EDIPO. Il disagio della civiltà e lo spirito critico...

ANTIGONE E IL NOSTRO PRESENTE STORICO. LA LEZIONE DI SOFOCLE. Una riflessione di Franco Cordero - a cura di Federico La Sala

mercoledì 26 marzo 2008.
 



-  Un dramma fra politica ed etica
-  Antigone
-  cosa ci resta dell’eroina di Sofocle

-  Processo allo Stato

-  L’eroina greca si scaglia contro un comando iniquo in nome di norme immutabili
-  La donna è un’antagonista del tiranno, cerca "luminosa gloria" a costo della vita
-  La tragedia di Sofocle si fonda sul principio che la legge non incarna valori assoluti. E che l’unico scudo contro le sbornie dogmatiche è l’analisi critica
-  Una scelta implica rischi. L’importante è spendersi per la soluzione meno dubbia

di Franco Cordero (la Repubblica, 25.03.08)

Antigone è testo canonico della retorica giusnaturalista: l’eroina ignora l’iniquo comando (lasciare insepolto il cadavere del fratello, nemico pubblico); vigono norme divine immutabili; e l’epilogo tristissimo prova quanta ragione avesse. Lettura edificante ma tentiamo glosse meno piatte.

Sofocle compone una trilogia concatenata come le costruiva Eschilo, cominciando dalla fine d’una nera saga familiare, nel cinquantasettesimo anno, 442 a.C.: i precedenti lontani vanno in scena almeno 12 anni dopo (430-425); e racconta la seconda tranche d’eventi novantenne o quasi, rappresentata postuma a cura del caro omonimo nipote, malvisto dal padre. Labdaco è figlio di Polidoro, nato da Cadmo e Armonia, il cui ceppo annovera tre figure olimpiche, Afrodite, Ares, Zeus.

Suo figlio Laio, monarca tebano, s’attira la collera d’Era, custode dei matrimoni, con una scandalosa liaison omosessuale: aveva rapito Crisippo, la cui morte desta l’ira d’Apollo; tre oracoli predicono sventura se avesse un figlio da Giocasta. Ne nasce uno e i genitori lo espongono con le caviglie trafitte da un punteruolo, affinché abbia ancora meno chance senza che l’atto sia tout court infanticida, donde Edipo: quello dai piedi gonfi; nome ormai desueto, indicava i Dattili, figli della Terra (le creature del mondo tellurico hanno passi pesanti). Ma sopravvive, allevato come figlio da Polibo e Merope regnanti su Corinto. Ormai uomo, consulta l’oracolo delfico sul suo vero status familiare (un ubriaco gli aveva dato del bastardo). Risposta ambigua, come spesso sono i detti apollinei: rischia d’essere parricida e marito incestuoso della madre; non è chiaro il modo della predizione, assoluta o ipotetica. Tali essendo le prospettive, sta lontano da Corinto.

Andava a Delfi anche Laio, per sapere se sia ancora vivo quel figlio pericoloso: lo incontra in una strettoia; irrompe il carro regio; lo junior ha riflessi pronti; offeso dalla soperchieria, colpisce col bastone quel prepotente lasciandolo stecchito. Gli succede Creonte, fratello della vedova. Tempi funesti.

La Sfinge, mandata da Era, imperversa col suo enigma, divorando i défaillants: c’è un animale con quattro, due o tre gambe; quante più sono, tanto meno rapidi i movimenti. Creonte offre regno e mano della vedova a chi liberi Tebe. Vi riesce Edipo identificando il mutante nell’uomo: dapprima locomotore su mani e ginocchia; poi diventa bipede; vecchio e curvo, usa anche un bastone. L’oracolo s’è compiuto: Edipo re, parricida e marito della madre; non lo sanno; e dalle nozze sciagurate nascono quattro figli, Polinice, Eteocle, Antigone, Ismene.

