteggiamento molto diverso da quello del cardinale Scola, il quale - come riferito dall’agenzia Adista - ha impedito nel gennaio scorso al consiglio presbiterale milanese di mettere all’ordine del giorno anche la mera analisi e discussione del tema “divorziati risposati e accesso ai sacramenti”.
Dopo un netto intervento contrario del cardinale la proposta avanzata dai sacerdoti Aristide Fumagalli e Giovanni Giavini ha ottenuto 7 sì, 13 no e 27 astensioni (segno evidente di come tanti preti attendano un cenno dall’alto per parlare finalmente liberamente). IL CASO di Friburgo è solo la punta dell’iceberg dell’insoddisfazione per lo stallo totale di ogni riforma. Si sono già mobilitati i preti austriaci con l’“Iniziativa dei parroci”. Chiedono la riforma della Chiesa, la fine del cumulo di parrocchie affidate a un solo parroco, l’accesso al sacerdozio di sposati e donne.
«Cristo è la vite, non il Vaticano». intervista a suor Gramick sul futuro delle religiose Usa
intervista a Suor Jeannine Gramick
a cura di Ludovica Eugenio (Adista- Notizie, n. 19, 19 maggio 2012)
La Curia vaticana e Benedetto XVI hanno paura «del significato dato dal Concilio Vaticano II a ciò che significa essere cattolico», della «libertà di espressione che esso comporta». Di conseguenza, hanno anche paura di permettere «alle voci critiche di essere ascoltate perché alcune di esse potrebbero legittimamente portare al cambiamento». Un cambiamento che, «nelle personalità autoritarie», fa temere di perdere «potere e controllo». In questa chiave, le suore statunitensi, prese di mira dal Vaticano con il commissariamento del loro organismo di coordinamento più importante, la Leadership Conference of Women Religious (Lcwr) (v. Adista Notizie nn. 16 e 17/12), risultano pericolose «perché forse sono l’ultimo gruppo organizzato a riflettere lo spirito conciliare di ciò che significa veramente essere Chiesa». È molto decisa suor Jeannine Gramick, dal 2001 componente della congregazione delle Sisters of Loretto, da sempre dedita al ministero rivolto alle minoranze sessuali e in tale ambito cofondatrice, insieme a p. Robert Nugent, dell’associazione New Ways Ministry, impegnata nella ricerca della giustizia sociale per gay e lesbiche.
Suor Gramick ha accettato di condividere con Adista le proprie opinioni e il proprio punto di vista sulla misura intrapresa di recente dal Vaticano e sul futuro della Lcwr, Di seguito, in una nostra traduzione dall’inglese, l’intervista che suor Gramick ci ha rilasciato.
Con il Vaticano II la Chiesa, popolo di Dio, è stata chiamata ad essere più vicina al mondo. Le religiose statunitensi hanno incarnato questo appello in un’ampia varietà di ministeri, vivendo profondamente nel mondo e ascoltando le persone che, in diversi modi, si trovano in difficoltà. Ci può dire quali tipi di ministeri si sono sviluppati?
Prima dell’inizio degli anni ’60, le religiose svolgevano il loro ruolo soprattutto come insegnanti nelle scuole o come infermiere o amministratrici negli ospedali. Dopo il Concilio Vaticano II, si sono impegnate in numerose nuove forme di ministero. Per esempio, in attività riguardanti la giustizia e la pace, per cambiare le politiche e le strutture nella società e nella Chiesa, a beneficio dei poveri e degli emarginati. Questo ruolo è stato portato avanti in un ministero di tipo politico che puntava sull’educazione e sulle pressioni, lavorando con i media, alla radio, alla tv e attraverso un ministero che si occupa di ecologia e di cura della terra. Molte religiose si sono messe a difendere le persone lesbiche e gay e per una partecipazione più piena delle donne in ogni forma di ministero ecclesiale, compresa l’ordinazione. Oltre al tradizionale ministero di servizio sociale, le suore hanno raggiunto i divorziati risposati, le prostitute, i detenuti, i senza fissa dimora e le donne maltrattate.
Il Vaticano ha accolto positivamente questa vicinanza al mondo e alle persone?
Il Vaticano non ha obiettato al fatto che le suore si facessero più vicine al mondo e alle persone, ma ha contestato le implicazioni di questa vicinanza nei ministeri non tradizionali che si occupano di politica, di sessualità o di entrambi. Per esempio, nel 1983 il Vaticano obbligò suor Agnes Mary Mansour a dare le proprie dimissioni dalla congregazione delle Sisters of Mercy a causa del suo incarico di direttore del Dipartimento dei servizi sociali del Michigan, che finanziava l’aborto per le donne povere. Nel mio caso, il Vaticano mi ha ingiunto, nel 1999, di interrompere il mio ministero pastorale rivolto ai cattolici gay e lesbiche perché avevo scelto di affermare che non condividevo la posizione tradizionale sulla moralità dell’omosessualità.
Si sono verificati numerosi casi meno noti nei quali vescovi diocesani hanno messo in pratica le posizioni vaticane. Per esempio, le religiose hanno ricevuto l’ordine di dimettersi dalla direzione di organismi che hanno a che fare con l’Hiv-Aids, perché promuovevano l’utilizzo dei condom. Alcune religiose sono state licenziate dai loro incarichi parrocchiali o diocesani perché appoggiavano l’ordinazione sacerdotale femminile.
L’attuale valutazione dottrinale della Lcwr da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (Cdf) ne costituisce un ulteriore esempio. Le due obiezioni concrete citate dalla Cdf sono state la posizione dell’Lcwr sull’omosessualità e sull’ordinazione femminile.
Il suo ministero ha portato la sua congregazione, quella della School Sisters of Notre Dame, ad escluderla perché lei aveva scelto di non obbedire al silenzio impostole, e nel 2001 è entrata nella congregazione delle Sisters of Loretto che, al contrario, l’hanno sostenuta nel suo ministero. Da allora ha più avuto problemi con il Vaticano?
Tra il 2001 e il 2009 il Vaticano ha mandato nove lettere alla presidente delle Sisters of Loretto riguardanti il mio ministero. In ognuna di esse, in sostanza, si affermava che dovevo interrompere il mio ministero a favore delle persone Lgbtq o sarei stata allontanata dalla vita religiosa. Le mie consorelle hanno scelto di non allontanarmi e, a questo punto, non l’ha fatto nemmeno il Vaticano.
Dal 1956 la Lcwr rappresenta la maggioranza delle congregazioni religiose femminili statunitensi. Quali sono state le sue maggiori conquiste, attività e interessi?
La Lcwr offre una vasta gamma di attività e programmi che sono di supporto alle superiore e sono tese al rafforzamento delle relazioni tra le componenti della Lcwr con altri gruppi importanti. Tra queste attività vi è un workshop con cadenza annuale, comprensivo di un ritiro, per le nuove leader e un manuale che aiuta a sviluppare le competenze importanti per la leadership. Produce regolarmente anche materiali scritti, come una pubblicazione trimestrale sulla giustizia sociale, un volumetto di preghiera e riflessione, un diario di Occasional Papers e informazioni su giustizia e pace.
Credo che la conquista più importante dell’Lcwr sia stata quella di aver reso tutte le religiose che vi aderiscono, ma anche un pubblico più ampio, consapevoli di ogni genere di tema che implichi la giustizia. Offre riflessioni teologiche, analisi sociali e suggerimenti per l’azione su molti temi, come la giustizia economica, la difesa dei poveri, il dialogo con l’islam e interreligioso, la pena di morte, la riforma delle politiche migratorie, il cambiamento climatico e le questioni ambientali, la riforma sanitaria, gli armamenti nucleari, la testimonianza contro la tortura, la cancellazione del debito per i Paesi impoveriti, il traffico d’organi e la militarizzazione dello spazio e molti altri temi legati alla giustizia. La lista è praticamente inesauribile.
Negli ultimi anni, le religiose sono state nel mirino del Vaticano. Oltre a singoli casi individuali, le congregazioni religiose femminili hanno subìto una visita apostolica. Lo stesso è accaduto alla Lcwr. C’è una relazione tra le due visite apostoliche? Di cosa ha paura Roma?
Non sono stata licenziata, perché la Cdf non è il mio datore di lavoro e non mi ha mai supportata finanziariamente in questo ministero. La Cdf, nel 1999, ha affermato che non avrei dovuto impegnarmi in questo ministero, ma dopo un discernimento approfondito ho concluso che Dio continuava a chiamarmi ad esso, quindi ho deciso di non cooperare con l’oppressione del silenzio. Continuo a occuparmi delle persone lesbiche e gay.
Per il resto sì, credo che ci sia un legame tra le visite alle singole congregazioni religiose e la valutazione dottrinale (o inquisizione dottrinale) dell’Lcwr, entrambe avviate all’inizio del 2009. Sono in molti a ritenere che entrambi i progetti di indagine sono stati avviati per eliminare il dissenso e spazzare via le ultime vestigia del rinnovamento portato dal Vaticano II. Nel documento che presenta il processo della visita, una delle domande poste ai leader delle comunità era: «Qual è il processo messo in atto per rispondere alle consorelle che esprimono pubblicamente o privatamente il loro dissenso dall’insegnamento autoritativo della Chiesa?».
A mio giudizio, la Curia vaticana e papa Benedetto XVI hanno paura del significato dato dal Concilio Vaticano II a ciò che significa essere cattolico. Hanno paura della libertà di espressione che esso comporta. Hanno paura di permettere alle voci critiche di essere ascoltate perché alcune di queste voci potrebbero legittimamente portare al cambiamento. Le personalità autoritarie hanno paura del cambiamento e di perdere potere e controllo. Ken Briggs, autore di Double Crossed: Uncovering the Catholic Church’s Betrayal of American Nuns (Vittime di un doppio gioco: lo svelamento del tradimento delle suore americane da parte della Chiesa cattolica, ndr), ritiene che le suore abbiano conservato più di qualsiasi altro gruppo nella Chiesa l’etica e lo spirito conciliare, nonostante una strenua opposizione da parte dei due ultimi papi. Le suore statunitensi sono pericolose perché forse sono l’ultimo gruppo organizzato a riflettere lo spirito conciliare di ciò che significa veramente essere Chiesa.
Come vede il futuro della Lcwr, alla luce della nomina di un commissario che ne riveda gli statuti e i programmi?
Penso che la Lcwr abbia due scelte: sottomettersi al controllo Vaticano o sciogliere la Lcwr e ricostituirla come organismo privo di legami con il Vaticano. Credo che la prima scelta rappresenterebbe un ripudio dei quarant’anni e più di rinnovamento nei quali le comunità religiose si sono impegnate. Bisogna ricordare che è stato chiesto alle religiose di rivalutare e aggiornare le loro comunità affinché rispondano alle esigenze dei tempi. Le religiose hanno preso sul serio questa richiesta e ora al Vaticano non piacciono i risultati. Il Vaticano vuole che le suore tornino alla vita religiosa del passato.
La storia ha dimostrato che la politica di appeasement (accomodamento, ndt) di Neville Chamberlain (primo ministro del Regno Unito dal 1937 al 1940, ndt) non ha soddisfatto i desideri di un dittatore come Hitler. La Chiesa istituzionale cattolica, come è attualmente, è uno stato totalitario religioso che dall’epoca del papato di Pio IX ha vissuto una sempre crescente centralizzazione. Il Concilio Vaticano II ha tentato di riportare la Chiesa sul binario di una comunità di credenti sulla via di Cristo, ma le forze curiali hanno cercato di far deragliare il rinnovamento negli ultimi 30 e più anni.
La seconda opzione, ritengo, rispetterebbe l’onore e l’integrità delle congregazioni religiose che hanno cercato, con la loro fedeltà, di tenere vivi i valori di una Chiesa come comunità di discepoli fedeli di Cristo. La ricostituzione della Lcwr come organismo che rispetta il Vaticano ma non abbandona nulla della propria autonomia rappresenterebbe un’applicazione del valore conciliare della sussidiarietà. Tale ricostituzione sarebbe un vantaggio per le religiose, ma anche per la Chiesa nel suo complesso. Essa affermerebbe la necessità di abbandonare un atteggiamento di obbedienza cieca a favore di una capacità decisionale morale adulta.
Fin da papa Pio IX, la Chiesa ha dato prova di un’atmosfera di infallibilità strisciante in forza della quale si partiva dal presupposto che ad ogni decisione, da parte di qualsiasi leader, accettata spesso come infallibile, si dovesse obbedire senza discutere. Il Vaticano II ha cercato di cambiare questo atteggiamento sottolineando la libertà di coscienza. Una ricostituzione mostrerebbe che la Chiesa consiste in molti rami radicati in Cristo, la vite. Il Vaticano è uno dei rami. Le singole diocesi, congregazioni religiose apostoliche, ordini monastici e contemplativi e movimenti laicali sono altri rami. Dobbiamo ricordarci sempre che Cristo, non il Vaticano, è la vite.
Non so per quale scelta opterà la Lcwr. Ha già cooperato con la Cdf nella sua investigazione dottrinale, quindi non so se l’organizzazione continuerà a collaborare nella sua oppressione invece di resistere alla presa di possesso da parte del Vaticano. Continuo a nutrire la speranza che i nuovi vertici della Lcwr siano più realistici nel constatare che si ha a che fare con il totalitarismo religioso e che esso rifiuterà la misura come intrusione indebita e come affronto alla natura profetica della vita religiosa.
In che misura questo passo del Vaticano toccherà la vita, il ministero e il ruolo delle religiose nella Chiesa Usa in futuro?
L’intervento vaticano avrà effetti enormi sulla vita, il ministero e il ruolo delle religiose negli Usa e nella Chiesa mondiale. Gli effetti dipenderanno dal corso che la Lcwr sceglierà di intraprendere. Vorrei essere ottimista e credere che la decisione della Lcwr rafforzerà non solo le religiose ma la Chiesa intera. Rifiutare garbatamente di essere dominate da un sistema patriarcale che non comprende la natura comunitaria della Chiesa significherà dimostrare che un cristiano maturo non obbedisce ciecamente agli uomini, ma segue la chiamata di Dio nella preghiera. Tale scelta dirà che non c’è bisogno di persone controllori dell’ortodossia o di inquisizioni. Tale scelta dirà che Cristo, e non il Vaticano, è la vite e noi ne siamo i rami. Tale scelta dirà che lo Spirito di Dio guida la Chiesa e che sotto questa guida non abbiamo paura. Sotto questa guida abbiamo fede e fiducia. (l. e.)
«CONTINUATE A SOSTENERE LE RELIGIOSE». APPELLO DI EX SUORE AI VESCOVI USA *
36679. NEW YORK-ADISTA. «Nessuno spazio per il dissenso; nessuna possibilità di prospettive diverse; nessun modo di impegnarsi nel dialogo su posizioni cattoliche tradizionali e spesso ristrette; in breve, le religiose devono tenersi le loro idee per loro e seguire semplicemente il dettato e la direzione di Roma, pena la censura, imbarazzo pubblico, atteggiamento oppressivo e persino potenziale espulsione». Dopo innumerevoli testimonianze di solidarietà e di appoggio cui hanno dato voce, negli Usa, media cattolici e laici, così inizia una lettera aperta che quindici ex suore statunitensi, capitanate da Helen Urbain-Majzler, direttora di un’istituzione sanitaria di carattere pubblico, hanno inviato ai vescovi del loro Paese - formalmente al card. Timothy Dolan, arcivescovo di New York, con preghiera di condividerla con i confratelli - riguardo all’attacco lanciato dal Vaticano alla Leadership Conference of Women Religious (Lcwr), l’organismo che riunisce i vertici dell’80% delle congregazioni religiose femminili, giudicati da Roma troppo liberal e femministe (v. Adista Notizie nn. 16 e 17/12 e notizia precedente).
Se la Lcwr ha mostrato sorpresa per il provvedimento romano, scrivono le ex-suore, tra le quali medici, psicologhe, docenti universitarie, educatrici, «donne come noi non si sono stupite. Tutte noi - ora ex religiose - abbiamo vissuto molti anni in comunità religiose e abbiamo sperimentato il trattamento crudele e punitivo delle religiose che hanno assunto posizioni coraggiose a livello pubblico per difendere i poveri, i più vulnerabili nella salute, e le vittime della società, tra cui gli omosessuali».
