Un “operaio per il Regno” ci ha lasciato
COMUNITA’ CRISTIANE DI BASE
Segreteria Tecnica Nazionale
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Carissimi amici ed amiche delle comunità di base,
è con profondissimo dolore che vi comunico la triste notizia che Enzo Mazzi ci ha lasciato. E’ morto questa notte a Firenze per la malattia che lo aveva colpito inesorabilmente.
Adesso, che forse non ci sente, perché lui non vorrebbe, possiamo dire cosa ha rappresentato per noi, per tutte le comunità italiane Enzo.
La Comunità dell’Isolotto lo ricorderà domani mattina, domenica 23 ottobre, nella loro sede in via degli Aceri 1, alle ore 10,30. Chi può partecipare vada a Firenze a stringersi vicino a Luciana e alle donne e agli uomini dell’Isolotto; le comunità tutte lo ricordino nelle loro assemblee domenicali.
Un abbraccio commosso a tutte e tutti,
La Segreteria tecnica nazionale delle CDB per la CdB di San Paolo
Stefano Toppi
Alcuni interventi di don Enzo Mazzi, nel sito:
La legge 40, duemila anni fa. Una nota (del 2005) di don Enzo Mazzi
La Chiesa non tema la fede autentica e libera
di Enzo Mazzi (La Nazione, 28 ottobre 2009)
Mai avrei pensato di rivivere dopo quarant’anni una vicenda di repressione intraecclesiale simile a quella che negli anni Sessanta colpì la comunità dell’Isolotto e la mia persona. Ritenevo che la gravità di quei provvedimenti, cioè il tentativo di annullare un’esperienza comunitaria ecclesiale molto vitale attraverso la mia rimozione dalla parrocchia, fosse dovuta al timore che incuteva nei centri del potere civile e religioso la rivoluzione del ‘68. Mi sbagliavo.
La paura sembra rivelarsi congenita negli animi inquieti delle gerarchie ecclesiastiche. Il provvedimento con cui l’arcivescovo di Firenze ha imposto l’allontanamento di don Alessandro Santoro dalla comunità delle Piagge è di una gravità che adombra una tale paura.
Paura di che? Ce lo domandiamo smarriti. I gesti di don Santoro “contraddicono il ministero di pastore di una comunità, per la quale il sacerdote deve rappresentare la voce autentica dell’insegnamento dottrinale e della prassi sacramentale della Chiesa cattolica” è scritto nella nota con cui l’archivescovo comunica il provvedimento.
Siamo sinceri, non è credibile che la benedizione di due persone credenti le quali ritengono che tale benedizione abbia valore di consacrazione matrimoniale possa indurre ad allontanare il pastore dalla propria comunità. C’è forse il timore che la ricchezza di fede autentica ma libera della comunità delle Piagge possa essere contagiosa?
Una gerarchia resa insicura dal procedere inarrestabile della secolarizzazione e della libertà di coscienza nell’insieme della società e all’interno della Chiesa stessa, aggredita dalla paura che si sgretoli dalle fondamenta, come le mura di Gerico, l’imponente potere accumulato nei secoli, tenta disperatamente di salvarsi aggrappandosi alle angosce esistenziali, etiche, materiali, di una società altrettanto insicura.
Il cristianesimo è nato da un grande movimento popolare di liberazione dalla paura ed ora il dominio della paura rischia di portarlo alla rovina. “Non abbiate paura, il crocifisso è risorto”, dice l’apparizione di un messaggero celeste alle donne davanti al sepolcro vuoto. Il “crocifisso” è, nel Vangelo, il simbolo di una società nuova che risorge dalla paura ed è destinata a soppiantare il vecchio mondo il quale per esorcizzare la paura della fine si allea ma inutilmente con la morte. Così nacque il cristianesimo. Così si sviluppò nei primi secoli quando i cristiani affrontarono impavidi le persecuzioni.
Ci vorrebbe anche oggi un “angelo” che gridasse ai vertici ecclesiastici e in fondo a tutti noi: “Non abbiate paura”. Non potrebbero assolvere questo compito di annunciatori della liberazione dalla paura quei cristiani, laici e preti, che in buon numero si riunirono a Firenze qualche tempo fa per socializzare ed esprimere il loro “disagio” di fronte a una gerarchia ecclesiastica arrocata nella difesa del “sabato”, leggi, dogmi, ordinamenti, contro l’uomo?