Tale l’antefatto quando Tebe soffre d’una misteriosa peste; secondo Delfi, consultato da Creonte, il miasma dipende dal vecchio regicidio: l’epidemia finirà quando abbiano scoperto il colpevole. Edipo indaga; s’è pubblicamente impegnato; interroga Tiresia, vecchissimo indovino cieco (ancora adolescente, aveva visto nuda Atena); lo sente reticente e insiste; l’alterco svela quasi tutto; non rendendosene conto, fiuta un complotto le cui fila tiri Creonte, ma confida dubbi angosciosi alla madre-moglie raccontando i precedenti, incluso l’evento mortale nella collisione dei carri.

L’arrivo d’un messo da Corinto innesca le agnizioni finali: era solo figlio adottivo del Polibo, la cui morte costui notifica; l’aveva trovato un pastore sul Citerone e questo testimone vive ancora; lo scovano. I due sventurati non resistono all’orribile verità: Giocasta s’impicca; lui strappa le fibbie d’oro dal cadavere e se le conficca negli occhi. Qui finiva la storia tebana d’Edipo.

Il séguito (terza e ultima tragedia) ha come scenario un bosco presso Atene, santuario delle Eumenidi, già nefaste potenze infernali: arriva mendicando, accompagnato da Antigone; Ismene porta notizie. I fratelli sono in guerra: il minore, Eteocle, s’è impadronito della città; lo spodestato primogenito vuol riconquistarla con l’armata che raccoglie ad Argo. Edipo li maledice: potevano salvarlo; e quando usciva dal delirio autopunitivo, l’hanno espulso; non gli corrano dietro adesso; soccomberanno tutti.

Teseo, re ospitale, gli garantisce tutela se qualcuno avesse disegni violenti. Viene Creonte, falso amico, «ghigno subdolo e lingua affilata»: vuol ricondurlo tra le mura, adoperabile quale totem; ha catturato Ismene; prenderà anche Antigone; tiene discorsi ipocriti; possibile che gli ateniesi accolgano un parricida incestuoso?

Falsario arrogante, risponde Edipo, erano sventure incolpevoli. Il coup de main sulle due è fallito. Ultimo appare Polinice, il cui nome definisce l’anima, «uomo dai mille litigi». Miserabile, viene piangendo dal padre che aveva espulso: vuole il suo avallo contro Tebe; gli assedianti saranno sconfitti; i fratelli morranno, uccisi uno dall’altro.

Invano Antigone l’esorta a desistere: tenterà la sorte senza svelare la predizione ai sei condottieri alleati: forse è solo un desiderio del vegliardo che l’avventura finisca così; se muore, le sorelle lo seppelliscano. Zeus tuona: «Mi chiama»; «Andate in cerca del re», ordina Edipo. Solo Teseo lo vede scendere nell’Ade «in una calma sovrumana» (è esperto del sito, essendovi andato con Piritoo): risuona una voce; «Edipo, cos’aspetti?». Le due figliole tornano a Tebe.

La peripezia finisce nella città salva: gli argivi hanno tolto l’assedio; i due fratelli sono morti (le Fenicie d’Euripide la reinventano presentando Edipo sopravvissuto alla battaglia e Giocasta suicida sul cadavere dei figli). Prologo a due voci a proposito dell’editto emanato da Creonte: l’assalitore resti insepolto; sarà lapidato chiunque compia o tenti riti funebri.

Antigone, antagonista del tiranno, parla e posa da virago: Edipo è l’uomo dai piedi gonfi; lei ha l’Io ipertrofico; cerca «luminosa gloria» a costo della vita. Ismene incarna una dolente sensibilità femminile: già sono oppresse dalle sventure familiari; non le aggravi temerariamente; da parte sua subirà la forza iniqua dei vivi chiedendo perdono alle ombre; sarebbe follia sfidarli. Creonte era persona ostica, l’abbiamo visto nella seconda e terza pièce della trilogia.

Tale rimane in vesti regali: qualcuno ha sparso terra sul cadavere, annuncia una delle guardie; e lui sospetta che suoi avversari le abbiano comprate; lo scovino o morranno male. Non avevano visto niente, protesta: comandi e lo giurano; o impugnano un ferro incandescente o passano nel fuoco, due classiche ordalie. Secondo episodio: riappare la guardia, allora penitente, adesso radiosa, spingendo Antigone; «eccola qui»; e racconta come l’abbia sorpresa sul fatto mentre ripeteva l’atto delittuoso; «prendila, fanne quel che vuoi»; confessi il delitto.

