L’eroina greca si scaglia contro un comando iniquo in nome di norme immutabili
La donna è un’antagonista del tiranno, cerca "luminosa gloria" a costo della vita
La tragedia di Sofocle si fonda sul principio che la legge non incarna valori assoluti. E che l’unico scudo contro le sbornie dogmatiche è l’analisi critica
Una scelta implica rischi. L’importante è spendersi per la soluzione meno dubbia
di Franco Cordero (la Repubblica, 25.03.08)
Antigone è testo canonico della retorica giusnaturalista: l’eroina ignora l’iniquo comando (lasciare insepolto il cadavere del fratello, nemico pubblico); vigono norme divine immutabili; e l’epilogo tristissimo prova quanta ragione avesse. Lettura edificante ma tentiamo glosse meno piatte.
Sofocle compone una trilogia concatenata come le costruiva Eschilo, cominciando dalla fine d’una nera saga familiare, nel cinquantasettesimo anno, 442 a.C.: i precedenti lontani vanno in scena almeno 12 anni dopo (430-425); e racconta la seconda tranche d’eventi novantenne o quasi, rappresentata postuma a cura del caro omonimo nipote, malvisto dal padre. Labdaco è figlio di Polidoro, nato da Cadmo e Armonia, il cui ceppo annovera tre figure olimpiche, Afrodite, Ares, Zeus.
Suo figlio Laio, monarca tebano, s’attira la collera d’Era, custode dei matrimoni, con una scandalosa liaison omosessuale: aveva rapito Crisippo, la cui morte desta l’ira d’Apollo; tre oracoli predicono sventura se avesse un figlio da Giocasta. Ne nasce uno e i genitori lo espongono con le caviglie trafitte da un punteruolo, affinché abbia ancora meno chance senza che l’atto sia tout court infanticida, donde Edipo: quello dai piedi gonfi; nome ormai desueto, indicava i Dattili, figli della Terra (le creature del mondo tellurico hanno passi pesanti). Ma sopravvive, allevato come figlio da Polibo e Merope regnanti su Corinto. Ormai uomo, consulta l’oracolo delfico sul suo vero status familiare (un ubriaco gli aveva dato del bastardo). Risposta ambigua, come spesso sono i detti apollinei: rischia d’essere parricida e marito incestuoso della madre; non è chiaro il modo della predizione, assoluta o ipotetica. Tali essendo le prospettive, sta lontano da Corinto.
Andava a Delfi anche Laio, per sapere se sia ancora vivo quel figlio pericoloso: lo incontra in una strettoia; irrompe il carro regio; lo junior ha riflessi pronti; offeso dalla soperchieria, colpisce col bastone quel prepotente lasciandolo stecchito. Gli succede Creonte, fratello della vedova. Tempi funesti.
La Sfinge, mandata da Era, imperversa col suo enigma, divorando i défaillants: c’è un animale con quattro, due o tre gambe; quante più sono, tanto meno rapidi i movimenti. Creonte offre regno e mano della vedova a chi liberi Tebe. Vi riesce Edipo identificando il mutante nell’uomo: dapprima locomotore su mani e ginocchia; poi diventa bipede; vecchio e curvo, usa anche un bastone. L’oracolo s’è compiuto: Edipo re, parricida e marito della madre; non lo sanno; e dalle nozze sciagurate nascono quattro figli, Polinice, Eteocle, Antigone, Ismene.
Tale l’antefatto quando Tebe soffre d’una misteriosa peste; secondo Delfi, consultato da Creonte, il miasma dipende dal vecchio regicidio: l’epidemia finirà quando abbiano scoperto il colpevole. Edipo indaga; s’è pubblicamente impegnato; interroga Tiresia, vecchissimo indovino cieco (ancora adolescente, aveva visto nuda Atena); lo sente reticente e insiste; l’alterco svela quasi tutto; non rendendosene conto, fiuta un complotto le cui fila tiri Creonte, ma confida dubbi angosciosi alla madre-moglie raccontando i precedenti, incluso l’evento mortale nella collisione dei carri.
L’arrivo d’un messo da Corinto innesca le agnizioni finali: era solo figlio adottivo del Polibo, la cui morte costui notifica; l’aveva trovato un pastore sul Citerone e questo testimone vive ancora; lo scovano. I due sventurati non resistono all’orribile verità: Giocasta s’impicca; lui strappa le fibbie d’oro dal cadavere e se le conficca negli occhi. Qui finiva la storia tebana d’Edipo.
Il séguito (terza e ultima tragedia) ha come scenario un bosco presso Atene, santuario delle Eumenidi, già nefaste potenze infernali: arriva mendicando, accompagnato da Antigone; Ismene porta notizie. I fratelli sono in guerra: il minore, Eteocle, s’è impadronito della città; lo spodestato primogenito vuol riconquistarla con l’armata che raccoglie ad Argo. Edipo li maledice: potevano salvarlo; e quando usciva dal delirio autopunitivo, l’hanno espulso; non gli corrano dietro adesso; soccomberanno tutti.
Teseo, re ospitale, gli garantisce tutela se qualcuno avesse disegni violenti. Viene Creonte, falso amico, «ghigno subdolo e lingua affilata»: vuol ricondurlo tra le mura, adoperabile quale totem; ha catturato Ismene; prenderà anche Antigone; tiene discorsi ipocriti; possibile che gli ateniesi accolgano un parricida incestuoso?
Falsario arrogante, risponde Edipo, erano sventure incolpevoli. Il coup de main sulle due è fallito. Ultimo appare Polinice, il cui nome definisce l’anima, «uomo dai mille litigi». Miserabile, viene piangendo dal padre che aveva espulso: vuole il suo avallo contro Tebe; gli assedianti saranno sconfitti; i fratelli morranno, uccisi uno dall’altro.
Invano Antigone l’esorta a desistere: tenterà la sorte senza svelare la predizione ai sei condottieri alleati: forse è solo un desiderio del vegliardo che l’avventura finisca così; se muore, le sorelle lo seppelliscano. Zeus tuona: «Mi chiama»; «Andate in cerca del re», ordina Edipo. Solo Teseo lo vede scendere nell’Ade «in una calma sovrumana» (è esperto del sito, essendovi andato con Piritoo): risuona una voce; «Edipo, cos’aspetti?». Le due figliole tornano a Tebe.
La peripezia finisce nella città salva: gli argivi hanno tolto l’assedio; i due fratelli sono morti (le Fenicie d’Euripide la reinventano presentando Edipo sopravvissuto alla battaglia e Giocasta suicida sul cadavere dei figli). Prologo a due voci a proposito dell’editto emanato da Creonte: l’assalitore resti insepolto; sarà lapidato chiunque compia o tenti riti funebri.
Antigone, antagonista del tiranno, parla e posa da virago: Edipo è l’uomo dai piedi gonfi; lei ha l’Io ipertrofico; cerca «luminosa gloria» a costo della vita. Ismene incarna una dolente sensibilità femminile: già sono oppresse dalle sventure familiari; non le aggravi temerariamente; da parte sua subirà la forza iniqua dei vivi chiedendo perdono alle ombre; sarebbe follia sfidarli. Creonte era persona ostica, l’abbiamo visto nella seconda e terza pièce della trilogia.
Tale rimane in vesti regali: qualcuno ha sparso terra sul cadavere, annuncia una delle guardie; e lui sospetta che suoi avversari le abbiano comprate; lo scovino o morranno male. Non avevano visto niente, protesta: comandi e lo giurano; o impugnano un ferro incandescente o passano nel fuoco, due classiche ordalie. Secondo episodio: riappare la guardia, allora penitente, adesso radiosa, spingendo Antigone; «eccola qui»; e racconta come l’abbia sorpresa sul fatto mentre ripeteva l’atto delittuoso; «prendila, fanne quel che vuoi»; confessi il delitto.
Non poteva essere ritratto meglio l’homunculus oboediens (ad esempio, i gendarmi dall’aria perbene che sorvegliano gl’imputati nelle fotografie dei dibattimenti post 20 luglio 1944 davanti al Tribunale del popolo nazista, destinati a turpi supplizi). Nel dialogo tra i due congiunti, zio e nipote, pulsano violente antipatie: coatta dal bisogno d’esibirsi, lo provoca (se la paura non chiudesse le bocche, quel gesto sarebbe celebrato); lui non ammette che «sia una femmina a comandare». Nobilmente Ismene confessa una correità morale, rimbeccata dalla sorella: e più che affetto, lo direi egotismo; vuol riempire la scena da sola. «Due pazze», commenta il tiranno, archetipo del potere politico naturalmente ottuso.