Il Vaticano, proseguono le ex-religiose, non ha riconosciuto i cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella società americana negli ultimi 40-50 anni, nella quale le forze cattoliche, un tempo maggioritarie, hanno lasciato il posto al pluralismo culturale, ma anche religioso; nella quale il cattolicesimo obbediente e mansueto del passato è in gran parte scomparso e numerosissimi sono i fedeli che hanno deciso di abbandonare la Chiesa. «Per molti cattolici adulti - scrivono le suore - le riforme del Vaticano II, così come il divieto della contraccezione naturale da parte della Chiesa, gli scandali degli abusi sessuali, le coperture della gerarchia, hanno cominciato a intaccare l’obbedienza cieca di molti fedeli. Di sicuro, i vescovi americani sono consapevoli del fatto che l’87% dei cattolici si oppone alla proibizione papale della contraccezione artificiale. Forse il Vaticano non ha capito che la cultura occidentale pone più enfasi sulla responsabilità personale».
Anche le superiore delle congregazioni religiose si sono trovate immerse in questa trasformazione e hanno dovuto fare i conti con le mutate esigenze delle donne che facevano parte delle loro congregazioni, nonché pubblico al quale rivolgevano il loro ministero, ma questo cambiamento «non ha messo in discussione l’orientamento spirituale e la fede in Dio», poiché «dottrina e ministero sono questioni separate». Il problema, semmai, è che non si comprende «perché il Vaticano trovi così difficile permettere un dialogo sincero e aperto sul futuro della Chiesa, sulla spiritualità, sulle priorità ministeriali, senza ingenerare paura di un’azione punitiva». E «solo le organizzazioni più repressive e autocratiche temono l’apporto sincero e onesto dei loro membri. Che cosa esprime questo aspetto riguardo all’autorità della Chiesa e alla relazione con le donne, che hanno offerto migliaia di anni di servizio dedicato, coerente e fedele?».
Le suore firmatarie della lettera affermano che l’impatto personale del provvedimento sulle suore della Lcwr, a molte delle quali sono legate da rapporti di amicizia, è stato pesante. «Speriamo che la Conferenza episcopale statunitense mantenga un atteggiamento di apertura mentale e di cuore nei confronti delle leader religiose, e continuino ad apprezzare e promuovere i loro numerosi doni, invece di supportare con atteggiamento mite e obbediente il Vaticano nel mettere al silenzio questa voce dello Spirito nella chiesa di oggi. Speriamo - è la loro conclusione - che abbiate il coraggio di fare la cosa giusta per le donne, anche se non siamo del tutto fiduciose nel fatto che ciò avverrà. Molte di noi hanno lasciato la propria comunità religiosa per il modo in cui le donne venivano trattato. La Chiesa, purtroppo, mostra ancora di avere paura e di volersi difendere dalla nostra influenza. Come potrà sopravvivere la Chiesa se continua a ignorare o a soggiogare metà della popolazione mondiale?».
Nel frattempo si sono moltiplicate, in numerose città statunitensi, veglie di preghiera e di sostegno alle religiose nonché manifestazioni di protesta; per il 29 maggio è stata programmata una grande manifestazione di supporto a Oakland, in California. È stato inoltre lanciato in tempi record un sito, www.nunjustice.org sul quale è possibile, tra l’altro, sottoscrivere le petizioni di sostegno. (ludovica eugenio)
* Adista Notizie, n. 19, 19/05/2012
Chi disobbedisce a chi?
di Patrick Royannais, prete
in “La Croix” del 13 maggio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Durante l’ultima messa crismale, Benedetto XVI ha fatto riferimento all’appello lanciato da più di trecento preti austriaci un anno fa relativo all’urgenza delle riforme nella Chiesa: “Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero - ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore.”
Benedetto XVI riconosce che questi preti vogliono servire la Chiesa ma si interroga sull’opportunità della disobbedienza, e lo possiamo capire. Ma, disobbedienza a chi? A Cristo? Non sembra si tratti di questo. Certo - in maniera fallace o per mancanza di rigore - il papa oppone “la conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento” e “la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee”. Disobbedienza alla Chiesa? Non viene detto. La controversia riguarderebbe solo un punto, del resto discusso, dell’insegnamento di Giovanni Paolo II.
Che cosa dice la Chiesa? Chi non le è fedele? In che cosa? In quale ambito culturale o intellettuale bisogna trovarsi per pensare che, dato che il capo ha parlato, quello che ha detto è automaticamente vero? Nessun gruppo, nessuna persona, neppure il capo, può pretendere di detenere l’ultima parola della verità. Siamo lasciati al conflitto delle interpretazioni, non che si possa dire qualsiasi cosa o che la verità sia soggettiva, ma nulla garantisce in maniera definitiva qualsiasi interpretazione. Fragilità, recentemente riconosciuta, ma non nuova, della verità espressa in linguaggio umano. Inoltre, occorre ricordare che il capo della Chiesa cattolica non è il papa, ma Cristo? Questo evita di fare del governo del papa un regime politico mondano e permette di sottolineare, con l’ultimo concilio, che ogni discepolo è in ascolto della Rivelazione alla quale, magistero compreso, vuole obbedire.
“Il magistero non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola” (Dei Verbum, n° 10).
Il papa e i preti austriaci ascoltano la parola del Signore, ma non comprendono la stessa cosa, almeno in punti molto periferici benché decisivi nel comportamento della Chiesa. Non può essere rimesso in discussione il loro attaccamento comune a Cristo che rivela nello Spirito la paternità di Dio; o alla Chiesa, che riceve missione di far risuonare la parola di Gesù e di lodare il Padre per i segni del Regno che germinano nel mondo; o alla forma storica della Chiesa cattolica in particolare nella sua strutturazione sacramentale del ministero.
Il conflitto delle interpretazioni deriva dal contraccolpo creato dalla secolarizzazione e dalla crisi delle istanze di verità o, in altri termini, dalla presa di coscienza della storicità della verità. Per essere fedeli all’insegnamento della Chiesa, non basta ripetere sempre la stessa cosa. Con il tempo, le stesse parole, le stesse pratiche hanno sensi diversi, di modo che chi si limita a ripetere, diventa inevitabilmente infedele. Per questo bisogna continuamente commentare le Scritture, commentare il Credo, reinterpretare la Tradizione della Chiesa, reinventare l’azione pastorale. La Chiesa ha sempre innovato per essere fedele alla sua tradizione e alla sua missione.
Quindi ci sono interpretazioni diverse o conflittuali tra quei preti e il papa. Ma quando chi ha l’autorità parla di disobbedienza, passa da un conflitto delle interpretazioni alla denuncia e all’esclusione di una posizione. Benedetto XVI pretende di chiudere il dibattito, ricorrendo de facto all’argomento d’autorità che la grande tradizione ha sempre contestato: “Al di sopra del papa in quanto espressione dell’autorità ecclesiale, c’è la coscienza alla quale bisogna innanzitutto obbedire, se necessario anche contro le richieste dell’autorità della Chiesa” (J. Ratzinger). Parlare di disobbedienza invece di ammettere la contingenza, l’indefinito conflitto delle interpretazioni, significa confiscare l’autorità e la verità. L’infallibilità papale non può legittimare l’argomento di autorità. Anche con la voce più dolce e lo spirito più umile che nessuno contesta a Benedetto XVI, potrebbe darsi che ci troviamo di fronte ad un abuso di potere. Chi disobbedisce a chi?
I cattolici americani si mobilitano per le loro religiose
di Céline Hoyeau
in “La Croix” del 10 maggio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Da Boston a Seattle, da Los Angeles a Washington, davanti alle cattedrali di una quindicina di metropoli americane, martedì sera sono cominciate delle veglie di preghiera e delle manifestazioni che dureranno fino alla fine del mese. “Vogliamo mostrare il vasto sostegno di cui godono le religiose negli Stati Uniti e invitare il Vaticano ad abrogare la dichiarazione critica nei loro confronti”, spiega Jim Fitsgerald del Nun Justice Project, una rete di associazioni cattoliche creata per sostenere la Leadership Conference of Women Religious (LCWR).
Un mese fa, la Congregazione per la dottrina della fede ha chiesto, con l’approvazione di Benedetto XVI, una riforma completa di quell’organismo che rappresenta l’80% delle 57000 religiose americane, ritenendo che le sue prese di posizione dottrinali siano “un argomento di preoccupazione serio e grave”, e facendo riferimento ad un femminismo radicale. Questa decisione ha suscitato la collera di migliaia di cattolici che non comprendono che ce la si possa prendere con delle religiose impegnate a tutti i livelli nella sanità, nell’istruzione, nell’aiuto ai più deboli...
Circolano molte petizioni, una delle quali, sul sito change.org ha già raccolto più di 40 000 firme. In questo dibattito virulento e molto polarizzato, molti non esitano ad opporre senza mezzi termini queste “pioniere della giustizia”, queste “avvocate della pace” al Vaticano e ai vescovi americani accusati di volerle ridurre al silenzio. L’articolo di Nicholas Kristof, famoso giornalista americano, sul New York Times del 28 aprile, riassume questo clima: “Sono le persone più coraggiose, più solide, più ammirevoli del mondo. Durante i miei viaggi ho visto delle religiose eroiche sfidare i signori della guerra, i protettori di prostitute e i banditi. Perfino quando i vescovi sono stati la vergogna della Chiesa coprendo gli abusi sui bambini, le religiose l’hanno riscattata con il loro umile lavoro a favore dei più bisognosi.”
L’associazione Share el Salvador, che ha beneficiato dell’appoggio delle suore negli anni ’80 per l’accoglienza dei rifugiati salvadoregni, coordina una campagna nazionale di raccolta di firme: “Riaffermiamo il nostro amore e la nostra gratitudine, scrivono, per le migliaia di religiose che negli Stati Uniti hanno servito i poveri, curato i malati, accolto i senzatetto, istruito i nostri figli, cercato la pace invece della guerra (...). Rifiutiamo la rivendicazione di certi vescovi di essere l’autorità ultima e i soli arbitri della verità.”
Questo braccio di ferro ha radici molto profonde. Se la LCWR è stata fondata nel 1956 per “facilitare la comunicazione tra il Vaticano e le religiose”, a partire dal 1971, quando ha riscritto i suoi statuti, ha avuto un’evoluzione diventando “un’organizzazione indipendente, professionale, con una propria agenda”, dichiara la giornalista Ann Carey, che ha pubblicato nel 1997 uno studio documentato su Le Suore nella crisi. Secondo lei, molte sono andate oltre rispetto a quello che preconizzava il Concilio. La loro “esperienza vissuta” sul campo è diventata per molte “un riferimento teologico più importante delle voci ufficiali del magistero della Chiesa”.
Ad esempio, nel 2006, le benedettine di Madison (Wisconsin) sono state sciolte dai loro voti per trasformare il loro monastero in un centro ecumenico, dove vivono suore di diverse confessioni. Non vi si celebra più la messa, ma dei culti nel corso dei quali si è invitati a “condividere il pane di vita attorno alla tavola comune”... George Weigel, storico della Chiesa, scrive che in molti casi “la loro vita spirituale è influenzata più da Enneagramme e da Deepak Chopra (NDLR: figura dello sviluppo personale) che da Teresa d’Avila e da Edith Stein, che le loro nozioni di ortodossia sono, per esprimersi gentilmente, innovatrici, e che la loro relazione con l’autorità della Chiesa può essere descritta come un disprezzo appena mascherato.”
A diverse riprese, il Vaticano ha inviato degli avvertimenti alle religiose americane. Nel 1992, una parte delle suore ha lasciato la LCWR e creato un gruppo alternativo, il Consiglio delle superiori maggiori delle religiose (CMSW). Un nuovo avvertimento è stato inviato dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 2001. In particolare il Vaticano metteva in discussione gli incontri annuali della LCWR in cui venivano invitati relatori le cui posizioni etiche erano divergenti rispetto a quelle del Magistero della Chiesa. “La Congregazione per la dottrina della fede può aver ricevuto lettere individuali di religiose contestatrici, ma la LCWR, in quanto organizzazione, non ha mai preso ufficialmente posizione contro l’insegnamento della Chiesa”, dichiara padre Thomas Reese, ex redattore capo della rivista America. “Certe suore sono forse andate un po’ troppo in là, ma per la stragrande maggioranza si tratta di persone buone che non fanno altro che cercare di applicare il Vangelo nel quotidiano, e sono rimaste profondamente legate alla Chiesa cattolica. Anche sulla riforma sanitaria di Obama, che comprende il finanziamento dell’aborto e della contraccezione, è vero che alcune religiose si sono opposte ai vescovi, ma non per i contenuti, bensì per la forma.”
Andando più a fondo, si tratta di un “conflitto di potere”, secondo il gesuita. Di fatto, le religiose americane oggi sono piene di diplomi e lauree e dirigono università, ospedali, servizi diocesani, con la levatura di PDG (Presidenti Direttori Generali) di grandi imprese. “Sono donne brillanti, che da decenni si sono specializzate nelle questioni sociali, di istruzione, ecc. I vescovi non devono dire loro ciò che devono pensare”, ritiene padre Reese. Intervistata recentemente dalla Radio pubblica nazionale, Suor Simone Campbell confermava: “Pio XII ha ordinato alle religiose di istruirsi in teologia. Lo abbiamo preso sul serio e lo abbiamo fatto. Ed ora, cercano di modellarci secondo quanto pensano che dobbiamo essere, senza rendersi conto che noi siamo state fedeli all’appello per tutto il tempo.”
Contro il femminicidio migliaia di firme
«È una strage, ora basta»
All’appello delle donne risponde il web compatto. E moltissimi uomini ai quali si chiede di non essere complici della mattanza.
Aderiscono, tra gli altri, Camusso, Bersani, Finocchiaro, Saviano e il direttore dell’Unità Sardo
di Daniela Amenta (l’Unità, 29.04.2012)
Telefono Rosa. «Il volontariato non può sostenere da solo questa battaglia» I numeri dell’orrore. La violenza maschile in Italia è la prima causa di morte
Cinquantaquattro con Vanessa dall’inizio dell’anno. Una media aberrante, tragica. Un mattatoio. Il mattatoio delle donne in Italia. Cinquantaquattro in quattro mesi. Massacrate, stuprate, violate, uccise. Uccise da uomini che conoscevano. L’Orco difficilmente è lo sconosciuto incontrato per strada o in Rete. E’ in casa l’Orco, il Barbablù, l’assassino. È l’ex che non ci sta, è il fidanzato geloso, è il marito violento.
Sempre lo stesso rituale. Sempre le stesse vittime. Cambiano nomi, luoghi, situazioni, ma le vittime sono sempre le stesse. Hanno gli occhi scuri di Vanessa, 21 anni di Enna, i capelli chiari di Edyta massacrata il giorno di San Valentino a Modena, il sorriso di Stefania ammazzata dal fidanzato che «l’ amava più della sua stessa vita».
Le donne hanno detto basta mille volte, un milione di volte. Sono scese in piazza, hanno trovato la chiave di lettura per il femminismo del terzo millennio grazie alle mobilitazioni di Se non ora quando, alla denuncia di Lorella Zanardo attraverso Il corpo delle donne, alle inchieste, alle manifestazioni. Eppure, eppure sembra non bastare mai. Per questo, dopo la morte assurda di Vanessa, parte un nuovo appello che chiede agli uomini di non essere complici di questa strage, e alle donne di tenere altissima l’attenzione. Serve, in questo nostro Paese, una rivoluzione che rimetta le donne al centro della comunità, restituendo loro rispetto e dignità.
Un appello lanciato da Snoq, Zanardo, Loredana Lipperini e che potete firmare anche sul nostro sito, unita.it. Hanno già aderito in migliaia. Dalla leader Cgil Susanna Camusso al segretario Pd Pier Luigi Bersani che su Twitter scrive: «Si uccidono le donne. Le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene, di fare qualcosa per stroncare la barbarie». Migliaia di firme: da Roberto Saviano a Renata Polverini, da Beppe Vacca ad Anna Finocchiaro, da Vendola all’Idv, dal direttore dell’Unità Claudio Sardo al presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, che spiega: «Come uomo penso sia necessario impegnarmi affinché questa violenza persecutoria possa arrestarsi».