Il mea culpa che Ratzinger non fa
di Enzo Mazzi (il manifesto, 21 marzo 2010)
Finora puntava rigidamente verso il buio, ora sembra orientarsi al contrario verso la luce. Questa svolta radicale, di centottanta gradi, della barca di Pietro annunciata dall’attesissima lettera pastorale ai fedeli d’Irlanda pubblicata ieri, non può che essere salutata con soddisfazione. Ma la genericità dei discorsi non basta.
Non sono soddisfatte soprattutto le migliaia di vittime devastate nel profondo da fatti di violenza gravissimi. Chiedevano una assunzione di responsabilità personale da parte del sommo pontefice, un mea culpa chiaro e tondo, e si ritrovano con un vero e proprio scarico di responsabilità sui suoi sottoposti.
«Non si può negare che alcuni di voi e dei vostri predecessori - dice il papa ai vescovi irlandesi - avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi». Chiedevano modificazioni strutturali del sistema chiesa come ad esempio almeno una apertura verso il superamento dell’obbligo del celibato ecclesiastico. Nemmeno un accenno.
Chiedevano meno indottrinamento catechistico dei bambini e più Vangelo. Non un parola. Chiedevano attuazione pratica reale del Concilio e si ritrovano con l’accusa del papa al «frainteso» approccio al Concilio Vaticano II. Chiedevano meno potere della casta sacerdotale, meno assolutismo monarchico della gerarchia e più democrazia o almeno più circolarità comunitaria nella pastorale, nei riti, nella nomina dei vescovi e dei parroci, unica soluzione alla mancanza di trasparenza. E si trovano solo una frase un po’ sibillina del papa in cui tra le cause enumera anche «una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità».
Hanno ragione le vittime ad essere insoddisfatte. Ed è al pari comprensibile l’insoddisfazione di tanti e tante cattolici a cui non basta questa virata della rotta quando è la barca stessa che sta facendo acqua da tutte le parti e che va a fuoco. Non basta l’annuncio di una «Visita Apostolica in alcune diocesi dell’Irlanda, come pure in seminari e congregazioni religiose».
E qui mi sento di esprimere un bisogno che sta emergendo dalla base della chiesa seppure ancora troppo timidamente: riprendere con fede e amore la scelta di considerare l’obbedienza non più una virtù, vincere la paura di drizzarsi in piedi di fronte al potere con tutta la forza della coscienza alimentata dalla rete di relazioni comunitarie e dal Vangelo. Uscire dal silenzio, dai mugugni sussurrati, dalle frammentazioni delle conventicole, dal condizionamento di diadi muffite: dentro/fuori, credenti/non credenti, sacro/profano, obbedienza/disobbedienza e collegare con umiltà ma anche con determinazione le tante e tante esperienze ecclesiali che maturano nell’ombra, chi più dentro e chi più fuori e chi alla frontiera. Senza esclusioni né emarginazioni. Tutto questo sarebbe l’attualizzazione della più genuina tradizione cristiana.
Il cristianesimo è nato così, dal coordinamento di piccole comunità ed esperienze eretiche, è geneticamente ribelle verso tutte le forme di alienazione e in particolare nei confronti del dominio del sacro. Dall’età di Costantino c’è stata una modificazione genetica nell’assetto istituzionale ecclesiastico. Ma una linea di fedeltà al carattere ribelle del primo cristianesimo è stata mantenuta, pur con fatica e contraddizioni, nella storia di questi due millenni fino ad oggi da movimenti, correnti di pensiero critico e comunità di base. La liberazione dal dominio del sacro non si è mai interrotta. Ed oggi occorre forse ridarle forza e visibilità.
di Enzo Mazzi (il manifesto, 20 marzo 2010)
La pedofilia del clero è un fenomeno antico, come del resto la pedofilia intra-familiare. Se oggi emerge e fa scandalo non è necessariamente perché tale fenomeno si sia aggravato ma perché le vittime e i loro genitori hanno il coraggio di denunciare gli abusi. Si conferma ancora una volta il paradigma storico che da sempre anima i movimenti dal basso, le comunità di base e questo stesso giornale: la salvezza del mondo viene dalla forza delle vittime.
È grazie a loro, alle vittime coraggiose, che finalmente si è rivelata la fallibilità, reale umana, dell’«infallibile» supremo pontefice, il quale ha dovuto scusarsi, in qualche modo e mai abbastanza, firmando una lettera che riconosce la necessità di cambiare strada. È grazie a loro che molti vescovi, maestri, padri e dottori, hanno dovuto chinare il capo, perfino dimettersi e imparare a tornare uomini fragili scendendo dal piedistallo della sacralità. È grazie a loro che la Chiesa cattolica tutta, la quale si autodefinisce «indefettibile», ha mostrato il suo volto intimo più vero, di realtà defettibile, precaria, umana, ispirata dal messaggio e dalla testimonianza di un uomo che ha detto «se il seme non muore non porta frutto».