Segue un dialogo impossibile col figlio, al quale Antigone era promessa. Gli spiega che fattore distruttivo sia l’anarchia: abbatte gli Stati, sovverte le case, scatena disfatte; l’ordine ante omnia; e «mai cedere a una femmina». D’accordo sui teoremi, risponde diplomaticamente Emone, ma consideri l’altro lato della questione. No, «costei è infetta dal malanimo». I tebani pensano diversamente. Non gl’importa, lo Stato è possesso legittimo del sovrano. Così regnerà nel deserto (corrono gli anni d’oro dell’Atene democratica).
Creonte, sinora raziocinante su premesse dogmatiche, scoppia d’ira: comanda che gliela portino e sia uccisa lì; Emone gli dà del folle e corre via. Servili i coreuti (15 vecchi, organo vocale d’un labile sentimento collettivo). Infine, decide: Ismene esce indenne; Antigone sarà chiusa in una caverna con del cibo; se vuole, Ade la salvi (ancora ordalìa, meno pericolosa della deiectio e rupe Tarpeia, dove al paziente resta una sola chance, che qualche dio lo prenda a volo, rompendo la serie causale). S’è spenta la fiammata dell’inflazione psichica.
Antigone esce gemebonda: ecco l’ultimo suo sole; va all’Acheronte, sposa d’Ade; morrà come Niobe, trasformata in rupe; comandi iniqui la mandano nella prigione-tomba; «trascinata così, senza amici né sposo», «mi tolgono questa luce». Creonte taglia corto: la portino via; là dentro può vivere o lasciarsi morire. Il coro rende ossequio al tiranno. Chiude l’autocompianto un’inutile mozione d’affetto: «O Tebe, terra dei miei padri, o celesti progenitori»; «guardate la figlia dei vostri re, che cosa deve patire e da quali uomini», avendo adempiuto un dovere morale.
Siamo allo scioglimento, in lingua aristotelica, catastrofe. L’annuncia Tiresia, àugure, quindi ornitologo: seduto nella specola, ascoltava i rumori d’una zuffa furiosa d’uccelli; fenomeni allarmanti, né riusciva la prova delle fiamme sull’altare. L’insepolto contamina Tebe: gli dèi rifiutano i sacrifici; ripensi gli ordini, insistere sarebbe stupidità arrogante. Creonte sospetta ancora manovre politiche e oracoli venali. A parole, non demorde: il corpo del nemico pubblico rimarrebbe dov’è anche corresse tutto l’oro indiano e le aquile portassero i lacerti infetti alla sede del Padre Zeus; «la mia volontà non è in vendita»; ma le iperboli mascherano un panico religioso ("orghé", "horror", "tremor", ecc.)
Le Erinni sono già al lavoro, affermava l’indovino cieco, mai smentito dai fatti. Sia prudente, consigliano i coreuti, meno succubi perché lo vedono malfermo. S’è arreso, dicano il da farsi: Polinice sepolto e Antigone libera, subito; le sciagure arrivano fulminee. L’Esodo, infatti, è una sequela calamitosa narrata dal messo: bisognava cominciare dalla sepoltura, poi aprono la caverna; sale un pianto; Antigone s’era impiccata col lino della veste; Emone l’abbraccia; chiamato dal padre, gli sferra un fendente; l’altro lo schiva, allora si pianta la spada nelle viscere; consumeranno le nozze agl’inferi. Quantum mutatus ab illo: Creonte porta in braccio il figlio e s’incolpa dell’accaduto; era demente, ostinato negli errori.
Particolare notevole: non evoca agenti esterni; ammette una colpa, anzi vergogna sua, mentre era antica abitudine greca disfarsi dell’angoscia causata da stati d’animo funesti proiettandoli; "ate" è il nome mitologico della causalità psichica, vedi l’autodifesa d’Agamennone (Iliade, XIX). Non mendica scuse: scelte personali conducevano al colpo con cui un dio l’ha stordito, del quale parla nella battuta seguente; assurdamente le riteneva giuste. Vistolo sgomento, quindi innocuo, i vecchi calcano la mano: è tardi ormai; doveva convertirsi prima. Non ha ancora toccato il fondo. Il secondo messo porta l’ultima notizia funesta: è morta anche Euridice, sua moglie, trafiggendosi; e l’ha maledetto attribuendogli la morte dei due figli (l’altro era Megareo, caduto su una delle porte: lo nomina Eschilo nei Sette a Tebe).
E storia nera quella d’Edipo e famiglia; compendiamola in una massima dell’autocrate convertito: i conati umani sono «dolorosi e inutili». Antigone sconta i Todestriebe acuiti dall’Io gonfio: inseguiva la «bella morte»; gliel’aveva detto anche Ismene («vai, innamorata dei morti, se così hai deciso»: Prologo). Insomma, era predestinata al suicidio.
In sede etica e politica semina idee capitali, talvolta fraintese, questo trentaduesimo dramma con cui Sofocle vince il concorso dell’anno 442 a C.: lo Stato non incarna valori assoluti, anzi cova grovigli d’interessi impuri; siamo animali deboli, con midolla manipolabili, vedi quel coro pieghevole, quindi l’unico scudo contro le sbornie comunitarie è l’analisi critica. Chiunque li detti, i dogmi non meritano il sacrificium intellectus, tanto meno quando servano interessi riconoscibilmente particolari, né vigono criteri infallibili, tali non essendo nemmeno le asserite leggi divine: siccome ogni scelta implica rischi, l’importante è spendersi nella ricerca della soluzione meno dubbia, secondo la misura dei talenti individuali; nessuno creda d’essersi salvato l’anima con un torpido mimetismo. Sotto quest’aspetto la mancata sposa d’Emone tramanda un archetipo ammirevole.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
DOC.: HEGEL (""ANTIGONE").
"Nell’esempio della tragedia, che per me ha un valore assoluto, nell’Antigone,l’amore della famiglia, la santità, l’interiorità, che appartengono al sentimento intimo, e perciò sono conosciute anche come la legge degli dèi inferi, si scontrano con il diritto dello stato (Recht des Staats). Creonte non è un tiranno, ma rappresenta effettivamente una potenza etica (eine sittliche Macht). Creonte non ha torto. Egli ritiene che la legge dello stato, l’autorità del governo debbano essere rispettate, e che la violazione della legge debba essere seguita dal castigo. Ciascuna di queste due parti realizza (verwirklicht) solo uno dei poteri etici e ne ha per contenuto esclusivamente uno. In questo consiste la loro unilateralità. Il significato della giustizia eterna è così reso manifesto: entrambi conseguono l’ingiustizia perché sono unilaterali, ma entrambi conseguono anche la giustizia. Entrambi vengono riconosciuti come “validi” nel corso “limpido” della moralità (im ungetrübten Gang der Sittlichkeit). Qui, entrambi hanno il loro valore, ma si tratta di un valore equiparato. Solo la giustizia si fa avanti contro l’unilateralità" (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, Vol. 2, Cap. II, 3 a).
Vito Mancuso. Alla fine dell’8 marzo queste parole che Antigone rivolge a Creonte: “Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore" (Sofocle, Antigone, verso 523).
Decreto sicurezza, noi stiamo con le Antigoni
Manifesto disobbediente dell’Officina dei Saperi *
Si ripropone, da secoli, ogni volta che insorge lo «stato di eccezione» - ovvero ogni volta che il potere politico esubera non solo rispetto all’ordine giuridico ma alle norme etiche o alla percezione di valori non scritti della civiltà - lo storico conflitto fra Creonte e Antigone, fra la Legge storica e la Legge naturale e umana della compassione e della pietà. Il conflitto è noto e gli dà voce l’immensa tragedia di Sofocle: da una parte le ragioni di Creonte, il tiranno di Tebe che, interpretando le leggi della città che impediscono sepoltura ai traditori, proibisce l’inumazione del ribelle Polinice; dall’altra le ragioni di Antigone, la giovane fanciulla sorella di Polinice che, vedendo il cadavere esposto al martirio dei corvi, disobbedendo alla legge, con rischio personale, sacrificando la sua felicità (è promessa ad Emone, figlio di Creonte), porta il corpo del fratello nella città e lo seppellisce.
