intervista a Camillo Ruini
"I nostri sono valori non negoziabili"
a cura di Orazio La Rocca (la Repubblica, 10 dicembre 2009)
«L’uomo non è un semplice prodotto della natura. E’ questa la base su cui poggiano tutte quelle tematiche che Benedetto XVI riassume, per cattolici, credenti, non credenti e uomini di buona volontà, quando parla di "valori non negoziabili"». Valori che - ricorda il Papa - hanno come fine ultimo la difesa della vita dal concepimento fino alla fine naturale. Di valori non negoziabili - ma non solo - si parlerà a Roma al convegno «Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto», organizzato dal cardinale Camillo Ruini, presidente del Progetto Culturale Cei. Un confronto sullo stato di "salute" della fede, anche per ribadire la strada maestra che i cattolici doc devono seguire nelle scelte sociali.
Cardinale Ruini, perché un convegno dedicato a Dio oggi?
«Per due ragioni. La prima è il nostro compito di sempre: annunciare e rendere testimonianza a Dio è infatti la missione essenziale della Chiesa. La seconda ragione riguarda l’attuale contesto culturale, nel quale è forte la negazione di Dio, o almeno la convinzione che di Dio la ragione umana non possa sapere nulla, ed eventualmente solo la fede, come fatto soggettivo, possa aprire una strada verso Dio».
Dio discusso come un qualsiasi altro argomento culturale: non c’è il rischio di banalizzarlo?
«Promuovere un confronto culturale riguardo a Dio significa cercare di adempiere al mandato contenuto nella prima lettera di Pietro: "Rendere ragione della speranza che è in noi". Non significa però pensare che Dio possa essere "padroneggiato" dai nostri discorsi e neppure significa dimenticare che quella di Dio non è soltanto una questione dell’intelligenza: è una questione di tutto l’uomo, che mette in gioco la nostra libertà, sensibilità, il senso e l’orientamento della nostra vita».
Con questo convegno spera di poter fermare, almeno in parte, l’attuale processo di scristianizzazione?
«Non penso di poterlo fermare, ma di poter in piccola misura dare un contributo per orientare il divenire della cultura italiana in una direzione più aperta alle piene dimensioni dell’intelligenza e della libertà dell’uomo che, come dicono i teologi, è "capace di Dio", e rimane tale anche nell’Italia e nell’Occidente di oggi».
Anche la Chiesa ha colpe per questa scristianizzazione?
«Tra gli uomini e le donne che formano la Chiesa, accanto a molti santi e autentici testimoni di Dio, vi sono, e temo vi saranno sempre, anche dei testimoni meno attendibili, tra i quali penso purtroppo di rientrare anch’io. Dio stesso, però, ci chiama tutti a una testimonianza più generosa e più coerente: questo è anzitutto un dono di Dio, per il quale personalmente prego ogni giorno».
La sentenza del Tribunale di Strasburgo che impone di togliere i crocifissi dalle scuole italiane non è in parte figlia di questo processo di scristianizzazione?
«Lo è certamente, e mostra l’ambiguità di questo processo. Infatti, pensando di tutelare al massimo la libertà del singolo, il Tribunale ha trascurato di salvaguardare la libertà di espressione di un popolo, le sue tradizioni, la sua cultura, il sentimento profondo che lo lega alla croce di Cristo».
Rilanciare Dio nella società di oggi significa anche rilanciare temi morali cattolici come la difesa della vita, la condanna dell’aborto, il no all’eutanasia, la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna che Benedetto XVI ha più volte definito "non negoziabili"?
«Obiettivo dell’evento internazionale su Dio è affrontare quel grande tema che è Dio stesso, la sua esistenza, il suo vero volto, il suo significato per noi. Di per sé, non entreremo dunque negli argomenti da lei indicati. E’ vero però che soltanto se Dio esiste, l’uomo, ogni essere umano, può essere qualcosa di più e di diverso da un semplice prodotto della natura, può essere un fine in se stesso. Questa è la base comune di tutti i temi che Benedetto XVI ha definito "non negoziabili": una base che può rimanere anche soltanto implicita, perché il valore dell’uomo ha una sua immediata evidenza».
A chi è destinato il messaggio legato a Dio oggi? Politici, gente comune, uomini di Chiesa?
«E’ destinato a tutti, non in particolare all’una o all’altra categoria, anche se il tipo di trattazione di un incontro di questo genere è più facilmente accessibile per chi ha una certa preparazione culturale».
Ma preti, vescovi, cardinali e papi hanno sufficiente attenzione verso Dio?
«Benedetto XVI ha scritto, nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo scorso, che per lui e per la Chiesa tutta rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio è la priorità che sta al di sopra di tutte le altre. E’ una parola che ci interpella tutti e dalla quale mi sento personalmente interpellato nel profondo».
La libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa
Alcune riflessioni sul convegno dedicato a "Dio oggi": è necessario cambiare, non si possono più sostenere così come sono i dogmi e la morale sessuale Il cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola L’attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza?
di Vito Mancuso (la Repubblica, 10 dicembre 2009)
Si apre oggi a Roma e durerà fino a sabato un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma: "Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto". Il programma prevede la partecipazione di scienziati, storici, filosofi, scrittori, giornalisti, teologi. Condividendo l’urgenza dell’argomento, presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione.
1. La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l’ateismo materialista. Tale era l’impresa della modernità, caratterizzata dal porre l’assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall’ateismo teoreticamente impegnato. Gli odierni alfieri dell’ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come "rivincita di Dio", anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio.
2. La questione epocale è piuttosto un’altra, cioè che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano. La postmodernità col suo crescente desiderio di spiritualità non intende per nulla tradursi nelle tradizionali forme cristiane. Anzi, il cristianesimo continua a perdere fascino, annoia, nel migliore dei casi consola. La questione diviene quindi quale forma di spiritualità sia concepibile per un ’epoca che vuole essere religiosa (persino mistica come prevedeva Malraux) ma non intende più essere cristiana nella forma tradizionale del termine. Affrontare questa sfida è essenziale per la teologia cristiana.
3. La teologia può tornare a far pensare gli uomini a Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita. Ha scritto Nietzsche: "Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza". È vero. Se vuole tornare a essere significativa, la teologia deve configurarsi come radicale onestà intellettuale. Vi sono stati pensatori che nel ‘900 hanno scritto di Dio in questo modo: penso a Florenskij, Bonhoeffer, Weil, Teilhard de Chardin. Si tratta di continuare sulla loro strada. Oggi la coscienza europea non è più disposta a dare credito a una teologia che dia il sospetto anche del minimo mercanteggiare.