Una sequenza di nomi: lo stesso , lo stesso sgomento per commentare il femminicidio. Un neologismo, coniato nel 2009 per la condanna del Messico alla Corte interamericana dei diritti umani dopo morte di 500 donne e la scomparsa di altrettante a Ciudad Juarez. Dallo scorso otto marzo questa parola lugubre e drammatica è stata usata anche per il nostro Paese da Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne. «È la prima causa di morte in Italia perledonnetrai16ei44anni».Il femminicidio indica «ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto donna». Psicologica, sociale, fisica, fino alla morte: una violenza continua che in Italia continua a mietere vittime per «fattori culturali», quando si considera la donna come un oggetto di proprietà e chiunque «padre, marito e figli» decidono della sua vita. «Con dati statistici che vanno dal 70% all’87% la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane» ha detto Rashida Manjoo.
E intanto le donne continuano a morire. Solo il 10% ha la forza di denunciare molestie e abusi. Perché non è facile sfuggire allo stalking, alla violenza. Anzi, diventa un calvario se si hanno figli. Esistono, è vero, residenze protette ma sono poche, gestite con un residuo di fondi. Una piaga mostruosa lasciata in mano al volontariato, soprattutto. Per questo Maria Gabriella Moscatelli presidente di Telefono Rosa, la storica associazione contro la violenza sulle donne, ha scritto al premier «Chiediamo al governo di farsi carico di questa situazione intollerabile. Servono risorse economiche e una Commissione straordinaria per fronteggiare questa tragedia. Sono queste le due condizioni senza le quali nessuna azione può realmente portare a dei risultati». Per la presidente «è evidente che strumenti, risorse e azioni al momento in atto non siano sufficienti». Fondi, certo. E leggi. E impegno. Perché le donne non siano lasciate sole. Soprattutto serve una rivoluzione culturale. Ma bisogna fare in fretta. Subito.
I maschi padroni delle nostre vite
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 29.04.2012)
E va bene, aderiamo all’appello; e poi? Siamo d’accordo, lo sono tutti, chissà, anche quell’uomo sconosciuto e adesso certo del suo equilibrio che magari tra mesi o anni strangolerà furibondo una moglie disubbidiente e in fuga. Ascoltate le donne di "Se non ora quando".
E su Twitter una valanga di femmine e maschi, il femminicidio riguarda la politica, è la politica che deve intervenire. Per impedire che in Italia le donne continuino a crepare per il solo fatto di essere donne: nel 2006 gli uomini ne hanno uccise 101, nel 2007 107, nel 2008 112, nel 2009 119, nel 2010 120, nel 2011 137; e nel 2012 le donne ammazzate sono già 54. Ammazzate soprattutto da mariti o ex mariti, da conviventi o ex conviventi, da innamorati respinti: il 70 % delle assassinate erano italiane, il 76 % degli assassini sono italiani.
Ma quanti articoli arrabbiati abbiamo scritto, quanti appelli sdegnati abbiamo firmato, ad ogni efferata, cieca, mortale vendetta di un uomo che ammazza la sua donna "per troppo amore", negli ultimi decenni? Quante volte il cronista, preso dall’idea che la passione giustifica tutto, ammanta le coltellate, le randellate, come sì certo era meglio che no, ma si sa, un uomo innamorato poverino, si acceca e chissà quanto era stato provocato. E giù il passato della morta, a scovarne, storie e possibili deviazioni, in più, meticolosa descrizione del povero cadavere, possibilmente con foto dei poveri resti.
C’è una misteriosa, segreta abitudine italiana di considerare le donne come gran brave persone certo, con gli stessi diritti certo, ma diverse, nel senso di un po’ ambigue, e sempre un po’ colpevoli: dall’aver lasciato scuocere la pasta a volersene andare, sfuggendo, meglio tentando di sfuggire a un ordine, a una consuetudine, a una sudditanza, in qualche modo disubbidendo a un uomo che, proprio perché sempre più fragile e insicuro, spaventato da quella persona che lo giudica e gli si oppone o addirittura non ne vuole più sapere, sente il bisogno di prevaricare, di essere riconosciuto come maschio, quindi come padrone.
Guai a dirlo, ma è così: del resto il famoso delitto d’onore, pare impossibile, è stato cancellato dalla nostra legislazione solo nel 1981. E la legge che condannava alla galera la traditrice (ma non il traditore), è stata abrogata del tutto nel 1969.
Quando, alla fine degli anni ’60, cominciarono i processi per stupro, perché finalmente le ragazze superando la vergogna personale e il disprezzo popolare, osavano denunciare il loro stupratore, bisognava sentire gli avvocati in difesa del ragazzone stupratore, come infierivano sulla "colpevole", chiedendo conto del passato della sua verginità, e che mutande portava, e perché non si era comportata come Maria Goretti, per non parlare delle mamme dei maschi "vittime" di quella sporcacciona, a lacrimare, a raccontarne l’indole pia e innocente.
Certo il paese è cambiato, la giustizia pure, ma gli uomini e la loro idea di potere legata al sesso, meno: in guerra lo stupro di massa fa parte del conflitto, in pace la donna continua ad essere una preda: la ventenne rapita e torturata da omacci l’altra sera a Voghera, gli episodi milanesi di una madre violentata in un parco in pieno giorno, di ragazze palpeggiate in metropolitana, continuano la storia del corpo della donna disponibile al desiderio di qualunque maschio, come un oggetto tra l’altro senza valore, usabile, deteriorabile.
Anche qui, siamo nella tradizione: da ragazze, noi vecchiette di oggi, sapevamo che in tram saremmo state palpate, pizzicate, che una mano, ed altro, si sarebbero appiccicati al nostro sedere. Si diventava rosse e si stava zitte, e ci si rassegnava all’odiosa imposizione. E quando adolescenti tornando in pieno giorno da scuola, c’era sempre in un angolo un signore con la patta aperta, tanto così per mostrare con orgoglio le sue virtù virili? Anche lì zitte, come se in qualche modo fosse colpa nostra.
Sono storie lontane, ormai ridicole, e fortunatamente oggi una palpata non richiesta viene denunciata, suscita l’indignazione di massa e uno stupratore rischia anni e anni di galera. A beccarlo naturalmente. Perché ciò che indigna di più della violenza misogina, e ovviamente ancor più della vita strappata a tante donne, è che troppo spesso non si trova il colpevole: il fidanzato? Forse. Il compagno? Potrebbe essere. L’ex marito? Chissà. Ci sono ammazzamenti di donne che rendono furibonda la televisione che mette in piedi a ogni ora dibattiti infuocati, presente anche il sospettato autore del delitto. Poi ci si stufa e non se ne parla più, né interessa sapere se poi il delinquente è stato trovato o se invece si è condannato un innocente.
Ai processi qualche volta ci si arriva, ma poi, come nel "delitto di via Poma", la condanna era ingiusta, il condannato innocente viene giustamente liberato, e intanto, ancora una volta resta impunito l’omicidio di una povera giovane bella ragazza di cui a fatica ormai ci ricordiamo il nome. Le donne ammazzate, diventando una notizia troppo frequente, finiscono col meritarsi ormai poche righe frettolose, oppure ne scrivono solo i giornali di provincia, a meno che la storia sia particolarmente efferata o se appunto qualcuno, donne, si stufa e si ribella. E propone un appello: certo che in tanti si aderisce all’appello affinché la strage finisca. Ma la domanda che per ora non ha risposta è: perché questa strage? Perché ancora è così difficile per un uomo, non necessariamente un criminale, sarebbero troppi, accettare la libertà della donna, l’integrità del suo corpo, la sua volontà, le sue scelte? Perché la sua difesa troppo spesso è solo la violenza? Perché? Ma se lo chiedono gli uomini, tutti quanti, anche i più irreprensibili, e generosi, e ahi! innamorati?
Donne e ministeri da segno dei tempi a indice di autenticità
di Lilia Sebastiani
in “Viandanti” (www.viandanti.org) del 10 marzo 2012
Nell’enciclica ‘conciliare’ Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) al n.22 l’ingresso crescente delle donne nella vita pubblica veniva annoverato tra i segni dei tempi, insieme alla crescita delle classi lavoratrici (n.21) e alla fine del colonialismo (n.23).
Ricordare l’enciclica è doveroso, per il valore storico di questo semplice e cauto riconoscimento: infatti è la prima volta che un documento magisteriale rileva la cosiddetta promozione della donna senza deplorarla - anzi come un fatto positivo. I segni dei tempi sono ancora al centro della nostra attenzione, ma per quanto riguarda le donne la questione cruciale e non ignorabile è ormai quella del loro accesso al ministero nella Chiesa, a tutti i ministeri.
Venerande esclusioni
Certo il problema dei ministeri non è l’unico connesso con lo status della donna nella Chiesa, ma senza dubbio è fondamentale; guardando al futuro, è decisivo. Non solo e non tanto in se stesso, ma per la sua natura di segno.
In questo momento nella Chiesa la donna è ancora esclusa dai ministeri ecclesialmente riconosciuti: non solo da quelli ordinati (l’Ordine sacro, cioè, nei suoi tre gradi: episcopato, presbiterato, diaconato) ma anche da quelli istituiti, il lettorato e l’accolitato. Questi ultimi, chiamati un tempo “ordini minori” e considerati solo tappe di passaggio obbligatorie per accedere all’ordinazione, furono reintrodotti nel 1972 da Paolo VI (Ministeria quaedam) come “ministeri istituiti” - per distinguerli da quelli ordinati, mantenendo però l’elemento della stabilità e del riconoscimento ecclesiale - e furono aperti anche a laici non incamminati verso l’Ordine; tuttavia si specificava chiaramente che tali ministeri erano riservati agli uomini, “secondo la veneranda tradizione della chiesa latina”.
Un po’ più recente l’istituzione dei “ministri straordinari dell’Eucaristia”: con prerogative non molto diverse da quelle degli accoliti, questi possono essere anche donne. E di fatto sono più spesso donne che uomini. Un passo avanti, forse? Certo però la dichiarata ‘straordinarietà’ sembra messa lì a ricordare che si tratta di un’eccezione, di una supplenza..., di qualcosa che normalmente non dovrebbe esserci.
A parte i servizi non liturgici ma fondamentali, come la catechesi dei fanciulli, quasi interamente femminile, e le varie attività organizzative e caritative della parrocchia, le letture nella Messa vengono proclamate più spesso da donne che da uomini; ma si tratta sempre e comunque di un ministero di fatto, che in teoria sarebbe da autorizzare caso per caso, anche se poi, di solito, l’autorizzazione viene presunta.
Il Concilio e l’incompiuta apertura
Il problema dell’accesso femminile ai ministeri è diventato di attualità nella Chiesa nell’immediato post-concilio, nel fervore di dibattito che caratterizzò quell’epoca feconda e rimpianta della storia della Chiesa. Il Vaticano II aveva mostrato una notevole apertura sulle questioni che maggiormente sembravano concernere il problema della donna in generale e della donna nella Chiesa in particolare. Sulle questioni più specifiche e sul problema dei ministeri i documenti conciliari erano generici fino alla reticenza, ma senza chiusure di principio. Ciò autorizzava a sperare nel superamento, non proprio immediato ma neppure troppo lontano, di certe innegabili contraddizioni che persistevano sul piano disciplinare. Inoltre altre chiese cristiane avevano cominciato da qualche anno, certo non senza resistenze anche aspre, a riconsiderare e a superare gradualmente il problema dell’esclusione (a nostra conoscenza, la chiesa luterana svedese fu la prima ad ammettere donne al pastorato, nel 1958)
.Una chiusura fragile
Nel decennio che seguì il Concilio, il dibattito in proposito fu intenso. La Chiesa ufficiale mantenne però una posizione di cautela e di sostanziale chiusura sempre più netta, che culminò - volendo chiudere la questione una volta per sempre - nella dichiarazione vaticana Inter insigniores, che è della fine del 1976, ma resa pubblica nel 1977.
In questo documento l’esclusione delle donne dal ministero ordinato veniva ribadita con caratteri di definitività vagamente ‘infallibilista’, ma anche con un significativo mutamento di argomentazione, che ci sembra importante poiché dimostra che l’esclusione è un fatto storico-sociologico in divenire e non un fatto teologico-sacramentale. Non si dice più, come affermava Tommaso d’Aquino, che la donna è per natura inferiore all’uomo e quindi esclusa per volere divino da ogni funzione implicante autorità; si richiama invece l’ininterrotta tradizione della Chiesa (che è evidente, ma è anche evidentissimo portato della storia e delle culture) e soprattutto la maschilità dell’uomo Gesù di Nazaret, da cui deriverebbe la congruenza simbolica della maschilità del prete che, presiedendo l’assemblea, agisce in persona Christi.
Quest’ultimo argomento fragile e sconveniente è stato lasciato cadere, infatti, nei pronunciamenti successivi: questi si rifanno solo alla tradizione della Chiesa e a quella che viene indicata come l’esplicita volontà di Gesù manifestata dalla sua prassi.
Anche questo argomento non funziona. Gesù, che non mostra alcun interesse di tipo ‘istituzionale’, alle donne accorda, con naturalezza, una piena parità nel gruppo dei suoi seguaci. Sembra insieme scorretto e pleonastico dire che “non ha ordinato nessuna donna”, dal momento che, semplicemente, non ha ordinato nessuno. Non vi è sacerdozio nella sua comunità, ma servizio e testimonianza, diakonìa non formalizzata - eppure rispondente a una chiamata precisa - che, prima di essere attività, è opzione fondamentale, stile di vita, sull’esempio di Gesù stesso “venuto per servire”.
Nel Nuovo Testamento di sacerdozio si può parlare solo in riferimento al sacerdozio universale dei fedeli (cfr 1 Pt 2,9; Ap 1,6), negli ultimi decenni tanto rispettato a parole quanto sfuggente e ininfluente nel concreto del vissuto ecclesiale; oppure in riferimento all’unico sacerdote della Nuova Alleanza - sacerdote nel senso di mediatore fra Dio e gli esseri umani -, Gesù di Nazaret (cfr Ebr 9), il quale nella società religiosa era un laico, oltretutto in rapporti abbastanza conflittuali con il sacerdozio del suo tempo.
Un’esclusione che interpella tutti
Vi sono due fatti, molto modesti ma significativi, che aiutano a tenere viva la speranza. Il primo, che i pronunciamenti dell’autorità ecclesiastica volti a chiudere ‘definitivamente’ la questione sono diventati abbastanza ricorrenti, il che dimostra che non è poi tanto facile chiuderla. Il dibattito è aperto e procede. Il secondo, che l’argomentazione teologica sembra cambiata ancora: felicemente sepolto l’infelicissimo argomento della coerenza simbolica, già pilastro dell’Inter insigniores, si richiama solo la prassi ininterrotta della chiesa romana e sempre più spesso si sente riconoscere, anche dalle voci più autorevoli, che contro l’ordinazione delle donne non ci si può appellare a ragioni biblico-teologiche.
No, non si tratta di banali rivendicazioni. L’esclusione interpella tutti: nessuna/nessun credente adulto può disinteressarsi di questo problema chiave finché le donne nella chiesa non avranno di fatto le stesse possibilità degli uomini, la stessa dignità di rappresentanza.
E’ necessario ricordare che vi sono donne cattoliche di alto valore e seriamente impegnate - tra loro anche alcune teologhe - che a una domanda precisa sul problema dei ministeri istituiti rispondono o risponderebbero più o meno così: no grazie, il sacerdozio così com’è proprio non ci interessa. E’ un atteggiamento che merita rispetto: almeno in quanto manifesta il timore che insistere troppo sul tema dell’ordinazione induca ad accentuare l’importanza dei ministri ordinati nella Chiesa (mentre sarebbe urgente semmai ridurre quell’importanza, insomma ‘declericalizzare’).
Ma dobbiamo ricordare che il “sacerdozio così com’è”, nella storia e nella mentalità corrente, si fonda proprio sulla ‘separazione’, sullo spirito di casta, sul sospetto previo e sul rifiuto nei confronti della donna, che nella chiesa di Roma si esprime in una doppia modalità: l’esclusione delle donne dalle funzioni di culto, di governo e di magistero, è parallela all’obbligo istituzionale di essere “senza donna” per coloro che le esercitano. Il divieto per le donne di essere ministri ordinati el’obbligo per i ministri ordinati di restare celibi sembrano due problemi ben distinti, mentre sono congiunti alla radice. E ormai sappiamo che potranno giungere a soluzione solo insieme.