Sofocle, i Greci cioè, non prendono posizione per una delle due parti (anche se la tragedia si chiama Antigone). Sono tragici appunto e sanno che non ci può essere società e giustizia senza il rispetto della legge, così come non può esserci umanità senza la pietà e l’inumazione dei morti. Da tragici, cavalcano entrambe le ragioni (anche se, appunto, la tragedia continua a chiamarsi Antigone).
Noi invece, qui ed ora, stiamo dalla parte di Antigone e di tutte le Antigoni. Perché sono molte, dopo quella dell’alba greca. In nome di Antigone, per esempio, si schierarono gli avvocati che accusarono i criminali nazisti durante il processo di Norimberga: processo che in nome di Creonte non avrebbe mai potuto essere celebrato in quanto quei capi nazisti non avevano fatto altro che obbedire alla legge scritta, storica, del loro Stato. Così come fu in nome di Antigone che i soldati americani strapparono la loro carta di identità per disobbedire alla scelta scellerata della guerra del Vietnam, ed è in nome di Antigone che in ogni paese, tanti e tanti disobbedienti, si ribellano alla violazione dei diritti umani pur sancita dalla legge di quei Paesi.
Stiamo dunque con le Antigoni , disobbedienti per far andare avanti la vita, perché è falsa la separazione, perché è falso che possa esistere una Legge che sia contro la Vita.
La vita, la sua dignità, la cura della sua fragilità, è il fondamento della legge, senza del quale la legge non è che esercizio retorico o peggio, brutale esercizio del potere: uno «sterile e colpevole legalismo», come denunciò nel ’46 Piero Calamandrei, appellandosi invece alle «leggi superiori di Antigone», leggi dell’umanità che poi improntarono lo spirito e i principi della nostra Costituzione.
Stiamo con le Antigoni e dunque con quei Sindaci, che, mettendo a rischio la sicurezza del loro mandato, in questi giorni disobbediscono ad un Decreto contro l’immigrazione, una vera e propria legge razziale che fomenta la violenza e la paura, sentimento non ammissibile nello Stato, ma appunto foriero a legittimare solo uno «stato di eccezione». Stiamo con le Antigoni e con i Sindaci anche perché la civiltà che più amiamo è figlia di un mare di terre e di mari, come diceva un suo grande cantore, che non può essere pensato se non come una koinè ospitale, dove le voci, le storie degli uomini e delle donne, si intrecciano, si scambiano e si danno rifugio e reciproco soccorso.
In questo mare, nel basso Mediterraneo, si sta compiendo un crimine che ci rinfacceranno tutti i libri di storia. E fossimo stati più giovani, molti di noi avrebbero prestato i loro corpi per fermare questo massacro, magari andando su quelle navi dove la meglio gioventù europea oggi va all’aiuto dei naufraghi.
Possiamo però oggi mettere a disposizione le nostre parole, i nostri libri, gli spazi nei giornali, i nostri insegnamenti a scuola e all’università, per sostenere un grande movimento di disobbedienza e resistenza civile che restituisca all’Italia la pietà (la pietas). In nome di Antigone.
Per Officina dei Saperi:
Laura Marchetti, Ilaria Agostini, Lucinia Speciale, Maria Pia Guermandi, Cristina Lavinio, Tiziana Drago, Renata Puleo, Lidia Decandia, Rossella Latempa, Amalia Collisani, Francesca Leder, Piero Bevilacqua, Enzo Scandurra, Tonino Perna, Giuseppe Aragno, Vittorio Boarini, Dino Vitali, Roberto Budini Gattai, Francesco Trane, Alessandro Bianchi, Luigi Vavalà, Velio Abati, Battista Borghi, Alfonso Gambardella, Francesco Santopaolo, Rossano Pazzagli, Battista Sangineto, Giuseppe Saponaro, Romeo Salvatore Bufalo, Paolo Favilli, Piero Caprari, Gianni Vacchelli, Franco Blandi, Franco Novelli, Piero Totaro, Carmelo Albanese, Giovanni Attili. Andrea Battinelli, Alberto Ziparo, Franco Toscani, Ugo M.Olivieri.
Edipo ha tante facce non solo quella di Freud
La sua tragedia parla soprattutto della giustizia
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 09.01.2018)
La tragedia di Edipo ha inizio il giorno in cui questi, a bordo del suo carro, giunge a un crocicchio dove, al termine di un diverbio, uccide il proprietario di un carro arrivato insieme al suo, che pretendeva gli fosse data la precedenza: senza sapere che quell’uomo era suo padre. Edipo, infatti, si credeva figlio del re di Corinto Polibo, al quale era stato consegnato da neonato, e che lo aveva cresciuto come fosse suo figlio. Non sapeva che il suo vero padre era Laio, il re di Tebe, che lo aveva abbandonato in fasce, sperando in questo modo di evitare una maledizione secondo la quale sarebbe stato ucciso da suo figlio, scagliata contro di lui da Pelope, del quale egli aveva violentato uno dei figli. Per questo, quando sua moglie Giocasta aveva partorito Edipo, Laio (dopo aver forato con un ferro le caviglie del bambino per poterlo appendere a una correggia, donde il nome Edipo, che vuol dire «piede gonfio»), aveva ordinato di abbandonarlo.
Ma torniamo al momento dell’incidente stradale, per così chiamarlo. Il diverbio sulla precedenza aveva avuto luogo mentre Edipo tornava da Delfi, dove il dio, da lui interrogato per sapere perché un compagno di giochi lo aveva chiamato «bastardo», gli aveva dato un terribile responso: «Un giorno ucciderai tuo padre e sposerai tua madre». Più che comprensibilmente sconvolto, Edipo non osava tornare a Corinto, terrorizzato all’idea di uccidere quelli che credeva i suoi genitori, e aveva preso la strada per Tebe, dove, incontrandolo, aveva ucciso Laio: ancora non lo sapeva, ma la prima parte dell’oracolo si era avverata, e la seconda stava per avverarsi. Proseguendo per il suo cammino, infatti, egli era giunto alle porte di Tebe, dove aveva incontrato la Sfinge: un essere orribile, dal corpo di leone e la testa di donna, che terrorizzava e uccideva i Tebani, ponendo un enigma insolubile e divorando chi non sapeva risolverlo. Ma Edipo ci era riuscito: alla domanda «qual è l’essere che cammina a volte a due gambe, a volte a tre, a volte a quattro, ed è più debole quando ha più gambe?», aveva risposto: «È l’uomo, che da bambino cammina su mani e piedi, da adulto sulle due gambe, e da vecchio appoggiato a un bastone».
Sconfitta, la Sfinge si era suicidata e i Tebani, in segno di riconoscenza, gli avevano offerto in moglie la vedova di Laio: Giocasta, sua madre. Anche la seconda parte dell’oracolo si era avverata, e la tragedia di Edipo stava per compiersi.
La citta era stata colpita da una grave carestia che, secondo l’oracolo, sarebbe cessata solo quando fosse stato allontanato l’uccisore di Laio. Al termine di una lunga inchiesta, condotta dallo stesso Edipo, la verità viene scoperta: alla luce della spaventosa rivelazione, Giocasta si impicca ed Edipo si acceca.
Così finisce la tragedia Edipo re di Sofocle, ma la storia non si conclude qui: a raccontare il seguito, infatti, è di nuovo Sofocle nell’ Edipo a Colono.
Cieco, vecchio e stanco, Edipo, con le figlie Ismene e Antigone, che ha avuto da Giocasta, giunge ad Atene, dove un tuono annuncia che è arrivato il momento della sua morte. Ma questo Edipo, quello che muore ad Atene, è molto diverso da quello dell’ Edipo re. E proprio per questo è il personaggio che offre ai Greci l’occasione per riflettere sul problema della responsabilità e della colpa.
