Elezioni Usa 2020, Joe Biden conquista la Pennsylvania ed è presidente
Secondo le proiezioni di Cnn. Biden è presidente eletto anche secondo l’Associated Press e Nbc.
di Redazione ANSA (07 novembre 2020) *
Joe Biden (IL PROFILO) conquista la Pennsylvania ed è il 46mo presidente degli Stati Uniti, secondo le proiezioni di Cnn. Joe Biden è presidente eletto anche secondo l’Associated Press e Nbc. Kamala Harris entra nella storia: è la prima vicepresidente donna della storia americana.
"Il lavoro davanti a noi sarà difficile ma vi prometto questo: sarò il presidente di tutti gli americani", ha twittato Biden. "Sono onorato che gli americani mi abbiano scelto come loro presidente".
Fox ancora non chiama la vittoria di Joe Biden. Il network di Rupert Murdoch non proietta la vittoria di Biden in Pennsylvania e quindi non è ancora in grado di proiettare quella di Biden alla Casa Bianca.
Da New York a Washington esplode l’entusiasmo in strada per la vittoria di Joe Biden. I clacson a tutto spiano festeggiano il 46mo presidente americano fra le grida di gioia dei passanti sui marciapiedi.
"La vittoria di Biden è una bella notizia". Così il ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, apprendendo che è stata ufficializzata la vittoria di Joe Biden nelle elezioni Usa.
Il conteggio delle schede elettorali riparte in Pennsylvania dopo la pausa della notte. Lo Stato è chiave nella corsa alla Casa Bianca e non è ancora stato assegnato. Joe Biden continua ad allungare in Pennsylvania, dove è avanti di quasi 29.000 voti, per l’esattezza 28.883. L’ex vicepresidente è al 49,6%, Donald Trump al 49,1%. La legge dello Stato prevede un nuova conta nel caso in cui il margine di scarto fra i due candidati sia inferiore allo 0,5% dei voti totali. Ma Donald Trump non ci sta e accusa ancora una volta via twitter: "Decine di migliaia di voti illegali sono stati ricevuti dopo le ore 20 dell’Election Day, cambiando i risultati in Pennsylvania e in altri Stati". A chi era chiamato a monitorare i voti non è stato consentito di farlo per decine di migliaia di schede. "Questo potrebbe cambiare il risultato in molti Stati, inclusa la Pennsylvania, che tutti pensavamo fosse stata vinta facilmente per poi vedere il vantaggio sparire senza poter monitorare per lunghi intervalli temporali cosa stava accadendo" nei seggi. "Durante quelle ore qualcosa di brutto è accaduto. Le porte sono state bloccate e le finestre sono state coperte in modo che chi doveva monitorare non ha potuto farlo". "Non c’è alcuna prova che ci siano stati brogli" o "voti illegali" alle elezioni americane. Lo afferma Ellen Weintraub, componente della Commissione elettorale federale, alla Cnn. Weintraub ha parlato di "pochissime denunce" di eventuali scorrettezze, ma nessuna di queste suffragata da prove.
"Ho vinto queste elezioni, e di molto", sostiene il tycoon.
"Non c’è alcuna prova che ci siano stati brogli" o "voti illegali" alle elezioni americane. Lo afferma Ellen Weintraub, componente della Commissione elettorale federale, alla Cnn. Weintraub ha parlato di "pochissime denunce" di eventuali scorrettezze, ma nessuna di queste suffragata da prove.
Joe Biden ha ormai la vittoria in tasca e si avvia ad essere il 46mo presidente degli Stati Uniti. Avanti in Pennsylvania e Georgia con un sorpasso in volata su Donald Trump, ma vicino anche alla conquista del Nevada e dell’Arizona, tutti gli ostacoli sulla strada della Casa Bianca, salvo clamorosi colpi di scena, sono superati. Ma "Joe Biden - attacca Trump - non dovrebbe reclamare l’incarico di presidente, sarebbe sbagliato. Anch’io potrei farlo. Le azioni legali sono appena iniziate".
E se per il presidente ancora in carica "non è finita" e tutto verrà ribaltato dalla Corte Suprema, attorno a lui tira aria di resa. "Se si contano solo i voti legali vinco facilmente", ha detto Trump parlando in diretta tv alla nazione e rompendo un inusuale silenzio durato 36 ore, dalla notte dell’Election Day. Ma il suo viso diceva tutto, e dalla sua espressione trapelava una rassegnazione e una stanchezza mai viste.