Segno dei tempi, certo. Segno di trasformazione, segno contraddittorio, segno incompleto, proprio come il tempo in cui viviamo. Per quanto riguarda la chiesa cattolica, però, non solo segno, ma indice di autenticità. Non temiamo di dire che sulla questione dei ministeri, che solo a uno sguardo superficiale o ideologico può apparire circoscritta, si gioca il futuro della chiesa.
Lilia Sebastiani
Teologa
Per un 8 marzo nella Chiesa
di Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 7 marzo 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Buona festa a voi, donne della Chiesa, in questo 8 marzo 2012, giornata internazionale delle
donne! Attraverso una serie di contributi diversi, il Comité de la Jupe denuncia fermamente la
dominazione maschile in una istituzione che costantemente umilia la metà dell’umanità.
“Il Comité de la Jupe ha già ampiamente denunciato, da un lato la discriminazione fobica di cui
sono vittime le ragazze e le donne nella liturgia - anche per la predicazione e per l’accesso al
ministero ordinato - dall’altro il tentativo di dominio sul corpo delle donne che l’istituzione perpetua
giudicando l’esercizio della sessualità e demonizzando la teoria del genere.
È urgente proseguire, denunciando, ad esempio:
un linguaggio che, in buona coscienza, impone il maschile come definizione di tutto l’umano;
l’uso ricorrente del singolare “la donna” come se esistesse un modello unico;
l’esaltazione di una figura mariana eterea, vergine e condiscendente a tutto ciò che viene dal
modello paterno clericale;
il quasi generale dominio degli ordini religiosi monastici maschili sulle branche femminili.
Sì, la Chiesa non fa meglio degli altri: ha le sue proletarie, quelle “manine laboriose”, quelle
domestiche per tutti i servizi, quel corpo che non vuole vedere. Il suo corpo che offende ogni
giorno.
Allora, donne e uomini, apriamo gli occhi, curiamo la nostra Chiesa denunciando quello che le fa
male. La nostra parola - la sua - non le fa che bene.”
(Anne Soupa)
“Un giorno un vescovo mi confidava quanto le donne nella vita politica avessero difficoltà nel conquistarsi uno spazio. Lo deplorava sinceramente. Maliziosamente, gli ho fatto notare che, almeno, anche se è difficile, nella società civile le donne potevano essere ministri! La mia riflessione lo ha lasciato senza parole! La Chiesa cattolica romana si priva così di tesori di fede, di energia, di competenza, escludendo le donne dai ministeri ordinati. Essa giustifica così una visione del femminile che non può che essere in posizione di ricezione e non di iniziativa, una visione del femminile che non può rappresentare l’iniziativa di Dio. Così facendo, e benché il discorso ufficiale lo neghi, essa giustifica, nei fatti, un posto di second’ordine per le donne. Quando usciremo da questo immobilismo?” (Sr. Michèle Jeunet, rc)
“Padre Moingt, in un articolo su Etudes, esprimeva la preoccupazione per la disaffezione delle donne rispetto alla Chiesa, allontanate dagli altari e umiliate. È ancora peggio. Tristezza fondamentale nel constatare che il dominio maschile è onnipresente e che è peggiore nella religione, perché viene fondato su giustificazioni teologiche che fanno passare le discriminazioni per volontà divina. La tendenza recente di affidare ai soli uomini o ragazzi maschi le letture liturgiche mi sembra un provvedimento inverosimile: ingiustizia enorme nei confronti delle donne e cieca di fronte al modo di funzionare delle società moderne. Oggi, la pratica religiosa si accompagna troppo spesso per me ad un sentimento di alienazione. Esperienza quanto mai dolorosa!” (Sylvie)
“Trent’anni fa, infastidita dai singolari su “La” Donna e la sua vocazione, avevo scritto un articolo“Donne e Chiesa: un amore difficile!”. A distanza di trent’anni, dopo che molte mie contemporanee hanno lasciato la Chiesa in punta di piedi, dovrei scrivere: “Donne e Chiesa: un disamore consumato.” Emorragia annunciata, proposta fatta di istituzionalizzare i servizi delle donne nella Chiesa: donne cappellane, diaconesse, e perché no, preti. Un sistema obsoleto, unito ad un discorso unisex sulla sessualità, è tuttavia continuato. Delle teologhe come France Quéré hanno allora spalancato la porta di una parola sul ruolo decisivo delle donne bibliche nella Rivelazione, non guardiane di un Tempio intoccabile, ma vettori irrinunciabili della Speranza cristiana in un mondo in trasformazione. Al fiat di Maria “celestificata” ad vitam, successe la valorizzazione di Maria radicata, contestatrice dell’ordine stabilito maschile, che ha visto la miseria di un popolo maltrattato dai superbi. Le nuove tecnologie dell’informazione svolgeranno un ruolo per il riconoscimento della dignità delle donne nella Chiesa cattolica, importante quanto quello svolto nelle recenti primavere di popoli asserviti.” (Blandine)
“Parlare dell’ordinazione delle donne resta un tabù nella Chiesa cattolica, e il prendere ufficialmente
posizione a suo favore viene minacciato di scomunica. Per la Chiesa cattolica, il prete è un “altro
Cristo”. Riflettiamo un po’ su questo...
Non siamo tutti chiamati ad essere “configurati a Cristo” secondo l’espressione di Paolo?
Noi confessiamo, seguendo gli apostoli, che Dio si è fatto “uomo”. Ma la parola usata è “umano” e
non “maschio”... Incarnandosi, Dio ha optato per il maschile, piegandosi alle convenienze del suo
tempo per poter essere ascoltato.
Non è lo Spirito Santo che consacra il pane e il vino delle nostre tavole eucaristiche?
La donna resterà sempre quell’essere incompleto, inferiore, tentatore ed impuro?”
(Claude)
“Nella mia vita professionale, familiare, cittadina, posso far sentire la mia voce e pesare sulle
decisioni. Nella Chiesa, sono doppiamente muta ed impotente poiché laica e donna.
Eppure si può essere cattolica e femminista. Ma perché restare in questa Chiesa il cui discorso
ufficiale mi glorifica per meglio togliermi la parola?
Perché, come la Samaritana, voglio avvicinarmi il più possibile e bere alla sorgente che disseta per
sempre. Perché essere vicini a Cristo è possibile, senza la mediazione delle pompe, dell’organo,
dell’incenso e del latino, dei riti e dei divieti, ma attraverso la preghiera e l’incontro dei miei fratelli
e delle mie sorelle nella Chiesa.
Ecco quello che fa paura al clero: perdere il potere che conferisce loro lo statuto che si sono
concessi (malgrado l’insegnamento di Cristo) di mediatori, soli atti a veicolare il “sacro” nei due
sensi...
L’intrusione delle donne - del femminile - nell’edificio lo farà andare in frantumi. Da Maria
Maddalena a santa Teresa di Lisieux, in tutta la storia della Chiesa, delle donne - e degli uomini
come san Francesco d’Assisi! - hanno fatto sentire la loro musica delicata: un incontro è possibile e
questo incontro passa dal cuore.”
(Françoise)
“Il magistero cattolico maschile, quasi muto sugli uomini (maschi), affronta la “differenza dei sessi”
solo attraverso le donne. Questo non è estraneo al fatto che sono degli uomini a definire la natura
delle donne. Loro sono i soggetti della dottrina, e le donne gli oggetti. Della loro natura maschile
non parlano. Senza dubbio la identificano alla natura umana. Gli uomini (vir) si identificano agli
uomini (homo), all’universale, al neutro, al prototipo, mentre assegnano le donne alla particolarità,
alla specificità, alla differenza.
Che cos’è il genere? I documenti romani lo manifestano: uomini investiti dell’autorità dicono alledonne chi esse sono e quali rapporti devono intrattenere con gli uomini. Il genere quindi è un
rapporto di potere che si costruisce nello stesso tempo in cui costruisce i suoi due termini.”
(Gonzague JD)
“La frase infelice del cardinal Vingt-Trois che ha provocato la nascita del Comité de la Jupe non era
un increscioso incidente. Era, nel senso psicanalitico del termine, una parola involontaria. Svela non
la misoginia dell’uomo, ma quella di un’istituzione che è in una fase di ripiegamento. Nel fenomeno
di “restaurazione” al quale assistiamo oggi nella Chiesa cattolica, le donne sono le prime vittime: le
si rimette “al loro posto”, quello “di ausiliaria di vita” della solo metà dell’umanità che conta, la
metà maschile che si prende per il tutto.
In questo 8 marzo, noi donne cattoliche possiamo dare l’allarme. Quando delle società o delle
istituzioni sono in crisi, le donne ci rimettono per prime. L’emancipazione delle donne nelle nostre
società occidentali è un bene prezioso ma ancora fragile; il rischio di “restaurazione patriarcale” è
reale per l’insieme della società. Queste circostanze invitano alla vigilanza e alla solidarietà di tutte
le donne e anche degli uomini che considerano come un ottimo bene che le donne siano loro
contemporanee sulla base di parità.”
(Christine Pedotti)
“Buona festa a voi, sì, a voi, donne della Chiesa. Quelle che hanno seguito gli stessi incontri di catechismo di tutti gli altri bambini. Quelle che hanno detto sì, a un uomo o a una vita consacrata a Dio. Quelle che hanno portato un figlio o una figlia al fonte battesimale, come madre o come madrina. Buona festa a voi che tornate ogni giorno, ogni settimana, ogni domenica, per accompagnare, studiare, condividere, organizzare, informare, pulire, benedire, ornare di fiori, insegnare, cantare, preparare, lodare, predicare, pregare, meditare, tenere per mano, sollevare la testa... Buona festa a voi tutte, che siete Chiesa, che fate la Chiesa...” (Estelle Roure)
Questione femminile e Chiesa cattolica
Un dialogo necessario
di Marinella Perrone (l’Unità, 8 marzo 2012)
Sono stata invitata a una tavola rotonda che si terrà oggi, l’8 marzo. Il luogo è insolito, una parrocchia romana (San Saturnino), e la prospettiva tutt’altro che retorica. Si cercherà infatti di mettere a fuoco il complesso rapporto tra donne e chiesa cattolica, in particolare negli ultimi 50 anni, a partire cioè dall’apertura del Concilio Vaticano II. L’insieme è per me a dir poco incoraggiante perché da troppi anni, anche nella mia chiesa, se si parla di 8 marzo è per dire che sarebbe meglio non parlarne.
Non so come e perché l’8 marzo è stato fatto slittare da giornata delle donne a festa della donna. Archiviato come residuato ideologico d’altri tempi, resiste stancamente come paccottiglia kitsch asservita ai dettami della commercializzazione. Per quanto mi riguarda, ho cercato di non arrendermi e ho sempre difeso l’8 marzo come segno del diritto a coltivare una memoria, prima ancora che a celebrare una festa, e del dovere, anche da parte delle istituzioni, di pronunciare parole di acquisita consapevolezza storica e sociale, politica e esistenziale.
C’è stato un momento in cui anche le donne cattoliche mettevano l’8 marzo in agenda. Ricordo una grande manifestazione nell’auditorium dell’università pontificia dell’Antonianum, in cui parecchie centinaia di donne cattoliche, religiose e laiche, hanno provato a mandare in scena il “loro” 8 marzo, alternativo a quello festoso e ruggente, delle piazze. Ma la tediosa discussione, del tutto di scuola, in cui si sono prodigate anche molte opinioniste donne per diversi anni ha minato ragioni e scopi di una giornata che aveva il merito di ricordare la nascita delle donne, di tutte le donne, alla soggettualità storico-politica.
Ancora una volta hanno vinto coloro per i quali parlare di donne è inutile se non pernicioso, coloro che esaltano la persona umana, purché non sia “generata”, non sia cioè cosciente di essere nata e cresciuta dentro un sex-gender-system che contribuisce a stabilire la verità e la qualità della sua esistenza pubblica e privata. E poveri extracomunitari che tentano di vendere spenti ramoscelli di mimosa ai semafori sono un’ulteriore forma di oltraggio alle donne.
Nel frattempo, mentre sprofondava vistosamente nella classifica dei Paesi che rispettano e promuovono i diritti delle donne e guadagnava altrettanto vistosamente posizioni per l’inarrestabile crescita del numero degli omicidi di genere, il nostro Paese, insieme alla chiesa cattolica italiana, si proponeva con vigore come baluardo di difesa dei diritti non negoziabili.
Il fatto che da qualche parte si voglia di nuovo provare ad ascoltare le donne non è cosa da poco. Probabilmente ha continuato a succedere in questi anni, magari proprio in alcune parrocchie, e non ha fatto notizia. Oggi il clima, finalmente, sta cambiando, anche nell’informazione. La chiesa cattolica, come anche le altre chiese, non possono sottrarsi a guardare con lucidità al ruolo decisivo che esse hanno giocato per decidere la qualità della vita delle donne, dato che sono state sia formidabili potenziali di emancipazione sia terrificanti luoghi di asservimento. Vale anche per le chiese, in fondo, la domanda: se non ora, quando?
8 marzo 2012, ancora streghe
di Giancarla Codrignani (“Adista” - Segni Nuovi, - n. 10, 10 marzo 2012)
A Bologna, un islamico osservante ha sentito «impuro» il proprio rapporto con una donna cristianoortodossa e ha tentato di decapitarla «come Abramo fece con Isacco» (la donna, un’u-craina di 45 anni, se la scampa, rischia di ritrovarsi paraplegica).
Non è solo un caso di fondamentalismo maniacale. In questi giorni, si apre a Palmi un processo di stupro che testimonia il persistere italico della maledizione di Eva: a San Martino di Taurianova una bambina di 12 anni (che oggi ne ha 24 e vive sotto protezione perché alcuni dei persecutori che ha denunciato erano mafiosi) per anni è stata considerata da tutto il paese la colpevole degli stupri di gruppo, delle violenze e dei ricatti subiti e anche il parroco a cui aveva tentato di confidarsi giudicava peccatrice una dodicenne violata che solo la penitenza poteva redimere. Sembra incredibile, ma nella santità delle religioni albergano tabù ancestrali che gli studi antropologici e le secolarizzazioni non sono riusciti a eliminare. Sono i tabù peggiori perché responsabili dei pregiudizi sessuofobici e misogini che, sacralizzati, hanno prodotto, nel nome di dio, discriminazioni e violenze.
Nel terzo millennio le religioni dovrebbero andare in analisi e domandarsi quanto la sessuofobia e la misoginia insidino nel profondo la loro possibilità di futuro. Il concetto di “purezza” che ha represso, nell’ipocrisia mercantile e proprietaria dei valori familiari, milioni di ragazze non è nato certo dalla scelta delle donne. Alla Lucy delle origini, mestruata e responsabile della riproduzione, non sarebbe mai venuto in mente di sentirsi sporca o colpevole. Forse percepiva già come colpa, certo non sua, la violenza che connotava la bassa qualità di molte prestazioni maschili. Tanto meno, quando si fosse inventato il diritto, avrebbe distinto i “suoi” figli in legittimi o illegittimi. Eppure si continua a credere che la mestruata faccia ingiallire le foglie e inacidire il latte; in Africa, in “quei giorni”, è confinata in capanne speciali per non contaminare le case; a Roma Paolo la voleva velata e zittita, mentre i papi, forse senza sapere perché, le hanno vietato di consacrare. Siamo ancora qui, a fare conti sul puro e l’impuro e a ripetere il capro espiatorio nel corpo di qualche altro Isacco per volere di qualche Abramo che credeva di interpretare Dio, di qualche altra Ifigenia proprietà di Agamennone padrone della sua morte.
Noi donne non siamo certo migliori degli uomini, ma nelle società maschili permangono residui di paure che neppure Darwin ha fatto sparire. I responsabili delle religioni che intendono salvare la fede per le generazioni future debbono purificarle dalle ombre del sacro antropologico: il papa cattolico deve non condannare, bensì accogliere come servizio di verità nelle scuole un’educazione sessuale che dia valore all’affettività non solo biologica delle relazioni fra i generi e al rispetto delle diverse tendenze sessuali; l’islam che fa imparare a memoria fin da piccoli le sure del Corano, si deve rendere conto che i tabù violenti producono strani effetti se un uomo si sente un dio punitore davanti a donne-Isacco; i rabbini dovrebbero fare i conti con Levy Strauss e smettere di chiedere autobus separati per genere e di insultare le bambine non velate; in Cina e in India non si deve perpetuare l’insignificanza femminile trasferendo gli infanticidi delle neonate alla “scelta” ecografica, mortale solo per le bimbe. Sono tutte scelte di morte. Per ragioni di genere.