4. In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all’interno della Chiesa e della sua dottrina, talora persino contro la Chiesa e la sua dottrina, senza timore di dare scandalo ai fedeli perché il vero scandalo è il tradimento della verità e l’ipocrisia. Ha scritto nel 1990 il cardinal Ratzinger: "Nell’alfabeto della fede al posto d’onore è l’affermazione: In principio era il Logos. La fede ci attesta che fondamento di tutte le cose è l’eterna Ragione". Parole sublimi, ma ecco il punto: proprio dall’esercizio della ragione all’interno della fede sorgono acute difficoltà logiche su non pochi asserti dottrinali. Simone Weil rilevò il paradosso: "Nel cristianesimo, sin dall’inizio o quasi, c’è un disagio dell’intelligenza". Tale malaise de l’intelligence è attestato anche dal fatto che i principali teologi cattolici del ‘900 hanno avuto seri problemi con il magistero, penso a Teilhard de Chardin, Congar, de Lubac, Chenu, Rahner, Häring, Schillebeeckx, Dupuis, Panikkar, Küng, Molari. E oggi le cose non sono migliorate, anzi.
5. L’impostazione dominante rimane oggi la seguente: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale. Nel documento La vocazione ecclesiale del teologo, firmato dal cardinal Ratzinger nel 1990, il nesso chiesa-magistero-teologia è strettissimo. A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica. Perché il cristianesimo possa continuare a vivere in Europa, è necessario che la teologia liberi il pensiero di Dio dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale lungo i secoli con la morsa degli anathema sit e faccia entrare l’aria pulita della libertà. Non sto auspicando la scomparsa del magistero, ma il superamento della convinzione che la verità della fede si misuri sulla conformità a esso. Ciò che auspico è l’introduzione di una concezione dinamico-evolutiva della verità (verità uguale bene) e non più statico-dottrinaria (verità uguale dottrina). Ignazio di LoyolaUna teologia all’altezza dei tempi non può più configurarsi come obbedienza incondizionata al papa. L’obbedienza deve essere prestata solo alla verità, il che impone di affrontare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina.
6. Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell’equazione "verità uguale dottrina" per porre invece "verità maggiore dottrina". È esattamente la prospettiva della Bibbia, per la quale la verità è qualcosa di vitale su cui appoggiarsi e camminare, pane da mangiare, acqua da bere. In questo orizzonte l’esperienza spirituale ha più valore della dottrina, il primato non è della dogmatica ma della spiritualità, e i veri maestri della fede non sono i custodi dell’ortodossia ma i mistici e i santi (alcuni dei quali formalmente eterodossi come Meister Eckhart e Antonio Rosmini). Ne viene che un’affermazione dottrinale non sarà vera perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, la vita giusta e buona. Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che ragiona in base alla logica "ortodosso-eterodosso", al sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica "vero-falso", e ciò che determina la verità è la capacità di bene e di giustizia. Così la teologia diviene autentico pensiero del Dio vivo, qui e ora.
7. Concretizzando. Non si può continuare insegnare che la morte è stata introdotta dal peccato dell ’uomo, mentre oggi si sa che la morte c’è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell’uomo. Né si possono più sostenere così come sono i dogmi sul peccato originale, sull’origine dell’anima, sull’eternità dell’inferno, sulla risurrezione della carne.
Occorre inoltre prendere atto dell’insufficiente risposta alla questione del male e del dolore innocente, la più antica e la più attuale sfida a ogni pensiero di Dio. Per quanto riguarda poi la morale sessuale, le parole del card. Poupard sul caso Galileo, cioè che la Chiesa di allora fu incapace di "dissociare la fede da una cosmologia millenaria", devono portare a domandarsi se oggi non si è allo stesso modo incapaci di dissociare la fede da una biologia altrettanto millenaria e altrettanto sorpassata.
È necessario un immenso lavoro perché l’occidente torni a riconoscersi nella sua religione, e la condizione indispensabile è che il cantiere della teologia si apra alla libertà.
Infatti (per riprendere il sottotitolo del convegno romano) con o senza libertà cambia tutto. Ma l ’attuale gerarchia della Chiesa è spiritualmente grado di cogliere l’urgenza della situazione e di aprirsi al rischio della libera intelligenza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Bergoglio ai medici: «Diffondete la cultura della vita»
di Luca Kocci (il manifesto, 21 settembre 2013)
Dopo aver letto l’intervista di Bergoglio pubblicata giovedì da Civiltà cattolica, molti hanno parlato di un papa rivoluzionario («Le parole rivoluzionarie del Papa», titolava in prima pagina il Corriere della sera). Ascoltando invece il discorso che ieri Francesco ha rivolto ai ginecologi cattolici ricevuti in Vaticano - tutte incentrate sul tema della difesa della vita e della lotta contro l’aborto -, sembrava di sentire le parole di Ratzinger, pacate nei toni, identiche nei contenuti.
Eppure il pensiero di Bergoglio non è sdoppiato ma unico, e fino ad ora tiene insieme i due aspetti: l’addio ai toni da crociata dei suoi predecessori contro gli infedeli relativisti e la conferma degli aspetti fondamentali della dottrina cattolica («Pop e conservatore» titolava il manifesto all’indomani dell’elezione al soglio pontificio).
Una pastorale meno rigida e più inclusiva nei confronti dei “lontani” sembra essere la vera novità di questi primi mesi. Insieme ad una riforma della Curia e degli organismi finanziari che forse verrà nei prossimi mesi. E c’è da aspettarsi che entrambe saranno ostacolate dai settori più conservatori.
A questo proposito, oggi potrebbe essere annunciata la nomina del prefetto della Congregazione per il clero (il dicastero che si occupa dei preti di tutto il mondo): va via il cardinale ratzingeriano e ultraconservatore Mauro Piacenza (molto legato al card. Bertone, segretario di Stato uscente), che andrà alla Penitenzieria apostolica, il tribunale che si occupa di indulgenze e confessioni.
Al suo posto arriva l’arcivescovo Beniamino Stella, un diplomatico come il nuovo segretario di Stato entrante Pietro Parolin, in passato nunzio a Cuba e in Colombia, ora presidente della Pontificia accademia ecclesiastica, la scuola di formazione dei diplomatici della Santa sede. Lo spoil system continua. Il magistero sui «principi non negoziabili» però non si incrina, come dimostra il discorso di ieri ai ginecologi: la battaglia contro l’aborto resta la “linea del Piave”.
Constatiamo «i progressi della medicina», ma «riscontriamo il pericolo che il medico smarrisca la propria identità di servitore della vita», ha detto Bergoglio. Colpa del «disorientamento culturale» che «ha intaccato» anche «la medicina», per cui «pur essendo per loro natura al servizio della vita, le professioni sanitarie sono indotte a volte a non rispettare la vita stessa». «Si attribuiscono alla persona nuovi diritti, a volte anche presunti diritti», aggiunge, e «non sempre si tutela la vita come valore primario». «Ogni bambino non nato ma condannato ingiustamente ad essere abortito - affonda Bergoglio - ha il volto di Gesù Cristo».
