“Troppi cammelli così la Bibbia è stata riscritta”
L’animale viene citato diverse volte nella Genesi, ma fu introdotto in Terrasanta solo centinaia di anni dopo
La scoperta di un team di archeologi rafforza l’ipotesi che l’Antico Testamento sia stato “corretto” nei secoli
di Fabio Scuto (la Repubblica, 13.02.2014)
Gerusalemme. Percorrere le strade della Terrasanta con le Sacre Scritture in mano cercando riferimenti geografici e tracce degli elementi che ne hanno fatto il crogiuolo delle tre grandi religioni monoteiste, rischia di essere una grande delusione. Per questo storici e ricercatori che operano in questa terra si muovono con grande cautela.
Adesso grazie alla datazione con il carbonio 14, una ricerca di due archeologi israeliani della Tel Aviv University è in grado di dimostrare che nella Bibbia, ci sono troppi riferimenti ai cammelli in un’epoca in cui questo animale, era forse presente in Terrasanta, ma certamente non era addomesticato, anzi era ancora cacciato per le sue carni e l’uso del pellame.
Secondo la ricerca dei professori Erez Ben-Yosef e Lidar Sapir-Hen - riportata da Haaretz - che hanno a lungo effettuato scavi nella valle di Arava (sud di Israele) e in Giordania, si dimostra che i cammelli probabilmente fecero la loro comparsa più di 300 anni dopo di quanto si sia ritenuto finora, quindi molto tempo dopo i regni di Davide e Salomone e che nella vita dei primi Patriarchi ebrei come Abramo, Giacobbe e Giuseppe, questi animali avevano poca o nessuna importanza.
Ma nella Bibbia i cammelli sono ampiamente citati: nella Genesi 24 si racconta di un servo di Abramo che a dorso di cammello parte peruna missione destinata a trovare una moglie per Isacco, oppure (Genesi, 32) Giacobbe invia come doni a suo fratello Esaù «insieme a duecento capre e venti caproni, trenta cammelle da latte con i loro piccoli».
La menzione dei cammelli nella Genesi è un anacronismo ben noto all’archeologia. Si tratta per lo stesso motivo di una delle prove giudicate decisive per dimostrare che la Bibbia è stata scritta, o corretta, centinaia di anni dopo gli eventi che narra. Tutte le prove archeologiche raccolte a Arava e Wadi Finan in Giordania rafforzano la teoria che il cammello non venne addomesticato in questa regione fino al 930 aC.
Stando allo studio della Tel Aviv University le ossa di cammello più antiche finora trovate in Israele sono quelle rinvenute nei pressi delle miniere di rame di Timna, che si trova poco a nord dell’odierna Eilat, sul Mar Rosso, e risalgono all’ultimo terzo del 10° secolo aC., quindi secoli dopo la vita dei Patriarchi e decenni dopo il Regno di Davide.
Gli egiziani, dopo la campagna militare del Faraone Shoshenq I, presero il controllo di queste miniere ed è probabilmente allora che il cammello - addomesticato secoli prima ma fuori dalla Penisola Araba - venne introdotto come bestia da soma.
«L’introduzione del cammello nella nostra regione ha costituito un importante sviluppo economico e sociale», ha spiegato Ben-Yosef che ha guidato gli scavi a Timna per anni, «ed è stato grazie al cammello che si è potuto commerciare con l’India e l’Arabia. Muli e asini non ce l’avrebbero fatta a sopportare la traversata del deserto, il cammello ha accelerato lo sviluppo di queste rotte commerciali che iniziano ad essere praticate infatti nel IX° secolo aC. E sono proseguite per più di 1.500 anni».
La verità dagli scavi: “I grandi eventi narrati dalle Scritture non sono reali”
Da Gerico a Re Salomone la Bibbia smentita dagli archeologi israeliani
di Vanna Vannuccini (la Repubblica, 29.04.2014)
GERUSALEMME. CHI ha distrutto le mura di Gerico? Oggi molti in Israele direbbero che sono gli archeologi ad averle distrutte, o quanto meno “decostruite”. Perché tutto quello che emerge dal lavoro scientifico degli archeologi israeliani che scavano e hanno scavato per decenni i siti delle Sacre Scritture è radicalmente diverso da ciò che racconta la Bibbia sulla storia del popolo ebraico. Così ad esempio non furono i sacerdoti israeliti a fare, come si legge nel Libro di Giosuè, sette giri intorno alle mura per sette giorni e a far crollare le mura dando fiato alle loro trombe di corno. Semplicemente perché le mura non c’erano. Le città di Canaan non erano «grandi», come si legge nella Bibbia, non erano fortificate, non avevano mura «che si levavano alte fino al cielo».
«E perciò l’eroismo dei conquistatori, che erano pochi contro i tanti canaaniti ma erano sorretti dall’aiuto di Dio che combatteva per la sua gente, non è che una ricostruzione teologica priva di qualsiasi base fattuale», dice l’archeologo Zeev Herzog, uno dei più noti professori alla Facoltà di archeologia di Tel Aviv. «Ormai tutti questi risultati scientifici sono acquisiti, e la grande maggioranza degli studiosi nei campi che vanno dall’archeologia agli studi biblici e alla storia nel popolo ebraico concorda che gli eventi narrati dalla Bibbia non sono fatti storici. Sono leggende, come per voi quella di Romolo e Remo. Si tratta di una vera e propria rivoluzione scientifica ».