Risentendo le sue parole, più che suonare come una minaccia hanno il sapore di una sconfitta ormai inevitabile. Del resto, con il conteggio dei voti ancora in corso in cinque Stati chiave, il colpo del ko in grado di mettere definitivamente al tappeto il presidente in carica è arrivato proprio dalla Pennsylvania, quella che nel 2016 Trump strappò clamorosamente a Hillary Clinton. Una Pennsylvania che quattro anni dopo ha voltato le spalle a The Donald e riabbracciato uno dei suoi figli, il vecchio Joe, nato a Scranton ben 77 anni fa.
Ma espugnare la roccaforte repubblicana della Georgia è stato il vero miracolo di Biden, un’impresa che non riuscì nemmeno a Barack Obama con le sue vittorie a valanga del 2008 e del 2012.
Dalla lunga notte elettorale ai commenti dei due protagonisti della corsa alla Casa Bianca - FOTO E VIDEO
"Gli americani meritano una totale trasparenza" sul voto: "perseguiremo ogni via legale". Lo afferma Donald Trump in un comunicato diffuso dalla sua campagna elettorale.
"E’ chiaro che il ticket Biden-Harris vincerà la Casa Bianca". Lo afferma la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, riferendosi a Joe Biden come al ’presidente eletto’. "Non abbiamo vinto tutte le battaglie alla Camera, ma abbiamo vinto la guerra", aggiunge.
"Le elezioni non sono finite. La falsa proiezione di Joe Biden come vincitore è basata sui risultati in quattro Stati che non sono ancora definitivi". Lo afferma la campagna di Donald Trump. "Il presidente Trump sarà rieletto", aggiunge.
"Gli americani decideranno questa elezione. Il governo americano è perfettamente capace di scortare gli intrusi fuori dalla Casa Bianca", afferma la campagna di Joe Biden replicando alle indiscrezioni relative al fatto che Donald Trump non intende concedere la vittoria all’ex vicepresidente. La costituzione americana in ogni caso non prevede l’obbligo di concessione.
*Ansa (ripresa parziale - per ulteriori aggiornamenti, cliccare sul rosso)..
Joe Biden presidente, ritratto di Jill Jacobs: la nuova first lady è un’insegnante di origini italiane *
"Quando ero piccola passavamo tutte le domeniche dai miei nonni. Mangiavamo spaghetti e polpette e la casa profumava di basilico e pomodori". Parole e ricordi di Jill Biden, moglie del 46esimo presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Insegnante di inglese, Jill ha origini italiane: suo nonno paterno infatti era siciliano. Il suo cognome, Giacoppa, fu anglicizzato in ’Jacobs’ al suo arrivo a Ellis Island, nello stato di New York.
* la Repubblica, 21 agosto 2020 (ripresa parziale).
Biden bombardante dà il benvenuto al papa in Iraq
E’ tornata l’America. E non ci si può nascondere che Biden è l’emblema di alcuni dei fallimenti internazionali dei democratici negli anni di Obama, di Hillary Clinton e di Kerry («mister clima»), anni in cui lui era un vicepresidente noto soprattutto per le gaffe.
di Alberto Negri, Tommaso Di Francesco (il manifesto, 27.02.2021)
Certo che il mondo è strano. La «speranza democratica», il cattolico Joe Biden, esattamente come Donald Trump, mette mano alla pistola e bombarda la Siria, proprio alla vigilia della visita del papa in Iraq del 5 marzo. Un viaggio durante il quale papa Francesco dovrebbe incontrare anche la massima autorità religiosa irachena, il Grande Ayatollah Alì Sistani, che nel 2014 aveva dato la sua benedizione alla milizie sciite per condurre la lotta contro i tagliagole dell’Isis e che furono essenziali nella liberazione di Mosul, città martire musulmana e cristiana che il papa dovrebbe visitare tra qualche giorno nella sua missione irachena.
Ora i raid Usa rischiano di «consigliare» se non ammonire in modo pesante che lì il clima non deve essere proprio di pace. Il mondo è strano davvero: l’agenda non dovrebbe essere la guerra ma l’emergenza sanitaria sul covid 19. E poi Biden non ha ancora fatto i conti con il disastro della democrazia americana assaltata dai «terroristi interni» - così li ha definti lui - che hanno fatto scempio del Congresso, che già ricomincia a scaricare la crisi interna «esportando» con le armi la democrazia.
Stavolta Biden colpisce un po’ a casaccio, pur facendo oltre venti morti tra le milizie filo-sciite, quelle che hanno comunque sostenuto Assad e il governo iracheno a sconfiggere un Califfato, che per altro è ancora pericolosamente in azione ai confini tra Siria e Iraq. L’anno scorso era Trump a colpire in Medio Oriente uccidendo il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad, ora è Biden: ma potevamo aspettarcelo da un presidente che nel 2003 votò per l’attacco di Bush junior all’Iraq .