C’è poi l’appello ai medici ad essere «testimoni e diffusori di questa cultura della vita» all’interno delle strutture sanitarie: «I reparti di ginecologia sono luoghi privilegiati di testimonianza e di evangelizzazione».
Il papa non la nomina, ma l’invito all’obiezione di coscienza pare evidente. E a ribadire l’inamovibilità dei principi non negoziabili è anche il convegno internazionale sulla famiglia che si conclude oggi in Vaticano.
Mons. Paglia, “ministro” della famiglia, auspica la redazione di una Carta internazionale dei diritti della famiglia per difenderla dalle «usurpazioni» e dagli «attacchi violentissimi» cui è sottoposta. E il presidente dei giuristi cattolici, D’Agostino bolla come «famiglia sintetica» tutti i tipi di unione che non siano quelle fra uomo e donna fondate sul matrimonio: frutto di uno «spirito malato», non basate su un progetto «ma sull’immediatezza dei sentimenti», senza futuro.
In mattinata, nella quotidiana messa a Santa Marta, Bergoglio ha avuto un’uscita delle sue, a testimonianza della sua capacità di tenere insieme dottrina e popolo. «L’avidità del denaro è la radice di tutti mali», ha detto nella breve omelia, aggiungendo subito: «E questo non è comunismo, è Vangelo». E così ha riequilibrato quanto aveva detto a Civiltà cattolica: «Non sono mai stato di destra».
Le fedi come le aziende aspirano al monopolio
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 12 gennaio 2010)
In principio fu Adam Smith con il suo celeberrimo trattato di economia politica La ricchezza delle nazioni (1776). Il filosofo economista scozzese per primo analizzò la Chiesa come un’entità economica e applicò ad essa le categorie che traeva dalla propria disciplina, in particolare quella di monopolio, cioè quel regime che inevitabilmente produce un aumento del prezzo e un abbassamento della qualità per il solo fatto che il mercato non è stimolato dalla concorrenza.
Discorso che vale anche per la Chiesa. Una religione «ben costituita», secondo il padre fondatore dell’economia politica, non sfugge alla regola: il prezzo del «prodotto» è più elevato e la sua qualità minore di quel che sarebbero se ci fosse libera competizione. Di più. In genere il clero «non ha altra risorsa che rivolgersi al magistrato civile perché persegua, distrugga o scacci i suoi avversari come disturbatori della pace pubblica». Fu così, osserva Adam Smith, «che il clero cattolico romano si rivolse al magistrato civile per perseguitare i protestanti; la Chiesa d’Inghilterra per incalzare i dissidenti; e che in generale ogni setta religiosa, una volta goduta per uno o due secoli la sicurezza di una istituzione legale, si è trovata incapace di difendersi efficacemente contro qualsiasi nuova setta decisa ad attaccare la sua dottrina o disciplina».
È da questo passo che prende le mosse un libro assai interessante di Philippe Simonnot, Il mercato di Dio. La matrice economica di ebraismo, cristianesimo, islam che, nella buona traduzione di Giuliano Gasparri, l’editore Fazi si accinge a mandare in libreria di qui a qualche giorno.
Nella prefazione al volume, Marco Aime avverte che l’approccio «per nulla scontato» di Simonnot può comportare accuse di vilipendio o addirittura di blasfemia che però l’autore - pur procedendo sul terreno scivoloso di un’analisi solo e soltanto economica della genesi e del consolidamento delle tre grandi religioni monoteiste del mondo mediterraneo- ha saputo evitare stando bene attento a non cedere mai al gusto della provocazione.
«A scanso di equivoci», scrive Simonnot, «qui non si tratta affatto di pretendere di spiegare la religione attraverso l’economia, né di riciclare le teorie dell’oppio dei popoli, ma più modestamente di mettere a disposizione della scienza religiosa gli strumenti dell’analisi economica». Un po’ quel che, in campo sociologico, fece August Comte nell’Ottocento. Senza aver la pretesa, ovviamente, di paragonare Comte a Simonnot.
E se L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber ha esaminato l’incidenza della religione sull’economia o la dottrina economica implicitamente o esplicitamente sottesa a una credenza, «almeno altrettanto istruttivo», afferma l’autore, «è studiare l’economia propriamente detta della religione, ossia prendere la religione come un qualcosa suscettibile di analisi economica». Così la religione viene presentata come un’«azienda» che offre «beni di credenza», la cui qualità si basa sulla fiducia riposta in chi li produce dal momento che il risultato della pratica religiosa- cioè la salvezza eterna - non è, per sua natura, né verificabile né falsificabile. E poiché il «valore» di un bene di credenza riposa interamente sulla credibilità del suo fornitore, se ne può dedurre «che difficilmente quest’ultimo tollererà la presenza di un concorrente rivale, il quale vorrà per forza mettere in dubbio la sua credibilità per affermare la propria». Ad un tempo, per entrare nel «mercato», una religione «deve apparire come molto nuova, naturalmente, per attrarre nuovi "clienti", ma anche molto antica, per rassicurarli, dato che la longevità sembra essere una garanzia di qualità di questo ramo... Così il cristianesimo del I secolo, pur essendo nuovo, ha sostenuto la propria anteriorità rispetto all’ebraismo, ricollegandosi direttamente ad Abramo; e l’islam ha fatto esattamente la stessa cosa sei secoli più tardi».
Ma perché Simonnot si concentra in questo libro sui tre monoteismi venuti da Abramo? «Quel che colpisce subito uno sguardo privo di pregiudizi», risponde lui stesso, «è che un Dio unico funziona più facilmente da mediatore finanziario per coloro che lo servono rispetto a una moltitudine di Dei che si fanno concorrenza. In primo luogo perché il Dio unico permette di risolvere più facilmente il problema centrale di ogni religione, cioè quello della sua credibilità. Certo il Dio che appare nella Bibbia si mostra spesso crudele, terribile, parziale e geloso, ma è meno imprevedibile, più affidabile degli Dei capricciosi e immorali che si trovano nello stesso momento sul "mercato". Forse era ragionevole offrire di tanto in tanto agli altari pagani dei sacrifici di cui i sacerdoti prendevano una parte, ma si poteva scegliere tra molte divinità e, se non si otteneva ciò che si desiderava, si poteva cambiare culto.
Nel monoteismo, invece, si ha a che fare sempre con lo stesso Dio. Un Dio, per giunta, universale, il cui sguardo vi può seguire dappertutto sulla terra... Per di più gli Dei non sembrano preoccuparsi degli affari umani se non in funzione dei propri interessi, mentre il Dio della Bibbia si occupa del suo popolo in modo costante».
Ma veniamo all’analisi specifica di Simonnot. A suo dire si applica bene alla religione la legge di Metcalf (da Robert Metcalf, un imprenditore statunitense, inventore di Ethernet, secondo il quale il valore di una rete di computer cresce in proporzione all’aumento dei computer connessi): il valore che un consumatore attribuisce a un bene - nel nostro caso un credo religioso - dipende anche dal numero di utenti di questo bene: una religione ha tanto più «valore» per il credente, è cioè tanto più credibile, quanto più grande è il numero dei suoi fedeli.
