Tre donne «forti» dietro tre padri della fede
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Il IV secolo è fine di un’epoca e nascita di tempi nuovi anche per i modelli femminili nella cultura cristiana e nella società. Mentre le istituzioni dell’Impero si sfaldano, popoli premono ai confini, corruzione e violenze dilagano e le casse sono vuote, causa guerre ed evasione fiscale, alcune donne sono protagoniste delle trasformazioni almeno tanto quanto gli uomini accanto ai quali la storia le ha accolte. Elena, madre di Costantino, Monica madre di Agostino, Marcellina sorella di Ambrogio.
Ma ci son pure Fausta, moglie di Costantino, da lui fatta assassinare per sospetto tradimento (violenza in famiglia anzi tempo) e la compagna di Agostino, giovane cartaginese vissuta anni more uxorio («coppia di fatto» si direbbe oggi) col futuro santo vescovo d’Ippona. Gli diede pure un figlio, Adeodato, di lei però non è rimasto nemmeno il nome: una rimozione del femminile, nonostante la straordinaria autoanalisi ante litteram compiuta da Agostino nelle Confessioni; un archetipo delle rimozioni collettive della donna praticate dalla cattolicità e di tanta misoginia e sessuofobia che affliggeranno la Chiesa per secoli e ancora la affliggono. Ma andiamo con ordine nel considerare i tipi.
La madre solerte, forte, premurosa, ambiziosa, molto attaccata al figlio maschio, possessiva: è il modello di madre che emerge dalle testimonianze. In parte è un’icona ritagliata sul prototipo della matrona romana, su cui s’innesta la novità del cristianesimo. Questo dalle origini si dibatte in una contraddizione. C’è l’esempio di Gesù che «libera» la donna dalle sudditanze; per lui non è alla stregua di una «cosa» (come negli usi romani); negli incontri rivela l’alta considerazione verso una persona non certo inferiore all’uomo e contraddice così la cultura del tempo. Narrano i vangeli che Gesù si mostra a Maria di Magdala e alle altre donne come il Risorto davanti al sepolcro vuoto: loro sono le protagoniste, a esse affida l’annuncio pasquale. Dall’altra parte c’è San Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti e ispira la visione di un ruolo ancillare, silenzioso, subordinato.
Ecco, allora: Elena anticipa quella che in epoche successive sarà la Regina Madre. Locandiera, legata a Costanzo Cloro cui darà un figlio, Costantino, fa di tutto perché questi diventi padrone dell’Impero: tesse rapporti, guida, consiglia. Verrà ricambiata: Costantino cingerà lei del diadema imperiale (invece della «traditrice» Fausta) introducendo nell’iconografia una coppia un po’ incestuosa: madre e figlio.
Psicologicamente Costantino sarà in un certo modo sottomesso a Elena. A Gerusalemme lei troverà le reliquie del Santo Sepolcro. Dei chiodi della Croce ornerà la corona imperiale (posta sul capo dei padroni del mondo sino a Napoleone) per dire che chi governa è sottomesso a Dio, e farà il morso del cavallo del figlio: anche i sovrani devono frenare le pulsioni.
Madre altrettanto ingombrante, sul piano degli affetti in questo caso, fu Monica per Agostino. Questi aveva cercato di liberarsene partendo per Roma senza dir nulla ma Monica non si scoraggiò, lo inseguì e raggiunse sino a Milano, capitale ai tempi. Qui convinse il figlio, all’apice del successo come retore, a rispedire in Africa la compagna e si diede da fare perché trovasse a corte una moglie. Intanto s’era pure spesa affinché Agostino conoscesse Ambrogio, che a Milano contava più delle insegne imperiali. Così l’amore di madre si trasformò: cadde il progetto di ascesa sociale, venne la conversione e il futuro padre della Chiesa riprese la via dell’Africa, senza più Monica però, che morirà sulla via del ritorno.
Un altro genere di donna, che ebbe e ha importanza nella Chiesa, nei costumi, nella cultura è incarnato da Marcellina. La sorella di Ambrogio, dopo aver contribuito a crescere i fratelli, prese il velo con papa Liberio. Grazie a lei si prospettò una scelta di vita ricalcata sul modello del monachesimo orientale, di cui Ambrogio era estimatore: la verginità (su questa il Patrono di Milano compose una delle sue opere principali), la consacrazione, il chiostro in cui ritirarsi, pregare e, in taluni sviluppi, lavorare, garantire il prosieguo delle tradizioni e aprirsi al mondo attraverso opere di carità. Costantino, Ambrogio, Agostino e lo loro donne: esempi d’una storia plurale che continua, viene costruita giorno dopo giorno ancora, si evolve.
COSTANTINO E LA MADRE ELENA (Wikipedia) |
EDITTO DI COSTANTINO: "CODEX JUDAEIS" (11.12.321 d. C.)
MATERIALI DI APPROFONDIMENTO:
LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA NON HA NIENTE A CHE FARE CON LA FAMIGLIA DI GESU’, DI GIUSEPPE E MARIA ... E’ UNA COPPIA UN PO’ INCESTUOSA: LA MADRE ELENA E L’IMPERATORE COSTANTINO, IL "SIGNORE DEL MONDO" E LA MADRE DI "DIO":
IL BAMBINO GESU’ AL SUO PAPA’ GIUSEPPE: L’IMPERATORE-PAPA COSTANTINO E’ ... NUDO!!! La lezione di democrazia e di eu-angélo di Hans CHRISTIAN Andersen, da rileggere e da rimeditare!!!
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA (KANT), TEATRO (#SHAKESPEARE), E #PSICOANALISI (#FREUD):
IL "MOUSETRAP" DI "AMLETO ED OFELIA" ("HAMLET", III.2) E L’ "ONORA IL PADRE E LA MADRE" ANTROPOLOGICO E "BIBLICO".
QUALE "MODELLO" DI #RELAZIONE IN UNA MODERNA SOCIETA’ DEMOCRATICA? QUALE RAPPORTO TRA LE #GENERAZIONI? CITTADINI SOVRANI E CITTADINE SOVRANE, FIGLI E FIGLIE DI ’MARIA’ E ’GIUSEPPE’, O DI ’GIOCASTA’ E ’LAIO’? O, PER CASO E ANCORA, FIGLI E FIGLIE DELLA LUPA (DI REA SILVIA E MARTE)?
LO "SPETTRO" DI "#GIUSEPPE" SI AGGIRA ANCORA PER LA "#DANIMARCA" ..... MA IN VATICANO NON LO SANNO. Vivono tutti ancora a Tebe, nella città del re Edipo! Con un’antropologia preistorica, la Chiesa Cattolica avanza sicura, verso il tremila prima di Cristo E SI PREPARA A FESTEGGIARE #NICEA (325-2025)!
Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?: questa è una domanda - già di molti secoli prima di Cristo - del profeta Elia (1 Re: 18, 21), ma - come si sa - rilanciata da #SigmundFreud, nel XX secolo dopo Cristo! A CHE "GIOCO" SI VUOLE CONTINUARE A GIOCARE?
STORIA E MEMORIA: NICEA (325-2025)
Stendardo di Lepanto *
"Con il nome di Stendardo di Lepanto sono noti due vessilli, benedetti da Papa Pio V, issati sulla flotta cristiana, a protezione della Lega Santa, durante la battaglia nel mare di Lepanto (odierna: Naupatto - Naupaktos) contro le navi turche che ormai da anni depredavano e razziavano le coste del Mediterraneo.
Un vessillo venne consegnato a Marcantonio Colonna nel giugno 1570, fu realizzato dal pittore Girolamo Siciolante da Sermoneta su incarico del cardinale Onorato Caetani, suo mecenate e amico.
Realizzato con la tecnica della pittura a tempera su seta pregiata, era a forma di vessillo, con sfondo rosso e bordatura in oro, nel quale è rappresentata la scena di Gesù sulla croce tra gli apostoli San Pietro e San Paolo, avente in basso la scritta a lettere d’oro IN HOC SIGNO VINCES, e una lunga coda (circa otto metri) che venne eliminata nel corso dei secoli successivi. [...] " (Wikipedia - ripresa parziale).
"VICISTI, GALILAEE" (L’IMPERATORE GIULIANO): STORIA, METASTORIA, E LAVORI STORIOGRAFICI IN CORSO.
CULTURA E SOCIETA’. Alla luce dell’approssimarsi del 17mo anniversario del I Concilio di Nicea (325 - 2025), guIdato dall’imperatore Costantino, FORSE, è BENE RICORDARE anche e unitariamente le "dimissioni" date dall’ultimo imperatore romano non cristiano, Flavius Claudius Julianus, ovvero Giuliano l’Apostata e riorganizzare e verificare le attuali "carte nautiche" per ben #navigare con il #PianetaTerra nell’#oceanoceleste, come da omaggio e "sollecitazioni" di #Keplero a #Galileo #Galilei (1611).
P. S. - SVEGLIARSI DAL SONNO DOGMATICO (#KANT, 1724-2024). "GALILEO, HAI VINTO" ("VICISTI, GALILAEE"): PER KEPLERO (1611), LA VITTORIA DI GALILEO NON SOLO E’ SCIENTIFICA, MA E’ ANCHE LA VITTORIA "RELIGIOSA" DEL "GALILEO" ("CRISTO") - CONTRO LA CHIESA ATEA E DEVOTA ("APOSTATA") DELL’#EUROPA DEL #TEMPO! «This was sometime a paradox, but now the time gives it proof» (#Shakespeare, "#Amleto", III. 1).
STORIA LETTERATURA E METATEATRO: #HAMLET #ETICA #MENTE, CON IL #BAMBINO "SULLE SPALLE DEI GIGANTI" (#PROFETI E #SIBILLE).
ANTROPOLOGIA STORIOGRAFIA E CRITICA DEL #SONNODOGMATICO (KANT) DELLA "STORICA" #COSMOTEANDRIA PLATONICO-PAOLINA "OCCIDENTALE"...
CRISTIANESIMO E CATTOLICESIMO NELL’EUROPA DEL #SEICENTO. Shakespeare, come #DanteAlighieri, ha (a mio parere) una visione della storia e della società che ha già i piedi nel #futuro, ben al di là della teologia-politica del #paolinismo cattolico e protestante (ateo e devoto), ben oltre l’orizzonte costantiniano di #Nicea (325-2025) e della #tragedia e della "biblica" #caduta. Sia Dante, sia #Michelangelo (v. foto allegata), sia Shakespeare (con #GiordanoBruno e ... Isaac Newton), sono con il bambino "sulle spalle dei giganti" (Robert K. #Merton), non con i pifferai-giganti sulle spalle dei bambini, di ieri e di oggi.
ANTROPOLOGIA E SCIENZA: "DATEMI UN PUNTO DI APPOGGIO E SOLLEVERO’ IL MONDO". LA VITA DI #ARCHIMEDE, LA "#PROFEZIA" DI MARSHALL #MCLUHAN E L’#IMMAGINARIO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI PAPPO DI ALESSANDRIA, NEL TEMPO DELL’IMPERATORE COSTANTINO E DEL PRIMO CONCILIO DI #NICEA (IV SEC. d. C).
ANTROPOLOGIA E RELIGIONE (#PROFETI, #SIBILLE, #SIRENE, E #MUSE). #Plutarco (Cheronea, 50 d. C. - Delfi, 120), che, da #sacerdote di #Apollo a #Delfi sapeva della #Sibilla e degli #oracoli, sicuramente sapeva ben di più di Pappo di Alessandria della vita di Archimede, e, forse, si fidava già del detto latino che " una donna dotata di spirito regge l’uomo" (“Dotata animi mulier virum regit”), vale a dire, come è stato per i duemila anni successivi, che "dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna" (ricordare #VirginiaWoolf), così scrive:
«NON MANGIARE TROPPO»: IL "BANCHETTO" DI SWEDENBORG, I "SOGNI DEL VISIONARIO" ("AEGRI SOMNIA") DELL’«ARTE POETICA» DI #ORAZIO (VENOSA) E LA INTERPRETAZIONE DI KANT (KOENIGSBERG, 1766) DELLA TEOLOGIA-POLITICA DELL’UOMO SUPREMO "EUROPEO".
A) "TEATRO DEL SONNO": LA VISIONE DI SWEDENBORG. «Ero a Londra e stavo pranzando nel mio abituale ristorante. Ero affamato e mangiavo con grande appetito. Verso la fine del pasto mi accorsi che una specie di nebbia mi si faceva davanti agli occhi. La nebbia divenne più fitta e io vidi il pavimento della stanza coperto dei più orribili animali striscianti, serpenti, rospi e simili. Io ero stupefatto, perché ero in piena coscienza. Poi l’oscurità divenne più completa per sparire infine completamente, e ora in un angolo della stanza vidi seduto un uomo che mi terrorizzò con le sue parole. Mi disse infatti: «Non mangiare tanto!».
Poi tutto si oscurò di nuovo, ma di colpo si rifece luce e mi ritrovai solo nella stanza. Questa visione mi indusse a tornare rapidamente a casa. Durante la notte mi si ripresentò lo stesso uomo, il quale mi disse che era Dio, il creatore del mondo e redentore, e che mi aveva scelto per spiegare agli uomini il senso spirituale delle Sacre Scritture; lui stesso mi avrebbe dettato quello che avrei dovuto scrivere su questo soggetto. In quella stessa notte, per convincermi, mi fu mostrato il mondo spirituale, l’inferno e il cielo, dove incontrai parecchie persone di mia conoscenza e di tutti i ceti sociali. Da quel giorno rinunciai a ogni interesse scientifico terreno e lavorai soltanto alle cose spirituali, secondo quello che il Signore mi aveva ordinato. In seguito il Signore aprì gli occhi del mio spirito, così che mi trovai in grado di vedere mentre ero pienamente desto quello che avviene nell’altro mondo, e di parlare con gli angeli e gli spiriti» (cfr. Emanuele Swedernborg, "Cielo e Inferno L’Aldilà descritto da un grande veggente", a c. di Paola Giovetti, Edizioni Mediterrane, Roma 2005; e, anche, cfr. Guido Almansi - Claude Béguin, "Teatro del sonno. Antologia dei sogni letterari", Oscar Mondadori, Milano 1991).
B). L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" (cfr. "Kant, Freud, e la banalità del male", 2010).
ORA DI DOTTRINA / 116 - IL SUPPLEMENTO
La preghiera, il vero rimedio a un papa vizioso
L’errore del conciliarismo era pretendere che soluzioni umane, contrarie alla costituzione divina della Chiesa, risolvessero i problemi legati al papato. Ma dalle crisi si esce con il mezzo che Dio stesso ha indicato: la preghiera. Riprendiamo la lezione del Caetano.
di Luisella Scrosati ("La nuovabq", 19,05.2024)
I concili di Costanza e Basilea hanno rivelato a sufficienza l’enorme difficoltà che si viene a creare nella Chiesa, quando ad essere colpito, in vari modi, è il papato; e la difficoltà di resistere alla grande tentazione di riaggiustare la costituzione divina della Chiesa, nella verità legata al successore di Pietro, per trovare una soluzione umanamente percorribile. Il conciliarismo, con la sua presunta autorità di deporre il papa che non persegue il bene della Chiesa, non è stato altro che la concretizzazione storica di tale tentazione. Ogni volta che la solidità della Sede apostolica appare gravemente minacciata da papi indegni, si assiste a tentativi più o meno nuovi di reinterpretare l’autorità petrina o di raggirarla.
Sembrerebbe ragionevole trovare una soluzione che permetta a qualcuno di diverso dal papa - concilio, collegio cardinalizio, autorità carismatica - di deporlo, formalmente o di fatto, per salvare la Chiesa. Ma il punto è che quello stesso Dio che ha conferito a Pietro e ai suoi successori di essere pastori supremi di tutta la Chiesa, non ha autorizzato la sua Chiesa a “reinterpretare” questa verità, nemmeno in situazioni di grave necessità.
Questo però non significa affatto che la Chiesa non abbia i mezzi necessari per far fronte ad un papa che sta disperdendo le pecore, anziché radunarle nell’unico ovile, e che sta distruggendo la Chiesa, anziché edificarla. È che bisogna trasferirsi su un piano diverso, che senza la fede non può essere compreso in tutta la sua serietà e forza: la preghiera. Secondo la nostra logica abituale, la preghiera sarebbe quel mezzo “disperato” cui ricorrere semmai quando altre strade, a nostro avviso più concrete, si dimostrano inefficaci, ma non prima. O ancora, l’appello a ricorrere alla preghiera può suonare come un invito alla dismissione di responsabilità.
«Fate sì ch’io non mi richiami a Cristo crocifisso di voi, ch’ad altro non mi posso richiamare, ché non c’è magiore in terra». Questo passaggio di una lettera di santa Caterina da Siena (1347-1380) a papa Gregorio XI (1330-1378) racchiude tutta la fede viva della Chiesa e nel primato di Pietro e nella potenza della preghiera. Su questa terra, al di sopra del papa, vicario di Cristo e capo della Chiesa, non c’è alcun altro cui ci si possa appellare; e questo per volontà del Fondatore stesso della Chiesa, Gesù Cristo. Eppure al di sopra del papa c’è nientemeno che Nostro Signore stesso, al quale santa Caterina “minaccia” di rivolgersi qualora Gregorio XI non avesse compiuto il proprio dovere, un dovere che non può essere delegato a nessun altro.
A chiusura della trattazione della giurisdizione universale nella Chiesa, nella sua monografia L’Église du Verbe Incarné (t. I), il cardinale Charles Journet ammetteva che la Chiesa «non ha nulla in se stessa che le permetta di punire il proprio capo, o di deporlo (...). Questa verità può sembrare dura» e da noi «può esigere dell’eroismo» e deve disporci a «essere pronti a soffrire per la Chiesa» (per la questione più specifica del papa eretico, vedi qui e qui). Ma questo non significa affatto assistere inoperosi ad una disfatta. Journet riportava un lungo brano che un grande cardinale, commentatore delle opere di san Tommaso d’Aquino, Tommaso De Vio, detto il Caetano (1469-1534), aveva scritto durante il più che problematico pontificato di Alessandro VI (1431-1503).
Il ragionamento che il Caetano porta avanti, nel suo De comparatione auctoritatis papæ et concilii, è semplice. C’è una proporzione tra le cause e i loro effetti: più l’effetto che intendo raggiungere è elevato e più il mezzo che devo adoperare dev’essere proporzionato all’elevatezza e difficoltà dell’effetto. Essendo il papa capo della Chiesa e vicario di Gesù Cristo stesso, e non vicario della Chiesa, affrontare la situazione di un papa cattivo esige l’impiego di un mezzo così elevato da ricorrere all’unica autorità superiore a quella del papa: il Signore stesso. Per questa ragione, spiegava il Caetano, «Dio, nella sua sapienza, ha donato alla Chiesa, come rimedio contro un papa cattivo, non i mezzi dell’industria umana che possono incidere sul resto della Chiesa, ma solamente la preghiera. La preghiera della Chiesa, che chiede con perseveranza ciò che è necessario alla sua salvezza, non si rivelerà meno efficace dello sforzo umano. (...) Se occorre per la salvezza della Chiesa che un tale papa sia rimosso, senza alcun dubbio la preghiera di cui parliamo lo rimuoverà. E se non è necessario, perché mettere in dubbio la bontà del Signore, che ci rifiuta ciò che vogliamo, per donarci ciò che dovremmo preferire? (...) Ma, si dirà, siamo giunti ai tempi annunciati dal Figlio dell’uomo, dei quali si chiedeva se, al suo ritorno, avrebbe ancora trovato la fede sulla terra. (...) Si dirà che bisogna rovesciare il cattivo papa con mezzi umani e non accontentarsi di ricorrere solamente alle preghiere e alla divina provvidenza! - Ma perché si fanno queste affermazioni, se non per la ragione che si preferiscono mezzi umani all’efficacia della preghiera, che l’uomo animale non comprende le cose di Dio, che si è imparato a confidare nell’uomo e non nel Signore, a mettere il proprio sostegno nella carne?».
Il Caetano non mancava poi di richiamare alla proprie responsabilità i cristiani, ricordando un insegnamento fondamentale delle Scritture: «È a causa dei peccati del popolo che regna un ipocrita, santo per l’ufficio, ma demonio per l’anima». E questa stoltezza del popolo si manifesta nel fatto che desideriamo i frutti della preghiera, senza però ricorrere ad essa; che bramiamo rompere i lacci del male, ma senza ricorrere a Dio. «In altri tempi Dio rimproverava al suo popolo di onorarlo con le labbra ed avere il cuore lontano da Lui; ma nel tempo della rivelazione della grazia, Dio non è nemmeno più onorato con le labbra, perché nulla è meno udibile dell’ufficio divino, niente è detto con più fretta della Messa; i tempi che vi si dedicano sembrano essere molto risicati, ma se ne troverà per i divertimenti, gli affari e le amenità del secolo, ove ci si attarderà oltre misura».
Per comprendere il peso di queste parole, è bene precisare che lo scandalo provocato da Alessandro VI non riguardò solamente la sua vita morale; tant’è vero che il famoso predicatore domenicano, Girolamo Savonarola (1452-1498), non ne denunciava solamente i vizi, ma anche l’eresia (forse più presunta che reale). È dunque di fronte ad un grave scandalo per la vita e la fede che il Caetano richiama l’arma della preghiera. «Fate sì ch’io non mi richiami a Cristo crocifisso di voi...» è allora la più grande “minaccia” in tempo di crisi.
FREUD, L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899) E LE "COSTRUZIONI NELLE ANALISI"(1937).
ANTROPOLOGIA E #LINGUA. Riflettendo, esemplarmente e rinascimentalmente, con l’aiuto dei #dueSoli (#DanteAlighieri), dei "due #emisferi" (dei "#duecervelli" del "#linguaggio del #cambiamento"), c’è da dire che l’installazione [sui "Coniugi Doni"] realizzata dalla #Galleria degli Uffizi delle opere di Raffaello e di Michelangelo->https://www.uffizi.it/eventi/doni-gennaio-2019] richiama "lodevolmente" (per il suo "esplicito" rinvio all’immagine di una #lavatrice) e fa un poco ricordare la famosa operazione di Alessandro #Manzoni, per realizzare il "sogno" dei suoi "Promessi Sposi", e la sua decisiva sollecitazione storica antropologica e linguistica: “risciacquare i panni in Arno”, a Firenze! Un "Inno alla #Gioia" (Freud+e = "#Freude")!
Federico La Sala->
"INNO ALLA GIOIA" (BEETHOVEN, #VIENNA #7MAGGIO1824 ).
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EUROPA: #7MAGGIO 1824 / #7MAGGIO2024.
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MEMORIA (#SALERNO, 1976) *:
"GIOIOSAMENTE, GIOCOSAMENTE: «FREUD ... E»
* (cit. da una mia relazione intitolata, "Cosa nasconde Freud a Freud? Cosa nascondiamo noi a noi stessi? Note da/per un seminario interdisciplinare sulla "Interpretazione dei sogni", all’ Università degli Studi di Salerno, Sede di Via Irno - 30. 03. 1976).
La data. La Pasqua ortodossa (un mese dopo). Perché i cristiani non festeggiano insieme
La solennità oltre un mese dopo i cristiani d’Occidente perché le Chiese seguono calendari differenti. Ma l’anno prossimo le date coincidono e potrebbe aprirsi una stagione nuova
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 4 maggio 2024)
Il 5 maggio le Chiese ortodosse (e molti cattolici di rito orientale) festeggiano la Pasqua, oltre un mese dopo i cristiani d’Occidente. Questioni di calendario, naturalmente, anche se sullo sfondo resta il sogno di arrivare un giorno a festeggiare tutti insieme. La guerra in Ucraina ha infatti reso più difficile il dialogo ma l’impegno ecumenico (cioè la ricerca di unità tra chi pur appartenendo a Chiese diverse professa una comune fede in Cristo) non viene meno, anzi i più irriducibili rilanciano l’avvio di una nuova stagione di confronto. Un’ottima occasione sarebbe fornita nel 2025 dall’anniversario del Primo Concilio di Nicea, celebrato nel 325, e avrebbe come tema centrale l’individuazione di una data comune per la Pasqua. Tanto più che per giochi di date l’anno prossimo la Pasqua cadrà per tutti i cristiani il 20 aprile. Papa Francesco ne ha parlato più volte definendo uno scandalo questa divisione e così il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I. Il leader ortodosso è tornato sull’argomento più volte anche di recente invitando a pregare «il Signore affinché la celebrazione comune della Pasqua che avremo l’anno prossimo non sia una felice coincidenza, un evento fortuito, ma l’inizio della fissazione di una data comune per il cristianesimo occidentale, in vista del 1700° anniversario, nel 2025, della convocazione del primo Concilio ecumenico a Nicea, che tra l’altro affrontò anche la questione della regolamentazione del tempo della celebrazione della Pasqua. Siamo ottimisti perché c’è buona volontà e disponibilità da entrambe le parti, poiché la celebrazione separata dell’evento unico dell’unica Risurrezione dell’unico Signore è uno scandalo».
Come noto, e lo ricorda anche una nota del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani datata 27 ottobre 2022, a Nicea si stabilì una regola secondo cui «tutti i fratelli e le sorelle d’Oriente che fino ad oggi hanno celebrato la Pasqua con gli ebrei, d’ora in poi celebreranno la Pasqua in accordo con i romani, con voi e con tutti noi che l’abbiamo celebrata con voi fin dai primi tempi». Concretamente, come data si scelse la domenica successiva al primo plenilunio di primavera. Poiché fu anche deciso che la Pasqua doveva essere celebrata dopo la festa della Pesah ebraica, venne abbandonata la data comune di Pasqua tra cristiani ed ebrei.
Successivamente, nel XVI secolo, a complicare le cose, se così si può dire, arrivò l’introduzione da parte di papa Gregorio XIII del calendario gregoriano che riformava il calendario giuliano (promulgato da Giulio Cesare) seguito però ancora da molte comunità d’Oriente. Ne deriva uno sfalsamento di date, per cui, ad esempio, nel 2024 cattolici ed evangelici hanno festeggiato la risurrezione di Cristo il 31 marzo ì, le Chiese ortodosse lo faranno il prossimo 5 maggio. Fatto salve le fortunate eccezioni, come appunto capiterà nel 2025, il problema rimane e continua a interpellare studiosi e leader religiosi. Quelli almeno favorevoli alla data comune. «La soluzione più semplice - ricorda ancora il Dicastero per l’unità - sarebbe senza dubbio prendere come giorno della morte di Gesù il 7 aprile 30, in modo che la Pasqua venga sempre celebrata la seconda domenica di aprile. Il Consiglio ecumenico delle Chiese ha proposto di celebrare la Pasqua la domenica successiva al primo plenilunio di primavera; in tal caso, la città di Gerusalemme dovrebbe essere il punto di riferimento per il calcolo della luna piena. Un altro suggerimento degno di nota è quello del patriarca ecumenico Meletios IV (1921-1923), che riconosce e accoglie la precisione del calendario gregoriano e allo stesso tempo rispetta la data di Pasqua stabilita dalla Chiesa primitiva. Il calendario meleziano è quindi, almeno a prima vista, identico al calendario gregoriano, ma la data di Pasqua deve essere calcolata come se fosse ancora in vigore il calendario giuliano».
L’argomento è stato affrontato più volte nei secoli e il Concilio Vaticano II ne parla esplicitamente, in un’appendice alla Costituzione sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” adottata e promulgata nel 1963. Due i criteri indicati per definire una nuova datazione. In primo luogo va bene «che la festa di Pasqua venga assegnata ad una determinata domenica nel calendario gregoriano» purché «vi sia l’assenso di coloro che ne sono interessati, soprattutto i fratelli separati dalla comunione con la Sede apostolica». In secondo luogo, ricorda ancora il Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, il Concilio dichiara la propria disponibilità anche a «introdurre nella società civile un calendario perpetuo», a condizione, ovviamente, che sia preservata e tutelata la settimana di sette giorni con la domenica.
Ora la guerra in Ucraina con i suoi riflessi negativi soprattutto all’interno del mondo ortodosso sembra allontanare la prospettiva di una ricerca più articolata sull’argomento, però spesso, proprio dalle crisi più nere nascono soluzioni insperate. E chissà che non sia questa la volta.
CONCILIO DI #NICEA (325 -2025), E IL PAPA DELLA CHIESA CATTOLICA, "#PATRIARCA D’#OCCIDENTE" (2024). La possibilità di "celebrare insieme i 17 secoli dal Concilio di Nicea, come per un nuovo inizio". ( https://www.avvenire.it/papa/pagine/il-papa-torna-a-essere-patriarca-d-occidente):
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Santa Sede.
Il Papa torna a essere “patriarca d’Occidente”: che cosa vuol dire
di Redazione Catholica (Avvenire, giovedì 11 aprile 2024)
Il Papa torna a essere anche patriarca d’Occidente.
Lo spiega l’agenzia Fides osservando come il titolo compaia nell’Annuario pontificio del 2024, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. Tale definizione era scomparsa nel 2006 su disposizione di Benedetto XVI. Nel comunicato diffuso allora dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei cristiani si chiariva che il titolo di «patriarca d’Occidente» era stato adoperato nell’anno 642 da Papa Teodoro I. In seguito, il suo utilizzo aveva preso piede nel XVI e XVII secolo, «nel quadro del moltiplicarsi dei titoli del Papa» nell’’Annuario Pontificio esso era apparso per la prima volta nel 1863. Il termine “Occidente” - proseguiva il comunicato «non intende descrivere un territorio ecclesiastico né esso può essere adoperato come definizione di un territorio patriarcale». Quindi il titolo «patriarca d’Occidente» - prosegue Fides citando il comunicato del 2006 «descriverebbe la speciale relazione del Vescovo di Roma a quest’ultima, e potrebbe esprimere la giurisdizione particolare del Vescovo di Roma per la Chiesa latina». Tuttavia, la soppressione di tale titolo non sottintendeva “nuove rivendicazioni” papali rispetto alle Chiese d’Oriente, ma era espressione di un “realismo storico e teologico” che spingeva a mettere da parte un titolo considerato obsoleto.
La scelta di papa Francesco di ripristinare il titolo di patriarca d’Occidente - prosegue ancora Fides - può essere collegata alla sua insistenza sulla importanza della sinodalità, e alla sollecitudine ecumenica che spinge a guardare sempre ai primi secoli del cristianesimo, quando tra le Chiese non c’erano lacerazioni di carattere dogmatico. Il titolo di patriarca d’Occidente richiama in qualche modo anche l’esperienza del Primo Millennio cristiano, quando le cinque sedi della cristianità antica (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), pur nella differenza delle rispettive storie e dei diversi accenti spirituali, rivestivano un rilievo particolare per il vincolo che le univa alla Tradizione apostolica. I rapporti di queste cinque sedi, nella comunione, apparivano strutturati nella prassi che gli studi di storia della Chiesa definiscono come “Pentarchia”.
In un momento storico segnato dal dilagare di conflitti che spingono i popoli verso il baratro di una terza guerra mondiale, la sollecitudine ecumenica vede come occasione propizia l’approssimarsi del 17° centenario del Concilio di Nicea, svoltosi nel 325 dopo Cristo. I cristiani - come ha suggerito Papa Francesco già il 6 maggio 2022 - hanno la possibilità di riunirsi e celebrare insieme i 17 secoli dal Concilio di Nicea, come per un nuovo inizio. E nel 2025, tutti i cristiani per coincidenze di calendario, tutti i cristiani celebreranno la Pasqua nello stesso giorno, domenica 20 aprile.
Dunque, nell’Annuario pontificio, i titoli del Papa sono: vicario di Gesù Cristo, successore del principe degli apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale, patriarca d’Occidente, primate d’Italia, arcivescovo e metropolita della provincia romana, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, servo dei servi di Dio.
STORIA E IMMAGINARIO: GUGLIELMO IL CONQUISTATORE, NAPOLEONE (E IL #SOGNO DI #FREUD, ARRIVANDO IN #INGHILTERRA, DI SBARCARE A #PEVENSEY, 1938).
Arazzo di #Bayeux: "[...] L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito di varie pezze per una lunghezza totale di 68,30 metri, sino alla fine del XVIII secolo era conservato nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre ora è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant di Bayeux.
Nel 2007 l’#UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. [...].
Progettando l’invasione dell’Inghilterra, Napoleone lo volle a Parigi a fini di propaganda nel novembre 1803 [...].
il 6 dicembre 1803, nel pieno dei preparativi per l’invasione, su #Dover era apparso un luminoso corpo celeste (probabilmente un bolide) con traiettoria sud-nord, che consentiva paragoni benauguranti, ai fini della spedizione, con la #cometa apparsa nel 1066. L’arazzo tornò a Bayeux nel febbraio 1804, ormai noto a livello nazionale ed internazionale [...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Arazzo_di_Bayeux).
PSICOANALISI E #CRISTIANESIMO: #PAOLINISMO ("#ANDROLOGIA", "#VIROLOGIA", DEL "#CORPOMISTICO"). Freud scrive nell’estate-autunno del 1929 “Il disagio della civiltà”, in cui discute del senso del comandamento biblico “amerai il prossimo tuo come te stesso” ... e comprende anche, come precisa, che "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" ("Disagio della civiltà", 1929), ma non riesce ad andare oltre l’orizzonte della tragedia della polis tebana (e della biblica "caduta").
"KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE". Avendo mosso l’#Acheronte (con l’aiuto di Virgilio), Sigmund Freud riesce sì a venir fuori dall’inferno ma, sognando di essere Guglielmo il Conquistatore, a raggiungere Londra nel 1938 e a non sciogliere il #nodo della tradizione mosaica, cristiana, e romana, e, cum grano salis, a essere trascinato fino alla fine dalla corrente "acherontica" della tradizione faraonica, paolina, e costantiniana (#Nicea 325-2025):
FILOLOGIA AL SERVIZIO (DELLE ORECCHIE) DEI #MERCANTI, IL PROBLEMA DELL’#UNO (IN FILOSOFIA TEOLOGIA E POLITICA), E LA #QUESTION #HAMLETICA DELLA "PACE PERPETUA" (#KANT2024).
QUALE #FUTURO DELLE NAZIONI E DELLO STESSO #PIANETATERRA? DIO E’ AMORE ("DEUS #CHARITAS EST" (1 Gv. 4, 8-16) O "DIO E’ MAMMONA (" DEUS #CARITAS EST")?!
STORIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA: il "#SAPEREAUDE! (KANT, 1784) E LA FIGURA DEL "#CAPO" DEL "CORPO MILITARE" DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA...
A omaggio della tradizione critica (e cristica) dell’Europa, in particolare dello Spirito del messaggio evangelico (1 Gv. 1), ricordo la frase (in onore, oggi, #17gennaio) di Sant’#AntonioAbate (https://lnkd.in/e_HR5Cxw ): "Nulla potrà separarmi dalla #Carità di Cristo" (Rm 8,35-39) e, al contempo, che la #Parola "Charitas" dice della #grazia e di una Relazione d’Amore, non di una relazione militare e proprietaria di un "#Dominus" (un "#Vir", un #Signore) con il "corpo mistico" di tutti i suoi sacri "soldati", sottoposti al suo #giogo e ai suoi "ordini":
Non è il caso e il tempo di "non fare orecchie di mercante" e di risolversi dalla rovinosa "caduta" nel letargo filosofico e filologico di lunga durata? Se non ora, quando?
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "CAPPELLA SISTINA"): ARCHEOLOGIA, FILOLOGIA, E STORIA E LETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTO IV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
Federico La Sala #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
L’EUROPA E LE MITOLOGIE "COSTANTINIANE" (NICEA 325 - 2025): STORIA, ARTE, E STORIOGRAFIA...
IL RINASCIMENTO E LA MITOLOGIA DI "COME NASCONO I BAMBINI": "DOTTA IGNORANZA" (Cusano, 1440), CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453) E "DE PACE FIDEI" (Niccolò Cusano, 1453).
LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1572-1573) FU UNA "VITTORIA DI PIRRO":
CON LA MANCATA RISOLUZIONE DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA) NON A CASO LA SPAGNA E LA "CATTOLICISSIMA" CHIESA" APRONO ALLA GUERRA CONTRO EBREI E CONTRO MUSULMANI (GRANADA, 1492), CONTRO LUTERO E LA RIFORMA PROTESTANTE (1517) E CONTRO LA RIFORMA ANGLICANA (1534), E PORTERANNO CON L’INVINCIBILE ARMATA L’ATTACCO ALLA GRAN BRETAGNA (1588) DI ELISABETTA I.
L’Europa "cattolica" comincia a portare la "pace" e a fare il "deserto" dappertutto, e a buttare le basi per una "generica" devastazione e una distruzione globale.
SANT’ELENA, IMPERATRICE
Fu la ricchezza d’animo, più ancora di quella materiale legata al prestigio, a caratterizzare l’agire di Sant’Elena, già prima della conversione avvenuta in età adulta. Umiltà, generosità e dedizione al prossimo emergono dalle scarne notizie di cui disponiamo.
Di famiglia plebea e pagana, nacque a metà del III secolo probabilmente a Drepamin, in Bitinia nel golfo di Nicomedia (attuale Turchia), cittadina a cui in seguito il futuro figlio e imperatore Costantino darà il nome di Helenopolis. Qui, secondo Sant’Ambrogio, Elena esercitava l’ufficio di “stabularia”, cioè locandiera addetta alle stalle. La modestia e delicatezza di Elena innamorò il giovane ufficiale Costanzo Cloro, che, nonostante le fosse di grado sociale superiore, la volle in sposa conducendola con sé in Dardania, nei Balcani. La giovane che non aveva diritto ai titoli onorifici del marito, gli fu sposa fedele e nel 280 a Naisso in Serbia diede alla luce il figlio Costantino.
Le virtù militari e politiche consentirono a Costanzo di ottenere, insieme a Galerio, il titolo di Cesare; ma era necessario sugellare questa elevazione all’interno del nuovo sistema politico della Tetrarchia, quindi gli imperatori Diocleziano e Massimiano nel 293 gli imposero di ripudiare la moglie e di unirsi in matrimonio alla figliastra del secondo, Teodora. Elena, allontanata dalla famiglia e dal figlio che fino a quel momento aveva cresciuto con dedizione e amore, mai si perse d’animo e umilmente rimase nell’ombra, mentre Costantino veniva allevato alla corte di Diocleziano.
Quando nel 305 Costanzo Cloro divenne capo dell’impero il giovane figlio lo seguì in Britannia dove prese parte alla campagna di guerra contro i Pitti per poi succedergli alla morte su acclamazione dell’esercito. Tra i primi provvedimenti il neoimperatore richiamò subito la madre Elena Flavia Giulia conferendole il titolo di Augusta. La donna, la cui effige fu incisa nelle monete, ebbe da allora libero accesso al tesoro imperiale. Gli onori non ne inorgoglirono mai il cuore, anzi stimolarono in lei l’innata attenzione al prossimo che si concretizzò nell’elemosina, nel venire incontro alle necessità materiali dei poveri, nella liberazione dal carcere, dalle miniere e dall’esilio di numerose persone. Le opere di misericordia riflettevano la fede di Elena, luminosa e contagiosa al punto che in molti si chiedono quanto abbia influito sulla conversione del figlio e sulla promulgazione dell’editto di Milano del 313 che diede libertà di culto ai cristiani dopo tre secoli di persecuzione. Si racconta che prendesse parte alle celebrazioni religiose, vestendo abiti modesti per confondersi tra la folla e invitasse gli affamati a pranzo servendoli di persona.
Un evento sconvolse la vita della famiglia quando nel 326 Costantino fece uccidere prima il figlio Crispo, su istigazione della matrigna Fausta, sua seconda moglie e poi anche quest’ultima sospettata di attentare al suo onore. Di fronte alla tragedia Elena all’età di 78 anni mantenne salda la fede recandosi in pellegrinaggio penitenziale in Terra Santa. Qui, fece edificare le Basiliche della Natività a Betlemme, dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi e indusse Costantino a costruire quella della Resurrezione.
Sul Golgota dove fece distruggere gli edifici pagani costruiti dai romani, avvenne il prodigioso rinvenimento della vera Croce: il cadavere di un uomo messo a giacere sul legno ritrovò miracolosamente la vita. I tre chiodi che trafissero il corpo di Cristo furono donati da Elena a Costantino. Uno fu incastonato nella Corona Ferrea conservata nel duomo di Monza, quasi a voler ricordare che non esiste sovrano che non debba soggiacere al volere di Dio. Le preziose reliquie sono oggi conservate nella Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme.
Elena muore nel 329, all’età di 80 anni in un luogo non identificato. E’ assistita dal figlio che fece trasportare il corpo a Roma sulla via Labicana dove fu tumulato in un mausoleo a lei intitolato. Il sarcofago di porfido, trasportato nel secolo XI al Laterano, è oggi conservato ai Musei Vaticani. Il suo culto si diffuse sia in Oriente che in Occidente dove è commemorata rispettivamente il 21 maggio e il 18 agosto e associata iconograficamente al simbolo della croce. La statura spirituale di Elena fu tale da essere scelta insieme ai santi Andrea, Veronica e Longino tra le statue monumentali ai piedi dei pilastri della cupola michelangiolesca nella Basilica Vaticana.
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Fonte: Vatican.va, 18 agosto 2023.
GAD LERNER
Se ritorna la battaglia per le anime
(La Repubblica, 06-07-2005)
«TRA TUTTE le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Cristiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». Così Giovanni Botero, protetto e incoraggiato da quel gigante della Controriforma italiana che risponde al nome di San Carlo Borromeo, contrapponeva nel 1589 al Principe di Machiavelli le convenienze del potere clericale. L’arcivescovo di Milano, che aveva ospitato Botero nella diocesi ambrosiana, era morto quarantenne solo cinque anni prima, stremato dal possente tentativo di restaurazione della società cristiana che lo aveva portato a scontrarsi con l’autorità temporale spagnola. Certo il cardinale Borromeo, capace di andare in processione scalzo e con una grossa corda al collo per guidare le pubbliche espiazioni durante la pestilenza del 1576, di suo avrebbe adoperato un’espressione più ambiziosa e meno strumentale, rispetto a Botero: non tanto «sottomettere gli animi al potere dei Principi»; ma piuttosto «conquistare le anime» a un progetto di santificazione della vita quotidiana.
Come? Innanzitutto disponendo per tutti i fedeli l’obbligo del sacramento della confessione annuale dei peccati, fino a ridurre i pochissimi inconfessi a minoranza reietta. Istituendo quindi le parrocchie come sedi ramificate non solo di presenza religiosa ma anche di controllo sociale, tanto più che il battesimo era l’unico atto di nascita in grado di conferire cittadinanza: il registro parrocchiale dei battezzati per secoli avrebbe coinciso con l’anagrafe; e i non battezzati, ovviamente, restavano privi di diritti civili.
Se proviamo a rileggere quattro secoli dopo, nell’Italia contemporanea, quell’affermazione di Botero - circa la convenienza per lo Stato di una legge cristiana capac.e di legare le anime, lo coscienze, gli affetti - non c’è da stupirsi che il pensiero corra a certi teorici nostrani del cristianesimo come religione civile, risorsa identitaria da contrapporre alla disgregazione relativistica. Quelli, per intenderci, del «dobbiamo dirci cristiani» (citazione testuale di Marcello Pera).
Mi spiego solo così, cioè in una prospettiva altisonante che infine si rivelerà mero disegno di potere mondano, l’inaspettato rilancio di quello stesso impianto controriformistico nella pubblicistica cattolica oggi prevalente. L’anima oggetto di conquista (come nel titolo del libro di Wietse de Boer dedicato alla Milano di Carlo Borromeo, La conquista dell’anima, Einaudi); l’anima trasfusa per il tramite del battesimo a chi altrimenti resterebbe una non persona (come nel recente volume di Adriano Prosperi, Dare l’anima, Einaudi) dedicato alla sorte di un neonato soppresso dalla madre prima che gli fosse stata impartita l’acqua benedetta, nella Bologna pontificia del 1709. Né il piccolo rimasto senza nome, né la madre Lucia Cremonini impiccata dopo pubblico pentimento saranno considerati degni di cristiana sepoltura, e dunque i loro corpi saranno dati in uso agli studenti di anatomia.
L’anima, dunque, al centro di due libri preziosi per la loro capacità di corrispondere attraverso la storia, e le dinamiche della microfisica del potere apprese da Michel Foucault, ai nostri interrogativi più attuali.
L’anima medievale e post-tridentina che smettendo di presentarsi come il misterioso soffio vitale della Genesi, abbisogna di meticolosa ma sdrucciolevole codificazione. Non a caso si chiamava liber animarum, libro delle anime, il registro anagrafico dei battezzati. Ma chi era doveroso includervi, e chi escluderne? Avranno forse l’anima i neonati vittima di infanticidio? E gli schiavi africani non ancora battezzati? E gli ebrei che alla conversione si sottraggono? E che fine farà mai l’anima dei suicidi? Se l’anima dunque contraddistingue il passaggio, nei bambini come negli adulti, da mero essere umano a vera e propria persona, ciò basta a spiegare l’importanza crescente assegnata alla regolazione dei battesimi. Quasi che fosse proprio il battesimo, da un punto di vista cattolico, il tramite dell’immissione dell’anima.
Fu proprio l’ansia di conversione, cioè di salvezza delle anime, che nel Seicento portò molti medici a introdurre la pratica del parto cesareo per giungere in tempo a bagnare d’acqua santa il feto morente; accettando come male minore il sacrificio della vita della madre.
Il binomio anima-persona sarebbe divenuto così il fulcro di una riflessione medico-teologica che ancora oggi motiva la scelta di far sopravvivere il Comitato Scienza e Vita, strumento efficace di battaglia civile, anche dopo il referendum sulla procreazione assistita. Oggi come allora la ricerca teologicamente orientata si richiama al diritto naturale. Ciò vale per la fecondazione assistita, l’aborto, il matrimonio. Ma è significativo che l’eredità culturale controriformistica, in cerca dell’anima, giunga a riproporre la stessa visione di centralità del battesimo. Quel battesimo che, negato al figlio di Lucia Cremonini, assegnava quel piccolo indesiderato al Limbo, cioè al primo dei non-luoghi simbolici con cui il consorzio umano si è abituato a fare i conti (nel frattempo il nostro pianeta si è riempito di non-luoghi: dai lager ai campi profughi, fino alle baraccopoli di periferia).
Di tale eredità culturale è un esempio lampante l’ultimo libro di Vittorio Messori, non un autore tra i tanti, si badi bene, ma forse il più popolare e venduto scrittore cattolico italiano, colui che sulla prima pagine del Corriere della Sera si è compiaciuto di autorappresentarsi come l’intervistatore di fiducia di due papi. E che ha sentito il bisogno nel 2005 di rilanciare la polemica sul bambino ebreo Edgardo Mortara sottratto ai genitori nel 1858 per decisione di Pio IX, in quanto cinque anni prima una domestica cristiana l’aveva segretamente battezzato. Un secolo e mezzo dopo, ci ritroviamo di nuovo nella Bologna pontificia sede dell’infanticidio narrato da Adriano Prosperi. E, nel salto temporale, ci impressiona una continuità di approccio al binomio anima-persona che, come vedremo, con identico balzo di un altro secolo e mezzo, Messori mostra di convalidare fin dentro alla nostra contemporaneità. Né faremo all’intervistatore di due papi e a una firma cattolica così bene insediata nel nostro sistema editoriale il torto di relegarlo a portavoce di una corrente tradizionalista marginale: quando invece egli oggi rappresenta - certo a modo suo - il punto di vista dei Ratzinger e dei Ruini, dei Bertone e dei Fisichella, cioè delle personalità egemoni in Vaticano e nella Conferenza episcopale italiana.
Dunque Messori ritrova e pubblica il memoriale apologetico scritto dallo stesso Mortara, divenuto nel frattempo sacerdote (Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX, Mondadori). Ma più che la scelta di riproporre l’antica controversia, nelle settanta pagine della sua introduzione impressiona il sistematico sforzo di attualizzare gli argomenti controriformistici; l’idea fissa della conquista dell’anima, dominante anche sul precetto morale della difesa della vita. Valga anzitutto la difesa della legislazione pontificia che vietava alle famiglie ebree di assumere personale cattolico. Messori si guarda bene dal considerarla una misura razzista o discriminatoria. Al contrario, ne esalta la saggezza, e cita a riprova la disobbedienza dei Mortara: avessero ottemperato alla lungimirante precauzione, non si sarebbero ritrovati con un figlio battezzato e quindi doverosamente sottratto ai genitori e ai fratelli.
Talmente convinta appare la perorazione di Messori, che viene da chiedersi se con le stesse motivazioni non estenderebbe ai tempi nostri analoghe misure discriminatorie: sarà proprio il caso che nelle aziende e nelle abitazioni degli ebrei (o dei musulmani) operino collaboratori battezzati? Di qui all’esaltazione delle virtù del ghetto, il passo è breve: Messori ricorda che «l’abolizione del ghetto era stata accolta con sollievo ma pure con qualche preoccupazione negli ambienti israelitici più tradizionali. In effetti, proprio quell’obbligo di convivere tutti insieme. aveva salvaguardato l’identità e promosso la solidarietà». Simpatizzando con le sparute componenti integraliste dell’ebraismo, timorose che emancipazione significhi assimilazione, Messori ci conferma come i reazionari difensori delle identità su fronti opposti, finiscano poi quasi sempre per incontrarsi. Anche l’indignazione e l’inutile mobilitazione del mondo ebraico del Diciannovesimo secolo per ottenere la restituzione del piccolo Edgardo alla sua famiglia, sollecita Messori a considerazioni molto attuali. Non solo afferma che la campagna anticattolica sul caso Mortara avrebbe generato la potente lobby ebraica europea e americana. Ma citando i ventimila franchi promessi dall’Alliance Israélite Universelle a chi avesse organizzato un’incursione a Roma per liberare il bambino, sostiene che si sarebbe trattato di «una prefigurazione degli "omicidi mirati" dell’attuale esercito israeliano per eliminare chi sia sgradito». Nonché di un’operazione illecita paragonabile alla cattura del criminale nazista Adolf Eichmann nell’Argentina del 1961. Insomma, ci troviamo al cospetto di una neanche troppo raffinata modernizzazione dell’eterno riferimento alla «perfidia» ebraica.
Il rovesciamento delle parti fra vittime e persecutori prevede dunque la difesa di papa Pio IX, impegnato nella difesa di un’anima battezzata dall’aggressione dei nemici della fede, estranei al contesto naturale di una società cristiana. Ma c’è di più. L’espulsione dalla scuola pubblica italiana di ogni riferimento religioso, per sostituirlo con l’educazione civica, a detta di Messori corrisponderebbe niente meno che a un’educazione «strappata ai genitori». Altro che gli ebrei vittime di discriminazioni, lamenta Messori: «Quanti "casi Mortara", dunque, in migliaia di famiglie di credenti» (sic). Mutilata nella sua doverosa missione civile di conquista delle anime, è la Chiesa a dichiararsi perseguitata. Qui la logica fa difetto all’esaltazione sdegnata di Messori, dato che in Italia nessuno si è mai sognato di sottrarre i bambini alle loro famiglie cattoliche. Ma, tant’è, non risuona forse familiare l’eco della recentissima polemica sul caso Buttiglione, quando più fonti cattoliche autorevoli sono giunte a parlare di vera e propria persecuzione anticristiana in Europa? Sono passati solo pochi mesi dal caso Buttiglione, e nell’Italia del dopo referendum il clima è talmente cambiato da rovesciare il vittimismo in trionfalismo. Ma si tratta pur sempre di due facce della stessa medaglia. Se dunque è colpa grave perdere un’anima, resta doveroso conquistarne. E se nell’Italia del tardo Cinquecento era il sacramento della confessione a dispiegare le sue finalità di ordine pubblico, oggi che tale sacramento precipita in disuso si correrà ai ripari con la scorciatoia della religione civile, cioè di una ri-cristianizzazione ideologica. La stessa per cui monsignor Rino Fisichella può compiacersi della consonanza di vedute fra papa Ratzinger e Oriana Fallaci, bellicosa teorica di un’Europa ormai destinata alla sconfitta. Esanime.
GAD LERNER
#FILOLOGIA E (#DISAGIO DELLA) #CIVILTÀ: #ANTROPOLOGIA (COME #ANDROLOGIA) E #TEOLOGIA-#POLITICA COME #COSMOTEANDRIA - #OGGI.
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu
* APPUNTI PER IL CONGRESSO MONDIALE DI #FILOSOFIA #ROMA2024 (#WCP2024 - XXV World Congress of #Philosophy). "I soggetti sono due, e tutto da ripensare". In memoria di #FrancaOngaro #Basaglia e di #LauraLilli...
IL NUOVO CRISTIANESIMO DELL’UCRAINA
Sono due le principali Chiese ortodosse del Paese invaso: la Chiesa ortodossa ucraina (indipendente) di EPIFANIO e la Chiesa ortodossa d’Ucraina (subordinata al patriarcato di Mosca) di ONOFRIO. È il primo, con toni inequivocaboli, a spiegare che cosa sta nascendo
di Marco Ventura (Corriere della Sera, “La Lettura”, 5 giugno 2022)
Sono i nuovi cristiani quelli che si battono in Ucraina. È un nuovo cristianesimo quello che si produce nella guerra. Ce ne rendiamo conto sempre di più, a mano a mano che gli occhi si abituano all’oscurità di questa guerra. La trasformazione, naturalmente, non appare nitida. Il cristianesimo del futuro si delinea nei chiaroscuri. La sua luce appare fioca come una lampadina a fluorescenza appena accesa. Del resto i nuovi cristiani si stanno facendo mentre gli anfibi affondano nel fango, nella poltiglia dell’urgenza e della forza maggiore, mentre tutto sembra antico e provvisorio.
Per comprendere, «la Lettura» ha dialogato a distanza con il Metropolita di Kiev Epifanio, capo della Chiesa ortodossa ucraina riconosciuta tre anni fa dal patriarca ecumenico di Costantinopoli come indipendente, «autocefala» nel gergo del diritto canonico ortodosso. Le domande e le risposte scritte sono state discusse con Dmytro Vovk, esperto internazionale di libertà religiosa, e da lui tradotte dall’inglese in ucraino e viceversa.
Epifanio è l’uomo sul confine, nuovo cristiano per scelta e per necessità, leader di quella Chiesa indipendente eppure vincolata al destino del popolo da cui comincia questo nuovo cristianesimo. Il metropolita non è d’accordo con l’enfasi sul 2019, l’anno del tomos, il documento che riconosce l’autocefalia: «Non si dovrebbe iniziare dal 2019, ma almeno dal 1917, quando la lotta per l’indipendenza della Chiesa in Ucraina cominciò subito dopo la caduta dei Romanov».
La Chiesa dei nuovi cristiani sa di oppressione, di lotta per la liberazione: «La strada è stata lunga, l’occupazione spirituale di Mosca è durata più di tre secoli». L’invasione russa amplifica il senso del percorso, reclama un sigillo divino: «Siamo a casa nostra, stiamo costruendo la nostra Chiesa ortodossa ucraina autocefala sulla terra dataci da Dio affinché ci prendiamo cura del nostro gregge». Il dubbio che la svolta del 2019 abbia aumentato le tensioni scivola in una domanda. Il metropolita non lascia spazio: «Il modo in cui è posta la domanda corrisponde alla falsa narrativa diffusa dalla Russia». La contrapposizione con il patriarcato di Mosca diventa ancora più esplicita quando si chiede che cosa avrebbero potuto fare gli ortodossi per scongiurare la guerra. Se i vertici della Chiesa russa, nella terminologia tecnica ortodossa «i gerarchi», «si sentissero parte della Chiesa di Cristo e non di un dipartimento religioso al servizio del Cremlino, se vivessero secondo il Vangelo e testimoniassero la verità, non sarebbero uno strumento ideologico del potere russo». L’indipendenza in questione non è soltanto quella tra le Chiese, ma anche quella dallo Stato. Se gli si fa osservare che il connubio di Stato e Chiesa tipico dei Paesi ortodossi appare ancora più problematico oggi a causa della guerra, Epifanio ribatte che «nessuna Chiesa può rinunciare ai rapporti con lo Stato» e visto che dialoga con un quotidiano italiano, respinge al mittente: «Il centro della Chiesa cattolica, il Vaticano, è esso stesso uno Stato e costruisce relazioni con altri Paesi come uno Stato».
Poi prende un’altra strada: «Noi non abbiamo un tale status e non lo cerchiamo». Per illustrare «la differenza che conta» ricorre ancora una volta al contro esempio russo: «La Chiesa può essere un’istituzione indipendente che dialoga con il governo ed è leale verso la statualità, oppure può essere dipendente, subordinata al governo, parte della macchina propagandistica del regime, come si vede in Russia dove la Chiesa è uno dei tentacoli della piovra aggressiva».
Lo schema si ripete sul patriottismo cristiano: «La Chiesa non rifiuta il sano patriottismo perché questo si basa sulla principale virtù cristiana: l’amore». Tuttavia «l’uso del patriottismo, anche cristiano, da parte della Russia è certamente sbagliato, è una colpevole manipolazione», perché «il patriottismo è amore per la patria, non per il dominio dello Stato». Devono dunque essere diversi la relazione con lo Stato ucraino, lo Stato stesso, l’identità di popolo, Stato e Chiesa nel loro insieme. Per Epifanio, infatti, il problema con la Russia sta «nella nostra stessa identità, nella nostra esistenza stessa», non nel tomos del 2019. «Per Putin l’Ucraina non esiste, la nazione ucraina non esiste e quindi non possiamo avere una Chiesa indipendente; di più, Putin non sopporta il successo del popolo ucraino, dello Stato e della Chiesa nella costruzione di un moderno Paese europeo».
Funzionano così il negativo e il positivo, sull’indipendenza tra Chiesa e Chiesa, sull’indipendenza della Chiesa dallo Stato e al contempo sul bisogno di Stato, sul sano patriottismo e su un’identità moderna ed europea. Sono le parole chiave dei nuovi cristiani, su cui Kiev e Mosca sono eguali e contrarie: entrambe gelose della loro terra e del gregge corrispondente, entrambe sparate nel mondo, verso lo spazio liberale «moderno e europeo» gli ucraini, verso lo spazio conservatore postmoderno e globale i russi.
Il test, l’ultima parola chiave, è l’unità. Epifanio non fa concessioni agli ortodossi ucraini rimasti con il metropolita Onofrio nella Chiesa ortodossa d’Ucraina ancora sotto Mosca. Onofrio ha quasi subito unito la sua voce a quella delle comunità religiose ucraine nella condanna dell’invasione e di recente ha annunciato misure tese ad allentare i rapporti. Epifanio è scettico: «Non abbiamo visto passi significativi per recidere i legami istituzionali con il patriarcato di Mosca, né abbiamo assistito a una vera condanna della posizione criminale di Kirill Gundyaev e di altri gerarchi che apertamente giustificano e benedicono l’aggressione russa contro l’Ucraina».
È lungo l’elenco dei capi di accusa: «Non c’è stata una condanna dell’ideologia, praticamente fascista, del “mondo russo”» e invece «si sono registrati numerosi casi di assistenza agli occupanti da parte del loro clero, mentre le nostre attività sono state definite “sovversive”, “sabotatrici” e ritenute “una delle ragioni dell’invasione militare dell’Ucraina”».
La prima unità, quella tra cristiani ortodossi, è per Epifanio quella che è mancata prima dell’invasione e che avrebbe forse dissuaso Mosca: «Se l’ortodossia ucraina fosse stata unita attorno al trono di Kiev, Putin non avrebbe sperato di trovare sostegno in Ucraina». È soprattutto, nella fase presente, «l’unificazione degli ortodossi in Ucraina» che «avverrà sicuramente» e che «è già in corso».
Prima dell’invasione, ricorda il metropolita, il 15% dell’intera popolazione ucraina esprimeva fiducia verso la Chiesa sotto Mosca e il 38% verso la Chiesa indipendente. A marzo la fiducia nella Chiesa di Onofrio era già scesa al 4% mentre quella per la sua Chiesa raggiungeva il 52%. «Le parrocchie lasciano la giurisdizione del Patriarcato di Mosca e si uniscono a noi», aggiunge, «dopotutto il patriarca ecumenico ha stabilito che in Ucraina tutti gli ortodossi appartengano all’unica Chiesa autocefala».
L’unità, come obiettivo, e l’unificazione, come processo, sono decisive per i nuovi cristiani. La libertà, in questa prospettiva, è il migliore alleato e il peggior nemico, e Epifanio sottolinea la propria volontà «che il processo di unificazione avvenga consapevolmente e volontariamente».
Sulla libertà religiosa divergono ancor più il positivo ucraino e il negativo russo. «I regimi repressivi si battono sempre per il controllo completo di tutte le sfere della vita», spiega Epifanio, «il totalitarismo non esiste a metà, quindi non sorprende che non ci sia libertà religiosa in Russia, adesso lì non c’è nessuna libertà». Invece «per noi in Ucraina il totalitarismo è innaturale e del tutto inaccettabile e questo dimostra ancora una volta che siamo popoli diversi».
Dopodiché dalla libertà si torna all’unità: «Cristiani, musulmani, ebrei, pagani e atei difendono insieme la loro patria in Ucraina», scrive Epifanio e aggiunge: «Ci siamo dati un organismo unico: il Consiglio pan-ucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose, che comprende rappresentanti del 90% delle comunità religiose in Ucraina».
All’unità degli ortodossi in un’unica Chiesa corrisponde l’unità dei credenti in un unico Consiglio le cui decisioni, specifica il metropolita di Kiev, «sono prese esclusivamente per consenso». L’indipendenza, il patriottismo, l’identità, poi l’unità e la libertà, sono l’identikit del nuovo cristianesimo mobilitato e militarizzato che si forgia in trincea. Di fronte, il nemico.
Su Onofrio Epifanio è asciutto: «Non abbiamo rapporti speciali, non ci incontriamo spesso, solo in occasione di eventi ufficiali dello Stato; finora, negli otto anni dalla sua intronizzazione, ha evitato ogni dialogo e continua a farlo».
Il patriarca di Mosca è menzionato solo con nome e cognome, Kirill Gundyaev, per negargli la dignità patriarcale. Nei saluti pasquali Epifanio ha invitato la «pienezza dell’ortodossia» a condannarne «le parole e le azioni» perché «nessuno può tenere il calice e lo scettro pastorale con mani insanguinate». Sollecitato in proposito, Epifanio risponde che «la prima condanna che per tali azioni dovrebbe temere un cristiano, e a maggior ragione un gerarca della Chiesa, è il giudizio di Dio». Il giudizio delle Chiese, tuttavia, è necessario: «Quale sarà la forma e la procedura lo dirà il tempo».
Ricorda però che nella seconda metà del XVII secolo un sinodo dei patriarchi d’Oriente guidato dal patriarca ecumenico «condannò il patriarca russo Nikon e lo spogliò della sua dignità». Peraltro «il verdetto del popolo sulle azioni di Kirill Gundyaev è già arrivato». Le comunità in Ucraina lasciano Mosca «soprattutto a causa della posizione anticristiana del suo leader».
Il nemico è comunque l’intero patriarcato di Mosca: «I responsabili dell’ideologia criminale del “mondo russo” hanno acceso il fuoco della guerra e con labbra false hanno benedetto apertamente carnefici e assassini in nome di Dio e della Chiesa». Pertanto «condannare questi crimini, condannare la trasgressione delle leggi di Dio e dell’uomo, non è solo un diritto, ma un dovere morale di ogni persona, specialmente dei cristiani». Per Epifanio «non si tratta più delle sottigliezze del diritto canonico o delle discussioni storiche, ma del bene e del male in quanto tali e della scelta di ciascuno: sei con Dio o con il diavolo?».