Nell’ Edipo re, infatti, quando scopre la verità Edipo si punisce accecandosi, anche se, come ha detto, ha agito «perché era scritto». In altre parole: non aveva agito volontariamente. Era stato il destino, erano stati gli dèi che avevano mosso la sua mano. Ma nell’ Edipo a Colono afferma che in lui non esiste «macchia di colpa» e quindi non può essere biasimato, perché, dice, «ho subito, non volendo, uccisioni e nozze e sventure: se l’oracolo vaticinò a mio padre che sarebbe morto per mano mia, come è possibile accusare me, che allora non ero stato neppur generato?»
Sono radicalmente diversi i due Edipi sofoclei. Per capirne la ragione bisogna pensare al momento in cui andarono in scena: un momento in cui era ancora forte lo scontro tra la nuova civiltà giuridica, per la quale si rispondeva solo degli atti compiuti volontariamente, e l’antica cultura della vendetta, per la quale l’atteggiamento soggettivo dell’agente non aveva alcuna rilevanza: contavano solo i fatti. La tragedia di Edipo rifletteva le contraddizioni di un momento storico in cui Atene discuteva con il suo passato.
E adesso veniamo all’interpretazione moderna del mito. Quasi superfluo ricordare che a partire dal 1900, anno della pubblicazione dell’ Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, esso è considerato la base della teoria secondo la quale il primo impulso sessuale infantile sarebbe indirizzato verso la madre, mentre verso il padre si rivolgerebbe il primo impulso di odio e violenza. L’eventuale riaffiorare di simili impulsi in età adulta sarebbe la causa di stati patologici, che la psicoanalisi dovrebbe curare attraverso un percorso di ricerca nei meandri della psiche analogo a quello condotto da Edipo alla ricerca della verità.
Ma la storia di Edipo raccontata da Sofocle non è l’unica che la mitologia greca ha tramandato, e non è quella originaria.
In Omero Giocasta (chiamata Epicaste) si uccide, ma Edipo non si acceca né va in esilio. Egli continua a vivere e muore nella sua città, rimanendone il re: in Omero, come ha scritto lo storico francese Jean-Pierre Vernant, troviamo «un Edipo senza complesso», per il quale l’incesto non era un tabù. Del resto, la Teogonia di Esiodo non è forse un susseguirsi di incesti, che non sembrano creare alcun problema?
L’incesto è aggiunto alla storia di Edipo da Sofocle, e da lui usato con indiscutibile efficacia come materiale tragico. L’interpretazione freudiana, basata esclusivamente sull’Edipo sofocleo, non tenendo conto della complessità dei miti, può portare fuori strada chi cerca di capire quello dello sfortunatissimo re di Tebe.
Teatro classico.
Salvatore Natoli: «Edipo, l’enigma all’interno di ognuno di noi»
Tra libertà e destino: il filosofo Salvatore Natoli rilegge la figura centrale della tragedia antica, in scena a Milano con Glauco Mauri
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 25.11.2016)
Uccide il padre, sposa la madre, trasmette la maledizione ai figli concepiti in quell’unione colpevole. Eppure, nonostante tutto, Edipo è tra le figure del mito non solo maggiormente indagate (il proverbiale “complesso” teorizzato da Sigmund Freud è la più celebre, non la più convincente tra molte interpretazioni elaborate nei secoli), ma anche maggiormente disponibili a una rilettura in prospettiva cristiana. Una stranezza, almeno in apparenza.
Ma il filosofo Salvatore Natoli suggerisce una spiegazione più che motivata. «Il punto è - osserva - che la storia di Edipo ci è nota in particolare attraverso Sofocle e Sofocle è il più religioso fra i tragici greci, il più aperto alla dimensione della pietà e del perdono». Edipo ritorna, dunque, ma in effetti non se n’è mai andato. In questi giorni al Teatro Franco Parenti di Milano va in scena il dittico composto dalle opere sofoclee di cui il personaggio è protagonista, Edipo re ed Edipo a Colono, e contestualmente viene proposto un ciclo di conferenze, Riflessioni sul tragico, che prevede la partecipazione di studiosi quali Maurizio Bettini (30 novembre) ed Eva Cantarella (2 dicembre). A inaugurare gli incontri, questa sera alle 18, è appunto Natoli, al quale è affidato un tema più che impegnativo: Libertà e destino nella tragedia greca. Ma lo studioso non si scompone e ribadisce che è proprio da lui, da Edipo, che occorre partire.
Perché, professore?
«Perché la sua è la tragedia per eccellenza, come già sosteneva Aristotele - risponde -. Una peripezia in senso tecnico, ossia un vagare da un luogo all’altro, che però non coinvolge un dio o un semidio, ma quello che saremmo tentati di definire l’uomo medio. L’umanità media, anzi. Qualcuno che ci assomiglia e che, come capita a ciascuno di noi, trova ad affrontare i dilemmi e le contraddizioni dell’esistenza. Per i greci, del resto, la realtà intera si presenta sotto la cifra dell’antinomia, dell’enigma, addirittura della doppiezza: tutti elementi che richiedono una costante decifrazione da parte dell’uomo».
In questo Edipo è un esperto, no?
«Fino a un certo punto. Non c’è dubbio che lui e lui soltanto riesca a risolvere il famoso indovinello della Sfinge, ma è una vittoria parziale. Edipo è a conoscenza della profezia che lo destina a uccidere il padre e sposare la madre. Anche a questo enigma prova a tenere testa, d’accordo, ma senza mai interrogarsi su se stesso. Ed è per questo che, fuggendo da colui che crede sia suo padre, finisce per imbattersi nel vero padre. Uccidendolo, sposandone la vedova, realizzando la profezia che si illudeva di aver aggirato».
Da dove viene questo fraintendimento?
«Dal fatto che l’enigma del tragico non si situa sul piano esclusivamente logico, è invece un conflitto tra potenze esterne all’uomo, dalle quali l’uomo stesso rischia sempre di essere schiacciato. Nella sua espressione più radicale, l’enigma è quello che ciascuno di noi ignora di se stesso. Il tragico esprime questa lacerazione profonda dell’esistenza, questo destino di morte insito nella vicenda umana fin dal momento della nascita. Così considerata, la vita non può essere se non sfida, battaglia, agone».
Si tratta di una condizione universale?
«Con una distinzione necessaria. Il tragico si manifesta anche nel mondo contemporaneo, ma in un orizzonte post-cristiano, di perdita e smarrimento. Il tragico greco, al contrario, scaturisce dalla natura. Fa perno sulla mancanza di identità e nello stesso tempo la ricostituisce attraverso la peripezia. Edipo conosce finalmente se stesso grazie al viaggio, altrimenti erratico, che da Tebe lo porta a Colono, alle porte di Atene, dove lo attende l’accoglienza ospitale di Teseo, ovvero la svolta capace di dare soluzione alla contraddizione del tragico».
Vuol dire che l’enigma arriva a uno scioglimento?
«Sì, è un’altra caratteristica che differenzia il tragico antico dal moderno. La struttura della trilogia greca prevede che, alla fine, una soluzione ci sia. Meglio ancora, che nell’esperienza della contraddizione l’uomo scopra la misura che gli è propria, secondo una dinamica già intuita da Nietzsche. La catarsi scaturisce da questa consapevolezza e, per compiersi, prende sempre una via obliqua, un detour alternativo al concatenarsi degli eventi. Può accadere per diretto intervento degli dèi, come nell’Orestea di Eschilo, oppure per iniziativa dell’uomo».
È il caso dell’Edipo di Sofocle?
«Esattamente. La figura decisiva è Antigone, il cui atteggiamento non rappresenta semplicemente la rivincita dell’arcaico nei confronti del diritto, come sosteneva Hegel. La mia personale convinzione è che Antigone, in quanto personificazione della pietas, indichi una via d’uscita laterale, e niente affatto arcaica, dalle strettoie della legge: tanto quest’ultima può essere implacabile, tanto la pietà dell’essere umano verso il suo simile si pone sotto il segno della comprensione. Grazie alla pietà, che sostiene le ragioni umane contro la durezza del diritto, la città stessa rivela il suo volto più accogliente, quello che permette a Teseo di prendersi carico dello straniero».
Ma come si realizza allora il rapporto fra libertà e destino?