A lungo l’archeologia in Israele era servita a provare quello che scrive la Bibbia. Anzi, dopo che nell’800 la scuola tedesca di Julius Wellhausen aveva negato la verità storica della Bibbia, sostenendo che tutta la storia da Abramo e Isacco fino alla conquista della terra da parte delle tribù degli Israeliti era una ricostruzione successiva, motivata da scopi teologici, la spinta alla ricerca per provare il contrario divenne frenetica.
I primi a scavare, soprattutto a Gerico e a Nablus, furono i ricercatori biblici che cercavano i resti delle città menzionate nelle Sacre Scritture. Come l’americano padre Albright negli anni 20. I sionisti adottarono con entusiasmo l’approccio biblico e cominciarono a scavare i siti dell’età dei Patriarchi e le città canaanite distrutte. Secondo la Bibbia infatti gli israeliti avevano attraversato il Giordano a Bet Shan e Gerico e di lì erano penetrati nella Terra d’Israele conquistandola ai canaaniti.
«L’archeologia diventò un vero e proprio hobby nazionale negli anni 50 e 60», dice Herzog. «Le nazioni nuove trovano un sostegno nell’archeologia per rafforzare la coesione nazionale, rifondare la nazione. E i figli degli immigrati avevano bisogno di relazionarsi con la terra. Diventò una passione collettiva, per questo io stesso sono diventato archeologo ».
«Così abbiamo scavato e scavato. Ma lentamente sono cominciate ad apparire le prime contraddizioni. E alla fine tutti questi scavi ci hanno rivelato che gli israeliti non erano mai stati in Egitto, non avevano mai vagato nel deserto, né avevano conquistato militarmente la terra per poi consegnarla alle Dodici tribù d’Israele. Nessuno degli eventi centrali della storia degli israeliti veniva corroborato da quello che trovavamo. Nei tanti documenti egiziani per esempio non c’è traccia dell’esodo, vi si parla invece dell’abitudine di pastori nomadi di entrare in Egitto nei periodi di siccità e accamparsi sulle rive del Nilo. Al massimo l’esodo può aver riguardato qualche famiglia, la cui storia era stata poi allargata e ‘nazionalizzata’ per ragioni teologiche ».
Una rivoluzione così clamorosa è difficile da far penetrare nella consapevolezza generale, dice il professore. Di tutte le contraddizioni con il racconto biblico quella più difficile da digerire, per chi ha sempre creduto che la Bibbia sia un documento storico, è che il grande Regno di Davide e Salomone, che le Scritture descrivono come il culmine della potenza politica, militare ed economica del popolo d’Israele, un regno che secondo il Libro dei Re si estendeva dalle rive dell’Eufrate fino a Gaza, sia, come dice Herzog, «una costruzione storiografica immaginaria ».
«La grandezza del regno di Davide e di Salomone è epica, non storica. Forse la prova ultima è che di questo regno non abbiamo mai conosciuto il nome», dice Herzog. «Gerusalemme, per esempio, è stata quasi tutta scavata. E gli scavi hanno dato una quantità impressionante di materiali dei periodi precedenti e successivi al Regno unito di Davide e Salomone. Di quel periodo invece non è stato trovato nulla, tranne qualche pezzetto di coccio. Quindi non è che non abbiamo trovato nulla perché magari abbiamo scavato nel posto sbagliato. Abbiamo trovato una quantità di materiale che ci dimostra come al tempo di Davide e Salomone Gerusalemme non fosse che un grosso villaggio, dove non c’era né un tempio centrale né un palazzo reale. Davide e Salomone erano capi di regni tribali che controllavano piccole aree, David a Hebron e Salomone a Gerusalemme. Contemporaneamente si era formato sulle colline della Samaria un regno separato. Israele e Samaria sono stati dall’inizio due regni separati e a volte avversari».
Non cercate la Storia leggendo la Bibbia
di Guido Ceronetti (la Repubblica, 29.05.2014)
UN MIO carissimo amico, Gino Girolomoni, perso pochi anni fa, creatore del marchio Alce Nero (oggi Coop), rifondatore di un antico monastero tra le Cesane di Urbino, adattato ad abitazione e agriturismo, ad ogni primavera, all’incirca nel mese di Aviv, andava nel Néghev di Israele, a vivere in tenda e a raccogliere cocci di anonimi insediamenti umani insieme alla missione archeologica di Emanuele Anati, italiana, e non so quanto ben vista dai colleghi israeliani.