Nelle distruzioni, nella fuga, nelle violenze e nei lutti della guerra, nella «ferita viva che continua a sanguinare», il metropolita vede il ritorno «dell’impero del male», come il presidente Reagan chiamò l’Unione sovietica. Epifanio si dice in generale aperto al dialogo, ma rimprovera agli europei una «politica di relazioni con Mosca» che si è rivelata «un completo fallimento» perché «ha creato l’illusione dell’invincibilità e dell’impunità nell’aggressore russo».
Il giudizio è severo anche sulla Via Crucis di Papa Francesco dello scorso 15 aprile. L’infermiera ucraina e la studentessa di medicina russa che hanno portato insieme la croce, scrive Epifanio, sono infatti apparse del tutto fuori luogo nel momento in cui i russi adottano la narrativa dei «popoli fratelli» e «equiparano la vittima e l’aggressore».
I nuovi cristiani nati dai conflitti hanno bisogno di idee nette sul nemico perché lo sperimentano mimetizzato, infiltrato. Li sostiene, nel loro lavoro tra le ombre, la convinzione che Dio agisca nella storia. Oggi non può esserci «cooperazione» con i russi, precisa Epifanio, ma «la provvidenza di Dio corregge il male e dirige tutto verso il bene» e quando «saranno cambiati la politica, la società e l’ambiente ecclesiale, una rinnovata Chiesa russa potrà anticipare il pentimento della Russia per tutti i crimini commessi, anche in Ucraina». Affondati nella realtà, appesi all’efficacia, i nuovi cristiani vivono di fede. Epifanio conferma che ci sono state «azioni pericolose» contro di lui, «diverse persone sono state arrestate e si sono rinvenuti alcuni dispositivi di guida». Non è abbastanza. «Come cristiani dobbiamo ricordare le parole dei salmi», conclude: «Se il Signore non protegge la città, invano veglia la sentinella».
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA SESSIONE PLENARIA
DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI
Sala del Concistoro *
Signori Cardinali,
cari fratelli Vescovi e Sacerdoti,
cari fratelli e sorelle!
Vi saluto tutti di cuore, e ringrazio il Cardinale Koch per le parole che mi ha rivolto a nome di voi membri, consultori e collaboratori del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Oggi si conclude la Plenaria del vostro Consiglio, che è stato finalmente possibile tenere in presenza dopo averla rimandata più volte a causa della pandemia. Questa, con il suo tragico impatto sulla vita sociale del mondo intero, ha fortemente condizionato anche le attività ecumeniche, impedendo negli ultimi due anni la realizzazione dei consueti contatti e di nuovi progetti. Al tempo stesso, però, la crisi sanitaria è stata anche un’opportunità per rafforzare e rinnovare le relazioni tra i cristiani.
Un primo significativo risultato ecumenico della pandemia è stata la rinnovata consapevolezza di appartenere tutti all’unica famiglia cristiana, consapevolezza radicata nell’esperienza di condividere la medesima fragilità e di poter confidare solamente nell’aiuto che viene da Dio. Paradossalmente, la pandemia, che ci ha costretti a mantenere le distanze gli uni dagli altri, ci ha fatto comprendere quanto in realtà siamo vicini gli uni agli altri e quanto siamo responsabili gli uni degli altri. È fondamentale continuare a coltivare questa consapevolezza, e far scaturire da essa iniziative che rendano esplicito e accrescano questo sentimento di fratellanza. E su questo vorrei sottolineare: oggi per un cristiano non è possibile, non è praticabile andare da solo con la propria confessione. O andiamo insieme, tutte le confessioni fraterne, o non si cammina.
Oggi la coscienza dell’ecumenismo è tale che non si può pensare di andare nel cammino della fede senza la compagnia dei fratelli e delle sorelle di altre Chiese o comunità ecclesiali. E questa è una grande cosa. Soli, mai. Non possiamo. È facile, infatti, dimenticare questa profonda verità. Quando ciò accade alle Comunità cristiane, ci si espone seriamente al rischio della presunzione di autosufficienza e della autoreferenzialità, che sono gravi ostacoli per l’ecumenismo. E noi lo vediamo. In alcuni Paesi ci sono certe riprese egocentriche - per così dire - di alcune comunità cristiane che sono un tornare indietro e non potere avanzare. Oggi, o si cammina tutti insieme o non si può camminare. È una verità e una grazia di Dio questa coscienza.
Prima ancora che l’emergenza sanitaria finisse, il mondo intero si è trovato ad affrontare una nuova tragica sfida, la guerra attualmente in corso in Ucraina. Dopo la fine della seconda guerra mondiale non sono mai mancate guerre regionali - tante! Pensiamo al Ruanda, per esempio, 30 anni fa, per dirne una, ma pensiamo al Myanmar, pensiamo... Ma poiché sono lontane, noi non le vediamo, mentre questa è vicina e ci fa reagire -, tanto che io ho spesso parlato di una terza guerra mondiale a pezzetti, sparsa un po’ ovunque. Tuttavia, questa guerra, crudele e insensata come ogni guerra, ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero, e non può non interpellare la coscienza di ogni cristiano e di ciascuna Chiesa.
Dobbiamo chiederci: cosa hanno fatto e cosa possono fare le Chiese per contribuire allo «sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale» (Enc. Fratelli tutti, 154)? È una domanda a cui dobbiamo pensare insieme.
Nel secolo scorso, la consapevolezza che lo scandalo della divisione dei cristiani avesse un peso storico nel generare il male che ha avvelenato il mondo di lutti e ingiustizie aveva mosso le comunità credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, a desiderare l’unità per cui il Signore ha pregato e ha dato la vita. Oggi, di fronte alla barbarie della guerra, questo anelito all’unità va nuovamente alimentato. Ignorare le divisioni tra i cristiani, per abitudine o per rassegnazione, significa tollerare quell’inquinamento dei cuori che rende fertile il terreno per i conflitti.
L’annuncio del vangelo della pace, quel vangelo che disarma i cuori prima ancora che gli eserciti, sarà più credibile solo se annunciato da cristiani finalmente riconciliati in Gesù, Principe della pace; cristiani animati dal suo messaggio di amore e fraternità universale, che travalica i confini della propria comunità e della propria nazione. Torniamo su quello che ho detto: oggi, o camminiamo insieme o rimarremo fermi. Non si può camminare da soli. Ma non perché è moderno, no: perché lo Spirito Santo ha suscitato questo senso dell’ecumenismo e della fratellanza.
Da questo punto di vista, la vostra riflessione su come celebrare in modo ecumenico il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea, che ricorrerà nel 2025, rappresenta un contributo prezioso. Nonostante le travagliate vicende della sua preparazione e soprattutto del successivo lungo periodo di recezione, il primo Concilio ecumenico è stato un evento di riconciliazione per la Chiesa, che in modo sinodale riaffermò la sua unità intorno alla professione della propria fede. Lo stile e le decisioni del Concilio di Nicea devono illuminare l’attuale cammino ecumenico e far maturare nuovi passi concreti verso la meta del pieno ristabilimento dell’unità dei cristiani.
Dato che il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea coincide con l’anno giubilare, auspico che la celebrazione del prossimo giubileo abbia una rilevante dimensione ecumenica.
Poiché il primo Concilio ecumenico fu un atto sinodale e manifestò anche a livello della Chiesa universale la sinodalità quale forma di vita e di organizzazione della comunità cristiana, voglio sottolineare l’invito che, insieme alla Segreteria Generale del Sinodo, il vostro Consiglio ha indirizzato alle Conferenze episcopali, chiedendo loro di cercare i modi per ascoltare, durante l’attuale processo sinodale della Chiesa cattolica, anche le voci dei fratelli e delle sorelle di altre Confessioni sulle questioni che interpellano la fede e la diaconia nel mondo di oggi.
Se vogliamo davvero ascoltare la voce dello Spirito, non possiamo non sentire ciò che ha detto e sta dicendo a tutti coloro che sono rinati «da acqua e da Spirito» (Gv 3,5).
Andare avanti, camminare insieme. È vero che il lavoro teologico è molto importante e dobbiamo riflettere, ma non possiamo aspettare di fare il cammino di unità finché i teologi si mettono d’accordo.
Una volta un grande teologo ortodosso mi disse che lui sapeva quando i teologi saranno d’accordo. Quando? Il giorno dopo il giudizio finale, mi ha detto. Ma nel frattempo? Camminare come fratelli, nella preghiera insieme, nelle opere di carità, nella ricerca della verità. Come fratelli. E questa fratellanza è per tutti noi.
Carissimi, vi incoraggio a proseguire nel vostro impegnativo e importante servizio, e vi accompagno con la mia costante vicinanza e gratitudine. Chiedo al Signore che vi benedica, e per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie.
* Fonte: Vatican.va, 6 maggio 2022.
L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
Putin e la maledizione di Costantino.
Che cosa lo muove? Chi è davvero? Come andrà a finire? L’antica e nera leggenda del ragazzo che volle farsi imperatore, nel racconto di Paolo Rumiz [...]
di Paolo Rumiz *
"Non ho mai letto tanti libri russi come in queste settimane per incontrare gli angeli e i demoni di quel mondo, e perché credo sia una scemenza rifiutarsi di capire, in un momento in cui non c’è europeo che non abbia perso il sonno chiedendosi cosa passa per la testa di quell’uomo solo, capace di premere il bottone della bomba nucleare".
Così scrive Paolo Rumiz sulla copertina di Robinson, in edicola da sabato 23 aprile con Repubblica (e tutta la settimana a 1 euro): il suo è un viaggio nel mistero dell’uomo che ha deciso l’aggressione russa all’Ucraina e che tiene in scacco l’Occidente, attraverso le istantanee degli ultimi trent’anni e più.
Cosa ci dicono le immagini di Vladimir Vladimirovic da San Pietroburgo e salito ai vertici dei servizi segreti ai tempi dell’Urss, poi del potere statale della Russia postsovietica fino a diventarne il nuovo zar?
Rumiz le scorre per noi: la foto del tesserino personale del Kgb, e gli eventi del 1989 quando a Dresda, narra la leggenda, nella notte della caduta del Muro tiene a bada da solo cinquemila tedeschi inferociti scagliatisi sulla sede del Kgb, dicendo: "La mia pistola ha 12 proiettili e l’ultimo sarà per me".
I suoi incontri con il patriarca di Mosca Kirill, per dimostrare la deferenza della Russia neoimperiale all’autorità religiosa. L’inchino a baciare la pietra tombale di San Nicola, a Bari, per ribadire l’eredità di Bisanzio. E infine, gli scatti al Cremlino, che anno dopo anno raccontano "di un autocrate inavvicinabile e restio a delegare, blindato in un potere assoluto che personifica il tragico isolamento della Russia", ma anche la metafora di una fine possibile, l’uscita di scena dell’ex bambino nato povero, condannato a vincere o a sparire".
* Cfr. la Repubblica, Robinson, 23.04.2022 (ripresa parziale).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Costantino dal mito imperiale alla russia post-sovietica
di Adriano Roccucci - Enciclopedia Costantiniana (2013)
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
LA RIVOLUZIONE FRANCESE, HITLER, E "LA STRANA DISFATTA". Una storia di lunga durata...
Marc Bloch così concludeva la sua riflessione sulla "strana disfatta": «Hitler diceva, un giorno, a Rausching: "Facciamo bene a speculare più sui #vizi che sulle virtù degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtù. Sarà meglio per noi fare il contrario". Si perdonerà a un Francese, cioè a un uomo civile - che è la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: "In uno Stato popolare è necessaria una forza, che è la virtù"»(Marc Bloch,"La strana disfatta. Testimonianza scritta nel 1940").
Appunti sul tema, nel sito, si cfr.
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
FLS
Scenari.
Il Dio della fragilità: il Vangelo e le sfide della Chiesa
Il monaco belga Arnold, in Perù dal 1974 e tra i fondatori della teologia andina, rilancia il tema della kenosis, l’abbassamento divino. Piaghe come la pedofilia impongono nuove prospettive
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 31 dicembre 2021)
La questione dell’indicibiità di Dio è esposta in questo modo da Simone Weil nel saggio L’ombra e la grazia: «Dio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza. Il male indica che bisogna collocare Dio a una distanza infinita». E ancora: «Dio non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza».
Per la filosofa francese nell’atto della creazione Dio si ritira per lasciare spazio all’uomo e al cosmo. È questo il senso del riposo del settimo giorno, commenta il monaco belga Simon Pierre Arnold, che ricorda che secondo la Lettera agli Ebrei questo riposo continua ancora per consentire «una totale riconciliazione nella libertà». Anche l’esistenza del male diviene una prova di questa autolimitazione divina. Discorso alto e difficile, che il filosofo Luigi Pareyson definiva “temerario” e che è stato più volte affrontato da scrittori e pensatori, da Wiesel a Buber, dalla Hillesum a Bonhoeffer, il quale nella debolezza di Dio vede il segno della sua presenza accanto all’umanità ferita, e che ora viene applicato da Arnold, che vive in Perù dal 1974 ed è ritenuto uno dei fondatori della teologia andina, alla condizione della Chiesa oggi.
Un’analisi coraggiosa e a tutto campo che si rivela proficua in vista del Sinodo, contenuta nel saggio Dio è nudo. Inno alla divina fragilità di Simon Pierre Arnold, ora pubblicato da Queriniana (pagine 236, euro 26,00). Si può considerare una sorta di invito a compiere una discesa agli inferi per la fede cristiana, in conseguenza della crisi dovuta alla pandemia - in cui il cattolicesimo è stato spesso incapace di accompagnare la sofferenza delle persone colpite dal Covid e di dire a tutti parole significative sul vivere e sul morire - e alla piaga della pedofilia. Ciò è possibile solo abbandonando l’immagine di un Dio “mago dell’ordine” del cosmo ed assumendo quella di un Dio fragile, quella che san Paolo nella Lettera ai Filippesi chiama kenosis, simbolizzata dalla morte in croce di Gesù: «Qui, Dio non solo si spoglia, ma lo si spoglia, lo si umilia, lo si ridicolizza, lo si sfida a essere Dio secondo le categorie della teologia di Satana. Questo divino Servo sofferente, vulnerabile, re deriso da un’umanità insensata, muore d’amore nella nudità, trafitto da parte a parte. Ma in questa contemplazione del Dio nudo del Vangelo non bisogna dimenticare la Resurrezione. San Giovanni, in particolare, ci descrive in dettaglio la scena della tomba vuota con le bende per terra e il sudario accuratamente piegato. Gesù risorto è un Dio per sempre ferito d’umanità».
Questo abbassamento di Dio quale emerge dal Vangelo, sin dalla nascita di Gesù in una mangiatoia, ha un rilievo anche storico e scientifico. Sulla scia di Teilhard de Chardin, Arnold vede l’Incarnazione come «un mistero avvolgente» che rimane in atto nel cuore della storia e penetra tutta la realtà creata. E non confligge certo con la teoria dell’evoluzione, semmai conferisce un senso del tutto nuovo alla selezione delle specie, che non può essere vista come «un incontro di boxe il cui obiettivo sarebbe l’eliminazione sistematica del diverso e del debole. Dal punto di vista della fede, la selezione non ha come obiettivi, contrariamente alle crudeli evidenze, l’esclusione e il trionfo dell’individuo sul gruppo. Essa è, al contrario, la dinamica della reciproca emulazione verso più vita in comune, verso la cultura e la spiritualità».
Ma torniamo al cattolicesimo, che Arnold sferza per uscire dalla catalessi: «All’interno delle nostre Chiese - egli dice -, come schizofrenici, ci stiamo sgretolando in lotte interne di retroguardia tra conservatori e progressisti, mentre le vere urgenze sono innegabilmente altrove». Vista dal suo Perù, dove ha fondato in riva al lago Titicaca il monastero della Risurrezione, la Chiesa appare «troppo patriarcale e clericale, ossessionata da una visione puritana e dicotomica del mondo». Una requisitoria alquanto severa ma la situazione ecclesiale che stiamo vivendo «è drammatica, peggio dell’epoca che generò Lutero».
Come rispondere a questa crisi? Tornando semplicemente al Vangelo, siglando una nuova configurazione plurale ed egualitaria delle nostre relazioni, seguendo l’esempio di Gesù che rinunciò a tutti i suoi privilegi e invitò gli apostoli a non rivendicare posti d’onore e a concepire la gerarchia non come posizione di potere ma come servizio, sul modello della lavanda dei piedi. E inaugurò una nuova stagione nei rapporti fra uomo e donna.
«Aggrappandoci alle nostre scale - insiste l’autore - e ai nostri privilegi, chiudiamo la breccia attraverso la quale potrebbe penetrare lo Spirito. Il luogo del servizio, dove Gesù si è messo e dove vuole vederci, non ammette tuttavia alcuna eccezione. Non si tratta di un’ideologia astratta e facoltativa, ma piuttosto di un’anti-gerarchia vincolante per tutti e per tutte». Ma «tra le macerie di una Chiesa peccatrice», ci sono anche segni positivi, dal rispetto per i diritti umani al risveglio delle donne, dalla crescita della sensibilità collettiva per l’ecologia alla denuncia degli abusi sugli innocenti.
Tutte battaglie che dopo la Laudato si’ e la Fratelli tutti la Chiesa in qualche modo fa proprie. Ma l’urgenza vera di una Chiesa che torna al Vangelo è quella di tornare a proclamare all’uomo contemporaneo la proposta della fede. Che significa condivisione delle pene e delle gioie di tutti gli uomini ma non una rinuncia all’annuncio della resurrezione. Si chiede Arnold: «Nel nostro mondo sofisticato, da dove potrebbe sorgere ancora lo stupore? Come immaginare una Chiesa che si ritrae, come il suo Signore, che si rende sempre più invisibile per lasciare tutto lo spazio al Vangelo?»
È dal monachesimo e dalla sua scuola del dialogo nel silenzio, esemplificata dai detti dei Padri del deserto («crateri nascosti di senso nuovo e forte che ci salverebbero dalla logorrea onnipresente dell’abbrutimento mediatico: chi saprà osare nuovi detti per un nuovo deserto?»), che può venire una spinta positiva, ma non per cercare oasi perfette isolate dal mondo. Il modello proposto è quello della comunità trappista di Thibirine, capace di una presenza silenziosa ma efficace in una terra non cristiana, una presenza che contempla anche la possibilità del martirio.
Non a caso uno degli ultimi paragrafi del libro si intitola Ripensare la Chiesa in categoria di visitazione: «È giunto il momento di scambiare l’imposizione universale con l’osmosi e la commensalità che ricreano sinfonicamente il mondo, come nell’incontro tra Maria ed Elisabetta».
DANTE 2021: ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA, E STORIOGRAFIA...
A 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UN INVITO A RILEGGERE la sua "Monarchia", a cercare di capire meglio le ragioni di "quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 102), e rimeditare le "Res Gestae" di Augusto, alla luce dei 2046 anni dalla fondazione di Aosta, avvenuta nel 25 a. C., in coincidenza con il solstizio d’inverno.
AUGUSTO, L’ITALIA, E LE SUE "28 COLONIE":
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAfIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924).
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Augusto figlio di dio
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di...
di Marco Sferini (La Sinistra quotidiana, 22 Settembre 2021)
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di uomo di legge e di procuratore, si interessò di storia - per così dire - “moderna” o “contemporanea“, se lo si vive calato esclusivamente nel suo tempo, astraendosi dal proprio presente. Questa sua passione la mise tutta nella redazione di una narrazione accurata delle Guerre civili: da Mario e Silla fino all’instaurazione del Principato.
In realtà, la sua monumentale opera, ben 24 libri, è arrivata fino a noi più che dimezzata: della “Ῥωμαικά” (“Rhomanikà“) rimangono solo 11 volumi, ma sono sufficienti per riuscire a ritrovare tutta una lunga serie di collegamenti con altri autori e con episodi della storia imperiale dell’Urbe.
Sappiamo che Karl Marx se ne interessò e che, molto probabilmente, soprattutto grazie alla lettura dei testi di Appiano imparò ad apprezzare oltre ogni modo la figura di Spartaco come “der famoseste Kerl“: tradotto dal tedesco, questo giudizio sul generale degli schiavi risulta essere “il tipo più in gamba“. Meglio di Garibaldi, si spinge il Moro nella comparazione con l’attualità che osserva in Europa e nell’Italia dei moti risorgimentali.
Appiano, come bene scrive Luciano Canfora nel suo “Augusto figlio di dio” (Editori Laterza, prima ed. 2015), è uno storico dilettante, ma tremendamente bravo e soprattutto ha accesso ad una vastità di fonti e di informazioni che, ancora oggi, rimangono un enigma per come siano state trovate, scoperte e utilizzate dall’alessandrino. Sembra essere, se non l’unico, almeno uno dei pochi cronachisti dell’antichità a conoscere situazioni così intime, segrete e particolari della corte augustea da mettere in discussione quel poco che sappiamo della sua vita.
La sorpresa di Marx davanti alla bravura di Appiano è nulla in confronto alle tinte di giallo che contornano questo avvocato dei tempi di Traiano, Adriano e Antonino Pio nel momento in cui si accinge a diventare uno scrittore, uno storico e lo fa con a disposizione dettagliatissimi resoconti della vita tanto privata quanto pubblica di Giulio Cesare ma, soprattutto, di Augusto.
L’opera di Canfora sul Princeps, sul rifondatore della Res publica, sul primo imperatore di Roma, è barocca, ricca di pieghe del tempo, di sovrapposizioni e intersezioni tra i personaggi di un passato che si rilegge nel tempo moderno ottocentesco, mentre prende corpo il marxismo, così come nel primo novecento mentre avanza lo spartachismo germanico. Sono pagine di meticolosa disamina della vita di Ottaviano, pur intervallate da viaggi nella quarta dimensione, accanto ad un Virgilio dantescamente ritrovato, seppure un bel po’ di anni dopo la sua morte, che però è - come scrive Marx ad Engels - «un egiziano tutto d’un pezzo».
Chi si dispone alla lettura dell’Augusto di Canfora, sappia fin dall’inizio che non è un libro semplice: necessita una certa conoscenza della romanità, tanto sul piano storico quanto su quello politico. Necessita pure una conoscenza, quanto meno di base, della letteratura latina, di autori come Seneca, Cicerone, Tacito ed anche il più leggero mondo svetoniano dei Cesari.
Non è una biografia né di Augusto e né di Appiano. Paradossalmente, però, riesce ad essere un grande affresco dinamicamente tinteggiato da tante sfumature di un mondo in continua evoluzione, che si riconosce proprio dall’atto fondativo prodotto dalle Guerre civili, dalla dittatura cesariana e dalla pax inaugurata da un Augusto scaltro, cui Appiano riconosce tutti i meriti del grande politico, camaleontico, capace di interpretare simultaneamente il difensore del Senato e della tradizione repubblicana della Roma che aveva cacciato i re ed essere il nuovo sovrano di un impero che viene rinnovato, completamente ristrutturato nella sua amministrazione ed anche nella preservazione della memoria, del sapere, dell’arte e delle lettere.
Augusto, ce lo dice Marco Antonio, ma lo sottolinea pure Canfora, deve un po’ tutto al suo nome: non a quello di nascita (Gaio Ottavio), bensì a quello del suo padre adottivo, il Divus Julius. Ottaviano ne è consapevole e fa di tutto per attribuirselo in ogni occasione, per farsi riconoscere dai Padri coscritti come l’erede di una volontà politica che difende la repubblica dai tentativi di restaurazione oligarchica dei cesaricidi.
In realtà, Luciano Canfora svela tante ambiguità di una storia romana che Appiano tuttavia non cela, non mistifica, non celebra inversamente, revisionisticamente, con quella accondiscendente sudditanza verso il potere, con una piaggeria che ci si aspetterebbe da uno scrittore che, per giunta, è un procuratore imperiale (anche se alcuni storici ritengono che questa carica gli venne assegnata più come titolo onorifico che come investitura vera e propria con pieni poteri).
“Augusto figlio di dio” è molto più di un libro sul primo imperatore di Roma: è un vero e proprio lavoro di ricerca storica, politica, sociale e morale tradotto in una biografia che ha il gusto piacevole del romanzo giallo, la fascinazione del prosa descrittiva di un passato mostrato con le tante similitudini del e nel nostro presente (in particolare, queste fanno riferimento alle caratteristiche più propriamente umane nelle declinazioni politiche, intellettuali e militari). Non ultimo, possiede il disincanto da una esposizione cattedratica che l’autore a volte è tentato di offrire a tutti i lettori nel proporre l’intersezione di tante difficili argomentazioni, ma che riesce sempre a coniugare con la cosciente pragmaticità della fruizione dell’opera da parte di un vasto pubblico dalle conoscenze più varie.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
FLS
scheda editoriale: *
Luigi Mascilli Migliorini
L’ultima stanza di Napoleone
Memorie di Sant’Elena
Si può immaginare un Napoleone giardiniere, con un largo cappello di paglia e un comodo camicione di lino per difendersi dal sole, che zappa e innaffia nella illusoria speranza di far crescere le sue stentate piantine al caldo e all’umido dei Tropici? A Sant’Elena Napoleone fu anche questo.
Allontanando i fantasmi del passato, impastati di gloria e di sconfitta, egli usò il lungo esilio per guardarsi dentro, lavorare sulla memoria, scoprire la vastità di uno spazio interiore, dopo che gli spazi non meno vasti ai quali lo avevano abituato le sue imprese si erano ridotti progressivamente a una isola minuscola, a un giardino intorno casa e, quando tutto sta per finire, a una stanza, l’ultima.
Luigi Mascilli Migliorini
Luigi Mascilli Migliorini è professore di Storia moderna e accademico dei Lincei. È tra i maggiori specialisti dell’età rivoluzionaria e romantica in Europa. La sua biografia di Napoleone, pubblicata dalla Salerno Editrice, ha ottenuto il Grand Prix della Fondation Napoléon.
Riletture.
L’umanesimo cristiano di Dante e Manzoni
Una concezione dell’eloquenza fondata non sull’artificio ma sulla ragione accomuna i due “massimi sistemi” della letteratura italiana, l’alfa e l’omega di una storia che non è solo letteraria
di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo (Avvenire, sabato 10 luglio 2021)
Una concezione dell’eloquenza fondata non sull’artificio ma sulla ragione accomuna i due “massimi sistemi” della letteratura italiana, l’alfa e l’omega di una storia che non è solo linguistico-letteraria e che permette di accedere alla dimensione della fede dei due autori, alle loro “vite parallele”. Nell’Ottocento il dantismo diventa la cartina di tornasole di un’intera stagione culturale, italiana ed europea. La mitizzazione dantesca di Alessandro Manzoni ha la sua genesi all’interno del gruppo dei manzoniani più coinvolti nell’entusiasmo morale ed intellettuale verso il maestro, per i quali il parallelismo legato alla religiosità evidenzia, in Dante, una fede «sublime, tratto tratto angelica e pura come oro», e in Manzoni una virtù teologale «casta, magnanima, veneranda, dolce e mansueta senza mollezza, forte senza durezza quale risplende nell’Evangelio» (Gioberti). Il dantismo manzoniano, dalla giovinezza entusiasta alla maturità consapevole con lo spartiacque della conversione, diventa emblematico di una condizione esistenziale vissuta all’interno di un preciso contesto storico, politico e culturale: storico, per le vicende legate all’unità d’Italia; politico, per la nascita dei movimenti del neoghibellinismo e del neoguelfismo; culturale per la grande riscoperta di Dante, nella prima metà dell’Ottocento. Infatti la cultura europea dei primi decenni dell’Ottocento è segnata dal rinnovato interesse per Dante di Simonde de Sismondi autore di opere che testimoniano anche gli orientamenti storiografici ed estetici di Coppet, di Madame de Staël e di W. Schlegel. Nell’ultimo decennio del Settecento prende l’avvio la formazione morale ed intellettuale di Alessandro Manzoni, prima presso i padri somaschi e poi presso i barnabiti. L’ammirazione per Dante nasce dall’insegnamento del filosofo sensista padre Francesco Soave e risente del dantismo classicheggiante di Vincenzo Monti. Calchi danteschi attraversano il Trionfo della Libertà, così come in Urania (1809) emerge un Dante definito ossimoricamente «De l’ira maestro e del sorriso», che va oltre la «lunga notte medievale». Tra i due testi, Trionfo e Urania, si colloca la conoscenza di Claude Fauriel, e del suo dantismo, generatosi all’interno dei fervidi scambi di idee con Sismondi, Stäel e Schlegel. Quanto ciò fosse determinante, nella storia del dantismo cattolico, lo dimostra la presenza di Frédéric Ozanam alle lezioni accademiche di Fauriel su Dante e la sua opera. Il dantismo manzoniano dunque si incunea profondamente nel dantismo europeo anche se successivamente gli anni della maturità determineranno un cambiamento radicale nella ricezione di Dante, soprattutto quando il poeta fiorentino diventa la bandiera degli opposti estremismi del neoghibellinismo e del neoguelfismo, nei quali Manzoni non si riconosce. Conseguentemente prende le distanze da codesta strumentalizzazione del pensiero politico di Dante.
Cesare Cantù, negli incontri con Manzoni, lo aveva sentito affermare che Dante in nessun luogo del suo poema censura l’istituzione papale, ma soltanto gli abusi di quella, quando il discorso inciampava sulla questione romana. I distinguo permettono così di cogliere le consonanze nel terreno della fede. Lo testimoniano le lettere al Fauriel, nel periodo della conversione. Alessandro legge e rilegge i canti finali del Purgatorio che descrivono il riscatto morale di Dante poche settimane prima di scrivere la supplica al Papa per l’autorizzazione a ricelebrare il matrimonio col rito cattolico. La conversio di Dante, può essere così avvicinata all’aversio-conversio dell’Innominato nei capitoli centrali dei Promessi sposi, e la parola chiave sembra essere “riconoscenza”. Codesta vicinanzadifferenza morale e teologica sarà avvertita da san Paolo VI che, secondo la testimonianza del cardinale Giovanni Colombo, fin da quando era arcivescovo di Milano si faceva leggere dal segretario monsignor Macchi un canto della Commedia o un capitolo dei Promessi sposi, abitudine che avrebbe continuato anche da Papa.
Dalle Testimonianze del cardinal Colombo conosciamo la diversità di papa Montini nel suo leggere e amare la Commedia e i Promessi sposi. Se la prima lo affascinava per la «fulgente concezione piramidale della verità teologica che congiunge il centro della terra al sommo del cielo», ai Promessi sposi si sentiva legato per una piena consonanza di sentire e vivere la carità cristiana: «Questo romanzo c’insegna a non aver paura dell’uomo che ha espulso dal suo cuore Dio e la sua grazia; c’insegna a non escludere nessuno dalla pietà divina, c’insegna a credere che sotto ogni evento dell’esistere umano si nasconde un gesto d’amore della Provvidenza; c’insegna, infine, a essere noi Provvidenza a chi più di noi affonda nel bisogno». Le parole di Paolo VI, nella differenza, ci delimitano la somiglianza dei due poli dell’umanesimo cristiano.
Bicentenario. Napoleone Bonaparte e la fede, vinto anche da Dio
Il rapporto con Cristo e la Chiesa cattolica dell’imperatore morto due secoli fa secondo il cardinale Giacomo Biffi
di Giacomo Biffi *
Materialista e saccheggiatore di chiese e di conventi, miscredente e fedifrago, anticlericale e sequestratore del papa: questa è l’opinione che molti hanno di Napoleone Bonaparte, opinione tanto diffusa quanto acriticamente accolta.
Se andiamo alle fonti, e in particolare a queste conversazioni, scopriamo qualcosa di strabiliante. Napoleone grida con fierezza: «Sono cattolico romano, e credo ciò che crede la Chiesa».
Durante gli anni di isolamento a Sant’Elena Napoleone si intratteneva spesso con alcuni generali, suoi compagni di esilio, a conversare sulla fede. Si tratta di discorsi improvvisati che - come rivela uno dei suoi più fidati generali, il conte de Montholon - furono trascritti fedelmente e poi dati alle stampe da Antoine de Beauterne nel 1840. Dell’autenticità e della fedeltà della trascrizione possiamo essere certi, visto che, quando de Beauterne pubblica per la prima volta le conversazioni, sono ancora in vita molti testimoni e protagonisti di quegli anni di esilio.
Napoleone ammette con candida onestà che quando era al trono ha avuto troppo rispetto umano e un’eccessiva prudenza per cui «non urlava la propria fede». Ma dice anche che «allora se qualcuno me lo avesse chiesto esplicitamente, gli avrei risposto: "Sì, sono cristiano"; e se avessi dovuto testimoniare la mia fede al prezzo della vita, avrei trovato il coraggio di farlo».
Soprattutto attraverso queste conversazioni impariamo che per Napoleone la fede e la religione erano l’adesione convinta, non a una teoria o a un’ideologia, ma a una persona viva, Gesù Cristo, che ha affidato l’efficacia perenne della sua missione di salvezza a «un segno strano», alla sua morte sulla croce.
Perciò non ci stupiamo se Alessandro Manzoni nell’ode Cinque Maggio dà prova di conoscere la sua fisionomia spirituale quando scrive: «Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trïonfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ che più superba altezza/ al disonor del Golgota/ giammai non si chinò».
L’imperatore si sofferma a lungo con il generale Bertrand, dichiaratamente ateo e ostile alle manifestazioni di fede del suo superiore, regalandoci un’inaudita prova dell’esistenza di Dio, fondata sulla nozione di genio, una lunga conversazione sulla divinità di Gesù Cristo.
Degni della nostra ammirazione sono anche le considerazioni sull’ultima Cena di Gesù e i confronti tra la dottrina cattolica e le dottrine protestanti. Alcune affermazioni di Napoleone mi trovano singolarmente consonante. Ad esempio, quando dice: «Tra il cristianesimo e qualsivoglia altra religione c’è la distanza dell’infinito», cogliendo così la sostanziale alterità tra l’evento cristiano e le dottrine religiose.
Oppure la convinzione che l’essenza del cristianesimo è l’amore mistico che Cristo ci comunica continuamente: «Il più grande miracolo di Cristo è stato fondare il regno della carità: solo lui si è spinto ad elevare il cuore umano fino alle vette dell’inimmaginabile, all’annullamento del tempo; lui solo creando questa immolazione, ha stabilito un legame tra il cielo e la terra. Tutti coloro che credono in lui, avvertono questo amore straordinario, superiore, soprannaturale; fenomeno inspiegabile e impossibile alla ragione».
Alla luce di queste pagine non possiamo non ammettere che Napoleone non solo è credente, ma ha meditato sul contenuto della sua fede maturandone una profonda e sapienziale intelligenza.
Questa a sua volta si è tradotta in fatti molto concreti: ha domandato con insistenza al governo inglese di ottenere la celebrazione della Messa domenicale a Sant’Elena; ha espresso gratitudine verso sua madre e de Voisins, vescovo di Nantes, perché da loro è stato «aiutato a raggiungere la piena adesione al cattolicesimo»; ha concesso il suo perdono a tutte le persone che lo hanno tradito.
Infine, le conversazioni riferiscono le convinzioni di Napoleone sul sacramento della confessione e i suoi rapporti con il papa Pio VII, rivelando che «quando il papa era in Francia (...) era esausto per le calunnie in base alle quali si pretendeva che io lo avessi maltrattato, calunnie che smentì pubblicamente».
Queste conversazioni non solo hanno lasciato un segno indelebile nella memoria dei generali compagni di esilio, ma hanno anche concorso alla loro conversione.
* Avvenire, mercoledì 5 maggio 2021 (ripresa parziale).
Napoleone. Resta un mistero la conversione del nemico (e carceriere) dei Papi
Luca Crippa raccoglie gli indizi della controversa religiosità dell’imperatore e nel quadro delle tensioni dell’epoca, culminate con l’aperta ostilità contro Pio VI e il suo successore Pio VII
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 5 maggio 2021)
Con i poeti va sempre così: non hanno le prove, però sanno com’è andata. Sulla conversione di Napoleone, per esempio, Manzoni non pare avere dubbi. Il cinque maggio si chiude con l’immagine del «Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola », in una celebrazione della «bella immortal, benefica / fede» che, al momento si poteva solo intuire. Che Napoleone sia morto dopo aver ricevuto i sacramenti, invece, è un elemento storico niente affatto improbabile. Ad attestare il viatico sono alcune delle testimonianze provenienti da Sant’Elena, per quanto non manchino voci discordanti, sulle quali pesa tuttavia il sospetto di una riserva ideologica.
Da parte dei suoi collaboratori più stretti, insomma si voleva evitare di dare l’impressione che l’imperatore fosse spirato «come un cappuccino». Quale ne sia stato l’esito, quello di Napoleone con il cristianesimo fu un rapporto complesso e non di rado contraddittorio, ora ripercorso in tutte le sue implicazioni da Luca Crippa in Napoleone e i suoi due Papi (San Paolo, pagine 240, euro 22,00).
Seguendo le tappe di una biografia mai abbastanza conosciuta, l’autore si sofferma con intelligenza su una moltitudine di indizi che vanno dall’istante stesso della nascita (la madre, Maria Letizia, fu colta dalle doglie mentre tornava dalla chiesa) fino all’attestazione dell’abate Angelo Vignali, il sacerdote corso presente alla morte. Fra questi estremi si svolge l’avventura del giovane ufficiale che, pur avendo studiato in una école militaire gestita da religiosi, si era formato su Plutarco più che sui Vangeli.
Mai particolarmente devoto, ma coerente al punto di rifiutare di prendere la Comunione durante la cerimonia dell’incoronazione imperiale a Notre-Dame nel 1804, Napoleone sviluppò molto presto l’idea della religione come strumento di governo. Fu per considerazioni di convenienza, tra l’altro, che volle che la Francia rimanesse cattolica anziché aderire al protestantesimo, come pure gli veniva suggerito.
Crippa - che ha al suo attivo molte efficaci biografie storiche - insiste giustamente sulla frattura che la Rivoluzione aveva prodotto all’interno della Chiesa mediante la distinzione tra clero “costituzionale” e clero “refrattario”, ovvero tra quanti accettavano o respingevano le norme che subordinavano l’apparato ecclesiastico a quello dello Stato.
Si inserisce in questo quadro anche il braccio di ferro che Napoleone impegnò prima con Pio VI, al secolo Giovanni Antonio Braschi, il Papa travolto dai successi della Campagna d’Italia e destinato a morire prigioniero dei francesi nel 1799, sia con il suo successore Pio VII, al cospetto del quale si impose la corona imperiale.
Nonostante la ratifica del Concordato tra Francia e Stato della Chiesa nel 1801, neppure papa Chiaromonti sfuggì all’inimicizia di Napoleone, che nel 1809 non si oppose all’arresto del Pontefice. Da qui, come sottolinea a più riprese Crippa, la fama di “Anticristo” toccata al condottiero che pure era propenso a considerare la natura divina di Cristo.
Sempre tentato dall’idolatria di sé stesso, l’imperatore potrebbe essersi ben convertito in punto di morte. Ma quello che accade in quegli istanti è un mistero per tutti, ancor più misterioso nel caso degli uomini che si credono grandi.
Storia.
Quando la mongolfiera di Napoleone Bonaparte ammarò nel lago di Bracciano
Il 2 dicembre 1804 a Parigi, in occasione dell’incoronazione di Bonaparte, il colonnello Garnerin innalzò un pallone aerostatico davanti a Notre Dame. Ma avvenne un incidente...
di Vincenzo Grienti (Avvenire, martedì 4 maggio 2021)
Venne definita “la magnifica mongolfiera” ed era costata ben 23.500 franchi. Una cifra considerevole nel 1804, anno in cui non si era badato a spese per le celebrazioni in onore di Napoleone Bonaparte, incoronato imperatore da papa Pio VII, giunto per l’occasione a Parigi il 2 dicembre. Il “pallone”, adornato di drappi e arricchito di oltre 3mila fiaccole accese era imbrigliato in una rete di seta grezza cui era appesa una pesante aquila imperiale. Uno spettacolo che i cronisti dell’epoca registrarono come un evento eccezionale elogiando il suo inventore: il colonnello Andrè-Jacques Garnerin, oggi considerato anche il padre dei paracadutisti, aeronauta e costruttore di aerostati.
Il luogo scelto per il decollo della mongolfiera senza piloti né passeggeri era l’area antistante la cattedrale di Notre Dame e stando ai calcoli di Garnerin doveva rimanere sospesa sui cieli parigini per le cerimonie bonapartiane, ma qualcosa andò storto. Il 16 dicembre 1804 il vento impresse una traiettoria tale da rendere il pallone aerostatico incontrollabile facendolo volare via. Un’eventualità che l’esperto colonnello Garnerin aveva messo in conto. Infatti, per assicurarsi il rinvenimento del mezzo in caso di incidente il militare aveva appeso al pallone una lettera che in caso di incidente avrebbe costituito il certificato di volo e la paternità del costruttore. Nella missiva vi era scritto: “Il pallone portatore di questa lettera si è innalzato da Parigi la sera del 25 frimale (il 16 dicembre, secondo il calendario rivoluzionario, nda), per opera del signor Garnerin, aeronauta privilegiato di S.M. l’Imperatore di Russia, ed ordinario del Governo Francese, nella circostanza della festa data dalla città di Parigi a S.M. l’Imperatore Napoleone. Quelli che troveranno questo pallone, sono pregati di averne cura e di ragguagliare il signor Garnerin sul luogo in cui è disceso”.
All’interno del mezzo inoltre erano nascoste delle lettere di papa Pio VII e un legato di trecento franchi, premio per chi l’avesse rinvenuto. Quasi un presentimento per Garnerin che restò attonito alla vista del pallone fuori controllo e in balia del vento che, dopo un volo di circa 22 ore, andò a precipitare definitivamente nel lago di Bracciano.
A testimoniare l’accaduto un documento rinvenuto in seguito, nel 1927, in cui il duca di Mondragone da Anguillara informava il cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato di Pio VII, di quanto era successo: "Ieri sera, 17 dicembre, verso le ventiquattro ore - scrive il duca riferendosi alle prime ore dopo il tramonto - si vide comparire nell’aria un globo di smisurata grandezza che a poco a poco cadde nel lago di Bracciano nelle cui acque sembrava una casa galleggiante. Diversi navicellai vennero spediti nella stessa notte perché se ne impadronissero e lo conducessero a terra, ma insorsero tra loro alcuni alterchi, i quali impedirono l’operazione. Ritornativi questa mattina, per mezzo di una barca l’hanno trasportato nella riva".
Raccolto dai pescatori locali venne conservato in Vaticano, essendo quel territorio appartenente allo Stato Pontificio, per oltre 170 anni. Il 22 luglio del 1978 Paolo VI, primo pontefice nella storia della Chiesa ad aver volato sugli aerei dell’Aeronautica Militare, donò alla forza azzurra il cimelio in segno di gratitudine e apprezzamento come sottolineato nella lettera a sua firma consegnata all’allora generale Giuseppe Pesce incaricato di allestire e sviluppare il Museo di Vigna di Valle.
“Siamo lieti di aver contribuito col dono dell’aerostato lanciato da Parigi il 16 dicembre 1804 e planato alle porte di Roma poche ore più tardi alla nascita del Museo italiano dell’Aeronautica” scrisse Paolo VI sottolineando come “il singolare cimelio documenta un momento significativo della storia ardimentosa che ha portato l’uomo ad aprirsi nel cielo nuove vie di più celere comunicazione con gli altri esseri umani”.
Un reperto unico al mondo e importante “perché fa parte della stagione delle mongolfiere che tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo ebbero una grande popolarità in Europa - spiega il Generale Capo Ispettore Basilio Di Martino, tra i massimi studiosi italiani ed europei di storia dell’aeronautica militare - avviando il percorso che nell’arco di un secolo avrebbe portato al volo controllato e autopropulso. In un museo che ha una connotazione fortemente tecnologica, perché tale è l’anima dell’Aeronautica Militare, il pallone di Garnerin rappresenta a ragione l’ideale punto di partenza, proponendo una testimonianza tangibile delle soluzioni adottate dai primi aeronauti. È vero che il pallone non aveva persone a bordo, ma la tecnica costruttiva era quella, e le sue possibilità sono evidenziate dalla durata del volo, oltre 22 ore, e dalla distanza percorsa, da Parigi al lago di Bracciano. Un vero record, ed è questo un altro elemento che ne ribadisce l’importanza nella storia dell’aeronautica in senso lato.”
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
OLTRE LA TRAGEDIA E OLTRE I LIMITI DEL VIAGGIO DI ULISSE... *
In cammino con Dante/1.
Così Dante porta sé stesso in Commedia
Inizia il cammino dell’italianista Carlo Ossola attraverso i personaggi delle tre cantiche che ci accompagnerà in questo anno del 700° dantesco. Partendo dall’autore, certo non mero scriba
di Carlo Ossola **
«Conosciamo Dante profondamente grazie a un fatto rilevato da Paul Groussac [ Tolosa, 1848 Buenos Aires, 1929]: che la Commedia è scritta in prima persona. [...] Bisogna ricordare che, prima di Dante, sant’Agostino aveva scritto le Confessioni. Ma queste confessioni, appunto in virtù della splendida retorica, non sono così vicine a noi come lo è Dante, poiché la retorica splendida dello scrittore africano si interpone tra quello che egli vuole dire e quello che noi percepiamo’ ( J.L. Borges, Sette Notti, I: La Divina Commedia).
L’osservazione di Borges è acuta: il viaggio di Dante è così possente che lo pensiamo autore soltanto, come se l’io del viator fosse solo l’ombra dello scriba; non occupa dei propri tormenti le pagine come il Rousseau delle Confessioni; anzi, il poema si legge come se Dante avesse fatto passare le Confessioni di sant’Agostino attraverso il vaglio d’eternità della Città di Dio.
Egli visita infatti le città di Dio (Inferno, Purgatorio, Paradiso terrestre, Paradiso) e ad esse si commisura, fragile e smarrito nella selva della tentazione. Egli si rivela poco a poco nel poema: conosciamo dapprima la sua paura di fronte alle fiere; sviene al racconto del dramma d’amore di Paolo e Francesca («E caddi come corpo morto cade», Inf., V, 142); gli salgono le lacrime al vedere la pena che flagella Ciacco (Inf., VI), la «sozza mistura / de l’ombre e de la pioggia»; da quel dialogo apprendiamo che Dante è originario di una città toscana, come conferma l’apostrofe, poco dopo, di Farinata degli Uberti: «“O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto”» (Inf., X, 22-23).
Al canto XV, si dichiara ch’egli è stato allievo di Brunetto Latini il quale gli raccomanda il suo Tesoro (v. 119). Ad ogni conversazione, Dante autore lascia trapelare un tratto dell’identità del personaggio, e specialmente nel Purgatorio negli incontri che più lo rivelano, nella sua quotidianità - di sorriso e di malinconia - come nel dialogo con Belacqua (canto IV), o nella complicità poetica con Casella, che gli intona la prima citazione dall’opera di Dante, Amor che ne la mente mi ragiona, canzone che apre il III libro del Convivio (II, 112 ss.).
Solo al culmine della montagna, purificato dai peccati, ma non ancora deterso da essi, nel Paradiso terrestre è rivelato da Beatrice il suo nome; l’incontro tanto agognato diviene, nell’apostrofe di Beatrice, severo discorso di dura condanna: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57).
Dal punto di vista dell’autore (e anche del lettore) è facile allegorizzare: il viator è appena stato assolto dalla ragione, promosso nella sua pienezza umana, come gli assicura Virgilio: «libero, dritto e sano è tuo arbitrio / [...] per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purg., XXVII, 140142); ed ora è messo a prova dalla teologia, alla quale deve ascendere.
Ma Dante personaggio patisce: coronato e, subito dopo, condannato; ha forse ragione Borges quando osserva: «Infinitamente ebbe vita Beatrice per Dante. E Dante assai poco, o nulla, per Beatrice. Noi tutti tendiamo, per pietà, per venerazione, a dimenticare questa disdicevole discordanza, inobliabile per Dante» (Nove saggi danteschi)?
In effetti, in più luoghi del poema Dante autore giudica del viaggio di Dante personaggio, non meno di quante il personaggio confessi, di fronte all’ardua prova, il proprio limite: «Ma io, perché venirvi? O chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / ma degno a ciò né io né altri ’l crede. / Per che, se del venire io m’abbandono, / temo che la venuta non sia folle» ( Inf., II, 3135). Varcate le «gelate croste» di Lucifero e dell’Inferno, giunti i viatores di fronte alla montagna del Purgatorio, la voce dell’autore a sua volta esclama: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purg., III, 34-36).
Tra la «venuta ... folle» e il «Matto è chi spera» c’è stato il «folle volo» di Ulisse, definizione di una frontiera invarcabile del conoscere; per questo Dante conclude: «State contenti, umana gente, al quia» (Purg., III, 37); giudizio che Dante, personaggio ancora e non meno autore, ribadirà al sommo del Paradiso: «sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse» (Par., XXVII, 82-83).
Dante pur tuttavia cresce - ascendendo di cielo in cielo - nella consapevolezza dell’infinità dei mondi e del mistero che lo attende e lo assorbe: la sua consacrazione più alta avrà luogo nell’incontro con Adamo ove, se seguiamo parte dei codici più antichi, quelli esemplati dal Boccaccio (in particolare il Chigiano L VI 213) nonché le stesse Esposizioni del Boccaccio alla Commedia, e infine la maggior parte degli incunaboli, il nome di Dante viene nuovamente pronunciato, dal primo padre dell’umanità, che autorizza il nuovo testimone della discendenza redenta: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: “Dante, la voglia tua discerno meglio”» (Boccaccio, Esposizioni, Accessus).
Questo crescere è un modellarsi all’umiltà: intanto quella del discipulus che, per tutto il viaggio, si affida a una guida: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti; ma è altresì un ridivenire “fantolin”, “fantin” (Par., XXX, 82-87), perché soltanto chi si fa piccolo può - come conclude il paragone dantesco - “immegliarsi”, secondo il detto evangelico: «nisi [...] efficiamini sicut parvuli non intrabitis in regnum cælorum» (Matth., 18, 3).
Il crescere di Dante personaggio, ben oltre i limiti del viaggio di Ulisse, non è un affrancarsi che potenzia, un esercizio superoministico; ma un accogliere più luce e più mistero, un rimpicciolire perché la Gloria meglio “penetri e risplenda” (Par., I,2); è il divino splendore che deve crescere in noi, del quale il poema non sarà che favilla: «e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente» (Par., XXXIII, 70-72). Qui finalmente Dante personaggio e Dante autore vengono a coincidere: «povertà [di vita] e sapere e poesia, quale alleanza assicuratrice di giustizia!» (G. Ungaretti, Tra feltro e feltro, 1965).
** Fonte: Avvenire, domenica 21 marzo 2021 (ripresa parziale).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo [2007].
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
La mostra. Napoleone tra Cesare e Alessandro: Bonaparte e il mito di Roma
Bonaparte ha cercato di emulare gli imperatori romani e una importante mostra ai Mercati Traianei ne ripercorre la fama attraverso le arti e l’immaginario
di Marco Busssagli (Avvenire, venerdì 12 febbraio 2021)
Ci sono almeno due ragioni oggettive per andare a vedere l’affascinante mostra dedicata a Napoleone e il mito di Roma che si tiene in questi giorni nell’irripetibile sede dei Mercati Traianei (a cura di Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Massimiliano Munzi e Simone Pastor). In origine prevista per il dicembre dello scorso anno, l’esposizione - che è rimata chiusa per mesi a causa della pandemia del Covid-19 -, è stata prorogata grazie alla sensibilità solidale dei prestatori a cominciare da quelli francesi che hanno riconsiderato i termini del contratto di prestito.
È questo il motivo per cui si possono ancora ammirare due opere celeberrime della pittura di quel folgorante periodo storico. Mi riferisco al capolavoro di Jacques Louis David Napoleone valica il Gran San Bernardo che esaltava le imprese dell’allora generale all’indomani della Campagna d’Italia. Sebbene sia presente in mostra una copia d’epoca dell’originale conservato al Castello di Malmaison (una delle cinque versioni realizzate dal grande pittore francese fra il 1801 e il 1803), tuttavia l’accuratezza della tela a grandezza naturale, realizzata ad olio, è in grado di restituire quelle emozioni che nascono davanti agli originali conservati a Versailles, a Berlino e a Vienna.
Quella che è assolutamente autentica, invece, è l’opera di François Gérard che nel 1805 dipinse Napoleone con gli abiti dell’incoronazione proveniente dal Palais Fesch-Musée des Beaux-Arts di Aiaccio. Straordinaria per la resa dei velluti, dei ricami e dei materiali (si osservi la piccola mano d’avorio in cima allo scettro abbandonato accanto al globo con la croce che rappresenta il mondo, inconsapevole prefigurazione dell’epilogo della stagione napoleonica) la tela emana il fascino di un’intera epoca avviata alla conclusione.
Si tratta di opere che, da sole, valgono una visita alla mostra e che segnano i confini di quella irripetibile avventura politica, storica e culturale che fu la vicenda di Napoleone, partito come generale della Rivoluzione e finito come Imperatore dei Francesi che scosse l’Europa e travolse la pigra agiatezza delle monarchie allora esistenti.
A muovere Bonaparte c’erano la volontà di recuperare il mito di Roma e il desiderio di emulare i grandi condottieri dell’antichità, da Alessandro Magno a Caio Giulio Cesare. A sostegno di questo confronto, la mostra offre al pubblico opere importanti come il bronzo di Alessandro Magno a cavallo proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’aspirazione al dominio su un impero senza confini (si pensi alla sfortunata campagna di Russia che, tuttavia, porto Bonaparte sulle rive della Moscova) lega il mito di Alessandro Magno a Napoleone il quale, come già molti condottieri prima di lui, tra cui Giulio Cesare, fece dell’imitatio Alexandri la propria ragione di vita.
Non per nulla, è esposto il grande bronzo dello scultore Lorenzo Bartolini che raffigura Napoleone I Imperatore, proveniente dal Louvre, in cui Bonaparte è ritratto all’antica, con le fattezze di un imperatore romano e la corona d’alloro sulla testa. Le gesta napoleoniche s’ispirarono pure alla magnanimità del primo degli imperatori romani, Augusto, presente con un ritratto in marmo proveniente dai Musei Capitolini. Così, la mostra approfondisce gli impegni di carattere artistico e urbanistico del grande francese per la sistemazione di Roma e, in particolare, proprio dell’area della Basilica Ulpia, prospiciente i Mercati Traianei, allora ridotta a fossa maleodorante, i cui progetti di bonifica (nonostante le proteste della madre superiora del Conservatorio delle zitelle che si vide abbattere la sede con conseguente trasferimento) furono affidati agli architetti Camporese e Valadier.
Nessuna sede, perciò, poteva dirsi più adatta dei Mercati Traianei che furono il cuore della grandezza economica e commerciale della Roma antica. Nello sforzo d’imitazione della figura di Augusto rientravano, però, anche i gesti umanitari documentati dall’incisione di Masson ripresa dal celebre quadro di Antoine-Jean Gros, Il generale Bonaparte visita gli appestati di Jaffa, proveniente dal Palais Fesch-Musée des Beaux-Arts di Ajaccio. Il che alimentava il mito di Napoleone, come un eroe antico ma pure un santo e un taumaturgo, in continuità con i re del medioevo francese.
Roma, Mercati Traianei
Napoleone e il mito di Roma
Fino al 30 maggio
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO ... *
«QUELLA ROMA ONDE CRISTO È ROMANO»: LA RICEZIONE DI DANTE NEL MAGISTERO PONTIFICIO CONTEMPORANEO
di VALENTINA MERLA *
In un clima di polemica tra cattolici e non cattolici, negli anni dell’Unità d’Italia, in cui i patrioti italiani avevano studiato la concezione politica dell’Alighieri incasellandola sotto l’egida del ghibellinismo anticlericale, Leone XIII sceglie la strada del dialogo con la società, progettando una riforma della cultura cattolica sulla base del tomismo. La sua ricezione di Dante è possibile proprio alla luce del tomismo: Leone XIII è, in effetti, secondo una definizione di padre Semeria, un’«anima dantesca», soprattutto per la significativa consonanza tra il suo pensiero sociale e la Monarchia (era stato proprio il suo intervento ad assolvere il trattato dantesco dall’accusa di eterodossia, escludendolo dall’indice dei Libri Proibiti). Infatti, come Dante, anche papa Pecci partecipa al dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa, riflettendo “laicamente” sul potere politico e sostenendo la reciproca indipendenza delle due istituzioni.
Alla morte dell’anziano pontefice sale al soglio pontificio Pio X, attento riorganizzatore del Catechismo della Chiesa Cattolica e sostenitore di una nuova concezione pastorale, che considera ogni strumento culturale, anche il testo dantesco, funzionale all’esigenza catechetica. Il pontefice incentiva, dunque, le iniziative in preparazione alla commemorazione del VI centenario dantesco, tra le quali una è particolarmente vicina ai suoi orientamenti pastorali. Si tratta di un lavoro di sinossi e comparazione tra il testo del catechismo del pontefice e la scrittura dantesca, che, in questo modo, viene frammentata al duplice scopo di supportare le affermazioni del catechismo e di dimostrare la perfetta aderenza del poeta al cattolicesimo. L’opera, firmata con lo pseudonimo d Minimo Sacerdote in Cristo, si intitola Il più bel ricordo del VI centenario di Dante, ossia Catechismo della Dottrina Cristiana pubblicato per ordine di sua Santità Pio X, meditato e studiato con Dante.
Una linea spartiacque nella rivalutazione dell’Alighieri da parte del magistero pontificio si ha con l’enciclica In praeclara summorum (1921), scritta da Benedetto XV per commemorare il VI centenario della morte del sommo poeta, che viene per la prima volta apostrofato come figlio prediletto della fede cattolica. Sulla scia del predecessore, sebbene in modi differenti, si colloca il riuso che dell’opera dantesca fa Pio XI, riportando nei suoi documenti ufficiali un ricco corredo di citazioni.
Ciò emerge maggiormente quando riflette sulla romanità della Chiesa, poiché papa Ratti risolve definitivamente la “questione romana”, affermando la necessità della reciproca collaborazione tra potere spirituale e potere politico.
Di questa collaborazione si fa simbolo la città di Roma (residenza del Papato e antica capitale dell’Impero di Roma), che assurge a figura della città di Dio, secondo la più canonica esegesi di Pg XXXII 102, verso prediletto dal pontefice e più volte citato. Con Pio XI Dante si presta per la prima volta, in modo significativo, ad essere rispolverato e letto criticamente. In effetti papa Ratti consacra la Commedia come un’opera di fede e se ne avvale come auctoritas a supporto delle argomentazioni dei suoi discorsi.
Ad imitare il suo esempio è Pio XII, in cui si nota una fitta trama di allusioni desunte dall’Alighieri soprattutto nei discorsi rivolti alla Pontificia Accademia delle Scienze (di cui era membro onorario). Queste prolusioni finiscono inevitabilmente per riflettere sulla vastità dell’universo, sede e immagine di Dio attraverso l’utilizzo della fonte dantesca.
Diversa è la fruizione di Dante da parte di Angelo Roncalli, il cui nome si lega inequivocabilmente al Concilio Vaticano II e all’esigenza di un rinnovato dialogo con il mondo intero, sicché anche la sua ricezione del poeta di Firenze si può ascrivere a questo desiderio di un più agevole confronto con la contemporaneità. Anche se in realtà, nel corpus degli scritti del pontefice, sia in quelli ufficiali che in quelli destinati alla scrittura privata, non se ne conserva una memoria significativa.
Vero e proprio punto di svolta nella lunga vicenda della ricezione dantesca è la lettera apostolica Altissimi cantus, che Paolo VI divulga il 7 dicembre 1965 in occasione del VII centenario della nascita di Dante. In essa il pontefice non esita ad appellare il sommo poeta con l’epiteto di teologo perché ha saputo comunicare le verità di fede servendosi della bellezza del verso. È, quella di papa Montini, una forte presa di posizione che innalza l’Alighieri al ruolo di maestro delle cose di Dio. Non a caso le citazioni del poema abbondano quando affronta temi particolarmente rilevanti, come l’amore di Dio; oppure quando parla del giubileo; numerosi sono poi i documenti che riflettono sul significato simbolico della città di Roma (in cui, a sostegno delle argomentazioni, viene citato If II 22-24 e Pg XXXII 102, evidenziando il significato provvidenziale che il poeta attribuisce all’Urbe).
Albino Luciani è ricordato dalla storia per il suo brevissimo pontificato, ma pur nella esiguità dei documenti del suo magistero, la fonte dantesca non passa sotto silenzio: l’Alighieri, infatti, è uno degli autori più citati dal papa bellunese. La prima interessante presenza si nota nella raccolta, pubblicata nel 1976, sotto il titolo di Illustrissimi. Lettere del Patriarca, in cui non mancano riferimenti danteschi espliciti, tra i quali i più interessanti si ravvisano nella lettera indirizzata a Casella, amico di Dante e personaggio della Commedia. -Tra i documenti che precedono l’elezione al soglio di Pietro, il più interessante è il messaggio quaresimale del 31 gennaio 1978, che risulta essere un vero e proprio microsaggio sul Purgatorio, perché il suo esordio trae spunto proprio da questa cantica.
Durante il periodo del pontificato, Giovanni Paolo I, sceglie di citare Dante nell’udienza generale del 20 settembre 1978, richiamando alla memoria l’esame teologico sulla speranza che il poeta affronta nel paradiso (Pd XXV).
Se per Paolo VI e per i suoi predecessori la scrittura dantesca assume una notevole rilevanza come auctoritas, nei discorsi di Giovanni Paolo II la vastissima gamma di citazioni, oltre che emergere nelle più svariate occasioni, predomina nelle riflessioni che hanno per argomento l’arte e il ruolo dell’artista.
Nel caso del pontefice polacco tale preponderanza assume un particolare rilievo perché, prima dell’elezione papale, Wojtyla è stato drammaturgo e poeta.
Il riuso di Dante si intravede non solo nei documenti ufficiali del magistero wojtyliano, ma anche nella sua produzione letteraria, in cui, al di là delle tracce intertestuali (irrisorie a mio parere), è possibile un accostamento a Dante, considerando non solo la concezione del ruolo del poeta e della poesia, ma anche lo sviluppo di alcuni nuclei tematici, ad esempio: il legame con le terra natia; la ricerca problematica di Dio; l’attenzione alla storia contemporanea considerata nella prospettiva escatologica; l’incontro con l’uomo, la concezione dell’io autoriale come “poeta visionario”. Si possono notare anche confluenze dal punto di vista stilistico come, ad esempio, l’insistenza sulle sfere semantiche dell’acqua, del fuoco, della luce, del viaggio, e ciò soprattutto nell’ultimo lavoro poetico, risalente al 2003: il Trittico romano.
Interessanti sono anche i documenti ad argomento prettamente dantesco. Tra questi, molto significativa è la lettera indirizzata a Mieczyslaw Kotlarczyk, datata 27 maggio 1964 e risalente al periodo in cui Karol Wojtyla era vescovo di Cracovia. Come già nel magistero dei suoi predecessori, anche nei documenti di Giovanni Paolo II le presenze dantesche non sono sporadiche e casuali: numerosissime sono quelle mariane, (desunte essenzialmente da Pd XXIII 73-74, Pd XXIII 88-89 e Pd XXXII 85-87, da Pd XXXIII 1-18). Tra le citazioni ricorrenti si annovera quella riferita all’Ulisse dantesco (If XXVI 118-120) e quella che descrive la scelta ascetica di san Pier Damiani (Pd XXI 117).