È un tipo contraddittorio Biden. Da una parte vorrebbe riprendere le trattative con Teheran sull’accordo nucleare del 2015 voluto da Obama e cancellato da Trump nel 2018, ma allo stesso tempo bombarda gli alleati dell’Iran colpevoli secondo gli americani di avere colpito la base Usa in Iraq e l’aereoporto di Erbil e nel Kurdistan iracheno. Naturalmente tutto avviene senza lo straccio di una prova. Ma anche questo fa parte del «doppio standard» mediorientale: americani e israeliani non devono dimostrare nulla, quello che fanno è sempre tutto giusto.
Meno male che Biden si è presentato agli europei come il campione del multilateralismo e dei diritti umani scagliandosi contro Russia e Cina: con queste premesse come minimo dovrebbe accoppare con un drone anche il principe saudita Mohammed bin Salman visto che secondo la Cia è il mandante dell’assassinio del giornalista Khashoggi. E mentre si aspetta - ma arriverà davvero? - il rapporto della Cia che lo prova, si ha notizia di una telefonata notturna «ammorbidente» di Biden a re Salman sui crimini del figlio erede.
In realtà sulle vacillanti buone intenzioni di Biden pesa il Patto di Abramo tra Israele le monarchie del Golfo, cui anche il nuovo presidente come Trump tiene tanto. E non ci si può nascondere che Biden è l’emblema di alcuni dei fallimenti internazionali dei democratici negli anni di Obama, di Hillary Clinton e di Kerry («mister clima»), anni in cui lui era un vicepresidente noto soprattutto per le gaffe.
La prova vivente di questi fallimenti è proprio il suo braccio armato, il generale Lloyd J. Austin, l’attuale capo del Pentagono che ieri si è detto fiducioso «di avere fatto la cosa giusta colpendo le milizie sciite» che negano ogni coinvolgimento negli strikes in Iraq. Davanti al Senato nel 2015 il generale Austin, allora comandante del Centcom, il comando militare del Medio Oriente, ammise di avere speso 500 milioni di dollari per addestrare e armare solo qualche dozzina di miliziani siriani sui 15mila previsti per combattere l’Isis - Isis che si appropriò di tutto quel prezioso armamento Usa.
Austin testimoniò inoltre che in Giordania era stato avviato il piano Timber Sycamore per sbalzare dal potere Assad da 1 miliardo di dollari gestito dalla Cia, poi decimato dai bombardamenti russi e cancellato a metà del 2017.
Il generale Austin sollevò l’irritazione e l’ilarità degli americani nello scoprire una serie di fallimenti spaventosi degni di una repubblica delle banane. Ma c’è poco da ridere pensando a tutti i disastri combinati dagli Usa nella regione. Per esempio la decisione del ritiro del contingente americano dall’Iraq: dopo avere distrutto un Paese con i bombardamenti e l’invasione del 2003 per abbattere Saddam Hussein - provocando la fuga di milioni di esseri umani -, sulla scorta delle menzogne sulle armi di distruzione di massa irachene, lo abbandonò al suo destino ben sapendo che non aveva i mezzi per stare in piedi da solo. Austin assecondò la politica di Obama e della Clinton.
Nel 2014 l’Iraq venne travolto dall’ascesa del Califfato che dopo avere occupato Mosul, seconda città del Paese, stava per prendere pure Baghdad: l’esercito iracheno era allo sbando e fu il generale iraniano Qassem Soleimani, con le milizie sciite, a salvare la capitale. E Soleimani è stato ucciso da un drone americano a Baghdad. Ancora peggio fu quello che accadde in Siria dopo la rivolta del 2011 contro Assad. La guerra civile si trasformò presto in una guerra per procura e gli Stati uniti, guidati da HIllary Clinton, diedero via libera a Erdogan e alle monarchie del Golfo tra cui il Qatar per appoggiare ribelli e jihadisti che avrebbero dovuto abbattere il regime.
Come è andata a finire è noto: i jihadisti invasero la Siria e poi ispirarono attentati in tutta Europa mentre Assad è ancora al suo posto con il sostegno dell’Iran e soprattutto della Russia di Putin entrata in guerra il 30 settembre del 2015 bombardando le regioni di Homs e Hama. Poche ore prima Obama apriva al ruolo di Putin in Siria incontrandolo a margine dell’assemblea generale Onu a New York.
In questa storia fallimentare Biden ha avuto un ruolo anche se non di primo piano: e oggi in Siria fa il pistolero accogliendo il papa con un rumoroso «benvenuto in Medio oriente».