L’idea fissa di Anati, adottata con entusiasmo da Girolomoni, era che in quel luogo, detto Har Harkòm, fosse da collocare il cuore geografico e mistico della rivelazione biblica: il vero Sinai, la collina in cui Mosè parlava con Dio, da cui discese con le tavole della primitiva Legge, dove il popolo dell’Esodo accampato si faceva il fuoco per arrostire cavallette grosse come pagnottine. Per Gino e Anati il lavoro scientifico era il sostegno obbligato e la prova certa del racconto scritturale dell’Esodo. Facendo vitaccia per qualche settimana nel deserto, col pensiero che in quei sassi, sabbie, reperti millenari c’era il ricordo di un contatto ineffabile tra uomo e divinità.
NON solo presentita, ma presente come autonominarsi di tutto ciò che è Essere (il Tetragramma del Sinai è una torsione impronunciabile del verbo essere stesso), Gino era felice. Accidenti, vi sembra poco? Io annuivo, non gli opponevo il mio scetticismo: lo sapevo, lo so a sazietà che fuori della pura illusione è inutile cercare la felicità, e quando soffiamo su un’illusione (nella scuola la sega elettrica antillusioni è al lavoro per tutto l’orario, e poi non lamentiamoci) reiteriamo un delitto. Tuttavia avrei voluto dirgli: è in te che Dio si nasconde, nelle pietraie del Néghev non lo troverai.
Spinoza, per amore dell’ arido vero ( meglio: per la sua caccia all’Essere fin nei costrutti grammaticali) subì la maledizione della Sinagoga, visse da reietto, un fanatico tentò di ucciderlo. Ma comincia da lui, a metà Seicento, il lungo, fatato, e a rischio di roghi, cammino della filologia biblica critica, una delle grandi avventure umane.
Ho camminato per una cinquantina d’anni lungo le vie segnate, come chiodi di alpinisti nelle pareti di roccia, da quei prodigiosi semitologi, che hanno decifrato il cuneiforme, rintracciato l’ugaritico, riparato infiniti errori testuali, scoperto fonti, liberato la Scrittura dai grovigli di scrupoli e trucchi massoretici - ma, di generazione in generazione, da un secolo all’altro, finirà che di parola sacra, di lingua profetante, non ne resterà più niente. Perché demolire sacro per risacralizzarlo nella verità è un conto: demolire per non lasciare che il deserto, un altro. E sul versante archeologico, a quanto pare, il deserto si è allargato molto. Il titolo, vistoso e illustrato, sulla Repubblica del 29 aprile scorso, mi ha fatto sussultare; diceva, categorico: “Da Gerico a Re Salomone la Bibbia smentita dagli archeologi israeliani”. Non c’è da goderne affatto.
La decostruzione veterotestamentaria, come la chiama Vanna Vannuccini, in realtà può essere fatta cominciare da Abramo, altro bel tipo di nomade, dalle lenticchie di Esaù, dalla capanna di Caino e altri Har Harkòm Girolomoni ignoti a Wellhausen.
A rigore, cancellando tutto, in base a quanto dice il prof. Herzog dell’Università Ebraica, neppure il nome Israele è legittimo. Il nome presuppone che sia vero o creduto vero lo scontro fisico violentissimo narrato nel trentaduesimo Genesi tra il nomade Giacobbe e uno Sconosciuto che si palesa essere ben più di un angelo, addirittura Dio stesso. Lo sconosciuto, dopo un Catch senza testimoni che dura una intera notte, dice all’intrepido antagonista: «Da oggi in poi ti chiamerai Israele!» e lo azzoppa con un colpo nel nervo sciatico. Sparito, non ricomparirà.
Israel significa “uno che lotta con Dio”, ed è la caratteristica eterna di Israele: la non rassegnazione, la polemica, il contrasto con la Divinità ignota, che lo rende zoppo tra le nazioni, forzato a essere diverso e maltollerato, fino e oltre la Shoàh, sempre. Israele, come realtà simbolica, è metareligioso e metastorico.
La nostra, mi diceva il rabbino che mi impartiva ebraico, è una fede che nessuno capisce. E un filologo tedesco si domandava: come può, una parola così povera, che nega ogni cultura, produrre la più alta cultura? Mentre gli archeologi israeliani concludono con la negazione radicale della storia biblica, in specie dell’Esodo e del regno davidico (spero non tutti, a Gerusalemme, concordino col negazionismo dell’intervistato), la verità simbolica di quelle storie mute agli scavatori vola aldisopra di tutte le storie del mondo, marcando a fuoco la vicenda di Israele.
Se l’archeologo mi avverte, davanti al Muro Occidentale (celebre nelle nostre lingue come Muro del Pianto) che tutte quelle lacrime di mezzo mondo, preghiere, talismani non valgono un fico perché quel muraglione superstite, creduto avanzo del Secondo Tempio, su cui gettò la torcia incendiaria il legionario romano nel 70 e. v., non è che una pia ipotesi senza fondamento, certamente io caccio via il dotto come un tafano molesto.
L’identità ebraica è un valore costruito da qualche millennio; l’identità israeliana, nata ebraica tra Vienna e Londra un po’ più di cento anni fa, salutata messianica nel giugno 1967, dalla guerra permanente è tenuta in vita: nella pace che tutti si augurano si perderebbe.