La Commedia non è ignorata neanche da papa Ratzinger. È esemplare in tal senso il messaggio per l’incontro promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum, il 23 gennaio 2003 in cui il pontefice, sin dall’esordio, afferma di aver attinto da Dante lo stimolo per elaborare l’intera prolusione. La fonte dantesca è, inoltre, ridondante nei discorsi mariani: è come se i luoghi topici della mariologia dantesca avessero delineato in modo talmente ineguagliabile il profilo di santità della Madre divina, da pretendere di essere richiamati alla memoria, proprio per la loro ineguagliabile bellezza.
* Scheda: Cineca Iris (Università di Foggia, Tesi di dottorato - 24-giugno-2014).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
Santo del giorno
Solennità di Cristo Re
Ricorrenza: 22 novembre *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
« Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re.
Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire.
In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo.
Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo «ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ».
Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: «Il mio regno non è di questo mondo».
L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Santo del giorno, 22 novembre (ripresa parziale e senza immagine).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano
"La nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000, in sostituzione della precedente - la prima - emanata il 7 giugno 1929 dal Papa Pio XI di v.m., è entrata in vigore il 22 febbraio 2001, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
Come ben illustrato nell’introduzione della nuova Legge, il Sommo Pontefice ha "preso atto della necessità di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano". Allo scopo, pertanto, di "renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso, che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della Sua missione nel mondo", di Suo Motu Proprio e certa scienza, con la pienezza della Sua sovrana autorità, ha promulgato la seguente Legge:
Art. 1
1. Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. [...] (Acta Apostolicae Sedis, Supplemento, 01.02.2001)
FLS
DANTE 2021: DUE SOLI. "Sogno un’Europa sanamente laica" (papa Francesco, Lettera all’Europa) *
Laicismo.
Crocifisso nelle aule scolastiche senza pace, questa volta va in Cassazione
Rimessa alla decisione delle Sezioni unite la questione sollevata dalla battaglia legale di un insegnante di lettere toscano che chiede di rimuovere il simbolo cristiano durante le sue lezioni
di Marcello Palmieri (Avvenire, sabato 31 ottobre 2020)
Crocifisso sì o crocifisso no? Il simbolo cristiano divenuto nei secoli anche immagine di "laicissimi" e condivisi valori universali, torna di nuovo nelle aule giudiziarie. Ma non sul muro : sul banco degli imputati.
A portarcelo, stavolta, è un insegnante di lettere toscano, che ha ingaggiato da anni una battaglia legale contro il proprio dirigente scolastico - e pure contro l’assemblea dei suoi studenti - per vedersi riconoscere il diritto di staccare dal muro delle aule il crocifisso durante le ore delle proprie lezioni.
La vicenda, ora, è arrivata in Cassazione. Dove la Sezione lavoro, ritenendo la causa di particolare importanza, ha deciso di rimetterla al primo presidente della Corte, perché la devolva alle Sezioni unite. Così facendo, la pronuncia avrà un grande valore : difficilmente, infatti, i giudici territoriali potranno decidere in modo difforme eventuali casi analoghi che dovessero presentarsi successivamente in Italia.
Ma, già ora, sorge una perplessità di fondo: solitamente la Cassazione decide a Sezioni unite le questioni sulle quali si era formato un contrasto giurisprudenziale. Spesso, infatti, situazioni quasi uguali vengono risolte dai giudici in modo diverso, e lo stesso accade anche tra le diverse sezioni della medesima Cassazione.
Sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, però, sembrava non esserci più alcun dubbio. Il Consiglio di Stato nel 2006 aveva stabilito che « è un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, etc...) », che hanno sì un’origine religiosa, ma che pure « delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato ». Da qui, dunque, l’idea che « il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica, altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni ».
E che il crocifisso potesse rimanere nelle scuole l’ha detto più di recente, nel 2011, anche la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, massima istanza della Cedu : « È un simbolo essenzialmente passivo - hanno scritto i giudici di Strasburgo, decidendo la causa intentata da Soile Lautsi, un’italiana di origini finlandesi, contro il nostro Pese - che non contrasta né con il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli né con la libertà di pensiero, coscienza e religione. E se è vero che questa icona « dà alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico », è pur sempre una discrezionalità dello Stato - insindacabile dalla Corte europea - quello di decidere dove esporlo.
Ma ecco che l’ordinanza di remissione alle Sezioni unite della Cassazione mette in dubbio proprio questa "passività" riconosciuta dalla Cedu : « Si potrebbe dubitare dell’asserito ruolo passivo - hanno scritto i giudici della Sezione lavoro - qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama ».
Ma per Angelo Salvi, giurista del Centro Studi Livatino, questa perplessità « non sembra valorizzare l’eredità più importante del causo Lautsi, che consiste nell’individuazione del perimetro nel quale va delimitato il concetto di neutralità religiosa ».
In parole povere : secondo la Cedu, lo Stato non deve astenersi da qualsiasi richiamo religioso. Semplicemente, gli viene chiesto di non offendere i diritti di ognuno in relazione al proprio credo. Cosa che, ovviamente, un crocifisso appeso al muro non può fare. Ma attenzione : diversamente - è sempre Salvi a notarlo - si rischierebbe di « virare verso un modello di laicità "rigida" alla francese, che si declina in termini di incompatibilità con la religione ».
L’Italia e il crocifisso, una controversia infinita
Dall’Europa l’ultimo sì, ’la sua esposizione non lede la libertà religiosa’
di Redazione ANSA 01 ottobre 2019
ROMA L’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole, nelle aule di giustizia e nei seggi elettorali - è legittima o è in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini, di libertà di religione e di laicità dello Stato ? La controversa questione - che contrappone da decenni cattolici e laici - si ripropone periodicamente e torna ora di nuovo di attualità alla luce delle ultime affermazioni del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, il quale ha detto di ritenere l’esposizione della croce nelle aule scolastiche "una questione divisiva" e di preferire una "scuola laica", suscitando reazioni di disapprovazione da parte del mondo cattolico, favorevoli da parte degli atei e degli agnostici. Sull’argomento, l’ultima pronuncia giurisdizionale di rilievo si è avuta nel 2011 ed è stata della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, che, accogliendo un ricorso dell’Italia, ha definitivamente ritenuto legittima l’esposizione del crocifisso, ribaltando una sentenza di segno opposto della stessa Corte europea.
La vicenda giudiziaria, durata quasi nove anni, ebbe origine in una scuola di Abano Terme e seguì un iter complesso : IL FATTO - Il 27 maggio 2002 il Consiglio di Istituto della scuola Vittorino da Feltre di Abano Terme (Padova) respinge il ricorso della famiglia di due alunne e decide che possono essere lasciati esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, ed in particolare il crocifisso, unico simbolo esposto.
IL RICORSO - La decisione del Consiglio di Istituto viene impugnata dalla madre delle due alunne davanti al Tar del Veneto. Nel ricorso si sostiene che la decisione del Consiglio di Istituto sarebbe in violazione del principio supremo di laicità dello Stato, che impedirebbe l’esposizione del crocifisso e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, perche’ violerebbe la "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose".
LA POSIZIONE DEL MINISTERO - Il Ministero dell’Istruzione, costituitosi nel giudizio, sottolinea che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti : uno del 1924, n. 965 ; l’altro del 1928, n. 1297 Tali norme, per quanto lontane nel tempo, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato n.63 del 1988.
LA PRIMA DECISIONE DEL TAR, ATTI ALLA CONSULTA - Il Tar compie un esame delle norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso a scuola e conclude che esse sono tuttora in vigore. Rimette, tuttavia, gli atti alla Corte costituzionale. La norma che prescrive l’obbligo di esposizione del crocifisso - scrivono i giudici - sembra delineare "una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio", che apparirebbe in contrasto con il principio di laicità dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE, RICORSO INAMMISSIBILE - La Consulta dichiara inammissibile il ricorso : le norme sull’esposizione del crocifisso a scuola sono "norme regolamentari", prive "di forza di legge" e su di esse "non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale". Gli atti tornano al Tar.
SECONDA DECISIONE TAR, CROCE NON CONTRASTA CON LAICITA’ - Il crocifisso, "inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato". Si conclude con queste parole la sentenza del 2005 con la quale il Tar rigetta il ricorso della madre della due alunne di Abano.
IL CONSIGLIO DI STATO, CROCIFISSO HA FUNZIONE EDUCATIVA - Il Consiglio di Stato chiude la parte italiana della vicenda, con il rigetto definitivo del ricorso della madre delle due alunne.
Il crocifisso - scrivono i giudici - non va rimosso dalle aule scolastiche perché ha "una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni" ; non è né solo "un oggetto di culto", ma un simbolo "idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili" - tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua liberta’, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione - che hanno un’origine religiosa, ma "che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato".
CORTE EUROPEA BOCCIA ITALIA, POI RIMETTE A GRANDE CAMERA - Il 3 novembre 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo boccia l’Italia : il crocifisso appeso nelle aule scolastiche - rileva la Corte - è violazione della liberta’ dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni. Il governo italiano ricorre e la Corte europea decide di affidare la soluzione del caso alla Grande Camera.
GRANDE CAMERA STRASBURGO ASSOLVE L’ITALIA. Con la sentenza del 18 marzo 2011 la Grande Camera ribalta il verdetto della Corte e dice definitivamente sì all’Italia, ritenendo che l’ esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli altri luoghi pubblici non possa essere considerato un elemento di "indottrinamento" e dunque non comporta una violazione dei diritti umani. "Le autorità - dice la Grande Camera - hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’Italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche".
FLS
Caro Papa Francesco.
Finché è ancora in tempo, per favore cambi il titolo della nuova encliclica. *
Quel ’Fratelli’ (senza sorelle) non si può usare nel 2020.
Lei ci ha insegnato il peso delle parole.
Il titolo si mangerà il contenuto.
L’altro nome di Francesco è Chiara.
(Luigino Bruni - Twitter, 23 settembre 2020).
*
Religiosità e criminalità.
Liberare la Madonna dalle mafie. Messaggio di papa Francesco
di Filippo Rizzi ed Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
La devozione mariana va salvaguardata da una religiosità fuorviata. Nel mirino «gli inchini» delle statue ai boss nelle processioni e la presenza dei clan nelle feste patronali
Liberare la Madonna dalla mafia. È il senso del nuovo intervento che papa Francesco ha voluto fare inviando un messaggio al francescano minore padre Stefano Cecchin presidente della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami), che ha deciso di porre il tema «religiosità e criminalità» al centro del proprio lavoro, dando vita a un Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio, a cui sono stati chiamati anche esperti esterni, rappresentati da magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile. È a loro che si rivolge il Papa nel messaggio inviato in vista del convegno che la Pami realizzerà il 18 settembre prossimo.
«La devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza - scrive Francesco nel suo messaggio datato significativamente 15 agosto, festa dell’Assunzione -, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà».
Il riferimento, neppure troppo velato, è all’uso che le varie mafie fanno degli eventi religiosi - processioni e feste patronali in particolare - per mostrare la propria presenza sul territorio e anche per creare consenso facendo proprio leva attraverso la fede popolare. Negli anni passati accadeva spesso di leggere degli “inchini” che le statue della Madonna o del santo patrono, facevano verso la casa del boss locale, segno di omaggio e, nello stesso tempo, di riaffermazione del potere in quel territorio. Leggi anche
E il Pontefice, che già in passato ha fatto sentire la propria voce contro il crimine organizzato e le varie mafie, ribadisce con forza come sia «necessario che lo stile delle manifestazioni mariane sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa».
Ecco allora che uno «dei criteri per verificare ciò, è l’esempio di vita dei partecipanti a tali manifestazioni, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana mediante una sempre più salda adesione a Cristo e una generosa donazione ai fratelli, specialmente i più poveri». Insomma le comunità locali vigilino sulle feste patronali e soprattutto su coloro che in quelle occasioni si presentano come devoti, nascondendo intenti tutt’altro che devozionali. E ai fedeli, quelli veri, papa Francesco chiede di «assumere atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece a una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Invito che il Pontefice estende anche ai Santuari mariani, affinché «diventino sempre più cittadelle della preghiera, centri di azione del Vangelo, luoghi di conversioni, caposaldi di pietà mariana, a cui guardano con fede quanti sono alla ricerca della verità che salva». Dunque, conclude il Papa, ben venga questo lavoro che la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) intende avviare con la creazione del Dipartimento.
Un passo nuovo, che coinvolge anche le realtà del territorio non solo legate alle parrocchie o alle diocesi. Del resto queste ultime, in particolare nelle regioni con la maggior presenza delle organizzazioni di stampo mafioso, già da tempo sono intervenute con documenti e anche decisioni che hanno portato alla rottura con il passato.
Lo stesso papa Francesco, come abbiamo detto, ha espresso con forza l’impossibilità di far convivere una fede religiosa autentica e l’appartenenza alla mafia. Nella spianata di Sibari, durante la sua visita alla diocesi di Cassano all’Jonio il 21 giugno 2014, papa Bergoglio nell’omelia della Messa arrivò a dire che «coloro che seguono nella loro vita questa strada del male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati».
Concetto ribadito nell’omelia della Messa celebrata poco più di quattro anni dopo (il 15 settembre 2018) a Palermo in ricordo del beato don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore».
Per questo «ai mafiosi dico: cambiate fratelli e sorelle. Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle. Io dico a voi mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».
E se, come disse nella visita a Napoli il 21 marzo 2015, «un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza», papa Francesco richiama tutti i credenti a essere vigilanti contro le distorsioni che della devozione mariana viene fatta. Un compito che richiama le coscienze di tutti all’impegno. E a non voltare le spalle quando si manifestano lungo i borghi della nostra Penisola queste deviate devozioni religiose.
Pami.
Culto mariano, un laboratorio per difendere la devozione dalla criminalità
Teologi, ma anche magistrati e giudici, nel Dipartimento creato nella Pontificia accademia Padre Roggio: studiare le cause delle deviazioni. Il criminologo Iadeluca: riti per odio e omertà
di Filippo Rizzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
Un dipartimento ad hoc all’interno della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) per studiare i fenomeni criminali e mafiosi e così «liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose». È quanto è allo studio di questa Istituzione pontificia per evitare di strumentalizzare la figura della Vergine da parte dei boss e dei clan criminali presenti nel nostro Paese: dalla Lombardia alla Calabria. Un centro studi sorto soprattutto sulla scorta dei recenti interventi di papa Francesco a questo riguardo: tra questi in particolare quello pronunciato, il 21 giugno del 2014, dove il Vescovo di Roma nella piana di Sibari in Calabria pronunciò parole inequivocabili: «La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati».
E il prossimo 18 settembre a Roma la Pami nel corso di un convegno traccerà le linee guida di questo nuovo Dipartimento che coinvolge (una trentina di persone): non solo teologi e mariologi ma anche magistrati (molto di loro della Dda, Direzione distrettuale antimafia), criminologi, avvocati, membri delle Forze dell’Ordine e sindaci di importanti città.
«Persone che ogni giorno - spiega il mariologo padre Gian Matteo Roggio, appartenente alla Congregazione dei missionari di Nostra Signora della Salette e tra i principali ispiratori di questa nuova sezione della Pami - si confrontano con il fenomeno mafioso, lo contrastano all’insegna della cultura della legalità. In un certo senso come recita il documento programmatico di questo nuovo dipartimento siamo chiamati tutti a un autentica “teologia della liberazione” dalle mafie».
Un evento assicurano gli organizzatori che ha anche il sostegno di papa Francesco. «Per il Convegno - racconta padre Roggio - il Papa ha inviato un messaggio chiaro e forte che porta la data del 15 agosto scorso. E caso singolare il documento reca la firma di Francesco dal palazzo del Laterano il luogo adiacente alla Cattedrale di Roma. In questo testo Francesco chiede a chi si professa autenticamente cristiano di salvaguardare la devozione mariana nella sua originaria purezza».
L’auspicio di questa task force di esperti è proprio quella di liberare anche idealmente luoghi simbolo come alcuni Santuari mariani del nostro Meridione - basti pensare - a quello della “Madonna di Polsi” nel cuore dell’Aspromonte dall’uso distorto di devozioni che ne fanno oggi le mafie odierne. «Il rito dell’iniziazione è la liturgia che accompagna l’ingresso del neofita nell’organizzazione.
È simile al “Battesimo” e deve essere considerata una “sorta di rinascita”, ovvero la nascita a nuova vita - spiega il criminologo Fabio Iadeluca -. Nella ’ndrangheta, in modo particolare rispetto a cosa nostra, alla camorra, alla sacra corona unita ed altre forme associative mafiose pugliesi, le forme rituali rappresentano l’essenza stessa dell’organizzazione e ne disciplina la vita dei suoi affiliati».
E aggiunge un dettaglio: «Monitorando questi episodi e intercettazioni ambientali a preoccuparci è stata l’adulterazione delle tradizionali venerazioni alla Madonna o ad importanti santi del Sud, penso in particolare a san Michele Arcangelo che con queste pratiche si trasformano in figure vendicatrici e cariche di odio; si tratta di usanze che servono a tutelare tutta una rete di omertà su cui si reggono queste realtà. Sono quasi sempre riti di iniziazione violenti con l’uso di santini e immagini sacre provenienti dal nostro patrimonio di fede cattolica».
Agli occhi di padre Roggio l’appuntamento di settembre servirà a fare chiarezza su quanto il magistero ecclesiale dice a riguardo. «Non è in discussione quanto da tempi non sospetti la Chiesa - è l’osservazione - si sia pronunciata per dire no a questi fenomeni e ribadire che tutto questo non appartiene alla corretta dottrina e spiritualità. Ma lo sforzo ulteriore che il nostro osservatorio vuole offrire è di andare alle radici culturali e antropologiche che fanno scaturire queste deviazioni religiose». Una sfida dunque di lungo termine.
«Penso che gli esempi di don Diana e don Puglisi e di come la Chiesa abbia mostrato proprio ai boss - è la riflessione finale - che questi miti sacerdoti erano dei modelli da imitare e non il contrario. Spesso viene usata dalla “cultura mafiosa” la figura della Vergine come un modello di obbedienza passiva di fronte al potere dominante. Essa viene raffigurata come una donna capace “oleograficamente” solo di piangere per la morte di un figlio. Bisogna dire basta a questo uso distorto dell’immagine della Madonna e ricordare attraverso la voce di tutti che ogni atto compiuto nella sua vita terrena e celeste è stato quello di essere in ascolto di tutti e in comunione fraterna con tutti gli uomini di buona volontà proprio come ci mostra il Vangelo quando ci parla di Lei a cominciare dal suo “fiat” all’arcangelo Gabriele».
Leonardo Boff fa il pelo e il contropelo a Vittorio Messori per il suo articolo sul “Corriere” *
Appoggio al Papa Francesco contro uno scrittore nostalgico
di Leonardo Boff, teologo brasiliano *
Ho letto con un po’ di tristezza l’articolo critico di Vittorio Messori sul Corriere della Sera esattamente nel giorno meno adatto: la felice notte di Natale, festa di gioia e di luce. Lui ha provato a danneggiare questa gioia al buon pastore di Roma e del mondo, Papa Francesco. Ma invano perché non conosce il senso di misericordia e di spiritualità di questo Papa, virtù che sicuramente non dimostra Messori. Dietro parole di pietà e di comprensione porta un veleno. E lo fa in nome di tanti altri che si nascondono dietro di lui e non hanno il coraggio di apparire in pubblico.
Voglio proporre un’altra lettura di Papa Francesco, come contrappunto a quella di Messori, un convertito che, a mio parere, ancora deve portare a termine la sua conversione con il ricevimento dello Spirito Santo, per non dire più le cose che ha scritto.
Messori dimostra tre insufficienze: due di natura teologica e un’altra di comprensione della Chiesa del Terzo Mondo.
Lui si è scandalizzato per la “imprevedibilità” di questo pastore perché “continua a turbare la tranquillità del cattolico medio”. Bisogna chiedersi della qualità della fede di questo “cattolico medio”, che ha difficoltà ad accettare un pastore che ha l’odore delle pecore e che annuncia “la gioia del vangelo”. Sono, generalmente, cattolici culturali abituati alla figura faraonica di un Papa con tutti i simboli del potere degli imperatori pagani romani. Adesso appare un Papa “francescano” che ama i poveri, che non “veste Prada”, che fa una critica dura al sistema che produce miseria nella gran parte del mondo, che apre la Chiesa non solo ai cattolici ma a tutti quelli che portano il nome di “uomini e donne”, senza giudicarli ma accogliendoli nello spirito della “rivoluzione della tenerezza” come ha chiesto ai vescovi dell’America Latina riuniti l’anno scorso a Rio.
C’è un grosso vuoto nel pensiero di Messori. Queste sono le due insufficienze teologiche: la quasi assenza dello Spirito Santo. Direi di più, che incorre nell’errore teologico del cristomonismo, cioè, solo Cristo conta. Non c’è propriamente un posto per lo Spirito Santo. Tutto nella Chiesa si risolve con il solo Cristo, cosa che il Gesù dei Vangeli esattamente non vuole. Perché dico questo? Perché quello che lui deplora è la “imprevedibilità” della azione pastorale di questo Papa. Or bene, questa è la caratteristica dello Spirito, la sua imprevedibilità, come lo dice San Giovanni: “Lo Spirito soffia dove vuole, ascolti la sua voce, però non sai da dove viene né verso dove va”(3,8). La sua natura è la improvvisa irruzione con i suoi doni e carismi. Francesco di Roma nella sequela di Francesco d’Assisi si lascia condurre dallo Spirito.
Messori è ostaggio di una visione lineare, propria del suo “amato Joseph Ratzinger” e di altri Papi anteriori. Purtroppo, fu questa visione lineare che ha fatto della Chiesa una cittadella, incapace di comprendere la complessità del mondo moderno, isolata in mezzo alle altre Chiese ed ai cammini spirituali, senza dialogare e imparare dagli altri, anche essi illuminati dallo Spirito. Significa essere blasfemi contro lo Spirito Santo pensare che gli altri hanno pensato solo in modo sbagliato. Per questo è sommamente importante una Chiesa aperta come la vuole Francesco di Roma. Bisogna che sia aperta alle irruzioni dello Spirito chiamato da alcuni teologi “la fantasia di Dio”, a motivo della sua creatività e novità, nelle società, nel mondo, nella storia dei popoli, negli individui, nelle Chiese e anche nella Chiesa Cattolica.
Senza lo Spirito Santo la Chiesa diventa un’istituzione pesante, noiosa, senza creatività e, ad un certo punto, non ha niente da dire al mondo che non siano sempre dottrine sopra dottrine, senza suscitare speranza e gioia di vivere.
È un dono dello Spirito che questo Papa venga da fuori della vecchia cristianità europea. Non appare come un teologo sottile, ma come un Pastore che realizza quello che Gesù ha chiesto a Pietro: “conferma i fratelli nella fede”(Lc 22,31). Porta con se l’esperienza delle chiese del Terzo Mondo, specificamente, quelle della America Latina.
Questa è una altra insufficienza di Messori: non avere la dimensione del fatto che oggi come oggi il cristianesimo è una religione del Terzo Mondo, come ha accentuato tante volte il teologo tedesco Johan Baptist Metz. In Europa vivono solo il 25% dei cattolici; il 72,56% vive nel Terzo Mondo (in America Latina il 48,75%). Perché non può venire da questa maggioranza uno che lo Spirito l’ha fatto vescovo di Roma e Papa universale? Perché non accettare le novità che derivano da queste chiese, che già non sono chiese-immagine delle vecchie Chiese europee ma chiese-sorgenti con i loro martiri, confessori e teologi?
Forse nel futuro, la sede del primato non sarà più Roma e la Curia, con tutte le proprie contradizioni, denunciate da Papa Francesco nella riunione dei Cardinali e dei prelati della Curia con parole sentite solo nella bocca di Lutero e con meno forza nel mio libro condannato dal card.J.Ratzinger “Chiesa: carisma e potere”(1984), ma là dove vive la maggioranza dei cattolici: in America, Africa o Asia. Sarebbe un segno proprio della vera cattolicità della Chiesa all’interno del processo di globalizzazione del fenomeno umano.
Speravo in maggiore intelligenza e apertura di Vittorio Messori con i suoi meriti di cattolico, fedele a un tipo di Chiesa e rinomato scrittore. Questo Papa Francesco ha portato speranza e gioia a tanti cattolici e ad altri cristiani. Non perdiamo questo dono dello Spirito in funzione di ragionamenti piuttosto negativi su di lui.
Leonardo Boff, 1938, Brasile, teologo della liberazione e scrittore con molte opere tradotte in italiano.
Sito: www.leonardoboff.com - Blog: leonardoboff.wordpres.com
* FONTE: NOI SIAMO CHIESA, 28.12.2014
Primato e infallibilità
A 150 anni dalla proclamazione dei dogmi
di Sergio Centofanti (L’Osservatore Romano, 17 luglio 2020)
Centocinquant’anni fa, il 18 luglio 1870, veniva promulgata la costituzione Pastor Aeternus che definiva i due dogmi del primato del Papa e dell’infallibilità pontificia.
Lunghe e agitate discussioni
La costituzione dogmatica venne approvata all’unanimità dai 535 padri conciliari presenti «dopo lunghe, fiere e agitate discussioni», come ebbe a dire Paolo VI durante un’udienza generale, descrivendo quella giornata come «una pagina drammatica della vita della Chiesa, ma non per questo meno chiara e definitiva» (Udienza generale 10 dicembre 1969). Ottantatré i padri conciliari che non parteciparono al voto. L’approvazione del testo arrivò nell’ultimo giorno del concilio Vaticano i, sospeso in seguito alla guerra franco-prussiana iniziata il 19 luglio 1870 e prorogato “sine die” in seguito alla presa di Roma da parte delle truppe italiane, il 20 settembre di quello stesso anno, che sancì di fatto la fine dello Stato pontificio. La costituzione rispecchia una posizione intermedia tra le varie riflessioni dei partecipanti, escludendo per esempio che la definizione di infallibilità fosse estesa integralmente anche alle encicliche o ad altri documenti dottrinali. Ai contrasti emersi nel concilio, seguì lo scisma dei vetero-cattolici che non vollero accettare il dogma sul magistero infallibile del Papa.
Il dogma sulla razionalità e soprannaturalità della fede
I due dogmi vennero proclamati dopo quello sulla razionalità e la soprannaturalità della fede, contenuto nell’altra costituzione dogmatica del concilio Vaticano i Dei Filius del 24 aprile 1870. Il testo afferma che «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di Lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (Romani, 1, 20)». Questo dogma - spiegava Paolo VI nell’udienza del 1969 - riconosce che «la ragione, con le sue sole forze, può raggiungere la conoscenza certa del Creatore attraverso le creature. La Chiesa difende così, nel secolo del razionalismo, il valore della ragione», sostenendo da una parte «la superiorità della rivelazione e della fede sulla ragione e sulle sue capacità», ma dichiarando, d’altra parte, che «nessun contrasto può esserci tra verità di fede e verità di ragione, essendo Dio la fonte dell’una e dell’altra».
Il dogma sul primato
Nella Pastor Aeternus, Pio IX, prima della proclamazione del dogma sul primato, ricorda la preghiera di Gesù al Padre perché i suoi discepoli siano «una cosa sola»: Pietro e i suoi successori sono «l’intramontabile principio e il visibile fondamento» dell’unità della Chiesa. Quindi, afferma solennemente: «Proclamiamo dunque ed affermiamo, sulla scorta delle testimonianze del Vangelo, che il primato di giurisdizione sull’intera Chiesa di Dio è stato promesso e conferito al beato Apostolo Pietro da Cristo Signore in modo immediato e diretto (...) Ciò che dunque il Principe dei pastori, e grande pastore di tutte le pecore, il Signore Gesù Cristo, ha istituito nel beato Apostolo Pietro per rendere continua la salvezza e perenne il bene della Chiesa, è necessario, per volere di chi l’ha istituita, che duri per sempre nella Chiesa la quale, fondata sulla pietra, si manterrà salda fino alla fine dei secoli (...) Ne consegue che chiunque succede a Pietro in questa Cattedra, in forza dell’istituzione dello stesso Cristo, ottiene il Primato di Pietro su tutta la Chiesa (...) tutti, pastori e fedeli, di qualsivoglia rito e dignità, sono vincolati, nei suoi confronti, dall’obbligo della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza, non solo nelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle relative alla disciplina e al governo della Chiesa, in tutto il mondo. In questo modo, avendo salvaguardato l’unità della comunione e della professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo sarà un solo gregge sotto un solo sommo pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi senza perdita della fede e pericolo della salvezza».
Il Magistero infallibile del Papa
Nel primato del Papa - scrive Pio IX - «è contenuto anche il supremo potere di magistero», conferito a Pietro e ai suoi successori «per la salvezza di tutti», come «conferma la costante tradizione della Chiesa (...) Ma poiché proprio in questo tempo, nel quale si sente particolarmente il bisogno della salutare presenza del ministero Apostolico, si trovano parecchie persone che si oppongono al suo potere, riteniamo veramente necessario proclamare, in modo solenne, la prerogativa che l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di legare al supremo ufficio pastorale. Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa».
Quando ricorre l’infallibilità
Giovanni Paolo II ha spiegato il senso e i limiti dell’infallibilità nell’udienza generale del 24 marzo 1993: «L’infallibilità - ha affermato - non è data al Romano Pontefice come a persona privata, ma in quanto adempie l’ufficio di pastore e di maestro di tutti i cristiani. Egli inoltre non la esercita come avente l’autorità in se stesso e da se stesso, ma “per la sua suprema autorità apostolica” e “per l’assistenza divina a lui promessa nel Beato Pietro”. Infine, egli non la possiede come se potesse disporne o contarvi in ogni circostanza, ma solo “quando parla dalla cattedra”, e solo in un campo dottrinale limitato alle verità di fede e di morale e a quelle che vi sono strettamente connesse (...) il Papa deve agire come “pastore e dottore di tutti i cristiani”, pronunciandosi su verità riguardanti “fede e costumi”, con termini che manifestino chiaramente la sua intenzione di definire una certa verità e di richiedere la definitiva adesione ad essa di tutti i cristiani. È quanto avvenne - per esempio - nella definizione dell’Immacolata Concezione di Maria, circa la quale Pio IX affermò: “È una dottrina rivelata da Dio e dev’essere, per questa ragione, fermamente e costantemente creduta da tutti i fedeli”; o anche nella definizione della Assunzione di Maria Santissima, quando Pio XII disse: “Con l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, e con la nostra autorità, dichiariamo e definiamo come dogma divinamente rivelato... ecc.”. A queste condizioni si può parlare di magistero papale straordinario, le cui definizioni sono irreformabili “di per sé, non per il consenso della Chiesa” (...) I Sommi Pontefici possono esercitare questa forma di magistero. E ciò è di fatto avvenuto. Molti Papi però non lo hanno esercitato».
Cos’è un dogma
I dogmi sono verità di fede che la Chiesa insegna come rivelate da Dio (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, 74-95). Sono punti fermi del nostro credere. I principali sono questi: Dio è Uno e Trino; il Padre è creatore di tutte le cose; Gesù, il Figlio, è vero Dio e vero uomo, incarnato, morto e risorto per la nostra salvezza; lo Spirito Santo è Dio; la Chiesa è una, così come uno è il Battesimo. E poi ancora: il perdono dei peccati, la risurrezione dei morti, l’esistenza di Paradiso, Inferno e Purgatorio, la transustanziazione, la maternità divina di Maria, la sua verginità, la sua Immacolata concezione e la sua Assunzione. Tutte queste verità non sono astratte e fredde, ma vanno comprese nella grande verità di Dio che è amore e vuole partecipare la vita divina alle sue creature. Gesù rivela quali sono i comandamenti più grandi: l’amore di Dio e del prossimo (Matteo, 22, 36-40). Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore.
Dogmi e sviluppo della dottrina
Un dogma, dunque, è un punto saldo per la vita di fede. Viene definito dal Magistero della Chiesa che lo riconosce nella Sacra Scrittura come rivelato da Dio e in stretto legame con la Tradizione. La Tradizione, tuttavia, non è qualcosa di immobile e statico, ma - come dice Giovanni Paolo II (Lettera apostolica Ecclesia Dei) sulla scia dell’ultimo concilio - è viva e dinamica in quanto cresce l’intelligenza della fede. Non cambiano i dogmi, ma grazie allo Spirito Santo comprendiamo sempre di più l’ampiezza e la profondità delle verità di fede. Così, Papa Wojtyła può affermare «che l’esercizio del magistero concretizza e manifesta il contributo del Romano Pontefice allo sviluppo della dottrina della Chiesa» (Udienza generale, 24 marzo 1993).
Primato, collegialità, ecumenismo
Paolo VI, nell’udienza del 1969, rivendicava l’attualità del concilio Vaticano i e la connessione con il concilio successivo: «I due Concili Vaticani, primo e secondo, sono complementari» anche se differiscono non poco «per tanti motivi». Così, l’attenzione alle prerogative del Pontefice nel Vaticano i viene estesa nel Vaticano II a tutto il popolo di Dio con i concetti di «collegialità» e «comunione», mentre la focalizzazione sull’unità della Chiesa che ha in Pietro il punto di riferimento visibile si sviluppa in un forte impegno al dialogo ecumenico.
Tanto che Giovanni Paolo II nella Ut unum sint può lanciare un appello alle Comunità cristiane affinché si trovi una forma di esercizio del primato che, «pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova», come «servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint, 95). E Papa Francesco nella Evangelii gaudium parla di una «conversione del papato». «Il Concilio Vaticano II - osserva - ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente” (Lumen gentium, 23). Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (Evangelii gaudium, 32). E occorre ricordare che, secondo quanto affermato dal concilio Vaticano II, «l’infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro» (Lumen gentium, 25).
Amare il Papa e la Chiesa è costruire su Cristo
Al di là dei dogmi, Pio X ricordava, in una udienza del 1912, la necessità di amare il Papa e di obbedirgli e si diceva addolorato quando questo non accadeva. Don Bosco esortava i suoi collaboratori e i suoi ragazzi a custodire nel cuore i “tre amori bianchi”: l’Eucaristia, la Madonna e il Papa.
E Benedetto XVI il 27 maggio 2006, parlando a Cracovia con i ragazzi cresciuti con Giovanni Paolo II, spiega in parole semplici quanto affermano quelle verità di fede proclamate nel lontano 1870: -«Non abbiate paura a costruire la vostra vita nella Chiesa e con la Chiesa! Siate fieri dell’amore per Pietro e per la Chiesa a lui affidata. Non vi lasciate illudere da coloro che vogliono contrapporre Cristo alla Chiesa! C’è un’unica roccia sulla quale vale la pena di costruire la casa. Questa roccia è Cristo. C’è solo una pietra su cui vale la pena di poggiare tutto. Questa pietra è colui a cui Cristo ha detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Matteo, 16, 18). Voi giovani avete conosciuto bene il Pietro dei nostri tempi. Perciò non dimenticate che né quel Pietro che sta osservando il nostro incontro dalla finestra di Dio Padre, né questo Pietro che ora sta dinanzi a voi, né nessun Pietro successivo sarà mai contro di voi, né contro la costruzione di una casa durevole sulla roccia. Anzi, impegnerà il suo cuore ed entrambe le mani nell’aiutarvi a costruire la vita su Cristo e con Cristo».
DOPO I “VENTICINQUE SECOLI” DI DANTE, I "TREMILA ANNI" DI GOETHE, E I "MILLE ANNI DOPO DAVIDE E GIONATA" .. *
Idee.
Se gli amici fanno le ali della storia
La philia e l’eros dell’antica Grecia acquistano una diversa ricchezza di significato alla luce dell’agape evangelica. Il libro di Pietro Del Soldà
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 9 aprile 2020)
Uno degli effetti collaterali del covid19 è la ri-scoperta (o scoperta) della semantica dell’amicizia. Ci stiamo abituando a lezioni online, riunioni di lavoro via zoom, videochiamate, tesi di laurea online con il vestito buono e applauso dei genitori commossi e nascosti dietro la camera; ma ogni volta che terminiamo queste sessioni telematiche ci nasce, troppo spesso, una forte nostalgia per i nostri studenti, per i colleghi, per genitori e amici, per il bar dove andavamo per “consumare” prima la chiacchierata poi il caffé. Gli incontri che stanno continuando ad accadere in questa lunga quarantena non sono solo semplicemente incontri “virtuali” (parola che morirà con la fine della pandemia), sono comunque incontri ai quali mancano alcune dimensioni fondamentali, e tra queste il corpo. Ci sono voluti migliaia di anni per imparare a stare vicini a meno di un metro di distanza, a dare la mano allo sconosciuto per dirgli che su quella mano non c’era un pugnale, e poi ad abbracciare e baciare gli amici.
Ci sono voluti troppi millenni per apprendere l’arte delle distanze brevi per poter pensare di poterle dimenticare in pochi mesi. L’amicizia è l’arte delle distanze brevi. Distanze affettive, ma anche distanze fisiche, geografiche, spaziali. Perché se i verbi dell’amicizia sono quelli del tempo (fedeltà, durata, resilienza), anche i tempi dello spazio sono importanti: se non si va dall’amico o l’amicizia si è indebolita o c’è un ostacolo all’incontro o c’è solo un grande desiderio, come quello immenso che sta crescendo giorno dopo giorno. E mentre le distanze tra di noi sono cresciute, la lotta col virus si gioca sulla capacità di cura di medici e infermieri, che è anche talento delle mani, che devono toccare senza contaminare e contaminarsi.
L’ambivalenza della vita, la danza di communitas e immunitas, che ogni tanto diventa danza macabra. L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti e in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate, le mogli e i mariti, fratelli e sorelle, maestre, colleghi, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, moltissimo, gli amici e le amiche.
Il mondo greco per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, due parole che non esaurivano le molte forme dell’amore ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Un lessico che era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene detto» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che erano anche uguali. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, un tono già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita.
Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico. Il cristianesimo non ha inventato l’agape lo ha semplicemente visto ed esaltato. Tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente sono tutti presenti nell’amicizia, che non è solo philia. Non dobbiamo, infatti, commettere l’errore di pensare che l’amicizia sia espressa dalla sola parola philia. No. Perché anche nel mondo greco la philia non è mai sola, è la philia la prima ad avere bisogno di amici.
La philia è sempre accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter risorgere da fallimenti e fragilità. La philia poi lega l’eros e l’agape tra di loro e li affratella. In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci. Pochi dolori sono più grandi di quello per la morte di un amico - in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere. Non c’è soltanto una lotta radicale tra eros e tanatos; ce n’è un’altra, simile e diversa, tra philia e tanatos.
Il bel libro di Pietro del Soldà, noto conduttore di Radio3 e filosofo, dal titolo suggestivo Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro (Marsilio, pagine 152, euro 16), ci offre una occasione propizia per riflettere, oggi, sull’amicizia. Del Soldà lo fa a partire dalla filosofia e dal mondo greco. Questa mia pagina lo fa prendendo le mosse dalla Bibbia, una seconda radice profonda dell’Umanesimo occidentale. La Bibbia non parla molto di amicizia. Ma ne parla, e in alcuni libri le ha dato un posto centrale.
A partire dall’Adam, l’essere umano, che è anche amico di Dio, prima di essere amico della donna e degli altri uomini. E non certamente a caso in uno degli ultimi episodi dell’ultimo vangelo, quello di Giovanni, troviamo un bellissimo dialogo sull’amicizia: «Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [philia]?» ( Vangelo di Giovanni 21,15-17). Un gioco di parole e di verbi che si perde nelle lingue moderne, ma chiarissimo nell’originale greco.
Il libro di Giobbe, ad esempio, è composto essenzialmente di dialoghi con i suoi amici: «Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Levarono la loro voce e si misero a piangere » (Giobbe 2,11-12).
Dal contesto si capisce che questi uomini che si recano presso il mucchio di letame di Giobbe siano amici veri: vengono a sapere della sua sventura, lo vanno a trovare, siedono e piangono con lui. Ma lo sviluppo dei dialoghi di Giobbe ci mostrerà che quei quattro uomini che lo vanno a trovare non sono, in realtà, amici di Giobbe ma difensori di astratte teologie che si riveleranno nemiche dell’uomo e di quel Dio che volevano difendere. Le grandi prove della vita sono anche test che distinguono il grano degli amici dalla zizzania dei finti amici. Ecco perché tra i canti più belli di Giobbe c’è una un’amara e stupenda riflessione sull’amicizia e sull’esistere: «I miei amici sono incostanti come un torrente, come l’alveo dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti» (6,14-19).
Molti amici svaniscono nel tempo della sventura, e svanendo ci dicono che non erano amici. Ma è con Gionata, figlio di re Saul, che l’amicizia fa il suo grande ingresso nella Bibbia. Gionata è principe, è guerriero, ma è soprattutto l’amico. Questa amicizia prende le forme di un patto solenne, forse un “patto di sale”, dove la non corruzione del sale diceva simbolicamente il “per sempre”.
La Bibbia sa cos’è un patto- Alleanza, e se ricorre a questa parola per parlarci di un’amicizia, allora sta dicendo qualcosa di importante. Nell’Alleanza con Abramo, Dio passò in mezzo agli animali squarciati. Nei grandi patti d’amicizia, Dio passa “in mezzo” agli amici (Matteo 18,20). È quindi un patto che buca spazio e tempo. Coinvolge le nostre discendenze, i nostri figli che abbiamo e che avremo, genitori e nonni. I patti di amicizia, diversamente dai patti nuziali, non vengono in genere celebrati con la parola. Quasi sempre sono patti muti, non vengono pronunciati in pubblico. Qualche volta, però, in una amicizia che matura ci possono essere anche dei patti espliciti, celebrati anche con la parola. Sono, ad esempio, quei patti di amicizia alla base di nuove comunità e movimenti, civili o religiosi, generati da due o più amici che si dicono parole speciali in un momento speciale. Una grande amicizia biblica è quella tra Davide e Gionata, che prende la forma di un patto sacro, di un’alleanza solenne, di una vera e propria fraternità spirituale: la fraternità è una forma di amicizia. Un giorno Gionata, quando ormai infuriava la guerra civile tra suo padre Saul e Davide, aveva detto al suo amico Davide: «Andiamo ai campi» (20,11).
La Bibbia conosce molto bene questa frase. Era stata quella di Caino (4,8). L’amico è l’anti-Caino, qualcuno che ti invita ad andare nei campi non per ucciderci ma per salvarci. Sulla terra gli inviti di Caino, il fratricida, e quelli di Gionata, l’amico, coesistono, vivono l’uno accanto all’altro, si incrociano. Qualche volta scopriamo che l’altro non è Gionata ma Caino solo quando, arrivati nei campi, vediamo la sua mano diventare diversa. E sono i giorni più tristi. Altre volte scopriamo che chi pensavamo fosse Caino era in realtà Gionata. L’umanità continua la sua storia perché gli inviti di Gionata sono più numerosi degli inviti di Caino, perché le mani degli amici sono di più di quelle degli assassini.
Mille anni dopo Davide e Gionata, un altro amico dell’uomo, fondatore di una comunità di amici («non vi chiamo più servi ma amici»), fu messo su una croce da un’altra mano fratricida. Sotto la croce c’erano le donne, e un amico. Quella volta le donne e l’amico non riuscirono a salvarlo. Ma noi, suoi amici, continuiamo ad attenderlo, in compagnia di Abele e di tutte le vittime della storia. Lo aspettiamo perché ci ha promesso che tornerà, e perché la promessa dell’amico è vera.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO : IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA). SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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Storia.
Il fascino dei primi cristiani sui pensatori dell’antica Roma
Torna in libreria il saggio di Cochrane sui rapporti fra cristianesimo e cultura classica. La nuova religione divenne l’ancora di salvezza del mondo antico che si stava sfaldando
di Roberto Righetto (Avvenire, mercoledì 1 aprile 2020)
Opportunamente il cardinal Ravasi, in uno dei suoi recenti articoli sul Domenicale del “Sole24Ore”, ricordava come una lettera di Plinio il Giovane del 110-111 d.C. sia uno dei primi documenti storici attestanti la rilevanza del cristianesimo. Scrivendo all’imperatore Traiano, il nipote del naturalista morto nella tragica eruzione del Vesuvio del 79 metteva in guardia da quella che giudicava «una superstizione perversa e sfrenata». Ma non poteva al contempo non riconoscere la novità di vita condotta dai discepoli di Cristo, segnalando come fosse loro «consuetudine riunirsi prima dell’alba di un giorno stabilito (la domenica), recitare a turno un inno a Cristo come se fosse un dio e impegnarsi con un giuramento non a compiere qualche delitto, ma a non commettere né furti, né rapine, né adulteri, a non tradire la parola data e a non negare la restituzione di un deposito se fosse stato loro richiesto. Al termine di queste cerimonie se ne andavano e si ritrovavano per consumare un pasto, usuale e innocuo». Si tratta della lettera catalogata X, 96 e rientra all’interno dell’epistolario pliniano costituito di oltre 350 lettere giunte sino a noi. Testimonianza della critica severa da parte dell’èlite romana verso i cristiani, una critica che in molti casi non poteva nascondere un senso di ammirazione.
Come avrebbe fatto due secoli e mezzo dopo Giuliano l’Apostata: pur denigrando il culto cristiano e cercando di ripristinare l’antico paganesimo rinnegando Costantino e i suoi successori, fu costretto ad ammettere che i suoi rivali nella fede compivano un’opera caritativa considerevole, aperta non solo ai propri fedeli ma a tutti i poveri e gli indigenti. È lunga la scia degli studi che si sono occupati del confronto fra paganesimo e cristianesimo, che come abbiamo visto nei primi tempi assunse le caratteristiche di un vero e proprio scontro con ondate di persecuzioni messe in atto dagli imperatori. Si va dai classici Burckhardt e Gibbon, più portati ad accusare la nuova religione di aver provocato il crollo dell’impero romano, a Mazzarino, Marrou, Jaeger, Dodds e Momigliano, più propensi a valorizzare l’apporto cristiano alla civiltà occidentale.
Ora le Edizioni Dehoniane di Bologna rimandano in libreria un saggio importante dedicato alla questione: si tratta di Cristianesimo e cultura classica di Charles Norris Cochrane (pagine 686, euro 38), a lungo professore di Storia antica all’università di Toronto. Uscito per la prima volta nel 1940, il testo in Italia fu tradotto nel 1969 proprio da Edb con un’introduzione di Vincenzo Cilento e dunque riappare 50 anni dopo nelle nostre librerie.
Cochrane si cimenta in un’impresa ardua, «la trasformazione del mondo di Augusto e di Virgilio in quello di Teodosio e di sant’Agostino», e ripercorre i primi quattro secoli della nostra era descrivendo in maniera esaustiva la Weltanschauung dell’impero romano da Augusto a Costantino, che decretò la libertà religiosa, fino a Teodosio, che impose il cristianesimo come religione di stato, e oltre, indagando le dinamiche politiche, ma anche le tendenze culturali prevalenti.
Se nel primo secolo le comunità cristiane si dimostrano piuttosto remissive verso l’impero pensando soprattutto a salvaguardare la propria esistenza, a poco a poco si affaccia anche una visione culturale su due linee: la prima critica il mondo classico perché pagano e violento, la seconda propende per il dialogo e cerca di trovare nel pensiero antico le idee più condivisibili.
Il confronto ha inizio con i Padri apologisti che perorano la causa del nuovo culto di fronte ai pagani colti, non tanto e non solo per convertirli, ma per porre termine alle persecuzioni. Così, a partire dal III secolo, i contatti fra i due mondi si infittiscono anche a livello culturale. Celso, uno dei primi intellettuali pagani a prendere sul serio i cristiani, teme che diventino uno Stato dentro lo Stato: Origene gli risponde, cercando di dare un sostrato filosofico alla religione. Se Tertulliano sostiene che è impossibile servire due padroni, Cristo e Cesare, Giustino si converte al cristianesimo dopo un sofferto itinerario di ricerca filosofica e Lattanzio valorizza Cicerone e gli stoici.
L’apertura a tutti i ceti sociali e la promessa della vita eterna sono elementi che porteranno alfine il mondo romano a farsi cristiano. Un processo che verrà sancito da sant’Agostino, capace di elaborare una nuova filosofia della storia, completamente diversa da quella prevalente nel mondo antico e basata sui cicli.
«Per i cristiani - scrive Cochrane - la teoria ciclica è quanto di più incompatibile si possa immaginare con tutto il loro modo di pensare». Agostino mette in chiaro che la storia umana non consiste in una serie di modelli che si ripetono, ma è il manifestarsi del disegno divino e si delinea come un sicuro, anche se incostante, progresso verso una meta finale. Il cristianesimo diviene l’ancora di salvezza del mondo antico che si stava sfaldando e consentirà la nascita dell’Europa, basata sulle radici greco-romane ed ebraico-cristiane, come oggi la conosciamo.
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
Il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana”...
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Questo doloroso digiuno eucaristico che ci rende ancor più Chiesa
di Andrea Monda (Osservatore Romano, 14 marzo 2020)
Oggi per quasi tutti noi cattolici sarà una domenica senza messa, senza eucaristia. È la prima volta che ci capita nella vita, in precedenza quando è successo era stato in genere a causa delle nostre condizioni di salute ma ora è diverso, sono le messe e le chiese a trovarsi in pessime “condizioni di salute”.
Domenica scorsa siamo andati a messa, giusto in tempo perché poi è arrivata la decisione di sospendere le messe pubbliche. Quindi ora, nel mezzo della Quaresima, dovremo avviare, nostro malgrado, un inedito tipo di digiuno, quello eucaristico.
La cosa provoca sconcerto, dolore e dà a riflettere. E il pensiero si muove dal qui e ora e vola nello spazio e nel tempo. È uno dei vantaggi di essere cattolici secondo Chesterton («La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo»), quello di appartenere ad una storia più grande di me, che mi precede e mi supera, che si estende nello spazio e nel tempo e quindi mi mantiene in una comunione con tutti i miei fratelli nella fede sparsi nel mondo e in ogni epoca: nella Chiesa è tutto sempre presente e contemporaneo.
Il pensiero dunque vola, ad esempio, in Amazzonia. Negli ultimi mesi questa regione così grande, così cruciale e così fragile, grazie all’iniziativa di Papa Francesco che ha indetto un Sinodo della Chiesa su di essa, è stata come “trasportata” e messa al centro del mondo e ci siamo così trovati noi stessi come trasportati in quelle terre dove, tra le altre cose, il digiuno eucaristico è spesso la regola. E non per una settimana o due, ma per lunghi mesi. C’è un modo per capire gli altri ed è soffrire con loro. Domenica forse capiremo un po’ di più i nostri fratelli abitanti dell’Amazzonia, e si tratta, ripeto, del digiuno di una sola domenica, la prima, speriamo di una serie non molto lunga. La discussione scaturita dal Sinodo sull’Amazzonia è stata per mesi molto accesa all’interno della Chiesa cattolica, ora forse è il momento di “sentire con la Chiesa” che si trova in Amazzonia.
Il pensiero vola anche nel tempo e ci conduce ai primi secoli del cristianesimo. In questi tempi di digiuno eucaristico e di chiese chiuse, i nostri pastori stanno esortando i fedeli a riscoprire la pratica religiosa all’interno delle case, la preghiera in famiglia, soprattutto del rosario. Così, ad esempio, la Chiesa italiana sta promuovendo un momento di preghiera per il Paese, invitando a recitare in casa il Rosario, i Misteri della luce, alla stessa ora: alle 21 del 19 marzo. In quella occasione si propone di esporre alle finestre un drappo bianco o una candela accesa. Quando nasce la Chiesa e per i primi secoli del suo cammino, le comunità non si riuniscono in luoghi pubblici di culto ma tutto si svolge nelle “chiese domestiche”. È con la fine delle persecuzioni sotto l’imperatore Costantino che le cose cambiano e si prende la decisione, tanto inevitabile quanto gravida di conseguenze, di convogliare il culto in edifici dedicati esclusivamente al culto.
Oggi da un certo punto di vista siamo tornati alla condizione dei primi secoli, alla riscoperta del senso della comunità credente all’interno delle mura domestiche dove, a causa della diffusione dell’epidemia, ci troviamo costretti a vivere. Alcuni studiosi e teologi hanno riflettuto, a partire dalla metà del secolo scorso, sul fatto che la Chiesa con la fine del potere temporale e soprattutto con il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana” in cui il percorso della Chiesa si era strettamente intrecciato e a volte confuso con quello dei poteri civili e politici. E molti vedono in Francesco il Papa che, proseguendo nella realizzazione del concilio, sta definitivamente chiudendo quella pagina storica cominciata con la svolta dell’imperatore vincitore a Ponte Milvio nel segno della croce.
Proprio Francesco il 21 dicembre scorso, citando Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha ricordato alla Curia romana che «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede - specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente - non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Proprio per questo, dice il Papa: «Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti».
Oggi chi scrive si trova nella grande città di Roma, culla del cristianesimo come spesso viene chiamata, e sente che gli è chiesto un sforzo di fede creativa per sviluppare nuove “mappe”, il che vuol dire anche tornare alle sorgenti della fede, della propria storia, perché per il cristiano anzi è sempre così: tornare all’essenziale, alle radici, al Vangelo, perché lì si trova la vita. Da questo punto di vista la Quaresima è il tempo forte, è il kairòs, il momento opportuno per purificare la nostra fede, rianimare la speranza e allora anche l’inedito e doloroso digiuno eucaristico potrà diventare un’occasione per allargare il cuore, farci sentire in comunione con tutta la Chiesa, il popolo che Dio accompagna sin dall’eternità, in ogni luogo e in ogni tempo.
MEMORIA E STORIA / STORIA E MEMORIA.... *
il santo del giorno
Conversione di san Paolo.
La luce improvvisa, la caduta, la voce di Cristo. La fede è apertura all’inaspettato infinito
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 25 gennaio 2020)
Il cambio di rotta, la strada nuova, la svolta imprevista: la fede è apertura all’inaspettato, alla novità che trasforma la vita, all’infinita luce che entra dentro il buio dei nostri errori. Ecco perché la Chiesa oggi celebra la Conversione di san Paolo, ricordando a tutti, così, che Dio ci chiama sempre, continuamente, che nessuno è "spacciato".
"All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo - si legge negli Atti degli Apostoli - e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". Era l’inizio di una nuova esistenza per Paolo, che sarebbe diventato uno dei pilastri della comunità dei credenti, l’apostolo che fece del Vangelo un messaggio davvero "cattolico", cioè offerto a ogni popolo e a ogni nazione della Terra.
Dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo rimase accecato e dopo aver recuperato la vista fu battezzato: l’immersione nella vita di Dio è il dono di uno sguardo diverso sul mondo.
Altri santi. Sant’Anania di Damasco, martire (I sec.); beata Arcangela Girlani, vergine (1460-1494).
Letture. At 22,3-16; Sal 116; Mc 16,15-18.
Ambrosiano. At 9,1-18; Sal 116 (117); 1Tm 1,12-17; Mt 19,27-29.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200101_omelia-madredidio-pace.html)
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Materiali sul tema:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020" E "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano (Fondazione Terra d’Otranto).
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Idee.
Kasper: «Chiesa e modernità: da nemici a alleati per il futuro della democrazia»
Le difficoltà della Chiesa di riconoscersi nelle democrazie moderne hanno prodotto un Occidente secolarizzato. Ma la crisi democratica può trovare una soluzione attraverso la missione della Chiesa
di Walter Kasper (Avvenire, domenica 29 settembre 2019)
Dopo il crollo del muro di Berlino e della Cortina di ferro lo sguardo si è aperto ben oltre l’Europa, e si è sviluppato il sogno di un mondo unito. Si è sviluppata una "globalizzazione", cioè una rete internazionale mondiale a livello economico, finanziario, dei mezzi di comunicazione, della tecnologia e del turismo. Ma questo nuovo universalismo è rimasto a livello materiale, funzionale, economico, tecnico; è mancato un universalismo più profondo, spirituale e solidale. Così la vittoria della libertà è divenuta una vittoria della mentalità dello sviluppo economico e del capitalismo talvolta feroce e aggressivo nell’emisfero Sud, che ha portato come reazione a movimenti di antiglobalizzazione, anch’essi talvolta violenti.
La globalizzazione è una realtà complessa e ambigua. Da un lato porta nuovi vantaggi economici e di comunicazione, ma dall’altro la nuova libertà ha creato anche nuove interdipendenze politiche ed economiche complesse, che la gente “normale” fatica a cogliere. Poiché ora le decisioni si prendono a livelli internazionali lontani dal normale cittadino, l’uomo medio non si sente più a casa in un modo globalizzato, dove tutto cambia in modo sempre più accelerato. Ma è soprattutto nel movimento migratorio, oggi un segno dei tempi universale, che si mostra il lato negativo dell’universalismo globalizzato. La gente vi ravvede il pericolo di una perdita della propria patria e dell’identità ereditata dalla propria storia e cultura. Vede nei migranti una crisi dell’Europa come l’hanno conosciuta finora.
Tale situazione crea lo spazio per un populismo che dà risposte facili a domande estremamente difficili e complesse. Questo populismo non è un’ideologia coerente, ma è frutto della paura e della strumentalizzazione della paura. Le sue risposte spesso sono verità parziali, se non vere e proprie fake news.
Per tutelarsi da questo mondo nuovo, molti si ritirano o desiderano farlo nel mondo passato e così conservare la propria identità. Ma un’identità chiusa ed esclusiva, avversa a tutto ciò che è straniero, un’identità identitaria e xenofoba che conduca a un nuovo nazionalismo e sovranismo, nel mondo globalizzato non solo è illusoria, ma anche pericolosissima per la pace. L’uomo è per sua natura un essere sociale. Pertanto un’identità racchiusa è un’identità debole e malata. Un’identità forte è un’identità aperta, un’identità in scambio, che si lascia arricchire nell’incontro con altre identità.
Per la Bibbia tutta l’umanità è una grande unità, è il genere umano, una grande famiglia, una fratellanza. Il cristianesimo dunque non è mai un’identità chiusa in se stessa, ma un’identità universalmente aperta verso gli altri e per gli altri, soprattutto per i poveri e bisognosi e per profughi e perseguitati da altri Paesi e culture. Pertanto bisogna essere consapevoli che l’antiglobalizzazione e l’antieuropeismo sono solo un movimento antiuniversale, e in questo senso un movimento antimoderno e antilluminista, ma che si presenta con la maschera conservatrice del cristianesimo.
L’antiglobalizzazione, che si propone come tutela e difesa del cristianesimo, è in realtà un cristianesimo divenuto ideologia. Il vero cristianesimo non costruisce muri, ma ponti.
Questa identità è stata ed è la grandezza d’Europa, che in tutta la sua storia non è mai stata una realtà unitaria e identitaria: dal suo inizio e in tutta la sua storia l’Europa è stata un crocevia, uno spazio e un processo d’incontri e di mutua penetrazione di culture diverse (nel passato le culture ebraica, greca, romana, celtica, germanica, slava, normanna, senza dimenticare la cultura araba musulmana e dell’illuminismo moderno). L’Europa non è mai stata monoetnica; l’impero medioevale non fu sicuramente una realtà pluralista nel senso moderno, tuttavia costituì un’unità composta da popoli, principati e regni diversi, città imperiali e monasteri indipendenti.
Lo stato nazionale e soprattutto il nazionalismo sono nati solo in tempi relativamente recenti nel Sette e Ottocento, e poi nel Novecento nei sistemi fascisti e nazionalsocialisti sono divenuti la rovina dell’Europa e ci hanno portato alla catastrofe della Seconda guerra mondiale e alla Shoah.
Certo, dopo tutte queste crisi e disastri non possiamo ricostruire l’unità spirituale medioevale. Oggi in modo nuovo siamo di fronte alla necessità di mantenere e arricchire l’identità dell’Europa attraverso un incontro tra le diverse civiltà non europee, che non diventi uno «scontro di civiltà» (S. Huntington).
La nostra sfida è conservare e rinnovare i valori fondamentali che hanno fatto grande l’Europa e realizzare questi valori nella nuova situazione della globalizzazione, con lo stesso coraggio che hanno mostrato i nostri antenati. Certo è un compito molto complesso, nel quale non si può accontentare tutti, ma a cui bisogna invitare la grande maggioranza della gente di buona volontà; un compito la cui realizzazione richiede l’arte politica, una politica che è l’arte del possibile (O. von Bismarck). (Purtroppo, talvolta anche l’arte di fare l’impossibile). C’è il famoso detto di Wolfgang Böckenförde, stimato giurista e già presidente della Corte costituzionale tedesca: «Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire». Non li può estorcere, se non vuole abdicare al suo carattere di stato libero, che rispetta la libertà e riconosce la libertà religiosa. In tal senso lo stato democratico non è uno stato neutro riguardo ai valori fondamentali, che esso presuppone e di cui vive.
Così la democrazia presuppone che la stragrande maggioranza della popolazione riconosca i valori costitutivi della democrazia, cioè la dignità della persona a prescindere dalla cultura, dalla religione, dalla provenienza, dalla nazionalità, dal sesso e dal colore della pelle; riconosca la libertà di coscienza e di parola, la libertà dell’altro, la giustizia non solo commutativa ma anche sociale, la tolleranza, soprattutto la tolleranza religiosa e per altre visioni del mondo. Il riconoscimento maggioritario di tali valori è il sine qua non della democrazia.
Questi valori fondamentali sono valori che risalgono alla tradizione cristiana e alla sua sintesi con i valori fondamentali della cultura grecoromana. In ultima analisi questi valori sono fondati nella creazione dell’uomo a immagine di Dio (Gen 1,27).
Già dopo la svolta di Costantino nel monachesimo in reazione contro una concezione imperiale della Chiesa si trovano forme democratiche (per esempio nella forma della partecipazione della comunità alle decisioni dell’abate, dell’elezione dei superiori a tempo ecc.). I teologi dell’Università di Salamanca all’inizio del Seicento (quasi duecento anni prima della Rivoluzione francese!) furono i primi a sviluppare sulla base della teologia di Tommaso d’Aquino il diritto dei popoli (Völkerrecht) e il fondamento dei diritti dell’uomo, anche degli indigeni nelle colonie, un’idea che la Rivoluzione francese ha risolutamente negato. I monaci e i teologi erano più avanti!
Ma la tragedia della storia moderna è che la Chiesa in Europa (anche le Chiese luterane) per lungo tempo non è stata in grado di riconoscere i suoi propri valori e idee nella democrazia moderna. A lungo ha sollevato critiche sui diritti umani e la democrazia. Così i moderni diritti dell’uomo sono stati sviluppati contro la Chiesa in un modo secolarizzato. Solo e molto tardi il Concilio Vaticano II, dopo lunghe controversie, è stato in grado di riconoscere i diritti dell’uomo e il diritto alla libertà religiosa. A causa di questo fallimento, la Chiesa e le Chiese luterane sono divenute corresponsabili della secolarizzazione della civiltà europea moderna.
D’altra parte a causa della secolarizzazione i diritti dell’uomo, e insieme a essi il fondamento della democrazia, sono stati staccati dalle loro radici cristiane, e staccati dalle radici - come ogni pianta - si sono indeboliti, e ora sono in crisi. Tale indebolimento e crisi hanno aperto la porta ai populisti e alla loro propaganda antidemocratica, antimoderna e anticristiana.
Durante gran parte dell’Ottocento e nella prima parte del Novecento, l’argomento sostenuto dalla Chiesa era che l’autorità dello stato è derivata da Dio. E questo escludeva il riconoscimento della democrazia, in cui tutta l’autorità deriva dal popolo. Oggi questa argomentazione è superata. Già papa Pio XII, nel suo messaggio per il Natale 1942, riconosceva che la democrazia come struttura statale era un sistema oggigiorno adeguato.