Usa, la trappola di Joe Biden per la sinistra democratica: squadra "diversa" ma moderata
Donne, neri, ispanici, indiani, gay: il "manuale Cencelli" del presidente Usa soddisfa le richieste del "politically correct", ma avvia la nuova amministrazione su una strada centrista e caratterizzata da persone parte dell’establishment
dal nostro corrispondente Federico Rampini (la Repubblica, 25 Gennaio 2021)
NEW YORK. Joe Biden ha incassato al Senato le prime conferme della sua squadra, le caselle si riempiono una dopo l’altra. Il nuovo esecutivo ha due volti: quello appariscente e quello più discreto. Alla superficie è un trionfo della “diversità”: etnica, sessuale, generazionale. Una foto di gruppo coloratissima, che si differenzia nettamente dal governo di Donald Trump. Dietro le apparenze che soddisfano tutte le regole della sinistra politically correct, la squadra Biden è segnata dal predominio dei moderati, centristi, appartenenti all’establishment, all’élite tradizionale. Soprattutto nei posti di comando più delicati per la politica estera, la sicurezza nazionale, l’economia.
La squadra del presidente Usa
Il manuale Cencelli
Biden ha scelto la prima donna alla guida del Tesoro, il primo afroamericano al dicastero della Difesa, il primo ispanico al superministero delle polizie e dell’immigrazione, la prima “nativa-americana” (indiana d’America) a gestire le risorse forestali e riserve naturali. Ha usato la sua versione del “manuale Cencelli”, come veniva chiamato nella Prima Repubblica italiana il dosaggio delle cariche pubbliche fra i partiti di governo o le correnti di partito.
Ma le apparenze ingannano. Dietro il politically correct spunta l’establishment, per ora il vero vincitore. Malgrado alcune nomine a effetto e la netta diversificazione sia femminile sia etnica, si tratta di un esecutivo moderato. La scusa ufficiale è che il Senato a maggioranza repubblicana non ratificherebbe nomine di personaggi troppo radicali. La verità è che questo corrisponde al "vero" Biden. I malumori a sinistra ci sono. L’ala più radicale del partito prima ha provato a contestare il Cencelli di Biden: prevede ancora troppi maschi bianchi anziani, non sono mai abbastanza le donne, i neri, le altre minoranze.
Ma su quel terreno Biden ha finito per zittire molte critiche perché il tasso d’innovazione della sua squadra è davvero elevato: Janet Yellen farà storia al Tesoro, e insieme a lei altre donne occuperanno le cariche economiche più importanti; un’altra donna, e afroamericana, Susan Rice, avrà le redini di tutte le politiche domestiche di questa Amministrazione; anche Lloyd Austin segnerà un primato alla guida del Pentagono; idem per Xavier Becerra alla Homeland Security e Deb Haaland della tribù Pueblo of Laguna al ministero dell’Interno; senza dimenticare Pete Buttigieg, sposato con un uomo, ai Trasporti.
L’agenda politica identitaria
Ma a furia di perseguire un’agenda politica “identitaria”, l’ala sinistra è finita nella trappola di Biden. Il quale ha manovrato il suo Cencelli in modo da avere tutti gli alibi, e una foto di gruppo ineccepibile, salvo che su un punto: la linea politica. Non c’è l’ombra in questo esecutivo di seguaci di Bernie Sanders o Elizabeth Warren, di #MeToo o di BlackLivesMatter. Ci sono ambientalisti, a cominciare da John Kerry che sarà il super-ambasciatore degli Stati Uniti per la lotta al cambiamento climatico, ma più establishment di Kerry si muore: ex-segretario di Stato, ex-candidato alla Casa Bianca (sfidò George W. Bush nel 2004, perdendo), sposato con la miliardaria erede dell’impero Heinz.
Anche nomi meno noti, ma cruciali per l’influenza che avranno alla Casa Bianca - il chief of staff Ron Klain, il segretario di Stato Anthony Blinken - sono puri prodotti dell’establishment democratico. Tutti rigorosamente moderati, centristi, talvolta obamiani o clintoniani, più spesso compagni di strada di Biden da molti anni. Così come moderata e centrista è Kamala Harris, la vicepresidente. Donna di colore, sì, ma un falco dell’ordine pubblico quando fu ministro di Giustizia della California.
Joe il cattolico nel paese dilaniato
di Ettore Bucci (Jacobin, 22 Gennaio 2021)
Obama poteva tradurre in ottimismo liberale le aspirazioni degli afrodiscendenti. Invece, analizzando la sua cerimonia di insediamento, si capisce che Biden adopera lemmi religiosi per addomesticare conflitti irrisolvibili
Il rapporto tra ritualità politica, retorica pubblica e fede negli Stati uniti è studiato da anni, da diversi punti di vista e canali interpretativi. Sin dal sermone A Model of Christian Charity di John Winthrop (1630), con una prevalenza di concetti desunti dalla Bibbia e dalle confessioni cristiane, il discorso pubblico negli States trova nella fede forme di legittimazione e strumenti di lotta. Solo in ambito cattolico, su fede, pluralismo costituzionale e politica è recentissima la nuova edizione del saggio del 1960 del gesuita John Courtney Murray, We Hold These Truths (con nota introduttiva di Stefano Ceccanti, edito Morcelliana), pubblicato durante la campagna di John F. Kennedy, in pieno pontificato giovanneo.