Ma, se la responsabilità delle religioni monoteiste è particolarmente grave per l’immagine anche non raffigurata di una divinità di fatto maschile, più precisa è quella dei cristiani. Si è detto infinite volte: perché il nostro clero, ancora così pronto a chiedere cerimonie riparatrici per spettacoli che non ha visto, non pensa ad evangelizzare i maschi invece di sospettare costantemente peccati di cui non può essere giudice, condannato com’è al masochismo celibatario per paura della purezza originaria della sessualità umana?
C’è un salto logico - certamente non illogico per le donne che stanno leggendo i pezzi sull’8 marzo
ma anche la società civile persevera troppo nel negare rispetto al corpo delle donne: i tre caporali
del 33esimo reggimento Acqui indagati per lo stupro di Pizzoli (L’Aquila) sono rientrati in servizio
nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”...
La lussuria
di Ruben Alves (Cem-Modialità, n. 1, gennaio 2012)
Lussuria! Che immagini vi vengono in mente quando sentite pronunciare questa parola? Non occorre dirlo, lo sappiamo. Sono immagini di orge, baccanali, uomini e donne che fanno sesso in qualsiasi maniera... Ma tengo a dirvi che la lussuria non è niente di tutto questo. La lussuria non vive nei genitali. Essa vive negli occhi. Proprio così: la lussuria è un modo di guardare. Il resto sono semplici deduzioni algebriche...
Il peccato della lussuria consiste proprio in questo: le persone che ne sono vittime perdono la capacità di vedere i volti. Vedono solo i genitali e ciò che si può fare con questi. In tale maniera, però, diventano incapaci di amare. Perché l’amore non inizia mai nei genitali. L’amore inizia nello sguardo. Guardando nel fondo degli occhi di chi è posseduto dal demone della lussuria, si vede solo una cosa: peni e vagine. Ora, una volta tanto, va ancora bene. Sono parti, piccole parti di un delizioso giocattolo che si chiama «fare l’amore». Ma quando quegli occhi vedono solo questo, il risultato è un’immensa monotonia. Perché tutte le orge, in fondo, sono la stessa cosa.
Quale cura, allora, per il disturbo oftalmico chiamato lussuria? Non la preghiera, neppure la promessa, non la flagellazione, neppure la minaccia. Il rimedio è la poesia. I demoni hanno in odio la poesia. Non c’è lussuria che resista ai poemi di Vinicius de Moraes, di Carlos Drummond de Andrade e di Adélia Prado. Rispetto a quest’ultima, ad esempio, ci sarà mai qualcosa di più erotico della sua poesia intitolata «Matrimonio»?
Ai miei tempi antichi di protestante, eravamo soliti fare una cosa chiamata «culto domestico». La famiglia si riuniva per leggere la Bibbia e pregare. Credo che usanze simili sarebbero salutari: le famiglie che dopo cena si riuniscono per leggere poesia. Incluse le Sacre Scritture. Non c’è lussuria che resista al Canto dei Cantici
Colui che è tentato dalla lussuria è perché non è amato. Il rimedio per la lussuria è l’amore.
(traduzione di Marco Dal Corso)
Violenza alle donne Fermiamola ora!
di Stefano Vecchia (Avvenire, 25 novembre 2011)
I l 25 novembre 1960, nella Repubblica Dominicana, sicari mandati dall’allora dittatore Rafaél Trujillo tendevano un agguato alle quattro sorelle Mirabal, attiviste politiche, uccidendone tre. Per ricordare questo evento - dal significato simbolico perché prima azione del genere ad essere portata all’attenzione internazionale e a provocare una reazione di opposizione alla dittatura, che doveva culminare l’anno successivo con l’assassinio di Trujillo - il 17 dicembre 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite dichiarava il 25 novembre di ogni anno «Giornata internazionale per fermare la violenza contro la donna».
La ricorrenza, ovviamente, guarda ben oltre le difficoltà delle donne impegnate a combattere contro violazioni dei diritti umani e civili, dittature o regimi liberticidi. La ’galassia’ della violenza verso le donne è vasta e diversificata, e sovente continua a ’sfumare’ in tristi tradizioni, abitudini, leggi opportunamente incentivate per fini di controllo, economici o religiosi.
Quella che nelle sue varie forme interessa la donna è una delle maggiori violazioni dei diritti umani e include abusi di carattere fisico, sessuale, psicologico ed economico e risulta trasversale a razza, cultura, benessere, collocazione geografica ed età. Può essere localizzata nelle case, per le strade, nelle scuole, sul luogo di lavoro, nelle campagne come nelle città, in campi profughi, in situazioni di pace, conflitto o crisi. Ha aspetti pubblici: stupri etnici, persecuzione religiosa, repressione politica; ma anche privati: violenza domestica, abusi sessuali, controllo forzato delle nascite e selezione sessuale, omicidi d’onore...
Strumento primo di garanzia internazionale è la Dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro la donna del 1993, che ha portato molti Paesi ad adeguare le legislazioni nazionali. Dallo scorso maggio è aperto alla firma dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa la Convenzione sulla prevenzione e lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, che finora ha raccolto 17 adesioni. Ovviamente, lo strumento legislativo o le libere adesioni a trattati e convenzioni non garantiscono di per sé una tutela, soprattutto nelle aree meno favorite del pianeta, ma anche in ambiti insospettati dei Paesi ricchi.
A livello planetario, sei donne su dieci sperimentano nella loro vita una forma di violenza fisica o sessuale. Per evidenziare casi estremi, uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità ha mostrato come la violenza sessuale da parte del partner sia ancora presente nel 71 per cento delle famiglie della campagna etiope contro il 15 per cento del Giappone urbano. Nella maggior parte del mondo globalizzato, la violenza rappresenta per le donne dai 16 ai 44 anni la prima causa di morte o disabilità, con costi altissimi e non solo nei Paesi in via di sviluppo. Un rapporto del 2003 del Centro statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie mostrava che nei soli Stati Uniti il costo della violenza domestica superava 5,8 miliardi di dollari l’anno, di cui 1 miliardo per cure mediche e 1,8 come conseguenza dall’assenza forzata dal posto di lavoro.
Non mancano però i progressi. Nel mondo, sono un centinaio i Paesi che riconoscono e sanzionano la violenza domestica, meno quelli che adottano provvedimenti conseguenti. Lo stupro da parte del coniuge è riconosciuto come reato in 104 Stati e una novantina hanno leggi che colpiscono le molestie sessuali. Complessivamente, però, poco oltre la metà del mondo riconosce oggi la discriminazione della popolazione femminile come un problema da denunciare e perseguire. La recessione mondiale ha ridotto reddito e opportunità nei Paesi più poveri, con un conseguente aumento dello sfruttamento e della violenza sulla componente femminile, ma anche esponendo a ulteriori abusi quante lavorano o risiedono all’estero, inclusi Europa e Medio Oriente.
di Natalia Aspesi (la Repubblica/Velvet, n. 56, luglio 2011)
Che uomini e donne siano diversi lo sappiamo, e ne siamo contentissime; però dovrebbe essere scontato che abbiano gli stessi diritti (e doveri), ma in realtà non è ancora così, questo lo sappiamo, sulla nostra pelle.
Michela Murgia nel nuovo bel libro “Ave Mary” ci ricorda che, nella Mulieris Dignitatem, Giovanni Paolo II, esaltando l’originalità femminile, ha confermato che comunque l’uomo e la donna sono pari in dignità davanti a Dio. Menomale. Questa dignità è intaccata, secondo me non credente, dal modo in cui la Chiesa, negando l’uguaglianza, intende la differenza, che non è quella sostenuta da una parte del femminismo.
E’ chiaro che le donne continuano ad essere imbarazzanti, poco gestibili, per la Chiesa, soprattutto per i papi. Non so quante donne, in questo caso credenti, aspirino alla santità, ma se ce ne sono, sappiano che la strada sarà meno ampia che per gli uomini. Per esempio, durante 27 anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha canonizzato 482 persone, di cui 248 laici: fondatori di banche e associazioni caritatevoli, politici, eroici carabinieri e altri beatificati o nominati servi di Dio. Tutti maschi.
Papa Wojtyla, scrive la Murgia, “ha elevato agli altari molte donne, soprattutto martiri, ma anche suore comuni e fondatrici di ordini religiosi. Solo una non aveva preso voti ...”. Gianna Beretta Molla, qualificata dal sito del Vaticano come “madre di famiglia”, santa nel 2004: medico, cattolica praticante come il marito, madre di tre bambini, nel ’61, a 39 anni, durante la quarta gravidanza, le fu riscontrato un voluminoso tumore benigno che richiedeva l’asportazione immediata, il che avrebbe comportato l’interruzione della gravidanza. La signora rifiutò, anche se in un caso come il suo la Chiesa, pur giudicando l’aborto un male, l’avrebbe considerata incolpevole: nacque una bellissima bambina e la madre morì. Esaltando con la canonizzazione il martirio che lasciava un padre solo con quattro figli, si mostrava che la nuova via alla santità femminile era la maternità, soprattutto se costava la vita. Non si conoscono maschi fatti santi per aver accettato di essere padri sino al sacrificio di sé.
Più facile diventare sante in quanto suore, com’è stato per Madre Teresa di Calcutta, cui è stato assegnato il Nobel per la Pace ’79, per aver dedicato la vita ai poveri e agli ultimi del mondo. Quanto alla santità, certo è stata affrettata dalla sua guerra ad aborto, contraccezione, divorzio. Comunque la santificazione femminile privilegia le “morte in verginità”, le donne che, per difendersi dallo stupro, sono state ammazzate. Ovviamente Maria Goretti, non più indicata alle adolescenti come modello, e Antonia Mesina, “martire della purezza”, sedicenne sarda fatta fuori a colpi di pietra dall’assalitore, e altre.
La santità delle donne laiche, e non quella degli uomini, passa insomma attraverso la morte, eventuali opere di bene contano niente.
Michela Murgia e il suo saggio: dalle Madonne di ieri e di oggi fino agli stereotipi patriarcali
Madre nostra dove sei nei cieli?
“Eva e Maria, così la Chiesa ha sacrificato la donna"
"Ave Mary" intreccia Sacre scritture e vita. E ricorda come una certa teologia ignori le immagini femminili di Dio
La scrittrice sarda, che è credente, smitizza Madre Teresa di Calcutta e cita Giovanni Paolo I
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 12.05.2011)
Pare di sentire il sussurro di decine di computer con cui geniali signore stanno scrivendo libri sugli errori e gli orrori del mondo verso le donne, e la fonte di tali orrori-errori, perpetrati ovviamente dagli uomini, sembra inesauribile: è un boom attuale che aveva già trionfato negli anni del femminismo militante e vincente, e poi si era spento verso la metà degli anni ’90, quando una valanga di altre intrepide signore, adattandosi all’intorpidimento generale, si era messa a scrivere sulle meraviglie del mondo verso le donne, tipo come fare shopping, come non restare single, come assomigliare alle top model, cosa fare proficuamente a letto.
Da un paio di anni per fortuna c’è stato un risveglio di brontolii femminili colti, intelligenti, creativi, appassionanti, impeccabili, sotto forma di saggi di successo, che entusiasmano i maschi più maschilisti (tanto sanno che non cambia nulla) e vengono regolarmente massacrati dai talk-show rimasti ancorati alla necessità di banalizzare sia l’esposizione del corpo delle donne che la loro lapidazione, per essere sicuri di fare audience.
In questo fervore di scrittura femminile molto terrena, che chiama in causa i poteri contemporanei, la politica, la televisione, la pubblicità, le escort e le ministre col tacco a spillo, appare finalmente il personaggio più inaspettato, umano e celestiale, antico ed eterno, celebre e sconosciuto, mitico ed universale, da imitare e inimitabile: la Madonna, Maria di Nazareth, per Michela Murgia semplicemente Mary: Ave Mary, come si intitola il suo nuovo libro (Einaudi Stile libero), sottotitolo "E la chiesa inventò la donna".
Si sa che la scrittrice sarda, 39 anni, che con il suo romanzo Accabadora ha vinto il Campiello, il SuperMondello e il Dessì, è una credente «organica, non marginale», come si definisce lei, che rivendica il diritto di critica dall’interno della Chiesa che, con gli ultimi due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, sta vivendo una lunga continuità conservatrice. E mentre racconta l’uso spesso distorto che è stato fatto e si continua a fare di Maria di Nazareth, la placida e ferrea signora di Cabras ricorda quanto sia ancora difficile per le Mary di oggi, credenti e no, fuori e dentro la Chiesa, sfuggire agli stereotipi incongruentemente patriarcali, essere davvero libere.
Per secoli la Madonna ritratta dagli artisti è stata una giovane madre bellissima, talvolta anche carnale, addirittura a seno nudo, riccamente abbigliata, con in braccio il suo bambino: vengono per esempio in mente la rinascimentale Adorazione dei magi di Jan Gossaert attualmente nella mostra dedicata all’artista cinquecentesco fiammingo alla National Gallery di Londra; oppure la meravigliosa Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, una affascinante popolana dall’abito scollato, che incrociando le gambe e tenendo in braccio il suo piccino, si affaccia curiosa da una porta. Poi, dalla metà del XIX secolo, con i nuovi dogmi mariani e i veggenti di Lourdes e di Fatima, Maria smise di essere madre, lasciò da qualche parte il suo piccino, si vestì solo di bianco e azzurro, adombrando il viso dentro un velo, si sistemò su una nuvola con le mani raccolte in preghiera, rivolse gli occhi al cielo e assunse un’espressione afflitta, quella della Mater Dolorosa, che in altre raffigurazioni luttuose si sarebbe inginocchiata ai piedi del figlio crocefisso.
Finalmente si era trovato il vero destino delle donne, un’ascesa verginale alla solitudine e alla sofferenza, per accollarsi la sofferenza degli altri, prendersene cura e nel caso personale di Maria, assistere al sacrificio del figlio, in un moltiplicarsi di drammatiche Pietà che, come quelle di Michelangelo, non intaccano la giovinezza della Madre, rimasta sedicenne, ad accogliere sul suo grembo il corpo martoriato del figlio trentenne. Non esistono immagini della Madonna vecchia, (e neppure morta) se non di sfuggita in qualche film non convenzionale, e non si vorrebbe essere blasfemi imputando anche a questa scelta santa il fatto che pure oggi, anzi soprattutto oggi, invecchiando le donne sembrano scomparire nel nulla, perdere senso e potere.
Ancora è difficile capire per quale ragione a un certo punto della storia del mondo le donne furono considerate nemiche del genere umano, e per terrorizzarci Murgia cita l’incazzatissimo apologeta Tertulliano, vissuto tra il II e il III secolo: «Ogni donna dovrebbe camminare come Eva nel lutto e nella penitenza...La condanna di Dio verso il tuo sesso permane ancora oggi... Tu sei la porta del demonio! A causa di ciò che hai fatto il figlio di Dio è dovuto morire!».
Ogni fregatura femminile nei secoli è dunque partita dalla disubbidiente Eva (e infatti le donne ancora oggi si sentono dire dai maschi di famiglia, ubbidisci!, segue gestaccio da parte delle signore) e dal suo peccato originale, che fece cacciare Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre e condannò l’uomo a lavorare con sudore e la donna a partorire con dolore. Quando dalla metà dell’800 la scienza cominciò a studiare la possibilità di separare il parto dal dolore con l’anestesia (e dal 1930 con l’epidurale), il dibattito teologico, tutto maschile, si fece rovente; come osava la scienza eliminare la punizione divina obbligatoria per le donne? Finalmente nel 1956 Papa Pio XII definì "non illecito" il parto indolore, anche se la maternità dolorosa restava la maledizione specifica per le figlie di Eva. A me pare che nessun teologo andò in crisi quando il diffondersi delle macchine aiutò gli uomini a non faticare e quindi a non sudare.