Il Concilio Vaticano II si è espresso definitivamente in questo senso. Secondo il Concilio l’autorità secolare dello Stato deriva da Dio, ma l’ordinamento concreto dello Stato, che sia democratico o monarchico, va affidato alla decisione del popolo. Pertanto il Concilio non esprime alcuna opzione in favore né della monarchia, né della democrazia o di un altro ordinamento dello Stato. Il criterio del riconoscimento non pertiene alla struttura, ma se in qualsiasi struttura democratica siano rispettati i diritti umani fondamentali, soprattutto il diritto fondamentale della libertà religiosa e la giustizia sociale. Teonomia del mondo e dello stato da un lato e autonomia della libertà umana e politica d’altra non sono contrastanti, ma vanno insieme. Di più, la teonomia non solo non esclude i diritti dell’uomo, ma li garantisce e li difende.
In conclusione, poiché la democrazia vive di valori, che originariamente sono valori cristiani, la crisi d’Europa è molto più di una crisi istituzionale strutturale: è crisi dei valori costitutivi per l’Europa e per la sua democrazia per effetto della secolarizzazione, anche a causa della Chiesa. O l’Europa scoprirà di nuovo le sue radici cristiane, o l’Europa e la sua cultura non saranno più l’Europa e la cultura dell’Europa come le abbiamo conosciute finora. Il futuro della democrazia dipende molto dalla formazione delle nuove generazioni, ma dipende soprattutto dalla presenza pastorale e dalla missione della Chiesa.
70 anni di comunismo.
Cina, l’ultima «rivoluzione» per essere centro del mondo
L’apertura economica senza svolta politica: così da Mao a Xi si è consolidato il potere di Pechino
di Vittorio E. Parsi (Avvenire, martedì 1 ottobre 2019)
Pochi altri Paesi al mondo sono cambiati così tanto in 70 anni da risultare sostanzialmente irriconoscibili, pur mantenendo lo stesso regime politico, come la Cina. La Cina uscita dalla rivoluzione di Mao Zedong e quella del presidente Xi Jinping vedono sempre saldamente al vertice del potere il Partito comunista, la repubblica continua a essere denominata Repubblica popolare cinese e la sua bandiera è ancora la bandiera rossa. Già durante la lunga stagione della leadership personale di Mao, la Cina aveva conosciuto l’alternanza di stagioni più "aperturiste" ("i cento fiori") ad altre decisamente più repressive ("la rivoluzione culturale" che tanto entusiasmò molta intellettualità nostrana cieca agli aspetti totalitari).
Ma nulla è paragonabile alla svolta provocata da Deng Xiaoping, succeduto a Mao dopo la sanguinaria parentesi della "banda dei quattro", capeggiata dalla vedova del "Grande timoniere". Sopravvissuto ai violenti tornanti della vicenda del maoismo, Deng inventò un apparente ossimoro (il socialismo di mercato, o socialismo con caratteristiche cinesi) che, a tanti, parve un tentativo di guidare la transizione della Cina dal comunismo e dal dominio assoluto del Partito, verso una qualche forma asiatica di paternalismo associato al capitalismo: una specie di Singapore moltiplicata per cento.
E invece il già vecchio Deng azzeccò la quadra: l’accoppiata tra la continuità nel monopolio del potere politico del Partito comunista e la trasformazione dell’economia cinese da un sistema collettivista e pauperista in un capitalismo perfettamente inserito nell’economia globalizzata e finanziarizzata del XXI secolo. Chiarì perfettamente che l’apertura economica non implicava alcuna concessione politica, con la feroce repressione da lui stesso ordinata, e a tal scopo richiamato straordinariamente al potere - in una sorta di riedizione dell’epopea di Cincinnato - del movimento degli studenti di piazza Tienanmen nel cruciale 1989.
E la perfetta continuità, l’ordinata trasmissione del potere di generazione in generazione da Deng a Xi, sempre nel mantenimento della continuità ideale (non senza vistose forzature e contorsioni) con il mito di Mao, è il tratto politicamente più notevole di questa Cina che oggi celebra i 70 della nascita della Repubblica Popolare fondata dal Grande Timoniere. L’Unione Sovietica, la patria del comunismo realizzato (accusata di revisionismo dalla Cina maoista), è scomparsa nel 1991 e al suo posto e tornata l’edizione 2.0 della Russia imperiale, che, atomiche a parte, è comunque una pallida riedizione della prima e della seconda. La Repubblica popolare cinese è invece sempre lì, inossidabile e irriconoscibile. Ad attestarci che il mantenimento del potere è un collante formidabile, tanto più forte se per conservarlo si è disposti a compiere qualunque sacrificio (a cominciare dalle vite altrui). Ma d’altra parte, da sempre, in Cina chi controlla il potere detiene le ricchezze del Paese: un motivo in più per mantenere salda la presa.
Girare per le strade di Pechino o Shanghai, ma in realtà anche per i tanti altri milionari capoluoghi di provincia, e ormai da diversi lustri, offre uno spettacolo urbanistico, di mobilità e di costume lontano anni luce dalle maree di uomini e donne vestiti in pigiama blu, che a piedi e in bicicletta (o al massimo a bordo di camion e autobus sgangherati) si muovevano per andare al lavoro nei campi, in fabbrica o a scuola. La seconda dimensione più importante del cambiamento cinese è proprio quella scientifica e tecnologica: i treni superveloci, i telefonini cellulari e la rete 5G, i computer e l’impiego massiccio di robot (record mondiale) e di strumenti di videosorveglianza, i satelliti spaziali. Certo un progresso realizzato non certo senza enormi e crudeli contraddizioni e muovendosi "sulle spalle dei giganti". Eppure, ormai si tratta di un progresso di cui la Cina è anche protagonista.
Oggi la Cina si appresta a lanciare la sua sfida all’ordine incardinato sull’egemonia statunitense. Lo fa con arguzia. Cercando di modificare a suo vantaggio le politiche e le prassi di tutte le istituzioni esistenti di quell’ordine internazionale la cui legittimità contestava frontalmente fino agli anni 70 del secolo scorso.
E allo stesso tempo predisponendo le infrastrutture materiali e immateriali che dovranno fare di Pechino e della Cina il nuovo centro del mondo, e della cui logica fa parte anche la Belt and Road Initiative, destinata a unificare, e se necessario contrapporre, un Emisfero orientale (euro-asiatico-africano) all’Emisfero occidentale (le Americhe).
Tutte le strade portano a Roma, si diceva a proposito delle vie consolari e poi di quelle imperiali. Chissà come si dice in mandarino la prima parte della massima latina, perché di sicuro Roma oggi si traduce "Bejing".
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEL SOLE DI ORIENTE E DI OCCIDENTE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’EUROPA, LA COSTITUZIONE, E LA BANDIERA: LE RADICI CATTOLICHE DI MARIA ELENA (MADRE DI COSTANTINO) O LE RADICI CRISTIANE DI MARIA BEATRICE (MADRE DI DANTE)?! Al di là della trinità "edipica" e "mammonica" *
Europa.
Le radici cattoliche e mariane della bandiera dell’Unione Europea
Un saggio di Enzo Romeo ricostruisce la complessa genesi e la simbologia legata a Maria del vessillo di colore blu con il cerchio di dodici stelle, adottato dal Consiglio europeo nel 1955
di Edoardo Castagna (Avvenire, venerdì 14 giugno 2019)
Ogni identità ha bisogno di simboli ai quali guardare, per riconoscersi e per ispirarsi. Lo sanno bene i populisti di ieri e di oggi, che usano le identità come sciabole per dividere. In modo diametralmente opposto, tanto politicamente quanto moralmente, lo sapevano bene anche i padri fondatori dell’Unione Europea nella loro ricerca di una nuova identità capace di abbracciare, unire, includere.
L’identità europea si è costruita un poco alla volta negli ultimi sessant’anni e, anche se nell’ultimo periodo sembriamo a un punto di stallo, non possiamo non vedere quanto di grande e buono è stato fin qui costruito. Anche attorno ai simboli. Abbiamo un inno nella musica di Beethoven; e abbiamo una bandiera, ormai presenza famigliare sulle facciate degli edifici pubblici - e non solo, come le ultime elezioni europee hanno dimostrato: non pochi balconi hanno visto esporre il drappo azzurro con le dodici stelle.
Alla storia di questa bandiera ha dedicato il suo ultimo saggio Enzo Romeo (Salvare l’Europa. Il segreto delle dodici stelle; Ave, pagine 190, euro 12,00), nel quale la ricostruzione dei passaggi che portarono le istituzioni europee alla scelta definitiva si accompagna alla riscoperta del retroterra imprevisto che agì sui suoi creatori. Il disegno finale è attribuito a un lavoro collegiale, nel quale tuttavia spiccano i contributi del direttore dell’Ufficio d’informazione e stampa del Consiglio d’Europa, Paul Michel Gabriel Lévy, e soprattutto di Arsène Heitz, impiegato dell’Ufficio e autore di diversi bozzetti per la bandiera comune - tra i quali, con poche modifiche, quello infine adottato.
Cattolico e assai devoto alla Madonna, Heitz lavorò su simboli in apparenza del tutto laici: eppure l’azzurro, le dodici stelle come quelle della “medaglia miracolosa” che commemora le apparizioni mariane di rue du Bac a santa Caterina Labouré nel 1830, e che Heitz portava sempre con sé... una simbologia mariana agì, forse più come “mano invisibile” che come ispirazione cosciente, almeno fino a quando, molto più tardi, lo stesso Heitz non la esplicitò, forse prendendone consapevolezza egli stesso: «Mi sentii ispirato da Dio - avrebbe confidato Heitz a padre Pierre Caillon nel 1987, poco prima di morire - nel concepire un vessillo tutto azzurro su cui si stagliava un cerchio di stelle, come quello della medaglia miracolosa. Cosicché la bandiera europea è quella di Nostra Signora».
Quello di Heitz, d’altra parte, non fu l’unica delle proposte a contenere richiami alla simbologia cristiana, anche più espliciti: per esempio, l’austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, fondatore nel 1922 dell’Unione Paneuropea, suggerì un drappo blu con una croce rossa cerchiata di giallo; lo stesso Heitz propose una croce rossa in campo verde. Il verde fu tra i colori più ricorrenti nelle prime bozze: il francese Robert Bichet lanciò l’idea di quindici stelle verdi su campo bianco, il Movimento federalista europeo chiedeva che fosse adottato direttamente il proprio emblema, una “E” verde su campo bianco. Il blu fu comunque il colore più proposto, così come le stelle ebbero facilmente la meglio su altri simboli come i cerchi (un bozzetto a cerchi intrecciati fu bocciato perché ricordava troppo, a detta della commissione, una catena o la bandiera olimpica, se non addirittura la ghiera di un telefono...).
Le dodici stelle disposte a cerchio su fondo blu furono adottate dal Consiglio d’Europa (la bandiera identifica tanto questa istituzione quanto la successiva Unione Europea) nel 1955, con argomentazioni apparentemente anodine: il blu è quello del cielo dell’Occidente, le dodici stelle rappresentano tutti i popoli d’Europa nella loro diversità, il cerchio la loro unità. -Nessun riferimento, nei documenti ufficiali, a richiami mariani: ma, come nota giustamente Romeo, in questi casi «bisogna procedere su un piano assolutamente aconfessionale, evitando polemiche di sapore religioso o ideologico. Non si tratta di nascondere ipocritamente i segni della propria fede, ma di proporli su un piano universale, perché in questo caso essi trascendono l’appartenenza a una Chiesa e si trasformano nell’allegoria di un quadro valoriale comune». E, in effetti, ormai per mezzo miliardo di persone quelle stelle in campo blu hanno acquisito un po’ il colore di casa.
Anche se di una casa ancora in costruzione.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
Federico La Sala
Ipocriti e venali? Un convegno per superare i pregiudizi sui farisei
E il 9 maggio papa Francesco riceve i partecipanti all’iniziativa organizzata dal Pontificio Istituto Biblico e sponsorizzata anche da Cei e American Jewish Committee
di Iacopo Scaramuzzi (La Stampa, 04/04/2019)
Roma. Spesso raffigurati come «esempi di legalismo, ipocrisia e avidità», presentati nei Vangeli come i rivali maggiori di Gesù, i farisei saranno al centro di un convegno organizzato dal Pontificio Istituto Biblico, a Roma, teso a riesaminare le fonti e superare i pregiudizi che circondano questo antico gruppo giudaico, e possono intrecciarsi con pulsioni antisemite, nelle omelie e nei testi scolastici, nel linguaggio quotidiano così come in libri e film. L’ultimo giorno del convegno su «Gesù e i farisei» («Un riesame interdisciplinare») i partecipanti saranno ricevuti in udienza privata dal Papa.
«Il tema della relazione tra Gesù e i farisei è un altro modo per descrivere la relazione tra i cristiani e gli ebrei attraverso due millenni», ha spiegato nel corso di una conferenza stampa il gesuita Michael Kolarcik, rettore dell’istituto. «Quanto affermiamo su questo rapporto, e come lo diciamo, ha conseguenze significative per la nostra relazione attuale». Padre Etienne Veto, direttore del Centro cardinale Bea per gli Studi Giudaici, ha sottolineato che grazie alle evoluzioni della ricerca biblica e storica è emerso da tempo che «non è corretta» la rappresentazione invalsa dei farisei e che «c’è un collegamento tra l’antisemitismo e la concezione dei farisei».
Il convegno, sostenuto anche dall’American Jewish Committee, dalla Conferenza episcopale italiana e dalla società Verbum di software per gli studi cattolici, vedrà la partecipazione di oltre trecento esperti di varie materie, cattolici protestanti ed ebrei. Numeri superiori alle attese tanto che avrà luogo nell’aula magna della attigua Pontificia Università Gregoriana. Tra gli altri ci saranno i rabbini David Rosen, Riccardo Di Segni e Abrhama Skorka, quest’ultimo amico di lunga data di Jorge Mario Bergoglio, il presidente della commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Cei Ambrogio Spreafico, e ancora esperti di storia, archeologia, studi rabbinici, Nuovo Testamento, educazione, arte popolare da Argentina, Austria, Canada, Colombia, Germania, India, Israele, Italia, Paesi Bassi e Stati Uniti.
Scopo del convegno, si legge in una presentazione, è «un riesame delle fonti, per fornire un quadro più chiaro dei farisei “letterari” e “storici” dell’antichità» e, in secondo luogo, «riconsiderare i fattori responsabili dei pregiudizi che hanno danneggiato la percezione comune dei farisei - e di suggerire modi per superarli»: per questo il convegno «discuterà anche di problemi relativi non solo agli studi biblici, ma anche all’omiletica (cioè come fare un’omelia sui farisei, quando essi compaiono sul lezionario), a testi scolastici e alla cultura popolare, compresi libri e film su Gesù e sulle rappresentazioni della Passione».
Non a caso parteciperà al convegno anche Christian Stueckl, direttore artistico della famosa «Rappresentazione della Passione» di Oberammergau che va in scena ogni anno dal 1634. «Vogliamo individuare le radici di questa rappresentazione inadeguata dei farisei», ha detto in conferenza stampa il professore Joseph Sievers, tra i principali organizzatori dell’evento, «e superare i pregiudizi».
«Non c’è bisogno di presentare male i farisei in particolare e l’ebraismo in generale per presentare bene Gesù: Gesù si presenta bene da solo», ha detto da parte sua la professoressa ebrea Amy Jill Levine, che al Biblico insegna Nuovo Testamento: «Il trattamento negativo dei farisei è parte di un problema più ampio» che affonda le radici nella distorta contrapposizione tra il cattolicesimo, quale religione di amore, e nell’ebraismo, quale religione della legge, ma «siamo entrambe religioni di amore», ha detto padre Veto, «e siamo entrambe religioni che fanno attenzione a ciò che facciamo, all’etica», ha detto Jill Levine, ricordando che Gesù è anzi più rigoroso dei maestri ebrei quando, ad esempio, anziché condannare l’assassinio condanna anche la rabbia o quando condanna non solo il tradimento effettuato ma anche quello pensato.
Amy Jill Levine, che in passato ha consegnato al Papa la versione commentata ebraica del Nuovo Testamento (The Jewish Annotated New Testament), ha ricordato che san Paolo di Tarso era fariseo, che lo storico Tito Flavio Giuseppe parlava bene dei farisei e che i rotoli del Mar Morto non li citano e anzi criticano un gruppo ebraico lassista: «Se avessimo solo Paolo, Flavio Giuseppe e i rotoli del Mar Morto non avremmo bisogno di questo convegno. Ma abbiamo i Vangeli che descrivono i farisei come ipocriti e nemici di Gesù», ha detto, auspicando che «le omelie sui farisei non propaghino l’antisemitismo ma presentino correttamente il Vangelo della pace».
Ai giornalisti che facevano notare come Papa Francesco abbia più volte, coerentemente con i Vangeli, indicato i farisei come esempi negativi di ipocrisia e legalismo, il professor Sievers ha risposto ricordando che non bisogna dimenticare «l’amore di Francesco nei confronti dell’ebraismo e i suoi rapporti cordiali con gli ebrei già quando era a Buenos Aires, ed ha poi detto, più in generale, che «capita a tutti noi di avere un punto cieco: noi non saremo polemici nei confronti di alcunché, ma desideriamo completare una visione che dia spazio ad una concezione più sfaccettata dei farisei, sperando che completare il quadro possa innescare anche qualche cambiamento».
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA ...
iL "PADRE NOSTRO"?! Alcune pagine dalla "Querela pacis" (1517)
di Erasmo *
Pochi anni fa, quando il mondo era travolto a prendere le armi da non so quale peste esiziale, alcuni araldi del Vangelo, frati Minori e Predicatori, dal sacro pulpito davano fiato ai corni di guerra e ancor piú infervoravano chi già propendeva per quella follia. In Inghilterra aizzavano contro i Francesi, in Francia animavano contro gli Inglesi, ovunque spronavano alla guerra. Alla pace non incitava nessuno tranne uno o due, a cui costò quasi la vita l’aver soltanto pronunciato il mio nome.
Prelati consacrati scorrazzavano un po’ dovunque dimentichi della loro dignità e dei loro voti, e inasprivano con la loro opera il morbo universale, istigando ora il pontefice romano Giulio, ora i monarchi ad affrettare la guerra, quasi che non fossero già abbastanza folli per conto loro. Eppure questa patente pazzia noi l’avvolgemmo in splendidi titoli.
A tal fine sono da noi distorte con somma impudenza - dovrei dire con sacrilegio - le leggi dei padri, gli scritti di uomini santi, le parole della Sacra Scrittura. Le cose sono giunte a tal punto che risulta sciocco e sacrilego pronunciarsi contro la guerra ed elogiare l’unica cosa elogiata dalla bocca di Cristo. Appare poco sollecito del bene del popolo e tiepido sostenitore del sovrano chi consiglia il massimo dei benefici e scoraggia dalla massima delle pestilenze.
Ormai i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano, abbandonando le loro chiese per occuparsi degli affari di Bellona. Ormai la guerra produce addirittura sacerdoti, prelati, cardinali ai quali il titolo di legato al campo sembra onorifico e degno dei successori degli Apostoli. Per cui non fa meraviglia se hanno spirito marziale coloro che Marte ha generato. Per rendere poi il male insanabile, coprono un tale sacrilegio col sacro nome della religione. Sugli stendardi sventola la croce.
Armigeri spietati e ingaggiati per poche monete a compiere macelli spaventosi innalzano l’insegna della croce, e simboleggia la guerra il solo simbolo che dalla guerra poteva dissuadere.
Che hai a che fare con la croce, scellerato armigero? I tuoi sentimenti, i tuoi misfatti convenivano ai draghi, alle tigri, ai lupi. -Quel simbolo appartiene a Colui che non combattendo ma morendo colse la vittoria, salvò e non distrusse; da lí soprattutto potevi imparare quali sono i tuoi nemici, se appena sei cristiano, e con quale tattica devi vincere.
Tu innalzi l’insegna della salvezza mentre corri alla perdizione del fratello, e fai perire con la croce chi dalla croce fu salvato?
Ma che! Dai sacri e adorabili misteri trascinati anch’essi per gli accampamenti, da queste somme raffigurazioni della concordia cristiana si corre alla mischia, si avventa il ferro spietato nelle viscere del fratello e sotto gli occhi di Cristo si dà spettacolo della piú scellerata delle azioni, la piú gradita ai cuori empi: se pure Cristo si degni di essere là. Colmo poi dell’assurdo, in entrambe le armate, in entrambi gli schieramenti brilla il segno della croce, in entrambe si celebra il sacrificio. -Quale mostruosità è questa? La croce in conflitto con la croce, Cristo in guerra con Cristo. È un simbolo fatto per atterrire i nemici della cristianità: perché adesso combattono quello che adorano? Uomini degni non di quest’unica croce, ma della croce patibolare.
Ditemi, come il soldato può recitare il “Padre nostro” durante queste messe? Bocca insensibile, osi invocare il Padre mentre miri alla gola del tuo fratello? “Sia santificato il tuo nome”: come si potrebbe sfregiare il nome di Dio piú che con queste vostre risse? “Venga il tuo regno”: cosí preghi tu che su tanto sangue erigi la tua tirannide? “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosí anche in terra”: Egli vuole la pace, tu prepari la guerra.
“Il pane quotidiano” chiedi al Padre comune mentre abbruci le messi del fratello e preferisci che vadano perse anche per te piuttosto che giovare a lui?
Infine come puoi pronunciare con la lingua le parole “e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” mentre ti lanci a un fratricidio? Scongiuri il rischio della tentazione mentre con tuo rischio getti nel rischio il fratello. “Dal male” chiedi di essere liberato mentre ti proponi di causare il massimo male al fratello?
*
Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 51-55.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NELL’ORIZZONTE DELL’IMMAGINARIO DI COSTANTINO (“IN HOC SIGNO VINCES”). Lorenzo Scupoli, Francesco di Sales, e Maria Gaetana Agnesi ....
PER COMPRENDERE come e perché il libro di Lorenzo Scupoli (nato intorno al 1530 a Otranto, l’antica Hydruntum, che cinquant’anni prima era stata teatro del tragico martirio di ottocento suoi concittadini, decapitati dai turchi sul colle della Minerva), sia diventato un “bestseller senza tempo” (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/), non è male RICORDARE CHE
A) [...] il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli va collocato all’interno di una ricca e articolata produzione centrata sulla nozione di ‘milizia cristiana’, che poteva esibire un precedente di assoluto rilievo come Le armi necessarie alla battaglia spirituale di Caterina da Bologna e visse la sua stagione più feconda nei convulsi anni del Concilio di Trento e nei decenni successivi [...]” (cfr.: http://www.ereticopedia.org/lorenzo-scupoli).
B) “Francesco di Sales considerava un bene prezioso il Combattimento spirituale, che portava sempre con sé da ben diciotto anni, come ricorda in una lettera del 1607”, E CHE “Discutendone con l’amico e corrispondente epistolare Jean-Pierre Camus, il Sales espresse l’opinione che il Combattimento dello Scupoli costituiva per i teatini, mutatis mutandis, ciò che gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio avevano rappresentato per i gesuiti” (op.cit.),
C) “[...] Il *Combattimento spirituale* fu una delle letture preferite di Maria Gaetana Agnesi, newtoniana e matematica di respiro europeo, il cui Cielo mistico - rimasto a lungo inedito - attinge soprattutto alla spiritualità teatina dei primordi, a sant’Andrea Avellino e a Lorenzo Scupoli, che con l’ascetica dell’imitatio Christi e la devozione della Croce offrivano immagini e suggestioni di straordinaria efficacia psicologica e visiva. Agnesi possedeva il Combattimento in un’edizione padovana del 1724 e di certo doveva ritrovarvi molte idee proprie, che sul piano spirituale riflettono una fede di matrice teatina, attenta alle deliberazioni del Tridentino ma sensibile alle istanze riformatrici di stampo muratoriano, in dialogo continuo con le esigenze della ragione e la sensibilità tipica dei Lumières. In tale contesto iniziò a diffondersi a metà Settecento il mito che Agnesi, da precoce adolescente qual era, aveva tradotto in greco il Combattimento spirituale di Scupoli [...] (op.cit.).
Federico La Sala
NOTA
SULL’ "istanze riformatrici di stampo muratoriano", nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
FLS
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
Tradizioni Sul calendario romano nei secoli si sovrapposero le celebrazioni cristiane
Feriae Augusti Ecco il primo «ponte festivo»
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, La Lettura, 12.08.2018)
I Romani, considerando quelli antichi, non erano grandi lavoratori, almeno non nella misura che intendiamo oggi. Pur avendo sviluppato una sofisticata civiltà urbana con tutte le dinamiche proprie di una città, anzi di una metropoli, la scansione del tempo nella Roma capitale imperiale restava legata alle lontane origini contadine e al ciclo caratteristico della cura dei campi. -Così, le giornate di festa che seguivano la vendemmia determinavano pure la sospensione delle attività forensi, e il solstizio d’inverno a dicembre, quando la seminagione era conclusa e si trattava ormai solo di aspettare il raccolto, forniva l’occasione per celebrare i Saturnalia in onore di Saturno, dio dell’abbondanza, con banchetti che duravano più giorni e lo scambio reciproco di doni.
Al termine dei lavori agricoli estivi, invece, si tenevano i Consualia, per ringraziare il dio Conso, il dio «nascosto», per l’avvenuta mietitura del grano. Secondo Livio, era stato lo stesso Romolo a istituire la festa, per invitare le popolazioni vicine a intervenire e potere così rapirne le donne, in quello che è passato alla storia con il nome di «ratto delle Sabine».
Come che sia, tra luglio e agosto le feste a Roma si andarono moltiplicando, finché nel 18 a.C. l’imperatore Augusto, al culmine del potere, nello stesso anno in cui promulgò le leggi che reprimevano il lusso, l’adulterio e la corruzione, pensò bene di concedere un ulteriore giorno di festa il primo di agosto (Kalendae Augusti), che prese così il nome di Feriae Augusti. -In questo modo, si creò il primo ponte festivo della storia, che unificava e prolungava le celebrazioni preesistenti, garantendo un consistente periodo di riposo (gli Augustali), in cui era tradizione che i patroni, i ricchi proprietari terrieri inurbati, elargissero mance ai propri clientes e ai lavoratori che rendevano loro omaggio. Oltre agli immancabili sacrifici e banchetti, le celebrazioni prevedevano corse di cavalli, muli e altri animali da tiro.
Con la progressiva cristianizzazione dell’Impero a partire dal IV secolo, l’antico calendario delle festività romane, ormai diffuso in tutti i territori conquistati, venne poco alla volta interamente riorientato in direzione della nuova religione: il primo giorno della settimana divenne il Dies Dominicus, il giorno del Signore, la domenica, giorno di festa e perno della nuova scansione del tempo.
La principale festività cristiana, la Pasqua, fu fatta coincidere, non senza lunghe discussioni, con la domenica successiva al plenilunio di primavera; si trattava comunque di un’eredità proveniente dal calendario e dalla tradizione ebraica, sostanzialmente estranea al mondo romano. Ben presto, invece, si pose il problema di sostituire le titolazioni delle festività antiche, cui la popolazione non intendeva rinunciare, vuoi per abitudine, vuoi perché pur sempre corrispondenti alla scansione delle attività economiche, ancora determinata dalla suddivisione dei tempi della vita agricola.
Nacquero così, nel corso dei decenni immediatamente successivi, una serie di celebrazioni che vennero a sovrapporsi a quelle preesistenti; il caso più evidente è quello del Natale, che sostituì i Saturnalia, conservando però l’usanza dello scambio dei doni e in Occidente - quasi a compensazione - mutuando il periodo di preparazione (l’Avvento) da quello che precede la Pasqua (la Quaresima).
Lo sviluppo della devozione per la Madre di Cristo, la Vergine Maria, attestato già nel II secolo, favorì la nascita di festività che la vedevano protagonista, per lo più accanto al Figlio, di episodi narrati nei vangeli, come l’Annunciazione o la presentazione di Gesù al Tempio.
Il fiorire del culto mariano, confermato dal concilio di Efeso del 431, venne alimentato e diffuso da numerosi scritti non entrati nel canone del Nuovo Testamento, ma di grande impatto sulla religiosità e la teologia tardoantica (i cosiddetti Apocrifi); si aggiunsero così ulteriori spunti per procedere alla completa cristianizzazione del calendario.
Tra questi testi, particolare rilievo ebbe la cosiddetta Dormizione di Maria, il racconto cioè della sua diretta assunzione in cielo senza conoscere la morte; anche se questo specifico aspetto è oggetto di sottili discussioni teologiche (grosso modo, i teologi orientali propendono per questa soluzione, mentre quelli occidentali ritengono che la Vergine abbia conosciuto la morte), l’elemento peculiare è che Maria è salita al cielo unita al proprio corpo, unica con il Figlio, mentre tutti gli altri uomini dovranno attendere la resurrezione finale, inclusi i santi che certamente già ora godono del Paradiso, ma solo con l’anima.
Le prime tracce di una festa liturgica in onore della Vergine Assunta risalgono alla Gerusalemme del VI secolo; da lì, nel giro di pochi decenni, si diffuse in tutto l’Oriente, per essere infine accolta a Roma sotto Papa Sergio I (687-701), nato a Palermo, ma di ascendenze siriache. Questi introdusse l’uso di una processione che saliva dalla Curia di Roma antica, trasformata in chiesa, sino alla basilica costruita sull’Esquilino in onore della Vergine, l’attuale Santa Maria Maggiore, da tenersi il 15 agosto.
Alla nuova festa, come di consueto, si saldarono le antiche usanze, a partire dal nome più o meno storpiato, e per tutto il Medioevo i maggiorenti romani elargivano mance al popolo, in misure stabilite da una prassi consolidata, sino a che venne proibita da Giulio II, che aveva da pagare le ingenti spese delle sue impresi architettoniche e pittoriche. La pratica, però, rimase viva, e ancora all’inizio del Novecento se ne trovano tracce nella cultura popolare dei Paesi cattolici dell’Europa Meridionale; in qualche misura, anche il palio che si corre a Siena nel giorno successivo all’Assunta potrebbe rimontare alle corse degli antichi Consualia.
In Italia, in particolare, l’organizzazione del dopolavoro fascista promosse l’escursionismo nei giorni a ridosso del Ferragosto, che divenne così la vacanza per eccellenza.
La proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria da parte di Pio XII nel 1950 la trasformò in una delle principali ricorrenze del calendario cattolico; la festa della Dormizione di Maria è celebrata anche da alcune chiese appartenenti alla comunione anglicana.
"ADAMO", "ABRAMO", I TRE MONOTEISMI, L’ONU, E LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE ... *
Aquarius: se io fossi Papa, scomunicherei Matteo Salvini
di Paolo Farinella, sacerdoye (Il Fatto quotidiano, 12 giugno 2018)
Finita la civiltà occidentale, è iniziata l’inciviltà di Salvini Matteo, segretario della Lega non più secessionista ma a vocazione planetaria, (vice)Presidente del Consiglio dei ministri in atto e cattolico «coerente» (l’ha detto lui medesimo in persona!), in risposta al cardinal Gianfranco Ravasi che twittava il Vangelo di Matteo al capitolo 25,43: «Ero straniero e non mi avete accolto». La motivazione della coerenza cristiana di Matteo Salvini: «Ho il rosario in tasca, io coerente con gl’insegnamenti del Vangelo».
È il capovolgimento di ogni ordine e principio. Se avere un oggetto in tasca è segno di coerenza, chi porta le «Madonne ripiene» di Lourdes, le immagini dei Padri Pii e armamentari di questo genere, cosa è? Un padre/madre eterno in terra?
Se io fossi Papa, lo scomunicherei in forza delle sue stesse parole che sono un insulto a tutto l’insegnamento evangelico, tenuto conto che per un ministro della Repubblica Italiana, fresco di giuramento «di servire con disciplina e onore», dovrebbe essere ininfluente l’aspetto, finto o vero che sia, della religione perché bastano e avanzano i principi della Costituzione che anche Salvini difese nel referendum del 2016, le leggi e i trattati internazionali, sottoscritti dall’Italia e la legge della coscienza che su tutto fa prevalere l’umanità e il pericolo imminente di vita.
Nella creazione, «Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte» (Gen 1,4-5), ora le tenebre prendono il posto del giorno come se niente fosse.
Mi ribello a questa ignominia che, come scrive Lucia Annunziata su Huffington Post, ci riporta indietro di 72 anni minimo alla vergogna della nave ebraica «Exodus». In questi giorni, nella mia parrocchia, abbiamo pubblicato tutti i bilanci e gli aiuti che diamo a oltre un centinaio di persone/famiglie (50% italiani e 50% di origine non italiana), provengono unicamente da contribuzioni volontarie di circa 150 persone.
Non un soldo pubblico, non un contributo politico che non vogliamo perché abbiamo un senso di dignità che esige la compartecipazione e il sentimento umano. La «pacchia» la rimandiamo indietro al mittente perché è lui che lucra elettoralmente e politicamente dalla disgrazia dei migranti.
A Salvini e a Di Maio che ho votato per scardinare l’immondo sodalizio «Renzi/Berlusconi» e non per trovarmi i fascisti al governo, nonostante la Costituzione, dedico queste parole nelle quali mi riconosco io e il meglio del popolo italiano:
Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu. Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran1203-1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, «Adamo» non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa «Umanità - Genere Umano», senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale.
L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di «civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
La nostra civiltà sta regredendo verso la preistoria, verso il nulla. Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: -***«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova il Comune ha deciso di restaurare la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova, in Italia, in Europa e nel Mondo si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa, gusci vuoti d’ideali, ma pieni di interessi miopi. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz.
Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti. Se non ci si chiede la ragione per cui i poveri aumentano, i senza casa aumentano, gli sbandati crescono esponenzialmente e i migranti africani chiedono il conto, siamo colpevoli di assassinio della civiltà, non salveremo noi, ma ci votiamo destiniamo alla distruzione.
Berthold Brecht (1898-1956), poeta e drammaturgo, nelle Poesie di Svendborg (1933-1938), 1937 (traduzione di E. Castellani-R. Fertonani) ne ha una col titolo «Germania», atto di accusa al sopruso del forte sul debole, all’arroganza del sistema sulla persona. A sessant’anni della sua morte, Germania è nome simbolico, sostituibile con Italia, Ungheria, Polonia, Austria, Olanda, Genova, Torino Milano, Roma, Io, Tu, Egli, Noi, Voi e Loro: -***«Parlino altri della propria vergogna, / io parlo della mia. /O Germania, pallida madre! / come insozzata siedi / fra i popoli! / Fra i segnati d’infamia /tu spicchi. / Dai tuoi figli il più povero/ è ucciso. / Quando la fame sua fu grande / gli altri tuoi figli / hanno levato la mano su lui. / ... Perché ti pregiano gli oppressori, tutt’intorno, ma / ti accusano gli oppressi? / Gli sfruttati / ti mostrano a dito, ma / gli sfruttatori lodano il sistema / che in casa tua è stato escogitato! / E invece tutti ti vedono / celare l’orlo della veste, insanguinato / dal sangue del migliore / dei tuoi figli. / O Germania, pallida madre! / Come t’hanno ridotta i tuoi figli, / che tu in mezzo ai popoli sia / o derisione o spavento!» (Berthold Brecht).
Possano la Poesia e la Memoria rinsavire Ragione e Dignità. Salvini, la Lega, Di Maio e l’illusione passeranno, l’umanità sopravvivrà e i poveri porteranno fiori sulle loro tombe. È la Storia, bellezza! È la Storia!
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
B
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
SCENARI
Fake news: cinquecento anni fa si scoprì la più grande bugia storica
Nel 1517 veniva dato alle stampe il testo che smascherava la Donazione di Costantino. Da Napoleone ucciso dai cosacchi ai Savi di Sion, la lunga tradizione dei falsi storici
di GIAN ANTONIO STELLA *
Non c’è gara: la bufala più grande di tutti i tempi, per quanto si sforzino i russi e tutti gli altri fabbricanti di menzogne stranieri e nostrani, è già stata pubblicata. Tredici secoli fa. E cambiò la storia del mondo. Finché non sbucò fuori Lorenzo Valla che nel 1440, mettendo a frutto gli studi di filologia e di retorica ma più ancora esercitando lo spirito di uomo libero, scrisse Il Discorso sulla falsa e menzognera donazione di Costantino.
Il documento, scrive Carlo Ginzburg, aveva avuto una «circolazione larghissima» per tutto il Medioevo. E «certificava che l’imperatore Costantino, in segno di gratitudine verso papa Silvestro che lo aveva guarito miracolosamente dalla lebbra, si era convertito al cristianesimo, donando alla Chiesa di Roma un terzo dell’impero».
In realtà, continua lo storico, è opinione oggi condivisa «che il constitutum sia stato redatto verso la metà del secolo VIII per fornire una base pseudo-legale alle pretese papali al potere temporale», ma per molto tempo la donazione «non venne assolutamente messa in dubbio». Nemmeno da Dante, convinto che quel potere temporale avesse gettato le premesse della corruzione della Chiesa: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre».
Certo è che quando Valla provò in modo inequivocabile e con parole aspre l’impossibilità che il testo fosse autentico («si può parlare di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando ancora non era né patriarcale né una sede né una città cristiana né si chiamava così, né era stata fondata, né la sua fondazione era stata decisa?»), questa prova del falso, per quanto preceduta da opinioni simili come quella del filosofo Nicolò Cusano, sollevò uno scandalo. Sopito per decenni dalla difficoltà con cui circolavano venticinque manoscritti. Ma esploso quando il tedesco Ulrich von Hutten, nella scia di Lutero e delle tesi affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg, riprese il testo e decise di stamparlo. Era il 1517: esattamente mezzo millennio fa.
Eppure, come ricorda Luciano Canfora nel suo La storia falsa, la donazione di Costantino non è la bufala più antica. Ben prima, infatti, sarebbe falsa una lettera attribuita a Pausania, nella quale l’allora potentissimo «reggente» spartano avrebbe scritto a Serse, il re dei Persiani appena sconfitto: «Ti restituisco questi prigionieri catturati in battaglia volendoti fare cosa gradita e ti propongo, se piace anche a te, di sposare tua figlia e di sottomettere al tuo potere Sparta e tutta la Grecia. Ritengo di essere in grado di realizzare questo piano se mi metto d’accordo con te. Se dunque qualcosa di questa proposta ti piace, manda qualcuno fidato con cui possa proseguire la trattativa». Un’offerta di tradimento da prender con le pinze, scrive Erodoto («Sempre che sia vero ciò che si dice...»), ma che Pausania pagò cara: condannato a morte, si rifugiò in un tempio dove non potevano toccarlo. E lì, senza toccarlo, lo murarono vivo. A morire di fame e di sete. Per un messaggio probabilmente falso scritto da altri.
La lettera del resto, insiste Canfora, «è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza». E racconta di «una lettera di Cicerone che descrive, con accenti quasi trionfali, come egli avesse smascherato, per semplice analisi “interna”, un dispaccio giunto in Senato mentre si era in seduta, e falsamente attribuito a Bruto, il cesaricida, allora impegnato a organizzare le forze repubblicane in Oriente».
Per non dire della misteriosissima missiva che nel 1165, secondo il cronista Alberico delle Tre Fontane, arrivò a papa Alessandro III, all’imperatore bizantino Manuele I Comneno e a Federico Barbarossa da «Gianni il Presbitero, per la grazia di Dio e la potenza di nostro Signore Gesù Cristo, re dei re e sovrano dei sovrani». Il quale si offriva di mettere le sue ricchezze e i suoi eserciti a disposizione per muover guerra agli islamici e difendere la Terra Santa. Era il mitico «Prete Gianni», inventato a quanto pare da un monaco tedesco, ma destinato a diventare una leggenda e spasmodicamente atteso per decenni e decenni... E come dimenticare la clamorosa notizia arrivata a Londra il 21 febbraio 1814? La portò, fingendo d’esser appena sbarcato a Dover, uno spossato «ufficiale» in divisa rossa: «Napoleone è stato ucciso dai cosacchi! L’hanno fatto a pezzi. Letteralmente». La Borsa schizzò all’insù. E poi più su, su, su... Finché scoppiò il panico: era tutto falso! L’inchiesta puntò diritto su Thomas Cochrane, ammiraglio, politico, finanziere: arrestato, condannato, degradato per aggiotaggio. E destinato a fornire lo spunto ad Alexandre Dumas per una delle vendette del conte di Montecristo.
Ancora più sensazionale, per la sua diffusione, fu la news sparata dai principali giornali del mondo il 23 maggio 1871: i difensori della Comune di Parigi, e più precisamente le pétroleuses, le donne incendiarie, avevano «incenerito il Louvre». L’eco fu enorme: ecco cosa sono i comunardi! Barbari! Friedrich Nietzsche e Jacob Burckhardt, racconta lo storico Manfred Posani Loewenstein che sta lavorando al tema per farne un libro, «si incontrano e piangono insieme l’“autunno della civiltà”» e «in Italia, mentre in Parlamento si discute dei fatti di Parigi e un deputato ricorda che “una parte del suo patrimonio artistico (...) forse in questo momento è rovinata sotto le bombe a petrolio degli odiatori dell’umanità”, un articolo della “Gazzetta dell’università” (un giornale studentesco pisano) cerca di giustificare le ragioni degli incendiari».
Il cattolico «Lo Trovatore» va oltre. E «celebra nella distruzione del Louvre una punizione divina per le conquiste (e i saccheggi) dell’era napoleonica». Troppo ghiotta, la notizia, per non sfruttarla. Al punto che, perfino dopo la smentita ufficiale (già il 24 maggio sui giornali inglesi), c’è chi insiste: «Ci sono quotidiani che riportano la falsa notizia ancora il 13 giugno, come l’italiano (e ultracattolico) “La frusta”, altri che mettono in discussione le smentite»...
Un classico, il rifiuto delle smentite. Che si ripeterà ad esempio coi Protocolli dei Savi di Sion. Sono passati 97 anni dall’inchiesta del «Times» del 1921 che dimostrò come il fantomatico piano segreto ordito dagli ebrei nel cimitero di Praga per impossessarsi di tutte le ricchezze del mondo fosse un documento falso frutto di diverse scopiazzature e «prodotto» nel 1903 del Novecento dall’Okhrana, la polizia segreta zarista. Eppure ancora oggi, ricordava Umberto Eco, «il parere dominante è sempre quello dell’antisemita britannica Nesta Webster: “Sarà un falso, ma è un libro che dice esattamente ciò che gli ebrei pensano, quindi è vero”». I risultati sono noti: i lager, le camere a gas, la Shoah...
E Orson Welles? La cronaca in diretta dello sbarco dei marziani sul suolo americano trasmessa il 30 ottobre 1938 dalla rete radiofonica Cbs resterà memorabile. Sembrò così «vera» che non solo il giorno dopo era su tutte le prime pagine, ma che un’ascoltatrice fece causa al geniale conduttore per aver fatto avere uno choc.
Più spiritosa era stata due anni prima la reazione di Stalin all’Associated Press che chiedeva conferme alla notizia che fosse morto: «Egregio signore, per quel che mi risulta dalle notizie della stampa estera, io ho già da tempo lasciato questa valle di lacrime (...). Poiché alle notizie della stampa estera non si può non accordare fiducia, a meno che non si voglia venir cancellati dal novero delle persone civili, La prego di credere a queste notizie e di non violare la mia pace nel silenzio dell’aldilà. Con stima I. Stalin».
* Corriere della Sera, 29 novembre 2017 (ripresa parziale).
RICCHEZZA E NOBILTÀ: LA CHIESA DI COSTANTINO, CELESTINO V E IL POSTUMO "RISARCIMENTO" ARALDICO ...
"ORIA. UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA": UN LAVORO MAGISTRALE DI GRANDE INTERESSE. Tra le sue righe una notazione che getta luce sulla intera storia della Chiesa e non solo su Celestino V (la Congregazione dei Celestini, la città di Oria e al Salento), ma anche su papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), su Benedetto XVI (Joseph A. Ratzinger), papa Francesco (Jorge M. Bergoglio), e, ancora, su DANTE ALIGHIERI (con la sua profetica lezione teologico-politica, cfr. "Monarchia" e "Commedia") e al tempestoso presente storico entro cui ancora oggi (nel III Millemnio d. C.) naviga l’Istituzione nata e cresciuta all’ombra di COSTANTINO, della sua "donazione", del suo "LATINORUM", e della sua "CARITAS" (da non confondere con la "CHARITAS", cfr. i commenti all’art. di Marcello Gaballo, "L’affresco di aant’Agostino nella cattedrale di Nardò", Fondazione Terra d’Otranto):
"Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (...), mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI";
nota 16: "Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso" (cfr. Marcello Semeraro, "Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria").
Federico La Sala
Il Concilio di Nicea
di Arnaldo Casali *
No, non è stata decisa la divinità di Cristo, al Concilio di Nicea; con buona pace di Dan Brown che l’ha scritto nel [Codice Da Vinci (**), scomodando centinaia di intellettuali per smentire la solenne baggianata e facendo conoscere anche ai più sprovveduti in materia religiosa il più importante Concilio della storia.
Se non ha votato la proposta di trasformare in Dio un profeta mortale (non ce ne era bisogno visto che la divinità di Cristo è già dichiarata nei Vangeli e predicata dagli apostoli) il Concilio di Nicea, aperto solennemente nel palazzo imperiale il 20 maggio dell’anno 325, ha stabilito in compenso la data della Pasqua, prodotto il Credo ancora oggi recitato durante ogni messa e scatenato la più grande eresia del Medioevo: l’unica - fino alla Riforma luterana - capace di uscire dalla dimensione della setta per trasformarsi in una vera e propria Chiesa alternativa a quella cattolica.
Eppure al primo Concilio ecumenico della storia della Chiesa il Papa non ha partecipato, e a convocarlo e presiederlo è stato un laico che non era nemmeno battezzato: l’imperatore Costantino.
Non c’è nulla di così strano, in realtà. A quel tempo il Papa non era il capo della cristianità ma semplicemente il vescovo di Roma; il suo potere aumenterà progressivamente, nel corso del Medioevo, quando - venuto meno l’impero romano - andrà di fatto a colmare il vuoto lasciato dai Cesari.
Nel 325, però, l’impero è ancora saldo e sul trono siede uno dei più grandi sovrani della storia romana che, dodici anni prima, dalla nuova capitale Milano ha emanato l’editto con cui viene garantita la libertà religiosa a tutti i cittadini, mettendo fine alle persecuzioni e segnando una svolta radicale nella storia del Cristianesimo.
Costantino non è un cristiano vero e proprio: si farà battezzare solo dodici anni dopo, in punto di morte, promuove il culto del dio Sole ed è il Pontefice Massimo della religione romana; all’indomani del Concilio farà uccidere suo figlio e sua moglie, mentre nella sua nuova capitale farà edificare vari templi a divinità pagane.
Certo, già dalla battaglia di Ponte Milvio che il 28 ottobre 312 lo aveva visto trionfare contro Massenzio, Costantino aveva ostentato la sua simpatia per la nuova religione, rifiutando i rituali divinatori degli aruspici e preferendo affidarsi alla protezione del “Sommo Dio”. Quando era entrato trionfante in Roma, poi, non era nemmeno salito in Campidoglio, dove c’era il tempio più sacro della città.
Negli anni successivi la politica religiosa nei confronti dei cristiani è passata dalla tolleranza al sostegno e l’imperatore, che ha progressivamente abbandonato i culti di Ercole e Giove, ha iniziato a far inserire simboli cristiani su vessilli, statue e monete. Nel 321 ha introdotto la settimana e stabilito che la domenica debba essere riconosciuta come giorno festivo (chiamandola però con il nome pagano di “Giorno del Sole”) e nel 324 ha messo al bando i rituali di magia e vietato le esecuzioni dei condannati a morte durante i giochi circensi. Tutto questo, però, senza proibire i culti pagani, continuando a manifestare rispetto per i fedeli dell’antica religione e mantenendo una certa ambiguità sulla sua fede personale.
Si tratta senza dubbio di una strategia politica, che mira a pacificare l’impero e a venire a patti con il sempre più potente movimento religioso, dopo il fallimento delle persecuzioni di Diocleziano. L’obiettivo di Costantino è quello di trasformare la forza potenzialmente disgregante delle energiche comunità cristiane in una forza di coesione per l’impero, che sarà ancora più forte sotto la protezione dell’unico vero Dio e con il sostegno dei suoi devoti.
Ma non si tratta solo di gestione di potere: l’interesse religioso dell’imperatore è sincero e sposare apertamente una religione che conta ancora appena il 10% dei cittadini non è certo una scelta popolare.
Tuttavia, più che seguace di Gesù Cristo, Costantino è un convinto monoteista.
Non è tanto il Vangelo ad affascinarlo, quanto l’idea di un Dio unico, che non necessariamente si identifica con la trinità: di fatto il primo imperatore cristiano promuove un sincretismo che tende a unire il cristianesimo con i culti mitralici e solari. Insomma quello che interessa a Costantino è che ci sia un solo Dio e che questo Dio non sia egli stesso (come pretendevano i suoi predecessori) ma un’entità superiore e onnipotente a cui affidarsi; tanto che nello stesso Editto di Milano si parla della “divinità che sta in cielo, qualunque essa sia” che “a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”. E senza dubbio il Sole è la più tangibile forma di un Dio padre e re dei cieli, che illumina e dà vita e che ogni giorno muore e ogni mattino risorge, vincendo le tenebre e donando nuova luce al mondo.
In alcune lettere private Costantino afferma di voler convertire tutti alla religione cattolica, ma di fatto la sua azione politica punta ad un ecumenismo che faccia confluire in un’unica forma le credenze religiose di tutti i popoli sottomessi a Roma.
D’altra parte se l’unico Dio è il sovrano dei cieli, sulla terra il padrone è lui. E a lui spetta, quindi, assumersi la responsabilità di gestirne il culto assicurando la benevolenza al suo popolo. Per questo Costantino, mentre mantiene le più alte cariche religiose pagane, si assume anche il compito di guidare il popolo cristiano.
Nel 325, dunque, con il singolare ruolo di “vescovo di quelli che sono fuori dalla Chiesa” ha convocato a Nicea la prima assemblea plenaria della Chiesa Cattolica dai tempi del Concilio di Gerusalemme (la riunione raccontata negli Atti degli Apostoli a cui avevano partecipato - pochi anni dopo la morte di Gesù - il fratello Giacomo, gli apostoli e san Paolo, per decidere se mantenere il cristianesimo nell’ambito dell’ebraismo o farne una religione nuova).
Al primo Concilio ecumenico vengono quindi convocati tutti i vescovi del mondo; quello di Roma, però, non si presenta perché la città turca è decisamente fuori mano e manda due preti in sua rappresentanza.
Costantino, d’altra parte, si prepara a trasferire in oriente la capitale stessa dell’impero, ma la scelta costa al Concilio l’adesione delle chiese occidentali: se l’imperatore ha invitato i vescovi di tutte le 1800 comunità del mondo cristiano a Nicea se ne presentano solo 300, e tutti provenienti dall’oriente o dal nord Africa, con sole tre eccezioni: Marco di Calabria dall’Italia, Osio di Cordova dalla Spagna e Nicasio di Digione dalla Gallia.
È vero anche che il principale problema che la riunione deve risolvere, per il momento, riguarda il Medi Oriente: si tratta del dibattito sulla natura di Cristo che ha spaccato la comunità di Alessandria e rischia di dilagare in tutto il mondo.
Dan Brown, nel suo stile, ha semplificato al massimo la questione parlando di una contrapposizione tra chi sosteneva che Cristo fosse un semplice uomo e chi lo venerava come Dio. In realtà il nodo era piuttosto se Gesù fosse stato creato o generato da Dio Padre. In parole più semplici, se Gesù è una creatura di Dio (ed è quindi nato in un preciso momento) o è la manifestazione storica di Dio stesso, ed è quindi eterno.
Da questo punto di vista i Vangeli non sono molto coerenti: se Marco, Matteo e Luca presentano Cristo come un personaggio storico nato a Betlemme di Giudea e rivelatosi in seguito essere il Messia e il figlio di Dio, Giovanni ne parla come del “Verbo” divino incarnato.
Il principale sostenitore della tesi secondo cui Gesù - in quanto figlio - è stato creato in un preciso momento storico è il prete e teologo libico Ario, che già nel 300 era stato scomunicato dal patriarca di Alessandria Pietro. Nel 311 Ario era stato riabilitato dal nuovo patriarca Achilla, e alla sua morte - nel 312 - era diventato il principale candidato alla successione.
Ario era stato però sconfitto alle elezioni da Alessandro, che nel 318 aveva convocato un sinodo appositamente per scomunicare di nuovo il rivale. Fuggito dalla città, il teologo eretico aveva trovato nuovi seguaci in Siria e in Palestina, raccogliendo il consenso anche di illustri teologi come Eusebio di Cesarea. Nel 321 un sinodo di cento vescovi egiziani ha di nuovo condannato le sue tesi e chiesto la convocazione di un concilio per fare maggiore chiarezza in materia cristologica.
Sotto il profilo squisitamente teologico non è in discussione la divinità di Cristo, quanto piuttosto se il Padre e il Figlio siano composti dalla stessa sostanza (nel senso aristotelico del termine) o se il Figlio sia stato creato dal Padre e si trovi dunque in una posizione subordinata.
Tutta la diatriba ruota intorno alla differenza terminologica tra “generato” e “creato”; differenza sostanziale secondo Alessandro e inesistente secondo Ario. 800px-constantine_burning_arian_books
I promotori della Consustanzialità credono che seguire l’eresia ariana significhi spezzare l’unità della natura divina e rendere il Figlio diverso dal Padre, in palese contrasto con le Scritture (“Io e il Padre siamo una cosa sola”, dice Gesù in Giovanni 10,30). Gli ariani, dal canto loro, rispondono citando il passo 14,29 dello stesso Vangelo: “Io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me”. Gli uni replicano dicendo che la trinità è eterna, quindi il Padre è sempre stato Padre e il figlio è sempre stato il figlio indipendentemente dalla sua incarnazione, gli altri ribadiscono che Cristo è una creatura elevata ad uno status divino. Lo scontro, come è evidente, riguarda elucubrazioni di teologia estrema riservate a dotti filosofi, e che non hanno alcuna ripercussione pratica sulla vita cristiana; eppure la diatriba, sempre più aspra, rischia di lacerare la Chiesa; per questo Costantino vuole che la questione venga risolta prima che sfugga di mano.
Ma quello dell’arianesimo non è l’unico nodo della matassa cristiana che l’imperatore si trova a dover sciogliere con i padri conciliari. C’è una questione ancora più delicata che va chiarita una volta per tutte: la data della Pasqua.
Quando bisogna celebrare le principali feste cristiane, infatti, ci si trova di fronte a un paradosso: della nascita di Cristo non si sa assolutamente nulla, eppure - per volontà dello stesso Costantino - la data del Natale è stata stabilita convenzionalmente il 25 dicembre, proprio per farla coincidere con la festa del Sole Invitto e identificare così le due divinità. All’opposto, del momento più importante della vita cristiana - la Resurrezione - la data si conosce con esattezza eppure ogni comunità la festeggiava in un giorno diverso.
Questioni di calendario: secondo i Vangeli Cristo è risorto il giorno 14 del mese di Nisan. Il problema è che i mesi ebraici seguono un calendario lunare dalla redazione molto complessa, anche perché legata alle osservazioni astronomiche e alla maturazione dell’orzo (per la festa degli azzimi, strettamente legata alla Pasqua ebraica); di conseguenza il 14 di Nisan cade ogni anno in un giorno diverso e con notevoli sfasamenti di anno in anno e persino di luogo in luogo. Inoltre, nei Vangeli è scritto che Gesù è risorto il giorno dopo il sabato, per questo ogni domenica i cristiani celebrano la resurrezione, che è - di fatto - una Pasqua settimanale. Il giorno di Pasqua deve quindi cadere necessariamente di domenica.
La confusione creata da tutte queste variabili aveva visto affermare, nel corso dei secoli, prassi molto diverse tra loro: lo scontro principale era tra quelli che celebravano la Pasqua insieme agli ebrei (detti Quatrodecimani) e quelli che la celebravano la domenica successiva. Altri ancora si erano svincolati dal calendario ebraico - giudicato inattendibile per le troppe variabili che conteneva - e avevano calcolato autonomamente le fasi lunari. Ma di fatto poteva capitare persino di celebrare due volte la Pasqua nello stesso anno solare.
Secondo alcuni cronisti, Costantino in persona si esprime per una presa di distanza dal calendario ebraico, con argomentazioni antisemite: “Fu prima di tutto dichiarato improprio il seguire i costumi dei Giudei nella celebrazione della santa Pasqua, perché, a causa del fatto che le loro mani erano state macchiate dal crimine, le menti di questi uomini maledetti erano necessariamente accecate” scrive Teodoreto di Cirro. “Non abbiamo nulla in comune con i Giudei, che sono i nostri avversari evitando ogni contatto con quella parte malvagia. Quindi, questa irregolarità va corretta, in modo da non avere nulla in comune con quei parricidi e con gli assassini del nostro Signore”.
Il Concilio di Nicea stabilisce così che la Pasqua venga festeggiata ogni anno la prima domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di primavera. E così viene calcolata ancora oggi.
Nel frattempo Ario ed Eusebio di Nicomedia, il suo principale sostenitore, si ritrovano in poco tempo in minoranza. E come sempre accade in questi casi, non tanto per le argomentazioni quanto per il caratteraccio: l’arroganza dei due teologi, infatti, è così insopportabile da indisporre la fazione moderata e indurla a votargli contro. Alla fine la teoria del Figlio della stessa sostanza del Padre vince con una larghissima maggioranza: persino Eusebio cambia posizione e solo Teona di Marmarica e Secondo di Tolemaide votano a favore di Ario.
Il nuovo dogma viene inserito nella Professione di fede che i cristiani reciteranno da quel momento in poi durante ogni celebrazione liturgica, in cui si precisa così che Gesù Cristo è “generato, non creato della stessa sostanza del Padre”.
Tuttavia il turbolento clima conciliare per niente conciliante, degenera al punto che san Nicola di Bari, vescovo di Mira, arriva a prendere a schiaffi Ario.
Uno schiaffo che il teologo sconfitto avrebbe restituito con gli interessi ai vincitori.
Sconfessato ufficialmente, infatti, Ario non si arrenderà: appena tre mesi dopo il Concilio, Eusebio di Nicoledia e Teognis di Nicea saranno esiliati in Gallia perché - pur avendo firmato gli atti dell’assemblea - riprenderanno a predicare la teologia ariana, guadagnando alla loro causa anche il Custode degli atti stessi.
Non solo, ma persino l’imperatore Costantino negli ultimi anni di vita finirà per passare al nemico, riabilitando Ario e ricevendo il battesimo ariano da Eusebio (e giocandosi così il titolo di santo, che verrà assegnato invece alla madre Elena).
Nei decenni l’eresia ariana continuerà a crescere fino a diventare una vera e propria chiesa alternativa a quella cattolica.
Se di eresie ce ne erano state già sin dall’inizi del Cristianesimo (dagli gnostici ai manichei, dai meleziani ai novaziani) e il Medioevo ne vedrà sorgere di importantissime (basti pensare ai catari, contro cui Innocenzo III bandirà addirittura una crociata, e i valdesi - che riusciranno a sopravvivere fino al Cinquecento ed entreranno nella Riforma protestante arrivando fino ad oggi) gli ariani saranno gli unici a conquistare intere nazioni, tanto da diventare - nell’alto medioevo - una vera e propria seconda Chiesa cristiana, a cui aderiranno la maggior parte delle popolazioni germaniche, tanto che a Ravenna esiste ancora la cattedrale ariana fatta costruire da Teodorico con tanto di battistero.
L’ariano resterà così nell’immaginario cristiano l’eretico per antonomasia, tanto che durante le crociate in occidente gli stessi musulmani verranno chiamati “ariani” e così continueranno ad essere chiamati per secoli.
A dare testimonianza di come il termine, ancora nel Seicento, venisse usato per indicare gli arabi è Alessandro Manzoni nel capitolo XIV dei Promessi sposi: Renzo si è ubriacato in una locanda e l’oste gli chiede le generalità come prescritto da un’apposita legge. Alle rimostranze di Renzo gli mostra la circolare, in cui campeggia lo stemma del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova con il volto di un re moro incatenato per la gola.
“Lo conosco quell’arme - risponde il nostro - so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con la corda al collo. Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole”. E così sia.
* FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale - senza immagini).
** DAN BROWN, IL CODICE DA VINCI ... KOYAANISQATSI (LA VITA SENZA EQUILIBRIO - LIFE OUT OF BALANCE).
Fatima, una storia tra fede e politica
Il contesto nazionale, la restaurazione cristiana del Portogallo, il conflitto mondiale, la guerra fredda, il Concilio, la decolonizzazione
di MARCO RONCALLI (La Stampa, 10/05/2017)
Roma. Un culto che prima si afferma a livello nazionale e poi si dilata nel mondo per un secolo conquistando fedeli, vescovi, Papi. E tutto che inizia con tre pastorelli analfabeti - Jacinta, Francisco e Lúcia -e il racconto dell’ apparizione di una “signora vestita di bianco”: che il 13 maggio 1917 li invita a dire il rosario per i peccatori e la fine della guerra; il 13 giugno ripete l’invito ed esorta Lúcia a imparare a leggere; il 13 luglio torna a chiedere preghiere per la fine della guerra, promettendo un miracolo entro tre mesi e rivelando loro un “segreto”; il 13 agosto dice di usare le donazioni per il culto; il 13 settembre insiste sulla preghiera per la fine del conflitto e chiede una cappella a Fatima; il 13 ottobre - ultima apparizione, durante la quale si verifica un fenomeno solare (il miracolo promesso?) - rivela come richiesta della Madonna del Rosario preghiere e penitenze, garantendo un rapido rientro dei soldati a casa.
Fermandosi solo sulle relazioni coeve alle apparizioni del ‘17, con le risposte semplici dei tre bambini, considerando che la guerra cessò solo alla fine del ‘18, non è facile capire la devozione popolare concentratasi subito su Fatima.
E forse ha ragione José Barreto nel suo saggio “I messaggi di Fatima tra anticomunismo, religiosità popolare e riconquista cattolica” pubblicato da poco su “Memoria e Ricerca” del Mulino, ad allargare lo sguardo anche alla cornice storica e socio-politica. Proviamo a seguirlo.
«Con Fatima - scrive - si aprì un canale di comunicazione con il sovrannaturale in un periodo tormentato della storia contemporanea portoghese, iniziato con la rivoluzione repubblicana del 1910 durante il quale si era verificata la maggiore offensiva contro la Chiesa mai registrata nel Paese». Chiesa che nel precedente periodo del costituzionalismo monarchico (1834-1910), pur con il cattolicesimo come religione di Stato, aveva vissuto una situazione definita da Manuel Clemente «una gabbia e nemmeno dorata».
È dunque un periodo particolare quello che vede la diffusione dei messaggi di Fatima: di guerra, e in Portogallo di guerra di religione. Con una imperante laicizzazione della società che vede scuole cattoliche chiuse, preti detenuti, beni ecclesiastici nazionalizzati, aule di culto e seminari trasformati in uffici pubblici, e vescovi importanti accusati di comportamenti contrari alle leggi e spediti in esilio persino durante le apparizioni del settembre e ottobre ’17.