«Se guardiamo a Edipo, dobbiamo rispondere che per essere liberi occorre conoscere il proprio destino. Il quale, a sua volta, non si colloca nel futuro, custodito magari da un’ambigua preveggenza. No, a condizionare ciascuno di noi è semmai il passato, che è la vera fonte della necessità. Qualcosa che ci spinge, non da cui siamo attratti. In questa chiave, il passato viene a costituirsi come premonizione di un futuro che si presenta sotto la forma della ripetizione, della reiterazione obbligata. Per scardinare questo meccanismo c’è un solo modo».
Quale?
«Fare chiarezza sulle proprie intenzioni. Gnòthi seautòn, il detto delfico solitamente tradotto come “conosci te stesso”, andrebbe inteso nel senso di “sappi che cosa stai domandando”. Affronta l’enigma che tu stesso sei ai tuoi occhi, prima di provare a risolvere l’enigma del mondo. Ma questo Edipo lo comprende solo al termine delle sue peripezie».
Antigone aveva torto
Soltanto il dialogo consente la convivenza
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera - La Lettura, 01.11.2015)
Uno spettro si aggira per l’Europa ma non è quello del comunismo: è quello di Antigone, l’eroina del mito, la compagna di chi oppone la propria coscienza all’oppressione del potere, la resistente. È un mito che ha attraversato indenne i secoli e che è esploso nel Novecento, nell’ora dei totalitarismi. Come ad esempio nella pièce di Bertolt Brecht, che ambientò la tragedia in una Berlino cupa, piena di SS, con i disertori impiccati per le strade, e Creonte intabarrato in un cappotto militare.
Le due guerre erano state esperienze troppo dure: anche in un racconto di Marguerite Yourcenar le strade di Tebe tremavano al passaggio dei carri armati. Le forme di oppressione del resto sono molteplici: per il pensiero femminista Antigone è la rivendicazione dell’alterità femminile, irriducibile alle logiche del potere maschile. Altri avrebbero potuto celebrarla come la giovane che non accetta di sottostare all’eterno dominio delle vecchie generazioni.
La tragedia di Sofocle, il punto di riferimento per tutte queste riprese, racconta però una storia meno edificante, se si ha la pazienza di leggerla.
C’è stata una guerra. Eteocle ha salvato la città sacrificando la vita in un combattimento mortale con il fratello Polinice, il traditore della patria. La decisione del nuovo sovrano, Creonte, è prevedibile: il primo sarà seppellito con tutti gli onori, la memoria del secondo sarà esecrata con la proibizione che sia seppellito nei confini della città. Tutti quelli che depongono corone di fiori il 25 aprile capiscono perché; e con loro il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, quando decise che il cadavere di Osama Bin Laden fosse gettato in mezzo al mare per evitare che la sua tomba diventasse meta di pellegrinaggio. I morti contano.
Ma Antigone rifiuta e seppellisce il fratello. Perché? Dubbi non ce ne sono. Per Antigone la legge di Creonte non vale nulla: «Questo editto non Zeus proclamò per me né Giustizia». Il mondo degli uomini, con i suoi valori e le sue regole, non conta; solo il mondo degli dei conta; le leggi umane non sono niente rispetto alle «leggi non scritte, incrollabili, eterne, divine».
Mai una volta, in tutta la tragedia, Antigone fa menzione della guerra che ha rischiato di distruggere Tebe, la sua città: non è cosa che possa interessarla. Antigone è «autonoma», alla lettera: si dà le leggi e i valori (in greco nomos ) da sola (in greco autos ). Nulla può resistere all’urto delle sue convinzioni: l’universo religioso e il mondo della città sono separati nettamente.
L’ombra del gesto di Antigone si allunga fino a noi. Sarà forse eccessivo evocare i fanatismi religiosi che insanguinano tanta parte del mondo. Ma è difficile non pensare a tutte le Kim Davis (l’impiegata americana finita in carcere per aver rifiutato la licenza matrimoniale a una coppia di omosessuali) che oppongono la loro fede religiosa alle leggi dello Stato. O alle posizioni di chi, sull’onda di vicende come quella del pensionato che ha ucciso un ladro a Vaprio d’Adda, invoca un diritto assoluto all’autodifesa che sconfina nel farsi giustizia da soli. Anche questo è Antigone, e non è molto rassicurante, per chi pensava che simili conflitti fossero ormai un ricordo del passato.Forse converrebbe togliere a Creonte il cappotto militare e considerare con più attenzione le sue ragioni.
L’obiettivo di Creonte, in fondo, era quello di costruire un mondo in cui gli uomini potessero convivere. Lo sapeva bene il grande filosofo del diritto austriaco Hans Kelsen, di cui l’editore Quodlibet ha appena ripubblicato la lezione di congedo dall’insegnamento, tenuta a Berkeley nel 1952, Che cos’è la giustizia?. Una domanda vitale per uno che a Berkeley era arrivato esule, in fuga dal terrore nazista. La giustizia è il risultato di scelte condivise, che stanno alla base della società umana, non un’imposizione calata dall’alto.
Era una proposta che ben si confaceva al nuovo mondo democratico che stava sorgendo dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Gli uomini, scriveva Kelsen, sono sempre stati dominati dal bisogno di credere in verità assolute. Ora, finalmente, stavano imparando a liberarsi da questa ossessione, impossibile da realizzare. Sarebbe bello dividere tra buoni e cattivi, tra bianchi e neri; nel mondo degli uomini, però, tutto è più complicato: la giustizia assoluta è «una delle eterne illusioni dell’umanità» e nessuno può pretendere di possederla. Occorre imparare la tolleranza per costruire uno spazio comune.
Anche Creonte ha le sue ragioni. La tragedia di Sofocle, però, andava ancora oltre, sollevava domande ancora più inquietanti. Le idee di Kelsen costituiscono un valido antidoto contro i fanatismi che troppo spesso avvelenano la vita in comune degli uomini. Ma riescono a salvare questo nuovo mondo umano da se stesso, dalla spirale di violenza che sempre può innescarsi?
Sofocle racconta non una, ma due storie, entrambe tragiche nella loro solitudine: e su entrambe bisogna riflettere. C’è Antigone, certo, che morirà per il suo gesto di ribellione, e ancora più per il suo ostinato rifiuto del mondo umano: Antigone non si oppone soltanto a Creonte; disprezza la sorella, non parla quasi al fidanzato che per lei si ucciderà.
Ma non c’è solo Antigone. Non meno importante è la parabola di Creonte, che da buon politico si trasformerà in tiranno, un despota che per salvare la sua città finirà per distruggerla. Messo di fronte alla sfida di Antigone, per paura che la disobbedienza di una sola persona possa riaprire le porte al caos, Creonte s’irrigidisce nella difesa dei valori della città, diventa intollerante, rifiuta il confronto, si rifugia nella violenza e finisce per fare il deserto intorno a sé. È una storia più sfuggente ma anche più interessante per noi. Perché questa degenerazione dalla politica alla forza? Era inevitabile?
Proprio negli anni in cui Kelsen teneva le sue ultime lezioni a Berkeley, in Germania si riaffacciava sulla scena il giurista e politologo Carl Schmitt, dopo un periodo di forzato silenzio dovuto alla sua compromissione con il regime nazista. Apparentemente era poca cosa, la partecipazione a un seminario ristretto e la pubblicazione di un piccolo saggio, La tirannia dei valori. In realtà era una lucidissima diagnosi di quello che stava succedendo; ed era anche una risposta al problema di Creonte.
Il mondo moderno si era progressivamente emancipato dal peso di princìpi assoluti, Dio o il Bene, che venivano imposti in modo autoritario. Benissimo. Il nuovo mondo, il nostro mondo, era quello dei valori, che gli uomini liberi si danno consapevolmente e responsabilmente. Benissimo. I valori, però, sono molteplici, relativi, spesso incompatibili. I valori confliggono. Ma qual è, allora, la validità di un valore rispetto all’altro? I valori valgono, osservava Schmitt giocando sull’etimologia della parola, finché valgono: un valore «non è nulla se non s’impone; la validità deve continuamente essere attualizzata, cioè essere fatta valere. Chi dice valore vuol far valere e imporre». «Non appena l’imporre e il far valere diventano una cosa seria, la tolleranza e la neutralità si ribaltano nel loro opposto, cioè in ostilità».