Per quel che riguarda, poi, il reperimento delle risorse «vi sarebbe, soggiacente a ogni società, un giacimento finanziario costituito da somme, piccole o grandi, che brave persone sono pronte a donare per la salvezza della propria anima, per la propria sanità mentale o per qualsiasi altro obiettivo; dato che la divisione del lavoro aiuta, si costituiscono "compagnie" per esplorare, trivellare e sfruttare questo giacimento. Ciò presuppone che l’economia interessata sia in grado di sviluppare un surplus. Il giacimento non è estensibile all’infinito, anche se, a condizione di non toccare il capitale, è indefinitamente rinnovabile. Ogni luogo di culto, anche la più umile parrocchia, può dunque essere considerato come una torre di trivellazione... Ogni religione cerca di allacciarsi a questo giacimento favoloso e, se ci riesce, di assicurarsene il monopolio su un dato territorio».
Ma il flusso delle donazioni non è regolabile e spesso nella storia delle religioni si nota che esso genera un’eccedenza. Mosè, secondo la Bibbia, dovette mettere fine alla colletta promossa per costruire il santuario di Yahweh dal momento che il popolo portava «molto di più» di quel che era necessario per eseguire l’opera voluta dal Signore; sulla parete sud del tempio funerario di Ramsete II a Medinat Habu (in Egitto) compare un elenco di offerte che dovevano essere portate nei diversi momenti dell’anno in quantità tale che è impossibile pensare venissero ammucchiate sull’altare.
Ed è ancora Adam Smith a osservare che «il clero non poteva trarre vantaggio da questa immensa eccedenza se non impiegandola nella più prodiga ospitalità e nella più grande carità». Stando a Smith, dunque, le due più importanti istituzioni della Chiesa nel Medioevo erano dovute non tanto a virtù evangeliche quanto alla necessità di smaltire un surplus di donazioni.
Ma torniamo al tema di partenza, che è quello del monopolio. Il monopolio, scrive Simonnot, non può esistere senza l’intervento diretto o indiretto dello Stato, il quale dispone della forza per mettere barriere all’ingresso di un mercato, «e di fatto, nella storia, ogni monopolio religioso si è appoggiato all’autorità pubblica, oppure se ne è appropriato». Ma quando, ciò che è inevitabile, il monopolio che poggia sullo Stato abuserà della propria posizione, sorgeranno dei concorrenti sia all’interno della Chiesa - chiamati riformatori, scismatici o eretici (i protestanti nel cristianesimo del XVI secolo) - sia all’esterno con la comparsa di nuove religioni: ad esempio l’islam nel VII secolo.
Di qui si potrebbe anche immaginare una sorta di «ciclo» religioso che si riproduce all’infinito: «In un mercato aperto alla concorrenza, una religione tende al monopolio; questo monopolio non può che poggiare sullo Stato; una volta che poggia sullo Stato, abusa della propria posizione; il prodotto scade; compaiono altre religioni con il che si torna alla situazione di concorrenza». E di qui riparte il ciclo. Il papato, puntellato dall’impero, in alcuni momenti della storia è stato di fatto una delle più grandi potenze finanziarie del mondo, che attirava i banchieri più influenti, scrive Simonnot: i Medici, i Fugger, i Rothschild. Per la legge di cui sopra questo gigantesco monopolio è stato, però, contestato e messo in crisi; con il che il «mercato» religioso è tornato successivamente ad essere pienamente aperto alla concorrenza.
C’è un momento, inoltre, in cui l’influenza economica dell’istituzione religiosa entra in concorrenza con quella dello Stato. Anche di questo aveva parlato Adam Smith: «L’entrata di ogni chiesa costituita», scrisse, «è una parte dell’entrata generale dello Stato che viene così distratta per uno scopo molto diverso da quello della sua difesa. La decima ad esempio è una vera imposta fondiaria che impedisce ai proprietari terrieri di contribuire alla difesa dello Stato nel modo generoso che sarebbe loro altrimenti consentito. Tuttavia secondo alcuni la rendita della terra è l’unico fondo e secondo altri il fondo principale con il quale in tutte le grandi monarchie si deve fare fronte alle esigenze dello Stato. Evidentemente quanto più di questo fondo viene dato alla Chiesa, tanto meno può essere riservato allo Stato. Si può benissimo affermare come massima certa che, a parità delle altre condizioni, quanto più ricca è la Chiesa, tanto più poveri devono essere necessariamente il sovrano da un lato e il popolo dall’altro; e, in tutti i casi, tanto meno lo Stato sarà in grado di difendersi».
Simonnot colloca il momento in cui inizia la concorrenza tra Stato e Chiesa nel XII secolo, cioè quando si stabilisce una relazione diretta tra tasse pagate al fisco e decime per la Chiesa: tanto più alte sono le prime, tanto minori saranno le seconde e viceversa. A suo avviso, «una sorta di legge fisica faceva dunque prevedere con otto secoli di anticipo quel che sarebbe avvenuto al fisco dello Stato quando le rendite del papato si sarebbero ridotte al minimo».
Se è vero che nel XX secolo il fisco ha lasciato alla Chiesa solo una porzione «congrua», si può in qualche modo asserire che lo Stato-provvidenza ha preso il posto della carità cristiana. A questo punto il potere pubblico comincia a vedere nelle Chiese e nelle sette dei rivali in materia di direzione delle anime ma anche (e, forse, soprattutto) dei concorrenti fiscali. Lo Stato, in questa nuova situazione, preferisce di gran lunga avere a che fare con «cartelli» religiosi o con un monopolio con cui può stabilire un modus vivendi piuttosto che con una moltitudine di sette incontrollabili. Ed è di qui che nascono le politiche concordatarie.
Per parte sua un monopolio religioso, se vuole durare, ha un disperato bisogno di appoggiarsi allo Stato «in quanto difficilmente può soddisfare la "domanda" di religione in tutte le sue sfaccettature». Se, proviamo a supporre, «il grosso della "clientela" è soddisfatto di una qualità media a un prezzo medio, alle estremità della scala delle preferenze religiose si trovano in "alto" dei "consumatori" molto devoti che sarebbero disposti a pagare molto più caro un prodotto di migliore qualità e in basso, al contrario, dei "clienti" che si accontenterebbero di un prodotto mediocre a un prezzo più contenuto. Questa diversità di gusti e di esigenze obbliga il monopolio, se vuole durare, ad ampliare la gamma dell’offerta per soddisfare tutti».