La pedofilia è un crimine e quella dei preti lo è a un livello di gravità e pericolosità particolarmente pesante. Il «sacro», cose sacre, persone sacre, luoghi e tempi sacri, proprio in quanto realtà separata tende ad annullare la sacralità dell’esistenza normale, esclude la sacralità del tutto e quindi è implicitamente e intrinsecamente fonte di violenza. Ma se il sacro si rende responsabile di esplicite forme di violenza, come nella pedofilia dei preti, allora la violenza esplicita e quella implicita si potenziano reciprocamente.
Il colpevole di turno
Gli episodi di pedofilia che stanno emergendo in tutto il mondo evidenziano contraddizioni e deficienze strutturali dell’istituzione Chiesa. È fuorviante scaricare tutto e solo sul colpevole di turno. Ognuno è responsabile delle proprie azioni e ne deve rispondere verso le vittime e verso la giustizia; ma la responsabilità individuale non assolve affatto le responsabilità dell’istituzione. Vari analisti del fenomeno della pedofilia nella Chiesa e lo stesso Benedetto XVI arrivano a parlare di tolleranza zero, utilizzando acriticamente il linguaggio della destra estrema, ma si guardano bene dal cercarne le radici nella struttura istituzionale ecclesiastica. Sarebbe invece proprio lì, nella struttura del sacro che andrebbe applicata la tolleranza zero.
È nota ormai la relazione che c’è fra il sesso e il potere. Già per i greci ed i romani il fallo era simbolo di potere. Nell’antica Roma non di rado le dimensioni e la forma del pene agevolavano la carriera politica e militare. Tutto ciò che si erige sembra essere un riferimento fallico. Gli obelischi, i campanili, le torri, il bastone del comando, lo scettro regale, il pastorale, la stessa mitria vescovile, che cosa sono se non simboli fallici? Non a caso nella Chiesa il potere è riservato rigidamente a chi possiede il sesso maschile e negato in assoluto alla donna. La pedofilia è interna a questo rapporto fra sesso e potere. Chi cerca il bambino o la bambina per soddisfare l’appetito sessuale lo fa per esprimere la propria sete di dominio verso una creatura fragile. È la sete di dominio la radice più profonda della pedofilia. Per cui combattere la pedofilia senza porre la scure alla radice non dico che è inutile ma certo è insufficiente. Ed è la sete di dominio che andrebbe sradicata dalla struttura del sacro.
I fedeli, perenni bambini
Fa ancora parte di una pastorale «normale», che avrebbe dovuto essere superata nel dopoconcilio ma non lo è affatto, il condizionamento di coscienze infantili attraverso l’imposizione di sensi di colpa che s’insinuano nel profondo e si trascinano inconsapevolmente per tutta la vita. Per non parlare degli indottrinamenti di un certo modo di fare catechesi e di insegnare religione nelle scuole, che è ancora purtroppo largamente maggioritario. Il Compendio del Catechismo pubblicato di recente dal Vaticano, a domande e risposte preconfezionate, da cui non emerge nemmeno un minimo di senso di ricerca, di autonomia, di coscienza critica, non è esso stesso un invito all’indottrinamento?
Come una madre possessiva, sembra che Madre Chiesa voglia mantenere in una perenne condizione infantile i suoi figli, tanto li ama. Se non rischiasse di essere male interpretato, verrebbe voglia di chiamare tutto questo «pedofilia strutturale» della Chiesa, nel senso appunto di amore verso gli uomini e donne perennemente bambini. E la sacralizzazione del potere ecclesiastico, la teologia e la pastorale del disprezzo verso il corpo, il sesso e il piacere, la condanna di ogni forma di rapporto fra sessi che non sia consacrato dal matrimonio, non è tutto questo dominio violento?
C’è in questo momento la tendenza a puntare sulla concessione del matrimonio ai preti rendendo il celibato una scelta facoltativa e non definitiva. Ma è il sacerdozio in sé come casta sacrale detentrice di un potere derivante direttamente da Dio da porre in discussione. È tempo che si crei un grande movimento per restituire al cristianesimo il senso della liberazione dal sacro, in quanto realtà separata, liberazione non solo dalle oppressioni economiche e politiche, ma anche psicologiche, etiche-morali, simboliche. Forse non sparirà la pedofilia ma certo verrà colpita a fondo e non solo quella dei preti.
