L’horror che viene dal sacro
di don ENZO MAZZI
(La Stampa, 29/2/2008)
«Il papa oscurantista. Contro le donne, contro la scienza» s’intitola il volume di MicroMega da oggi in edicola. Interventi di Carlo Flamigni, Gianpaolo Donzelli, Carlo Alberto Redi, Bruno Brambati, Valeria Parrella e don Enzo Mazzi, del quale pubblichiamo un brano in anteprima.
C’è un’idea distorta del senso dell’esistenza, una sacralizzazione violenta della vita, alla base del fondamentalismo che ispira la cosiddetta dottrina della Chiesa cattolica in campo etico e le scelte politiche degli «atei devoti». (...)
Il documento dei dirigenti delle cliniche romane di ostetricia, che sancisce il dovere dei medici di rianimare in ogni caso il feto neonato in estrema prematurità, pur in presenza di rischi di gravi sofferenze e malformazioni e anche contro la volontà della madre, ha un sapore di provocazione fondamentalista che rasenta l’horror.
Molto è stato detto su questa «crudeltà insensata», come l’ha giustamente definita Livia Turco. E quando è stato reso noto quel documento non si sapeva che il peggio doveva ancora venire e che l’horror avrebbe avuto un seguito: il blitz della polizia nel reparto di ostetricia del Policlinico di Napoli. Due volanti a sirene spiegate, sette agenti divisi in tre gruppi, l’irruzione nella camera di una donna appena uscita dalla sala operatoria dove è stata sottoposta ad aborto terapeutico. (...)
Ritengo che al fondo della crudeltà insensata del documento e alla violenza provocatoria del blitz poliziesco ci sia un senso alienato della vita derivante dalla penetrazione nella società moderna del dominio del sacro che è una delle principali fonti di violenza. La vita è sacra in quanto parte di un tutto in divenire che comprende finitezza e morte.
«Precipita la vita nella sorte / della non vita da cui viene / e si confronta a quel nulla / la misura del vivere: il morire», scrive nella raccolta di poesie Verbale Michele Ranchetti, scomparso di recente, professore ordinario di Storia della Chiesa all’Università di Firenze dal 1973 al 1998, protagonista dello scenario poetico italiano contemporaneo, personalità combattuta fra pessimismo e speranza, affaticata dal bisogno e dall’impegno di pacificazione fra la vita e il proprio limite, cioè fra le due realtà del nostro essere che sono una cosa sola ma che la cultura sacrale violentemente separa. Michele Ranchetti è ognuno di noi, la sua lotta fra pessimismo e speranza è la nostra lotta, la sua fatica di pacificazione interiore è la nostra fatica, è la fatica dell’umanità in cammino.
La cultura sacrale si oppone da sempre a questo processo storico di pacificazione profonda e alla fatica di ogni persona che cerca. Il dominio del sacro separa la vita dalla sua finitezza. La vita viene sacralizzata come dimensione astratta contrapposta alla dimensione altrettanto astratta della morte. La sacralità intesa come astrazione, separazione e contrapposizione fra le varie dimensioni della nostra esistenza è la proiezione di un’angoscia irrisolta, di una frattura interna, di una mancanza di autonomia e infine di una alienazione della propria soggettività nelle mani del potere. Sbaglieremmo se identificassimo il sacro solo con la sua espressione di tipo religioso. La sacralità è una funzione del potere, del dominio e dell’espropriazione dell’uomo e della donna. -Ovunque si afferma lo spazio sacro ivi c’è l’interdizione dell’uomo e della donna di gestire la propria esistenza con la ragione e con l’azione responsabile. E s’impone il potere assoluto di un dio, sia il Dio delle religioni tradizionali o il dio delle religioni profane, cioè le religioni del danaro, della scienza, della tecnica, della guerra e della legge che pretende asservire l’essere umano invece che porsi al suo servizio. Questo travaso del sacro dalla cultura religiosa tradizionale alla razionalità moderna non andrebbe secondo me sottovalutato.
Sono tanti i laici che credono di essersi liberati del sacro perché non si fanno più il segno della croce. Si dichiarano non credenti, atei, agnostici e si voltano altrove. E così le strutture del sacro che avvincono le regioni profonde delle persone e della società possono agire liberamente continuando a inquinare le nostre esistenze individuali e collettive.
Sul tema, sul sito, si cfr.:
La legge 40, duemila anni fa. Una nota (del 2005) di don Enzo Mazzi
AL DI LA’ DELLA CONFUSIONE E DEI CONTINUI ATTACCHI ALLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Il nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais: il ruolo del pensiero democratico radicale come unico strumento di integrazione di fronte al fanatismo
Discorso sulla laicità ai tempi della collera
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 23.01.2016)
Molte cose è il libro di Paolo Flores d’Arcais “La guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale” (Raffaello Cortina Editore): un allarme per il pericolo che l’Islam fondamentalista rappresenta per gli ideali politici dell’Occidente, una denuncia delle debolezze e delle ipocrisie dei nostri governi, una teoria delle condizioni irrinunciabili della democrazia. Il “precipitato” di tutti i discorsi anzidetti è nella parola laicità, intesa nel senso più rigoroso, senza gli aggettivi oggi di moda (sana, positiva, vera: aggettivi che non l’arricchiscono, ma l’avvelenano). Le considerazioni che seguono non sono, propriamente, una recensione. Sono piuttosto un tentativo d’inquadrare i problemi e di sollecitare riflessioni su questioni cruciali per il nostro avvenire.