Questo contributo indaga su parole e simboli di sicura o soffusa matrice cattolica che hanno segnato l’Inauguration Day del presidente Joseph R. Biden jr, ricavando, da questi, possibili condotte. Sul rapporto tra il Presidente, i cui slogan più diffusi sono stati i significativi Keep the Faith! e Battle for the Soul of the Nation, e la fede cattolica segnaliamo Joe Biden and Catholicism in the United States di Massimo Faggioli, edito da Bayard. Senza sovradimensionare un uso non inedito del religioso nella ritualità politica americana rispetto a scelte economiche o a programmi della Casa Bianca, la tesi di fondo è che determinati messaggi e linee di tendenza siano veicolati dall’Inauguration Day in preghiere, gesti, riferimenti. Inserimenti di atti religiosi nell’insediamento del Capo di Stato sono il prodotto di prassi sedimentate nel Novecento: dal 1933, a eccezione di Nixon, il President-elect partecipa a un Morning Worship Service privato secondo il rito della sua Chiesa; all’insediamento, dal 1937 in poi, uno o più ministri proclamano pubblicamente un’articolata invocazione a beneficio del nuovo Presidente; lo stesso giorno o in quelli immediatamente successivi, dal 1977 c’è un Public Prayer Service interconfessionale.
Gli eventi storici usati come riferimenti legittimanti sono la partecipazione di George Washington e dei congressmen alla messa celebrata il 30 aprile 1789 dall’arcivescovo anglicano di New York, il battagliero patriota Samuel Provoost, e i Prayer Meetings interconfessionali svolti dal 1869 (fine della Guerra Civile) dal cappellano del Congresso. Ulteriore connessione tra piano politico-istituzionale e religioso: la risoluzione parlamentare del 27 aprile 1789, che disponeva come, dopo il giuramento, il Presidente, «assieme al Vicepresidente e ai membri del Senato e della Camera dei Rappresentanti, si recherà presso la St. Paul’s Chapel, per partecipare alla sacra liturgia».
Per inquadrare con efficacia il tema, offriamo due significativi e storicamente recenti termini di paragone: gli insediamenti di Barack Obama (2009, primo mandato) e di Donald Trump (2017).
Inaugurations
Il primo Inauguration Day di Obama è seguito da oltre un milione di americani accorsi a Capitol Hill. La regina del soul, Aretha Franklin, emblema dei movimenti degli anni Sessanta con la celebre Respect e che aveva cantato al funerale di Martin Luther King, intona con appassionata voce stentorea il My Country ‘Tis of Thee che manifesta plasticamente l’auspicio di una presidenza capace di integrare del tutto le ansie e le speranze degli afroamericani nella sweet land of Liberty. È un momento storico accompagnato da invocazioni religiose che invogliano un senso di pacifica riconciliazione nel contesto liberale dell’American Dream, che aveva già trovato incarnazione nel keynote address di Obama alla convention democratica del 2004:
«Non c’è un’America liberale ed un’America conservatrice - ci sono gli Stati uniti d’America. Non c’è un’America nera e un’America bianca e un’America latina ed un’America asiatica - ci sono gli Stati uniti d’America. Agli esperti piace tagliare a cubetti il nostro Paese in Stati rossi e Stati blu; rossi per i Repubblicani, blu per i Democratici. Ma io ho una notizia anche per loro: noi crediamo in un grande Dio negli Stati blu e a noi non piacciono gli agenti federali che frugano nelle nostre biblioteche negli Stati rossi. Noi alleniamo la Little League negli Stati blu, e, si’, noi abbiamo amici gay negli Stati rossi. Ci sono patrioti che si sono opposti alla guerra in Iraq e patrioti che hanno sostenuto la guerra in Iraq».
Alla preghiera di Richard Warren, pastore conservatore e fondatore di una Megachurch nella Southern Baptist Convention, avrebbe fatto seguito quella di Joseph Echols Lowery, metodista, co-fondatore della Southern Christian Leadership Conference con King, dopo il cui omicidio ne avrebbe proseguito la battaglia. La scelta di Warren ha indignato le associazioni pro choice e Lgbt+ per le sue posizioni su aborto, same-sex marriage, preservativi, ricerca su cellule embrionali. Lowery, invece, era stato criticato nel 2006 per aver condannato la guerra in Iraq e l’amministrazione Bush al funerale di Coretta Scott King. «Per l’America è importante riunirsi, anche se possiamo avere disaccordi su certi temi sociali» avrebbe risposto Obama.