E’ stato uno degli animatori del cattolicesimo di base, protagonista alla fine degli Anni ’60 di un clamoroso scontro con l’allora arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit
E’ morto don Enzo Mazzi animatore della Comunità dell’Isolotto e che domani (domenica) nella sede di via degli Aceri 1 alle ore 10,30 lo ricorderà. il sindaco Matteo Renzi ha detto: "Con Mazzi se ne va una figura fortemente legata alla città e in particolare al quartiere dell’Isolotto, dove il suo impegno si è protratto fino agli ultimi giorni. Ai familiari e alla sua comunità vanno le nostre sentite condoglianze".
Don Mazzi è stato un collaboratore di Repubblica, per anni i suoi interventi hanno accompagnato i lettori e hanno spiegato la posizione di quei cattolici che non sempre si riconoscevano nelle gerarchie ecclesiastiche.
Nato nel 1927, fu nominato parroco dell’Isolotto, uno dei grandi quartieri popolari di Firenze, nato del Dopoguerra. La nuova chiesa ospitava un gruppo di sacerdoti e laici che risentiva del clima del Concilio Vaticano II sulla scia del pensiero di Giorgio La Pira, Ernesto Balducci e Lorenzo Milani.
La Comunità abolì la separazione fra ricchi e poveri, clero e laici: in canonica furono alloggiati tre nuclei familiari, ex carcerati, disabili. La Comunità solidarizzava con quell’area cattolica che non si riconosceva più nella Dc. Don Mazzi contribuì a realizzare dentro la canonica un asilo, una piccola fabbrica, un laboratorio per invalidi. Le sue posizioni erano sempre più in contrasto con la curia fino ad arrivare allo scontro dell’autunno del 1968 quando un’assemblea della Comunità richiamò 10mila persone e la vicenda divenne un caso internazionale. Il cardinale Ermenegildo Florit, decise di reprimere duramente il dissenso: intimò a Mazzi e ai suoi collaboratori di lasciare la chiesa sostituendolo con un nuovo parroco. Cinque sacerdoti e tre laici furono incriminati dalla magistratura.
Da quel momento don Mazzi continua a lavorare, ma dentro la sua comunità di base che si riunisce in piazza dell’Isolotto proprio davanti alla chiesa. Soltanto alla fine degli Anni ’80 si è avviata una normalizzazione dei rapporti grazie all’intervento del cardinale Silvano Piovanelli.
Innumerevoli i suoi scritti e le sue pubblicazioni sui temi legati alla religione, al sociale e alla tolleranza della chiesa.
La redazione di Repubblica-Firenze ricorda con affetto l’intelligenza, il coraggio, l’indipendenza di pensiero di Enzo Mazzi.
Un testimone profondo del nostro tempo
di redazione (il manifesto, 23 ottobre 2011
Nonostante la sua età, 84 anni passati, Enzo Mazzi conservava nel cuore tutte le caratteristiche della gioventù. Era tra le persone più aperte al futuro, disponibili e coraggiose che il manifesto ha avuto la possibilità di incontrare sulla sua strada. Per noi è stato un privilegio averlo avuto tra i nostri principali collaboratori. Perché il nostro piccolo e fragile strumento quotidiano è stato anche il giornale di Enzo. Sulle nostre pagine ha tracciato un sentiero unico, spesso in assoluta solitudine.
Per un cammino che veniva da lontano, dagli stessi giorni del ’68 che portarono alla nascita della Comunità dell’Isolotto a Firenze e all’esperienza in tutta Italia delle Comunità cristiane di base. Quelle realtà che per la prima volta rivendicavano dal basso una nuova possibilità del Concilio, trovando quasi sempre la contrapposizione autoritaria del potere temporale della Chiesa. Mi piace ricordare che sta per uscire per la ManifestoLibri un libro da lui curato con un suo saggio introduttivo proprio sulla storia del processo all’Isolotto.
Enzo Mazzi è stato un profondo testimone del nostro tempo, rimesso alle volontà collettive ma forte nell’individualità delle scelte e della presa di parola.