Così fu per la Chiesa cattolica quando si trovò in condizioni di monopolio: severi e rigorosi ordini monastici permettevano di rispondere ai clienti più esigenti, mentre i «parrocchiani della domenica» potevano limitarsi a fare la comunione a Pasqua. Ma quando l’appoggio dello Stato venne meno e il «mercato» religioso si aprì alla concorrenza, «allora questa vasta gamma fu più difficile da coprire e il vecchio monopolio venne attaccato alle due estremità». E da allora il fenomeno si è riprodotto più volte: in basso «vaghe credenze cercano di recuperare i "parrocchiani della domenica" con religioni o filosofie da ciarlatani»; in alto, «alcune sette giungono a offrire nuovi "prodotti" più rigorosi che riescono a vendere ad alto prezzo e questo prezzo, ovvero i sacrifici richiesti in tempo e denaro, diventano persino una sorta di garanzia di qualità».
In seguito le sette, «una volta piazzate nella propria nicchia cercheranno di ampliare la "clientela" abbassando insieme il prezzo e le proprie esigenze; non tutte ci riescono, naturalmente; ma quelle che arrivano ad estendersi diventano a loro volta Chiese, cercando di approfittare delle tendenze monopolistiche dell’economia locale».
Le espressioni di Simonnot sono volutamente quelle che si usano nel linguaggio economico e l’autore tiene a ripetere che in esse non c’è - o quantomeno non vuole esserci - niente di offensivo o riduttivo. Neanche quando scrive che «la nascita del cristianesimo è avvenuta, se così possiamo dire, conformemente a questo business model; la setta è diventata una Chiesa». Per poi aggiungere: «Possiamo anche immaginare che delle Chiese tornino ad essere sette, abbandonando le frange più lassiste della propria "clientela" e concentrandosi sui propri membri integralisti». Un discorso che ha molte implicazioni. Per la storia ma anche per l’oggi.
Ricominciano proposte e giochi sui «derivati»
Se già torna malafinanza
di Giancarlo Galli *
«Il temporale è passato, la festa può ricominciare...». È questa l’aria che da qualche mese si respira nei santuari della finanza mondiale, e anche fra le boiseries delle Banche italiane. Traducendo, affinché tutti possano comprendere: allorché esplose la Grande Crisi (inverno 2008) che fece temere un crac dell’intero sistema capitalistico globalizzato, non vi fu bisogno di strologare, andare alla ricerca di «mali oscuri». Le responsabilità furono subito chiare, individuate nei comportamenti di banchieri e speculatori; nella talvolta interessata disattenzione dei controllori (Federal Reserve, Banca centrale europea in primis); nella debole autorevolezza dei politici, di quei ministri del Tesoro che pur riunendosi in continuità, non avevano né visto né previsto. Arrivato il ciclone, l’inconsueto spettacolo di una generale autocritica, seguita dalla solenne promessa, quasi un giuramento. «Abbiamo sbagliato, ci siamo lasciati prendere la mano dalla finanza creativa. Non lo faremo più...». Davvero pentimento da marinai impenitenti.
Infatti, non solo la stragrande maggioranza di coloro che si trovavano ai vertici hanno conservato le poltronissime, ma senza perdere tempo hanno preso a ribattere le vecchie strade. Sui circuiti finanziari sono ricomparsi quegli strani Ufo, che hanno per nome «derivati». In pratica, scommesse da casinò, sulle materie prime, le azioni, i debiti delle aziende e degli Stati; poi trasferite, con astuzie degne di quegli alchimisti che nel Medioevo pretendevano di trasformare il ferro in oro, alla moltitudine dei risparmiatori. Ingenui pesciolini alla mercé degli squali. Tecnicamente (sarebbe complesso entrare nei meccanismi), un bis di quanto è avvenuto coi «mutui facili», all’inizio del crac. Come prima, peggio di prima, allora? Pur evitando moralismi, non si può restare insensibili a un secondo fatto. I bonus milionari che, sotto ogni cielo, banchieri e finanzieri si autoattribuiscono. Precisando: quasi sempre prescindendo dai risultati conseguiti.
Mentre diluviava, si erano impegnati a rivedere i loro compensi; senonché l’appetito e la tentazione sono risultati troppo forti. Tant’è che nel mondo anglosassone è polemica, col premier inglese Gordon Brown e più timidamente col presidente Usa Obama, determinati ad arginare l’andazzo. Anche perché i beneficiari dovrebbero essere quegli stessi personaggi, spesso inamovibili, che sono stati salvati dalla bancarotta da interventi pubblici. Qualche raro economista, non al guinzaglio, sostiene che in questo modo, con imperdonabile dissennatezza, si rischia di andare incontro a occhi chiusi a un ennesimo disastro. L’augurio, ovvio, è che le Cassandre sbaglino. Tuttavia le perplessità vanno aumentando. Mentre troppi politici sembrano occuparsi di tutto, fuorché dell’economia reale, dei problemi delle famiglie, della stagnazione dei consumi che colpisce in particolare i redditi medio-bassi, molti banchieri tornano a comportarsi da entità separata, autonoma, autoreferenziale. La loro stella polare resta il «far profitto» comunque e con ogni mezzo. Quand’erano con l’acqua alla gola, gli Stati hanno loro offerto zattere di salvataggio; adesso si sono rimessi in linea di navigazione.
Come? In Italia lo sappiamo bene: ai depositanti, miseria; alle aziende minori lesinano crediti. In tanti preferiscono macinare utili, appunto, coi «derivati»; inseguendo nuovamente le farfalle della finanza creativa. E ancora una volta, l’etica, lo «spirito di servizio» paiono purtroppo un optional.
Giancarlo Galli
* Avvenire, 22 Gennaio 2010
«Il martirio è la sconfitta di ogni eclissi di Dio, il suo ritorno in pienezza attraverso l’offerta della vita da parte dei suoi figli»
DI ANGELO SCOLA (Avvenire, 12.12.2009) *
Qual è la risposta suscitata dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? L’uomo, oggi come sempre, non può che percorrere, a sua volta, la strada del Testimone degno di fede. Di fronte a Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo, gli uomini sono chiamati a coinvolgersi.
Se Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima» (Von Balthasar). Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare». Per questo l’«in-contro » con il fratello uomo non potrà mai evitare il «contro», vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di addomesticare la novità che viene da Dio.
Di tale irriducibile novità però nessuno dovrà avere timore se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia, sapranno fare della loro differenza la via di una proposta umile e tenace. Essa è propria del soggetto cristiano personale e comunitario in cui, per dirla con Guardini, la Chiesa avviene nelle anime (persone).
Parliamo di un soggetto capace di assumere la dimensione ecumenica e quella del dialogo interreligioso come intrinseche alla vita di fede. Questo soggetto può proporre senza pretese egemoniche, in una società plurale, l’avvenimento di Cristo in tutte le sue implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche.
La grammatica del narrare Dio è la grammatica testimoniale che domanda un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita.