«Il tentativo di connotare politicamente Fatima era inevitabile, e iniziò immediatamente a partire dal 1917», ha scritto Barreto. Aggiungendo: «I repubblicani denunciarono lo sfruttamento della “superstizione” popolare da parte delle forze anti-repubblicane; quest’ultime interpretarono le apparizioni della Vergine come le precorritrici del “miracolo” dello schiacciamento della “serpe giacobina“ riferendosi al colpo di Stato del dicembre 1917 di Sidonio Pais che destituì i repubblicani radicali e instaurò un regime presidenzialista terminato nel dicembre successivo».
Se si può convenire che, nella regione di Fatima, nei confronti dell’offensiva antireligiosa non ci fu allora una vigorosa resistenza cattolica, né ci fu un immediato consenso del clero sulle apparizioni, così come non è corretto indicare in quel periodo una correlazione tra apparizioni e militanza antirepubblicana, successivamente invece, la trasformazione di Fatima in una “Lourdes portoghese” finì per riflettere nei fatti un’opposizione allo spirito della repubblica atea e massonica. Senza dimenticare che le apparizioni potevano leggersi come un segno di salvezza per un Paese preda di angosce con le sue truppe in trincea a fianco dell’Intesa, preda di incertezze per la scarsità di beni primari e via dicendo.
Detto questo, restando sul fronte politico, è indubbio che è il golpe militare del dicembre ‘17 a riportare la riappacificazione tra il governo e la Chiesa e il riallacciamento delle relazioni diplomatiche con il Vaticano: che avranno pienezza con la dittatura militare (1926-1933) e larga parte dell’ Estado Novo (1933-1968 con Salazar e 1968-1974 con Caetano nel segno delle “tre F”: fado, futbol, Fatima . Ed è solo in questo arco cronologico che pare convincente l’affermarsi di una connotazione anche ideologica - in chiave anticomunista - dei messaggi mariani. Del resto l’ufficializzazione del culto di Fatima passò attraverso tutte le indagini canoniche avviate nel 1922 e concluse ben otto anni dopo con il riconoscimento formale del carattere sovrannaturale dei fatti, mentre in attesa del verdetto si registrarono un impegno del clero nella ricostruzione ufficiale della storia delle apparizioni, una vasta propaganda sulla stampa cattolica, visite importanti, e persino - dopo che Benedetto XV non si era mai pronunciato - la “indiretta approvazione” di Fatima da parte di Pio XI che nel 1929 benedice una statua della Vergine di Fatima arrivata dal Portogallo al Pontificio Collegio Portoghese di Roma. Lo stesso Pio XI di cui il cardinale Confalonieri che era stato suo segretario riportava questa frase a proposito di mistiche che gli inviavano lettere su lettere circa rivelazioni di Maria: «...Se ha qualcosa da farmi sapere, potrebbe dirlo a me».
Quando nel 1930 il vescovo di Leiria-Fatima Correia da Silva dichiara le apparizioni «degne di essere credute», morti Francisco e Jacinta, è Lúcia l’unica testimone di esse: entrata nel frattempo tra le Suore dorotee di Porto e inviata in Spagna, nel monastero di Tuy ha continuato ad avere visioni e locuzioni interiori (nel ’25 la richiesta di diffondere la «comunione dei cinque primi sabati» in riparazione dei peccati) e ha già steso la prima delle sei “Memorie” (1922, 1937, due nel 1941, 1989, 1993, edite in Italia dalla Queriniana con il titolo “Lucia racconta Fatima”, a cura di António Maria Martins) dedicate ai fatti della Cova da Iria e alle rivelazioni. Rivelazioni che, a ben vedere - una volta rese note - palesano intrecci con drammi del XX secolo: dalle guerre mondiali alla parabola della Russia sovietica.
Tra le istruzioni che alla fine del maggio ‘30 Lúcia afferma di aver ricevuto dal cielo - preceduta da un «se non mi sbaglio» - ecco la promessa divina di «porre fine alla persecuzione in Russia se il Santo Padre avesse, insieme a tutti i vescovi del mondo, compiuto un solenne e pubblico atto di riparazione e di consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria». Sino a questo momento, fissato in una lettera al confessore, il gesuita José Bernardo Gonçalves, non si trova alcun riferimento pubblico o privato alla Russia e al comunismo, ma proprio nel febbraio precedente, peggiorate le condizioni di ortodossi e cattolici, congelate le trattative segrete che la Santa Sede aveva provato a tessere con i sovietici, Pio XI pubblicamente aveva chiesto a tutto il mondo cristiano una «crociata di preghiera per la Russia». In ogni caso, come ha osservato Barreto nel saggio citato, «le istruzioni celesti ricevute da Lúcia nel ‘30 non ottennero una grande attenzione dal vescovo di Leiria fino al ‘36, quando il Fronte Popolare prese il potere nella vicina Spagna». E proprio in quel periodo Lúcia accettò la proposta del suo confessore di insistere con il vescovo e il Vaticano sul tema della «consacrazione della Russia», pur rinnovando per scritto il timore di «essersi lasciata illudere dall’immaginazione», o da qualche «illusione diabolica»,come scrisse in due lettere del 18 maggio e 5 giugno 1936.
L’anno dopo, imperversando la guerra civile spagnola, il vescovo di Leiria mette a conoscenza Papa Ratti delle richieste celesti a Lúcia circa la «consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e Maria» da effettuarsi insieme a «tutti i vescovi del mondo cattolico», e l’approvazione papale della devozione dei «primi sabati», come condizioni per la fine della persecuzione religiosa in Russia. Nella lettera (riportata tra i Novos Documentos de Fátima editi dall’ Apostolado da Imprensa nel 1984), il vescovo ricordava a Pio XI come già nelle raccomandazioni che la Vergine di Fatima aveva fatto nel 1917 fosse chiaro «come Nostra Signora stesse preparando la lotta contro il comunismo», dal quale il Portogallo era stato sino ad allora preservato. Il Pontefice non risponde a questa richiesta (come non rispose ad una analoga richiesta di un’ altra veggente portoghese, Alexandrina da Costa, ai tempi screditata e poi beatificata da Giovanni Paolo II). «Quanto alla consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria, non è stata fatta nel mese di maggio come lei si aspettava. Si farà certamente, ma non subito», così Lúcia il 15 giugno del ’40 a padre Gonçalves.
Nel frattempo successore di Pio XI è Papa Pacelli. Obbedendo al vescovo di Leiria e di Gurza, Lúcia gli scrive nell’ottobre ’40 collocando per la prima volta la richiesta celeste di consacrazione della Russia nel 1917, come parte del segreto da lei custodito dal 13 luglio di quell’anno (lettera che sarà resa nota pubblicamente solo negli anni ’70).
Nell’estate del ’41 mentre è in corso l’invasione dell’Urss da parte della Germania, il vescovo di Leiria ordina a Lúcia di redigere una nuova memoria sulla guerra e la Russia. E a questo testo - completato nell’ottobre ’41 - Lúcia affida la versione definitiva delle due prime parti del segreto (la terza parte, redatta nel ’44 e inviata a Roma nel ’57, sarebbe stata divulgata da Giovanni Paolo II nel 2000) che Pio XII rende pubbliche nel ’42, la visione di un pezzo di inferno («un grande mare di fuoco» con immersi «i demoni e le anime») e il messaggio della Vergine sulla consacrazione della Russia («se ascolterete le mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni....»).
Nel frattempo il testo del “segreto”, integro, per sunto, stralci, con riferimenti alla Russia alterati o tagliati, gira per il mondo. Ed è Pio XII che il 31 ottobre ‘42, data delle nozze d’argento delle apparizioni e della sua consacrazione episcopale, con un radiomessaggio consacra il «genere umano» al Cuore immacolato di Maria, invocata con il titolo di “Regina della pace” (come aveva fatto Benedetto XV). In questa preghiera il Papa si allontanava dalla richiesta precisa della Vergine, ma faceva allusioni alla devozione mariana dei russi «popoli separati dall’errore e la discordia», e alla loro auspicata ricongiunzione «all’unico gregge di Cristo, sotto un unico, vero pastore». Nello stesso testo anche però un riferimento all’intervento celeste grazie al quale la «nave dello stato portoghese «persasi «nella tormenta anti-cristiana e anti-nazionale» aveva ritrovato «il filo delle sue più belle tradizioni che la rendevano una nazione fedelissima» e persino un omaggio anche alla classe politica del cambiamento, definita «uno strumento della Provvidenza». Da non dimenticare che Paolo VI alla chiusura della terza sessione del Vaticano II avrebbe fatto riferimento a questa consacrazione del predecessore inviando con una missione la simbolica rosa d’oro al santuario della Madonna di Fatima.
Non solo. Come ha scritto sulla rivista “Jesus” Alberto Guasco: «Se una rivelazione ex post eventu è manna per critici e avversari, Pio XII mostra invece di prenderla sul serio». Eccolo così promuovere l’istituzione della festa del Cuore immacolato di Maria (1944), far incoronare la Madonna di Fatima regina del mondo (1946), ripetere la consacrazione in una lettera apostolica del 7 luglio 1952. A quella data Pio XII conosce anche la terza parte del segreto ricevuta in busta chiusa dal vescovo di Leiria, ma non ne ha ritenuto opportuna la divulgazione. A quella data le peregrinazioni dell’immagine di Fatima continuano in tutto il mondo e sulla “Piazza Bianca” del santuario si sono già viste scene come quella dell’ottobre 1951: con il noto predicatore americano Fulton Sheen, che davanti a 100mila pellegrini profetizza, come risultato delle preghiere dei milioni di fedeli lì affluiti, la trasformazione del simbolo del martello e della falce in una croce e una luna sotto i piedi dell’Immacolata.
Non tutti però manifestano in quel periodo entusiasmi così accesi. Anzi già dalla fine della guerra, Fatima occupa discussioni fra teologi, avviate da Edouard Dhanis, il gesuita belga che ne ha diviso la storia in due parti - una vecchia sulle testimonianze raccolte nel 1917, una nuova sul corpus originale integrato con i nuovi dati contenuti nelle “memorie”- scrivendo già nel ’44: «Siamo portati a credere che, nel corso degli anni, alcuni eventi esterni e certe esperienze spirituali di Lúcia abbiano arricchito il contenuto originale del segreto». Senza porre in causa la sincerità della veggente, Dhanis osservava che «il modo poco oggettivo in cui nel segreto erano state descritte le cause che avevano provocato la Guerra [mondiale] poteva solo essere spiegato dalla influenza che la Guerra civile spagnola aveva avuto sul pensiero di Lúcia». -In effetti, il segreto imputava alla Russia tutta la responsabilità per le guerre e le persecuzioni verso la Chiesa, seppure all’interno di una concezione non storica e apocalittica di questi flagelli come punizione divina per i peccati del mondo. Le tesi di Dhanis poi rettore della Pontificia Università Gregoriana, sarebbero state duramente dibattute negli ambienti vicini a Fatima costringendolo a toni più concilianti. Lui, membro sino alla morte della Commissione teologica internazionale, a fare da apripista per altri teologi come nel suo caso accusati dai tradizionalisti di essere «nemici di Fatima».
Accuse dalle quali non furono risparmiati Papi come Giovanni XXIII e Paolo VI, invitati più volte a rinnovare in modo completo la consacrazione e a divulgare l’ultima parte del segreto, non disposti in tempi di Ostpolitik e di Concilio, a lasciar passare interpretazioni del messaggio di Fatima ultraconservatrici, anti-ecumeniche, in un quadro rinnovato nel quale la Chiesa tesseva nuove relazioni ad Est, affievolendo le aspettative delle tesi legate all’«ultimo segreto di Fatima» che per molti si sarebbe riferito ad una grave crisi interna alla Chiesa causata dal Concilio. Il resto è noto: nel ‘59 e nel ‘65 Giovanni XXIII e Paolo VI lessero il segreto e decisero di non divulgarlo (facendo alimentare nuove speculazioni).
Negli anni ’60 la questione coloniale segnò un divario tra Vaticano e governo portoghese già alle prese con una vera opposizione cattolica interna intensificatasi con l’inasprimento delle guerre in Africa e l’esilio forzato del vescovo di Porto nel 1959. Proprio quest’ultimo, Ferreira Gomes, rientrando nel ’70 dal suo esilio in Francia, fu il primo prelato portoghese a formulare aperte critiche nei confronti di Fatima (già da lui definita una «Lourdes reazionaria»), sottolineandone aspetti di «culto magico» e «religione utilitaristica». «Per i cattolici che in questo periodo combattevano il regime in Portogallo, Fatima ebbe un significato molto diverso, se non opposto, a quello che avrebbe avuto per la lotta di liberazione polacca degli ani ’80», ha notato Barreceto. Aggiungendo che: «L’episcopato portoghese, tra la crescente contestazione proveniente dalla Chiesa e le critiche cattoliche internazionali, riuscì, seppur tardivamente, a svincolarsi dal regime poco prima della rivoluzione dell’aprile 1974 che ne decretò la fine». Apparentemente incurante degli sconvolgimenti politici, il santuario di Fatima continuò ad accogliere folle di devoti. Anzi la forza della fede popolare protesse la Chiesa dal potere rivoluzionario del biennio ‘74-‘76.
Morto Paolo VI e subito dopo Giovanni Paolo I, che da patriarca di Venezia aveva incontrato Lucìa, ecco Giovanni Paolo II: il “Papa di Fatima” nonché «protagonista della terza parte del segreto». Il Papa che a Fatima nel 1982 non esita a riconoscere che la Vergine gli ha salvato la vita, che ripete la consacrazione del mondo (13 maggio ‘82 e 25 marzo ‘84), che beatifica i due pastorelli che ora Francesco canonizza; che ha consentito la divulgazione del terzo segreto con tanto di “guida alla lettura” dell’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger. Sì, il futuro Benedetto XVI, che nel 1996 a Fatima, ricordò l’invito vero di Maria che «parla ai piccoli per mostrarci quanto è necessario sapere: cioè, prestare attenzione all’unico necessario: credere in Gesù Cristo» . Quanto al resto ci vengono in mente solo le parole di Paul Claudel che definì Fatima «un’esplosione traboccante del sovrannaturale in un mondo dominato dal materiale».
LEGGI ANCHE: Fatima, mistero e profezia del Novecento
LEGGI ANCHE: Il Terzo Segreto di Fatima: dati certi, dubbi e retroscena
* www.lastampa.it, 10.05.2017.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico (=cattolicesimo costantiniano....
Inedito.
René Girard: non siate nuovi sacrificatori
di Laurent Linneuil e Guillaume De Tanoüarn *
In volume 4 interviste all’antropologo Girard morto nel 2015. “Nessuna fede deve essere troppo fiera di sé e deve chiedersi se è degna della Rivelazione che ha ricevuto. Vale anche per i cristiani"
L’esegesi classica, nella lettura di Adamo ed Eva, insiste sul peccato d’orgoglio mentre lei sposta questa lettura sul piano del desiderio mimetico...
È facile trovare nei testi evangelici il fatto che Satana è omicida fin dall’inizio: «Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio» (Giovanni 8, 44). Nel capitolo 8 Giovanni ci fa vedere l’inizio della cultura, ci dice: «Voi vi credete figli di Dio, ma siete evidentemente figli di Satana poiché non sapete nemmeno come respingerlo. Vi credete figli di Dio in una sequela naturale senza sospettare di rimanere nel sacrificio». Ma questi testi non sono mai veramente letti. Cosa rimprovera Giovanni agli ebrei? In cosa si distingue dal giudaismo ortodosso in questo rimprovero? Queste le vere domande...
Rimprovera agli ebrei di valorizzare la loro comprovata filiazione...
Sì, senza vedere la loro propria violenza, senza vedere il peccato originale in certo modo. «Il nostro padre è Abramo». Gesù gli dice: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (Giovanni 8, 39). Ora, è la verità che rende liberi. Questa porta a mostrare come il peccato originale, anche se non è il caso di definirlo, è legato alla violenza e al religioso come è nelle religioni arcaiche o nel cristianesimo deformato dall’arcaismo di cui nella storia non giunge a trionfare totalmente. Mi guardo bene dal definire il peccato originale.
Quello che appare molto sorprendente è il fatto che nella Bibbia non si conosce la ragione per la quale Abele è preferito a Caino...
Potrebbe esserci, paradossalmente, una ragione visibile nell’islam. Abele è colui che sacrifica gli animali e siamo in questa fase: Abele non ha voglia di uccidere suo fratello forse perché sacrifica gli animali e Caino è agricoltore. E qui non ci sono sacrifici animali. Caino non ha altro mezzo d’espellere la violenza che uccidere suo fratello.
Ci sono testi davvero straordinari nel Corano che dicono che l’animale inviato da Dio ad Abramo per risparmiare Isacco è lo stesso animale ucciso da Abele per impedirgli di uccidere suo fratello. È affascinante e mostra che il Corano sul piano biblico non è insignificante. È molto metaforico ma di una potenza incomparabile. Mi colpisce profondamente.
Ci sono scene altrettanto confrontabili nell’Odissea, è straordinario. Quelle del Ciclope. Come si scappa dal Ciclope? Mettendosi sotto la bestia. E allo stesso modo che Isacco tasta la pelle di suo figlio per riconoscere, crede, Giacobbe, così il Ciclope tasta l’animale e sente che non è l’uomo che cerca e che vorrebbe uccidere. In un certo modo il gregge di bestie del Ciclope è ciò che salva. Si ritrova la stessa cosa nelle Mille e una notte, molto più tardi, nel mondo dell’islam e questa parte della storia del Ciclope scompare, non è più necessaria, non ha più alcun ruolo, ma nell’Odissea c’è un’intuizione sacrificale molto significativa.
Lei ha detto che questo aspetto di denunzia dell’omicidio fondatore nel discorso di Gesù è stato decisamente mal compreso: vi si legge spesso dell’antisemitismo. Per quale ragione l’evento del cristianesimo, se è stato così mal compreso, non ha provocato uno scatenamento della rivalità mimetica?
Si può dire che questo sfocia in scatenamenti di rivalità mimetica, in opposizione di fratelli nemici. La principale opposizione di fratelli nemici nella Storia è proprio tra ebrei e cristiani. Ma il primo cristianesimo è dominato dalla Lettera ai Romani che dice: la colpa degli ebrei è molto reale, ma è la vostra salvezza. Soprattutto, non andate vantandovi voi cristiani. Siete stati innestati grazie alla colpa degli ebrei. Compare l’idea che i cristiani potrebbero rivelarsi del tutto indegni della Rivelazione cristiana così come gli ebrei si sono rivelati indegni della loro rivelazione. Credo profondamente che sia qui che bisogna cercare il fondamento della teologia contemporanea. Il libro di monsignor Lustiger, La Promesse, è ammirevole proprio in ciò che afferma sul massacro degli Innocenti e la Shoah. Bisogna riconoscere che il cristianesimo non ha di che vantarsi. I cristiani ereditano da san Paolo e dai Vangeli allo stesso modo che gli ebrei ereditano dalla Genesi e dal Levitico e da tutta la Legge. Ma non lo hanno compreso poiché hanno continuato a combattersi e a disprezzare gli ebrei.
Hanno continuato a essere nell’ordine sacrificale. Ma la Cristianità non è una contraddizione in termini? Una società cristiana è possibile? I cristiani non sono sempre dei contestatori dell’ordine di Satana e dunque dei marginali?
Sì, hanno ricreato l’ordine sacrificale. Storicamente è fatale e direi allo stesso tempo necessario. Un passaggio troppo brusco sarebbe impossibile e impensabile. Abbiamo avuto duemila anni di storia e questo è fondamentale.
Il mio lavoro ha rapporto con la teologia, ma ha anche rapporto con la scienza moderna che tutto storicizza. Mostra che la religione dev’essere storicizzata: essa fa degli uomini esseri che restano sempre violenti ma che diventano più sottili, meno spettacolari, meno prossimi alla bestia e alle forme sacrificali come il sacrificio umano. Potrebbe essere che si abbia un cristianesimo storico che sia una necessità storica.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico, sembra che siamo oggi in un periodo cerniera: sia che apra direttamente sull’Apocalisse, sia che ci prepari un periodo di comprensione più grande e di tradimento più sottile del cristianesimo. Non possiamo fermare la storia e non ne abbiamo il diritto.
Per lei l’Apocalisse è la fine della storia...
Sì, per me l’Apocalisse è la fine della storia. Ho una visione il più tradizionale possibile. L’Apocalisse è l’avvento del Regno di Dio. Ma si può pensare che ci siano ’piccole o semiapocalissi’ o crisi, vale a dire periodi intermedi...
In un certo senso il cristianesimo è il primo e insuperato «illuminismo». Il sacrificio, esito della “rivalità mimetica” messa in luce da René Girard nei suoi studi come stigma della violenza delle religioni primitive, viene smontato e abbattuto dalla morte di Cristo sulla croce. Cristo muore perché deve morire, come migliaia e migliaia di vittime innocenti prima di lui, ma così prende la parola per la vittima, e svela l’ingiustizia della morte dell’innocente.
Il volume «Girard. Oltre il sacrificio», edito da Medusa (pagine 112, euro 13), raccoglie quattro interviste al grande studioso delle religioni e dei miti, morto nel 2015.
Anticipiamo alcuni brani da una conversazione uscita sulla rivista “Certitude” nel 2005.
L’immaginario del cattolicesimo romano.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note - di Federico La Sala
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
IL CINQUE MAGGIO *
Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita 5
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Nè sa quando una simile
Orma di piè mortale 10
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
Quando, con vece assidua, 15
Cadde, risorse e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio, 20
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio:
E scioglie all’urna un cantico
Che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi, 25
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar. 30
Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito 35
Più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Serve, pensando al regno; 40
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria, 45
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
L’un contro l’altro armato, 50
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe’ silenzio, ed arbitro
S’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio 55
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d’immensa invidia
E di pietà profonda,
D’inestinguibil odio
E d’indomato amor. 60
Come sul capo al naufrago
L’onda s’avvolve e pesa,
L’onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere 65
Prode remote invan;
Tal su quell’alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
Narrar se stesso imprese, 70
E sull’eterne pagine
Cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei, 75
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli, 80
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio 85
Cadde lo spirto anelo,
E disperò: ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò; 90
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre 95
La gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza 100
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita, 105
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
* Fonte: Alessandro Manzoni
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
Un monumentale saggio di Alessandro Barbero su Costantino sfata luoghi comuni durati secoli
Non fu lui a emanare l’editto sulla tolleranza e anche la sua “visione celeste” è dubbia
Con misure clientelari cercò il consenso di molti gruppi sociali. Inclusi i cristiani
L’imperatore che inventò la realpolitik
di Chiara Frugoni (la Repubblica, 13.06.2016)
Alessandro Barbero, concludendo il suo “Costantino il vincitore”, (Salerno editrice) scrive: «Questo libro avrà raggiunto il suo scopo se riuscirà a convincere i suoi lettori che gli studi costantiniani, nonostante la loro apparente floridezza, avrebbero un gran bisogno di un rasoio di Occam, che venisse a spuntare la barba di Eusebio» (l’allusione è al principio formulato da Guglielmo di Occam: inutile formulare più ipotesi del necessario per spiegare un problema; Eusebio di Cesarea è una delle importanti fonti per ricostruire la figura di Costantino, che come tutte le altre, sono state passate al vaglio della critica moderna, proponendo però spesso stupefacenti congetture e interpretazioni).
In realtà Alessandro Barbero ha usato egli stesso lungo tutto il libro il rasoio di Occam e si rimane veramente stupiti nel constatare come serissimi studiosi di storia antica si siano mostrati tanto disinvolti nel trasformare labili indizi in granitiche certezze, approssimativi e disattenti nel controllare le fonti e le proprie affermazioni, pronti a fraintendere e, francamente, a immaginare.
Costantino il vincitore è un volume impegnativo per il numero di pagine (con gli indici, 850) ma non per la lettura, che risulta appassionante e piacevole insieme. Si tratta dunque di un saggio assai documentato (nella bibliografia le opere citate superano largamente il migliaio), rivolto agli studiosi, ma anche al grande pubblico, per lo stile piano e discorsivo, spesso ironico e sorridente.
Diciamolo subito: tutto quello che abbiamo imparato sui libri di scuola va rivisto, dalla croce accompagnata dalla scritta “in hoc signo vinces” apparsa in cielo a Costantino alla vigilia della vittoriosa battaglia di Ponte Milvio, all’editto di tolleranza di Milano del 313 che non fu emanato a Milano, non fu un editto e fu pubblicato dal collega e rivale di Costantino, Licinio.
Alessandro Barbero lascia parlare, per poi discuterla, ogni fonte da sé, in modo autonomo; accanto alle fonti scritte sono presentate, ognuna con la propria specificità e nel suo contesto, anche le testimonianze materiali: le monete, le epigrafi, i monumenti.
Il libro segue Costantino dalla giovinezza alla morte: una vita segnata anche da truci vicende famigliari: fece uccidere la seconda moglie Fausta, il padre e il fratello di lei e il proprio figlio Crispo, che lo aveva aiutato in tante vittorie. La battaglia di Ponte Milvio del 313, una vittoria schiacciante e inaspettata con lo scempio del cadavere di Massenzio, produsse un’enorme impressione: l’imperatore è vincitore di una guerra civile nella quale le sue mani «grondano di sangue romano». Dai pericoli della mischia furibonda e da giudizi che potrebbero essere non del tutto benevoli Costantino fu messo al riparo dalla visione celeste avuta prima della battaglia che gli assicurava la vittoria.
Tuttavia i racconti di Eusebio di Cesarea e di Lattanzio divergono in maniera sostanziale. Secondo Eusebio sarebbe stato lo stesso imperatore ben dopo gli avvenimenti a raccontargli dell’apparizione in cielo: «Il trofeo della croce fatto di luce e accanto una scritta: “Con questo segno vinci”», apparizione vista da Costantino e dall’esercito. Alessandro Barbero nota l’inverosimiglianza del fatto che nessuno degli spettatori abbia mai raccontato il portento attendendo che l’imperatore molti anni dopo decidesse, lui solo, di rompere il silenzio.
Secondo Lattanzio, l’imperatore vide invece in sogno “caeleste signum Dei” descritto in modo assai poco chiaro: una Chi greca messa di traverso e una Rho (che in greco, ha la forma della nostra P) e gli fu ordinato di mettere tale “signum” sugli scudi prima di attaccare battaglia. La storiografia si è puntualmente divisa intendendo o che Lattanzio pensasse al simbolo della croce o invece a un cristogramma formato dalle prime due lettere greche XP della parola Cristo. (Entrambe le possibilità sono state raccolte dall’iconografia).
Tuttavia il signum di Lattanzio era anche un emblema solare e dunque forse Costantino stesso, in quel tempo devoto al culto del Sole, potrebbe avere scelto un simbolo che attirava pagani e cristiani. Forse si è trattato addirittura di un’invenzione di Lattanzio: non esiste alcuna attestazione iconografica strettamente contemporanea del signum Dei iscritto sugli scudi, né sulle monete, né sull’arco di Costantino. Lattanzio raccontò una storia molto simile, attribuendo un sogno di ispirazione cristiana a Licinio, un sogno che la storiografia ha del tutto dimenticato, perché, mi permetto di azzardare, Licinio è un perdente, sconfitto da Costantino, giustiziato per avere complottato una rivolta e Costantino è, come egli stesso si soprannominò, il Vincitore.
Mi è impossibile dare conto, nello spazio a disposizione, della vastità della ricerca di Alessandro Barbero, frutto di anni e anni di studio. Voglio sottolineare però, che dopo avere maneggiato con tanta maestria il rasoio di Occam, l’autore ha contribuito a delineare con molta sicurezza un inedito e finalmente più sicuro ritratto di Costantino.
Politico abilissimo, divenuto unico imperatore per spietata durezza e grandi doti militari, Costantino lavorò alla costruzione di un potere imperiale e dinastico assicurandosi il consenso di alcuni compatti gruppi sociali anche con sbalorditive concessioni.
Ad esempio i grandi possessori di fondi fiscali non dovevano essere vessati dai funzionari le cui verifiche, se ritenute ingiuste, avrebbero comportato la morte sul rogo di chi in teoria cercava di difendere gli interessi del fisco. Costantino assicurava così una protezione che aveva valenza clientelare. Vietò le vendette politiche e le delazioni: un altro modo per garantirsi la gratitudine di chi si era arricchito ad esempio sotto Massenzio e temeva l’ira del vincitore. Rassicurò i veterani concedendo una serie di immunità.
Avendo compreso che anche i cristiani erano un compatto gruppo sociale, in prospettiva sempre più importante, mostrò per la nuova religione tutta la sua benevolenza, anche se fino alla fine della vita, pur manifestando una crescente freddezza verso i pagani, salvaguardò i culti civici e i sacerdoti loro addetti, senza chiudere i templi. Tutta la politica di Costantino fu di natura inclusiva, tesa a evitare i contrasti.
Costantino solo in punto di morte ricevette, forse, il battesimo. Convinto per tanti anni di essere protetto da varie divinità pagane (come dimostrano le monete) credette davvero, nella maturità, nell’esistenza di un unico Dio? Perché la Chiesa scelse Costantino come il primo imperatore cristiano? Qui potrebbe iniziare un altro libro.
Costantino imperatore trasformista
Bisogna superare l’immagine di un convertito che abbraccia la fede cristiana senza ripensamenti
Dall’indagine di Alessandro Barbero emerge il percorso mutevole di un monarca mai simile a se stesso che persegue a lungo forme di sincretismo religioso
di Amedeo Feniello (Corriere della Sera, La Lettura, 22.05.2016)
Riparlare oggi della figura di Costantino può apparire anacronistico. C’è qualcosa ancora da dire su un personaggio su cui sono stati scritti fiumi di parole? Alessandro Barbero, invece, nel suo ultimo, importante lavoro intitolato Costantino il vincitore (Salerno) sostiene il contrario. Che su Costantino c’è ancora tanto da scavare e da raccontare. Basta non essere pedissequi e seguire una prospettiva originale e metodologicamente avvincente. Così Barbero accantona la storiografia sedimentata nel tempo, spesso caotica e fuorviante, ricca di episodi che fanno ormai parte della vulgata (ricordate la visione della Croce con la scritta in hoc signo vinces ?), ma spesso fondati su «un mero montaggio di congetture». E sceglie, da par suo, un’altra strada. Irta di insidie, ma filologicamente corretta, che è quella di riprendere le fonti originarie, convinto che «ogni testimone coevo ha una sua versione degli avvenimenti che non dipende solo dalle informazioni fattuali di cui dispone, ma anche e soprattutto dal suo orientamento culturale e ideologico».
Barbero riprende le testimonianze più varie, da quelle letterarie - dei panegiristi come degli ideologi, tra cui emerge Eusebio di Cesarea - a quelle materiali della propaganda costantiniana, al corpus delle leggi promulgate durante il suo regno, alle lettere e agli editti imperiali relativi alla vita della Chiesa e alle sue controversie interne, riportati dai polemisti cristiani del IV secolo, fino alle orazioni e ai manuali di storia composti nei decenni successivi alla sua morte, prima che il mito sovrastasse il ricordo dei contemporanei.
Più che da biografo, Barbero lavora da investigatore. Con una domanda di fondo: le fonti su Costantino, cosa raccontano? Sostanzialmente, parlano di quattro momenti. Il primo, di ascesa, come figlio di Costanzo, tetrarca di un Impero romano diviso in quattro, il meno accanito nella persecuzione dei cristiani, che lo portò a raggiungere il titolo di Augusto e a scontrarsi con Massenzio, fino alla fatidica battaglia di Ponte Milvio (312), momento che si ammanta di un alone leggendario, con un comandante assistito dalle potenze celesti. Il secondo è di ripartizione del potere con gli altri due Augusti, Licinio e Massimino, con l’alleanza stretta tra Costantino e il primo dei due; finché Licinio non liquida Massimino e l’impero è, ormai, affare loro, di Costantino e Licinio, che regnano beneficando largamente i cristiani, cui si spalanca un’epoca nuova, di prosperità. Il terzo è l’epoca dello scontro con Licinio, che termina con la vittoria di Costantino solo dominus dell’impero ormai unificato, che associa al potere il figlio, Crispo. Il quarto è il tempo dell’assestamento e della politica dinastica e religiosa, con l’eliminazione del figlio Crispo e della moglie Fausta; la definizione di una successione (Costantino jr., Costanzo e Costante); l’attenzione crescente verso le comunità cristiane; e l’impegno per ricucire le violente spaccature che dividono le Chiese d’Africa e d’Egitto con la convocazione del Concilio di Nicea (325); fino al suo battesimo e alla morte come membro della Chiesa.
Narrata così, la storia di Costantino non presenterebbe novità e si offrirebbe al lettore quasi priva di fascino, secondo una direttrice che parte dall’ascesa politica e arriva fino alla sua adesione al cristianesimo. Però, avverte Barbero, il percorso fu tutt’altro che lineare, con continui andirivieni, scompensi, cambiamenti che solo la tradizione e la vulgata hanno appiattito, fino a regalarci un’immagine, uniforme e incontrovertibile, di un sovrano che abbraccia la fede senza ripensamenti.
Riprendo un solo esempio nell’enorme mole di materiale presente nel libro e relativo alla numismatica. Le innumerevoli monete coniate durante il regno di Costantino costituiscono una fonte importante «per costruire il flusso della comunicazione politica indirizzata dall’imperatore ai sudditi».
Cosa rivelano? La fortissima comunicazione simbolica e l’assoluta autorappresentazione. Con delle prospettive inattese. Ci si aspetterebbe, ad esempio, dopo la battaglia di Ponte Milvio, svolta della nuova epoca, l’utilizzo dei simboli cristiani. E invece sulle monete non c’è la Croce, ma il dio Sole. Più di metà di tutte le monete messe in circolazione a nome di Costantino fra la vittoria di Ponte Milvio e il decennio successivo sono insomma dedicate al Sole che è, parole di Barbero, «l’invincibile compagno dell’imperatore, segno inequivocabile di una scelta religiosa clamorosamente ostentata e certo popolare».
Verrebbe da dire: e le visioni cristiane? E il signum raccontato da Lattanzio a Ponte Milvio? E la cristianizzazione dell’imperatore? La cartina di tornasole monetaria è in definitiva l’indizio forte di una complessa, se non tormentata, vicenda politico-religiosa, dove convivono a lungo ai vertici del potere decise forme di sincretismo, visto che monete d’oro con rappresentazioni del Sole riportate in un programma iconografico impegnativo (il Sole che incorona Costantino o gli dona la vittoria) sono pervenute ancora per il biennio 324-325, quasi nella fase cruciale del Concilio di Nicea.
Questo è solo un esempio, ma nel volume se ne possono enumerare tanti altri, come quello relativo all’Arco romano di Costantino sul quale, chiosa Barbero, «vista la proliferazione degli studi si ha l’impressione che, su di esso, anziché saperne di più ne sappiamo di meno». Testimonianze da cui scaturisce in definitiva un personaggio impossibile da ricomporre in maniera unitaria.
Un Costantino mai simile a se stesso, abilissimo a manovrare la propaganda, prima tollerante e quasi alla ricerca di una prospettiva religiosa sincretica poi persuaso, negli ultimi anni di vita, di essere stato accompagnato e protetto dal Dio cristiano. Una memoria (e una propaganda) imperiale che non si cristallizza con la sua morte, ma tende a plasmarsi ulteriormente. Col rafforzarsi delle leggende su apparizioni celesti e in hoc signo vinces. Mentre il ricordo di tanti contemporanei - pagani come cristiani - di un tiranno dispotico, autocratico, violento nel linguaggio e nei fatti, evapora e sfuma nel mito della lebbra che colpì l’imperatore, guarito dall’intervento salvifico di papa Silvestro. Leggenda che è il palinsesto su cui si elabora la costruzione della Donazione di Costantino e della respublica cristiana medioevale.
La decisione di conferire quest’anno a Papa Francesco il premio Carlo Magno è eccezionale
Le tre missioni del futuro per noi leader della Ue
di Jean-Claude Juncker - Martin Schulz (la Repubblica, 06.05.2016)
LA DECISIONE di conferire quest’anno a Papa Francesco il premio Carlo Magno è eccezionale. Alcuni potrebbero fare dell’ironia sul fatto che all’Unione europea le cose vanno male al punto di avere bisogno di un aiuto dal Papa, mentre altri potrebbero chiedersi perché un Papa che viene dall’Argentina riceva un premio che rende omaggio a chi si è prodigato per l’unificazione pacifica dell’Europa. Siamo convinti che Papa Francesco si sia meritato questo premio per il messaggio di speranza rivolto all’Europa.
Forse occorrono gli occhi di un argentino, che osservano dall’esterno ciò che intimamente lega noi europei, per prendere coscienza dei nostri punti di forza. Proprio in un momento in cui l’Europa e la crisi vengono spesso messe sullo stesso piano, tendiamo facilmente a dimenticare ciò che l’Europa ha già fatto e ciò di cui è capace: i nostri padri e le nostre madri hanno costruito un progetto di pace e umanità che ha visto la luce dalle macerie della Seconda guerra mondiale. Si sono allontanati consapevolmente dalla propaganda bellica, dal desiderio di distruzione e dalla disumanità che hanno caratterizzato la prima metà del XX secolo. Essi hanno invece messo insieme le loro forze per costruire un’Europa dove non vi sarebbero stati vincitori né vinti, bensì solo vincitori. Agendo in tal modo, hanno dimostrato di aver imparato dalla storia che, quando noi europei ci siamo combattuti, le conseguenze sono state tragiche per tutti, mentre quando siamo rimasti uniti tutti ne hanno tratto beneficio.
L’anima dell’Europa è rappresentata dai suoi valori. Ed è proprio a questi ultimi che il Papa ci rinvia quando ricorda che «l’Europa che guarda e difende e tutela l’uomo è un prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità». Eppure, in un momento in cui l’Europa passa da un vertice di emergenza all’altro e la gente si chiede se tutti in Europa condividano gli stessi valori, risulta ancora più importante prendere coscienza della nostra forza comune. Nell’era della globalizzazione noi europei abbiamo quanto mai bisogno gli uni degli altri, come testimoniano le tre sfide cui siamo attualmente confrontati.
In primo luogo, la necessità di preservare il nostro stile di vita europeo. In un mondo sempre più connesso, dove emergono inesorabilmente altri Paesi e regioni, dobbiamo unire le nostre forze, in quanto il contributo dell’Europa e dei suoi Stati ai risultati economici mondiali nonché alla popolazione del pianeta si sta riducendo. Chi di fronte a tali prospettive crede che sia arrivato il momento di tornare agli Stati nazionali ha perso il senso della realtà. Tali sviluppi potranno anche non piacerci, ma non possiamo tornare indietro; possiamo invece plasmarli come desideriamo se restiamo uniti. Nessuno Stato membro - per quanto possa essere influente - è in grado da solo di imporre i propri interessi e valori; tuttavia, se resteremo uniti, potremo riuscire a definire le regole che disciplinano la competizione tra le grandi potenze.
Per noi europei appare quindi sensato restare uniti, poiché è in gioco il nostro modello di società, che poggia sui valori di democrazia, Stato di diritto, solidarietà e diritti umani. In Europa sono garantiti i diritti civili, la libertà di stampa e il diritto di sciopero, non si pratica la tortura e non esiste il lavoro minorile né la pena di morte. La nostra forza economica deriva dal mercato unico, la cui solidità ci permetterà di assicurare e sviluppare in futuro il nostro modello sociale europeo fondato sui valori.
Secondo: garantire la sicurezza e la pace. Se noi europei restiamo uniti, possiamo fare grandi cose. Ne sono dimostrazione l’accordo sul nucleare con l’Iran e l’accordo di Parigi sul clima. Questi esempi dovrebbero incoraggiarci, come europei, ad agire uniti e ad assumere maggiori responsabilità sulla scena mondiale. Il mondo è sempre più complesso e, secondo alcuni, più pericoloso. Gli Stati Uniti riducono progressivamente il loro impegno a livello internazionale, la Russia si mostra sempre più aggressiva, la Cina acquisisce influenza nell’Asia orientale. Nel nostro immediato vicinato sono in atto conflitti e guerre: in Siria si registrano ogni giorno nuove vittime, mentre nell’Ucraina orientale la situazione rimane preoccupante. Gli attentati di Bruxelles, Lahore, Istanbul e Parigi ci ricordano amaramente che il terrorismo islamico rappresenta una minaccia globale. Di fronte a un simile scenario mondiale non possiamo permetterci di sprecare le nostre forze a causa di vanità nazionali. Dobbiamo esprimerci con una sola voce: solo così potremo rafforzare la nostra influenza.
Terzo: gestire la migrazione. Oggi le persone in fuga da guerre, conflitti e persecuzioni sono molto più numerose che in ogni altro periodo dopo la Seconda guerra mondiale. Uomini, donne e bambini vengono da noi in cerca di protezione dalla brutalità dello Stato islamico e dalle bombe di Assad. Il problema ha una portata tale che nessuno Stato membro è in grado di risolverlo da solo; insieme però possiamo condividere questa responsabilità, in quanto continente con oltre 500 milioni di abitanti.
La visita di Papa Francesco a Lesbo è stata più di un gesto simbolico. Accogliendo dodici profughi siriani, ha agito in modo più concreto e solidale di molti Stati dell’Unione. Papa Francesco incoraggia anche noi ad agire. La solidarietà e l’amore per il prossimo non devono essere soltanto belle parole; questi valori sono importanti solo se li mettiamo in pratica. È quello che fanno ogni giorno numerose decine di migliaia di volontari che si adoperano fino allo sfinimento e anche oltre per garantire alle persone un rifugio dal terrore, dalla guerra e dalla violenza. Forniscono cibo ai rifugiati, si assicurano che abbiano vestiti e sostengono i bambini nell’apprendimento per garantire loro un futuro. Questi volontari mostrano ai rifugiati e al mondo intero il volto di un’Europa umana.
È anche questo il compito della politica, soprattutto in un continente che troppo spesso, nella sua storia, è stato diviso da muri e recinzioni, trincee e frontiere. Superare queste divisioni per creare un’Europa di pace e di benessere è stata una delle nostre conquiste. Ciascuno di noi ne beneficia, ad esempio quando viaggiamo o commerciamo oltre le frontiere.
A tale riguardo, Papa Francesco ripone in noi una grande fiducia e auspica che riusciremo a sfruttare meglio le nostre potenzialità. Il nostro modo europeo di cooperare e gettare ponti tra i popoli e i Paesi ci ha già permesso, in fondo, di superare la divisione del nostro continente. Di fronte alle molteplici crisi odierne, abbiamo più che mai bisogno di attingere a questa forza. Le premesse sono forse migliori di quanto non crediamo. In ogni caso, Papa Francesco ci infonde coraggio quando afferma che «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità». È ormai tempo che noi europei ci mobilitiamo e lottiamo insieme per un’Europa unita.
Il patrono di Milano affermò per primo la supremazia della chiesa sullo stato
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 26.04.2016)
Nel IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario, teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea (325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico, Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani. Un grande protagonista di questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva avuto qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale libro di Franco Cardini Contro Ambrogio, che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno.
Fin dalle prime righe, Cardini mette le mani avanti per difendersi dalle accuse che potrebbe ricevere per questo saggio impertinente. Il suo non vuol essere né un pamphlet «provocatorio», né «un’indecorosa dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a livello storico o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che, tra l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né «paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose polemiche» con il senno del poi. È, quello di Contro Ambrogio , solo un tentativo di «uscire dal comodo riparo dello storico» a favore di una modalità che gli consenta di «scoprirsi», «esporsi», «prendere posizione». Il tutto non disgiunto da un «pizzico di autoironia per aver tentato, al cospetto di un gigante della storia e del pensiero, una specie di ruggito del topo».
Tra l’altro che ci siano aspetti controversi nella vita di Ambrogio traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili note di Marco Navoni alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo) scritta da Paolino, coevo e principale collaboratore del patrono di Milano. Così come, sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni San Paolo) e di Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E anche, sia pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande (Salerno) di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini prende le mosse dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo di governatore laico di una regione che all’epoca corrispondeva alla Liguria e all’Emilia e pur non essendo ancora battezzato, il trentacinquenne Aurelio Ambrogio (era nato nel 339 a Treviri, città che dal 292 era la residenza ufficiale dell’imperatore romano d’Occidente) fu nominato vescovo di Milano, dal 286 «sede imperiale».
Era figlio di un alto magistrato del sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un «ambiguo silenzio» che ci indurrebbe a sospettare fosse stato coinvolto in una delle controversie dell’epoca e avesse «militato dalla parte degli sconfitti». A «portarlo così in alto» era stato il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto chiacchierato con evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come l’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II) protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla cattedra episcopale milanese, Aussenzio.
A decidere della sua elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento comparve al suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio, che gli fu accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più di lui, gli sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo fratello Satiro, che Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane. Quanto a lui, nel 376, in contrasto con l’imperatrice Giustina, si oppose all’elezione a Sirmio di un vescovo seguace di Ario e dal 378 iniziarono a comparire spunti anti-ariani nelle sue omelie. Giusto in tempo per essere in sintonia con l’editto di Tessalonica (380), con il quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio, impose «a tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina apostolica e la dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di Padre, Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini, «ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il vero fondatore dell’impero romano-cristiano».
Comunque la partita religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla («spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane, incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.
Il vescovo di Milano, una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a sottomettere quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta, nel corso di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima fila, tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò, dopo una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità religiosa nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda del tempio di Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di cristiani aveva date alle fiamme una sinagoga, l’imperatore li aveva condannati a risarcire la comunità ebraica: Ambrogio impose a Teodosio di revocare quell’ingiunzione.
Poi, nel 390, ci fu la strage di Tessalonica. Un auriga dei giochi circensi era stato imprigionato per «comportamento immorale». I suoi tifosi avevano reagito aggredendo a sassate un funzionario imperiale, Buterico, che era stato ucciso e trascinato per le vie della città greca. Teodosio giudicò sospetta quell’esplosione di rabbia e accondiscese alla richiesta dei militari di reprimere con violenza (migliaia di morti) i rivoltosi. Ambrogio ne approfittò per umiliare una seconda volta Teodosio, chiedendogli un pubblico pentimento per l’eccidio. L’imperatore provò a resistere, ma poi decise di sottomettersi all’ingiunzione.
Secondo la ricostruzione di Paolino, Teodosio «pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato... con lamenti e lacrime invocò il perdono». Anche Agostino, nel De civitate Dei, ricorda la scena: Teodosio «fece penitenza con tale impegno» che tra i fedeli il «dolore nel vedere umiliata la maestà dell’imperatore» prevalse sullo sdegno per il ricordo della strage. Teodosio si accorse probabilmente di quel che era accaduto nel profondo e, per rimediare, si recò a Roma dove fu accolto da senatori e ottimati con feste che più o meno esplicitamente rendevano omaggio agli antichi culti pagani.
Tuttavia l’episodio dell’imperatore «penitente per imposizione di un vescovo», osserva l’autore, fece scalpore in tutta l’ecumene romana: era la prima volta che «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».
Ambrogio approfittò di quell’atto di sottomissione per riprendere e condurre a compimento «il progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero». Fu lui ad ispirare l’editto del 391 che vietava qualunque forma di ossequio alle divinità «gentili» nella città di Roma e prevedeva pesanti sanzioni per i funzionari inadempienti. Era la «totale palinodia» rispetto al comportamento tenuto e alle misure adottate dall’imperatore un po’ meno di due anni prima nel corso della menzionata visita a Roma.
Da quel momento fino alla morte, nel 397, Ambrogio esercitò una sorta di «dittatura» sottile sul potere imperiale d’Oriente e d’Occidente. Anche a costo di lasciarsi andare ad imprudenze, di commettere errori, e di fare scelte in contraddizione con i suoi principi. Ma la sua missione era compiuta.
Il suo lascito fu inequivocabile. Dal momento che il sovrano era stato per lui non al di sopra, bensì all’interno della Chiesa, ne discendeva che risultava subordinato all’autorità ecclesiale. In tal senso, Ambrogio si pone alla base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio», ha configurato una ben delineata tradizione. Tradizione «che in ambito cattolico - una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali - solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».
Un messaggio venuto da lontano, radicato nella certezza che «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena - ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato - sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene». E sappiamo, aggiunge Cardini, che «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto».
Dopo Ambrogio, la Chiesa romana divenne potente «con la forza di una mirabile espansione intellettuale e missionaria, ma anche con l’inflessibilità e l’intransigenza della fedeltà a un disegno egemonico affermatosi poi tra l’XI e il XVI secolo attraverso la rimozione delle istanze provenienti dal mondo greco, da quello orientale, da quello vario, insidioso e imprevedibile delle eresie, da quello musulmano (pensiero filosofico-scientifico a parte), salvo dover poi subire i contraccolpi degli scismi, della Riforma protestante, dell’offensiva razionalistico-scientifica».
Traendo ispirazioni e suggestioni da Francesco d’Assisi, Nicola Cusano ed Erasmo da Rotterdam, Cardini si chiede se, «astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani la Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali inquisitoriali, ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo culturale” della “modernità” con il relativo processo di secolarizzazione». Dubbi e rilievi che, come è evidente, vanno ben al di là della figura storica di Ambrogio.
No al divorzio
Anatema che risale al Concilio di Trento
di Carlo Rimini * (La Stampa, 09.04.2016)
Due lettere - a. s. (anathema sit) - hanno sancito una scomunica secolare, impresse su un foglio che ha segnato la contrapposizione fra cattolicesimo e divorzio. Una frattura che ha una data ben precisa: la notte dell’11 novembre 1563. Erano in corso i lavori di una Sessione del Concilio di Trento. A Nord delle Alpi la Chiesa protestante si avviava ad ammettere il divorzio per colpa. Fra tutti i cardinali riuniti in Concilio si consumò una battaglia furibonda.
Le cronache ufficiali dicono che fu trovata una «feconda sintesi»; quelle ufficiose che alcune sedie furono lanciate. A tarda notte fu comunque approvato un testo fondamentale per la controriforma:
«Se qualcuno dirà che si può sciogliere il vincolo del matrimonio per l’adulterio di uno dei coniugi e che l’uno o l’altro possa contrarre un nuovo matrimonio e che quindi non commette adulterio colui o colei che scacciato l’adultero si sposi con un altro, costui sia scomunicato».
Da cinquecento anni l’anatema risuona nella Cattedrale di San Vigilio e da lì in ogni angolo del mondo cattolico.
Prima di quella notte le vicende furono alterne. Nel 331 l’imperatore Costantino - colui a cui apparve la Croce sovrastata dalla scritta in hoc signo vinces - provò a porre un limite:
«È deciso che non sia lecito alla donna, presa da insani desideri, inviare il ripudio al marito presentandolo come donnaiolo. Ma la donna può ripudiare il marito solo dimostrando che egli è un omicida o un avvelenatore o un violatore di sepolcri. Se, al di fuori di queste tre colpe, avrà ripudiato il marito, è necessario che lasci ogni cosa in casa del marito, fino allo spillone con cui lega i capelli e senza nulla lasci la casa del marito e sia deportata su un’isola». Andava meglio al marito: poteva lasciare la moglie dando prova che questa fosse un’adultera, un’avvelenatrice o una mezzana; altrimenti non si poteva risposare.
Le norme introdotte da Costantino parvero subito troppo severe. Sembra infatti che già suo nipote Giuliano l’Apostata le abbia abrogate. Il condizionale è in questo caso d’obbligo: la notizia è riportata in un testo enigmatico - Quaestiones Veteris et Novi Testamenti - che si sofferma sulle tormentate vicende del rapporto fra cristianesimo e divorzio. L’autore ha uno pseudonimo misterioso: Ambrosiaster. Si riteneva che si trattasse di Sant’Ambrogio, ma Erasmo da Rotterdam dimostrò che non poteva essere Ambrogio e così inventò lo pseudonimo.
*
Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano
’NDRANGHETA ("ANDRAGATHIA"). IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO ("UOMO SUPREMO", "SUPERUOMO", "DOMINUS IESUS"): FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
La Donazione di Costantino bugia dalle gambe lunghe
Smascherato da Lorenzo Valla nel 1440, il falso documento su cui per secoli la Chiesa fondò il proprio potere temporale ha fatto la storia più di tanti documenti veri
di Giorgio Ieranò (La Stampa, 02.09.2015)
Ludovico Ariosto suggeriva di cercarla sulla Luna. Era lì, secondo la fantasia del poeta, che era andata a finire la Donazione di Costantino, il falso decreto imperiale che legittimava il potere temporale della Chiesa. Quando il paladino Astolfo va alla ricerca del senno di Orlando, si ritrova in una misteriosa valle lunare che custodisce quanto sulla Terra è andato perduto. Ci sono le lacrime e i sospiri degli amanti, la gloria e le corone degli antichi re. In mezzo, svetta una montagnola di fiori marci. A questo, secondo il poeta, si era ridotta la celebre Donazione: una cianfrusaglia lunare. Destino favoloso e irreale, per un testo che è l’apoteosi del falso. Un falso che ha fatto la storia più di tanti documenti veri.
Dal Medioevo in poi, tutte le volte che si discuteva il potere temporale della Chiesa, si finiva sempre per tirare in ballo la Donazione. Sono solo tremila parole, eppure hanno per secoli impegnato Papi e imperatori, filologi e giuristi, poeti e profeti.
Il testo si presenta come una lettera dell’imperatore Costantino che prima racconta le circostanze (false anche queste) della sua conversione al cristianesimo e poi conferisce alla Chiesa una serie di privilegi: il Papa potrà rivestire la porpora imperiale, Roma avrà il primato su tutte sedi ecclesiastiche. E, soprattutto, avrà un suo regno terreno: Costantino regala al papato il dominio sull’Italia e su tutte le regioni occidentali dell’impero.
L’insigne umanista Lorenzo Valla non dovette faticare troppo per smascherare il falso. La Donazione, per esempio, attribuisce a Roma il primato su Costantinopoli. Ma com’è possibile, argomenta Valla, se Costantinopoli fu fondata solo nel 330, mentre il documento si pretende datato al 313? Valla era noto per il suo caratteraccio. Con la scusa della filologia, spara bordate durissime contro il papato. Il suo pamphlet, scritto nel 1440, è comunque passato alla storia come un modello di metodo filologico. Un frutto virtuoso dell’umanesimo, dove i lumi della ragione disperdono le leggende del Medioevo.
«Il veleno del diavolo»
In realtà, l’imperatore Ottone III aveva denunciato la Donazione come un falso già nell’anno 1001. L’aveva attribuita al diacono Giovanni, un dignitario ecclesiastico soprannominato «il monco», perché, in seguito a un’accusa di tradimento, gli erano stati mozzati il naso, la lingua e due dita della mano. Probabilmente la Donazione non è uscita dalle mani monche di Giovanni. Ma il vero autore è ancora ignoto. Forse gli autori furono più d’uno, forse il testo è stato riscritto e modificato in diverse occasioni, a partire da una prima versione databile all’VIII secolo.
Quello che è certo, è che il papato intuì la formidabile forza propagandistica della Donazione. Ancora nel 1493, infischiandosene della filologia del Valla, papa Alessandro VI, lo spregiudicato Roderigo Borgia, ritirò fuori la Donazione. La usò per rivendicare alla Chiesa il diritto di spartire tra Spagna e Portogallo le nuove isole scoperte l’anno prima da Cristoforo Colombo: se Costantino aveva concesso ai Papi il dominio su tutte le terre a Occidente di Roma, è ovvio che nel lascito rientrava anche l’America! Viceversa, i riformatori religiosi e i pauperisti che volevano riportare il cristianesimo alla purezza originaria deprecavano la Donazione. La consideravano un dono avvelenato, che aveva inquinato la Chiesa, contaminandola con i beni mondani. Per questo, si raccontava, quando fu annunciata la donazione, si udì la voce del diavolo che gridava trionfante: «Oggi ho infuso il mio veleno nella Chiesa». Un punto di vista che influisce anche su Dante, il quale, pur ritenendo la Donazione genuina, la giudicava un errore e una sciagura.
La leggenda del miracolo
La Donazione è come una scatola cinese: un falso che ne contiene molti altri. Il testo, per esempio, inventa un profilo di Costantino che è del tutto immaginario. Il biografo più attendibile dell’imperatore, Eusebio di Cesarea, scrive che Costantino si convertì al cristianesimo solo sul letto di morte. Viceversa, la Donazione narra una vicenda del tutto favolosa: un miracolo avrebbe portato fin dall’inizio l’imperatore sulla via della vera fede. A Costantino, ammalato di lebbra, i sacerdoti pagani avevano consigliato di ammazzare un congruo numero di bambini e poi farsi il bagno nel loro sangue. Ma i santi Pietro e Paolo appaiono in sogno all’imperatore e gli indicano un diverso lavacro purificatore, quello del battesimo. Costantino accetta di farsi cristiano e riemerge guarito dal fonte battesimale.
È falsificata pure la figura di Silvestro, il Papa a cui Costantino si rivolge nella Donazione. I documenti storici lo delineano come una figura scialba. Ma nella leggenda, accreditata dalla Donazione, Silvestro svetta come un gigante della fede. Ed è anche merito della Donazione se si è consolidato il culto di Silvestro come santo: quel santo che ancora oggi celebriamo nei veglioni di fine anno, il 31 dicembre, giorno della sua morte nell’anno 335.
Lutero indignato
La Donazione, insomma, sarà pur finita tra le cianfrusaglie lunari, come immaginava Ariosto. Ma, anche dopo essere stata smascherata, ha continuato a fare sentire i suoi effetti. Nel febbraio del 1520, a Wittenberg. un monaco tedesco legge avidamente le pagine di Lorenzo Valla, appena stampate in Germania. S’indigna per quella truffa colossale, per la bugia su cui è fondato il potere della Chiesa di Roma. «Non ho più alcun dubbio che il Papa sia l’Anticristo», scrive subito dopo a un amico. Quel monaco si chiamava Martin Lutero. La falsa Donazione continuava a fare la storia.
Bergoglio e la società senza padri
«Assenti e troppo presi da sé»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 29.01.2015)
CITTÀ DEL VATICANO Una «società di orfani», una «società senza padri», perché non ci sono oppure cercano un rapporto «alla pari», da amici, ed è come se non ci fossero. Si è passati «da u n e s t re m o a l l ’a l t ro » , dice Francesco. «Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la latitanza. I padri sono talora così concentrati su se stessi, sul lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani».
Nell’udienza di ieri il Papa ha sviluppato un tema che gli sta molto a cuore. «Vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi», avverte Francesco. «E in effetti le devianze di bambini e adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli, alla carenza di vicinanza e amore da parte dei padri. È più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani».
È interessante notare che Bergoglio ha una devozione particolare per San Giuseppe, «uomo forte e silenzioso», padre putativo che «custodisce e a c c o m p a g n a G e s ù n e l s u o cammino di crescita» e rappresenta «il modello dell’educatore». A San Giuseppe era dedicata la chiesa di Flores, il quartiere di Buenos Aires dove è nato, la stessa nella quale sentì la sua vocazione.
L’inizio solenne del suo pontificato è avvenuto il 19 marzo, festa di San Giuseppe educatore. Nella stanza 201 a Santa Marta tiene sul tavolo una statua del santo che dorme, «e quando ho un problema, una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto San Giuseppe, perché lo sogni; questo gesto significa: prega per questo problema!».
Francesco chiede spesso: giocate con i vostri figli, perdete tempo con loro? «Un papà mi diceva: quando vado a lavorare dormono, quando torno la sera lo stesso. Ma questa non è vita, è disumano», raccontava tempo fa.
Così ieri ha ripercorso il passaggio dalla figura «autoritaria» al suo opposto. Si dice che la figura del padre, «specie nella cultura occidentale», sia ormai «simbolicamente assente, svanita, rimossa». Il che, ha ricordato, è stato considerato all’inizio come una «liberazione dal padrepadrone». In alcune case «regnava in passato l’autoritarismo o addirittura la sopraffazione».
I figli trattati «come servi». E ora siamo all’opposto: «I figli sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti da casa ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, valori, regole di vita di cui hanno bisogno come del pane». A volte «sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare» e allora «nel dubbio si astengono e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto “alla pari”. È vero che tu devi essere “compagno” di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre!».
Lo stesso problema si vede pure nella «comunità civile, con le sue istituzioni», ha concluso Francesco: «Così i giovani rimangono orfani di strade sicure da percorrere, di maestri, di ideali. Vengono riempiti di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; illusi col dio denaro, sono negate loro le vere ricchezze».
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Lo psicanalista junghiano Luigi Zoja
«Un rapporto da fratelli non può funzionare
Serve il coraggio dei no»
«Sono perfettamente d’accordo con il Papa.
Anzi, scherzando con il mio editore argentino, gli ho proposto di chiedere al Pontefice la prefazione al mio libro»
intervista di Riccardo Bruno (Corriere della Sera, 29.01.2015)
Luigi Zoja, psicanalista junghiano, quindici anni fa ha scritto Il gesto di Ettore, un caposaldo nell’analisi tra padri (assenti) e figli, testo ancora molto letto e tradotto. «Ettore si sfila l’elmo, prende in braccio il figlio e prega che diventi più forte di lui - spiega Zoja -. Nella mitologia non c’è solo Edipo, il padre castrante, ma anche la figura di un genitore forte e positivo».
Papa Francesco parla di figli «orfani», perché vivono in famiglie con padri assenti.
«L’atteggiamento della madre è radicato nella biologia, e in tutte le culture varia di poco. Quello del padre è invece variabilissimo: non basta avere il ruolo fecondante, bisogna riconoscere e alimentare il proprio figlio, fisicamente ma anche affettivamente e culturalmente. Il padre era tradizionalmente preposto a una funzione secondaria, a dire dei no, a insegnare a limitare i bisogni. E questo sta venendo meno».
Eppure sempre più padri cambiano i pannolini, svolgono compiti prima esclusivi delle madri.
«È vero e anch’io l’ho fatto con i miei tre figli. È molto bello e ti gratifica. Credo che in parte derivi dal senso di colpa dopo secoli di patriarcato e di abusi, come se si sentisse il bisogno di essere accettati».
E questo è positivo?
«Sì, è positivo. E rispetto a quindici anni fa è un fenomeno che si ulteriormente rafforzato».
E allora perché i padri sono sempre più assenti?
«Perché non viene coperta o è sottovalutata l’educazione, la fase dell’adolescenza. Per esempio, il padre, soprattutto con i figli maschi, deve essere in grado di canalizzare l’aggressività dei giovani».
E deve proporsi come modello. Ma in una società competitiva come la nostra, non è allora meglio che si dedichi alla carriera piuttosto che stare troppo a casa?
«Quando scrivevo il libro la mia figlia più piccola mi rimproverava che non l’aiutavo a fare i compiti».
E adesso immagino che sia orgogliosa di lei...
«Se non ti dedichi alla carriera chissà che un giorno tuo figlio non ti rimproveri di essere stato un pappamolla, che per colpa tua non potrà comprarsi una casa. In effetti l’equilibrio è delicatissimo».
Francesco invita anche a evitare di mettersi «alla pari».
«Deve esserci comunicazione ma senza eccedere, il padre deve mantenere la sua figura di rispettabilità. Non bisogna creare una “società di fratelli”, ma recuperare anche una verticalità nei rapporti. Lasciandoci alle spalle la società patriarcale abbiamo finito per buttare anche il bambino con l’acqua sporca».
Anche in questo è d’accordo con il Papa.
«Sì, ma anche lui deve stare attento. I termini Papa e papà, non a caso, hanno la stessa radice. Bergoglio cerca di essere alla mano, ma a mio avviso a volte è al limite. Se il Papa diventa un amicone rischia di perdere autorevolezza. Così come un papà».