La laicità è il presupposto della democrazia, in quanto s’intenda la religione come eteronomia, cioè soggezione alla trascendenza. La democrazia, al contrario, è autonomia, cioè libertà nell’immanenza. Si potrebbe dire così: chi si appella alla religione ritiene che le cose terrene siano subordinate a un ordine sacro oggettivo necessario che a noi spetta rispettare e, eventualmente, restaurare se è stato violato; chi si appella alla democrazia ritiene, invece, che la casa terrena non abbia un ordine, ma siamo noi a doverglielo dare, attraverso discussioni, controversie, voti ed elezioni. Chi vuole risolvere i problemi della convivenza in base a premesse sacrali apre le porte a quella maledizione dell’umanità che sono le guerre di religione.
Ora, se guardiamo alla storia, dobbiamo riconoscere che è nello Stato nazionale che la democrazia ha trovato l’humus necessario. Questo è un punto importante per comprendere le difficoltà odierne della democrazia. Lo Stato nazionale ha generato mostri totalitari, quando è degenerato in nazionalismo. Ma la nazione ha realizzato la “sfera pubblica” comune, nella quale i cittadini possano confrontarsi dialogicamente, e “discorsivamente” partecipare alla creazione d’una volontà comune su temi di rilevanza generale. La democrazia non è incompatibile con il pluralismo delle opinioni, ma il “multiculturalismo” è altra cosa, è rottura dell’unità del quadro entro il quale si deve svolgere la vita comune.
Il libro di Flores è una scossa necessaria e salubre contro la cecità, la viltà e l’inanità di fronte ai pericoli del fanatismo religioso usato come sostanza incendiaria, versata sulle controversie economiche e politiche che dividono il mondo e le società e le trasformano in crociate. Un breve excursus storico. La Francia del Cinque-Seicento fu il terreno d’una orribile guerra civile in cui ragioni politiche si mescolavano col fanatismo religioso: l’obbedienza cattolica contro la riforma protestante. La “notte di San Bartolomeo” (23-24 agosto 1572) in cui migliaia di Ugonotti furono trucidati dal partito cattolico sotto l’egida di Caterina de’ Medici è un esempio di come si possono regolare i conti tra fedeli di religione diversa e azzerare le diversità imponendo una sola legittimità.
Contro tanta barbarie, si fece strada un diverso modo di pensare che potrebbe essere sintetizzato in un detto del Cancelliere di Francia Michel de L’Hospital: «Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme », ciascuno con la sua fede. Quella massima trovò attuazione con l’editto di Nantes di Enrico IV (1598) che, sia pure provvisoriamente e con molte limitazioni, riconobbe la libertà di coscienza e di culto: tolleranza a condizione che cattolici e protestanti stessero ciascuno al proprio posto e il potere assoluto del Re non fosse messo in discussione.
Questa forma di coesistenza per parti separate poteva valere in quel tempo, quando di democrazia non si parlava. In democrazia, deve esistere un unico foro politico generale dove tutti sono chiamati a partecipare. Non basta che ci sia un potere che garantisca la non aggressione. Occorre che i “fedeli” delle diverse chiese si rispettino e si riconoscano reciprocamente come portatori di buone ragioni valide in generale. La legittimità democratica nasce da lì, dal riconoscimento d’essere parti d’un foro comune. Il foro comune si chiama “nazione”.
La nazione è stata celebrata come la casa accogliente, protettiva, il luogo del cuore, la Heimat del romanticismo tedesco. La storia delle Nazioni e della “nazionalizzazione delle masse” (titolo d’un celebre libro di George Mosse del 1974) è stata però lunga e tortuosa e, soprattutto, fatta di cose molto diverse: movimenti di emancipazione da servaggi e discriminazioni e conquista di diritti (per esempio, il voto e la protezione sociale per la classe lavoratrice, in origine esclusa dalla nazione, secondo la concezione borghese) o, al contrario, di discriminazione e persecuzione.
L’unità è una bella cosa se è il prodotto dell’azione che mira a distruggere barriere e a creare fratellanza. Ma può essere - ed è stata - cosa violenta, se è imposta con obblighi e divieti (come l’uniformità di lingua, di religione e di insegnamento). Può essere terribile, se viene brandita come arma contro coloro che i governi dichiarano “non integrabili”, i diversi per natura: gli stranieri, i senza cittadinanza, i nemici della Patria, i potenziali traditori (gli ebrei, i rom e sinti, gli omosessuali, gli slavi, i latini, secondo il concetto nazionale razzista del nazismo).