Non poteva essere ritratto meglio l’homunculus oboediens (ad esempio, i gendarmi dall’aria perbene che sorvegliano gl’imputati nelle fotografie dei dibattimenti post 20 luglio 1944 davanti al Tribunale del popolo nazista, destinati a turpi supplizi). Nel dialogo tra i due congiunti, zio e nipote, pulsano violente antipatie: coatta dal bisogno d’esibirsi, lo provoca (se la paura non chiudesse le bocche, quel gesto sarebbe celebrato); lui non ammette che «sia una femmina a comandare». Nobilmente Ismene confessa una correità morale, rimbeccata dalla sorella: e più che affetto, lo direi egotismo; vuol riempire la scena da sola. «Due pazze», commenta il tiranno, archetipo del potere politico naturalmente ottuso.

Segue un dialogo impossibile col figlio, al quale Antigone era promessa. Gli spiega che fattore distruttivo sia l’anarchia: abbatte gli Stati, sovverte le case, scatena disfatte; l’ordine ante omnia; e «mai cedere a una femmina». D’accordo sui teoremi, risponde diplomaticamente Emone, ma consideri l’altro lato della questione. No, «costei è infetta dal malanimo». I tebani pensano diversamente. Non gl’importa, lo Stato è possesso legittimo del sovrano. Così regnerà nel deserto (corrono gli anni d’oro dell’Atene democratica).

Creonte, sinora raziocinante su premesse dogmatiche, scoppia d’ira: comanda che gliela portino e sia uccisa lì; Emone gli dà del folle e corre via. Servili i coreuti (15 vecchi, organo vocale d’un labile sentimento collettivo). Infine, decide: Ismene esce indenne; Antigone sarà chiusa in una caverna con del cibo; se vuole, Ade la salvi (ancora ordalìa, meno pericolosa della deiectio e rupe Tarpeia, dove al paziente resta una sola chance, che qualche dio lo prenda a volo, rompendo la serie causale). S’è spenta la fiammata dell’inflazione psichica.

Antigone esce gemebonda: ecco l’ultimo suo sole; va all’Acheronte, sposa d’Ade; morrà come Niobe, trasformata in rupe; comandi iniqui la mandano nella prigione-tomba; «trascinata così, senza amici né sposo», «mi tolgono questa luce». Creonte taglia corto: la portino via; là dentro può vivere o lasciarsi morire. Il coro rende ossequio al tiranno. Chiude l’autocompianto un’inutile mozione d’affetto: «O Tebe, terra dei miei padri, o celesti progenitori»; «guardate la figlia dei vostri re, che cosa deve patire e da quali uomini», avendo adempiuto un dovere morale.

Siamo allo scioglimento, in lingua aristotelica, catastrofe. L’annuncia Tiresia, àugure, quindi ornitologo: seduto nella specola, ascoltava i rumori d’una zuffa furiosa d’uccelli; fenomeni allarmanti, né riusciva la prova delle fiamme sull’altare. L’insepolto contamina Tebe: gli dèi rifiutano i sacrifici; ripensi gli ordini, insistere sarebbe stupidità arrogante. Creonte sospetta ancora manovre politiche e oracoli venali. A parole, non demorde: il corpo del nemico pubblico rimarrebbe dov’è anche corresse tutto l’oro indiano e le aquile portassero i lacerti infetti alla sede del Padre Zeus; «la mia volontà non è in vendita»; ma le iperboli mascherano un panico religioso ("orghé", "horror", "tremor", ecc.)