Michela Murgia ha una cultura teologica vasta e una avventurosa esperienza di vita: ha lavorato in un call center e ha fatto il portiere di notte, l’insegnante di religione, la venditrice di multiproprietà, l’animatrice dell’Azione Cattolica, la dirigente di una centrale termoelettrica, è stata per anni lo scandalo del suo paese andando a vivere col suo fidanzato, (ignominia!) poi sposandolo civilmente (che è sempre peccato!), infine, cristianamente convinta, in chiesa.
Ave Mary intreccia sapienza e ironia, Sacre Scritture e vita, non dando tregua a tutti gli errori e le stupidaggini che credenti chic e atei devoti hanno scritto e soprattutto diffuso attraverso la televisione. Smitizza Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace, beatificata, essenziale esempio di femminilità sacrificale, che per la Chiesa cattolica «non rappresentava solo una campionessa di carità, era soprattutto una vestale della sua dottrina morale sulla vita, quella che maggiormente interferiva con la libertà delle donne di disporre di sé stesse».
Rilegge per noi Mulieris Dignitatem, il documento del 1988 in cui Giovanni Paolo II usa per la prima volta l’espressione "genio femminile": e rifiutando l’eguaglianza tra uomo e donna, sceglie la differenza, come una parte importante del femminismo, però riconfermando la subordinazione sociale e familiare della donna, «non più enunciata in nome di una inferiorità di genere, ma fondata su una pretesa superiorità di ruolo spirituale...».
Darà certamente fastidio al rumoroso e ingombrante divismo dei nostri atei devoti, la grazia con cui ricorda come la Chiesa abbia deliberatamente ignorato nella Bibbia le decine di immagini femminili di Dio, «privando le donne del diritto di riconoscersi immagine di Dio, in un Dio che fosse anche a loro immagine». E il modo malizioso in cui rispolvera una frase molto pericolosa pronunciata nel 1978 da quel povero Giovanni Paolo I dal brevissimo papato: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile: è papà, più ancora è madre». Panico in Vaticano, terrore di uno spaventoso abisso teologico e simbolico, subito sepolto con la morte di papa Luciani. Ma Joseph Ratzinger quando era ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ci ricorda l’implacabile credente devota Murgia, «si espresse con molta chiarezza in merito alla questione del Dio Madre che ancora si aggirava per i corridoi vaticani come una patata bollente: "Non siamo autorizzati a trasformare il Padre Nostro in una Madre Nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci"».
La visione di Wojtyla
di Fergus Kerr OP (direttore di New Blackfriars)
in “The Tablet” del 30 aprile (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
Entrambi i papi - Giovanni Paolo II e Benedetto XVI - sono stati influenzati dalle radici cristiane dell’Europa e dalle lotte del continente contro i totalitarismi del XX secolo. Ma in questo primo di una serie di articoli, che vengono pubblicati questa settimana in occasione della beatificazione del papa polacco, cercherò di sottolineare la differenza tra i due soprattutto in termini di confronto tra le loro linee di pensiero.
I papi possono influenzare teologicamente i loro successori? E, in caso affermativo, in quale
misura? Nei secoli passati la maggior parte non ha ritenuto necessario scrivere su questioni
teologiche, di fatto pochi ne sarebbero stati in grado. Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI
il primo definito un “intellettuale”, l’altro un “accademico” - erano stati in precedenza docenti
universitari di prestigio. E nessuno dei due avrebbe potuto seguire una strada diversa.
Nel 1951 Karol Wojtyla tornò alla Jagiellonian University di Cracovia per completare un secondo
dottorato, questa volta in filosofia, sulla possibilità di elaborare un’etica cristiana sulla base del
pensiero di Max Scheler (1874-1928) pensatore famoso per la sua fenomenologia dell’amore.
Ottenuto il dottorato, Wojtyla ha insegnato etica sociale all’università, continuando pure
l’insegnamento a Lublino, anche negli anni successivi al 1958 quando divenne arcivescovo di
Cracovia.
Nel 1969 con il suo libro dal titolo “The Acting Person” come recita la versione inglese (“Persona e atto” Libreria Editrice Vaticana 1982) egli ha offerto un contributo importante alla filosofia. Una modalità di approccio a questo testo è la possibilità di considerarlo come un ulteriore sforzo per superare la concezione cartesiana della coscienza di sé, in parte lungo lo stesso percorso seguito da “The Self Agent” (1957) di John Macmurray o quello di Stuart Hampshire in “Thought and Action” (Pensiero e Azione, 1970).
Molto più tardi in “Crossing the Threshold of Hope” (Varcare le frontiere della speranza, 1994) Giovanni Paolo II ripetè la stessa critica a Cartesio che distingue il pensiero dall’esistenza. “Come è diverso l’approccio di san Tommaso per il quale non si ritiene il pensiero determinare l’esistenza, bensì l’esistenza che determina il pensiero”. Noi siamo agenti, non spettatori di un qualcosa autoincapsulato.
In aggiunta a ciò, con la dott.ssa Wanda Póltawska, psichiatra di Cracovia, Wojtyla aveva fondato l’”Istituto per la Famiglia” con lo scopo di educare i laici in materia di etica sessuale. Nel testo Amore e responsabilità del 1960 egli sostiene che né la procreazione, né il piacere possono da soli giustificare un rapporto coniugale: al contrario, egli rifiuta da una parte gli “utilitaristi”, come Freud, che si concentrano sul piacere, dall’altra i “rigoristi”, come i puritani, che limiterebbero l’attività sessuale alla procreazione. Wojtyla delinea piuttosto una dottrina elevata dove i rapporti sessuali sono visti come una donazione reciproca di sé.
In confronto le pubblicazioni dell’allora prof. Joseph Ratzinger non sono mai state così ambiziose. Egli conseguì il dottorato in teologia nel 1953 all’università di Monaco di Baviera con una tesi sui concetti di “popolo” e “casa” di Dio in sant’Agostino. Così come Karol Wojtyla, si allontanò, apparentemente senza preoccupazioni di sorta, dalla neoscolastica allora scontata. Avendo poi optato per una carriera accademica, Ratzinger ha quindi redatto una tesi post-doc di storia della teologia su san Bonaventura, dove si è definitivamente allontanato dal neo-tomismo all’epoca di routine. Infatti, come ha ricordato egli stesso, la tesi avrebbe dovuto essere rivista proprio per eliminare quella presunta qualifica di “modernista” che era stata ipotizzata da un esaminatore, come Michael Schmaus (1897-1993), in quel momento uno tra i più eminenti teologi a Monaco di Baviera.
Ratzinger si trasferì nel 1969 nella nuova università di Ratisbona nella sua natìa Baviera. Nel 1977, con la sua nomina ad arcivescovo di Monaco di Baviera, la sua carriera di professore universitario, durata due decenni, volse al termine. Non ancora cinquantenne, aveva prodotto una serie di pubblicazioni a suo nome, ma non la grande opera di cui senza dubbio ogni professore di teologia vada sognando. Ma c’era altro da scrivere negli anni a venire.
Tocca ai papi scrivere le encicliche. Giovanni Paolo II ne ha pubblicate 14. La prima, la Redemptor hominis (1979), centrata quasi programmaticamente sull’importanza della persona umana: questa ha continuato idealmente l’attenzione sulla persona del testo Persona e atto, ma con uno stile completamente differente.
Nel 1981 Giovanni Paolo II ha commemorato la Rerum Novarum di Leone XIII, la famosa enciclica sulla giustizia sociale, con un profilo su quanto aveva detto riguardo al conflitto tra lavoro e capitale e sui diritti dei lavoratori: non c’è dubbio che questo rifletta la sua esperienza lavorativa precedente. Nel 1987 ha ricordato la Populorum Progressio di papa Paolo VI con un’altra forte affermazione delle preoccupazioni sociali e politiche della Chiesa. Nel 1991 ha commemorato ancora la Rerum Novarum. In questi diversi interventi, correlati tra loro, il papa polacco non ha avuto esitazioni nel denunciare il liberal-capitalismo dell’Occidente, proprio mentre attaccava con fermezza il totalitarismo dell’Europa orientale.
Non c’è dubbio che sia stato un papa che ad un certo punto ha applaudito all’ecumenismo: con l’Ut Unum Sint (1995), infatti, Giovanni Paolo II, riconoscendo esplicitamente l’ostacolo che il papato costituisce per molti cristiani, ortodossi e protestanti, ha invitato tutti ad aiutarlo a rimodellare il ministero petrino così da fungere da punto di riferimento per incontri futuri.
Anche in questo caso le preoccupazioni pastorali potrebbero aver indotto ciascun papa a prendere in esame lo stato di salute della teologia morale e della filosofia in generale. Ma con la Veritatis Splendor (1993) e la Fides et ratio (1998), l’opposizione di Giovanni Paolo II a tutto quanto riteneva utilitaristico, in alcuni concetti della teologia morale cattolica, e la sua insistenza sul ruolo della ragione e quindi della filosofia stessa all’interno di ogni religione, riflette decisamente la mentalità del docente di etica sociale.
Nella sua "teologia del corpo", tuttavia, Giovanni Paolo II ha arato un nuovo campo. In quello che potremmo definire una antropologia cristiana della differenza sessuale e della complementarietà, egli ha inaugurato quello che molti commentatori, in particolare in Nord America, considerano come un cambiamento rivoluzionario nella dottrina e nella sensibilità cattolica.
Secondo George Weigel, per esempio, questo rappresenta quasi "una bomba a orologeria teologica, qualcosa che potrebbe esplodere all’interno della Chiesa ad un certo punto indeterminato del futuro, ma con grande effetto, rimodellando il modo in cui i cattolici pensano alla nostra corporeità in termini di maschile e femminile, la sessualità, il rapporto con l’altro e il rapporto con Dio - anche all’identità stessa di Dio "(cfr. la sua prefazione a Christopher West “Theology of the Body Explained” [2003] - una preziosa spiegazione).
Naturalmente questo richiama le preoccupazioni contenute già in “Amore e responsabilità”. L’arcivescovo di Cracovia (almeno parrebbe oggi) sembra aver avuto un’influenza decisiva su Papa Paolo VI quando, nella sua enciclica Humanae Vitae (1968), ha ribadito la fede cattolica nel legame inscindibile tra il rapporto coniugale e la procreazione, riaffermando così la condanna come immorale di tutte le forme di controllo delle nascite, tranne i metodi naturali.
Dal momento che molti cattolici sono stati, e rimangono, non persuasi da tali argomenti, che derivano essenzialmente dalla legge naturale, sembra che, subito dopo essere stato eletto papa, Giovanni Paolo II abbia deciso di intraprendere la strada di una teologia della differenza di genere, che confermerebbe come la contraccezione all’interno di un matrimonio cristiano sia da considerare peccaminosa. Nei 129 discorsi alle udienze settimanali, tra il 1979 e il 1984, Giovanni Paolo II ha sviluppato questa sua "teologia del corpo". Se il matrimonio è stato a lungo oggetto di un ripensamento della teologia cattolica, ora ne diventava un centro creativo.
Per spiegare in semplici parole un’argomentazione così profonda e complessa si potrebbe affermare così: L’uomo esiste da sempre come maschio o femmina (Gen 1,27). L’unità di Cristo e della Chiesa è il "grande mistero", esemplificato con l’espressione in "una sola carne" della coppia originaria, Adamo ed Eva, e poi di nuovo in qualsiasi autentica unione coniugale (Efesini 5,31-2). Il marito ama sua moglie come Cristo ama la sua sposa, la Chiesa - e dona se stesso per lei (Efesini 5,25). Lanozione di reciproca donazione di sé è fondamentale.
La comunione sponsale diventa la principale analogia di ogni tipo di rapporto. Considerando che nella teologia classica, compreso Tommaso d’Aquino, ci viene detto che siamo creati a immagine di Dio a causa della nostra razionalità, il dato essenziale per Giovanni Paolo II è la differenza sessuale: "... maschio e femmina li creò". La razionalità diventa comunicazione, comunione. L’unione della natura divina e umana in Cristo diventa come un matrimonio fra cielo e terra. Analogamente l’atto di Gesù che fa dono di se stesso agli altri, fa sì che anche la celebrazione eucaristica sia vista in analogia ad un’unione coniugale.
Si potrebbe quasi affermare che il racconto della storia della salvezza si snodi dalla coppia originaria nel giardino dell’Eden fino alla discesa della Città Santa, “che scende dal cielo, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Apocalisse 21,2).
In questi casi, come in altri, l’immagine di Cristo sposo apre la strada per condurci ad esplorare l’intera realtà, ossia come deve intendersi il rapporto fra le creature e il Creatore, ciascuno di noi e il Salvatore, la Chiesa e Cristo. Certamente questo fa tesoro di immagini e temi familiari all’antica e moderna spiritualità, ma la teologia del corpo di Giovanni Paolo II mostra una coerenza e una forza che non ha precedenti.
Questa teologia ha implicazioni sociali e politiche di enorme portata, come lo stesso Giovanni Paolo II ha sottolineato più volte. Dal momento che la differenza sessuale è fondamentale, e l’unione coniugale viene ad essere la massima espressione della complementarietà, gli effetti a lungo termine della contraccezione diventerebbero distruttivi per l’intera umanità. La testimonianza dei coniugi cattolici deve quindi andare radicalmente controcorrente.
Se il rapporto nuziale può essere considerato la chiave interpretativa per ripensare quasi ogni altra dottrina cristiana, Giovanni Paolo II ha certamente lasciato in eredità un patrimonio teologico che ha appena cominciato ad influire sulla sensibilità e il pensiero della maggior parte dei cattolici.
Nel 1981 papa Giovanni Paolo II ha nominato il cardinale Ratzinger Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF). Quando gli archivi vaticani verranno aperti, in un prossimo futuro, forse sarà possibile andare a verificare in che misura i due papi siano stati concordi dal punto di vista teologico. Per fare un esempio, una certa qual freddezza dell’allora card. Ratzinger riguardo all’incontro interreligioso di Assisi nel 1986 potrebbe aver marcato una certa esitazione circa l’entusiasmo di Giovanni Paolo II per il dialogo interreligioso.
E ancora, nel 1987, l’enciclica Sollicitudo rei socialis, che ha condannato il capitalismo in maniera ancora più drastica di quanto non abbia fatto con il comunismo, è stata letta da alcuni commentatori come meno negativa riguardo alla “teologia della liberazione” rispetto alla linea politica della Sacra Congregazione sotto la guida del card. Ratzinger. Sembra alquanto improbabile, tuttavia, che nel corso dei 24 anni in cui Ratzinger fu alla guida della CDF, che egli non abbia avvallato ogni linea politica che non differisse in maniera significativa da quanto Giovanni Paolo II fosse contento di sostenere.
Benché siano trascorsi pochi anni dalla sua elezione, papa Benedetto XVI ha già delineato però un profilo teologico che si differenzia da quello del suo predecessore. Non c’è motivo di pensare che egli abbia preso le distanze deliberatamente, quasi per sfuggire in una tale dinamica l’ombra di un pensatore innovativo. Le sue iniziative - così come fu per Giovanni Paolo II - fanno piuttosto riferimento a interessi precedenti. Con la sua riconosciuta preoccupazione per la liturgia non è stata per nulla una sorpresa che egli abbia autorizzato l’antico rito e altri provvedimenti.
Per decenni poi i teologi di professione si erano mostrati preoccupati di integrare dal punto di vista storico-critico gli studi biblici con il dogma cattolico: lo studio di Benedetto XVI su Gesù sembrerebbe piuttosto il tentativo di un teologo in pensione, che, vista la prevedibile reazione contraria di teologi di professione, abbia preso coraggio.
Le tre encicliche di Benedetto XVI tracciano una strada ancora più caratteristica. La seconda metà della Deus Caritas Est (2006), prende le mosse da una serie di appunti lasciati incompleti da Giovanni Paolo II; la prima parte, al contrario, propone il rapporto fra l’amore così come era conosciuto dall’antica filosofia greca - nello specifico l’eros - e l’amore cristiano, l’agàpe.