In assenza di fondamenti, il rischio è che l’unica legittimità di un valore consista nella forza di chi lo propone; e il pericolo è che per farli valere si ricorra alla violenza, ricadendo nel fanatismo, in opposizioni non negoziabili: la tirannia dei valori, appunto, come quella descritta nella parabola di Creonte, il politico diventato tiranno per difendere i valori della comunità dalla sfida di Antigone. Oggi, questa tirannia si traduce nel conformismo, nell’erigere se stessi a misura di tutte le cose per paura del confronto con gli altri. Di fronte alle grandi sfide che si stanno profilando all’orizzonte, è una situazione ancora più complicata di quella che Creonte ha cercato vanamente di controllare.
Si ritiene che la modernità sia nata quando la religione è stata spazzata via e Creonte ha preso il posto di Antigone, confinando le sue esigenze morali e religiose nello spazio del privato. Ma è una ricostruzione superficiale, che non rende conto della realtà in cui viviamo.
Piuttosto si dovrebbe riconoscere che tanto Creonte quanto Antigone hanno ugualmente ragione e ugualmente torto: esprimono punti di vista legittimi, che possono degenerare in fondamentalismi ugualmente nocivi. I danni delle varie Antigoni non serve quasi ricordarli; la scoperta dei tempi più recenti è che neppure Creonte è in grado di trovare una soluzione ai nostri problemi. Gli opposti estremismi non portano da nessuna parte. Niente di nuovo sotto il sole: erano gli stessi problemi di cui si discuteva duemilacinquecento anni fa.
Oggi, ampliando il discorso, si parla del conflitto tra Atene (Creonte) e Gerusalemme (Antigone), tra la ragione e la rivelazione. Sono due ordini di senso diversi e inconciliabili, che si combattono sempre senza mai prevalere. La ragione non può escludere la rivelazione (l’esistenza di Dio non può essere provata, ma neppure confutata), ma la rivelazione non può dimostrare se stessa (l’esistenza di Dio non può essere confutata, ma neppure provata). Una tensione ineliminabile rimane.
A pensarci bene, però, questa tensione non è poi un male, perché ci costringe alla discussione, impedendoci di cadere in una visione unilaterale, e dunque dottrinaria, della realtà. Dialogare, confrontarsi: quello che Antigone e Creonte non sono stati capaci di fare. Del resto, non è proprio questa tensione che fa la specificità della nostra civiltà europea ed occidentale?
Fino ad oggi, con alti e bassi, siamo stati capaci di conservare un equilibrio tra queste spinte divergenti. Non era facile. E domani? Questa è la domanda di Sofocle, a cui dobbiamo dare una risposta pratica.
Eutanasia ed ergastolo: i dilemmi di un’Antigone di oggi
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 23.10.2012)
Scriveva Georges Steiner, nel 1984, che tra traduzioni e adattamenti in quella data esistevano già più di 1530 Antigoni: una dimostrazione di quella che egli definisce «l’energia di reiterazione» del mito greco, la straordinaria capacità di inventare storie capaci di riproporsi come attuali al di là del tempo. Nel caso di Antigone, una storia celeberrima: nata dal matrimonio incestuoso di Edipo e Giocasta, Antigone (che dopo la tragica morte dei genitori vive a Tebe, governata dal fratello della madre Creonte), contravviene al divieto di questi di dare sepoltura al cadavere di suo fratello Polinice, morto dando l’assalto a una delle sette porte della città, difesa dall’altro fratello, Eteocle.
E quando viene scoperta affronta lo zio sostenendo le sue ragioni in uno scontro che secondo Goethe rinchiudeva l’essenza stessa della tragedia: da un canto Creonte, sconvolto all’idea che la colpevole - che egli ritiene suo dovere condannare - sia sua nipote, promessa sposa di suo figlio Emone; dall’altro «Antigone celeste» (come la definisce Hegel nei corsi di Storia della Filosofia), che afferma la sua fedeltà a un sistema di leggi diverse da quelle dettate dal potere: le leggi «non scritte», che esprimono i principi etici sentiti dall’individuo come imprescindibili. Donde il dilemma tragico che si ripropone ogni volta che l’applicazione della regola giuridica, anche in un sistema legittimo e «giusto», si scontra con la coscienza di chi non riconosce il suo fondamento etico.
E veniamo, ciò posto, all’ultima, recente rivisitazione fatta da Valeria Parrella: un’Antigone del duemila, che nel Prologo, rivolta alla sorella Ismene dichiara di non accettare la legge della città che impone la sopravvivenza di un «simulacro di fratello che solo nel sembiante è ancora Polinice».
Un primo avvertimento di quel che di lì a poco sarà esplicito: Creonte non ha vietato di dar sepoltura a un cadavere, ha vietato di staccare i tubi che da tredici anni pompano aria nei polmoni di Polinice, tenendolo addormentato - dice Creonte (chiamato «il legislatore») - «nel sonno chimico dal quale nessuno per legge, la mia legge, può trarlo fuori». Ma la vita «è un soffio che esce, non uno che entra», dice questa Antigone, che fa rivivere il dilemma tragico sofocleo nel problema odierno dell’interpretazione delle regole giuridiche in materia di accanimento terapeutico.
Un’Antigone che consente a Valeria Parrella di affrontare, accanto al dramma del fine vita, un altro tragico, non meno attuale problema. La sua Antigone infatti, a differenza di quella sofoclea, non muore, suicida, dopo essere stata condannata a morte. La pena che Creonte le infligge è il carcere, «con sulle vesti ricamato fine pena mai»: una vita che non è più tale, senza neppure l’oblio del sonno: «Come dormire qui, sull’ultima di quattro brande, schiacciata l’aria compressa contro il soffitto, e movimenti e strazi e urla disarticolate sotto di me per altri sette corpi abbandonati alla stanchezza della gabbia».
È l’ergastolo il secondo tema di questa Antigone: una pena che Cesare Beccaria, ritenendola ancor più temibile della morte, proponeva di sostituire alla pena capitale per i (pochissimi) crimini per i quali riteneva che questa fosse ammissibile (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII). Una pena alla quale Antigone del duemila si sottrae suicidandosi.
In termini diversi, questa Antigone ripropone il dilemma espresso, in Sofocle, nel famoso primo corale che inizia con le parole «molte cose sono tremende (o "mirabili" , a seconda delle possibili traduzioni dell’aggettivo deinos), ma nessuna come l’uomo». Quell’uomo, dice Sofocle, che ha saputo fare buon uso del progresso: ha imparato a navigare, a pescare, a lavorare la terra, a ripararsi dal freddo, a vincere le malattie... Ma «talora verso il male, talora verso il bene muove».
È un bel libro, questa Antigone, che riesce a conciliare la modernità del tema con una scrittura che, pur essendo sciolta e duttile, evoca felicemente il tono alto della tradizione letteraria della quale la nostra lingua colta è erede. E dimostra ancora una volta che la tragedia antica non ha bisogno di essere «attualizzata». È e sarà sempre attuale.
la “piccola” Antigone
di Giampiero Monaca *
Venerdì 19 ottobre la maestra Lina ed io abbiamo raccontato la storia di Antigone ai nostri piccoli di prima elementare, per prepararli alla Serata della Pace e della nonviolenza che organizziamo ad Asti il 9 novembre.
I piccoli della 1C condivideranno i loro primi pensieri scaturiti dal lavoro fatto in classe sul tema della giustizia e della pace, mentre i ragazzi di prima media reciteranno l’Antigone e interpreteranno canti di guerra e pace di De Andrè e leggeranno i loro testi creativi sul tema.
Un progetto continuità attivato in maniera autonoma e spontanea tra gli insegnanti Gavazza, Margarino, Serra e Tosetto della scuola media Martiri della Libertà e noi, maestra Lina e maestro Giampiero della 1C della scuola Rio Crosio di Asti.
Torniamo a venerdì... alla fine della storia il re Creonte si pente per aver imprigionato Antigone solo perchè lei aveva rifiutato di obbedire alla crudele ed ingiusta legge che vietava di seppellire il corpo dei nemici considerati traditori.
Per Antigone nella morte non ci sono amici o nemici, ci sono leggi ingiuste alle guali è giusto disobbedire.