Diventa allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime perché la riduce, per lo più, al tema della coerenza di un soggetto. La testimonianza brilla invece in tutta la sua integrità, come metodo di conoscenza pratica e di comunicazione della verità e come valore primario rispetto ad ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filo-sofica, teologica, artistica, eccetera.
In concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerlo di fronte al mondo, come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato.
Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita efficacemente alla decisione. La narrazione che Dio fa di sé e quella che permette a noi di fare su di Lui e a suo nome, trova così nel martirio cristiano, «col quale il discepolo è reso simile al suo maestro» (LG 42), la sua piena manifestazione.
Il martirio, grazia che Dio concede agli inermi e che nessuno può pretendere, è un gesto insuperabile di unità e di misericordia. Il martirio è la sconfitta di ogni eclissi di Dio, è il suo ritorno in pienezza attraverso l’offerta della vita da parte dei suoi figli. Una consegna di sé che vince il male, perfino quello «ingiustificabile», perché ricostruisce l’unità, anche con colui che uccide.
Come Gesù prende il nostro male su di sé perdonandoci in anticipo, così il martire abbraccia in anticipo il suo carnefice in nome del dono di amore di Dio stesso, da tutti riconoscibile almeno come assoluto trascendente (verità).
Restano sempre commoventi, a questo proposito, le parole del testamento spirituale di padre Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Tibhirine (Algeria), da lui scritto ben tre anni prima di venir trucidato con i suoi monaci: «Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio e quello degli uomini miei fratelli».
* Sul tema, nel sito, ai cfr.:
Natoli
Il filosofo: «La Chiesa punti sulle cose ultime»
«Oggi occorre riproporre la specificità cristiana: insistere sul tema della caritas e sui novissimi, nucleo centrale del cristianesimo»
DI EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 12.12.2009)
L’ha notato il cardinale Angelo Bagnasco, giovedì aprendo i lavori. Lo conferma il filosofo Salvatore Natoli, che ieri è intervenuto con Bruno Forte, Ernesto Galli della Loggia e Francesco D’Agostino al dibattito ’Dio, la storia, la politica’: «È vero: la moda dell’occultismo, del misterico, è un segnale concreto: la dimensione di fondo che si percepisce è quella di un’esperienza, di un contatto con ciò che chiamiamo divino, anche se non passa più soltanto attraverso le grandi istituzioni religiose».
Per questo oggi si può tornare a parlare di mettere Dio al centro del dibattito?
«Se ne può parlare, perché si può parlare di un sentimento del sacro diffuso, che si esprime nelle forme più varie - anche attraverso sincretismi religiosi. Sperimentiamo spesso l’emergere di un riferimento magari non al trascendente, ma almeno al mistero, al grande enigma dell’esistenza. Concretamente assistiamo a una ripresa contaminata delle tradizioni religiose: credenti senza Chiesa, sinergie autogestite, mescolanze tra religione e filosofia. È un movimento diffuso nella società contemporanea; si tratta di vedere quanto questo sia un fenomeno sperimentale, aleatorio, e quanto invece esprima incertezza ».
Che ruolo assume la Chiesa in questo processo?
«Rispondo da non credente, nel senso di non aderente alle religioni positive. La Chiesa deve fare quello che in gran parte già fa: riproporre la specificità cristiana, insistere sul tema della caritas, che credo che sia l’elemento più significativo del cristianesimo. L’ultima enciclica del papa è un forte segnale proprio in questa direzione. Naturalmente, una caritas che faccia sempre riferimento alla trascendenza: per dirla con Bonhoeffer, giocare sulla dialettica penultimo-ultimo. Insistere, insomma, più sui novissimi, nucleo centrale del cristianesimo, che sui temi etico-comportamentali, con posizioni che ritengo condivisibili anche solo secondo buon senso, ma che non sono l’unico cuore della fede».
Il cristianesimo è anche la grande religione del Dio nella storia...
«Certamente il cristianesimo, ma direi più in generale l’evento dei monoteismi, ha segnato in modo significativo la storia dell’Occidente. Si è trattato di cellule germinali della storia, sia in accezione positiva - perché ha avviato il tempo della responsabilità e della libertà -, sia in accezione negativa - perché quella stessa libertà che il cristianesimo ha immesso nella storia è stata poi limitata da elementi coercitivi, in quell’oscillazione di fondo tra tradizione e tradimento che ha caratterizzato il grande messaggio cristiano nella sua storia».
Anche in quella contemporanea?
«Oggi la Chiesa nel suo complesso mostra grandi esperienze di libertà religiosa, di sentimento e passione per gli altri, di capacità di discussione: fermenti, dialettica tra ispirazione e istituzione ».
Che rapporto si crea, allora, con i non credenti nel dibattito pubblico?
«Certo non mancano elementi di affinità: valga per tutti il tema della giustizia e della carità, che ha caratterizzato tutti i grandi pontificati dal Giovanni XXIII della Pacem in terris e della Mater et magistra in poi. L’incontro, cioè, può avvenire sul terreno che tende al riscatto dell’umanità e alla giustizia distributiva».
Religione. Storici e teologi a confronto al convegno promosso dalla Cei. Domani le conclusioni
La grammatica è la prova di Dio
Il filosofo Robert Spaemann arruola (e ribalta) Nietzsche
Si vuole dimostrare l’esistenza di Dio nelle condizioni della vita moderna, perché l’Illuminismo, alla fine, è costretto a distruggere se stesso
di Maria Antonietta Calabrò (Corriere della Sera, 11.12.2009)
«Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama ’Dio’ è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere», una «diceria immortale». «Ma abbiamo un motivo per accettare che alla diceria intorno a Dio, dunque a ciò che noi pensiamo quando diciamo ’Dio’, corrisponda qualcosa nella realtà?». Robert Spaemann, il maggior filosofo tedesco vivente (professore emerito a Heidelberg e Monaco, visiting professor a Parigi, Rio de Janeiro, Lovanio e all’Accademia delle scienze sociali di Pechino, autore di opere tradotte in 14 lingue) torna sul nucleo centrale della sua riflessione. E blocca l’attenzione dei 1.500 partecipanti riuniti a Roma per l’evento internazionale «Dio oggi», organizzato dal Progetto culturale della Conferenza episcopale. Il filosofo affronta quello che ha definito «il problema della mistificazione moderna dell’intramontabile questione su Dio» («Die Frage nach Gott und die Täuschung der Moderne»). La parola Täuschung indica una torsione, una deformazione prospettica che restituisce un’immagine ingannevole del problema.
Spaemann spiega però all’auditorio che c’è la possibilità di dimostrare Dio «nelle condizioni della vita moderna». Cioè a partire da un pensiero inteso come dominio, come autoaffermazione e non più come il mostrarsi di ciò che è. Una «prova» dell’esistenza di Dio, come Spaemann ha detto, che sia «Nietzsche-resistente», perché «l’Illuminismo alla fine è costretto a distruggere se stesso». E di conseguenza non solo Dio, ma anche l’uomo: «Il risultato è il nichilismo ».