PAPA FRANCESCO NELLE SPIRE DELL’IMMAGINARIO COSTANTINIANO. Gesù, il "Bambino, nato a Betlemme dalla Vergine Maria". Sul tema, alcuni appunti:
Papa: "No allo splendore del potere. L’amore di Dio è umile"
Nell’omelia pronunciata durante la messa dell’Epifania in San Pietro Bergoglio rievoca le figure evangeliche di Erode, "uomo di potere che nell’altro riesce a vedere solo il rivale", e dei Magi, "entrati nel mistero"
di Redazione *
CITTA’ DEL VATICANO - "L’amore di Dio è umile, tanto umile". Nel giorno dell’Epifania Papa Francesco ha voluto sottolineare che bisogna credere "più nella bontà di Dio che non nell’apparente splendore del potere". Nell’omelia della messa solenne celebrata in San Pietro davanti a oltre cinquemila fedeli, vescovi e cardinali, Bergoglio ha evocato l’episodio evangelico dei tre re che giunsero a Betlemme per rendere onore al Salvatore e si ritorvarono in una povera stalla: la loro tentazione fu quella di "rifiutare questa piccolezza. E invece essi ’si prostrarono e lo adorarono’, offrendogli i loro doni preziosi e simbolici", divenendo così "modelli di conversione alla vera fede perché hanno creduto più nella bontà di Dio che non nell’apparente splendore del potere".
Nella riflessione del Pontefice il contraltare dei Magi è Erode, un "uomo di potere che nell’altro riesce a vedere soltanto il rivale". I tre re invece "sono passati dai calcoli umani al mistero". La ricerca di Dio "è una ricerca che non ha mai fine" e la compiono "uomini e donne nelle religioni e nel mondo intero".
"Quel Bambino, nato a Betlemme dalla Vergine Maria - ha detto Francesco nell’omelia - è venuto non soltanto per il popolo d’Israele, rappresentato dai pastori di Betlemme, ma anche per l’intera umanità, rappresentata oggi dai Magi, provenienti dall’Oriente". La ricerca di Dio da parte dell’umanità, ha osservato, è come la processione dei Magi, "una processione che da allora non si interrompe più, e che attraverso tutte le epoche riconosce il messaggio della stella e trova il Bambino che ci indica la tenerezza di Dio". Papa Bergoglio ha quindi ripercorso il racconto dei Magi analizzando i loro atteggiamenti, decisioni e comportamenti - e quelli di Erode e dei pastori - osservando in particolare il modo in cui i sapienti venuti dall’Oriente hanno cercato di capire il messaggio della stella, hanno superato le difficoltà, hanno commesso errori e sono caduti in tentazione. Ha analizzato ciò che ai Magi ha dato consolazione e cosa desolazione.
"L’amore di Dio è grande? - si è chiesto il Pontefice - Sì. L’amore di Dio è potente? Sì". "E allora - ha proseguito - ci possiamo chiedere: qual è il mistero in cui Dio si nasconde? Dove posso incontrarlo? Vediamo attorno a noi guerre, sfruttamento di bambini, torture, traffici di armi, tratta di persone? In tutte queste realtà, in tutti questi fratelli e sorelle più piccoli che soffrono per tali situazioni, c’è Gesù". E ancora: "Il presepe ci prospetta una strada diversa da quella vagheggiata dalla mentalità mondana: è la strada dell’abbassamento di Dio, la sua gloria nascosta nella mangiatoia di Betlemme, nella croce sul Calvario, nel fratello e nella sorella che soffre. Quell’amore di Dio che si abbassa, si annienta".
Il Papa ha quindi chiesto di pregare per "vivere lo stesso cammino di conversione vissuto dai Magi", "liberi dalle tentazioni che nascondono la stella". "Che abbiamo sempre - ha auspicato Francesco - l’inquietudine di domandarci: dov’è la stella?, quando - in mezzo agli inganni mondani - l’abbiamo persa di vista. Che impariamo a conoscere in modo sempre nuovo il mistero di Dio, che non ci scandalizziamo del ’segno’, dell’indicazione, quel segno detto dagli angeli: ’un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia’".
Papa Bergoglio ha concluso l’omelia pregando affinché "troviamo il coraggio di liberarci dalle nostre illusioni, dalle nostre presunzioni, dalle nostre ’luci’ e che cerchiamo questo coraggio nell’umiltà della fede e possiamo incontrare la Luce, ’Lumen’, come hanno fatto i Magi. Che possiamo entrare nel mistero, così sia". Parole alte, che hanno segnato una funzione durante la quale sono risuonate le tante lingue del mondo, dalle letture bibliche in inglese, italiano, spagnolo, alle preghiere in francese, cinese, swahili, filippino, russo e il vangelo è stato cantato in latino da un diacono dagli inconfondibili tratti orientali.
Melloni: la libertà nel mondo cristiano ha radici antiche
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 17.10.2014)
Circolano varie versioni circa il rapporto tra cattolicesimo e pluralismo. Una dice che la Chiesa nella storia avrebbe sempre negato l’esercizio dei diritti umani, primo fra tutti la libertà di coscienza, per poi adattarsi alla loro accettazione sulla scia della spinta generata dalla cultura dei Lumi.
Secondo Alberto Melloni la realtà è un po’ differente, come ha spiegato ieri a Milano nella conferenza che ha tenuto presso la Fondazione Feltrinelli, nell’ambito del ciclo di lezioni «Per una cittadinanza inclusiva», organizzato dalla associazione Reset Doc (Dialogues on Civilizations) diretta da Giancarlo Bosetti (www.resetdoc.org).
Melloni ha messo in luce le radici antiche del pluralismo cristiano, che risalgono ai padri della Chiesa e furono coltivate anche nel Medioevo, ad esempio da Papa Innocenzo IV, per essere poi offuscate dall’intransigenza di cui è espressione il Sillabo di Pio IX (1864). Fu quindi una sorta di ritorno all’antico, ha aggiunto Melloni, la scelta compiuta da Giovanni XXIII di rilanciare una visione fondata sul richiamo alla coscienza individuale con l’enciclica Pacem in Terris (1963), senza dar peso alle obiezioni mosse da suoi autorevoli consiglieri.
L’incontro, introdotto da Daniela Milani, è proseguito con l’intervento del discussant Marco Garzonio, che ha scavato nelle lontane origini della liberta religiosa citando come maestro di pluralismo san Gregorio Magno, che fu Papa dal 590 al 604: «La Scrittura cresce con chi la legge».
Il senso di Costantino per la propaganda
Culto della personalità, slogan a raffica, sapiente uso della disinformazione: un antesignano di Stalin
di Alessandro Barbero (La Stampa, 11.09.2014)
L’arco di Costantino a Roma, eretto nel 312 per celebrare la vittoria su Massenzio presso Ponte Milvio. Nell’iscrizione si legge: «All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò a un tempo lo Stato su un tiranno e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi»
Nella cultura di massa, quella dei vecchi sussidiari scolastici, della divulgazione televisiva e delle guide turistiche, Costantino è il primo imperatore cristiano, l’uomo che si è convertito prima della battaglia di Ponte Milvio, dopo aver visto in cielo la croce con la scritta «In hoc signo vinces»; il sovrano che con l’editto di Milano ha concesso la libertà ai cristiani, nonché il fondatore delle prime grandi basiliche di Roma.
In passato la storiografia diffidava di Costantino, vedendo in lui soprattutto un cinico politicante che aveva fatto le sue scelte in base a calcoli elettorali; ma dall’ultimo dopoguerra il vento è cambiato, e fra gli storici si è diffuso un clima di ammirazione e di ossequio verso il protagonista di quella che molti giudicano la più grande svolta storica mai avvenuta. Nessuno più mette in dubbio la sincerità della sua conversione, e molti credono che la croce gli sia davvero apparsa in cielo, con uno zelo che avrebbe fatto ridere gli storici dell’epoca illuminista.
D’altra parte ci sono alcuni fatti sgradevoli che nessuno può negare: Costantino era un usurpatore che è arrivato al trono grazie ai suoi soldati, e nella scalata al potere assoluto ha fatto ammazzare altri tre imperatori romani, che poi erano suo suocero e i suoi due cognati. Rimasto solo al potere, ha fatto uccidere, per motivi ancora oscuri, il figlio Crispo e la moglie Fausta; dopo la sua morte, i tre figli superstiti hanno provveduto all’istante a far ammazzare quasi tutti i propri zii e cugini, e poi si sono ammazzati fra loro finché non ne è rimasto uno solo, Costante, cristiano ariano e famoso persecutore dei cattolici.
Il bilancio, come si vede, è piuttosto contraddittorio e non stupisce che i giudizi di chi aveva conosciuto Costantino siano alquanto incoerenti. Per il suo biografo cristiano, il vescovo Eusebio di Cesarea, Costantino era «il santo imperatore», «l’amico di Dio», scelto dal Signore per insegnare la vera fede a tutti i popoli del mondo, e Dio lo ha reso invincibile e tre volte beato.
Ma suo nipote Giuliano, detto l’Apostata, l’unico scampato alla strage familiare compiuta dai cugini, traccia un quadro ben diverso: lo zio Costantino era un ignorante, che non sapeva governare né fare la guerra, e credeva che bastasse avere tanti figli per garantirsi una tranquilla successione; in fondo non era cattivo, ma era un debole, troppo amante dei piaceri, e per debolezza si lasciò trascinare a commettere infami delitti; poi, quando sentì dire che un certo Cristo cancellava tutte le colpe spargendo un po’ d’acqua sulla testa dei suoi seguaci, trovò il modo di tranquillizzarsi la coscienza, ed è per questo che si fece cristiano.
Certo, i pagani come Giuliano avevano il dente avvelenato; ma, una generazione dopo la morte di Costantino, anche gli storici ufficiali dell’impero romano lo ricordavano in termini piuttosto freddi. L’autore anonimo di un bignamino dell’epoca giudica che Costantino aveva cominciato bene ma era peggiorato col tempo, scatenando guerre immotivate e dissipando nei bagordi le ricchezze dei contribuenti: «per dieci anni lo chiamarono formidabile, nei dodici seguenti bandito, negli ultimi dieci rimbambito».
E i semplici sudditi, cosa pensavano di lui? Sarebbe bello sapere che effetto aveva la martellante propaganda con cui Costantino si presentava alle masse. Le iscrizioni, ad esempio: non c’era opera pubblica, anche finanziata dalle amministrazioni locali, che non fosse ornata di un’epigrafe che ringraziava l’imperatore per quel dono; sulle strade romane, a ogni miglio un cippo ricordava a chi sapeva leggere il nome e i titoli dell’imperatore regnante.
A queste iscrizioni il governo dedicava una cura ossessiva: appena Costantino cominciò a promuovere i figli come suoi successori designati, i loro nomi comparvero accanto a quello del padre nei cippi stradali, ma quando l’imperatore fece uccidere Crispo, il nome del figlio maggiore venne accuratamente scalpellato da tutte le lapidi sparse nell’immenso impero, dalla Britannia all’Egitto.
Invecchiando, Costantino accumulava vittorie e titoli, e le iscrizioni lo celebravano come «amplificatore della città di Roma», «liberatore dello Stato romano», «fondatore della pace», «restauratore del mondo intero», «nato per il bene del genere umano», e via giganteggiando.
Sulle monete che circolavano nelle mani dei sudditi, al culto della personalità si aggiungeva una raffica di slogan di propaganda che trasmettevano alle masse informazioni accuratamente calibrate. Le immagini e le scritte sulle monete venivano cambiate ogni pochi mesi, sicché la produzione delle zecche è un barometro sensibilissimo del modo in cui l’imperatore desiderava essere percepito. Un bell’esempio sono gli alti e bassi della sua relazione col collega, e cognato, Licinio.
Dopo il loro accordo di Milano a favore dei cristiani, le monete di Costantino esaltavano la «concordia dei nostri Augusti», la «pace eterna» e la «sicurezza dell’impero». Quando fra i due scoppiò la guerra, i riferimenti alla concordia sparirono e si cominciò a esaltare il «valore dei soldati» e la potenza degli eserciti di Costantino («vincitori dappertutto»); nello stesso momento i governatori provinciali ricevevano l’ordine di far scalpellare da tutte le lapidi il nome di Licinio.
Conclusa la prima guerra e rifatta la pace, le zecche tornarono a diffondere messaggi rassicuranti: «beata tranquillitas», garantivano le monete. Qualche governatore provinciale fu così ingenuo da crederci, e far incidere di nuovo il nome di Licinio sulle lapidi; solo per doverlo cancellare un’altra volta quando, di lì a poco, Costantino la fece finita con lui.
Bisogna dire che quest’orgia di propaganda e disinformazione non l’ha inventata Costantino, ma era la norma nell’impero romano, ci piaccia o no. È inevitabile evocare paragoni più recenti, e se a qualcuno viene in mente Stalin, il confronto non è così assurdo: dopo la caduta dell’impero bizantino e della seconda Roma, Costantinopoli, già Ivan il Terribile dichiarava che Mosca era la terza Roma. La bizantinista Silvia Ronchey non ha scritto una volta, scherzando solo a metà, che l’impero romano è caduto davvero solo nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica?
La Madonna della mafia
di don Aldo Antonelli (L’Huffinton Post, 11/07/2014
Guardo la foto e leggo il contesto. Un madonna, intronizzata come regina, incorniciata in una raggiera dorata, portata a spalle da una masnada di giovanotti biancovestiti, nel caos festante di una folla accalcata che non si capisce bene se prega, canta o chicchiericcia. Osservo la foto e mi chiedo quale rapporto può esserci tra questa "Madonna Regnante" e la semplice, umile ragazza di Nazareth di cui narrano i Vangeli. Mi domando come possa essere accaduto che colei che nel Magnificat inneggia al Dio che "depone i potenti dai troni", possa a sua volta sedere su un trono ed essere chiamata "Regina"! Come possa essere beffardamente ricoperta di ori e di argento la Madre di Colui che comandò ai suoi discepoli di non portare con sé né oro, né argento.
Siamo di fronte ad una metamorfosi depravata e deformante, funzionale ad una società auto-referente e lontana anni luce da quell’espressione di fede, coscienza critica della società, che la teologia più attenta vorrebbe evidenziare.
Secondo l’analisi funzionalistica di Emile Durkheim, la religione non è altro che un riflesso della società che venera se stessa. Con questa espressione, dalle connotazioni decisamente provocatorie, il grande sociologo intendeva sottolineare il carattere sociale e civile della religione, intesa come un sistema di riti grazie al quale una società si rinforza e crea legami profondi fra gli individui che la compongono. Secondo il sociologo francese, la religione serve alla società per salvaguardarsi, ma, soprattutto consente all’individuo di sentirsi parte di un’entità collettiva, nella quale assumere un ruolo definito. I riti religiosi, quindi, accompagnano le trasformazioni personali e sociali, permettendo, attraverso la loro capacità di regolamentare il caos e, insieme, di esprimere una forte carica simbolica, di creare, problematizzare e rafforzare le realtà sociali stesse.
Naturalmente, in una società mafiosa la religione diventa la legittimazione morale del sistema-mafia! In una società capitalistica, la religione consacra, facendone degli assoluti, i principi di "proprietà" e di "libertà"! In ambito politico, la religione si fa veicolo di consenso verso pratiche che pur contraddicendo i valori ne sposano la difesa. L’espressione più evidente di questo diabolico potere è offerta dal fenomeno di quelle persone che si definiscono come «atei devoti».
In questa formula, vi è evidente una contraddizione che, però, finisce con lo spiegare meglio il senso e le forme della religione civile. Scrive Marco Gallizioli sul numero 8 dal 2011 della rivista cattolica "Rocca", della Cittadella di Assisi: «Alcuni individui, infatti, pur negando validità trascendente alle religioni, ne sposano le linee etiche e ne ri-conoscono il valore insostituibile nel tessere un abito identitario dai colori netti. In altri termini, le fedi vengono svuotate del loro proprium, e imbalsamate nella loro funzione sociale, perché fungano da moltiplicatori di identità e di etica... Così facendo, la religione rischia di trasformarsi in una lobby di potere, che, grazie alle sue funzioni sociali, può giocare un ruolo decisivo nella politica degli stati, rischiando di mercificare la sua proposta spirituale».
Analisi precisa, puntuale e senza sconti di parte. A mio avviso, tanta strumentalità e, diciamolo pure, tanto abbrutimento è stato possibile anche grazie agli interessi di bottega e/o alle pigrizie di comodo di una chiesa e di un clero più inclini a tradurre la fede nella comoda e compensativa religiosità popolare che impegnati alla difficile e scomoda testimonianza. In questo, grande supporto è dato dalla teologia di palazzo, tutta ideologia e affatto evangelica. Ma qui si apre un altro discorso.
Per ora dobbiamo dire grazie al richiamo forte di papa Francesco e allo scandalo salutare di Oppido Mamertina.
La fede inventata dell’imperatore
di Luca Kocci (il manifesto, 7 marzo 2014)
L’imperatore Costantino, la sua conversione al cristianesimo, la battaglia di Ponte Milvio, l’Editto di Milano costituiscono uno dei più riusciti modelli di «uso pubblico della storia», per riprendere l’espressione di Nicola Gallerano. Un processo con cui - scriveva Gallerano nel volume Le verità della storia. Scritti sull’uso pubblico del passato , manifestolibri -, mediante i mezzi di comunicazione di massa, la scuola, i monumenti si promuove una «lettura del passato polemica nei confronti del senso comune storico o storiografico» e si usa la storia per la battaglia politica.
Complice l’anniversario numero 1.700 della promulgazione di quello che è spesso chiamato Editto di Milano, il 2013 appena concluso è stato costellato di iniziative per celebrare la ricorrenza dell’evento dell’anno 313. Mostre, francobolli, pubblicazioni, numeri speciali di riviste anche a grande tiratura, trasmissioni televisive che hanno contribuito a rafforzare nell’immaginario collettivo convinzioni tanto acquisite quanto storiograficamente errate, ovvero che la battaglia di Ponte Milvio fra Costantino e Massenzio fu vinta grazie ad un sogno-visione e che a Milano fu promulgato un editto.
Arriva allora opportuna la pubblicazione di Costantino e le sfide del cristianesimo. Tracce per una difficile ricerca , curata da Stanislaw Adamiak e Sergio Tanzarella (Il Pozzo di Giacobbe, pp. 288, euro 23). Un volume collettivo coraggioso perché nato all’interno di un «libero seminario» di storia della Chiesa tenuto nell’università Gregoriana, ateneo pontificio retto dai gesuiti, uno dei «templi» della cultura cattolica, a cui hanno partecipato giovani storici provenienti da decine di nazioni, per lo più extra-europee. E questa è stata una delle condizioni che ha reso possibile la realizzazione di una ricerca non viziata da pregiudizi romanocentrici. L’altra, necessaria in ogni ricerca, è il ritorno rigoroso alle fonti, per disinnescare «i meccanismi di un uso pubblico della storia del cristianesimo e dei mascheramenti del potere che ha costruito la figura di un Costantino cristiano al quale Dio concede potere e protezione a cominciare da un campo di battaglia fino all’indizione di un Concilio».
Il risultato è un libro che problematizza la questione costantiniana, liberando il campo da semplificazioni e falsificazioni attorno ai nodi più discussi della vicenda di Costantino. Come appunto l’Editto di Milano del 313, erroneamente considerato il primo provvedimento di tolleranza per i culti - fra cui il cristianesimo -, poiché già due anni prima, a Nicomedia, l’imperatore Galerio, aveva emanato un provvedimento grazie al quale il cristianesimo era diventato «religione lecita».
Che a Milano sia stato promulgato un editto è dubbio, in ogni caso non dal solo Costantino: a Milano si sono incontrati i due «augusti» dell’epoca, Costantino e Licinio, per discutere questioni relative «al rispetto della divinità», successivamente diventate norme che hanno assicurato ai cristiani la libertà religiosa e la restituzione dei luoghi di culto confiscati.
Del resto dell’Editto non esiste alcun testo, ma solo una lettera inviata al governatore della Bitinia da Licinio dopo il suo arrivo a Nicomedia nel giugno 313 in cui si fa riferimento alle decisioni di Milano. La vittoria finale di Costantino, secondo la dinamica per cui la storia viene scritta dai vincitori (le fonti principali sono Eusebio e Lattanzio, cristiani e costantiniani), ha oscurato la figura di Licinio.
Ed essendo Costantino il primo imperatore ad optare per il cristianesimo, la legislazione del 313 e successiva - che, fra l’altro, concedeva al clero l’esenzione dal pagamento delle tasse - si è andata configurando come primo editto di tolleranza del primo imperatore cristiano.
Altri due nodi, correlati fra loro: il sogno-visione di Costantino alla vigilia della vittoriosa battaglia di Ponte Milvio del 312, la conversione e il battesimo dell’imperatore. Le versioni di Eusebio e Lattanzio non coincidono: Costantino viene avvertito in sogno di segnare sugli scudi dei suoi soldati il nome di Cristo, ma ha anche una visione della croce con la scritta Hoc signo victor eris (con questo segno sarai vincitore).
Nelle fonti non cristiane si segnala però che due anni prima lo stesso Costantino, in Gallia, ebbe una visione diversa: non del Dio cristiano, ma del pagano Sol invictus accompagnato da tre X, i successivi tre decenni di regno. Evidente quindi una cristianizzazione a posteriori dell’apparizione pagana. Avvalorata dal fatto che nell’Arco di Costantino, successivo alla battaglia di Ponte Milvio ma precedente ai testi di Lattanzio ed Eusebio, non vi è alcun riferimento al Dio cristiano, bensì diverse divinità pagane e la generica iscrizione di una vittoria instinctu divinitatis (per ispirazione di una divinità).
Così come non vi è alcuna evidenza storica della conversione di Costantino, che peraltro sarebbe stato battezzato a Nicomedia poco prima della sua morte nel 337 e non al Laterano da papa Silvestro.
Chiaro il disegno politico: rafforzare il papato e preparare la strada alla (falsa) Donazione di Costantino - l’imperatore convertito concedeva al papa il potere sull’Italia -, fondamento del potere temporale e dello Stato pontificio. Più che alla fede cristiana, allora, quella di Costantino è una conversione alla Chiesa, alleata dell’impero e utile al consolidamento del proprio potere.
Il successo di una religione nascente
di Alessandro Santagata (il manifesto, 27 febbraio 2014)
Abitiamo «comunità immaginate» che si definiscono per meccanismi di inclusione e di espulsione. Lo ha spiegato magistralmente Benedict Anderson in un saggio pubblicato lo stesso anno in cui Eric Hobsbawm faceva uscire il suo studio sull’invenzione della tradizione. Il corpo civico dei cristiani, che delle religioni politiche è stato il modello, si è costituito nei secoli attraverso un percorso analogo di costruzione discorsiva.
Ne ha indagato le origini Emiliano Rubens Urciuoli in Un’archeologia del ’noi’ cristiano. Le ’comunità immaginate’ dei seguaci di Gesù (Ledizioni). La premessa di questo studio è che Gesù non sia stato il fondatore di una nuova religione, ma il promotore di un rinnovamento interno al giudaismo che solo successivamente avrebbe portato alla nascita dei cristianesimi.
La tesi di partenza, debitrice delle indagini di Mauro Pesce, è che il cosiddetto «cristianesimo delle origini» sia un mito costruito a uso e consumo degli «agenti» del nascente «campo religioso» cristiano a partire dal I secolo.
Questi diversi attori volevano «instaurare un’altra polis alternativa a quella esistente e garante della sua incombente dissoluzione cosmica». Sarebbe stato proprio il prolungarsi dell’attesa della parusia - spiega Urciuoli - a costringere i «cristiani» a mettere in campo strategie di gestione dello «stato di eccezione» che hanno definito un corpo culturale e religioso. Il primo passo era ovviamente immaginare un uomo nuovo.
Nella ricostruzione proposta dall’autore il ruolo di protagonista spetta a Paolo di Tarso. È lui ad avanzare per primo l’idea del cristiano come una «nuova creatura», prodotto di quella «seconda creazione» inaugurata dalla morte del Cristo in croce. In gioco, era la partita per estendere la via della salvezza al di fuori del campo dei circoncisi, ma l’autore evidenzia come la scelta di «cristianizzare» la nozione di umanità dipendesse anche dal bisogno di distinguersi dalle antropologie e dalle teologie altrui. Contro lo gnosticismo, per esempio nel caso di Tertulliano. Per differenziarsi dai pagani, nel caso del «barbaro» Taziano, che si definisce tale perché professa una religione ritenuta barbara dai greci.
Per il «vero Israele» in quello di Giustino. Nel Dialogo con Trifone , l’apologeta cristiano descrive una nuova etnia riconducibile, tramite una precisa linea patriarcale (Giuda, Giacobbe, Isacco), allo stesso capostipite del popolo ebraico (Abramo).
A questo proposito, Urciuoli ricorda come la capacità di assorbire, scomporre e annodare discorsivamente elementi culturali di diversa provenienza abbia costituto una delle ragioni della «vittoria» storica del cristianesimo. Anche per questo motivo, verrà rifiutata l’etichetta di tertium genus , con la quale i pagani erano soliti definire la comunità dei seguaci di Gesù: terzi dopo i romani e i giudei. Secondo Tertulliano, al contrario, erano semmai i primi, in virtù dell’adesione della loro anima a Dio: «concittadini dei santi e familiari di Dio».
Ma qual era la loro città? Sul paradosso civico dei cristiani, il cui ordinamento è nei cieli, sono state riempite biblioteche di studi di storia politica. L’autore vuole capire in che modo la cittadinanza cristiana sia stata declinata sul piano temporale, di fronte a un mondo che c’era già e in attesa di quello che doveva ancora venire.
Si trovano qui le basi della formazione di un’etica civile dei cristiani, chiamati a vivere sulla terra «come se» lo iato tra maturazione del diritto al Regno dei cieli e il suo compiuto godimento fosse già stato colmato. Il risultato sarà una religione fortemente coinvolta nel tempo presente, a cui i cristiani «partecipano attivamente come cittadini, ma assistendo passivamente come stranieri» ( Lettera a Diogneto ).
Scrive Urciuoli: «le chiese cristiane si aprono allo spazio esterno senza cessare di esercitare la propria contestazione; si aprono e vi entrano senza farlo entrare e senza cessare così di esistere in quanto luoghi assolutamente altri». Il seguace di Gesù non si occupa semplicemente del mondo, ma lo occupa. Nella formazione del discorso e della comunità immaginata dai suoi aderenti si possono scorgere le ragioni del successo di questa nascente religione. Il merito principale della ricerca è farci vedere, attraverso le chiavi di lettura dell’archeologia del sapere, come tutti gli elementi decisivi fossero già a disposizione, almeno un secolo prima della conversione di Costantino
Troppo legati alla mamma. La Chiesa: matrimonio nullo
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 16 febbraio 2014)
«Gli ammalati di mammismo non sono in grado di assolvere i loro doveri coniugali - spiega il cardinale canonista Valasio De Paolis, membro della Cassazione vaticana e giurista di fiducia della Santa Sede. Ci sono casi nei quali si è talmente legati alla madre da non poter fare vita comune con l’altro coniuge». Cuore di mamma va bene, ma attenzione perché il «mammismo può essere causa di nullità del matrimonio».
Mammisti, dunque e non mammoni: giacché il mammone è quello che della mamma non può far a meno e con la mamma continua a vivere mentre il mammista è la persona per la quale «per ogni scelta, per ogni mossa - scrive il Vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico della Liguria monsignor Paolo Rigon - è necessaria l’approvazione del genitore che di fatto diventa psicologicamente il vero coniuge mentre la persona che si è sposata sarà solo la sostituta».
Tante, le più svariate, le motivazioni che portano alla richiesta di nullità del matrimonio: una relazione adulterina dalla quale è nato un figlio, la mentalità divorzista o semplicemente la noia.
Atipico il caso di una ragazza veneta che ha chiesto l’annullamento delle nozze per essere stata indotta alla prostituzione dal marito. I soldi guadagnati sulla strada dovevano servire per mettere su casa. Sempre più gay chiedono alla Chiesa di dichiarare nulle le loro nozze. Emblematico il caso di un omosessuale di Padova che davanti al tribunale ha dato una sua personale interpretazione del Vangelo: «Gesù non specifica che io devo amare ad ogni costo una donna, importante è amare qualcuno».
Mammista è un neologismo inesistente almeno nei dizionari più accreditati ma efficace, prodotto dal tribunale ecclesiastico regionale della Liguria rivolto a coloro che faticano anche dopo il matrimonio a tagliare il cordone ombelicale che li lega alla mamma e che a lei si rivolgono come all’unica fonte di saggezza, autorizzandola di fatto a pontificare su qualsiasi cosa, dal colore delle tende alle prestazioni nel letto coniugale fino all’educazione dei bambini.
Ma il mammismo, avvertono i giudici ecclesiastici, conduce inevitabilmente all’apertura del vaso di Pandora con conseguenze disastrose: è una sorta di droga antalgica o analgesica che, dicono i prelati in toga, «porta a una dipendenza che inficia gravemente la vita coniugale». Si provi, pertanto, a ripetere continuamente al coniuge che «mamma avrebbe fatto così» oppure «mamma pensa che...» e il tribunale non ci metterà molto a far ritornare il mammista allo stato di celibe o nubile. In fondo, in questi tempi già sposarsi è un passo difficile da fare ma portarsi dietro la mamma potrebbe rendere la faccenda impossibile.
«Abbiamo affrontato il tema più delicato, più difficile ma purtroppo anche il più frequente delle nullità matrimoniali: gli aspetti deficitari dell’uso dell’intelligenza». Il «mammismo» è tra le forme di dipendenza più diffuse. «E’ un fenomeno in continua crescita, che mina il rapporto di coppia- commenta la sessuologa Alessandra Graziottin - C’è da parte dei figli un desiderio di rimanere nella “totipotenza” dell’adolescenza, mentre i genitori sono gratificati dalla loro essenzialità. Bene fa la Chiesa a rimarcare il problema: è un segno di grande modernità e attenzione alle fragilità della coppia». Un atteggiamento «sbagliato». Per la mancata maturazione, la persona «rimane sempre “figlio” e non “uomo” o “donna”, con un effetto su tutti gli aspetti relazionali, a partire da quello sessuale, con il rapporto che diventa una “ginnastica” e non il segno di una relazione affettiva.
Un conto è l’amore profondo, un conto la dipendenza patologica, che riguarda più le mamme ma talvolta anche i padri». Le conseguenze per la coppia sono devastanti. «Se non è risolto il rapporto genitoriale è impossibile stabilire un legame profondo con il partner e progettare una famiglia: si instaurano dinamiche di confronto: il partner viene sempre paragonato al genitore. Un vero psicodramma».
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 17 gennaio 2014)
Fino all’altro ieri, ’monoteismo’ era una categoria d’uso corrente, soprattutto fra i dotti studiosi di storia delle religioni, per indicare un grado di alta perfezione dell’idea di ’Dio’: di fatto, la concezione del divino più coerente con la filosofia occidentale della ragione, e anche la più degna del pensiero umano del trascendente. In una manciata di anni, ’monoteismo’ sembra essere diventato il nome in codice dell’oscurantismo religioso, il peggiore che sia immaginabile. Di fatto, esso è individuato come la minaccia essenziale al progresso di una civiltà della ragione e della tolleranza.
Le tre religioni monoteistiche dell’area mediterranea (giudaismo, cristianesimo, islam) appaiono così, essenzialmente in virtù di questo presupposto, come il seme radicale della violenza fra gli uomini.
La compulsiva diffusione della formula, che interpreta il monoteismo religioso come l’ideologia radicale della volontà di potenza, è certamente frutto dell’ignoranza. Ma anche una semplificazione grave.
La formula è culturalmente nobilitata dagli effetti della nuova recezione progressista di Nietzsche, la cui ossessione antireligiosa ha indotto la tradizionale critica occidentale (greca e cristiana) nei confronti della violenza a rivolgersi contro la verità e il bene: che sarebbero le sue più insidiose coperture. Una parte dell’intellighenzia occidentale si è così applicata con metodo alla denuncia totale della religione, della metafisica, della spiritualità e della morale: indicando il cristianesimo come regista e garante dell’alleanza dispotica che le abita. La critica smantella così, con metodico puntiglio, anche tutti i presìdi del logos che ha storicamente cercato il contenimento della violenza, distraendo la nostra attenzione dalla violenza vera e propria. Questa irresponsabile deriva della cultura chiede nervi saldi e senso critico.
È certo che esiste, storicamente, un oscuro rapporto fra le umane tradizioni del sacro e l’oscura pulsione della violenza, che ritorna di generazione in generazione (e la Bibbia spiega anche la ragione dell’umana corruzione del sacro, che sta all’origine di ogni peccato).
La violenza è un tema cruciale dell’intera storia umana proprio perché essa è in grado di contaminare anche ogni presidio religioso e razionale del suo contenimento culturale. In questo senso, contrastarla è problema comune e dovere sacro di tutte le culture umane. Le guerre di religione, come la guerra alla religione, sono due forme dell’identica perversione.
La testimonianza riflessiva della fede cristiana nell’unico Dio deve dunque tenere seriamente conto del disorientamento prodotto dalla semplificazione ideologica associata al concetto di monoteismo (insieme con la generale intimidazione nei confronti della religione, che vi si accomoda).
Il nuovo documento della Commissione teologica internazionale, intitolato Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, indica esplicitamente questa consapevolezza (come appare chiaramente dal primo capitolo, che ne istruisce i termini). Nondimeno, lo svolgimento del testo è guidato da una convinzione propositiva: la riflessione teologica può e deve trarre dalla migliore conoscenza e intelligenza della Parola di Dio i princìpi della decostruzione di questo pregiudizio.
L’inedito assoluto della fede cristiana, infatti, è proprio nella smentita del valore di rivelazione della violenza omicida in nome di Dio, come fosse il sigillo della vittoria della verità e dell’eroismo della fede.
Il successivo sviluppo della riflessione, che illustra le premesse e le implicazioni del nucleo cristiano della rivelazione non-violenta di Dio, è dunque ispirato da una duplice attenzione, la quale marca anche l’attualità della sua istruzione e della sua offerta di sintesi. Da un lato è mantenuta una puntuale attenzione all’articolazione della rivelazione di Dio con l’umanesimo non violento della sua attestazione. Dall’altro lato, speciale cura è dedicata al fatto che la rivelazione dell’intimità e della comunicazione trinitaria dell’unico Dio, lungi dal violarla, custodisce intatta l’unità e semplicità dell’essere divino, sigillandola come perfezione della vita e dell’amore.
Il documento Dio Trinità, unità degli uomini non è reticente sul fatto che le molte luci dell’ininterrotta tradizione cristiana di questo principio sono state intercettate dalle molte ombre di una storia che le ha gravemente oscurate.
Esprime nondimeno la convinzione che proprio questo sia un tempo particolarmente favorevole al disinnesco definitivo di antiche ambivalenze. Il cristianesimo ora ha maturato anche storicamente - ai livelli più alti e autorevoli della coscienza di sé, e della forma del suo annuncio - la serietà irrevocabile dell’interdetto evangelico nei confronti di ogni contaminazione fra religione e violenza.
Inoltre, chiunque parli in questi termini, oggi - nelle sedi degli incontri interreligiosi, come nelle aule del consesso mondiale dei popoli - parla un linguaggio obiettivamente cristiano. Il compito di essere all’altezza di questo kairòs, anche mediante una teologia più trasparente della sua intrinseca verità cristiana, è un impegno dal quale il cristianesimo, per primo, non potrà più regredire.
Il testo dei 30 teologi, che vengono da ogni parte del mondo, non si limita a incoraggiare gli adoratori di Dio a far seriamente lievitare la testimonianza della religione verso la compiuta separazione dall’anti-umanesimo della violenza. Il loro discorso, non senza un tratto di garbata audacia, si spinge anche a suggerire alla filosofia critica e alla cultura politica dell’epoca di riprendere coraggio, per riscattarsi dalla decostruzione alla quale, mestamente o imperativamente, ci esorta.
In altri termini, sembra venuta l’ora di chiudere i conti con il lavoro distruttivo del caos, per riprendere fiducia nel lavoro costruttivo del logos. In ogni modo, ognuno esamini se stesso e risponda onestamente all’appello dei popoli. La teologia cattolica ha fatto la sua mossa.
Bonhöffer, la resistenza del mite
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 16 gennaio 2014)
«Tuo padre ti ha comunicato che ho ricevuto notizie dalla Germania che, all’ultimo minuto, devo tornare là il 15 aprile? Alla luce delle decisioni politiche più recenti, talvolta il mio cuore sobbalza al pensiero di cosa mi attende, ma i bisogni della Chiesa sono così urgenti che non esiste altro modo di fare». La coscienza, prima di tutto. Prima del timore di incorrere in restrizioni, persecuzioni, problemi.
Dietrich Bonhoeffer ne era consapevole in quel marzo 1935 quando, ad appena 29 anni, dalla sua nuova sede di azione pastorale - Londra - scriveva queste parole all’amico assai più giovane, Ernst Cromwell, un ragazzo da lui accompagnato spiritualmente. L’ombra lunga del nazismo aveva già avvolto la Germania.
Quando Bonhoeffer aveva scelto Londra come terra di elezione missionaria - arrivato nel 1930, vi restò fino al 1935 - Hitler era ancora lontano dal prendere il potere a Berlino con quel riscontro di popolo e di establishment che comprendeva anche i Deutsche Christen, gruppo di credenti filo-nazisti. Ai quali si oppose ben presto la Bekennende Kirche, la Chiesa confessante che, sopratutto, respingeva il radicato e radicale anti-semitismo del profeta della croce uncinata.
Guida della Bekennende fu proprio quel pastore, Bonhoeffer, che finirà i suoi giorni il 9 aprile 1945 impiccato a Flossemburg su ordine diretto del Führer. Un nuovo tassello biografico di questo grande pensatore di Dio e degli uomini si svela ora in una serie di lettere inedite, pubblicate in queste settimane per la prima volta in Inghilterra, Letters to London, dalla casa editrice SPCK.
Missive indirizzate a Ernst Cromwell, un ragazzo di padre ebreo secolarizzato e madre luterana, conosciuto da Bonhoeffer durante il suo soggiorno londinese. Missive private, quelle destinate al giovane amico, ma che dipanano ancora una volta la fede granitica dell’autore di Sequela. Come testimonia questa affermazione del 20 marzo 1935: «La cosa importante è non diventare assuefatti, inacidirsi o preoccuparsi in maniera non necessaria, ma essere capace, giorno dopo giorno, di diventare incommensurabilmente felici del fatto che esiste una causa così grande come il cristianesimo».
Una volta rientrato in patria, il senso di limitazione della libertà Bonhoeffer iniziò ben presto a viverlo sulla propria pelle, come racconta nella lettera dell’8 giugno 1935, quando parla delle «questioni per le quali abbiamo a che fare con le autorità», ovvero gli interrogatori che doveva già subire per la sua libertà di pensiero. E proprio in quell’anno, appena rientrato dalla City, Bonhoeffer non aveva esitato a far sentire la sua voce per la libertà dei credenti antiregime: «Il richiamo che ho fatto una domenica riguardo i ’nostri fratelli nei campi di concentramento’ ha provocato una tempesta in un bicchier d’acqua ed è stata veramente benefica, ho imparato la lezione». Ovvero, che ormai era chiaro il carattere anticristiano del nazismo.
Di fronte alle difficoltà che il suo essere membro della Bekennende Kirche comportava, Bonhoeffer non si impressionava più di tanto. Ma anzi rintracciava nella propria fede cristiana gli antidoti più veri per vivere quella ’resistenza’ che farà da titolo ad uno dei suoi grandi saggi post mortem ( Resistenza e resa): «Stiamo aspettando con ansia Pentecoste. Potrai capire che questa festa ha un significato speciale per noi. Il suo Spirito è lo spirito della nostra comunità. Non uno spirito terrestre, né di cameratismo o di mera amicizia, ma piuttosto di amore fraterno, obbedienza, disciplina e gioia incrollabile. Uno Spirito dall’alto, lo Spirito Santo, quello per cui preghiamo». È in questa priorità dell’elemento spirituale che secondo Bonhoeffer si concretizza la vocazione del suo essere cristiano confessante: «Spero e credo che in questo modo noi stiamo facendo un servizio reale alla Chiesa e alla Germania».
Bonhoeffer si palesò ’confessante’ anche in un’altra occasione, come testimonia questo epistolario. Ovvero, la scelta di uno studio biblico sul Re Davide pubblicato nel 1935 che si meritò gli strali del giornale nazista di Stoccarda “Durchbruch”. Critiche che Bonhoeffer stesso segnala così: «Di recente - scrive il 25 ottobre - mi sono reso abbastanza impopolare sul tema degli ebrei, ma con un certo successo. Questa è la cosa principale. Sono contento di ogni giorno nel quale posso lavorare come sto facendo adesso».
E un mese dopo, la situazione, almeno nella percezione del grande teologo, si fa sempre più chiara del fatto che la propria posizione di opposizione spirituale all’ideologia di Hitler poteva diventare motivo di perniciose conseguenze: «Ho l’impressione - annota il 20 novembre - che il cammino che sto prendendo mi condurrà ad avere seri problemi».
E la profezia si verificò: sebbene il 12 novembre avesse iniziato a tenere lezioni all’università di Berlino, una legge emanata il 2 dicembre impediva ai membri della Chiesa confessante, e quindi allo stesso Bonhoeffer, di tenere esami accademici.
A Ernst Cromwell confessa: «Ho ricevuto un avviso dal ministero della Cultura per cui, alle circostanze attuali, non mi è più permesso tenere lezioni». Ciononostante, ciò cui il teologo luterano tiene maggiormente è un dato preciso, la fondatezza di un rapporto umano che supera ogni avversione e crudezza ideologica: «L’unica preoccupazione è conoscere, prima che venga la notte, chi è un amico e chi no. Posso dirti una cosa - scrive a Cromwell nell’ultima missiva pubblicata, datata27 marzo 1936 -: la questione più importante di qualsiasi convinzione è avere a fianco delle persone con le quali puoi condividere i tuoi convincimenti».
E Bonhoeffer ricentra ancora tutto in Cristo: Non c’è verità senza amore. L’odio stravolge la verità in falsità. La falsità cambia l’amore in odio. Lo sappiamo da colui che ha promesso che sarebbe stato sempre con noi, Cristo Gesù che noi confessiamo, proprio lui che ha vissuto in mezzo a un mondo di terribile manipolazione, fatto di falsità, ingiustizia e negazione della misericordia ».
La carità di fra Cristoforo e le sirene di Ulisse
di Luigi Accattoli (Corriere della Sera, 04.01.2014)
Quando diffida i religiosi dal nutrire un «cuore acido» il riferimento potrebbe essere alla Monaca di Monza del Manzoni che viveva «nell’astio» la vita monacale alla quale era stata costretta. Il richiamo ad attrarre con la carità e a mostrare al mondo che si può «vivere diversamente» ha dietro la figura di fra Cristoforo. Ma nelle direttive del Papa ai «Superiori Generali» ci sono sottotraccia anche richiami meno specifici e di scuola: l’Odissea e l’Eneide, Dante e il Martin Fierro di José Hernández (1834-1886), che è il poema nazionale argentino.
Un riferimento al Martin Fierro lo trovo nell’invito ai religiosi a recuperare la «tenerezza materna» verso le persone affidate alla loro cura. In un saggio sul poema di Hernandez pubblicato nel 2002 il cardinale Bergoglio riportava questi versi come monito ad apprendere il dovere della tenerezza verso i più deboli: «La cicogna quando è vecchia / perde la vista, e si affannano / a curarla nell’età matura / tutte le sue figlie piccole. / Imparate dalle cicogne / questo esempio di tenerezza».
Un rimando all’Ulisse dell’Odissea possiamo vederlo nel richiamo rivolto ai religiosi perché siano «uomini e donne capaci di svegliare il mondo», cioè di scuoterli dall’incantamento «mondano». Era a questo scopo che nell’intervista del settembre scorso alle riviste dei Gesuiti aveva paragonato i «valori avariati» dell’umanità di oggi al «pensiero ingannato» di Ulisse «davanti al canto delle sirene».
L’Enea dell’Eneide fa capolino tra le righe dell’invito a esplorare e «illuminare il futuro», posto come esemplificazione del compito «profetico» dei religiosi. Più volte nei testi del cardinale Bergoglio ricorre l’immagine di Enea che dopo l’incendio di Troia «si carica la sua storia sulle spalle e si mette in cammino, alla ricerca del futuro» (così per esempio nel volume «Il nuovo Papa si racconta», Corriere della Sera 2013, p. 67).
Quando dice «non negoziabile» la predicazione evangelica e afferma rudemente che si tratta di «essere profeti e non di giocare a esserlo», viene alla mente un discorso ai vescovi spagnoli (gennaio 2006) nel quale a quello stesso scopo da cardinale aveva citato il canto XXIX del Paradiso di Dante: «Non disse Cristo al suo primo convento [gruppo di discepoli]: / andate e predicate al mondo ciance».
Per il capitolo della «inculturazione» del cristianesimo nelle diverse civiltà Francesco cita i gesuiti che in tale impresa sono stati più creativi, da Matteo Ricci (1552-1610) a Segundo Llorente (1906-1989), che scrissero diversi volumi di memorie che sicuramente Papa Bergoglio conosce nei testi originali. Ma più interessante, per il lettore non specialista dell’interessante «colloquio» del Papa gesuita con i confratelli religiosi, è l’allusione implicita a testi profani, che è - come sempre nei suoi testi - abbondante.
Nell’invito a concepire la formazione dei religiosi come «opera artigianale e non poliziesca», mirata a far crescere persone capaci di gioia e di tenerezza, si può vedere in trasparenza l’apprezzamento ben noto del cardinale Bergoglio per il film «Il pranzo di Babette» che - disse una volta - mostra come una comunità puritana possa arrivare a ignorare «che cosa sia la felicità». O anche vi si potrebbe scorgere la sua ammirazione per la Crocifissione bianca di Chagall, che «non è crudele ma ricca di speranza».
Decodificare i codici della famiglia
di Angie O’Gorman *
in “ncronline.org” del 28 dicembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Le letture del Lezionario scelte in questo ciclo per celebrare la festa della Santa Famiglia ci lasciano con domande a cui non è facile dare una risposta. In base a quali standard valutiamo le relazioni familiari, e perché? Chi includiamo o escludiamo come membri della famiglia? E come gestiamo la patologia, il conflitto e l’abuso all’interno della famiglia?
Il Siracide ci mostra la saggezza del leggere i segni del proprio tempo e del proprio luogo attraverso il prisma della fede. È ciò che ha fatto il Siracide allo scopo di discernere il codice della famiglia ebraica. Paolo ha fatto lo stesso per la famiglia del cristianesimo primitivo. Nella sua lettera alla comunità cristiana dei Colossesi, tenta, tra le altre cose, di integrare la nuova vita comunitaria in Cristo nel codice della famiglia di quel momento. Purtroppo, qui ha usato uno standard diverso rispetto alla lettera agli Efesini, e ha lasciato generazioni di fedeli a discutere se ciò che meglio caratterizzava la famiglia cristiana fosse la subordinazione o la reciprocità. Per complicare ulteriormente il quadro, la chiesa ci chiede di riflettere su un brano della scena della natività di Matteo che non è affatto sulla famiglia. È un tentativo di presentare Gesù come il nuovo Mosè. Matteo ci spinge verso temi di liberazione. Che cosa ci può dire la liberazione nello stile mosaico sul modo di essere una santa famiglia oggi?
Domande davvero difficili in un tempo di continui mutamenti e conflitti su sessismo, violenza sessuale, orientamento sessuale, ruoli e relazioni di genere, e di significati e forme di vita familiare che stanno emergendo.
Così, potrebbe esserci di aiuto nell’affrontare i nostri specifici problemi, il cominciare a guardare che cosa c’è dietro il concetto di famiglia per gli ebrei quando il Siracide scriveva attorno al 180 a.C. Come sarebbe stata una festa della Santa Famiglia nel periodo in cui il codice ebraico della famiglia si stava sviluppando? Che cosa avrebbe celebrato? La festa avrebbe onorato famiglie estese di molteplici nuclei familiari con a capo un maschio, nei quali ognuno, compresi i bambini più piccoli, era impegnato nell’agricoltura di sussistenza. La festa avrebbe celebrato la proprietà e la progenie, non perché fossero preziose, ma perché entrambe potessero essere produttive. Infatti, sarebbe stata una celebrazione della sopravvivenza del gruppo familiare per un altro anno, una sopravvivenza dipendente dalla struttura familiare che si era sviluppata in risposta alle necessità di un’agricoltura di sussistenza. In altre parole, ciò che era necessario per la sopravvivenza contribuiva a creare quello che stava diventando il codice ebraico della famiglia.
Tale contesto ci aiuta a vedere la struttura del mondo secolare e della famiglia in cui si è formata la letteratura sapienziale biblica, il genere del libro del Siracide. Nel Siracide vediamo il risultante codice della famiglia, osservato come adatto ai bisogni del popolo e, conseguentemente, inteso come ordinato da Dio.
In Colossesi 3,18, Paolo inserisce un altro codice familiare secolare: “Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore”. Ma questo non corrisponde alle azioni della più vasta chiesa in quel tempo. Tra l’altro, alle donne ci si rivolgeva direttamente come membri della comunità ecclesiale, non come appendici dei loro mariti, e venivano ammesse al battesimo indipendentemente dall’opinione o dal permesso dei loro mariti. “Per essere chiari”, scrive lo studioso di Scrittura Cesar Alejandro Mora Paz, l’inclusione di questo codice “era un tentativo di rendere accettabile il cristianesimo primitivo e di eliminare una delle prime accuse contro di esso, cioè che fosse anarchico e che tentasse di sovvertire l’ordine sociale”.
Come altri hanno notato, i codici dei gruppi familiari di Efesini e Colossesi differiscono. Nella lettera agli Efesini, scritta attorno allo stesso periodo, Paolo esorta i coniugi ad “essere sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,21). Che cosa intendeva, sottomissione o reciprocità? Quale comportamento riflette maggiormente il modo in cui Gesù trattava le persone del suo tempo, le donne in particolare?
Nel brano di vangelo di Matteo, Gesù riprende la liberazione di Israele da parte di Mosè. Gesù, nato da poco, sopravvive ad un tentativo di assassinio, proprio come Mosè. Gesù fugge in Egitto, come aveva fatto un tempo il suo popolo, e ne viene via di nuovo, come anche il suo popolo aveva fatto. Viene ricercato da Erode, come Mosè veniva ricercato dal Faraone. Proprio come Mosè, Gesù non avrebbe dovuto sopravvivere. Ma sopravvisse. Il Dio di Mosè e di Gesù Cristo libera.
Così come Matteo ha cercato, in un certo senso, di mostrare che Gesù era un Mosè “aggiornato”, ogni generazione, in ogni luogo, cultura e tempo deve fare il duro lavoro di “aggiornare” il suo modo di intendere Gesù e il suo Dio. Per fare questo dobbiamo sapere quali erano i codici culturali ed economici presentati in quel brano biblico, e quali erano le verità fondamentali che trascendevano le vicissitudini del tempo e del cambiamento. Un compito che non è facile. Né può esserlo. Perché proprio le ricerche del Siracide o di Paolo o di Matteo, o di chiunque di noi, sono quelle che mantengono la fede viva, dinamica, rilevante.
In quali modi i codici attuali della famiglia liberano o dominano, creano sottomissione o reciprocità? Che cosa porta pienezza, e che cosa mantiene nell’impotenza? Negli attuali codici della famiglia, da che cosa abbiamo bisogno di essere liberati o che cosa dobbiamo mantenere come fondamento di fede?
*Angie O’Gorman è una scrittrice freelance, impegnata a favore dei diritti umani. Abita a St. Louis, dove lavora nei Legal Services del Missuri orientale.
RAFFAELLO A MILANO. LA "MADONNA DI FOLIGNO" A PALAZZO MARINO
Note per decifrare il significato del quadro:
Commissionata nel 1511 dal segretario papale Sigismondo de’ Conti per la chiesa dell’Aracoeli la pala raffigura la visione della Vergine che Augusto ebbe il giorno della nascita di Cristo ... La chiave per comprendere l’apparizione si trova nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (cfr. Carlo Carminati, L’enigma del fulmine, Il Sole-24 0re, 08.12.2013, p. 37)
Nella sua Legenda Aurea, Jacopo da Varagine [Varazze] così scrive: "Narra papa Innocenzo III che il senato voleva adorare come un dio Ottaviano per aver riunito e pacificato tutto il mondo; ma il prudente imperatore non volle usurpare il nome di immortale poiché ben sapeva di essere come uomo, mortale. Insistevano i senatori nel loro proposito onde Ottaviano interrogò la Sibilla per sapere se mai sarebbe nato nel mondo qualcuno più grande di lui.
Era il giorno della Natività di Cristo e la Sibilla si trovava in una stanza, sola con l’imperatore: ed ecco apparire un cerchio d’oro attorno al sole e in questo cerchio una vergine bellissima con un fanciullo in grembo. La Sibilla mostrò questo portento all’imperatore: mentre costui teneva gli occhi fissi alla visione sentì una voce che diceva: - Questa è l’ara del cielo! -. Esclamò allora la Sibilla: - Questo fanciullo è più grande di te; adoralo -.
La stanza dove avvenne tale fatto è stata poi consacrata alla Madonna ed ora si chiama Santa Maria Ara Coeli.
Timoteo ci dice di aver trovato negli antichi libri romani lo stesso fatto raccontato in modo diverso: dopo trentacinque anni di regno, Ottaviano salì in Campidoglio e chiese agli dei chi avrebbe retto l’impero dopo di lui. Udì in risposta queste parole: - Un fanciullo celeste, figlio del Dio vivente, nato da una vergine immacolata -. Ottaviano fece allora costruire un altare e vi fece scolpire queste parole: - Questo è l’altare del figlio del Dio vivente - (...)" (Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, Libreria Editrice Fiorentina, p. 52 s.)
SIBILLA TIBURTINA *
[...] Nella seconda metà del IV secolo apparve dunque in oriente una profezia sibillina ambientata a Roma, che ha avuto ampia diffusione anche in occidente, dove è stata tradotta in latino e dove, lungo i secoli, è stata oggetto di varie riscritture. Più di un centinaio sono i manoscritti noti che ne conservano il testo, che fu ricopiato ininterrottamente dall’XI fino agli inizi del XVI secolo. Le maggiori versioni latine furono prodotte tra l’XI e il XII secolo.
Gli oracoli sibillini godettero dunque di grande diffusione nel Medioevo. Nella tradizione greca[11] non si parla mai esplicitamente della Sibilla Tiburtina; tuttavia, come accennato, la veggente pronunzia il suo oracolo a Roma: la profetessa rivela ad Augusto l’avvento prossimo del figlio di Dio. Di questo celeberrimo racconto, sono note due differenti versioni, una diffusa in oriente e l’altra in occidente. Nella versione orientale, attestata nel VI secolo dal Chronicon di Giovanni Malalas, autrice della rivelazione non è una Sibilla, bensì la Pizia: è a lei, infatti che si sarebbe rivolto Augusto per conoscere il nome del proprio successore. La sacerdotessa di Apollo, simbolo di tutti gli oracoli pagani, ridotti al silenzio dall’avvento di Cristo, avrebbe detto all’imperatore di allontanarsi dagli altari, perché un fanciullo ebreo le imponeva ormai di tornarsene nell’Ade. L’imperatore avrebbe in seguito eretto un altare sul Campidoglio dedicato al figlio di Dio.
Il venerabile Beda (672 -735 d. C.), invece, attesta nella sua opera che tale oracolo fosse attribuito alla Sibilla Tiburtina e non alla Pizia.
A ricordo dell’ evento, per molti secoli, i francescani della Chiesa portavano in processione un’insegna della Sibilla che indicava un cerchio all’interno del quale era rappresentata la Vergine con il bambino in grembo. Tale rappresentazione sarà di grande uso nell’iconografia medievale come specificheremo in seguito. I francescani cantano tuttora tali versi: Stellato hic in circulo Sibyllae tunc oraculo, te vidit, Rex in coelo durante le feste di Natale.
La leggenda godette di enorme fortuna: ad essa si riferisce un sermone sulla Natività di papa Innocenzo III (1198-1216) . Nel XII secolo, nei Cronica imperatorum, la Sibilla Tiburtina figura sia come la profetessa della leggenda dell’Ara coeli, sia come l’interprete del sogno dei nove soli. Tra l’XI e il XII secolo, è attestata la confluenza, sulla figura di una Sibilla chiamata Tiburtina, di tre diverse tradizioni profetiche: il sogno dei nove soli, l’acrostico sul Giudizio Finale e la profezia della nascita di Cristo.
(WIKIPEDIA - Ripresa parziale)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, 8 dicembre 2013)
C’è anche la foto dell’ultimo scritto, una cartolina indirizzata a una sua giovane insegnante e poi amica, Christine van Nooten, una studiosa di letteratura classica che morirà nel 1998: Etty Hillesum il 7 settembre 1943 la getterà dal carro merci che sta conducendo lei e i suoi genitori al lager di Auschwitz, ove tre settimane dopo - il 30 settembre - entrerà nella camera a gas. Scriveva: «Apro a caso la Bibbia e trovo questo: "Il Signore è il mio alto rifugio". Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa (suo fratello) sono alcuni vagoni più avanti... Abbiamo lasciato il campo (di Westerbork, ove era prima detenuta) cantando... Arrivederci da noi quattro».
Questo "arrivederci" straziante ovviamente non si compirà e la vita di questa donna ebrea olandese, bella, straordinariamente intelligente e dotata di un’anima mistica, delicata e forte, verrà brutalmente spenta dalla bestialità nazista a soli 29 anni. Abbiamo già presentato la riedizione adelphiana del suo Diario; ora vogliamo solo invitare i nostri lettori a non perdere la raccolta delle Lettere, scritte in gran parte dal lager di Westerbork ove Etty (Ester) di sua volontà si era autoreclusa per gettare un seme d’amore e una scintilla di luce nell’"inferno degli altri". La fede, la Bibbia, la poesia (in particolare Rilke), il cielo solare o nuvoloso o stellato saranno il cuore spirituale di quei giorni, umanamente tenebrosi, che avvolgevano gli internati rendendoli cupi, rancorosi e infelici.
Sarà abusata l’immagine, ma Etty è come un angelo che irradia luce, senza però perdere il realismo di un’esistenza umiliata in un campo recintato all’interno di una brughiera sul quale s’abbattono folate di sabbia. Un realismo che conosce i piccoli egoismi delle stesse vittime e la brutalità dei carcerieri, ma anche la gioia di un pacco viveri, dell’arrivo e dell’invio di un biglietto o di un’amicizia che sboccia. Ogni commento a queste lettere della Hillesum o a lei indirizzate, che non sia quello necessario storico-critico (offerto in questa edizione), risulta dissonante e fin sgraziato. La lettura basta a se stessa.
È per questo che non aggiungiamo altro se non una citazione tra le tante possibili. "La miseria che c’è qui è veramente terribile. Eppure, la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare - e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo".
Ad Auschwitz un anno prima, nel 1942, veniva avviata nelle stesse camere a gas un’altra donna di straordinaria intelligenza, un’ebrea tedesca convertitasi al cattolicesimo, Edith Stein, discepola prediletta del filosofo Edmund Husserl. Battezzata a 31 anni nel 1922, entrata nel Carmelo di Colonia nel 1933 col nome di Teresa Benedetta della Croce, verrà proclamata santa da Giovanni Paolo II nel 1997.
Alla vasta bibliografia di lei e su di lei si aggiunge ora un particolare ritratto spirituale disegnato da una sua "consorella" attuale, la carmelitana Cristiana Dobner, che si è da tempo dedicata allo studio di Edith-Teresa Benedetta. Il profilo viene tracciato secondo tre lineamenti, usando altrettante testimonianze che intarsiano tutte le pagine del suo volumetto.
C’è innanzitutto il racconto autobiografico della donna col suo itinerario personale spesso travagliato, segnato da "indici di contrasti", e alla fine collocato all’insegna della luce di Cristo e della tenebra della Shoah. C’è, poi, il filo sia della riflessione filosofica fenomenologica, la prima sua patria ideale (la sua opera maggiore sarà, al riguardo, Endliches und ewiges, l’Essere finito ed eterno"), sia dell’esperienza spirituale, elaborata attraverso scritti di appassionata attestazione mistica (e qui brilla la Kreuzeswissenschaft, una "scienza della croce" che è anche adesione esistenziale).
Infine nelle pagine della Dobner occhieggiano le parole di coloro che hanno incrociato la vita di Edith a diverso titolo e nelle differenti tappe della sua vicenda personale. Suggestiva la testimonianza della nipote, Susanne Batzdorff-Biberstein: «Chi fosse veramente, come abbia vissuto e sia morta, rimarrà per sempre il suo segreto». Tutto converge appunto verso il mistero della morte, soglia apparentemente oscura, in realtà aperta su un roveto ardente di una fiamma divina.
Concludiamo questa recensione al femminile con una vera e propria galleria di ritratti di "tenacemente donne". Sono dodici, molto diverse tra loro, convocate da due giornaliste, la lombarda Alessandra Buzzetti e la siciliana Cristiana Caricato. Che cosa può unire tra loro Clara, la figlia del famoso genetista Lejeune, ascesa al vertice della General Electric France, e l’operaia romagnola part-time Cristina con tre figli e un marito disoccupato? Oppure Jocelyne, comandante delle milizie femminili dell’Esercito libanese, e Nasreen, missionaria francescana in Pakistan? O ancora la giornalista Costanza Miriano con Marcella volontaria in una casa di accoglienza? O Nancy, analista finanziaria della Walt Disney, e una giovane madre romana, Chiara Corbella Petrillo, morta di cancro?
La risposta la si scopre lasciandosi condurre da questi dodici racconti biografici, vere e proprie "storie di vita" nel senso più alto del termine: sfogliando le pagine di questo libro - per usare un’immagine poetica rilkiana - le dita rimarranno segnate dalla polvere di luce dell’amore, come quando si afferrano le ali di una farfalla. L’enfasi della metafora è smitizzata però, dal realismo di queste vicende femminili che si confrontano tutte col respiro di sofferenza, di miseria, di necessità del prossimo, mettendo in gioco successo personale, carriera e la stessa vita. E su tutte sembrano echeggiare le parole pronunciate da Gesù l’ultima sera della vita terrena: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per gli amici» (Giovanni 15,13).
ALLE RADICI DEL RAPPORTO CHIESA E POTERE: UN CONVEGNO SULL’EDITTO DI COSTANTINO *
37404. MILANO-ADISTA. L’Anno costantiniano, per celebrare i 1.700 anni dall’Editto di Milano del 313, è ormai finito. I convegni si sono moltiplicati - uno in Vaticano, due a Milano - e così gli incontri ecumenici (a Nis in Serbia, ancora a Milano, ecc.), poi un’enciclopedia e tanto altro. Era stato inaugurato a Milano, in occasione della festa di Sant’Ambrogio del 2012, dal discorso alla città del card. Angelo Scola, contestato perché partiva dall’editto per esprimere posizioni assai opinabili sulla libertà religiosa oggi, in Italia e in Europa (v. Adista Notizie n. 46/12).
Per tracciare un bilancio dell’Anno, al di là di enfasi e luoghi comuni, il circuito di associazioni cattoliche che a Milano da 12 anni organizza incontri di riflessione controcorrente su tematiche ecclesiali (Coordinamento 9 marzo, Il Graal, Gruppo Promozione Donna, Comunità ecclesiale di S. Angelo, Noi Siamo Chiesa, Preti operai della Lombardia, Centro Hélder Câmara, Rosa Bianca, Il Guado-credenti omosessuali) ha promosso un incontro, il 16 novembre presso i frati serviti di San Carlo, sul tema “L’editto di Milano: libertà per i cristiani o anche inizio del connubio tra la Chiesa e il potere?”, con Remo Cacitti e Giovanni Filoramo, docenti di Storia del cristianesimo a Milano e Torino (l’audio integrale dell’incontro può essere ascoltato su Radio radicale, cercando l’espressione “Editto di Milano”).