Creonte pentito cerca allora di rimediare: PRIMA va a seppellire il corpo di Polinice con tutti gli onori di un funerale di stato, sontuoso e ufficiale, POI va a liberare la piccola Antigone , ma la trova ormai morta... Non c’è vita senza Libertà!!
Bè.
Elena A. 5 anni e mezzo, al termine commenta.... “non poteva il re, preoccuparsi prima dei vivi, e andare a liberare subito Antigone? Poi poteva andare a occuparsi di Polinice, tanto era morto. I vivi sono più importanti dei morti “
Da sempre è così: il potere onora come eroi con funerali di stato i magistrati antimafia massacrati da un’autobomba, ma fa difficoltà a pagare le pensioni di invalidità agli agenti della scorta rimasti feriti.
Però... io a questa chiave di lettura in cui, anche nel pentimento, anche quando cerca di risultare umano, il POTENTE, è inadeguato a compiere azioni davvero efficaci e pietose, ci sono arrivato solo una settimana fa!
Grazie Elena!
Grazie mille per la pubblicazione. Per chi fosse interessato , il 9 novembre alle 21,00 ad Asti presso il palazzo del Comune 1° piano ex sala consiliare, organizziamo la serata della Pace e della Nonviolenza. Ri allestiremo l’Antigone con i ragazzi della ex 5C , adesso alle medie. I loro compagni canteranno e leggeranno testi e poesie. I piccoli di prima elementare offriranno invece i loro pensieri sotto forma di piccoli doni simbolici! Grazie in ogni caso
qui il video (purtroppo un po di bassa qualità) di un allestimento di quest’estate http://www.bimbisvegli.net/weblog/archives/1276 Grazie
Sofocle, la colpa e la ribellione
Da Freud a Brecht, i personaggi di Edipo e Antigone restano due punti fermi della cultura contemporanea
di Daniele Piccini (Corriere della Sera, 07.03.2012)
È il 15 ottobre del 1897 quando per la prima volta Sigmund Freud, scrivendo a Wilhelm Fliess, fa riferimento all’Edipo re di Sofocle per avvalorare la sua teoria dei rapporti familiari, incentrata su quello che chiamerà poi il complesso di Edipo. La tragedia, come Freud precisò in seguito, sarebbe qualcosa come la materializzazione di un sogno, che mette in scena la pulsione del personaggio all’amore per la madre e all’odio omicida per il padre e li rappresenta come effettivamente avvenuti, scatenando il senso di colpa e la catastrofe: una trama, dunque, che permetterebbe di leggere l’abisso dell’inconscio, le pulsioni di una fase dello sviluppo infantile. La tragedia di Sofocle, rappresentata forse tra il 430 e il 425 a.C., diventa la matrice di una delle più celebri teorie della psicanalisi, inaugurando un ricchissimo filone di interpretazioni e di riscritture.
Era giusta o forzosa la lettura freudiana, il suo catturare la complessa materia dell’Edipo re, inchiodandola alla definizione del complesso edipico? Molti hanno accettato la traccia interpretativa, altri vi si sono opposti, considerandola un tradimento dell’originaria verità della tragedia (ad esempio Jean-Pierre Vernant).
Basta leggere il libro ricco e denso di Guido Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, per rendersi conto della vastissima trama esegetica e interpretativa che ha preso ad oggetto Edipo, così come del ventaglio di riscritture, variazioni, adattamenti che esso ha generato, in epoca antica e moderna: dall’Oedipus di Seneca a Corneille, da Hugo von Hofmannsthal a Pasolini e Testori.
Il fascio di luce, concentrato e unidirezionale, gettato dal fondatore della psicanalisi sulla tragedia obbliga a prendere atto di una circostanza, «che non è mai stato forse compiuto nessun altro così profondo e impegnativo, così rischioso e commovente, atto di fiducia nella letteratura e nel suo valore di verità» (Paduano). Vale a dire che Freud trattò le ombre dell’irripetibile stagione tragica ateniese come cose salde, accettando il potenziale veritativo dell’opera di Sofocle (vissuto per ben novant’anni, tra il 496 e il 406 a.C., nell’Atene democratica). Con ciò ci obbliga a considerare la prepotente forza semantica della tragedia, giacimento di senso pressoché inesauribile.
Il meccanismo edipico enucleato da Freud è rinvenibile nella tragedia, ma essa non vi si esaurisce, pronta a liberare nuovi significati. Certo, la lettura freudiana può vantare appoggi e indizi sparsi nell’Edipo re, come quando Giocasta, proprio nel tentativo di dissuadere Edipo dalla sua pervicace indagine, gli dice: «Tanti uomini prima d’oggi si sono congiunti in sogno con la propria madre».
Ma d’altra parte la tragedia è anche altro: è sottolineatura di una radicale ironia tragica, che vede il detentore del potere trascinato da un potere verticale e inconoscibile, il decifratore di enigmi incapace di decifrare se stesso; è evocazione della fatalità del furore divino, di cui gli uomini sono succubi, sebbene Edipo collabori attivamente, per smania di conoscere, alla propria distruzione; è riflessione sul potere che scivola verso la chiusura e la tirannide.
Il dato che balza in evidenza, nell’osservare il brulicare di letture e controinterpretazioni, è che il fondo dell’opera è inattingibile: Edipo re è voce del paradosso, della fragilità che si scopre tale sotto armature di regalità, è inchiesta rovinosa e monito sull’abissalità del volere divino, sulla perentorietà della profezia; è creatura viva e non infilzata negli album di una storiografia letteraria (o psicanalitica) pacificamente risolta. È, insomma, avventura intellettuale in movimento.
Non minore capacità di parlare attraverso i secoli e le culture (arrivando a interessare quella cristiana) è da riconoscersi all’eroina, inflessibile quanto il fratello-padre Edipo, che dà il titolo alla tragedia rappresentata nel 442 a.C.: Antigone.
Coinvolta nella terribile catastrofe paterna (è evocata in chiusa dell’Edipo re, cronologicamente successivo), è lei che nell’Edipo a Colono accompagna il genitore cieco in esilio. Nella tragedia che la vede protagonista si oppone al nuovo re di Tebe, Creonte (suo zio), che dopo la vicendevole uccisione di Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, permette di seppellire il primo, ma non il secondo, considerato per il suo assalto a Tebe traditore della patria. Antigone decide di dare sepoltura al corpo di Polinice nonostante il bando del re, incarnando quello spirito della «sorellanza» tanto caro ai lettori idealisti e romantici, che imposero il mito moderno della tragedia.
La conflittualità tra le due istanze è radicale: Creonte parla in nome del rispetto delle leggi umane, giuste o ingiuste che siano, e scivola verso la tirannia; Antigone è accesa di folle devozione per le leggi non scritte degli dei: stoltezza apparente che si nutre di ragione profonda. Le opposte inflessibilità confliggono e non c’è tempo, secondo il demone tragico, per accordarle.
Perciò Antigone brilla nel breve spazio della sua obiezione: personaggio che il Novecento ha rivestito (con Brecht, ad esempio) del motivo della resistenza allo Stato totalitario oppure ha rivisitato obliquamente, quasi come una creatura invasata e consacrata alla morte (così in Ritsos, che la fa rievocare dalla sorella Ismene: le molte riscritture del personaggio sono squadernate nell’affascinante Le Antigoni di George Steiner). Anche Creonte accende domande: può egli rappresentare le legittime ragioni dello Stato, come il filone interpretativo hegeliano suggerisce, o incarna piuttosto l’arbitrio del tiranno? Le voci di queste dramatis personae sono nel cuore della nostra democrazia, imperfetta come ogni altra costruzione civile. Clamano e risuonano, si agitano in noi.
La grande Antigone ritradotta propone la verità della «pietas»
di MARCO RONCALLI (Avvenire, 07.06.2008)
Una ragazza affronta la morte per non tradire la pietà verso i defunti: ha infranto il divieto di seppellire il corpo di un traditore, quello del fratello, caduto combattendo contro la sua stessa patria. Lo fa per impulso di coscienza, ma anche per un dovere sancito da leggi non scritte: quelle divine, della pietas, immutabili, in contrasto con quelle umane personificate dal re di Tebe.