Concetti cari a Benedetto XVI, che li ha ribaditi nel messaggio letto in apertura del convegno: «Quando Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, l’umanità perde l’orientamento e rischia di compiere passi verso la distruzione di se stessa ». «Ce lo insegnano - afferma il Papa - le esperienze del passato, anche non lontano». È per questo che, secondo il cardinale Camillo Ruini, motore dell’iniziativa «Dio oggi», «rendere testimonianza al vero Dio e al tempo stesso alla verità dell’uomo è il compito forse più esaltante che ci sia dato di adempiere». Da Cartesio in poi l’intelligibilità dell’essere (il fatto che l’uomo comprende la realtà) non è più garanzia del fatto che ci sia Dio: la prova della sua esistenza, perciò, non parte più dal presupposto della verità della conoscenza. Compiuta la «torsione» della modernità, secondo Spaemann, l’argomento più convincente per dimostrare l’esistenza di Dio non è allora quello che guadagna Dio come causa prima, motore immobile, bensì quello che - con un percorso inverso a quello ontologico - giunge a Dio come al garante dello spazio della verità, entro il quale il soggetto può recuperare la propria identità. Dio è il garante di una realtà che sola permette a quell’«animale abile» che è oggi l’uomo (abile a manipolare tutta la propria vita) l’intelligibilità dell’essere e della verità.
Proprio per i motivi largamente esposti nella relazione di Spaemann - svolta interamente in italiano, per cui è stato ringraziato da Andrea Riccardi - chi più di altri ha contribuito a preparare il terreno per questa nuova prova dell’esistenza di Dio è paradossalmente Friedrich Nietzsche il teorico della «morte di Dio». Egli avrebbe infatti mostrato nel modo più radicale l’intimo nesso che collega l’idea di Dio con quella di verità. La negazione di Dio comporta la negazione della verità, comporta che l’uomo si limiti solo a conoscere i propri stati d’animo soggettivi. Cosa che però all’uomo stesso è strutturalmente quasi impossibile. A questo proposito Spaemann cita un’affermazione del pensatore che si era dichiarato ateo «per istinto». «Io temo - scrive Nietzsche - che non ci libereremo di Dio finché continuiamo a credere alla grammatica». E Spaemann commenta: «Il problema è che non possiamo fare a meno di credere alla grammatica e anche Nietzsche ha potuto scrivere quello che scrisse soltanto perché ha affidato alla grammatica quello che ha voluto dire». La grammatica però oggi viene attaccata dagli stessi strumenti di comunicazione, soprattutto la tv, secondo il critico Aldo Grasso: «Osservando il creato si ha l’impressione che Dio ami la complessità e invece la tv ama la semplicità, fino a confonderla con la banalità». La «diceria immortale » ha profonde conseguenze vitali ed esistenziali «perché - ha affermato Spaemann - la traccia di Dio nel mondo, da cui oggi dobbiamo prendere le mosse, è l’uomo, siamo noi stessi». Implicazioni immediate sul terreno delle tecnoscienze e della bioetica, di cui hanno discusso in una tavola rotonda, voluta al termine della prima giornata, Aldo Schiavone, il cardinale Carlo Caffarra, Enrico Berti e Giuliano Ferrara. Ma conseguenze soprattutto sul senso della vita. Le Confessioni di Sant’Agostino hanno chiuso l’intervento del presidente della Cei, Angelo Bagnasco: «Quando cerco te, o mio Dio, io cerco la felicità della mia vita. Ti cercherò perché viva l’anima mia».
Avvenire, 11 Dicembre 2009
IL FILOSOFO
Cacciari: «L’ateismo oggi? Volgare e mondano»
«L’affermazione nietzschiana della morte di Dio non è affatto volgarmente ateistica come qualcuno può pensare». Massimo Cacciari - che oggi pomeriggio sarà protagonista di un dibattito con il filosofo francese Rémi Brague - da non credente si è occupato a fondo Dell’inizio e Della cosa ultima, per dirla con il titolo di due suoi volumi ponderosi. E rifiuta con sdegno l’idea che Nietzsche sia uno dei grandi padri dell’odierna negazione di Dio.
Professore, eppure è a lui, spesso in coppia con Heidegger, che tanta parte della cultura che rifiuta il monoteismo cristiano guarda con riconoscenza...
«Un autore come Nietzsche non ha nulla a che spartire con un volgare ateismo. Anche Hegel, che si professava filosofo cristiano, affermava che la proprietà essenziale del monoteismo cristiano consisteva nel pensare la morte di Dio. C’è un modo di pensare questa morte che può essere propriamente cristiano, che anzi costituisce la proprietà specifica del cristianesimo. Tanto meno in Heidegger c’è una posizione di stupido ateismo. Caso mai si può pensare a una critica di Heidegger alla tradizione che pensa Dio in termini ontoteologici, che pensa Dio con la categoria dell’ente sommo e quindi dimentica la differenza tra ente ed essere, la differenza ontologica. Ma è una critica che può benissimo essere intesa come interna alla tradizione monoteistica non solo cristiana, ma anche giudaica e islamica. Perché la critica all’ontoteologia è presente in tutte e tre le grandi correnti del monoteismo abramitico. Quindi bisogna stare molto attenti nel pensare che la filosofia di stampo nietzscheano-heideggeriano significhi l’abbandono della questione di Dio. Anzi, è un affrontamento radicale di tale questione».
Quali sono per lei le vere forme dell’ateismo filosofico contemporaneo?
«La vera forma dell’ateismo, che non ha a che vedere né con Nietzsche né con Heidegger, è la visione per cui, detto in estrema sintesi, noi siamo soltanto un essere nel mondo: noi siamo accasati, addomesticati nel nostro essere mondano. E al di là di questo non c’è nulla, o meglio, c’è il nulla, di cui non bisogna assolutamente avere cura. Questa sì è una posizione ateistica presente in varie correnti del pensiero contemporaneo».
Lei oggi interviene sul rapporto fra il Dio cristiano e le altre religioni. Tanto per stare sull’attualità: come giudica un’alleanza che si propone sempre più spesso, quella tra cristianesimo e liberalismo ateo o immanentista in funzione anti-islamica?
«L’ateismo nei termini che le ho appena detto, moneta corrente al giorno d’oggi, è essenzialmente opposto a ogni possibile versione o declinazione della radice abramitica del monoteismo. Un’alleanza di questo ateismo e di un liberalismo immanentista con il monoteismo cristiano in funzione anti-islamica non può far altro che tradire quella che è l’essenza del cristianesimo. Direi di più: è una totale aberrazione. Un liberalismo di stampo immanentistico condivide con le posizioni genericamente ateistiche l’idea che al di là dell’esserci non c’è nulla. Anzi, che Dio è il nulla. Il che, mi lasci dire, per tornare al punto iniziale, è ben diverso dal dire: Dio è morto».