«C’è tra di noi la volontà di capire e sapere come sono andate veramente le cose, con l’intuitiva percezione della complessità del periodo storico del IV secolo, che comprende anche le trasformazioni che si ebbero nella vita della Chiesa», ha detto, introducendo l’incontro, Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale di “Noi Siamo Chiesa”. C’è infatti il sospetto di una «manipolazione della storia», a partire dalla «falsa donazione di Costantino» o da «quella specie di culto che molte o quasi tutte le Chiese ortodosse hanno per l’imperatore romano, tanto che il patriarca ecumenico Bartolomeo parla di “San Costantino”».
Cacitti ha descritto la religio civilis dell’impero romano quale intreccio tra potere imperiale, culto degli dèi e dell’imperatore, cui non era riducibile la nuova religione cristiana. Tutti erano costretti a sacrificare agli dèi e all’imperatore: una diversa fede religiosa diventava per sé stessa un crimine politico. L’imperatore Galerio però, in punto di morte, nel 311, emise l’editto di libertà, più importante ancora di quello successivo di Milano, quando Costantino, avendo osservato il sostanziale fallimento della persecuzione, decise di assorbire il cristianesimo nella politica religiosa dell’impero, che aveva assoluto bisogno di nuovo consenso. L’editto del 313 significava libertà ma anche la restituzione ai cristiani dei loro beni materiali requisiti in precedenza. E così, cancellate le norme restrittive, iniziò, per così dire, il potere temporale.
E da questo punto è partito Filoramo, dalla constatazione di una religione che, in pochissimi anni, passò dalla persecuzione ad un ruolo di potere. La figura di Costantino ha sempre avuto molte interpretazioni. Si può dire con certezza che egli abbia scelto quasi a tavolino la religione di cui aveva bisogno, perché più utile all’impero. Roma diventò periferica, perché il potere sta dove c’è l’imperatore. Si arriva infine all’editto di Tessalonica di Teodosio, del febbraio del 380, che ha un valore generale contro i cristiani non ortodossi e che impone il credo niceno a una maggioranza ariana. Teodosio organizza un sistema giuridico coerente con un impero cristiano, gli eretici sono visti come potenziali criminali. Contestualmente però nella Chiesa nascono le voci di quanti si pongono il problema della separazione delle due sfere, quella religiosa e quella civile.
Nel dibattito, fra le tante questioni, Bellavite ha posto un problema di attualità, riguardante direttamente la diocesi e l’anniversario dell’editto. Il Forum di tutte le religioni di Milano negli ultimi anni - erano i tempi del card. Martini e del card. Tettamanzi - ha lungamente preparato una “Carta di Milano” in previsione ed in occasione dell’anniversario. Si tratta di un documento, con il quale ci si proponeva di «dialogare con le istituzioni civili» sui grandi temi della presenza delle religioni nello spazio pubblico, senza incorrere in laicismi emarginanti (vedi il recente pamphlet di Paolo Flores D’Arcais La democrazia ha bisogno di Dio. Falso!, Laterza ) e senza ammettere privilegi clericali. Il testo, solennemente presentato e consegnato al sindaco Giuliano Pisapia lo scorso 18 marzo, dà indicazioni equilibrate su problemi concreti, quelli che gli amministratori devono affrontare in una società ormai multireligiosa e multiculturale (luoghi di culto, simboli religiosi, scuole, ospedali e carceri, esequie...). «Questa Carta - ha sottolineato Bellavite - è anche un buon contributo per la redazione e l’approvazione di una legge nazionale sulla libertà religiosa, visto che siamo ancora fermi alla legislazione sui “culti ammessi” del 1929-1930».
Ma dopo solo cinque giorni dalla sua divulgazione, la Carta è stata affossata, con un linguaggio non solo curiale ma anche sostanzialmente ipocrita, da un’intervista rilasciata ad Avvenire da mons. Luigi Bressan, responsabile diocesano dell’ecumenismo e dei rapporti con le altre religioni. Da allora della “Carta di Milano” non si è più parlato: una sconfessione, da parte del card. Scola, del lavoro dell’ufficio per l’ecumenismo, prima di allora guidato da don Gianfranco Bottoni, ma anche un grande sgarbo nei confronti sia all’amministrazione comunale che delle altre confessioni religiose.
* Adista Notizie n. 42 del 30/11/2013
Ave Maria laica
di Vito Mancuso (la Repubblica, 2 settembre 2013)
Dopo l’Inchiesta su Gesù con Mauro Pesce (2006) e sul Cristianesimo con Remo Cacitti (2008), Corrado Augias giunge al tema delicatissimo di Maria, l’umile donna diventata con il tempo Madonna, cioè Mea Domina, Mia Signora, termine di origine aulica che prima di entrare nel lessico religioso ricorreva nella poesia cortese della Scuola siciliana e del Dolce Stil Novo. La guida cui Augias si affida per districarsi nel labirinto di testi sacri, dogmi, apparizioni e devozioni mariane è Marco Vannini, noto studioso di mistica e autore di numerosi saggi che sfidano la concezione tradizionale della religione.
Ho parlato di labirinto perché in effetti questa è la condizione della lussureggiante costruzione teologica e devozionale cresciuta nei secoli sulla base dei pochi passi evangelici concernenti la madre di Gesù. In singolare contrasto con la sobrietà biblica, la tradizione cattolica ha infatti elaborato la massima «de Maria numquam satis», «su Maria mai abbastanza», generando così più di 30 celebrazioni mariane all’anno, 4 dogmi, le 150 avemarie del Rosario (di recente diventate 200 con l’aggiunta di nuovi “Misteri”), le 50 Litanie lauretane e una serie sterminata di altre devozioni, chiese, ordini religiosi, antifone, musiche, immagini, santuari.
Leggendo il libro (che esce poco prima dell’arrivo a Roma, il 13 ottobre prossimo, della statua della Madonna di Fatima, una delle più celebri Madonne accanto a quelle di Loreto, Lourdes, Czestochowa, Guadalupe, Medjugorje) pensavo spesso al padre domenicano Yves Congar (1904- 1995), benché nel libro non sia nominato. Teologo stimatissimo, creato cardinale da Giovanni Paolo II per la preziosità del suo pensiero, Congar annotava nel diario tenuto durante il Vaticano II e pubblicato postumo nel 2002: «Mi rendo conto del dramma che accompagna tutta la mia vita: la necessità di lottare, in nome del Vangelo e della fede apostolica, contro lo sviluppo, la proliferazione mediterranea e irlandese, di una mariologia che non procede dalla Rivelazione ma ha l’appoggio dei testi pontifici » (22.9.61).
Eccoci al punto critico: la vera fonte della proliferazione mariologica non è la Rivelazione, ma un singolare connubio tra potere pontificio e devozione popolare. Maria è sì «una madre d’amore voluta dal popolo» come scrive Augias, ma tale volontà popolare è stata sistematicamente utilizzata dal potere ecclesiastico per rafforzare se stesso: tra mariologia ed ecclesiologia il legame è d’acciaio.
Congar proseguiva: «Questa mariologia accrescitiva è un cancro» (13.3.64), «un vero cancro nel tessuto della Chiesa» (21.11.63). Il protestante Karl Barth aveva definito la mariologia «un’escrescenza, una formazione malata del pensiero teologico», il cattolico Congar indurisce l’immagine. Come spiegare il paradosso? Il fatto è che quanto più crescono il desiderio di onestà intellettuale, la fedeltà al dettato evangelico, la volontà di reale promozione della donna all’interno della Chiesa, tanto più decresce l’afflato mariologico con la sua tendenza baroccheggiante.
E ovviamente viceversa. Prova ne sia che nel protestantesimo, dove la dottrina su Maria è contenuta nei limiti indicati dal Vangelo, il ruolo della donna nella Chiesa è del tutto equivalente a quello del maschio (è di questi giorni la notizia che alla presidenza della Chiesa luterana degli Stati Uniti è giunta una donna), e viceversa nel mondo cattolico i più devoti a Maria sono anche i più contrari al diaconato e al sacerdozio femminile, basti pensare a Giovanni Paolo II.
Ma non era solo Congar, anche il giovane Ratzinger, allora teologo dell’università di Tubinga, scriveva nell’Introduzione al Cristianesimo del 1967: «La dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata quand’anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano», parole da cui appare che il dogma della Verginità di Maria non è per nulla necessario al nucleo della fede cristiana, e ovviamente meno ancora lo sono i dogmi recenti dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione. È l’opinione anche di teologi del livello di Rahner e di Küng.
Eppure sembra non ci sia nulla da fare: Ratzinger cambiò presto idea giungendo a fare della Verginità di Maria «un elemento fondamentale della nostra fede» e anche papa Francesco farà arrivare a Roma la statua della Madonna di Fatima consacrando il mondo al Cuore immacolato di Maria come già fecero Pio XII nel 1942, Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 1984, con i risultati, per quanto attiene al mondo, che ognuno può valutare da sé.
Tornando al libro in oggetto, la sua forza consiste nella ricchezza della documentazione e nella piacevolezza con cui viene offerta: i testi biblici vengono scandagliati con competenza filologica, si analizza lo sviluppo del culto mariano, i quattro dogmi, le preghiere tradizionali, i nessi con il culto mediterraneo della Grande Madre e con le altre religioni, la lettura femminista, le altre Marie dei Vangeli e in particolare la Maddalena, le apparizioni e in particolare quella di Lourdes del 1858 con le guarigioni miracolose attestate ancora oggi e quella di Fatima del 1917 con i famigerati tre segreti. Vi sono anche due dotti capitoli finali su Maria nell’arte, nella poesia, nella musica, nel cinema.
Il libro è solido dal punto di vista dei testi. Vengono citati Sant’Agostino in latino, l’esegesi dei testi del Vaticano II, si ricorda persino la setta di un certo Valesio sconosciuto ai principali dizionari teologici, anche se poi gli autori scrivono che nelle Scritture «nessun riferimento si fa mai alla sua miracolosa maternità verginale», dimenticando Matteo 1,18 secondo cui Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» e Luca 1,35 che ribadisce il messaggio.
Ma il risultato dell’inchiesta alla fine qual è? La demolizione della dottrina tradizionale. Avversata da Augias fin dall’inizio, da Vannini è sì difesa («la devozione a Maria è segno di maturità spirituale») ma in modo inaccettabile per il cattolicesimo. Per esso infatti vi è una connessione inscindibile tra fatto storico-biologico e significato spirituale, mentre a Vannini interessa unicamente il secondo, per lui la verginità e maternità di Maria sono «non una storia esteriore ma una realtà interiore», e Maria è «l’anima che ha rinunciato all’amore di sé». Con ciò egli si colloca volutamente, come recita il titolo del suo ultimo saggio, oltre il Cristianesimo. Ne viene il paradosso di un libro sulla più cattolica delle dottrine scritto da un non credente e da un “oltrecristiano”! Ma questo, lungi dall’essere un difetto, è stata la condizione che ha concesso loro obiettività nel presentare lucidamente lo sterminato materiale sulla «fanciulla che divenne mito» e di offrire uno strumento utile e soprattutto onesto per ritornare alla verità evangelica su Maria.
ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE ( 1 Gv 4,16): MA AL DIO ("CHARITAS") DI GESU’ ("LUMEN GENTIUM") O AL DIO ("CARITAS") DI COSTANTINO E DI RATZINGER ("DOMINUS IESUS") E DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST")?! DI CHI SIAMO FIGLI E FIGLIE?!
Queste considerazioni sulla fede - in continuità con tutto quello che il Magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale[7] - , intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede.
Le nostre colpe come cristiani
di Emma Fattorini (Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2009)
«La Shoah è l’anti-Sinai», così si è espresso Elie Wiesel: «Gli assassini erano battezzati, per lo più, erano stati educati nel cristianesimo: eppure uccidevano». È la prova, secondo il nobel per la pace, che il cristianesimo e la sua cultura non hanno saputo fermare il male. E la sua unicità non sta nella quantità o qualità del male che il cristianesimo non avrebbe saputo impedire, ma piuttosto, come dice Jean Dujardin nel suo L’eglise catholique et le peuple juif, nel fatto che la Shoah «distrugge il cuore stesso dell’etica biblica.. e può essere guardata come l’anti-creazione, la volontà di ritornare al caos iniziale, cioè a prima che la Parola di Dio donasse senso al mondo e all’uomo».
La Shoah si presenterebbe allora come «la sconfitta della religione cristiana». Eppure proprio perché raramente colgono una simile profondità teologica, le ricorrenti polemiche sui silenzi di Pio XII il più delle volte suonano comprensibili ma decisamente inadeguate rispetto all’interrogativo morale che le sottende.
La questione centrale, quella su cui dovremmo davvero tutti interrogarci, riguarda come e perché l’antigiudaismo cristiano abbia favorito, legittimato e avvallato l’antisemitismo. Occorre allora non attardarsi soltanto sulle singole scelte del papa, ma sul comportamento complessivo della comunità cristiana e cattolica per non tacere certamente l’aiuto concreto prestato alla salvezza di singoli ebrei, ma senza dimenticare le sue responsabilità nell’avere accreditato e favorito il diffuso comune sentire antiebraico che ha segnato la cultura europea degli ultimi due secoli. Ciò su cui occorre riflettere, insomma, è quanto l’accusa di deicidio abbia sedimentato e nutrito le pulsioni razziste novecentesche.
Solo così si capisce allora tutta l’importanza che riveste la radice teologica e di fede nel condannare il razzismo, quel grido lanciato da Pio XI prima di morire: «spiritualmente siamo tutti semiti». Non è legittimo per un cristiano essere razzista perché, non si stancherà di ripetere, ciò vorrebbe dire tradire la comune origine abramitica e spezzare l’indissolubile comunità di destino ebraico-cristiana.
Da quel momento del 1938, la condanna degli ebrei per motivi religiosi, fino ad allora sostenuta dalla chiesa cattolica, diventa altrettanto inaccettabile di quella per motivi di razza.
Del resto, più che le mitologie paganeggianti che molti vedrebbero nel nazismo, lo scopo di Hitler era quello di intaccare il cuore della rivelazione imponendo per legge alle chiese tedesche la soppressione e il vero e proprio ripudio dell’Antico Testamento, fino a costruire un Cristo ariano, come fece Arthur Rosenberg nel suo Mito del XX secolo messo all’indice dalla chiesa cattolica eppure accettato dalle chiese protestanti asservite al Fuerher, che voleva fondare, appunto, una nuova religione.
Il significato teologico della minaccia rappresentata dal nazismo sta nel volere tagliare la radice della tradizione cristiana, rinnegando il Vecchio Testamento. Operazione impossibile per la fede cristiana, come Joseph Ratzinger ha ben chiarito fin dal 1968 nella prima parte della sua Introduzione al cristianesimo, oggi riedita integralmente dalla Queriniana.
Tutto il pontificato di Wojtyla è segnato da questa consapevolezza teologica, prima ancora che storica. Nel giugno del 1979 si reca ad Auschwitz, nel 1998 a Mauthausen, nel 1999 a Majdanek, nel dicembre del 1993 Santa Sede e Israele firmano un accordo che porterà allo scambio degli ambasciatori e, infine, nel 2000, in una cerimonia tra le più significative del suo magistero, Giovanni Paolo II chiede perdono per le colpe della chiesa nei confronti degli ebrei. La beatificazione di Edith Stein segna il culmine, quando il papa dirà: «Ella è morta come figlia di Sion per la santificazione del Nome, ella ha vissuto la sua morte come Teresa Benedetta della Croce, benedetta dalla croce».
di Guido Rossi (Il Sole-24 ore, 24 febbraio 2013)
In una giornata di straordinaria importanza per le elezioni nazionali, l’ultimo Angelus di Papa Ratzinger porta a ulteriori e ampie meditazioni, che riguardano non solo l’influenza del Vaticano sulla politica italiana, ma anche il futuro della stessa Chiesa cattolica. Sulle dimissioni di Papa Ratzinger e sulla futura convivenza di Sua Santità dimissionaria con il nuovo Papa che sarà eletto, molto è già stato scritto, forse senza tener conto della straordinaria figura di teologo e filosofo di Joseph Ratzinger. Già a partire dalla metà degli anni 80, e successivamente nel dibattito con l’altro filosofo tedesco, Jürgen Habermas, Ratzinger teorizzava il ruolo pubblico della religione nelle società secolarizzate e nelle democrazie pluraliste.
Tuttavia dalla sua nomina a Vescovo di Roma la situazione mondiale è radicalmente cambiata, poiché i centri del potere sono passati dai ristretti confini degli Stati al dominio globalizzato del capitalismo tecnocratico finanziario.
La filosofia socratica di Platone e Aristotele che aveva influenzato il grande condottiero Alessandro Magno, riuscì a fargli superare la stretta e chiusa visione della città - stato antica, per proiettarsi verso una nuova idea, cioè l’idea dell’Impero, vale a dire di uno Stato universale, senza limiti né geografici, né etnici, né di altro genere. Questa idea dell’impero universale ebbe altre imitazioni, che avevano come base non l’espressione politica di un popolo, o di una casta, o di una razza, bensì l’espressione politica di un’unica civiltà universale, con un solo logos, dove le differenze rimanevano ma si negavano in un’unica identità.
Il progetto dell’impero universale di Alessandro Magno fallì, per essere poi ripreso su una base unitaria religiosa e trascendente, adottata sia da San Paolo e dalla Cristianità, sia dall’Islam. Ciò che è rimasto, fino ai nostri giorni, non è però il Sacro Romano Impero, o il potere secolare del Papa, ma la Chiesa universale. È l’impero di coloro che sono sostenuti da una fondamentale identità nella fede in un solo Dio, sicché questa trascendente uguaglianza sovrasta, accogliendole in unica sintesi e mescolanza tutte le etnie, le razze e le disuguaglianze, senza riuscire a creare uno Stato imperiale effettivo, ma un "corpo mistico" della Chiesa universale, rappresentato in terra dal Papa, Vescovo di Roma.
Dalla elezione del 2005 di Papa Ratzinger, si è imperiosamente consolidato il dominio del mondo da parte del globalismo economico, finanziario, fino a diventare padrone effettivo della politica dei singoli Stati. È così che, aiutato da uno straordinario sviluppo tecnologico, tale globalismo ha riproposto un nuovo unico impero finanziario mondiale, senza valori fondamentali, il quale sta distruggendo via via le basi del sottofondo filosofico degli ultimi secoli, e si è violentemente contratto in modo ancora non del tutto trasparente con l’altro impero, cioè quello del trascendente della Chiesa. Quest’ultimo è rimasto a sua volta inquinato dal potere esclusivo della finanza e delle sue lobbies, come hanno di recente dimostrato sia gli scandali bancari, sia le lotte di potere all’interno della gerarchia ecclesiastica.
L’impero del trascendente, difficilmente può contrastare un impero universale che lo minaccia per la prima volta nella storia, basato sul tecnocratico e globalizzato capitalismo finanziario. Già Papa Ratzinger, annunciando le sue dimissioni, faceva riferimento all’universalismo della velocità, che corrisponde appunto al nuovo impero mondano, del tutto indifferente ai valori del trascendente da lui guidato, il quale non si è rivelato in grado né di combatterlo, né di evitarlo, né di assorbirlo. Questo e non altra, pare ad un laico l’umana sofferenza di un Papa, che nell’impossibilità di continuare la sua funzione, si è dimesso. Le parole odierne dell’ultimo Angelus potranno ancora fornire qualche chiarimento, ma dirà la storia quale dei due imperi è destinato a sopravvivere.
Da Ponte Milvio all’Editto di Milano
Dopo la vittoria contro Massenzio e Licinio ottenne il potere assoluto, ma mancava ancora un’ideologia
Per questo scelse il nuovo dio dei cristiani e piegò le parole di Virgilio per farlo accettare dai romani
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 14.04.2013)
ROMA Quando Costantino, nel 312, decise di attaccare Massenzio, in realtà si era solo all’inizio. I territori dell’impero erano allora divisi fra Massimino Daia, Licinio e Costantino stesso, mentre Massenzio aveva il controllo su Roma. Costantino era animato da un progetto ambizioso, che lo avrebbe portato al dominio assoluto, e aveva deciso di cominciare da Roma. Ma quale dio avrebbe potuto garantirgli, con la sua protezione, una vittoria tutt’altro che facile?
Negli anni precedenti la religione cristiana era stata oggetto di persecuzione, prima da parte di Diocleziano, poi di Galerio. Non sorprende dunque che Costantino, alla vigilia della sua discesa verso Roma, fosse ancora incerto sulla scelta della divinità che meglio avrebbe potuto sostenere la sua impresa. Ercole? Il Sol invictus?
Oppure il dio dei cristiani? In quell’epoca erano ancora molte, infatti, le potenze divine che avrebbero potuto offrire il proprio appoggio a un comandante ambizioso. Costantino aveva visto che i suoi predecessori, fedeli agli dèi tradizionali, erano stati sconfitti; mentre si diceva che Costanzo Cloro, suo padre, fosse stato più fortunato degli altri proprio perché seguace del dio dei cristiani. Al momento, comunque, Costantino riponeva ancora la sua fiducia nel Sol invictus, una divinità che aveva raggiunto una posizione di assoluto rilievo nel pantheon dei Romani. Salvo che una volta disceso a Roma, e in procinto di affrontare truppe superiori alle proprie, egli ebbe prima un sogno, poi, a conferma, una visione: il famoso monogramma del Cristo, il Chiros dell’In hoc signo vinces.
Avvenne così la conversione al cristianesimo e con lei, l’insperato successo su Massenzio a Ponte Milvio. Così, almeno, narrano gli storici.
Inutile sottolineare che questo evento del 312 era destinato ad avere enormi ripercussioni sul seguito della storia europea - e non solo europea. La scelta religiosa di Costantino fu dettata da sentimenti sinceri o da calcolo politico? Questa domanda ha agitato a lungo il mondo degli studi, e non solo questo, dato che in gioco c’era una posta tanto storica quanto teologica.
Si tratta ovviamente di una domanda a cui è impossibile dare una risposta. Peraltro, varrà la pena di ricordare che la presenza del Sol invictus è ancora testimoniata nei rilievi del celebre Arco dedicato a Costantino dopo la vittoria su Massenzio, mentre monete recanti simboli del culto solare si continuarono a coniare anche dopo il 312.
Senza dimenticare che, nel foro di Costantinopoli, l’imperatore fa un giorno riadattare per sé una statua colossale, già di Apollo, sostituendo alla testa del dio la propria sormontata da una corona di raggi. Segno di come i cammini della storia, anche di quella religiosa, siano tutt’altro che rettilinei. Ma abbastanza inaspettatamente, ecco entrare in scena anche un grande poeta, Virgilio. In che modo?
Negli anni successivi alla vittoria di Ponte Milvio, Costantino aveva continuato a perseguire il suo progetto, favorito dall’eliminazione di Massimino Daia da parte di Licinio. Non rimaneva che costui a sbarrargli il cammino verso il controllo dell’impero, e Costantino lo sconfisse nel 324 a Crisopoli. Nel frattempo i provvedimenti a favore dei cristiani e della loro religione si erano moltiplicati, con il famoso “editto di Milano” - emanato esattamente 1.700 anni fa - (che assegnava loro libertà di culto), il riconoscimento della domenica come giorno festivo, l’esenzione dei ministri del culto dai doveri fiscali. Ma che c’entra Virgilio?
Era accaduto che in un periodo imprecisato fra il 312 e il 324 Costantino stesso, se non qualche letterato di corte a suo nome, aveva composto un’orazione destinata a esser letta in occasione del Venerdì santo. In essa trovava posto anche una traduzione in greco della quarta Ecloga di Virgilio, l’enigmatica composizione in cui il mantovano, appellandosi a un oracolo della Sibilla, celebrava l’avvento di una nuova era di pace, propiziata dalla nascita di un misterioso puer.
In quest’ecloga Virgilio, in pieno conflitto civile fra Ottaviano e Antonio, profetizzava la rinascita del cosmo e la discesa dal cielo di una nuova progenie; la vergine, cioè la giustizia, sarebbe finalmente tornata fra gli uomini, e il misterioso bambino avrebbe infine ricevuto onori divini. Chi era questo puer?
Si trattava di un figlio del console Pollione, a cui l’ecloga era peraltro dedicata? Oppure il poeta intendeva riferirsi alla futura prole di Ottaviano e Antonia, uniti in un fragile matrimonio che non riuscì a riportare la pace fra i due contendenti?
Costantino (o l’ignoto autore dell’orazione) risolse l’enigma in modo brillante, ossia identificando il bambino con Gesù, disceso fra gli uomini per portare la salvezza, e destinato a “ricevere la vita di Dio”.
La vergine giustizia fu mutata nella Vergine Maria, “che riporta l’amabile re”, e l’intera ecloga venne abilmente cristianizzata, modificandone il testo (complice la traduzione in greco) là dove occorreva, e attribuendo a Virgilio il ruolo di profeta della nuova religione. Non era cosa da poco. Il mantovano era considerato non solo il maggior poeta di Roma, ma una sorta di savio universale, e poterlo iscrivere nelle file dei cristiani non poteva che accrescere enormemente la loro autorità culturale.
In realtà l’idea di avvicinare Virgilio alla nuova religione era stata già di Lattanzio, chiamato a corte per educare uno dei figli di Costantino. I cristiani sostenevano infatti che negli oracoli della Sibilla Cumana, uno dei testi profetici più autorevoli dell’antichità, sarebbe stato già preannunciato l’avvento del Salvatore.
Ebbene, la quarta Ecloga di Virgilio non prendeva forse avvio proprio da un oracolo della profetessa? «È giunta l’ultima era della profezia di Cuma...» cantava Virgilio. Solo che Lattanzio non era arrivato al punto di trasformare l’intera poema in un testo cristiano, e di fare del mantovano un profeta a pieno titolo. Costantino ebbe il coraggio di farlo, e quest’abile leggenda letteraria non solo sarà accettata da Dante, ma continuerà a trovare sostenitori fino ai giorni nostri.
Augusta e santa, la leggenda della madre Elena
Un libro ricostruisce il suo ruolo chiave nella decisione del figlio
di Raffaella De Sanctis (la Repubblica, 14.04.2013)
Costantino sapeva di dover gran parte della sua fortuna a sua madre. Per questo, una volta diventato imperatore, nel 324 d. C., volle che Elena fosse qualificata Augusta, epiteto in genere destinato alle mogli. Di lei sappiamo pochissimo, ma la vaghezza delle notizie ha contribuito alla nascita della sua leggenda. Dei personaggi mitici Elena ha tutte le caratteristiche. Viene dal basso (lavorava con ogni probabilità nelle taverne come locandiera), era una concubina (Costanzo Cloro, padre di Costantino, non la sposò, preferendole Teodora, figlia dell’imperatore Massimiano), è stata un’amante abbandonata e una madre costretta a vivere nell’ombra.
Ci sono donne che non solo segnano il loro tempo, ma anticipano il futuro. Elena ha capito di vivere all’incrocio di due mondi, quello pagano e quello cristiano, e ha saputo guardare a entrambi: imperatrice e santa, donna di potere e viaggiatrice in Palestina. Sarà grazie a lei che Costantino si avvicinerà alla fede cristiana, e concederà poi la libertà di culto.
Elena era consapevole di sé, era una donna forte e lo trasmetteva anche nel modo di vestire o nelle acconciature che sceglieva, adornandosi di gioielli e impreziosendo la sua figura con un diadema incastonato tra i capelli. I suoi ritratti parlano meglio di qualsiasi lacunosa fonte scritta. Nel libro Elena. All’ombra del potere che accompagna la mostra (edizioni Electa, pagg. 96, euro 19, realizzato col sostegno della Fondazione Bracco), Elena Calandra, soprintendente per i beni archeologici del Lazio, spiega l’importanza storica della madre di Costantino analizzando le iconografie che la riguardano, dalle raffigurazioni sulle monete alle statue (in coda al volume un album di illustrazioni mostra i reperti presi in esame).
L’imperatrice amava indossare monili, ma in lei non c’era alcun tentativo di sembrare più giovane: nelle immagini che ci sono giunte il naso conserva la sua naturale curvatura aquilina (come nel solido Ticinum conservato al British Museum), il viso appare a volte troppo pieno, altre stanco e scavato (è il caso del solido Sirmium), sempre comunque segnato da profonde occhiaie, come accade in una donna matura. Elena doveva simboleggiare la Securitas e non c’è maggior sicurezza, certo, di quella di una donna che regna sovrana sul tempo che passa. Da qui la scelta di farsi effigiare con la sua età reale, puntando più sui simboli del rango e del ruolo imperiale che sulla bellezza.
Della sua vita si innamorò lo scrittore britannico Evelyn Waugh, raccontandone, in un romanzo del 1950 intitolato Helena, l’anima cristiana di pellegrina in Terra Santa all’età di settant’anni. Fu l’ultimo atto coraggioso della sua vita: il passaggio dal ruolo dinastico all’evergetismo, una forma che la spinse a costruire chiese a Gerusalemme e sul Monte degli Olivi, diventando “ambasciatrice” del potere del figlio all’interno dell’Impero. Il ritrovamento della Vera Croce inaugurerà un altro capitolo della sua storia, che Piero Della Francesca rese celeberrimo negli affreschi di Arezzo.
L’era costantiniana mai finita e giunta fino a noi
di Gianmaria Zamagni
in “Viandanti” ( www.viandanti.org ) del 13 maggio 2013
Una questione che è stata posta in questo anno 2013, centenario dell’Editto di Milano, mi ha sollecitato e fatto molto riflettere: «Fine dell’era costantiniana: è sufficiente averla dichiarata?» [1]. Credo sarebbe troppo facile replicare a questa domanda con una risposta immediata. Risposta che sarebbe, se data di getto, negativa. Tuttavia la domanda è solo apparentemente banale. E credo occorra anzitutto capire esattamente di cosa si parla quando si parla di “fine dell’era costantiniana”. Non si tratta infatti di narrare la storia di un imperatore romano del quarto secolo, né mostrare l’effetto che le sue decisioni politiche (anche l’Editto “di tolleranza” di Milano) hanno avuto sul più lungo termine. A ben guardare, né l’una né l’altra cosa ci riguardano più da vicino.
Una “simbiosi” mai finita
Un altro aspetto è invece decisivo: quello “ideale”, quello per cui un imperatore e la struttura di governo cui ha per primo dato origine si sono come ipostatizzati in un intreccio di rimandi che è durato fino ai nostri giorni. Il rapporto di «simbiosi» fra teologia e potere istituzionale inaugurato con Costantino s’è concretizzato di volta in volta in nuove forme.
Ciò è avvenuto attraverso strumentalizzazioni, anacronismi, forzature e talora vere e proprie falsificazioni storiche. Questi errori sono gli obiettivi della critica rivolta all’ ideale costantiniano. Lo stesso termine di “critica” viene spesso percepito come sinonimo del termine “polemica”. Tuttavia qui il termine greco ( krín ō ) deve indicare piuttosto la separazione, la distinzione che permette il formarsi del giudizio, termine che in questo senso è anche correlato a quello di “discernimento”.
Poco più di cinquant’anni fa, alla vigilia dell’apertura del Vaticano II, fu un teologo dell’ordine domenicano, p. Marie-Dominique Chenu, in una giornata di studi, a chiedersi come fosse da comprendere il concilio in relazione alle donne e agli uomini del proprio tempo, alla loro storia e al loro mondo. Chenu sceglieva la formula Fin de l’ère constantinienne per contestualizzare l’evento conciliare nella sua epoca, convinto che questo atteggiamento dava alla congiuntura «le dimensioni di grande fatto storico». Cosa intendeva dire esattamente con questo? Se si guarda, nella sua interna coerenza, tutta la sua opera di storico della teologia tomista e di saggista osservatore della Chiesa nella realtà contemporanea, si può comprendere senza timore di equivoci ciò che egli intendesse.
La critica all’ ideale costantiniano
Sant’Alberto Magno e san Tommaso, e poi domenicani e francescani, avevano saputo, all’irrompere del nuovo metodo scientifico aristotelico, adottarlo criticamente anche per la teologia. Così doveva comportarsi sempre il teologo autentico di fronte alle rivoluzioni scientifiche e sociali. Si tratta ogni volta di saper discernere, in esse, i luoghi spirituali, di sapervi leggere i segni dei tempi, poiché «Per la legge stessa dell’economia della rivelazione Dio si manifesta attraverso e nella storia, l’eterno si incarna nel tempo in cui soltanto lo può raggiungere lo spirito dell’uomo».
Quel concilio ecumenico, in questo senso, era un evento del secondo dopoguerra. Nella teologia della prima metà del Novecento, che esso coronava, s’era fatta strada una genealogia di studi (e di grandi teologi e storici) che avevano guardato all’ideale costantiniano in maniera assai critica: da Erik Peterson (1890-1960) a Ernesto Buonaiuti (1881-1946), da Jacques Maritain (1882-1973) a Friedrich Heer (1916-1983) e, appunto, Marie-Dominique Chenu (1885-1990), per non menzionare che alcuni grandi nomi da quattro diversi paesi europei.
Questi autori hanno in comune il rifiuto dell’acquiescenza e della conciliazione a poteri statali che mostravano il loro volto più spietato e letteralmente idolatra. Per tutti costoro era chiaro un elemento centrale: la storia del XX secolo aveva mostrato l’ideale costantiniano nel suo potenziale più devastante, ogni qualvolta l’elaborazione teologica si era messa docilmente al servizio di sovrani caratterizzati da un’ambizione totalitaria, quando la croce cristiana si era così trovata, nel vecchio continente, strettamente associata alle altre croci del secolo, quella uncinata, anzitutto, ma non solo: l’ideale costantiniano si era ripresentato, ancora, nelle guerre “giuste” di Benito Mussolini in Etiopia e di Francisco Franco in Spagna.
Tolleranza e persecuzioni
Il XVII centenario dell’Editto di Milano, in questo 2013 denso di commemorazioni (e di nuovi eventi) per la chiesa, nel cinquantesimo del concilio e dell’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris , non dovrebbe essere celebrato trionfalmente e così acriticamente, in spregio alla storia, alla memoria del Novecento e dello stesso magistero conciliare, ma soprattutto senza fare una lettura che sappia discernere i segni dei tempi oggi. Alla storia, perché la “tolleranza” ai cristiani rappresentò presto per i non cristiani (a esempio Ebrei e Donatisti, tante “eresie” successive, poi con le crociate) oppressione, violenza e persecuzione. Sia detto per inciso, poi, che è semplicemente un anacronismo applicare al Tardoantico ad esempio un concetto di tolleranza che la nostra cultura deve, per il significato che le dà, all’illuminismo.
In spregio alla memoria del Novecento perché, come s’è già detto, in quel secolo è apparsa brutalmente chiara l’alleanza e la simbiosi teologico- politica, eppure - già nel corso degli eventi in alcuni lucidi pensatori, ma poi eminentemente e autorevolmente nel concilio - la Chiesa ha saputo restare coscienza critica, e aggiornarsi, anche e soprattutto rispetto alla posizione da assumere nei confronti dei diversi governi, e nel salvaguardare quella libertà religiosa di cui è titolare la persona, «essere dotato di ragione e di volontà libera».
Il bisogno di una Chiesa disinteressata
Quanto alla lettura dei segni tempi oggi, più che mai le nostre società sembrano aver bisogno della parola di una Chiesa che sappia essere testimonianza sollecita eppur disinteressata, profetica e povera. Una gamma di problemi forse s’impone nel contesto sempre più multipolare di oggi: quella costituita dalle crescenti disuguaglianze e dell’erosione dei diritti, in un’ingiustizia sociale e ambientale sempre più insostenibile assieme a fenomeni di rinascenti razzismi, negazionismi e nazionalismi, a nuove forme di schiavitù, all’apparente “normalità” della guerra. Mi pare che anche gli eventi più recenti depongano in favore di una testimonianza umile, nella mite ma ferma consapevolezza delle proprie capacità. Ciò che la scelta di Benedetto XVI enfatizza è infatti il carattere di ministero dell’ufficio petrino, ciò che depone è un altro velo di quel carattere ieratico di cui taluni suoi predecessori hanno amato ammantarsi. L’oggetto della testimonianza, quello, rimane sempre lo stesso e quello più autentico: il vangelo solo, nel suo potenziale di liberazione dal peccato d’idolatria, dall’ipocrisia e dall’ingiustizia. Il tentativo di rifugiarsi nuovamente nel modello costantiniano andrebbe misurato all’interno di questo contesto globale. Ne risulterebbe evidente, credo, tutta l’obsolescenza.
Tornando dunque alla domanda iniziale: è sufficiente averla dichiarata, la fine di quell’era? Certamente no, non è sufficiente. Quella dichiarazione nasce però da un’analisi critica dei segni dei tempi, e attraverso quest’analisi la critica genera considerazioni ad alto potenziale performativo, considerazioni cioè cui si può rispondere solo mediante un’azione, una prassi conseguente. Così si porrebbe nuovamente al centro la predicazione del Regno a venire , di contro alla nostalgia triste di chi crede che la Chiesa abbia già vissuto, altrove in un idealizzato passato, il proprio compimento.
Gianmaria Zamagni
Ricercatore all’Università di Münster (Vestfalia/Germania)
[1] Il riferimento è al Forum n. 331 di Koinonia. Vedere http://www.koinonia- online.it/forum331base.htm
Papa: accarezza gli agnelli che daranno lana per arcivescovi
(AGI) - CdV, 21 gen. - Benedetto XVI ha accarezzato questa mattina i due agnellini che forniranno la lana con la quale si tessono i pallii, strisce di lana bianca con ricamate croci rosse o nere, che il Papa impone ai nuovi arcivescovi metropoliti il 29 giugno, giorno della festa dei Santi Pietro e Paolo patroni delle citta’ di Roma.
In precedenza, come ogni 21 gennaio i canonici agostiniani li avevano benedetti nell’antica chiesa di Sant’Agnese sulla Nomentana, in passato appartenente ad un monastero femminile.
La tradizione nasce dal fatto che due agnellini erano la tassa che il Monastero sulla Nomentana pagava alla Basilica di San Giovanni in Laterano dove risiedeva il Papa. Quando il monastero femminile di Sant’Agnese fu chiuso, gli agnelli vennero donati da altri monasteri, ma sempre, nel tragitto.
Dopo la tappa in Vaticano per la presentazione al Pontefice, gli agnellini sono stati portati a Trastevere dove sono accolti dal canto delle monache trappiste sottoposte all’Abbazia di Tre Fontane, che cureranno le bestiole fino alla tosatura e si occuperanno poi della cardatura e tessitura, fatta con un telaio del primo ottocento costruito appositamente per la tessitura dei pallii.
Il 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, uno dei patroni di Roma, i pallii verranno portati in Vaticano e restano davanti alla tomba di San Pietro fino alla messa del 29, quando il Papa li porra’ personalmente sulle spalle dei nuovi arcivescovi metropoliti, eletti nell’anno.
La violenza rituale del «melting pot» romano
DI ROSITA COPIOLI (Avvenire, 08.05.2010)
Violenza e rapimento, trasgressione e violazione, sono i primi atti compiuti per mutare un ordine e stabilirne uno nuovo.
Dopo la fondazione di Roma, Romolo, ispirato dal padre Marte, decide di prendere con la forza le donne che i popoli del Lazio gli negano, perché disprezzano il suo popolo di pastori.
Organizza giochi in onore di Posidone, ai quali invita gli abitanti delle città vicine. Il ratto delle donne sabine avviene con l’inganno durante il rito.
La violenza ha uno scopo matrimoniale. I Romani vogliono che sia sancito il loro diritto al connubio e alla fusione dei popoli. Alla guerra che segue, al tradimento di Tarpeia in favore dei Sabini, punito con la morte, subentra la riconciliazione tra i popoli: la vogliono le stesse donne rapite.
Dietro lo schema del ratto rituale (affine ai riti di passaggio), diffuso in tutto il mondo, benché più raro in forma collettiva, si celano concezioni del mondo estremamente complesse.
I Romani assimilano Greci, Etruschi, Italici, Orientali, sacralizzano ogni atto e concetto con la stessa concreta mania distintiva degli antichi Vedici.
Nei luoghi consacrati della fondazione della «Roma quadrata» a partire dalla metà del IX secolo a.C. e della sua estensione territoriale, ogni costruzione, distruzione, ricostruzione, prevedeva sacrifici, uccisioni rituali, la città dei vivi si sosteneva sui morti, passati violentemente nell’aldilà.
Questo rapporto ctonio, e celeste, per l’osservazione degli astri e del Tempo nel calendario (lunare e di dieci mesi fino ad età regia), indica la struttura che regola uomini e donne sulla terra.
Quando Augusto si instaurò come nuovo Romolo, nella sua domus inglobò la «Roma quadrata» del fondatore, vi restaurò il Lupercale, il «presepe» di Romolo e Remo nel proprio santuario, definì il calendario solare riformato da Cesare.
Singolarmente, la cappella palatina di Santa Anastasia di età costantiniana, che si affiancò alla domus , iniziò a celebrare lì il Natale cristiano, il presepe nuovo rispetto all’antico.
E le donne? Le donne sono la terra. Che viene presa e posseduta. Le donne diedero allora i nomi alle curie. Una consolazione, rispetto al principio del ratto? No. L’interpretazione simbolica rispetta la violenza reale. Nemmeno sant’Agostino è immune dall’idea del possesso - legittimo, attraverso la violenza: «il vincitore avrebbe conquistato per diritto di guerra le donne che gli erano state negate ingiustamente; invece le rapì contro ogni diritto di pace e fece una guerra ingiusta contro i loro genitori giustamente sdegnati» ( La città di Dio, II, 17).
Si crede che Roma sia conosciuta. Eppure le infinite denominazioni di Giove, Giunone, Venere, di figure come Conso, Pico, Bona Dea, Acca Larentia, Tacita Muta, Anna Perenna, riti come i Matralia, sono ancora nascosti nelle viscere della città. Penso al ritrovamento straordinario (1999) del deposito di Anna Perenna, che presiedeva all’anno, al cibo, alla magia. Questo libro dimostra fino a che punto sia possibile rivedere la realtà antica di Roma, attraverso l’analisi comparata di fonti mitiche, etnografiche, letterarie, artistiche, epigrafiche, giuridiche, di tutti gli studi storici nel loro complesso, alla luce delle più recenti indagini archeologiche stratigrafiche: condotte fino a raggiungere la terra vergine.
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A cura di Andrea Carandini
LA LEGGENDA DI ROMA
Dal ratto delle donne al regno di Romolo e Tito Tazio
Fondazione Valla/ Mondadori Pagine 452. Euro 30
La fabbrica del bene tra carità e diritti
di Adriano Sofri (la Repubblica, 7 gennaio 2013)
La crisi moltiplica i circoli viziosi, fino a quando non si trovi il modo di spezzarli. In uno, l’impoverimento rende sempre più preziose le attività solidali (“di mutuo soccorso”, ha scritto Gad Lerner) cui però mancano sempre più le risorse materiali e umane. Nessuno saprebbe tenere un vero conto di come una società di tagli e grattaevinci vada avanti attraverso la solidarietà, famigliare prima di tutto, e poi di vicini, volontari, associazioni. Quanto ai conti internazionali più autorevoli sulla filantropia, paiono anch’essi azzardati, misurando denaro e comportamenti, entità di donazioni, tempo dedicato alla buona volontà, cura dello straniero. Un’accreditata classifica sulla beneficenza è redatta dalla britannica Charities Aid Foundation.
Alla vigilia di Natale veniva citata con enfasi la caduta dell’Italia dal 29° posto del 2010 al 104° del 2011. Una degradazione troppo forte, anche considerando l’incidenza della solidarietà col terremoto in Abruzzo. Ora il consuntivo del 2012 ha riportato l’Italia al 57° posto. A parte lo sconcerto per gli alti e bassi, teniamo un posto assai mediocre fra i paesi “avanzati”. Si annuncia dunque come una novità importante per l’Italia la formazione alla “filantropia strategica”, “beneficenza scientifica”.
Si è tentati di sorridere dell’annessione della carità a scienza e strategia, o sentirci odore d’affari, come si irrideva alle brave dame (“pour faire une bonne dame patronnesse, il faut être bonne, mais sans faiblesse...”).
La carità, spiegano gli esperti, è altra cosa dalla filantropia: se non fraintendo, è la famosa differenza fra dare un pesce all’affamato, o insegnargli a pescare. Di più: il passaggio della filantropia dalla spontaneità alla scienza vuole insegnare ai sazi a insegnare a pescare. Ci si potrà vedere un passo verso il superamento del divario enorme fra l’Italia - e l’Europa in genere - e gli Stati Uniti, dove la combinazione fra individuo e comunità produce un ingente investimento nella beneficenza in senso lato. Le donazioni restano una vocazione eminentemente americana e, ai nostri occhi, mirabolante. Nel novembre del 2011 i signori Dorothy e Robert King hanno donato 150 milioni di dollari all’università di Stanford, di cui lui è ex alunno, per un programma destinato ad alleviare la povertà nei paesi in via di sviluppo.
Nell’ottobre 2012 il finanziere John Paulson (hedge fund ecc.) ha donato 100 milioni di dollari all’organizzazione no-profit che cura la manutenzione del Central Park. Decine di personaggi fra i più ricchi del mondo - ma tutti americani - hanno aderito all’impegno promosso da Bill Gates e Warren Buffett a devolvere almeno il 50 per cento della propria ricchezza a scopi di filantropia. Compreso il giovane Zuckerberg, che intanto ha dato 100 milioni alle scuole di Newark da cui proviene.
La vecchia Europa “socialista” può contrapporre una propria idea di “redistribuzione” della ricchezza sociale alla “restituzione” cui si ispira la filantropia americana, affidandosi la prima all’equità del governo, la seconda alla benevolenza dei privati. I risultati però non ci danno ragione, in particolare nella pratica delle successioni ereditarie. Una differenza più particolare riguarda l’Italia, o la Spagna. La nostra carità ha un’impronta più cattolica e castigata, controriformata. La beneficenza è stata essenzialmente affare della Chiesa, cui lo Stato la delegava volentieri, per convenienza e per servilismo. Diversa è anche la gratificazione del riconoscimento pubblico.
Da noi la discrezione, così spesso ipocrita, sta a metà fra modestia evangelica (non sappia la tua mano destra, fa’ il bene e scordalo ecc.) e vergogna di essere ricchi; e la vergogna oscilla anche lei fra l’altruismo e l’imbarazzo sull’origine della ricchezza. Alla discrezione di precetto lo Stato aderisce con entusiasmo, astenendosi dal tassare solo una piccola percentuale della ricchezza devoluta in beneficenza dai singoli. C’è il luogo comune del differente trattamento fiscale della beneficenza. Ne leggo una smentita drastica nel libro di Francesco Antinucci, “Cosa pensano gli americani” (Laterza 2012): “Consiglio la lettura dell’opuscolo dell’Agenzia delle Entrate, sulle Erogazioni liberali... Ci sono differenze tra Italia e Stati Uniti, ma sostanzialmente i due trattamenti si equivalgono.
Anzi, in alcuni casi, quello italiano è addirittura più vantaggioso per il donatore. Per esempio,l’importantissima classe di donazioni alle università e agli enti di ricerca scientifica, in Italia è deducibile dal reddito senza alcuna limitazione, mentre negli Stati Uniti è soggetta alla soglia del 50 per cento del reddito. Invece, in Italia, le persone fisiche possono detrarre soltanto fino al 10 per cento del reddito, le imprese senza alcuna limitazione. In America, resta il 50 per cento del reddito per tutti, persone fisiche e imprese”.
La differenza è rilevante, dal momento che, come informa lo stesso Antinucci, le donazioni personali negli Stati Uniti coprono l’88 per cento del totale. Abbastanza incongruamente, l’Europa applica le norme più disparate, dal 25 per cento di deduzione in Spagna al 100 in Austria. Del resto, benché la facilitazione fiscale incida, non è la causa principale dell’impulso alla donazione, che è piuttosto culturale e, in senso lato, religioso.
Ezio Mauro sottolineava qui nello scorso novembre la distinzione della democrazia dei diritti “dalla ‘democrazia compassionevole’ e anche dalla ‘Big society’ che sostituiscono la benevolenza individuale e dei gruppi sociali all’organizzazione dello Stato sociale, la carità ai diritti. La beneficenza non ha bisogno della democrazia ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza: i diritti”. Il rischio è che la crisi tagli diritti e carità. Fece allora scalpore in Spagna il gesto di Amancio Ortega Gaona, fondatore e presidente del più grande gruppo tessile, Inditex, produttore fra altri del marchio Zara, terzo uomo più ricco del mondo per la classifica di Bloomberg, nella quale ha spodestato Warren Buffett, quello che vorrebbe pagare più tasse della sua segretaria. Il signor Ortega, leggendariamente alieno da interviste e comparse pubbliche, ha regalato alla Caritas spagnola 20 milioni di euro. La cifra era imponente, ma non ha impedito a molti commentatori di calcolare che corrispondeva allo 0,05 per cento del suo patrimonio, e che un comune cittadino spagnolo con un patrimonio di 10 mila euro, in proporzione avrebbe dato in beneficenza 5 euro. Le monete hanno sempre due facce.
O tre, con quella politica. La “filantropia strategica”, quella attenta all’efficacia delle risorse investite, quella in cui uomini e donne di formidabile successo trasferiscono talento e passione facendone il proprio impegno primario, da Bill Gates in giù, può ottenere risultati magnifici, in particolare nell’istruzione e negli scambi col mondo povero. Possono imparare e insegnare a pescare. Ma resta il vecchio dilemma. Resta quello che ha fame, qui e ora, e bisogna dargli un pesce. (Teniamo la parabola, anche se il problema sta diventando per ricchi e poveri la scomparsa dei pesci). Bisogna che ci siano delle mense con un pasto caldo, delle stanze con una branda e una coperta.
Non è solo un urgente problema sociale, ma diventa un problema politico, esemplificato vistosamente da quel genere di beneficenza selettiva - razzista, per dirla intera - su cui Alba Dorata in Grecia e filiali altrove lucrano il proprio seguito popolare. La parola d’ordine: “I Greci prima di tutto”, o “Gli Italiani”, o “I Padani”, e così via (che vuol dire: “I Greci e basta”, “i Padani e basta”...) fa una presa molto più forte e torbida quando si rivolge agli impoveriti. C’è dunque anche una carità, o una filantropia, che baratta un piccolo bene con un grande male, e rende odiosa se stessa. Chi abbia frequentato i luoghi in cui la carità si esercita all’ingrosso, sa in quale terribile tentazione di iniquità siano indotti i suoi benevoli attori. E poche forme di potere sono rischiose quanto quella di chi ha in mano un pane superfluo davanti alla fila degli affamati.
La famiglia, prima scuola di santità
di Ermes Ronchi (Avvenire, 27/12/2012 *
La santa Famiglia di Nazaret porta un messaggio a tutte le nostre famiglie, l’annuncio che è possibile una santità non solo individuale, ma una bontà, una santità collettiva, familiare, condivisa, un contagio di santità dentro le relazioni umane. Santità non significa essere perfetti; neanche le relazioni tra Maria Giuseppe e Gesù lo erano. C’è angoscia causata dal figlio adolescente, e malintesi, incomprensione esplicita: ma essi non compresero le sue parole. Santità non significa assenza di difetti, ma pensare i pensieri di Dio e tradurli, con fatica e gioia, in gesti. Ora in cima ai pensieri di Dio c’è l’amore. In quella casa dove c’è amore, lì c’è Dio.
E non parlo di amore spirituale, ma dell’amore vivo e potente, incarnato e quotidiano, visibile e segreto. Che sta in una carezza, in un cibo preparato con cura, in un soprannome affettuoso, nella parola scherzosa che scioglie le tensioni, nella pazienza di ascoltare, nel desiderio di abbracciarsi. Non ci sono due amori: l’amore di Dio e l’amore umano. C’è un unico grande progetto, un solo amore che muove Adamo verso Eva, me verso l’amico, il genitore verso il figlio, Dio verso l’umanità, a Betlemme.
Scese con loro a Nazaret e stava loro sottomesso. Gesù lascia i maestri della Legge e va con Giuseppe e Maria che sono maestri di vita. Per anni impara l’arte di essere uomo guardando i suoi genitori vivere: lei teneramente forte, mai passiva; lui padre non autoritario, che sa anche tirarsi indietro. Come poteva altrimenti trattare le donne con quel suo modo sovranamente libero? E inaugurare relazioni nuove tra uomo e donna, paritarie e senza paure?
Le beatitudini Gesù le ha viste, vissute, imparate da loro: erano poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pace, con viscere di misericordia per tutti. E il loro parlare era: sì, sì; no, no. Stava così bene con loro, che con Dio adotta il linguaggio di casa, e lo chiama: abbà, papà. Che vuole estendere quelle relazioni a livello di massa e dirà: voi siete tutti fratelli.
Anche oggi tante famiglie, in silenzio, lontano dai riflettori, con grande fatica, tessono tenaci legami d’amore, di buon vicinato, d’aiuto e collaborazione, straordinarie nelle piccole cose, come a Nazaret. Sante. La famiglia è il luogo dove si impara il nome di Dio, e il suo nome più bello è: amore, padre e madre. La famiglia è il primo luogo dove si assapora l’amore e, quindi, si gusta il sapore di Dio. La casa è il luogo dove risiede il primo magistero, più importante ancora di quello della Chiesa. È dalla porta di casa che escono i santi, quelli che sapranno dare e ricevere amore e che, per questo, sapranno essere felici.
(Letture: 1 Samuele 1,20-22. 24-28; Salmo 83; 1 Giovanni 3,1-2. 21-24; Luca 2,41-52)
Il sovvertimento del Natale
di Bernard Ginisty
in “www.garriguesetsentiers.org” del 21 dicembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Una delle tentazioni più forti della mente umana consiste nel fare di tutto perché l’irrompere del nuovo si riduca alla ripetizione del vecchio. La volontà di controllo dell’esistenza cerca di colonizzare il tempo che viene, a rischio di impedirsi la sorpresa dell’imprevisto. Tendiamo a banalizzare l’evento quando sconvolge le nostre tranquillità intellettuali e sociali.
Il senso profondo della liturgia che ci invita ogni anno a rivivere il Natale sta nell’accogliere la rottura provocata da un avvenimento di grande portata qual è una nascita. Una breccia viene aperta dall’irruzione del Verbo fatto carne nella storia degli uomini. La festa che, secondo la liturgia del giorno di Natale, annuncia: “Oggi la luce è discesa sulla terra. Popoli dell’universo, entrate nella luce di Dio” è talmente sconvolgente, che abbiamo tentato di neutralizzarla per farne un grazioso scenario per la celebrazione del consumismo, diventato la pratica “religiosa” indispensabile ad un mondo gestito dall’idolo della finanza.
Questi tentativi di neutralizzazione sono cominciati molto presto. Appena conosciuto l’avvenimento della nascita di Gesù, i poteri, attraverso la figura di Erode, si sono sforzati di uccidere l’avvenimento e di massacrare l’innocenza. Questo scontro tra l’infanzia di Dio e il potere dei Cesari che fa di noi degli schiavi della violenza, del denaro, della produttività e delle immagini sociali, costituisce una linea di continuità nella storia.
L’avvenimento del Natale, quello in cui la Parola si fa carne, introduce un virus radicale nei programmi di coloro che pretendono di avere il potere di controllare l’esistenza umana. L’infanzia degli inizi diventa il luogo fondamentale dell’umano. È la sorgente in cui ciascuno, quale che sia la sua tragedia, può ritrovare una dignità e una speranza. Ecco perché, grazie al Natale, sono i più deboli, gli esclusi, che aprono la via verso il futuro. Non in nome di chissà quale lacrimevole umanitarismo, ma perché coloro che possiedono meno ci invitano a rimanere negli inizi dell’umano. È il senso del versetto evangelico: “la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”.
È a tempi di rinascita che ci invita tutti la festa del Natale. Non in un domani incantato, ma nel concreto dell’oggi. Lo stupore del Natale ha la forza delle origini. Ormai, “il Verbo che viene nel mondo illumina ogni uomo”, e nessun potere può più nascondere questa luce. A Natale, cantiamo l’invito ad inventare ogni giorno la fraternità umana, l’unica che può, da quel momento, dare senso alla storia.
L’impero di Cristo non era vangelo
di Enrico Peyretti *
La cristianità «non volle più patire. Sotto il pretesto del bene dell’umanità essa aveva deciso di mettersi a suo agio». Così Karl Barth nel 1935, citato da Ruggieri. Già nella Dogmatica Barth aveva visto che la pacificazione costantiniana ebbe un ruolo negativo sulle stesse formulazioni dogmatiche dei concili del IV secolo. Come altri cristiani tedeschi, Barth vede una somiglianza tra la protezione data alla Chiesa da Costantino, a partire dall’editto di Milano del 313, e poi da Teodosio e via via nei secoli dell’imperium christianum, e la condizione del «cristianesimo positivo» tedesco, che legittimava il regime nazista, a differenza della Chiesa confessante, che voleva vivere delle «sole forze dell’evangelo».
Il tema del lavoro di Zamagni è nel contesto della riforma della Chiesa, che il cinquantesimo del Concilio, 2012-2015, e l’anniversario secolare del 2013, stanno riproponendo all’attenzione. L’Autore risale ad alcuni maggiori studiosi cattolici che, con sollecitudine ecclesiale, sebbene in posizioni «liminali», nel Novecento hanno indagato storicamente e teologicamente il concetto di fine dell’era costantiniana. Questo modello di lunga durata appare non solo obsoleto, e tuttavia non davvero superato, ma addirittura pericoloso per la Chiesa e la fede.
Chenu, Heer, Gilson, Mounier, Maritain, Buonaiuti, Peterson, sono gli studiosi esaminati. Erik Peterson, per esempio, «denuncia l’origine tutta mondana degli epiteti monarchici di Dio», con una prima traslazione dal piano politico a quello teologico, e una seconda che, viceversa, riveste il sovrano terreno di attributi metafisici o divini.
Lo storico viennese Friedrich Heer vede questo modello politico-teologico ripresentarsi dall’epoca di Costantino a quella di Carlo Magno e, nonostante il pluralismo dei Comuni e dei saperi, fino alla brutalità dei totalitarismi del Novecento, i quali hanno potuto con facilità associarsi la croce cristiana (già usata, come denunciava Erasmo, nelle insegne di guerra dei signori e delle nazioni, per non dire delle crociate, di cui il cristianesimo paga il prezzo oggi).
Inevitabile per noi pensare all’ostinato utilizzo puramente politico dell’immagine di Cristo crocifisso, ancora oggi voluto da nazionalismi e clericalismi.
Gli autori francesi di questa serie, più noti, pur riconoscendo in parte qualche effetto benefico di quel modello, in cui un cristianesimo aveva permeato la vita civile e politica, lo vedono non solo obsoleto, da superare in una «nuova cristianità», ma anche (Gilson) illusorio, perché è illusione la realizzazione attuale del regno di Dio, a cui la storia tende, ma che verrà del tutto solo oltre la storia.
Marie-Dominique Chenu (tra tutti il solo personalmente incontrato e ascoltato da noi: ci diede apprezzamenti e consigli nei primi anni de “il foglio”) è il teologo che più direttamente influì sul Concilio con l’idea del superamento della “era costantiniana”. Per lui, eventi come il Rinascimento, la Riforma, la Rivoluzione e la secolarizzazione, esigevano «un nuovo rapporto tra la Chiesa e il mondo», che sarebbe un ritorno al vangelo: non fare un “mondo cristiano”, ma porre fermenti cristiani nel mondo che autonomamente si costruisce. Del resto, negli ordini mendicanti del XIII secolo, il mito di Costantino aveva lasciato il posto al mito della comunità primitiva di Gerusalemme.
Tra i riferimenti importanti di Chenu c’è anche lo studioso fiorentino Mario Gozzini, di cui cita alcuni scritti del 1961, e la rivista Testimonianze di Ernesto Balducci, segno di una consonanza che si allarga. Con parole forti, Chenu paventava «l’odore di muffa del sacro romano impero per l’unificazione dell’Europa». Eppure, anche dopo il Concilio, abbiamo sentito i vertici cattolici chiedere che nelle carte ufficiali si dichiarassero le “radici cristiane” europee: ma quanto cristiane? e soltanto cristiane?
Tanti altri passi di un cammino di pensiero e di spiritualità troviamo nel libro di Zamagni: in Buonaiuti, in Maritain. Citeremo ancora, per finire, solo la discussione in Germania, in cui entrò anche Ratzinger, sulla Machtkirche, la chiesa delle grandi manifestazioni di massa.
Il Concilio avvertì e volle, non senza contrasti e residui, quell’abbandono della fede nell’impero, che in realtà è passo faticoso, tuttora incompiuto. Sarà un motivo di riflessione importante e di conversione comunitaria nei prossimi anni di ripresa del Concilio
* FINESETTIMANA.ORG, 18 dicembre 2012
L’imperatore e il cardinale Scola
di Alessandro Santagata (il manifesto, 12 dicembre 2012)
«I provvedimenti, a firma dei due Augusti, Costantino e Licinio, determinarono non solo la fine progressiva delle persecuzioni contro i cristiani, ma, soprattutto, l’atto di nascita della libertà religiosa. In un certo senso, con l’Editto di Milano emergono per la prima volta nella storia le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e laicità dello Stato».
A pronunciare queste parole è stato il cardinale Angelo Scola nel discorso per la vigilia della festa di Sant’Ambrogio. Le reazioni dell’opinione pubblica si sono concentrate soprattutto sugli attacchi dell’arcivescovo di Milano al modello francese di laicità dello Stato, a suo avviso egemonico nella cultura europea, e sulle stilettate alla riforma sanitaria di Obama. Ma perché il riferimento a Costantino?
In un noto saggio «programmatico » del 1961, pubblicato in una collettanea di studi in vista del concilio, Marie-Dominique Chenu si augurava che con il Vaticano II la chiesa avrebbe finalmente preso atto della fine dell’età costantiniana, ossia del matrimonio tra chiesa e potere politico. Nelle società occidentali, spiegava il padre domenicano, si era logorato il modello della cristianità medievale, in conseguenza delle tre grandi rivoluzioni dell’età moderna (Rinascimento, Riforma e Rivoluzione) e sotto i colpi della secolarizzazione del secondo dopoguerra.
Di non minore rilevanza nell’incrinare i rapporti tra trono e altare erano stati i mutamenti interni al cristianesimo stesso: riscoperta della Scrittura, apertura ai non credenti, rivendicazione del Vangelo da parte dei poveri. La desacralizzazione, concludeva Chenu, aveva liberato la chiesa dal compito di supplenza nei confronti delle comunità secolari.
Per il futuro, se non voleva diventare un museo, avrebbe dovuto sforzarsi di accettare il mondo così come era, cogliendone gli elementi positivi, lasciandosi «prendere dal fremito del Vangelo» e non da quello del potere. Come ha mostrato Gianmaria Zamagni (Fine dell’era costantiniana, Il Mulino 2012), la riflessione di Chenu sulla decadenza della fede dopo l’incontro con Costantino risentiva di una lunga tradizione di studi novecenteschi (Ernesto Buonaiuti, Friedrich Heer, Erik Peterson, fino ai grandi del cattolicesimo francese: Emmanuel Mounier, Jacques Maritain, Étienne Gilson). Di Peterson sono note (anche grazie agli studi di Agamben) l’opposizione alla teologia politica di Schmitt e la sfida intellettuale lanciata ai totalitarismi e all’intesa delle chiese con il regime di Hitler.