Raccogliamo questi spunti di riflessione e facciamoli reagire con i problemi del multiculturalismo. Il “modello San Bartolomeo”, cioè la violenza e i pogrom usati per sbarazzarsi dei migranti è proponibile solo per gli xenofobi razzisti di casa nostra. Tuttavia, neppure la separazione “modello Nantes” è accettabile: i muri, le enclave e i quartieri monoetnici, le classi scolastiche separate o le scuole coraniche sostitutive di quelle pubbliche. Sono cose che hanno il nome apartheid e sono inconcepibili in democrazia.
La parola-chiave dei nostri giorni è integrazione e, nel libro di Flores, l’integrazione implica la laicità nella sua accezione più rigorosa. Si prenda la questione dei simboli: come dovrebbe essere vietata l’esibizione di quelli islamici (il velo delle donne), così dovrebbe essere per quelli cristiani (il crocifisso nei luoghi pubblici). Ma, qui c’è il rischio d’una aporia, un’aperta contraddizione. La laicità è funzionale all’autonomia, ma la si può imporre in regime di eteronomia. Si può essere laici perché qualcuno ce lo comanda? La contraddizione non è da poco. La laicità imposta significa soffocare i propri tratti identitari e, da questo soffocamento, si possono sprigionare reazioni di rigetto. L’esperienza insegna: invece di promuovere convivenza, si rischia di alimentare i conflitti.
L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può perseguire in autonomia solo con l’interazione. Prima o poi, non saremo più gli stessi. Di questo possiamo essere certi. Si tratta di sapere se ci si arriveremo in mezzo a conflitti o, invece, con la disponibilità delle culture a entrare in rapporto. Ferma restando l’intransigenza verso ogni forma di violenza tra e nei gruppi sociali, e fermo l’aiuto che deve essere dato a coloro che liberamente desiderano sottrarsi alle imposizioni delle loro comunità, si tratta di promuovere l’interazione, nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza pacifica. Convinzione o illusione? Non lo sappiamo, ma sappiamo che questa è l’unica via conforme alle nostre convinzioni democratiche.
E’ stato uno degli animatori del cattolicesimo di base, protagonista alla fine degli Anni ’60 di un clamoroso scontro con l’allora arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit
E’ morto don Enzo Mazzi animatore della Comunità dell’Isolotto e che domani (domenica) nella sede di via degli Aceri 1 alle ore 10,30 lo ricorderà. il sindaco Matteo Renzi ha detto: "Con Mazzi se ne va una figura fortemente legata alla città e in particolare al quartiere dell’Isolotto, dove il suo impegno si è protratto fino agli ultimi giorni. Ai familiari e alla sua comunità vanno le nostre sentite condoglianze".
Don Mazzi è stato un collaboratore di Repubblica, per anni i suoi interventi hanno accompagnato i lettori e hanno spiegato la posizione di quei cattolici che non sempre si riconoscevano nelle gerarchie ecclesiastiche.
Nato nel 1927, fu nominato parroco dell’Isolotto, uno dei grandi quartieri popolari di Firenze, nato del Dopoguerra. La nuova chiesa ospitava un gruppo di sacerdoti e laici che risentiva del clima del Concilio Vaticano II sulla scia del pensiero di Giorgio La Pira, Ernesto Balducci e Lorenzo Milani.
La Comunità abolì la separazione fra ricchi e poveri, clero e laici: in canonica furono alloggiati tre nuclei familiari, ex carcerati, disabili. La Comunità solidarizzava con quell’area cattolica che non si riconosceva più nella Dc. Don Mazzi contribuì a realizzare dentro la canonica un asilo, una piccola fabbrica, un laboratorio per invalidi. Le sue posizioni erano sempre più in contrasto con la curia fino ad arrivare allo scontro dell’autunno del 1968 quando un’assemblea della Comunità richiamò 10mila persone e la vicenda divenne un caso internazionale. Il cardinale Ermenegildo Florit, decise di reprimere duramente il dissenso: intimò a Mazzi e ai suoi collaboratori di lasciare la chiesa sostituendolo con un nuovo parroco. Cinque sacerdoti e tre laici furono incriminati dalla magistratura.
Da quel momento don Mazzi continua a lavorare, ma dentro la sua comunità di base che si riunisce in piazza dell’Isolotto proprio davanti alla chiesa. Soltanto alla fine degli Anni ’80 si è avviata una normalizzazione dei rapporti grazie all’intervento del cardinale Silvano Piovanelli.
Innumerevoli i suoi scritti e le sue pubblicazioni sui temi legati alla religione, al sociale e alla tolleranza della chiesa.
La redazione di Repubblica-Firenze ricorda con affetto l’intelligenza, il coraggio, l’indipendenza di pensiero di Enzo Mazzi.