Se la retorica religiosa di tale Inauguration Day è in una tradizione liberal e democratica, di taglio molto diverso è l’insediamento di Trump, che avrebbe registrato, come primo dato specifico, il più alto numero di ministri chiamati a invocare i benefici divini. Dopo il gesuita Timothy Stafford Healy per Reagan (1985) torna un prelato cattolico: il cardinale arcivescovo di New York, Timothy Dolan, ex «grande elettore» di Bergoglio, ora tanto distante dalla linea della Santa Sede da essersi segnalato per il maldestro invio a tutti i cardinali (luglio 2020) del libro The Next Pope: the Office of Peter and a Church in Mission del conservatore George Weigel. Non un segnale di buon vicinato verso un pontefice vivo e regnante. Dolan si è distinto nel 2020 per aver benedetto l’apertura della convention repubblicana - mentre, sul versante democratico, la convention era aperta da sr Simone Campbell e dal gesuita James Martin - dicendo: «Preghiamo affinché tutte le nostre vite siano protette e rispettate nelle nostre travagliate città e la polizia le custodisca, in situazioni di tensione in cui i nostri uomini e le nostre donne in uniforme mantengono la pace». Erano in corso le mobilitazioni di Black Lives Matter e la violenza della polizia era nota. Nel 2017 con Dolan c’erano i pastori Franklin Graham e Samuel Rodriguez, il rabbino Marvin Hier, il vescovo Wayne Jackson, Paula White, consigliera spirituale di Trump, predicatrice di una Megachurch in Florida.
White è riferimento della prosperity theology che indica nella ricchezza il favore di Dio e nei cristiani, segno di perfezione, l’affidamento di ogni potere sulla Creazione. I richiami alla «Blessed Nation» gratificata da ogni dono divino si sprecava, quanto iconiche affermazioni come quella di Graham: «Signor Presidente, nella Bibbia la pioggia è segno della benedizione di Dio. Signor Presidente, quanto lei è arrivato sul podio, ha iniziato a piovere!». La battaglia di White e di numerosi predicatori di parte evangelica per il trumpismo prosegue e sarà un elemento di cui tener conto, poiché si tratta di referenti spirituali cui si rivolgono quote non indifferenti di elettorato bianco, middle-class e protestante: mentre White ha paragonato Trump a Ester, giovane ebrea divenuta regina dei persiani, poiché entrambi «unconventional choices» gradite a Dio, lo scrittore Lance Wallnau ha riferito di aver (sic!) parlato con Dio, che gli avrebbe mostrato in The Donald il nuovo Ciro, re pagano strumento di Jahvé. Pur non egemoni, sono posizioni di non ridotta capacità mobilitativa di frange del cristianesimo evangelico a sostegno delle opzioni più radicalmente conservatrici.
I due momenti testimoniano la capacità di offrire una legittimazione della linea della Casa Bianca, delineando altresì, su molti aspetti, la constituency che il Presidente entrante ha o si aspetta di avere nel mandato. Se in Obama il richiamo alla lotta per i diritti civili e l’enfasi sul primo presidente afroamericano era unita alla prospettiva di riappacificare il Paese in senso liberale anche al prezzo di alcune polemiche (caso Warren), Trump raggruppa un numero elevato di religiosi per esprimere l’aspettativa di una grandezza materiale per il Paese e il suo leader, alludendo a un carisma specifico di questo Presidente, benedetto da Dio quale mezzo provvidenziale e difesa dalle minacce di poteri esterni o nemici interni - anticipo embrionale di quell’approccio fideistico verso Trump da parte di estrema destra e suprematisti bianchi.
So, help me God
L’unità dei diversi, la riconciliazione dopo l’inedita insurrezione contro il baluardo della democrazia rappresentativa, il richiamo a una responsabilità collettiva a tinte moraleggianti: l’inaugural speech di Biden trova già rispondenza nelle personalità invitate a presenziare in ruoli non religiosi. Lady Gaga, convinta supporter democratica e sostenitrice di leggi contro le aggressioni sessuali, ha prestato la voce all’inno nazionale. Jennifer Lopez ha intonato This Land is your Land e America the Beautiful. Eugene Goodman, l’agente di colore della US Capitol Police che ha attirato e deviato i violenti in Campidoglio, ha scortato la VP Harris. Amanda Gorman, la più giovane Inaugural Poet della storia, con la poesia The Hill We Climb ha posto nella riconciliazione il carattere guida della cerimonia:
Come si sono inseriti gli elementi religiosi in tale prospettiva, rimarcata da un pluralismo dei generi e del colore della pelle più forte rispetto all’insediamento di Obama, confermata da Biden nelle annunciate nomine? Un pluralismo in cui a essere in minoranza sono quei White Anglo-Saxon Protestants (Males) rappresentati, al più alto livello, dall’ormai ex Vicepresidente Mike Pence e dai predecessori di Obama.