Saranno proprio la fine della guerra e la sconfitta dei nuovi messianismi politici a dare ulteriore slancio ai critici dell’età costantiniana, le cui elaborazioni confluiranno nella costituzione conciliare Gaudium et spes. In questo testo non solo veniva adottata la teologia della storia avanzata da Chenu, ma la chiesa rinunciava a svolgere un ruolo di potenza temporale e dichiarava di rifiutare i privilegi di un rapporto stretto con il potere.
Non meno importante sarebbe stato il lascito della teologia anticostantiniana sulla dichiarazione Dignitatis Humanae, con la quale veniva riconosciuta la libertà di coscienza sia individuale sia collettiva. Il Vaticano II superava l’abituale rivendicazione della libertas ecclesiaee la conseguente distinzione tra la «ipotesi » (cioè la libertà dei cattolici quando sono minoranza) e la «tesi» (cioè l’intransigenza dei cattolici quando sono maggioranza), nonché la pretesa di difendere con gli strumenti dello Stato l’unica vera religione.
La dichiarazione chiariva i presupposti per un dialogo tra le religioni e la modernità, ossia il riconoscimento pubblico (già operato dalle rivoluzioni liberali) di una libertà religiosa sostenuta giuridicamente. Libertà religiosa e fine dell’età costantiniana sono dunque concetti strettamente legati nella storia del pensiero della chiesa, nella misura in cui l’accettazione della prima da parte della dottrina cattolica è stata possibile solo in virtù di quella della seconda. Ne è certo consapevole il cardinale Scola, che proprio nella Dignitatis Humanae ha riconosciuto la posizione più alta del magistero in materia. L’arcivescovo ha poi affrontato il tema delle persecuzioni religiose nel mondo e quello ancor più complesso del rapporto tra la ricerca religiosa personale e la sua espressione comunitaria.
Infine, ha concluso sul problema della connessione tra la libertà religiosa e l’orientamento dello Stato. È qui il cuore del ragionamento di Scola, nell’idea, cioè, che gli Stati non possano prescindere dalle «strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa». Più o meno il contrario dell’impostazione della Dignitatis, pure non priva di ambiguità e contraddizioni. Una posizione, la sua, distante anche dell’impianto teorico del discutibile Concordato del 1984, in cui la collaborazione tra Stato e chiesa era incoraggiata, ma senza riferimenti alla moralità della repubblica.
Nel contesto del discorso il riferimento a Costantino alla vigilia dei 1700 anni dall’Editto di Milano, sebbene smorzato dalle affermazioni sull’«inizio mancato » e sulle «indebite commistioni tra il potere politico e la religione », acquista il significato di un sostanziale arretramento teorico, oltre che di una vera e propria falsificazione storiografica. Certo, Scola non vorrebbe tornare allo Stato confessionale e dichiara il proprio apprezzamento per un modello di aconfessionalità «senza distacco» (modello statunitense?), ma da parte di un cardinale colto e attento come lui l’indicazione dell’imperatore come padre della libertà religiosa suggerisce una rilettura della storia della chiesa e dei suoi rapporti con il potere che trova nel rifiuto della laicità moderna (e non solo del modello francese della «neutralità») il suo logico punto di approdo.
Non è solo una questione interna alla chiesa, ma un discorso che investe i problemi della società multiculturale e gli storici ritardi italiani sui diritti e la laicità effettiva. C’è di che riflettere quando a parlare così è uno dei più quotati tra i possibili successori alla Cattedra di Pietro.
Il cardinale Scola: "Lo Stato laico mette a rischio la libertà religiosa"
Parole durissime dell’arcivescovo di Milano nel tradizionale ’Discorso alla città’ davanti al sindaco Pisapia E un invito a fare un passo indietro quando si sceglie di "imporre o proibire per legge pratiche religiose"
di ZITA DAZZI *
La laicità dello Stato mette a rischio la libertà religiosa. È con questa tesi forte che l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, si è presentato nell’antica basilica di Sant’Ambrogio per il tradizionale “Discorso alla città”, l’evento che dà il via agli importanti appuntamenti che si tengono nei giorni della festa patronale. Un discorso che il cardinale ha fatto partire dalle celebrazioni per il XVII anniversario dell’Editto di Costantino per arrivare al tema delle libertà religiose, arrivando a un attacco durissimo alla concezione dello stato laico contemporaneo.
Il «modello francese di laicité che è parso ai più una risposta adeguata a garantire una piena libertà religiosa, specie per i gruppi minoritari», ha detto Scola davanti a tutte le autorità, «si presenta a prima vista idoneo a costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti». Ma, sostiene il cardinale, la laicità «ha finito per diventare un modello maldisposto verso il fenomeno religioso». E «la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l’idea di neutralità, il sostegno a una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio».
Nella città che ha appena varato il registro delle coppie di fatto e che si appresta a discutere del testamento biologico, l’ex patriarca di Venezia - che viene dalle file di Comunione e liberazione - ha rimarcato tutto il suo scetticismo sul modello di Stato «neutro» rispetto alle religioni e non confessionale perché alla fine «lo Stato cosiddetto "neutrale", lungi dall’essere tale, fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo a emarginarle, se non espellendole dall’ambito pubblico».
Concetto ribadito con forza davanti al sindaco Giuliano Pisapia, che anche davanti al Papa, l’estate scorsa, aveva rivendicato l’autonomia d’azione delle istituzioni pubbliche. Lo «Stato - dice Scola - ha finito per dissimulare, sotto l’idea di "neutralità", il sostegno dello Stato a una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio». Il cardinale ricorda che questa dimensione laica delle istituzioni civili «è una tra le varie visioni culturali (etiche "sostantive") che abitano la società plurale», non l’unica. «Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde - almeno nei fatti - una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria, finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa».
Parole forti, quelle del successore di Dionigi Tettamanzi e soprattutto di Carlo Maria Martini, che aveva fatto di Milano la capitale del dialogo con i non credenti. Al contrario Scola sollecita «i cristiani» a «testimoniare l’importanza e l’utilità della dimensione pubblica della fede». Nonostante ritenga «il cattolicesimo popolare ambrosiano» «non privo di profonde fragilità sia nell’assunzione del pensiero di Cristo sia nella pratica sacramentale e del senso cristiano della vita», l’arcivescovo lo incita «mantenersi capillarmente radicato nell’esteso territorio della diocesi». Da parte loro, le istituzioni dovrebbero fare un passo indietro: «Più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa. Questo risultato è in realtà comprensibile: imporre o proibire per legge pratiche religiose, nell’ovvia improbabilità di modificare pure le corrispondenti credenze personali, non fa che accrescere quei risentimenti e frustrazioni che si manifestano poi come conflitti sulla scena pubblica».
* la Repubblica,06 dicembre 2012
Scola, lo Stato laico e la libertà religiosa
di Vito Mancuso (la Repubblica, 07.12.2012)
È TRADIZIONE che i discorsi tenuti il giorno di Sant’Ambrogio dagli arcivescovi di Milano siano caratterizzati da una profonda attenzione all’attualità sociale e politica. È il caso anche del discorso tenuto ieri a Milano da Angelo Scola, nel quale il cardinale è giunto a pronunciare parole molto pesanti.
PAROLE a mio avviso poco fondate, su un tema di straordinaria delicatezza quale quello della laicità e della aconfessionalità dello Stato. Scola è partito da molto lontano, dall’anno 313, visto che l’anno prossimo saranno 1700 anni da quell’Editto di Milano con cui Costantino e Licinio posero fine alle persecuzioni contro i cristiani. Scola non esita a celebrare tale editto come “l’atto di nascita della libertà religiosa”.
doveroso chiedersi per chi tale libertà nacque, e la risposta corretta è per i cristiani, i quali, da perseguitati sotto alcuni imperatori romani (in particolare Decio, Valeriano e Diocleziano) iniziarono a godere libertà di culto e poterono professare pubblicamente la loro religione. Ma alla loro libertà non seguì la libertà di altri. Io penso quindi che non sia corretto da parte di Scola elogiare così tanto l’Editto di Milano senza neppure ricordare l’Editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio del 380 con cui si toglieva la libertà di religione ai pagani, cui seguirono tra il 391 e il 392 i Decreti teodosiani che mettevano al bando ogni forma di sacrificio pagano, anche in forma privata, compresi i culti dei lari e dei penati che da secoli gli abitanti della penisola italica praticavano nelle loro case.
È vero che Scola scrive che l’Editto di Milano fu un “inizio mancato”, ma non si può sorvolare in questo modo così leggero su secoli e secoli di sanguinosa intolleranza cattolica, generata da tale editto e dal matrimonio con il potere imperiale che esso comportava. La cosa era del tutto chiara già a Dante Alighieri: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!” (Inferno XIX, 115-117), laddove tra i mali procurati dall’alleanza con il potere politico oltre alla corruzione della Chiesa vi sono le sanguinose persecuzioni contro ogni forma diversa di religione, in particolare contro i catari, i valdesi, gli ebrei.
La storia insegna che si dà libertà religiosa solo nella misura in cui lo Stato non si lega a nessuna religione particolare, solo se si pone di fronte ai suoi cittadini con l’intenzione di rispettare tutti, minoranze comprese, solo se pratica quella forma di neutralità così esplicitamente criticata dal cardinal Scola nel suo discorso di ieri. Per Scola infatti occorre “ripensare il tema della aconfessionalità dello Stato”, facendo in modo che lo Stato passi da una visione pluralista a una visione culturalmente in grado di sostenere le “dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte”: insomma i cosiddetti valori non negoziabili tanto cari a Benedetto XVI, cioè vita, scuola, famiglia, da intendersi alla maniera del Magistero cattolico attuale (che non è detto coincida con il vero senso del cristianesimo).
Prova ne sia proprio il tema della libertà religiosa, la quale, se è giunta a essere un patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, è solo grazie alla lotta in favore dei diritti umani da parte della laicità illuminista. La libertà religiosa è stato il dono della laicità al cristianesimo. Senza lo Stato laico, senza la sua volontà di rispettare le minoranze come quelle dei valdesi e degli ebrei dando loro gli stessi diritti della maggioranza cattolica, la Chiesa non sarebbe mai giunta al documento Dignitatis humanae del Vaticano II che apre finalmente la gerarchia cattolica alla libertà religiosa, dopo ben 1573 anni (distanza temporale tra la Dignitatis humanae del 1965 e l’ultimo decreto di Teodosio del 392)! Per rendersene conto è sufficiente leggere i documenti pontifici che durante la modernità condannavano aspramente la lotta dei laici e di alcuni teologi a favore della libertà religiosa, come per esempio le parole di Gregorio XVI che nel 1832 bollava la libertà religiosa come deliramentum o le parole di Pio IX nel 1870 o quelle di Leone XIII nel 1888.
Scola ha ragione nel dire che “il nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico”. Ma questa larghezza della mente e dell’anima dovrebbe riguardare davvero tutti, anche la Chiesa cattolica, la quale non può limitarsi a rimpiangere Costantino e Teodosio e magari a cercare candidati politici che ne ricalchino le orme.
Il sindaco difende la tutela dei diritti civili senza discriminazioni
Pisapia: “Nessun credo va privilegiato rivendico l’autonomia della politica”
di Alessia Gallione (la Repubblica, 7.12.2012)
MILANO - Accogliendo il Papa in città la scorsa estate, Giuliano Pisapia rivendicò l’autonomia delle decisioni della politica. «Ed è quello che continuerò a fare», dice il sindaco. Che aggiunge: «È giusto confrontarsi e riflettere, ma io non penso di possedere la verità e chiedo che, anche chi è profondamente credente, non ritenga di avere la verità assoluta. Lo dico soprattutto per quelle scelte individuali che riguardano la propria vita, anche se questo non deve limitare i diritti altrui».
Crede, come sostiene Scola, che la laicità dello Stato sia una minaccia per la libertà religiosa?
«Il suo discorso sarà per me motivo di riflessione, ma non mi convince la sua posizione negativa sulla “neutralità” dello Stato. Forse bisogna intendersi sul concetto di neutralità: lo Stato non deve essere confessionale, ma deve fare di tutto per rendere effettivo il principio costituzionale della libertà di professare liberamente la propria fede, serve una equidistanza tra tutte le religioni. Il diritto di professare il proprio credo non deve portare a discriminazioni né privilegiare una religione anche se maggioritaria. In Italia, dobbiamo fare ancora molti passi in avanti ed è per questo che, a Milano, stiamo lavorando per dare vita a un albo delle associazioni e organizzazioni religiose che permetta a tutti di avere gli spazi adeguati per potersi riunire».
La laicità alla francese sarebbe davvero un male?
«Credo che la laicità dello Stato sia un dovere, ma uno Stato profondamente laico deve dare a ognuno la possibilità di esprimere i propri valori e la propria fede».
Milano ha istituito il registro delle coppie di fatto e potrebbe avviare quello di fine vita. Si è sentito chiamato in causa da Scola?
«No, assolutamente. Proprio l’equivicinanza alle religioni comporta che bisogna garantire a tutti, anche ai non credenti, la possibilità di esercitare i propri diritti senza essere discriminati. Il cardinale dice che la libertà religiosa “è ai primi posti nella scala dei diritti”. Io dico che tutti i diritti sono al primo posto nella scala dei valori. Milano continuerà sulla strada dei diritti civili, con la profonda convinzione che non solo non contrasta con la libertà religiosa, ma la rafforza».
Non teme un rapporto conflittuale con la Curia?
«In realtà, no. Quando il Comune ha preso decisioni non condivise dalla Curia, ci sono state comprensibili e legittime prese di posizioni, ma nessun tentativo di bloccare scelte democratiche. Sono molto fiducioso che il confronto e il dialogo continueranno, pur nelle reciproche diversità. Forse, chi crede in una religione - qualunque essa sia - è convinto che quella sia la verità. La differenza, per quanto mi riguarda, è che su certi temi mi pongo sempre il dubbio sulla base della realtà e non di un’indicazione che viene dall’alto. C’è però un passaggio del discorso che condivido pienamente ».
Quale?
«È quello che mette in relazione la libertà religiosa e la pace sociale. Il dialogo e la comprensione tra diverse confessione favoriscono la pace dentro una comunità e tra le diverse comunità. Questa coesione sociale, anche tra fedi e culture diverse, è un obiettivo a cui tutti dovrebbero puntare, ma che alcune forze politiche purtroppo non auspicano».
Caro Scola, laicità dello Stato non è nichilismo
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 7.12.2012)
Il discorso alla città di Milano pronunciato ieri sera dal cardinal Scola in occasione di Sant’Ambrogio contiene alcuni passaggi cruciali sul tema dello Stato laico che sono sorprendenti per l’atteggiamento che li sottende, per il tono, prima ancora che per alcuni loro contenuti. C’è diffidenza, sfiducia, allarme di fronte a una presunta involuzione della laicità nello Stato, che si configurerebbe addirittura come minaccia alla libertà della coscienza religiosa.
L’ assunto da cui parte il discorso del cardinale è la centralità della «società civile», «la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla». Questa affermazione sarebbe anche condivisibile (nessuno infatti vuole uno Stato etico) se non contenesse un fraintendimento. Non è chiaro, infatti, che cosa significa che lo Stato deve «limitarsi a governare la società civile» senza «pretendere di gestirla». Definire le leggi, le norme di comportamento vincolanti per tutti i cittadini - tramite un dibattito pubblico e costituzionale che tiene presente l’intera «società civile» in tutta la sua complessità - è una «gestione» intrusiva della società?
Proprio su questo punto invece il card. Scola usa parole pesanti: «Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa».
Innanzitutto non si capisce come una legislazione neutrale rispetto ai valori religiosi impedisca, a coloro che lo desiderano, di condurre la propria vita e operare le proprie scelte sulla base di quei valori. Salvo garantire che si tratti di scelte effettivamente libere e non di imposizioni familiari o comunitarie.
Inoltre a quale Stato in concreto si riferisce il cardinale? Certo non al nostro Paese con la sua legislazione sull’insegnamento della religione nelle scuole, con la normativa sui simboli religiosi negli spazi pubblici, sul sostegno indiretto alle scuole confessionali, sulla forte (e formalmente legittima) influenza della Chiesa sulla problematica bioetica - per non parlare della deferenza pubblica e dei partiti politici verso la Chiesa.
Non mi è chiaro quali altri spazi possa aprire uno Stato laico «in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune». Non a caso sono i laici spesso a non vedere riconosciuti i propri come «valori» (ma sempre come apertura al peggio) e la legittimità delle proprie opzioni.
E’ deplorevole che la laicità dello Stato sia identificata tout court con una idea di secolarizzazione che sconfina di fatto con il nichilismo. Se c’è uno spazio che dovrebbe essere aperto è il confronto pubblico competente e leale sui valori positivi della laicità, che sono l’unica garanzia della libertà di coscienza.
Il cardinale Scola tra il Medioevo e l’America
di Massimo Faggioli (L’Huffington Post, 7 dicembre 2012)
Il cardinale di Milano, Angelo Scola, è il più ascoltato tra i vescovi italiani, e per buone ragioni: ciellino intelligente, ha scritto cose di valore e non cortigiane sulla teologia di Giovanni Paolo II, e i suoi discorsi sono raramente di circostanza, anche quando le circostanze lo permetterebbero.
Il discorso tenuto a Milano di fronte al sindaco Pisapia per la festa di sant’Ambrogio ha toccato un nervo scoperto della chiesa cattolica, quello dei rapporti tra la dimensione secolare e laica dello Stato moderno in Occidente e la pretesa del cattolicesimo di farsi interprete di una “sana laicità” che per certi cattolici non è mai abbastanza sana. Si sbaglierebbe però a bollare il discorso del cardinale Scola come il manifesto di un cattolicesimo talebanizzante. C’è una parte originale del discorso che descrive il rapporto tra visioni della vita in Occidente non come una coesistenza tra religioni diverse, ma come un confronto-scontro “tra cultura secolarista e fenomeno religioso”, e che ricorda come l’attacco alla libertà religiosa sia, in alcune aree del mondo contemporaneo, uno dei segni dei tempi.
Ma la parte più discutibile del discorso, non solo dal punto di vista politico ma anche storico, è quella che attiene all’uso della parola stessa “laicità”: nel suo discorso il cardinale la usa una volta sola per associarla all’imperatore Costantino (del cui celebre “editto di Milano” del 313 stanno per iniziare le celebrazioni), facendo dell’imperatore Costantino un assai improbabile eroe della libertà religiosa. Nel resto del discorso Scola parla di laicitè alla francese, e significativamente non articola la differenza sostanziale che esiste tra il concetto medievale di libertas Ecclesiae come “libertà della chiesa” da una parte e l’idea di “libertà religiosa” definita dal concilio Vaticano II meno di cinquant’anni fa, nel 1965.
Questo silenzio deriva da una delle malattie del cattolicesimo contemporaneo, un neo-americanismo che è l’altra faccia dello spauracchio della Rivoluzione francese - il fantasma che agita la chiesa di Roma quando essa viene messa di fronte ad una società in evoluzione: alle rivoluzioni democratiche di metà ottocento in Europa come alla questione dello schiavismo e della segregazione razziale in America tra nel secolo che va tra il 1860 e i “sixties”.
Se l’attacco di Scola alla laicitè alla francese non significa necessariamente un auspicio al ritorno allo Stato confessionale, tuttavia prefigura uno Stato che rimanga aconfessionale ma nel quadro di un nuova idea di libertà religiosa, di una “laicità positiva” non neutrale di fronte al fatto religioso. Il modello è chiaramente quello statunitense.
Il neo-americanismo di Scola è trasparente anche dall’accenno nel discorso del cardinale alla “ferita alla libertà religiosa di cui parla la Conferenza episcopale degli Stati Uniti a proposito della riforma sanitaria di Obama”: è un americanismo tipico dei leader del cattolicesimo contemporaneo, chierici e laici, ed è un segnale interessante, specialmente se si tiene conto del retaggio anti-americano che faceva parte del pedigree dell’intellettuale cattolico europeo novecentesco. Ora siamo arrivati all’estremo opposto. Il problema è la validità di quel modello americano invocato ora da Scola, ma più volte lodato anche da papa Benedetto XVI.
I volonterosi americanisti italiani non sanno che è in crisi anche il modello americano, proposto come soluzione al male europeo del laicismo: gli Stati Uniti vivono di una “religione civile” che esige continui sacrifici (culturali e non solo) sconosciuti all’immaginario politico-religioso europeo. Nello spazio pubblico americano la presenza della religione è tutt’altro che pacificamente accettata. Se si mettessero insieme tutti gli ex cattolici statunitensi, sarebbero la seconda chiesa d’America (dopo la chiesa cattolica).
L’America di cui parlano questi neo-americanisti è un’America che è più vicina a quella di Tocqueville di quasi due secoli fa, che a quella di inizio secolo XXI: anche perchè venerare Tocqueville è meno faticoso che leggere le mille pagine de L’età secolare, opus magnum di Charles Taylor, studioso canadese che negli ultimi anni ha ridefinito il dibattito sulla laicità in Nordamerica.
Ma il problema non è solo di cultura dei cattolici. Anche la letteratura italiana recente di parte neoliberale e neo-conservatrice sul tema di una “nuova laicità non laicista” sembra illudersi, tramite il ricorso ad un sistema di tipo americano, di proteggere una chiesa “established” (nazionale) come quella cattolica in Italia e di aprire lo scenario giuridico-costituzionale ad una maggiore presenza delle religioni nello spazio pubblico senza tenere conto dei costi di questo in termini di coesione giuridica e sociale: ma sembra dimenticare la fondamentale mancanza, in Europa, di una cultura nazionale omologatrice come quella statunitense, capace di assorbire e inghiottire le diversità religiose e di americanizzare ogni presenza religiosa sul territorio americano.
La “cura americana” proposta da alcuni vescovi e cardinali, così come da alcuni cattolici neo-liberali (presenti anche nelle file del Partito Democratico in Italia) potrebbe essere esiziale per il delicato sistema europeo: a meno che questo sistema europeo “post-laico neo-americano” che essi immaginano non significhi una libertà religiosa con alcune religioni orwellianamente più libere di altre.
La laicità e la restaurazione di Scola
di Paolo Naso
in “NEV” (Notizie Evangeliche) del 7 dicembre 2012
«Le parole del Cardinale Scola nel tradizionale messaggio alla città del 6 dicembre, lasciano sorpresi e sbigottiti perché aggrediscono quel principio di laicità che costituisce, oltre che un caposaldo della nostra Costituzione, l’architrave di ogni modello di convivenza tra fedi diverse nello spazio pubblico. L’arcivescovo di Milano va persino oltre il tradizionale appello di questo pontificato per una “sana laicità” e denuncia “una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente” e che, se fatta propria dallo Stato, “finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa”.
Scola è fine intellettuale e, se usa parole così nette ed esprime giudizi così perentori, è chiaro che ha un obiettivo preciso: a noi pare che intenda richiamare il suo gregge al fatto che il pastore è cambiato, che il tempo di Martini e Tettamanzi è ormai finito e con esso quello spirito di pluralismo, di laicità e di dialogo che per una lunga stagione hanno caratterizzato il cattolicesimo ambrosiano. Ruvidamente, come ruvide sono state le parole udite dalla Cattedra di Sant’Ambrogio, potremmo definirla “restaurazione”».
A MILANO, A PALAZZO MARINO (DA OGGI AL 13 GENNAIO 2013), DUE OPERE: "AMORE E PSICHE" DI CANOVA E DI FRANCOIS GERARD. MATERIALI SUL TEMA.
Lui incapace di accettare l’emancipazione
di Giulia Galeotti (l’Osservatore Romano, 25 novembre 2012)
È il mostruoso volto dell’incapacità di entrare in relazione con il prossimo. Percuotere e uccidere chi è fisicamente più debole è una disumana dimostrazione di codardia e di viltà. Questi abusi particolarmente subdoli e striscianti, capaci di infiltrarsi sempre più nella quotidianità delle nostre mura (anche occidentali), violentano le migliaia di vittime colpite silenziosamente giorno dopo giorno sotto i nostri sguardi distratti. Ma violentano anche la società nel suo insieme.
Perché se sempre e in ogni sua forma la violenza volta le spalle alla speranza, la violenza degli uni sulle altre è il cemento che immobilizza il domani. Che preclude ogni incontro e asfissia la vita. I dati sono allarmanti. Solo in Italia, una donna viene uccisa ogni sessanta ore. È un fenomeno nuovo, o forse oggi siamo più informati, più capaci di leggere la realtà per quello che veramente è? Se così fosse, sarebbe comunque già una conquista. Una società civile in grado di dare un nome ai carnefici.
Abbiamo però un dubbio. Che questa spirale tentacolare - nel suo spingere troppi uomini a usare la propria superiorità fisica contro le donne di casa loro, donne che spesso frequentano e "amano" - sia mossa dalla incapacità di accettare nella quotidianità concreta l’emancipazione femminile. Che la donna, conquistati i diritti, sia diventata cittadina a pieno titolo è un giro di boa troppo grande da accettare nei rapporti domestici di ogni giorno. La crudeltà - si sa - è in grado di alleviare momentaneamente la frustrazione, di attutire il senso di impotenza, ed è anche su questa consapevolezza che occorre lavorare per cercare di estirparne gli esiti.
La giornata mondiale contro la violenza sulle donne vuole dunque svegliarci dall’indifferenza. Vuole pungolarci dalla assuefazione che corrode il senso critico, giacché non reagendo finiamo per essere complici del rinsecchimento delle radici del nostro vivere civile. Vuole mettere fine a quel lasciarci scivolare addosso dati che turbano nell’immediato, senza però penetrare davvero nelle nostre coscienze. Dati, inoltre, che molte, troppe di noi hanno provato sulla propria pelle, nei modi, nelle situazioni e attraverso le mani più varie. Sta qui molta della forza di questa violenza, sta nel suo nutrirsi del senso di colpa, nell’approfittarsi della vergogna.
Siamo imbevuti tutti di violenza sin da bambini, i colpevoli e le vittime. Da subito ci viene insegnato - a noi maschi - a desiderarla, cercarla, esercitarla. Il cibo con cui cresciamo non è un veleno a costo zero. Da subito ci viene insegnato - a noi femmine - che, un po’ almeno, ce la siamo cercata.
Che, soprattutto, la giornata mondiale del 25 novembre lasci in noi la consapevolezza che la violenza contro le donne infligge a tutti una ferita mortale. Perché vittima è anche la società nel suo complesso, quella società composta da quanti esercitano questa violenza, da quante la subiscono e da quanti la registrano immobili (e dunque colpevoli). Il danno è immenso. È la negazione della ragione. È il rifiuto dell’altro. È l’antitesi del nostro essere esseri umani. Come scrive Vasilij Grossman in Vita e destino, "dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne".
Uomini e donne, per un "cambio di civiltà" - al di là del Regno di "Mammasantissima": l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il Padre, e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle.
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Femminicidio: ribelliamoci ora
di Roberta Agostini (l’Unità, 24.11.2012)
Sono più di cento le donne uccise fino ad oggi nel nostro paese. Dal sud al nord senza distinzione di nessun tipo, reddito, livello di istruzione, etnia, appartenenza religiosa. Un solo elemento unifica queste morti: sono tutte o quasi state uccise da chi conoscevano, il partner, un familiare, un cosiddetto amico. Uccise perché donne, ma in realtà i dati non li conosciamo veramente perché non abbiamo un sistema informativo che ci consenta di monitorare il fenomeno nei suoi diversi aspetti. L’ultima ricerca approfondita l’ha fatta l’Istat nel 2007. L’anno dopo un gruppo di giornaliste e scrittrici ha pubblicato un libro «Amorosi assassini» analizzando per un anno le pagine dei quotidiani e raccogliendo in ordine cronologico, mese per mese, circa trecento casi di violenza e tracciando una terribile e dolorosa fotografia della vita e della morte di quelle donne.
Ma quante rimangono in silenzio? Le donne pagano con la vita per aver detto un no, quel «no» che fu pronunciato da Franca Viola tanti anni fa, che ha cambiato i rapporti tra uomini e donne nel Paese, ma che ancora non si è affermato, così come le parole autonomia ed eguaglianza.
Intorno a questo 25 novembre ci siamo ritrovate in tante occasioni, associazioni, ong, donne impegnate nella politica e nelle istituzioni per discutere di come rilanciare la battaglia contro la violenza. Un primo obiettivo concreto, importantissimo è stato raggiunto anche grazie al nostro impegno parlamentare e alla raccolta di firme che abbiamo promosso in molte città: il governo il 27 settembre scorso ha firmato la convenzione di Istanbul e dobbiamo fare in modo che la legge di ratifica venga approvata entro la fine di questa legislatura, dotando il nostro Paese di uno strumento essenziale di contrasto alla violenza. In più occasioni dalla presentazione della convenzione «No more», promossa da numerose ed importanti associazioni, alle iniziative di «Se non ora quando», fino alla presentazione della proposta di legge del Pd al senato ci siamo tutte dichiarate d’accordo sul fatto che la violenza non è un fatto privato e non è neppure un’emergenza, ma un dato strutturale in una società che pone donne ed uomini in una relazione di disparità e di dominio.
Per combatterla servono politiche concrete in un’ottica multidisciplinare ed integrata: serve uno sforzo coordinato tra enti locali e livelli nazionale e sovranazionale. Serve una rete forte e sinergica tra i diversi attori del contrasto: centri antiviolenza, magistratura, forze dell’ordine, presidi sociali e sanitari e serve la loro formazione aggiornata e costante. Servono risorse per le politiche di accoglienza delle vittime (in Italia ci sono 500 posti letto e ne servirebbero 5000) e per le politiche di prevenzione. Serve una cultura nuova e diversa di educazione alla parità e al rispetto, una battaglia della quale dovrebbero essere protagonisti la scuola, gli insegnanti, i ragazzi ed i mass-media, tutti. Di fronte ad un fenomeno tanto complesso, le politiche giudiziarie e di sicurezza possono essere una risposta solo molto parziale. Serve una reazione civile, una nuova consapevolezza dell’autonomia e della libertà femminile, dalle quali nascono nuove relazioni tra uomini e donne che poggiano sulla reciprocità, sul rispetto e non sul dominio. Un riconoscimento reciproco tra uomini e donne fondato sul senso dei propri limiti. Domani sceglieremo il futuro candidato alla presidenza del consiglio, ma saremo uniti, uomini e donne, per ribadire il nostro impegno costante contro la violenza.
Accendere la luce sulla violenza. Domani le donne si mobilitano
di Cristiana Cella (l’Unità, 24.11.2012)
Per troppi anni le donne italiane vittime di violenze, intimidazioni e umiliazioni, sono state private della loro libertà e dei loro diritti, nascoste sotto un burka fatto di paura, ignoranza, omertà, vergogna, silenzio. E il silenzio è anch’esso violenza. Per anni, violenze psicologiche e fisiche, fino agli omicidi, sono state rinchiuse nell’ambito ambiguo del privato, nella colpevole tolleranza di una cultura distorta e diffusa, nella palude del sommerso. Non esistono neppure dati certi. Nell’unica ricerca del 2007, dell’Istat, si parla di 6 milioni di donne vittime di stupro, minacce e molestie. Quasi sempre ignorate. Si è giustificata la violenza con la gelosia, la passione, il dolore di essere abbandonati. Le parole sono importanti, hanno conseguenze e l’amore non ha nulla a che fare con la violenza. Le cose, adesso, cominciano finalmente a cambiare, grazie alla tenacia di donne coraggiose, che hanno continuato a denunciare, proteggere e combattere, nelle loro vicende personali, nelle associazioni, nei media e nei Centri Antiviolenza. La parola femminicidio è entrata con forza nel vocabolario, come «specifico reato e crimine contro l’umanità», come scrive Barbara Spinelli.
Nel 2012 l’Italia è scesa dal 74° all’80° posto - dopo il Ghana e il Bangladesh - nella classifica del Gender Gap Report sulla condizione della donna nel mondo, stilata dal World Economic Forum. Nel 2011 e nel 2012 le nazioni Unite e il Comitato Cedaw hanno redarguito il nostro Paese, preoccupati non solo per la diffusione della violenza contro donne e bambine e per l’elevato numero di femminicidi ma anche per « il persistere di tendenze socio-culturali che minimizzano o giustificano la violenza domestica». Nel testo della Convenzione «No more» (www.nomoreviolenza.it), promossa da diverse associazioni di donne si chiede al Governo di verificare l’efficacia del Piano Nazionale contro la violenza varato nel 2011, perché la protezione della vita e della libertà delle donne diventi subito priorità dell’agenda politica. La prima risposta è stata quella del Presidente Napolitano che ha mandato ieri una lettera di ringraziamento al Cooordinamento delle Associazioni promotrici. Cinquanta parlamentari hanno, intanto, aderito all’interpellanza lanciata da Rosa Callipari del Pd.
La data di domani non sarà più solo una ricorrenza formale e scomoda. Ma una giornata di mobilitazione nazionale per divulgare, riflettere e trovare soluzioni concrete. Urgenti, perché il fenomeno non fa che aumentare. In media ci sono più di 100 femminicidi all’anno, quest’anno, siamo già a 115, una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita. Secondo le anticipazioni dei dati 2012 di Telefono Rosa questo tipo di abusi, all’interno dei rapporti amorosi, ha raggiunto l’85% di tutte le violenze, il 3% in più del 2011. Per il 25 novembre, Telefono Rosa ha organizzato al Centrale Teatro Preneste, a Roma, alle ore 10, uno spettacolo (15 22, scritto da Pina Debbi, regia Tiziana Sensi; titolo che prende spunto dal numero nazionale antiviolenza che dal 19 dicembre sarà gestito da Telefono Rosa) per far conoscere e riflettere sul fenomeno. Moltissime le iniziative di associazioni di donne per accendere i riflettori sulla ‘normalità’ di questa inaccettabile tragedia che si consuma ogni giorno. Far luce e trovare soluzioni sono le parole d’ordine della giornata di domani. Simbolicamente, dalle ore 17 in poi, si illuminerà anche il Colosseo. Far luce anche su quelle forme di violenza meno conosciute, come stalking, intimidazioni e minacce, di cui sono vittime le donne per il loro lavoro.
Il 27 si terrà a Montecitorio, un convegno sulle gravi minacce di cui sono state vittime nel 2012 molte giornaliste. Nasce in questi giorni anche una nuova associazione, «Hands off WomenHow», con l’obiettivo di creare una rete internazionale di associazioni e persone per contrastare la violenza sulle donne. In questi giorni si rinnova anche il sito zeroviolenzadonne.it. Cambiare è possibile ma richiede il coinvolgimento di tutta la società, soprattutto degli uomini.
di Vito Mancuso (la Repubblica, 21 novembre 2012)
Con il volume intitolato L’infanzia di Gesù che arriva oggi in libreria nei principali paesi del mondo si conclude l’opera complessiva di quasi mille pagine in tre volumi dedicata da Joseph Ratzinger a Gesù di Nazaret. Con essa egli intende far tornare i cattolici a identificare narrazione evangelica e storia reale come avveniva fino a qualche decennio fa, prima dello sviluppo della moderna esegesi storico-critica. Raggiunge l’autore il suo obiettivo? A mio avviso no, perché si tratta di una mission impossible.
Tutti amiamo il Natale con la sua atmosfera di gioia e di pace, e questo nuovo libro del Papa è di grande aiuto nel viverne la spiritualità. L’oggetto sono i primi due capitoli del Vangelo di Matteo e del Vangelo di Luca, i cosiddetti “vangeli dell’infanzia”. Per secoli essi sono stati letti come reali resoconti storici, ma oggi l’esegesi biblica storico-critica è pressoché unanime nel dichiarare il contrario. L’obiettivo del Papa è che i vangeli dell’infanzia possano tornare a essere letti come storicamente fondati.
Il suo avversario di conseguenza non può che essere l’esegesi che, privilegiando la filologia e la storiografia, evidenzia la problematica storicità di molte narrazioni evangeliche. Con questo gli esegeti non intendono dire che i Vangeli sono falsi, ma solo che sulla loro base non si può ricostruire con certezza la storia di Gesù, tanto meno quella della sua nascita, e che occorre leggerli sapendo che la finalità è teologico-spirituale e non storiografica. Nei Vangeli vi sono dati storicamente certi accanto a elaborazioni simboliche storicamente inattendibili e il compito dell’esegesi storico-critica consiste nel distinguere le due dimensioni. L’inevitabile conseguenza però è che il Gesù dei Vangeli non coincide con il Gesù della storia, cioè l’esatto contrario dell’intento programmatico di Ratzinger dichiarato nel primo volume: “Presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio”. E precisamente per questo anche nel nuovo libro, come già nei precedenti, il Papa rivolge ricorrenti attacchi all’esegesi storico-critica (cf. per esempio le pagine 25, 60, 62, 78, 123).
Ma, come tutti coloro che prima di lui hanno tentato di armonizzare i racconti evangelici, anche Ratzinger sorvola sulle contraddizioni tra i resoconti di Matteo e di Luca. Sono esse a rendere impossibile una storia dell’infanzia di Gesù degna di questo nome, come ritengono studiosi del calibro di Brown, Sanders, Meier, Dunn, Barbaglio, Fabris, Maggioni, Jossa, Ortensio da Spinetoli, Pesce e molti altri.
Certo tra Matteo e Luca vi sono elementi comuni: l’identità dei genitori, l’annuncio angelico, il concepimento di Maria senza rapporti sessuali con il marito, la nascita a Betlemme sotto il regno di Erode, il trasferimento a Nazaret. Ma vi sono anche discordanze che non possono essere armonizzate: prima della nascita di Gesù, Maria e Giuseppe o risiedevano a Nazaret (Luca) o risiedevano a Betlemme (Matteo); il loro viaggio da Nazaret a Betlemme o ci fu (Lc) o non ci fu (Mt); Gesù nacque o in casa dei genitori (Mt) o in una mangiatoia (Lc); la strage dei bambini di Betlemme o accadde (Mt) o non accadde (Lc); i genitori o fuggirono in Egitto per salvare il bambino dai soldati di Erode (Mt) o andarono al tempio di Gerusalemme per la circoncisione senza che i soldati di Erode si curassero del bambino (Lc); la famiglia da Betlemme o tornò subito a casa a Nazaret di Galilea (Lc), oppure si recò a Nazaret solo dopo essere stata in Egitto e per la prima volta (Mt).
Opposta è inoltre l’atmosfera complessiva che avvolge la nascita di Gesù, regale e tragica in Matteo, semplice e bucolica in Luca: a chi dare credito? Nella mente dei fedeli i due racconti si mescolano senza distinguere gli elementi dell’uno e dell’altro, e il Papa promuove questa tradizionale mescolanza acritica, ma l’esigenza storiografica non lo consente, i dati stanno o come li presenta Matteo o come li presenta Luca, oppure né in un modo né nell’altro, in ogni caso non sono armonizzabili. Quindi se fosse vero, come scrive Ratzinger, che Matteo e Luca “volevano scrivere storia, storia reale, avvenuta” (p. 26), ci troveremmo davvero in un bel guaio, perché uno dei due evangelisti sicuramente sarebbe in errore.
C’è inoltre la questione di come la notizia del concepimento verginale sia giunta agli evangelisti. Il Papa propende per la “tradizione familiare” (p. 65), nel senso che sarebbe stata Maria a comunicare ai discepoli lo straordinario evento di aver concepito il figlio senza rapporti sessuali. Ma se fosse stato davvero così, non si spiegherebbe la scarsa attenzione del Nuovo Testamento per Maria, compreso il libro degli Atti degli apostoli scritto proprio da Luca che la menziona solo una volta e quasi di sfuggita, mentre dà molto più spazio non solo a Pietro e a Paolo ma persino a personaggi secondari come Lidia la commerciante di porpora. È forse credibile che Luca, sapendo direttamente da Maria del concepimento straordinario di Gesù, negli Atti la trascuri completamente, senza scrivere nulla su dove viveva, cosa faceva, come finì la sua vicenda terrena, e senza averle mai dato neppure una volta la parola? Tutto ciò porta a dubitare molto di quanto sostiene il Papa.
La realtà è che i Vangeli dell’infanzia presentano un profilo storico complessivo abbastanza improbabile. Il dato storico sicuro (la nascita di Gesù) è circondato da una serie di particolari incerti se non improbabili, a cominciare dal luogo della nascita, che per il Papa è ovviamente la tradizionale Betlemme, mentre “la maggioranza degli studiosi dubita che Gesù nacque a Betlemme” (The Cambridge Companion to Jesus, p. 22) e un esegeta cattolico come Raymond Brown è giunto a parlare di “prove positive a favore di Nazaret”.
I Vangeli sono quindi inaffidabili? No, sono degni di fiducia, ma solo a patto di distinguervi diversi livelli di storicità, cioè dati storicamente sicuri, dati probabili e dati improbabili. In particolare i vangeli dell’infanzia sono un’interpretazione del significato esistenziale di Gesù, per manifestare il quale il racconto della sua nascita è stato arricchito di una serie di elementi simbolici, com’era normale nell’antichità per i grandi personaggi. Tutto ciò lungo i secoli è servito ad attrarre l’attenzione su Gesù, perché nel passato l’umanità identificava la presenza del divino con i miracoli e lo straordinario. Oggi però avviene il contrario. Oggi i miracoli e lo straordinario sono più di danno che di aiuto all’autentica comunicazione spirituale. Siamo giunti a una visione del mondo più pacata, più disincantata, più realistica, ai fregi del barocco si preferisce l’austera semplicità del romanico.
Questa maggiore maturità si riflette nel lavoro dell’esegesi biblica mediante il metodo storicocritico, un lavoro serio e altamente qualificato come mai prima d’ora nella storia era avvenuto, un lavoro dal respiro internazionale e interconfessionale i cui risultati si offrono alla coscienza senza forzature dogmatiche. Ratzinger però non ama il metodo storico-critico, lo ritiene dannoso per la fede e forse per questo nel suo libro neppure menziona l’autore dello studio più importante sui vangeli dell’infanzia, il già citato Raymond Brown, sacerdote cattolico, a lungo membro della Pontificia Commissione Biblica. Brown conclude così la sua opera monumentale sui vangeli dell’infanzia: “Qualsiasi tentativo di armonizzare le narrazioni fino a farne una storia coerente è destinato al fallimento” (La nascita del Messia, Assisi 1981, p. 677). Ratzinger neppure menziona Brown, ma proprio per questo la sua opera, nonostante alcune belle pagine di taglio spirituale, va incontro al destino prefigurato dal grande biblista americano.
Fuori dal gregge
di Antonio Thellung (mosaico di pace, luglio 2012)
L’obbedienza non è più una virtù, diceva don Milani, esortando a coltivare la presa di coscienza. Non per contrapporsi all’autorità, ma per educare ciascuno ad assumere le proprie responsabilità, senza pretendere di scaricarle su altri. L’obbedienza, infatti, può anche dirsi una virtù, ma soltanto se si mantiene entro limiti equilibrati, da valutare appunto con coscienza. Perché l’obbedienza cieca è il tipico strumento utilizzato dalle strutture autoritarie gerarchico-imperialistiche per esercitare il potere, offrendo in cambio ai sudditi lo scarico della responsabilità personale. Tipico esempio si è avuto nel dopoguerra quando pareva che nessuno dei feroci gerarchi nazisti fosse colpevole, perché sostenevano tutti di aver semplicemente obbedito a ordini superiori.
Il Vangelo è chiarissimo: "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?", ma la cristianità che si è affermata nella storia ha preferito mutuare dall’Impero Romano un’impostazione imperialistica che si mantiene presente tuttora, sia pure adattata ai tempi odierni. Un’impostazione che riduce i fedeli a "docile gregge", come li definiva a suo tempo Pio X. Il Vangelo, inoltre, esorta anche a non chiamare nessuno padre sulla terra, un lampante invito a non cadere nelle tentazioni del paternalismo, che svaluta la dignità delle persone. Ma l’uso di chiamare "padre" i ministri del culto la dice lunga. Nello stesso brano, poi, Gesù in persona ammonisce i suoi apostoli a non farsi chiamare maestri perché solo Cristo è il maestro, ma sorprendentemente su taluni documenti ecclesiastici anche dei tempi presenti, come ad esempio il Documento di Base del 1970, si legge nientemeno che: "Per disposizione di Cristo, gli Apostoli affidarono ai loro successori, i Vescovi, il proprio ufficio di Maestri". Incredibile!
Si potrebbe dire che il magistero ha sempre richiesto ai fedeli un’obbedienza cieca, e non pochi tra coloro che hanno cercato di opporsi hanno pagato talvolta perfino con la vita. San Francesco, nella sua prima regola, aveva provato a scrivere che un frate non è tenuto a obbedire al superiore se questi gli ordina qualcosa di contrario alla sua coscienza, ma naturalmente papa Innocenzo III si è guardato bene dall’approvarla. In tempi più recenti, nel 1832, Gregorio XVI definiva un delirio la libertà di coscienza e nel 1954 Pio XII scriveva: "È giusto che la Chiesa respinga la tendenza di molti cattolici a essere considerati ormai adulti". Non è stupefacente?
Chi esercita il potere, di qualsiasi tipo, vorrebbe dai sudditi una delega in bianco, perché teme le coscienze adulte, che sono difficilmente governabili per il loro coraggio di esprimere dissenso, quand’è il caso. E tanto più il potere è prepotente e prevaricante, tanto più esige un’obbedienza cieca. Il magistero ecclesiastico ha sempre mostrata una grande avversione al dissenso, trattandolo come un nemico da combattere perfino con metodi violenti, nel caso, senza capire che proprio il dissenso è il miglior amico degli insegnamenti di Cristo, perché agisce come sentinella delle coscienze.
Il dissenso, nella Chiesa, c’è sempre stato, con buona pace di coloro che nelle varie epoche storiche hanno preteso di soffocarlo usando talvolta armi che sono incompatibili con l’insegnamento di Gesù. Sarebbe ora che l’autorità prendesse atto che il dissenso non è un nemico ma, anzi, un grande amico, anche se può rendere più complesso e faticoso il cammino. Il Concilio Vaticano II mostrava di averlo capito quando scriveva, nella Gaudium et Spes: "La Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano". Ma ben presto, poi, sono prevalsi nuovamente gli atteggiamenti di repressione e condanna verso chi tenta coraggiosamente di alzare la testa. essere credibili
Personalmente non dubito che un magistero ecclesiastico sia necessario e prezioso, ma di quale tipo? Qualsiasi coscienza adulta sa che di fronte a disaccordi e perplessità non avrebbe alcun senso rifiutare l’autorità o ribellarsi tout court: non sarebbe costruttivo. Ma sente però il dovere, prima ancora che il diritto, di chiedergli maggiore credibilità, di esigere che sappia proporre senza imporre, con rispettoso ascolto delle opinioni altrui. Gli ascoltatori di Gesù "rimanevano colpiti dal suo insegnamento", perché "parlava con autorità", e non perché aveva cariche istituzionali. Così il magistero può sperare di essere creduto, dalle coscienze adulte, quando offre messaggi autorevoli e convincenti, e non per il solo fatto di essere l’autorità costituita. Oggi la credibilità dei vertici ecclesiastici, con tutti gli scandali di questi tempi, è fortemente minata, e si potrebbe dire che solo facendo leva surrettiziamente sulla grande fede in Gesù Cristo che continua a sostenere tante persone (malgrado tutto) evita di porsi in caduta libera. Ma fino a quando, se permane la pretesa di continuare a proporsi come magistero di un "docile gregge?".
La parabola della zizzania insegna che la Chiesa è comunione di consensi e dissensi, perciò, per recuperare credibilità, le autorità dovrebbero finalmente prenderne atto e imparare a dialogare con tutti alla pari, e in particolare proprio con il dissenso. Dovrebbero educarsi ed educare ad accoglierlo con l’attenzione che merita. Perché un dissenso respinto e represso a priori diventa facilmente aspro, arrabbiato, distruttivo mentre, se accolto con benevolenza, può diventare costruttivo, benevolo, e perfino affettuoso.
Una buona educazione al dissenso potrebbe diventare la miglior scuola alla formazione di coscienze adulte, capaci di confrontarsi senza acquiescenze o confusioni e censure. Capaci, cioè, di non farsi travolgere da vergognosi intrallazzi di qualsiasi tipo.
Personalmente, cerco, nel mio piccolo, di fare quel che posso. Qualche anno fa l’editrice la meridiana ha pubblicato un mio libro dal titolo "Elogio del dissenso", e per ottobre prossimo ha in programma di pubblicare un mio nuovo saggio dal titolo "I due cristianesimi", scritto per sottolineare le differenze tra il messaggio originale di Cristo e l’imperialismo cristiano, non solo come si è affermato nella storia, ma anche come si manifesta al presente. L’interrogativo è focalizzato sulla speranza nel futuro, mentre le critiche a quanto è stato ed è contrabbandato in nome di Cristo servono solo per capire meglio come si potrebbe uscir fuori dalle tante macrocontraddizioni.
La speranza è irrinunciabilmente legata a una Chiesa delle coscienze adulte, perciò sogno un magistero impegnato a farle crescere senza sottoporle a pressioni psicologiche; un magistero capace d’insegnare a distinguere il bene dal male senza imporre valutazioni precostituite; lieto di aiutare ognuno a diventare adulto e autonomo senza costringerlo a sottomettersi; volto a stimolare una sempre maggiore consapevolezza rinunciando a imposizioni precostituite. Un magistero che affermi i suoi principi senza pretendere di stigmatizzare le opinioni diverse; che proponga la propria verità senza disprezzare le verità altrui. In altre parole, sogno una Chiesa dove sia possibile ricercare, discutere, confrontarsi, camminare assieme.
Sogno un magistero che affermi il patrimonio positivo della fede, libero dalla preoccupazione di puntualizzare il negativo; che sappia offrire gratuitamente l’acqua della vita, senza voler giudicare chi beve; che proponga la verità di Cristo, esortando a non accettarla supinamente; che tracci la strada, ammonendo a non seguirla passivamente; che offra strumenti per imparare a scegliere, a non essere acquiescenti, a non accontentarsi di un cristianesimo mediocre e tiepido. Un Magistero che preferisca circondarsi da persone esigenti, irrequiete, contestatrici, piuttosto che passive, pavide, addormentate. Esso per primo ne trarrebbe grandi benefici: sarebbe il magistero di un popolo adulto, maturo, responsabile.
Etimologicamente la parola obbedienza significa ascolto, e sarebbe ora di educarci tutti a questo tipo di obbedienza reciproca: i fedeli verso l’autorità, ma anche l’autorità verso chiunque appartenga al Popolo di Dio, non importa con quale ruolo. Solo questa obbedienza è autentica virtù. Chissà se San Paolo, quando esortava a sperare contro ogni speranza, si riferiva anche alle utopie!
COSTANTINO: A MILANO UNA MOSTRA CHE MISTIFICA
di Elio Rindone *
La manipolazione della storia non implica la necessità di dire il falso, perché basta evidenziare un dato e tacerne un altro. È quanto accade, mi pare, con l’operazione in corso a Milano con la Mostra che celebra il diciassettesimo centenario della emanazione nel 313 d.C. dell’Editto di Milano da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio.
La mostra, ideata dal Museo Diocesano di Milano, realizzata con la collaborazione dell’Arcidiocesi e dell’Università degli Studi della stessa città, intende esaltare l’imperatore Costantino quale iniziatore di un periodo di libertà religiosa per il rescritto del 313, di cui si riporta l’affermazione centrale: “Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto abbiamo risolto di accordare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”.
Leggendo queste parole, molti saranno d’accordo con quanto dice, a tempi.it, Paolo Biscottini, curatore della mostra e direttore del Museo diocesano: “Ogni individuo non può fare a meno del senso religioso e l’editto di Milano segna l’inizio di una cultura occidentale fondata su una tolleranza intesa come rispetto del senso religioso”. Tesi ribadita in un’intervista alla Radio Vaticana dall’altra curatrice, Gemma Sena Chiesa: “l’Editto di Costantino è per noi un testo fondamentale, perché proclama la libertà del cristianesimo e la libertà di tutte le religioni. Una testimonianza, quindi, estremamente moderna, di un sentimento moderno che oggi noi riteniamo fondamentale: la disponibilità all’incontro con gli altri, con il ‘diverso’, e la tolleranza verso tutti. In mostra abbiamo riportato proprio il pezzo dell’Editto di Costantino che, con parole solenni ed importanti, dà a tutti la libertà di professare liberamente quello in cui credono”.
Peccato, però, che Costantino non si sia limitato ad emanare questo celebre editto ma abbia anche detto e fatto altro, che è necessario ricordare per una valutazione complessiva della sua figura.
Pur conservando il titolo di pontefice massimo, e quindi di suprema autorità dei vari culti dell’impero, egli è convinto, data la crisi del paganesimo pur ancora maggioritario, che solo la religione cristiana sia in grado di svolgere la funzione di collante tra i diversi popoli soggetti al suo potere. Ovviamente preoccupato per le divisioni che sorgono all’interno della grande chiesa, Costantino decide perciò di favorire il superamento delle discordie convocando nel 325 d. C. il concilio di Nicea, che si concluderà con l’approvazione del Credo ancora oggi in uso.
Per facilitare l’approvazione di un testo che garantisca l’unità dottrinale, l’imperatore non esita ad allontanare dall’assemblea conciliare i vescovi dissenzienti e alla fine condanna all’esilio Ario e i due vescovi che, nonostante le pressioni ricevute, rifiutano di sottoscrivere la formula che ormai definisce i confini della fede che per i cattolici è quella ortodossa.
Chiusi i lavori del concilio, Costantino si affretta a comunicare ai suoi sudditi che le tesi sostenute da Ario sono erronee e che, poiché per la salvezza dell’uomo non c’è pericolo maggiore dell’eresia, lo stato deve intervenire con le sue leggi per reprimerla e impedirne la diffusione. Un decreto imperiale stabilisce infatti che “avendo Ario seguito l’esempio di uomini empi e malvagi, merita di subire la stessa pena degli altri. [...] E se qualcuno avesse nascosto un libro scritto da Ario, invece di prenderlo e gettarlo alle fiamme, sia condannato alla pena di morte” (Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica, I, 9).
Ma dato che non avrebbe senso combattere l’arianesimo e lasciare libertà agli altri movimenti condannati dalla grande chiesa, Costantino interverrà ben presto con un nuovo decreto con cui - chiestosi retoricamente “perché dunque dovremmo tollerare oltre tali nefandezze? Una trascuratezza prolungata fa sì che anche i sani siano contagiati da un morbo letale. Dunque per quale motivo non recidiamo al più presto le radici, per così dire, di una tale sciagura con misure di pubblica sicurezza?” (Eusebio, Vita di Costantino, III, 54, 4) - proibirà a Novaziani, Valentiniani e Marcioniti di riunirsi, ordinando di consegnare i loro edifici di culto ai vescovi cattolici.
La definizione conciliare della consustanzialità del Padre e del Figlio induce, inoltre Costantino a lanciare, contro gli ebrei che hanno crocifisso Gesù, l’accusa di deicidio. Nel 325 scrive, infatti, ai cristiani: “Vi esorto a non serbare nulla in comune con l’odiosissima turba giudaica [...]. Ma quale verità potranno mai concepire costoro, i quali, forsennati, dopo avere assassinato il nostro Signore e Padre, vengono ora sospinti, non certo dalla ragione ma da un impeto irrefrenabile, là dove li conduce la loro innata follia?” (Eusebio, Vita di Costantino, III, 17, 30).
Del resto, già qualche anno prima Costantino aveva dimostrato, per usare un eufemismo, la sua scarsa simpatia nei confronti degli ebrei. Nel 321, infatti, aveva emanato un editto, Codex Judaeis, che definiva l’ebraismo “setta abominevole, mortifera”, contrapponendo alla supertistio hebraica la venerabilis religio cristiana. Se questi sono i fatti, mi pare che si possa affermare che la libertà promessa dall’editto di Milano non sia stata estesa proprio a tutte le confessioni religiose e che i curatori della mostra abbiano un po’ lavorato di fantasia parlando di ‘inizio di una cultura occidentale fondata su una tolleranza intesa come rispetto del senso religioso’ (Biscottini) e della libertà data a tutti ‘di professare liberamente quello in cui credono’ (Sena Chiesa).
La mostra milanese sarà certamente un grande successo e ben pochi visitatori avranno la possibilità di rendersi conto della grave mistificazione in atto. Ma quest’iniziativa, anche se posta sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e della Segreteria di Stato vaticana, ha uno sgradevole sapore ideologico e non ha nulla a che fare col rispetto della verità storica. E, se ciò accade oggi, perché non ipotizzare che tra 17 secoli potere politico e religioso, se ci sarà ancora il Vaticano, organizzeranno una mostra che celebri Hitler quale autore di un benemerito concordato con la Chiesa cattolica, lasciando nell’oblio il piccolo dettaglio dello sterminio degli ebrei?
Fonte: www.italialaica.it, 17.11.2012
Pietro andò mai a Roma?
di Andrea Carandini (Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2012)
Dopo aver studiato con metodo storico-religioso la leggenda di Roma, avrei voglia di studiare allo stesso modo la novella di Gesù, nato secondo Matteo e Luca da una vergine e da un dio, come Romolo.
Sia il primo che il secondo insieme di racconti si articolano in varianti, sovente contraddittorie, che non coincidono con le realtà delle due figure, che pertanto non possono essere considerate storiche. Infatti miti ed elaborati simbolici hanno fini diversi dalla storiografia: sono memorie pre-storiografiche. Ciò non esclude che tali narrazioni possano incorporare dati preziosi di natura reale, che fanno ritenere Romolo e Gesù miscugli di leggenda e di storia, in parte inestricabili e in parte comprensibili. Ha quindi poco senso sia tenere questi "bambini" nell’acqua sporca, sia buttarli via con essa.
E come le fonti su eroi e fondatori devono essere considerate alla luce dell’intera letteratura classica, così lettere di apostoli, vangeli e atti devono essere reinseriti nel contesto delle scritture ebraiche. In queste ultime, ad esempio, è possibile trovare tutte le idee teologiche di Gesù, che pertanto gli preesistono, salvo due: che la fine dei tempi coincideva col principato di Tiberio e che il Messia e figlio di Dio era lo stesso Gesù (come ha argomentato di recente Boyarin, in Vangeli ebraici).
Quando Laterza mi ha chiesto di tornare all’Auditorium per parlare di uno straniero a Roma, mi è venuto in mente quel continuatore di Gesù che è stato Simone di Cafarnao, poi chiamato Pietro, primo a estendere l’orizzonte tutto palestinese ed ebraico del Signore fino a raggiungere i "confini della terra", quindi l’Occidente pagano, incentrato su Roma. Roma era la nuova Babilonia che soggiogava Israele, col suo Nerone pari a un Nabucodonosor. Dovevo poi accompagnare il personaggio a un anno, e ho scelto il 64 d.C., quando probabilmente Pietro morì martire, subito dopo l’incendio della capitale.
Ma Pietro ha raggiunto veramente Roma? Qui si confrontano due posizioni, una di critica temperata soprattutto cattolica e una di ipercritica soprattutto protestante. Per la critica temperata Pietro è giunto a Roma, ha svolto una funzione di comando nella comunità giudaico-cristiana - insieme a Paolo - ed è stato martirizzato da Nerone nel suo circo in Vaticano. Le fonti più antiche sull’argomento sono dieci e si datano fra la metà del I e la metà del II secolo d.C. Secondo Tacito, Nerone accusò i Cristiani dell’incendio, per cui li fece sbranare, crocifiggere e ardere in uno spettacolo circense. Per l’ipercritica quelle dieci fonti documentano nient’altro che una falsa leggenda, volta a dare il primato alla chiesa di Roma.
Il mio parere è che sarebbe stato assai arduo inventare, nell’evoluta Roma tra Nerone e Nerva, che il primo apostolo - famosissimo nell’universo giudaico-cristano - fosse stato a Roma quando mai vi aveva messo piede, e ciò solo una generazione dopo i supposti eventi. Per gli ipercritici, Pietro sarebbe morto a Gerusalemme intorno al 55. Ma allora, perché gli Atti non menzionano la scomparsa?
Bisogna ammettere che vi è una lacuna documentaria per Pietro, lunga una decina d’anni, in cui il primo apostolo sembra sparire (gli Atti si interessano soprattutto a Paolo). Ma la documentazione poi riprende, a partire da una lettera di Pietro, inviata da Babilonia (cioè da Roma) alle comunità dell’Asia Minore, in cui si nominano il segretario Sila e Marco, il futuro evangelista, che aveva lasciato Alessandria nel 62, probabilmente per Roma. D’altra parte Gerusalemme era diventato un luogo terribile: in quello stesso anno Giacomo, fratello di Gesù e capo della comunità cristiana, era stato condannato a morte per lapidazione dal Sommo Sacerdote (Giacomo non era un apostolo, come poi Simeone suo successore). Pietro potrebbe quindi essere giunto a Roma intorno al 62 ed essere morto poco dopo l’incendio tra il luglio e il dicembre del 64.
Dalla religiosità interstiziale e marginale di Cristo, volta a restaurare e portare a compimento quella tradizionale ebraica, alla religiosità di Pietro e di Paolo che raggiunge Antiochia, Efeso. Corinto e Roma - Paolo finirà anche in Spagna - il passo è grande. I greci e i romani convertiti cercavano di ridurre al minimo i rigidi rituali ebraici, a partire dalla circoncisione, per cui una variante della religione ebraica si stava trasformando, gradualmente, in una religione universale a sé stante. La Palestina e la sua cultura sfumavano così sullo sfondo e il cristianesimo germogliava in ambienti ellenistici e romani, entro un ambito culturale ben più vasto. Costantino, che si riteneva episkopos di coloro che erano fuori dalla Chiesa e uguale agli apostoli, indisse il Concilio di Nicea anche per separare la Pasqua degli ebrei da quella dei cristiani. Fece di una religione che ambiva all’universo la religione dello stesso impero, e alla fine del IV secolo il paganesimo venne ufficialmente soppresso. Prima Pietro con Paolo e poi Costantino e i suoi successori cominciarono e portarono a termine una rivoluzione culturale di dimensioni colossali.
Si era così passati da Cafarnao in Galilea, dove scavi archeologici hanno scoperto la casa in cui Pietro ospitò Gesù, a Gerusalemme, dove Costantino riscoprì, grazie a uno scavo condotto dalla madre Elena, il Santo Sepolcro, alla Roma-Babilonia di Pietro, fino alla Roma nuova Gerusalemme di Costantino (Jerusalem si chiamava la basilica voluta da Elena nella dimora imperiale dell’Esquilino, che custodiva una reliquia della croce). Sempre a Roma Costantino valorizzò le tombe di Pietro e Paolo, incentrando su di esse due basiliche (quella di Paolo era grande un sesto rispetto a quella di Pietro).
La tomba con edicola di Pietro, datata al 150-160 d.C. circa - una delle fonti principali, scoperta da scavi degli anni ’40 e ’50 - fu racchiusa da questo imperatore in una teca marmorea che spiccava sotto il ciborio a colonne tortili della basilica (per questo anche le colonne del Bernini dovranno essere tortili). L’importanza della Roma cristiana si fondava dunque principalmente sulle tombe di Pietro e di Paolo considerate "trofei" di quei martiri. La città era seconda solamente a Gerusalemme, che disponeva del Santo Sepolcro. Quando Costantino si fece seppellire a Costantinopoli tra le tombe dei dodici apostoli, raccogliendo reliquie in giro per il mondo, la vecchia capitale era stata superata dalla nuova.