La natura del suo dichiarato impegno si è sempre accompagnata ad uno stile alto nella scrittura, capace di attraversare l’oscurità delle verità rivelate per illuminare, per svelare. Sia che si trattasse di rivendicare quello che chiamava «proto-Vangelo», un Gesù terreno, per un nuovo mondo possibile ben lontano dalla fissità simbolica dell’«oggetto» crocefisso, sia nell’intervenire contro la violenza del doppio potere, della Chiesa e del governo, come nel caso dell’accanimento contro il corpo di Eluana Englaro. Oppure quando sottolineava la possibilità di un processo reale alle responsabilità del papa per la tragedia e il crimine della pedofilia. O ancora quando denunciava il dominio del sacro, presente sia nei vecchi - e rinnovati dalla liturgia - processi di santificazione, come nelle nuove e moderne mitologie delle merci.
I suoi consigli, il suo conforto, la sua scrittura che si confronta nel divenire dei giorni, davvero ci mancheranno. Addio Enzo.
Le parole di un cristianesimo ribelle
di Riccardo Chiari (il manifesto, 23 ottobre 2011)
Come ogni domenica, anche oggi l’appuntamento della Comunità dell’Isolotto è alle 10.30, alle «Baracche» in via degli Aceri 1. «Fra le altre cose - anticipa Carlo Consigli - socializzeremo l’assenza di Enzo, e la continuità della sua presenza». Nel solco di quella esperienza comunitaria che Enzo Mazzi considerava essenziale. Come una bussola che lo ha guidato per una intera esistenza. Di cui ha fatto dono, non solo metaforico, alle donne e agli uomini della comunità. Con loro non potrà più camminare insieme. Grazie a loro, e ai tantissimi che di settimana in settimana, anno dopo anno, hanno socializzato negli appuntamenti comunitari della domenica, Enzo Mazzi continuerà ad esserci.
Per sua espressa volontà, la morte non doveva essere una notizia. L’ennesimo rifiuto della «caratterizzazione personalistica» che l’ex parroco del quartiere popolare e operaio dell’Isolotto aveva abiurato, fin dagli albori della Comunità. «Ma il manifesto era importante per Enzo», riconosce Consigli. Perché l’eretico quotidiano comunista era per lui un altro luogo dove comunicare con gli altri i temi delle riflessioni comunitarie della domenica. Riflessioni che, negli anni, sarebbero finite anche sulle pagine fiorentine di altri quotidiani. Perché affrontavano questioni, fossero l’acqua bene comune oppure la democrazia in fabbrica, insieme locali e globali.
Anche in questi ultimi mesi, quando già la malattia ne fiaccava il corpo ma non lo spirito, a Enzo Mazzi non erano sfuggiti avvenimenti come il «Se non ora, quando?» del 13 febbraio. Affrontato così: «Le donne che si riprendono le piazze si riprendono anche per se stesse e per tutti noi il potere sulla sacralità della natura, dei corpi, della sessualità e, mettendo un po’ di enfasi, sulla sacralità di tutto l’esistente. «Se non ora, quando?». Poi erano arrivate altre riflessioni critiche, di fronte al tentativo di considerare anche Primo Maggio «una festa da sacrificare all’orgia del consumo». Infine, lo scorso 28 agosto sul manifesto, l’ultimo graffio: «Per la strategia liberista la gente deve scordare il suo passato sociale, e non avere altro ideale e identità che la religione del danaro».
Sempre nel segno delle comunità cristiane di base di cui all’Isolotto, insieme a Sergio Gomiti e Paolo Caciolli, era stato precursore. Raccontate in quel «Cristianesimo Ribelle», edito tre anni fa per "manifesto libri", dove tirava le fila di quella spinta profonda che da 43 anni ha portato molti credenti a mettere in discussione le gerarchie ecclesiastiche e i nessi tra chiesa e potere. Trovando nelle comunità un luogo-laboratorio dove socializzare riflessioni ed esperienze.
Un prete scomodo che spaventò la Chiesa
di Giovanni Gozzini (l’Unità, 24 ottobre 2011)
Enzo Mazzi a Firenze vuol dire Isolotto. Cioè un quartiere povero della città, storicamente legato ai renaioli che tiravano su la sabbia (la “rena” in toscano) dall’Arno: un mondo rimasto compatto di botteghe e mestieri. A mandare don Mazzi in quel quartiere era stato il cardinal Dalla Costa, lo stesso che nel 1938 aveva chiuso porte e finestre dell’arcivescovado, in piazza del Duomo, quando Hitler aveva fatto visita a Firenze.