Una risposta affascinante è nella preghiera introduttiva del gesuita Leo O’Donovan, ex presidente (1989-2001) della Georgetown University. Il secondo presidente cattolico conserva un legame speciale con O’Donovan, che nel 2015 aveva celebrato il funerale del figlio Beau, deceduto per cancro. Biden ha firmato la prefazione al suo Blessed are the Refugees: Beatitudes of Immigrant Children (2018) su un tema segnato dalle posizioni opposte del pontefice e di Trump. O’Donovan si è distinto per aver tutelato la libera espressione in ateneo di un gruppo pro choice in materia di aborto, pur minacciato di sanzioni canoniche da Roma. Assieme all’impegno accademico, ha contribuito ad altri settori della vita pubblica come direttore per gli Usa dal 2016 del Jesuit Refugee Service o come membro del board della Walt Disney. Veniamo alla preghiera pronunciata a sostegno dell’idea di more perfect Union cifra della presidenza.
Ispirandosi all’augurio del primo arcivescovo cattolico di Baltimora (gesuita e fondatore della Georgetown University), John Carroll, a George Washington - che avrebbe risposto il 12 marzo 1790 con la missiva To the Roman Catholics in the United States of America - O’Donovan indica la base plurale della composizione del Paese («gente di molte razze, credi e colori, origini nazionali, culture e stili») per invitare gli astanti a riconoscere «i nostri passati fallimenti per vivere secondo la nostra visione di equità, inclusione e libertà per tutti». Non il richiamo alla grandezza che è base delle suppliche rivolte all’inizio della presidenza Trump: appare come una vera richiesta di perdono preventivo al Divino, necessaria per chiarire la prospettiva spirituale della nuova direzione politica.
La grandezza che suggerisce O’Donovan si colloca in una chiave di lettura più simile al principio della diakonia: «lo spirito di amare, prendersi cura e sostenere gli altri», che propone come definizione per un «patriottismo americano, nato non dal potere e dal privilegio ma dalla cura del bene comune». Pur riconoscendo un carisma specifico in Biden, lo connette alla «wisdom» di Salomone: sapienza che è base per quel discernimento cardine degli esercizi spirituali gesuiti.
L’idea di sapienza era al centro anche dell’invocazione di Dolan nel 2017: «Donaci la saggezza, perché siamo tuoi servi deboli e dalla breve vita, mancanti di comprensione del giudizio e delle leggi. Infatti, per quanto uno sia perfetto tra i mortali, se manca la saggezza che viene da Te, non contiamo nulla». Dalla sapienza per restaurare la forza alla sapienza come sorgente di comprensione per distinguere bene e male. L’invocazione finale sancisce l’intreccio con la chiave di lettura dell’insediamento Biden:
-*** Sotto il nostro nuovo Presidente aiutaci a riconciliare la gente della nostra terra, a riparare il nostro sogno e investire in esso con pace e giustizia e gioia, in cui trabocca l’amore.
La riconciliazione è nuovo inizio per il sogno americano, ove si inserisce la riflessione di Papa Francesco, desunta dal n. 8 dell’enciclica Fratelli Tutti, a sua volta estratta dal discorso all’incontro ecumenico tra Bergoglio e i giovani a Skopje il 7 maggio 2019 dedicata al riconoscimento della dignità della persona. La riportiamo poiché è cifra politica neanche tanto occultata su temi caratterizzanti delle agende politiche:
O’Donovan ricostruisce l’American Dream e il patriottismo non solo per dare spazio alla cattolicità: egli struttura una legittimazione transnazionale per il progressismo liberal e multiculturale su cui, con notevoli sfumature - specie in politica economica - si è impostata la campagna democratica. Una legittimazione non unanime nella cattolicità Usa: basti pensare al ruolo del rapporto tra Steve Bannon e l’ex nunzio Viganò in antagonismo conclamato verso il pontificato, a sostegno dell’Alt Right. Ecco perché O’Donovan connette tali concetti al sogno, a un American Dream riscritto. Sul dream corre il rapporto, diverso rispetto a quello di Trump, tra il pontefice e Biden: come rivelato in dicembre alla Cbs, il Papa si era congratulato con il democratico vittorioso attraverso Wilton Gregory, arcivescovo di Washington di fresca nomina cardinalizia, regalando una copia autografata del suo Ritorniamo a sognare, dedicato ai percorsi possibili per uscire dalla crisi.