Le Erinni sono già al lavoro, affermava l’indovino cieco, mai smentito dai fatti. Sia prudente, consigliano i coreuti, meno succubi perché lo vedono malfermo. S’è arreso, dicano il da farsi: Polinice sepolto e Antigone libera, subito; le sciagure arrivano fulminee. L’Esodo, infatti, è una sequela calamitosa narrata dal messo: bisognava cominciare dalla sepoltura, poi aprono la caverna; sale un pianto; Antigone s’era impiccata col lino della veste; Emone l’abbraccia; chiamato dal padre, gli sferra un fendente; l’altro lo schiva, allora si pianta la spada nelle viscere; consumeranno le nozze agl’inferi. Quantum mutatus ab illo: Creonte porta in braccio il figlio e s’incolpa dell’accaduto; era demente, ostinato negli errori.

Particolare notevole: non evoca agenti esterni; ammette una colpa, anzi vergogna sua, mentre era antica abitudine greca disfarsi dell’angoscia causata da stati d’animo funesti proiettandoli; "ate" è il nome mitologico della causalità psichica, vedi l’autodifesa d’Agamennone (Iliade, XIX). Non mendica scuse: scelte personali conducevano al colpo con cui un dio l’ha stordito, del quale parla nella battuta seguente; assurdamente le riteneva giuste. Vistolo sgomento, quindi innocuo, i vecchi calcano la mano: è tardi ormai; doveva convertirsi prima. Non ha ancora toccato il fondo. Il secondo messo porta l’ultima notizia funesta: è morta anche Euridice, sua moglie, trafiggendosi; e l’ha maledetto attribuendogli la morte dei due figli (l’altro era Megareo, caduto su una delle porte: lo nomina Eschilo nei Sette a Tebe).

E storia nera quella d’Edipo e famiglia; compendiamola in una massima dell’autocrate convertito: i conati umani sono «dolorosi e inutili». Antigone sconta i Todestriebe acuiti dall’Io gonfio: inseguiva la «bella morte»; gliel’aveva detto anche Ismene («vai, innamorata dei morti, se così hai deciso»: Prologo). Insomma, era predestinata al suicidio.

In sede etica e politica semina idee capitali, talvolta fraintese, questo trentaduesimo dramma con cui Sofocle vince il concorso dell’anno 442 a C.: lo Stato non incarna valori assoluti, anzi cova grovigli d’interessi impuri; siamo animali deboli, con midolla manipolabili, vedi quel coro pieghevole, quindi l’unico scudo contro le sbornie comunitarie è l’analisi critica. Chiunque li detti, i dogmi non meritano il sacrificium intellectus, tanto meno quando servano interessi riconoscibilmente particolari, né vigono criteri infallibili, tali non essendo nemmeno le asserite leggi divine: siccome ogni scelta implica rischi, l’importante è spendersi nella ricerca della soluzione meno dubbia, secondo la misura dei talenti individuali; nessuno creda d’essersi salvato l’anima con un torpido mimetismo. Sotto quest’aspetto la mancata sposa d’Emone tramanda un archetipo ammirevole.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").


DOC.: HEGEL (""ANTIGONE").

"Nell’esempio della tragedia, che per me ha un valore assoluto, nell’Antigone,l’amore della famiglia, la santità, l’interiorità, che appartengono al sentimento intimo, e perciò sono conosciute anche come la legge degli dèi inferi, si scontrano con il diritto dello stato (Recht des Staats). Creonte non è un tiranno, ma rappresenta effettivamente una potenza etica (eine sittliche Macht). Creonte non ha torto. Egli ritiene che la legge dello stato, l’autorità del governo debbano essere rispettate, e che la violazione della legge debba essere seguita dal castigo. Ciascuna di queste due parti realizza (verwirklicht) solo uno dei poteri etici e ne ha per contenuto esclusivamente uno. In questo consiste la loro unilateralità. Il significato della giustizia eterna è così reso manifesto: entrambi conseguono l’ingiustizia perché sono unilaterali, ma entrambi conseguono anche la giustizia. Entrambi vengono riconosciuti come “validi” nel corso “limpido” della moralità (im ungetrübten Gang der Sittlichkeit). Qui, entrambi hanno il loro valore, ma si tratta di un valore equiparato. Solo la giustizia si fa avanti contro l’unilateralità" (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, Vol. 2, Cap. II, 3 a).


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