Nel 1966 quello stesso fiume che dava da mangiare, sommerse con le sue acque limacciose l’Isolotto e tutta la città. Don Mazzi era il parroco e insieme alla Casa del Popolo, ai democristiani e ai comunisti di allora, si dette da fare per aiutare la gente rimasta senza casa e senza lavoro. Niente di eccezionale: il pastore stava con le sue pecore, loro lo riconoscevano e lui le ascoltava.
Nell’Italia di quegli anni l’Isolotto di don Mazzi incarnava un’esperienza di comunità di base (allora si chiamavano così) che cercava di praticare il Vangelo senza preclusioni politiche e badando al sodo: solidarietà, accoglienza, povertà condivisa. Dormire in cantina per far posto in canonica a una famiglia di sfrattati. La messa si diceva in italiano e non più in latino, come aveva indicato il Concilio Vaticano II. Il prete smise di mostrare le spalle ai fedeli e si girò per sempre verso di loro: quello che faceva, la liturgia, era affare di tutti, non di un solo sacerdote.
Nel Sessantotto questo modo di fare Chiesa si colorò un po’ più di politica. Contro la guerra in Vietnam, contro la Democrazia Cristiana che non aveva ricandidato La Pira, il sindaco che della pace aveva fatto la sua bandiera. Il successore di Dalla Costa, Florit, ebbe paura di questo andazzo. Una delle gocce che fece traboccare il vaso fu una lettera di solidarietà inviata dall’Isolotto agli studenti di Parma che avevano occupato la cattedrale in segno di protesta contro la Curia che voleva costruirne una nuova, più grande e più ricca. Non ce n’era bisogno, dicevano: Gesù l’unica volta che si era arrabbiato davvero era contro i mercanti che occupavano il tempio. Ricchezza e Chiesa non devono andare d’accordo.
Florit sospese don Mazzi e mandò un nuovo parroco all’Isolotto. Ma alla sua prima messa si presentarono in venti. Tutti gli altri andarono in piazza, dove don Mazzi continuò a dire messa per tutta la comunità. Da allora in poi quella separazione fisica continuò a rappresentare un diverso cammino. La comunità di base dell’Isolotto (come tante altre in Italia) continuò a praticare un Vangelo che significava stare in maniera intransigente dalla parte degli ultimi. Il Vescovo, la gerarchia seguì una strada diversa, più cauta, ma non rinunciò ad esercitare il proprio potere: nel 1974 don Mazzi venne sospeso a divinis. Non per questo il parroco «ufficioso» smise di essere il pastore delle sue pecore: fino all’ultimo è stato punto di riferimento non solo per le prese di posizioni pubbliche che facevano rumore sui giornali (come quella a favore di papà Englaro) ma soprattutto per un’azione concreta, silenziosa e quotidiana di aiuto a chi aveva bisogno.
Potrà sembrare strano ma se oggi la maggioranza dei cattolici italiani (il 53% secondo il sondaggio di Mannheimer reso pubblico domenica scorsa) non rivuole la Democrazia cristiana è anche per merito (o per colpa) di don Mazzi. Gli ultimi due pontificati hanno lavorato molto per piallare le comunità di base, per togliere legittimazione e visibilità a un cattolicesimo eterodosso.
Ma come
tante altre cose del Sessantotto (si pensi a Steve Jobs che va in India prima di mettersi a inventare il
computer per tutti) quel cattolicesimo non ha smesso di lavorare in profondità e di cambiare la testa
degli italiani.
Si può essere molto religiosi senza per forza essere democristiani e senza per forza
pensarla politicamente alla stessa maniera.
Si può cercare di vivere il Vangelo con coerenza senza
per forza obbedire alle autorità ecclesiali.
Si può, si deve, pensare con la propria testa.
Ciò che nel 1968 sembrava eresia ora è senso comune.
Troppo spesso i politici chiusi nelle loro stanze non si accorgono di come è cambiata l’Italia. E ragionano (dato che sono in perenne carestia di idee nuove) su come ricostituire una presenza cattolica nella vita politica. Non sanno che decine di migliaia di cattolici prestano il loro impegno nel volontariato (come don Mazzi) preferendolo a una politica che (almeno per come viene fatta “professionalmente”, si fa per dire, oggi in Italia) non li interessa e non li appassiona. Quello che li appassionava (e li appassiona) di don Mazzi era che non faceva politica per sé, per fare carriera o per arricchirsi. O per difendere il posto di lavoro, come molti politici italiani attuali. Ma semplicemente per stare dalla parte degli ultimi. Questo dice il Vangelo. Altro che nuovo partito dei cattolici.