Quantunque, mettendo insieme le due parti, Benedetto XVI appare discostarsi completamente dalla lunga tradizione cristiana che condannava qualsiasi forma di “amore erotico”. Dopo aver analizzatol’amore, egli si è rivolto nella Spe Salvi (2007) alla speranza e alla fede: l’enciclica si apre con la storia della sudanese Josephine Bakhita, una schiava convertita dal paganesimo alla speranza della redenzione. Nella Caritas in Veritate (2009), papa Benedetto XVI riprende i concetti dell’enciclica Populorum Progressio (1967) di Paolo VI, riaffermando con forza la dottrina sociale della Chiesa. Una grande attenzione è stata rivolta alla lezione che ha tenuto a Regensburg nel 2006: la sua citazione di un imperatore bizantino medievale nei confronti dell’Islam ha immediatamente provocato reazioni in tutto il mondo musulmano. Ma il punto centrale del suo discorso è stato quello di insistere sul ruolo della ragione nella ricerca di Dio e sulla compatibilità tra la filosofia greca pagana e la fede cristiana.
Nella Fides et Ratio (1998) Giovanni Paolo II aveva esteso la sua prospettiva ben oltre l’antica Grecia: tuttavia, pur all’interno della radici cristiane d’Europa, entrambi i papi hanno insistito per mantenere un legame fra Gerusalemme e Atene, cui l’Occidente deve la sua cultura e la sua civiltà. Ad ogni modo resta la possibilità che l’innovativa teologia del corpo di Giovanni Paolo II racchiuda un futuro dai risvolti impegnativi ancora imprevedibili.
Il papa fragile di Nanni Moretti
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2011)
Non è una fiction, ma un apologo sul potere, la solitudine, il bisogno (e la mancanza) di affetto. Un film spesso folgorante. Dove Michel Piccoli, che intere generazioni hanno conosciuto come impeccabile e algido seduttore, ora incanta nel ruolo di un pontefice che annaspa in cerca di umanità. Esplorare il labirinto vaticano è un’operazione delicata. Ne vengono fuori in genere polpettoni a grandi tinte o bozzetti edificanti dal tono clerical-nasale. Nanni Moretti nel suo Habemus Papam spariglia le carte, perché non vuole ricreare in cartapesta un presepe ecclesiale, ma pungola gli spettatori a seguire l’avventura di un personaggio, si potrebbe dire di un’anima. Il Papa inadeguato. Il Papa che urla “Non ce la faccio” e si rifiuta di apparire sulla Loggia delle Benedizioni.
Sono gli artisti, i giullari a cogliere spesso il senso delle cose e a gettare in faccia tra lazzi e sberleffi la verità. Quando morì papa Luciani, il vignettista di Le Monde, Plantu, disegnò un’enorme cupola che si abbatteva e schiacciava lo sventurato prete veneto diventato inopinatamente pontefice di Santa Romana Chiesa. Nanni Moretti, nel film che ha pensato come commedia, ma che è diventato molto di più (pur rimanendo godibilissimo), rilancia una sensazione che si è diffusa nella massa dei credenti e diversamente credenti: fare la guida, in nome di Cristo, di oltre un miliardo e cento milioni di cattolici è un macigno quasi impossibile da portare da solo. Lo disse espressamente - alla vigilia dell’ultimo conclave da cui uscì eletto Benedetto XVI - un veterano fra i cardinali, Roger Etchegaray: “Nel mondo globalizzato fare il Papa è diventato un compito sovrumano”.
Non poteva saperlo Moretti, perché mentre lui girava, il pontefice si confidava al giornalista tedesco Peter Seewald. Ma anche Ratzinger prima di affacciarsi alla Loggia ha cacciato un grido silenzioso rivolgendosi a Dio: “Cosa fai di me? Adesso Tu hai la responsabilità. Tu mi devi condurre! Io non ce la faccio. Se Tu mi hai voluto, allora Tu mi devi anche aiutare”. Lo si può leggere nell’ultimo libro-intervista papale “Luce nel mondo”. Una emozionante confessione su quel tema dell’inadeguatezza, che fa da filo conduttore del film. Gli artisti sono precisamente questo: antenne che captano la realtà spesso nascosta nel brusio del quotidiano.
E la realtà è che oggi non basta più sedersi sul trono di Pietro per comandare su un gregge di fedeli. Oggi bisogna convincere. Arrivare alla mente e ai cuori di uomini e donne, magari per essere contestati e discussi, ma arrivare... Non servono esseri sovrumani, c’è sete di esseri umani. Lo aveva già capito Paolo VI, quando sottolineava che l’epoca contemporanea non vuole più maestri (con il ditino alzato, si potrebbe aggiungere), ma si aspetta “testimoni”. Ed è questo - detto tra parentesi - precisamente il dilemma dell’attuale pontificato. Fino a che punto chi parla dalla Basilica vaticana riesce a trasmettere un senso di affettività per entrare in contatto con uomini e donne nel loro difficile cammino esistenziale?
“Ha dei legami affettivi?”, chiede la psicanalista Margherita Buy al papa Piccoli in fuga per le strade di Roma. “No”, risponde candido il neo-pontefice. Aggiungendo ancora più candidamente: “È la mia vita”. Qui Moretti, abituato a curiosare negli angoli della psiche, tocca delicatamente uno dei nodi più drammatici della condizione del prete oggi. La solitudine. Il deserto affettivo, che porta tanto clero all’aridità, all’alcolismo, alla pornografia, ai rapporti selvaggi etero oppure omosessuali, al carrierismo, al consumismo, all’accumulo nascosto di tesoretti economici, al nepotismo sfrenato. Non è un disconoscere i preti validi sulla breccia, è un riconoscere la durezza nascosta della loro situazione.
Non è un caso allora che il co-protagonista occulto della storia di Habemus Papam sia la Donna, che Wojtyla e Ratzinger hanno voluto escludere per sempre dalla sfera del sacro e che -nonostante alati discorsi - si continua a tenere lontana anche dalla sfera decisionale e partecipativa della Chiesa. Sono sempre donne quelle che rivolgono un gesto di tenerezza, di aiuto e di “guarigione” a papa Michel, marchiato da “deficit di accudimento”.
Alla fine Moretti, che interpreta uno psicanalista in Vaticano, riesce a produrre contemporaneamente un’opera ironicamente laica e al fondo cristiana. Non c’è bisogno che un regista si prefigga un messaggio. Anzi, è meglio di no. Ma di suo - “sein, sein”, come gigioneggia quando affabula in tedesco - Moretti ha posto la questione dell’inadeguatezza-umiltà, che tocca la sorte di molte vite quotidiane, ma dovrebbe attrarre anche l’interesse di molte esistenze monsignorili. Egualmente tocca le corde del cattolicesimo profondo l’appello a un mutamento della Chiesa perché diventi capace di trasmettere un’immagine di amore e comprensione.
E fortunatamente il regista non ha fatto l’errore di voler teorizzare un programma e meno che mai di volerlo attribuire al protagonista. Con mano lieve, tra uno svizzero che si ingozza di dolci papali e un cardinale pallavolista, si è limitato a socchiudere la finestra sul desiderio di moltissimi credenti (e, paradossalmente, anche di tanti non credenti). Se don Georg Gaenswein vuole regalare una bella serata a Benedetto XVI, porti nell’appartamento papale un video di Habemus Papam. Ratzinger di solito ama rivedere di sera qualche vecchio Don Camillo e Peppone. Lo intrigherà guardare un pontefice, che si affaccia alla Loggia esclamando: “Ci vogliono cambiamenti, ci vuole una Chiesa che incontri tutti”. E poi si dimette.
Preghiera politica
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 10/1/2009)
Lo spettacolo dei sagrati del Duomo di Milano e di Bologna pieni di musulmani in preghiera, ma con chiaro intento politico di protesta contro gli avvenimenti di Gaza, non è un evento «normale». O meglio, la sua normalità presuppone un solido giudizio laico (di credenti e non credenti) che non è affatto ovvio nel nostro Paese. Poi l’evento è stato rapidamente archiviato sotto l’incalzare di altri avvenimenti «più normali»: dalla crisi del Comune di Napoli alle grandi nevicate al Nord. Ma è rimasto un evidente disagio, soprattutto nel mondo cattolico. Forse un piccolo trauma che attende ancora di essere elaborato.
Chi da tempo chiede che la voce della religione risuoni, senza restrizioni, nella sfera pubblica è rimasto spiazzato. Non si aspettava che lo facessero i musulmani alla loro maniera e con un’efficacia mediatica inattesa. Ora si obietta che la loro è stata una manifestazione più politica che religiosa, entrando così in un terreno minato. Sappiamo infatti tutti che il rapporto tra religione e politica è profondamente diverso nell’islam e nel cristianesimo. Ma è irragionevole pretendere che i musulmani in Italia si adeguino senz’altro alla nostra (peraltro controversa) concezione della laicità della politica.
Si obietta ancora che qui non è in gioco la politica in generale ma la violenza, il terrorismo, l’odio religioso. Ma è una pura diffamazione considerare la preghiera pubblica e islamica su sagrati delle chiese un’espressione di odio religioso. Con questo non vogliamo eludere il punto nevralgico: l’idea di inimicizia che mescola e confonde inimicizia politica, fatta di sangue e di bombe, con l’inimicizia religiosa e teologica. La protesta musulmana sui sagrati è stata pacifica anche se chiamava in causa il nemico politico. Il punto critico è che tale chiamata in causa è spesso trattata in un linguaggio e in un codice religioso che per corto circuito definisce senz’altro nemico di Dio il nemico politico. Da qui l’accorata richiesta avanzata dai cristiani a non fare la terribile identificazione tra nemico politico e nemico di Dio. Saggia e giusta raccomandazione. Ma quanti secoli di sofferenze, di orrori e di ingiustizie nella cristianità ci sono voluti per arrivare a questa saggia posizione!
Possiamo e dobbiamo limitarci ad affermare che il mondo islamico «non è ancora» approdato a questa conclusione, ma deve approdarvi? Dobbiamo quindi assumere una visione evoluzionista eurocentrica, nel senso che prima o poi tutte le religioni dovranno arrivare alla distinzione tra politica e religione quale si è istituzionalizzata in Occidente? Oppure la questione è assai più complicata e grave perché rimanda a visioni teologiche incompatibili? Non dimentichiamo il fraintendimento della frase del Papa a Ratisbona sulla violenza intrinseca dell’islam. In realtà su questa tematica la strada della comprensione tra cristianesimo e islam è ancora molto lunga. Salvo eccezioni di ristretti incontri tra specialisti, a livello di comunicazione pubblica non esiste alcun serio dialogo teologico tra cristianesimo e islam. Il fatto, enormemente positivo, che spesso in pubblico si arrivi a condannare unanimemente la violenza terroristica, o a pregare insieme, non elimina due realtà di fatto. Da un lato c’è la crescente indistinzione tra attività terroristica e radicalizzazione della violenza bellica, come dimostra quotidianamente il conflitto israelo-palestinese. D’altro lato recitare le preghiere comuni avviene in un contesto ecumenico che spesso rasenta un nuovo politeismo. Fra Allah di Maometto e il Dio di Cristo (e della Chiesa) c’è incomunicabilità quando si arriva alle tesi teologiche fondamentali. La coesistenza pacifica e la benevolenza reciproca è cosa radicalmente diversa dall’intesa teologica.
Questo è rilevante anche per la sentenza evangelica del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Questa sentenza viene ripetuta come un’evidenza, ma il significato che oggi le attribuiamo è stata una faticosa acquisizione storica abbastanza recente. La presa della posizione del Vaticano nella tragedia di Gaza con l’invito a scegliere - in entrambi i campi - politici desiderosi di pace e di concordia, è dettata da grande saggezza politica. Ma non è la risposta esauriente alle questioni implicitamente sollevate nella preghiera pubblica dei musulmani del nostro Paese.
La preghiera è di Dio non può essere di Cesare
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 9 gennaio 2009)
Vedere le piazze antistanti antiche cattedrali gremite di musulmani in preghiera dovrebbe suggerire alcune riflessioni più articolate di un semplice stupore, di una polemica di bassa lega, di una veloce nota di costume. Innanzitutto per il luogo fortemente simbolico: da secoli in Italia la piazza su cui si affaccia la chiesa principale di una città riveste un carattere emblematico: affermazione forte della presenza del cristianesimo al cuore dell’abitato urbano e, nel contempo, faccia a faccia esplicito tra religione e società. L’agorà, il luogo del dibattito civico, del convergere di interessi e attività sociali profane fronteggia il sito per eccellenza della presenza del religioso nella vita quotidiana: cattedrale e palazzo di città, l’una sovente di fronte all’altro, sono lì a ricordare la mai risolta dialettica tra Dio e Cesare, tra città di Dio e città degli uomini.
Ma nei giorni scorsi piazze abituate ad accogliere manifestazioni e cortei, oltre che il quotidiano andirivieni dei centri storici, si sono riempite di oranti, rendendo manifesto un intreccio di preghiera e protesta. Ora, è innegabile che in uno stato democratico e in una società civile lo spazio pubblico debba essere e restare disponibile per la manifestazione pacifica del dissenso, per la protesta o la pressione, anche dura ma sempre nei limiti della legge, di componenti dell’opinione pubblica o di organizzazioni politiche o sindacali. Tuttavia l’immettere nell’esercizio di questo diritto alla libertà di espressione, anche collettiva, una così esplicita connotazione religiosa mi pare metta a rischio sia la natura laica delle contese socio-politiche sia l’essenza stessa della preghiera
E questo, indipendentemente dalla religione confessata di quanti trasformano una manifestazione di protesta in momento di preghiera collettiva. Non dovremmo dimenticare, infatti, l’antichissima e mai sopita tentazione di arruolare nelle proprie schiere la divinità, di identificare i propri nemici con quelli di Dio, di far splendere gagliardetti e insegne militari in mezzo a paramenti sacri, di benedire armi da guerra e strumenti di morte: caratterizzare come religioso uno scontro sociale o etnico significa accrescere le potenzialità distruttive del conflitto e innescare una deriva di cui finiscono vittime la convivenza civile e il confronto democratico in uno stato laico.
Ma anche la qualità autentica della preghiera esce mortificata dalla commistione con la lotta politica. Nel 1965 il grande teologo poi cardinale Jean Daniélou scriveva un libro memorabile, L’oraison, problème politique, in cui poneva il problema della preghiera divenuta sovente evasiva nei confronti dei problemi della polis. Pur con qualche nostalgia della cristianità, l’opera poneva il problema serio del rapporto tra storia, politica e preghiera, problema che riguarda tutte le fedi perché in qualsiasi religione la preghiera non può non accogliere dentro di sé ansie, sofferenze, grida e invocazioni di giustizia, perché cessino il male e l’oppressione e il persecutore venga disarmato. Ma al contempo la preghiera non può essere strumentalizzata fino a renderla una delle armi con cui si conduce una battaglia per una pur giusta causa.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù ha ammonito severamente i suoi discepoli: "quando pregate non fate come quelli che con un comportamento nascondono le loro vere intenzioni e pregano sulle piazze per essere visti dagli uomini" (Mt 6,5). Questo non significa confinare il religioso nel privato, negando una dimensione pubblica del culto, ma fuggire un’ostentazione di ciò che è più intimo e autentico nella vita di un credente per piegarlo ad altri scopi. Ogni credente ha diritto alla libertà di manifestare, vivere, proclamare, far conoscere la propria fede, ha diritto ad avere un luogo per la preghiera anche comunitaria e chi oggi in Italia nega questo ai fedeli di altre religioni, in particolare ai musulmani, non solo ferisce la democrazia, ma compie un gesto estraneo alla logica cristiana, la quale può chiedere ma non pretendere o porre come condizione la reciprocità.
Vi è inoltre un aspetto delicato della preghiera, difficilmente spiegabile a chi non è credente: la preghiera, infatti, è altra cosa dal grido spontaneo che sale dall’angoscia, non è il ricorso a un Dio tappabuchi che interviene e toglie al credente ogni responsabilità e dovere di azione. La preghiera è ascolto di una presenza invisibile che il credente riconosce in Dio, un operare discernimento, un decidere, un trovare ispirazione per la vita quotidiana concreta. Nulla è estraneo alla preghiera e tutto ciò che è umano può in essa trovare posto: gioia e lamento, pianto ed ebbrezza, fiducia e protesta... Chi conosce i Salmi, la preghiera che ebrei e cristiani continuano a cantare ogni giorno da millenni, sa che in essi c’è intimità e storia, vicende personali ed eventi politici del popolo di Dio e degli altri popoli.