Andrea Galli
Dobbiamo giustificarci di essere laici?
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 11 dicembre 2009)
Adesso ci si deve giustificare di essere laici. È straordinaria la rapidità con cui è mutato il clima culturale nel nostro paese. Sino a ieri tutti si dichiaravano laici, con zelo, sia pure con l’aggiunta di «sani» o «positivi». Adesso è diverso: se critichi la Conferenza episcopale italiana o approvi la sentenza di Strasburgo sul crocifisso nella scuola pubblica devi offrire le credenziali che non sei nemico della religione, della Chiesa, anzi di Dio.
Ci si mettono anche i laici pentiti con le loro raccomandazioni. Quando rivendicano con enfasi la religione come componente costitutiva del pluralismo democratico (salvo smentirsi immediatamente parlando del cattolicesimo come irrinunciabile indicatore di identità storica nazionale) citano Rawls e Habermas. Credono di essere nell’America di Barack Obama o nella civile Germania multiconfessionale. Siamo invece in un paese dove la semplice proposta del pluralismo nell’insegnamento della storia delle religioni nelle scuole e la loro analisi comparata viene respinta come l’equivalente del famigerato relativismo. Come tradimento della tradizione cattolica del popolo italiano.
A questo punto, anche il più disponibile dei laici perde la pazienza. È finito il tempo del «dialogo tra laici e cattolici» inteso nel modo tradizionale. È opportuno prenderci una pausa di silenzio e rimettere a fuoco parametri e argomenti su cui rimisurare le distanze.
Per cominciare, si fa un gran parlare della religione nello spazio pubblico, dimenticando che la dimensione pubblica è definita proprio dalla laicità. L’essere laico non è un fatto privato, riconducibile alle categorie soggettive del «credere/non credere» - come si pensa comunemente - ma è una dimensione pubblica che prescinde dalle credenze. È l’istituzionalizzazione del principio del pluralismo dei convincimenti. La laicità è parte dello statuto della cittadinanza. In questo è il fondamento dell’etica pubblica.
Laico è il cittadino che esercita il diritto di decidere autonomamente della propria condotta morale di vita. In questo senso tutti sono o dovrebbero essere laici. Ma allora nasce il grave problema di coerenza per i cattolici-clericali che si riservano di condizionare la loro lealtà allo Stato democratico quando legifera in modo contrario ai loro convincimenti. Si badi: non contro la loro libertà di fede e di comportamento, ma contro la loro opinione su come gli altri cittadini devono comportarsi.
Qui nasce il contrasto con la dottrina e la strategia della gerarchia della Chiesa quando mira a determinare in modo autoritativo l’etica pubblica del paese, in particolare nelle «questioni che fanno riferimento all’area della soggettività personale». (Faccio notare che questa sintetica e esplicita espressione è stata coniata dal card. Ruini per qualificare il Progetto culturale cattolico da lui messo in moto).
Detto questo, va chiarito un punto molto importante. Il concetto di etica pubblica è ampio. Chi è laico, nel senso che stiamo illustrando, può avere larghi spazi di convergenza con le posizioni della gerarchia ecclesiastica su altri temi sociali e culturali. Penso alla difesa dei diritti degli immigrati, o all’azione di contrasto di ogni forma di razzismo. Su queste e altre questioni ci può e ci deve essere convergenza.
In questa situazione il laico deve assumersi i seguenti compiti:
(a) Sostenere con fermezza la legittimità del contrasto di visioni etiche e la illegittimità della prevaricazione autoritativa, tramite norme di legge, da parte di una maggioranza che non riconosce la pari dignità etica di chi non la pensa come lei. In questo modo si concretizza il principio della laicità come statuto della cittadinanza e non come questione di convincimenti personali e di stili di vita, da regolamentare secondo i criteri delle convinzioni della maggioranza.
(b) Contestare gli equivoci che esistono a proposito dello «spazio e del discorso pubblico», distinguendo nettamente tra l’accesso alla sfera pubblica, aperto e praticato senza restrizioni dalla Chiesa, e l’azione strategicamente mirata a influenzare con ogni mezzo la deliberazione politica.
(c) Combattere le confusioni tra scienza e teologia a proposito dei concetti di natura e di vita che sono diventati cruciali per l’etica pubblica. Da anni nel mondo cattolico si discute di biotecnologie, di testamento biologico, di famiglia «naturale» mescolando in modo arbitrario argomenti che si pretendono razionali e scientifici, «puramente umani», con assunti di fede. Il punto culminante è l’idea di vita (anzi di Vita), potente veicolo di una visione religiosa che diventa ostinato rifiuto di altre visioni della vita umana, interpretata in modo diverso nella sua concreta storicità, con quel che segue per i rapporti procreativi, sessuali, familiari - giù giù sino alla contraccezione.
(d) Aprire un dibattito culturale qualificato di carattere storico-critico sulla formazione della dottrina e della dogmatica cristiano-cattolica (anche in risposta ai discorsi del Pontefice sulla razionalità della fede, sul logos, l’illuminismo, l’ellenizzazione del cristianesimo ecc.). In questo senso parlo della necessità che i laici siano competenti di teologia e della sua storia. Il disinteresse del pensiero laico per la riflessione teologica ha portato alla clericalizzazione della teologia stessa diventata strumento per tenere in minorità intellettuale i credenti. Naturalmente conosco le seccate repliche dei teologi professionali che mi accusano di ignorare la loro produzione. Ma il punto non è il professionismo degli esperti bensì la «teologia pubblica», per così dire.
In questo contesto vorrei sollevare alcuni punti problematici. L’approccio etico-religioso oggi dominante mantiene sfocati (o semplicemente non detti) i riferimenti ai grandi dogmi teologici della colpa originale, della redenzione, della salvezza che storicamente sono (stati) tutt’uno con la dottrina morale della Chiesa. Oggi questi temi teologici sono diventati incomunicabili a un pubblico religiosamente de-culturalizzato. La teologia morale è interamente assorbita dalla tematica della «vita» e della «natura» con modalità che rischiano di farla cadere in forme di bio-teologismo o di risacralizzazione naturalistica carica di risentimento verso le scienze biologiche e le teorie dell’evoluzione. La teologia diventa sacra biologia.
Nel frattempo però si è verificata una straordinaria mutazione silenziosa: la Chiesa, nella sua comunicazione pubblica odierna, trasmette un’idea tutta positiva di natura/naturalità originaria - rimuovendo d’un colpo tutti gli aspetti tremendi che per secoli hanno prodotto e accompagnato l’idea della natura decaduta con il peccato. E le connesse paure di punizione. Gran parte della dottrina morale sessuale cattolica è stata costruita sull’assunto della natura corrotta e sulla minaccia della punizione. Ma oggi i teologi morali fanno finta di niente.