Sì, è la trama dell’Antigone di Sofocle: l’individuazione di cosa è assoluto dentro una coscienza libera .E dove possiamo leggere un conflitto aperto 25 secoli dopo: le norme visibili scritte e quelle invisibili, incise nell’anima; le ragioni della giustizia e la ragion di stato; i valori della collettività e della famiglia, della ragione e del cuore, della natura e della cultura, la logica dello status quo e della disobbedienza innovatrice. Concepito in un periodo di pace, fra le guerre persiane e quella del Peloponneso, il capolavoro lascia spazio a tante chiavi ermeneutiche: tra, politica, etica, religione, e...diritto. Perché è legge il nomos della polis o dell’agorà, ma lo sono anche i valori dell’oikos, la giustizia di Dike.
Perché il fluire della vita dentro la città ha bisogno di patti sociali, ma prima degli artifici caduchi viene la pre-potenza dell’animo. Ecco perché i profili disegualmente tragici di Creonte e di Antigone si stagliano anche al nostro orizzonte e questo testo della civiltà ateniese del V° secolo, continua a parlarci ai giorni nostri (anche quando c’interroghiamo sul Potere). Ha scritto Giovanni Raboni che «tradurre un simile capolavoro, dare a questa eterna e terribile querelle le parole della propria lingua (...), è un’impresa talmente temeraria che la si può compiere solo in uno stato di euforica incoscienza». Eppure è lunga la catena dei temerari (vengono in mente Hölderlin ed Ettore Romagnoli, Filippo Maria Pontani o Giovanni Cerri, Massimo Cacciari e lo stesso Raboni...). Raramente altri testi hanno sedotto tanti intellettuali e studiosi. Non ha resistito neanche Gian Enrico Manzoni, docente dell’Università Cattolica e autore di saggi su Omero e Sofocle, Virgilio e Ovidio. Il quale però ha saputo resistere alle opposte tentazioni dell’arcaismo o dell’attualizzazione. Ed ecco allora - testo greco a fronte - una versione che si rivela godibile da un largo pubblico, al quale il traduttore offre qui una pregevole introduzione, un’annotazione sobria e alcune appendici. Corredi che accennano osservazioni linguistiche, vagliano attestazioni storico-letterarie, decodificano velate allusioni, ma soprattutto ci mostrano l’uomo: del quale «nulla è più grandioso e terribile » ( deinóteron). L’uomo, ovvero colui che al contempo è éupolis (fa grande la patria) e ápolis (senza patria), pantopóros (capace di tutto dal punto di vista del movimento) e áporos (incapace di muoversi, bloccato). Ed è la condizione umana ciò che resta oltre la tessitura linguistica della traduzione, l’andamento dialettico senza conciliazione della tragedia, oltre la valenza
I tabù del mondo *
Quando la donna sceglie il desiderio e diventa Antigone
L’eroina tragica immortalata da Sofocle, la sorella disposta a morire pur di non tradire l’affetto cieco per il fratello, è il simbolo eterno dell’urgenza dei vincoli familiari contro l’astratto universalismo della legge. E di un universo assoluto che elimina ogni dialettica, mediazione o compromesso
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 31.01.2016)
Antigone è una delle figure più intense e commentate della tragedia greca. Attraverso questa giovane donna Sofocle, dopo aver descritto in Edipo la figura drammatica del figlio assoggettato a un destino tanto spietato quanto inesorabile, ritrae la figura della sorella, l’icona, il simbolo della fratellanza. La differenza profonda tra Edipo e Antigone è che il primo dominato dall’inconscio - Edipo non sa né quello che fa, né chi è - mentre la seconda sa agire con piena determinazione: per Hegel è «senza inconscio». Mentre Edipo è giocato beffardamente dai suoi atti e più prova a svincolarsi dal suo destino di figlio parricida e incestuoso e più i lacci del destino stringono la loro presa, Antigone è la figura più pura della decisione. Se in Edipo, infatti, ogni decisione si rivela impotente a modificare il destino già scritto nella profezia dell’Oracolo, in Antigone è la decisione stessa che diventa un destino.
Il nucleo della tragedia di Sofocle è costituito, come ha indicato Hegel, dall’opposizione irriducibile di due Leggi: quella diurna e universale della Città - della Polis - e quella notturna e singolare del legame familiare. Il fratello, Polinice, ha tradito schierandosi coi nemici rimanendo ucciso in combattimento alle porte della città. La Legge dello Stato stabilisce che gli sia negata la sepoltura. Il rappresentante di questa Legge, Creonte, non ammette eccezioni: egli è il simbolo di una Legge inumana che esige la sua applicazione cieca, di una Legge che non sa includere la grazia, il diritto dell’eccezione.
È contro questa Legge che si muove Antigone, nel nome di un’altra Legge, quella della fratellanza, della famiglia, dell’amore che esige la pietas, il diritto di dare sepoltura al corpo straziato del fratello morto. Nella sua celebre lettura della tragedia sviluppata nella Fenomenologia dello spirito, Hegel insiste nel mostrare l’assenza di flessibilità dialettica in questo scontro dilemmatico tra due Leggi che vogliono essere entrambe assolute. La lettura di Lacan - sviluppata nel Seminario VII titolato
L’etica della psicoanalisi - sposta invece l’attenzione sulla hybris più specifica di Antigone: la sua inflessibilità. In quanto figura estrema del desiderio, ella non cede, non sbanda, non vacilla, non dubita. È una giovane donna, dalle parvenze fragili, che però si presenta capace di assumere sino in fondo tutte le conseguenze della propria decisione. Antigone non retrocede rispetto al proprio desiderio, non difende l’interesse particolare della propria vita, non si risparmia, non calcola, non pianifica, non tergiversa. Il suo moto è animato a senso unico da un amore per il fratello che non conosce limiti, nemmeno quello della morte.
In questo senso, come afferma Lacan, è una figura dello “sconfinamento”: seguire con decisione la Legge del proprio desiderio può significare entrare in contrasto con la Legge della città. Non è quello che accade nell’epilogo tragico di Million dollar baby di Clint Eastwood dove il vecchio allenatore di pugilato Frankie decide, contro la Legge della città, di accompagnare verso la morte Maggie condannata, da un colpo vigliacco ricevuto nel suo ultimo combattimento per il titolo mondiale di boxe femminile, a vivere completante paralizzata in un letto d’ospedale? Donare la morte a chi più si ama al mondo non evoca forse il carattere estremo del gesto di Antigone?
Se Lacan insiste nel sottolineare il carattere antidialettico, solitario, tragico, del gesto di Antigone non è forse per mostrarci che quando è in gioco il nostro desiderio, siamo sempre messi a confronto con le conseguenze dei nostri atti? Non accade, come per Antigone, di essere esposti al rischio dello sconfinamento, al rischio di perderci, di finire nella fossa? È questo, infatti, il destino che Sofocle assegna alla sua eroina: non cedere sul suo desiderio, non indietreggiare sulla propria verità, comporta per Antigone la condanna a essere sepolta viva.
Ma Antigone non scende a patti, non media, non vuole mettere in discussione la sua decisione, resta inflessibile e dura come una pietra. Preferisce discendere all’inferno piuttosto di vivere vedendo offesa la memoria del fratello amato. Il suo desiderio è così radicale da sconfinare verso la morte. È ciò che motiva la particolare fascinazione che emana la sua figura. Ella ci insegna che gli esseri umani sono esseri di desiderio e non esseri che si limitano a sopravvivere. Antigone oltrepassa ogni concezione utilitaristica dell’esistenza: sacrificando la sua vita per onorare simbolicamente Polinice ella si spinge sino a spezzare il tabù della morte.
È questo il suo passo più vertiginoso: la vita in sé - privata della sua dignità umana - non è vita che vale la pena di vivere. In questo senso l’inflessibilità di Antigone si ricollega ad un altro gesto che la mitologia greca ha scolpito in modo indimenticabile: quello del filosofo Empedocle che decide di gettarsi nel cratere ardente dell’Etna. Anche in quel gesto si evidenzia che la vita umana non può essere ridotta alla vita animale. Il “No!” alla vita del filosofo rivendica l’umanità della vita al di là della sua semplice presenza. È la lezione tragica che possiamo ricavare dal sorriso smarrito con il quale Antigone si congeda per sempre dal mondo.
*
“I tabù del mondo” è anche online all’indirizzo temi. repubblica.it/repubblicaspeciale-tabu-del-mondo