In questo senso nel cristianesimo si è sempre avuta la percezione che la preghiera è anche una componente della storia, cioè una forza efficace che fa storia con l’umanità, capace di compiere il bene ma anche di commettere il male. Se infatti pregare è "decidere con Dio", se la preghiera fa sì che l’agire sia sotto la guida dello Spirito, se porta a "intercedere", cioè letteralmente a "compiere un passo tra" due situazioni, allora proprio il suo indirizzare la responsabilità umana diventa componente della storia. Agli occhi di chi non la conosce e non la pratica può apparire operazione vana, stolta o addirittura arrogante, ma per chi ha fede la preghiera è davvero efficace.
In questa situazione non si dimentichi che la preghiera cristiana trova la sua connotazione più autentica nell’essere preceduta dalla riconciliazione: il monito evangelico ad astenersi dal presentare l’offerta a Dio prima di essersi riconciliati con quanti hanno qualcosa contro di noi, l’impegno a rimettere i debiti ai propri debitori per poter invocare il perdono da Dio, l’invocazione della pace come dono di Dio e profezia inverata nella storia sono tutte dimensioni che rendono la preghiera cristiana "disarmata", libera da ogni coercizione, impossibilitata a essere difesa con le armi, sull’esempio della preghiera di Gesù al Padre nell’ora della prova decisiva. è questa l’espressione genuina della preghiera capace di muovere le vicende della storia, come testimoniano figure come Francesco d’Assisi: invocazione a essere nel mondo strumenti disarmati, pacifici e pacificatori della volontà di Dio che è volontà di bene, di vita piena per ogni essere umano.
Viviamo un’ora difficile, una stagione in cui si oscilla tra negazione del dialogo interreligioso e desideri di ripresa di una cristianità che escluda l’altro eletto a nemico, un’ora in cui vi è anche chi, logorato da questo contenzioso espresso con la religione, finisce per avversarla o per pensare che tutte le religioni siano uguali e incapaci di offrire qualsiasi messaggio di umanizzazione. Per questo è fondamentale che la preghiera sia mai politicizzata, non venga mai messa al servizio della violenza né dalla violenza si faccia servire: sia invece voce dei senza voce, orecchio teso ad ascoltare il grido dei poveri e degli oppressi, mani levate a invocare quella giustizia che esse stesse plasmano giorno dopo giorno, ma nella mitezza di chi cerca di vincere il male con il bene e nella franchezza di chi sa rendere a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.
(l’autore è priore della comunità monastica di Bose)
Gaza a Milano, preghiera e imbarazzi
di Manuela Cartosio (il manifesto, 08.01.2009)
Luisa Morgantini, che da anni si batte per la causa della Palestina, dichiara (il manifesto di domenica 4 gennaio) l’«imbarazzo» - suo, dei pacifisti israeliani e dei palestinesi di sinistra) per le manifestazioni che si chiudono al grido di Allah Akbar, Dio è grande. Che cosa impedisce al manifesto di fare (almeno) altrettanto? Perché siamo ciechi, sordi e muti suicortei che sabato scorso nelle piazze italiane sono stati chiusi da una preghiera islamica? Non riempie questo vuoto il commento, su il manifesto di ieri, di Alessandro Dal Lago. Pur condivisibile, esso si limita a constatare che la religione è l’ultima risorsa dei diseredati. Guarda al problema dal punto di vista delle vittime, dei palestinesi, delle seconde generazioni musulmane immigrate in Europa (ovunque e sempre più fondamentaliste dei padri e delle madri). Tace su di noi che da un pezzo siamo costretti a allontanarci da manifestazioni per una giusta causa che usano un linguaggio sbagliato: manichini e bandiere bruciate, stella di David uguagliata alla svastica, ora le preghiere rivolte alla Mecca. Per la destra nostrana queste ultime sono un sacrilegio, una contaminazione dei sagrati e delle «radici cristiane». Fatti suoi.
Fatti nostri, invece, che manifestazioni organizzate anche dalla sinistra deviino dalle sue «radici laiche». Considero questo rassegnato codismo come l’ultima delle prove dell’impotenza di una sinistra a pezzi, incapace persino di contrattare le modalità di un corteo. Non si obietti, per favore, che di fronte ai cinquecento morti a Gaza queste sono argomentazioni accademiche. Riguardano lo statuto della sinistra. E non si liquidi chi solleva questo problema come il malmostoso di turno che, prima di schierarsi e di portare aiuto, pretende di potersi identificare totalmemte con le vittime. Noi siamo schierati con la Palestina. Ma questo non ci deve impedire di chiamarci fuori da un fondamentalismo che sta rovinando sia la Palestina che Israele.
Da ultimo, vorrei far notare la triste incongruenza, per noi, di cortei di uomini e donne chiusi da masse di soli uomini inginocchiati a pregare. Ecco un caso in cui l’esclusione delle donne è benvenuta.
Socializzazione su: fondamentalismi e violenza
di Comunità dell’Isolotto di Firenze
Comunicato stampa su Gaza *
La guerra "piombo fuso" è iniziata in giorno di sabato, nella festa delle luci di Hanukkah. Il governo e le forze armate israeliane hanno chiesto e ottenuto dai rabbini l’autorizzazione a violare il "sabato". Non riguarda solo gli ebrei ma ogni coscienza, religiosa e laica, il fatto che nella catena delle cause di un eccidio ci sia una decisione dei rabbini.
Lo Stato di Israele ha tutto il diritto di essere rispettato, anche da posizioni differenti o critiche, nel proclamarsi Stato ebraico. Ma ciò pone alcune questioni su cui bisogna interrogarsi allo scopo di alimentare con razionalità critica il nostro impegno concreto per la fine del massacro e per la pacificazione. Per mantenere il suo carattere ebraico, così come oggi viene concepito, lo Stato di Israele non può ammettere una maggioranza non ebraica nei propri confini. Appare così inevitabile il dominio del fondamentalismo religioso e il mito di uno Stato che sopravvive solo grazie alla ragione della forza e alla propria capacità militare. Il dominio del fondamentalismo si accompagna sempre al dominio della violenza.
La situazione di Hamas è speculare. La società palestinese, che era una delle realtà più laiche nel panorama del mondo islamico, rischia di cadere sotto il dominio del fondamentalismo di cui Hamas è espressione. I due fondamentalismi, quello ebraico e quello islamico si alimentano reciprocamente, così come il mito della violenza sovrana. In Occidente non siamo estranei a una simile tendenza. Sappiamo quanto le nostre società siano influenzate se non dominate da correnti fondamentaliste, sia nel campo religioso sia in quello politico, le quali aprono scenari di scontro di civiltà. Lo afferma anche la Sinistra Cristiana in un documento.
La nostra speranza è che tanto l’ebraismo quanto l’islamismo, nella cui storia è parte così significativa la componente profetica, diano spazio e voce oggi a tale componente. Saranno così in grado di offrire l’esempio di una fede laica, in dialogo con tutte le religioni e le culture, capace di favorire la rottura della spirale della violenza e il raggiungimento della pace. Il superamento dei fondamentalismi religiosi e delle idolatrie politiche è un problema che mette in questione tutti. Insieme sarà più facile uscirne.
Firenze 8 gennaio 2008
Padre Felice esce allo scoperto: ora ho una storia, chi sa lo accetta
«IO, PRETE GAY ALL’ATTACCO DELL’IPOCRISIA CATTOLICA»
di Patrizia Albanese (Il Secolo XIX, 09 gennaio 2009)
Genova. «Come vive la propria omosessualità un prete come me? Con molta serenità». Padre Felice, 50 anni, parroco in un Comune della Liguria, parla con il tono leggero di chi questa «serenità» non soltanto la vive davvero, ma la trasmette pure agli altri. Anche perché se l’è conquistata a caro prezzo. Con anni di tormenti, iniziati da adolescente. E poi in seminario, dove confida di aver «avuto la fortuna di una relazione con un altro seminarista». Una bella storia d’amore, «poetica, durata a lungo: per 15 anni». Ma che non gli ha risparmiato riflessioni interminabili e molto critiche. Sia verso se stesso, sia verso la Chiesa. Oggi che anche il quotidiano dei vescovi Avvenire ha aperto il dibattito su sacerdozio e omosessualità, padre Felice può rivelare tranquillamente di essere un prete gay.
«Sì, sono gay come molte altre persone all’interno della Chiesa, sebbene non tutte si manifestino». Appunto. Molti religiosi - preti e suore - sono omosessuali. Ma difficilmente ne parlano. Tantomeno in pubblico. Invece Italo, come si chiamava padre Felice nel mondo laico, quando ancora abitava in Lombardia con la famiglia, non soltanto ne parla, ma lo fa con estrema naturalezza. Conferma padre Felice: «Per vivere l’omosessualità con serenità occorre accettare se stessi. E mettere un filtro alla dinamica della gerarchia ecclesiastica e omofobica».
Padre, non è che qui parte una sospensione a divinis?
«All’inizio, vivi con terrore. Nascondendolo a te stesso. Poi capisci che devi accettarti, facendo un cammino di maturazione affettiva. Un cammino che di solito viene negato. Basta leggersi "Il diario di un curato di campagna" di George Bernanos per capire che cosa prova il classico pretino schiacciato».
Quando ha realizzato di essere gay?
Da ragazzino, si percepisce. In seminario, si realizza pienamente. Verso i vent’anni, si arriva all’accettazione».
Di nascosto? Pregando e macerandosi?
«Ho avuto la fortuna di una relazione con un altro seminarista. Era tutto molto poetico. Si hanno vent’anni. E tutta l’incoerenza dei vent’anni. Ma con la speranza data dalle aperture del Concilio. Così almeno si pensava allora. Perché poi è arrivata la Restaurazione. Ma la Chiesa non è una compagnia militare. È una comunione di più voci. Di più anime».
Quant’è durata la storia in seminario?
«Quindici anni. Anche lui è diventato prete. Poi ci siamo lasciati. L’amicizia è rimasta. Ora è missionario in Centro America».
Lei è così tranquillo...
«Guardi che conosco molti preti omosessuali, molto tranquilli e altrettanto sereni. Diverso è il caso di quelli che rifiutano di accettarlo e di accettarsi. Sono i primi a scagliarsi...».
Lei è single?
«Ho una storia da sei mesi. Con un coetaneo. Prete? No, pure lui single».
Scusi, padre, e la comunità?
«Non tutti sanno tutto. Mica siamo a un reality. Però chi sa accetta. E non ha problemi. Anzi, proprio per questo sono diventato un punto di riferimento per chi ha problemi d’amore. No, non soltanto gay. Anzi. Direi che si rivolgono a me i ragazzi etero. Sanno che posso comprenderli».
Scusi, ma la castità?
«Bella domanda. Soltanto i monaci e i frati fanno voto di castità sul modello greco di perfezione. Noi preti facciamo promessa di celibato».
Ossia?
«In realtà è frutto di un diktat della Chiesa del 1200, decisa a evitare che i patrimoni finissero alle famiglie dei religiosi. In realtà, non c’è mai stato obbligo di celibato. Tant’è che non esiste nelle altre religioni. E fino al 1200 neppure per noi. Francamente, penso che il fatto di vivere da soli non faccia maturare. Non ti fa preoccupare dell’altro».
Come dire che senza un partner e dei figli non si possono comprendere gli affanni quotidiani dei fedeli?
«Concordo. Ma sempre più la famiglia etero viene usata come scudo contro gli omosessuali. È la tragedia del nostro tempo. Che esiste solo da noi. Non in Africa, per esempio. La vita celibataria nelle Missioni non esiste. È importante, però, non farlo sapere. È il gap tra realtà e gerarchie ecclesiastiche. Che all’inizio tutelavano i patrimoni, ora disprezzano la sessualità. A parole. Nell’ipocrisia cattolica, basta non farlo sapere».
Invece lei fa coming out. È innamorato?
«Sì, felicemente. Da sei mesi. Una cosa molto serena».
Chi ha fatto il primo passo?
«Direi lui, eravamo in vacanza. Abbiamo iniziato parlando molto. Ci incontravamo».
E ora quando vi vedete? Nel fine settimana?
«Veramente, sabato e domenica io non posso... - ride - Ma nei giorni feriali, stiamo insieme».
Allora, auguri.
«Grazie di cuore».
Patrizia Albanese
Don Z., sacerdote di campagna: "I miei fedeli lo sanno, spesso la gente è più avanti di quel che si pensi"
"PARROCO E OMOSEX, NON MI NASCONDO SONO I VESCOVI A TEMERE LO SCANDALO"
Cominciò tutto in seminario, mi innamorai di un ragazzo: ora è andato via, siamo amici
di MARCO POLITI (la Repubblica, 09 gennaio 2009)
ROMA - Prete, gay, cinquantenne. Don Z. non è rimasto affatto colpito dal fatto che si stia aprendo una breccia nel muro di tabù che nella Chiesa circonda ancora l’omosessualità.
«L’Avvenire - risponde sorridendo - agli occhi del clero rappresenta un po’ il giornale governativo. Certo affermare la normalità dell’omosessualità diventa importante per quei fedeli i quali attendono ancora la linea dalla gerarchia. Però interessa meno a quei preti che da tempo vivono liberi la propria affettività».
Don Z. è parroco di campagna, è stato ordinato circa una ventina di anni fa e in un certo senso è gay da sempre.
Quando ha scoperto il suo orientamento sessuale?
«Da adolescente, come molti, e poi più chiaramente al seminario».
Cosa è successo?
«Mi sono innamorato di un altro seminarista. È una storia durata qualche anno, anche lui è diventato prete, ha cambiato città e siamo rimasti buoni amici».
Non siete stati scoperti?
«In seminario ognuno si faceva gli affari propri. C’era una vita abbastanza libera e su una trentina di allievi circa sette, otto avevano relazioni. Etero oppure omosessuali».
Prima dell’ordinazione ha avuto dubbi?
«No».
Poi ha avuto altre storie?
«Ci sono stati anche periodi in cui sono stato per conto mio, una breve stagione in cui ho frequentato ritrovi gay, ma in complesso ho vissuto una vita tranquilla. Adesso da un anno ho una nuova relazione. Credo che tutto dipenda dalla maturazione di una persona. Ci sono preti bravissimi che non hanno alcuna relazione e preti altrettanto bravi che hanno un rapporto».
Tutto avviene sempre in maniera così serena?
«Niente affatto. Ci sono preti che vivono la loro situazione con grande sofferenza, perché oscillano fra liberazione e repressione. Non hanno il coraggio di essere chiari con se stessi. Non c’è cosa più drammatica che rifiutare se stessi e contemporaneamente abbandonarsi ad una sessualità sregolata e poi ricadere nel bisogno di colpevolizzazione. Alla fine è essenziale chiarirsi e affrontare la vita con maturità».
I vescovi sanno?
«I vescovi sono terrorizzati, soprattutto in questa fase di restaurazione in Vaticano. Se c’è scandalo, cercano di coprire. Se tutto avviene senza scalpore, spesso fingono di non vedere. Magari vengono a sapere che un prete ha un nipote in canonica che nipote non è, ma sono restii a intervenire o suggeriscono semplicemente di non creare situazioni che possano creare scompiglio».
I suoi fedeli lo sanno di avere un parroco gay?
«Alcuni sì. Spesso i fedeli sono più avanti di quanto si pensi. "Sappiamo che quel prete ha amici - dicono - ma è bravo, predica bene, confessa bene, assiste gli anziani. Apprezziamo quello che fa". Da me in parrocchia i ragazzi e i giovani lo sanno».
Come l’hanno scoperto?
«Gliel’ho detto io».
Sul serio?
«Ho alcuni gruppi di ragazzi. Un giorno uno di loro ha detto di non sopportare gli omosessuali. Allora gli ho risposto: guarda, che ne hai uno davanti! I ragazzi hanno reagito in modo molto tranquillo, nessuno è andato in giro a dire niente. D’altronde uno di loro ha una zia lesbica, in paese lo sanno tutti e niente più».
In confessione ha incontrato fedeli, che hanno sollevato il problema di essere gay?
«Qualche volta. In genere, giovani angosciati dall’insegnamento cattolico tradizionale, che li spinge a non accettarsi, quasi a odiarsi, perché l’omosessualità è presentata come una cosa orribile e mostruosa».
E lei cosa fa?
«Li consiglio a rivolgersi a qualcuno che possa aiutarli a capire meglio se stessi».