Joe il cattolico nel paese dilaniato
di Ettore Bucci (Jacobin, 22 Gennaio 2021)
Obama poteva tradurre in ottimismo liberale le aspirazioni degli afrodiscendenti. Invece, analizzando la sua cerimonia di insediamento, si capisce che Biden adopera lemmi religiosi per addomesticare conflitti irrisolvibili
Tali temi sono stati parzialmente anticipati a Biden nella messa alla Cathedral of St. Matthew cui ha preso parte la mattina dell’insediamento con la famiglia, le alte cariche istituzionali e la leadership repubblicana del Congresso - che ha usato l’invito per evitare il saluto a Trump prima della partenza per Mar-a-Lago. A officiare la celebrazione, ancora, un gesuita: Kevin O’Brien. Questi ha raccontato così il suo sermone sulla riconciliazione:
L’intervento di Biden ha raccolto tali suggestioni: oltre a ribadire il concetto di riconciliazione per una «One Nation» chiamata a sanare le proprie ferite come dopo una guerra civile, c’è l’appello all’unità di fronte all’epidemia, con la promessa, «as the Bible says», che al pianto della notte seguirà la gioia del mattino. Un’agenda di tolleranza in cui spicca la citazione da Agostino, «a Saint of my Church», tratta dal p. 24 del lib. XIX del De Civitate Dei (Il fine del Bene e la Pace in Dio) sulla «città dei Giusti»:
A unire l’ex vice di Obama e Agostino è il fulcro di una solida costituzione civile nella concordia tra ragionevoli, da instaurarsi nella corresponsabilità. Subito, infatti, Biden rimarca l’importanza della verità per la responsabilità pubblica:
È probabile che tale citazione non sia emersa uno studio teologico dei ghost-writers, quanto dalla citazione agostiniana che il Papa dà in È l’amore che apre gli occhi (2014). Ultimo elemento di relazione col pontefice è la richiesta di una preghiera silenziosa per i morti di Covid: pur usuale nella retorica politica e comprensibile per la modalità con cui il predecessore ha trattato il tema, impossibile non ripensare alla preghiera silenziosa, a capo chino su piazza San Pietro, chiesta la sera dell’elezione da Francesco in diretta mondiale. Entrambe auto-limitazioni dell’immagine onnipotente del «pio padre-sovrano» e tentativo, in un discorso improntato all’umiltà e al ricordo (dei defunti in un caso, del capo spirituale neo-eletto che chiede una benedizione popolare in un altro) di inoculare una responsabilizzazione individuale. A concludere l’insediamento è stato il reverendo Sylvester Beaman, metodista, amico di famiglia Biden.
America United
Cosa raccogliere da tali riferimenti? È superficiale dire che tali parole emergono solo dal discorso di attori religiosi o che siano significativi solo perché pronunciate nell’investitura. Il punto è che questa investitura, dopo un’amministrazione uscente tanto irrituale, ad appena due settimane dal traumatico attacco a Capitol Hill, racconta la consapevolezza non scontata della fragilità del corpo sociale e delle istituzioni.
Mentre Obama poteva tradurre in ottimismo liberale le aspirazioni di varie generazioni afrodiscendenti, Biden deve farsi almeno soggetto capace di comprendere i cambiamenti in atto, provvedendo a una riconciliazione tutta da dimostrare, connessa a un’agenda che, rivolta a un Congresso a maggioranza democratica, deve confrontarsi col peso di lobbies e desideri di mero «ritorno» al liberalismo degli anni di Obama.
L’insurrezione di gennaio pare abbia cambiato le carte in tavola, ma nulla è scontato: il desiderio di riconciliazione traslato in lemmi religiosi può significare anestetizzazione del conflitto, oblio per il trumpismo non tramontato, riscrittura di regole del gioco insufficienti. È presto per capire se il composito establishment democratico sia all’altezza di una ri-legittimazione del sistema nel quadro in cui, come scrive Arnaldo Testi, una neonata presidenza a (possibile) trazione rooseveltiana-populista prova a disfarsi del regime politico-sociale conservatore repubblicano. Intanto, il discorso pubblico religioso e, in particolare, una certa retorica di matrice cattolica - spesso su bocche gesuite - è a disposizione di tale tentativo in una inusuale modalità militante.
*Ettore Bucci, perfezionando in storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, è cultore della materia in storia del pensiero e delle istituzioni politiche presso l’Università di Pisa e membro del Centro Universitario Cattolico della Conferenza Episcopale Italiana.
Il discorso di insediamento di Joe Biden. Integrale *
"Giudice supremo Roberts, vicepresidente Harris, Speaker Pelosi, leader Schumer, leader McConnell, vicepresidente Pence, e miei illustri ospiti, miei connazionali americani, questo è il giorno dell’America. Questo è il giorno della democrazia, un giorno storico e di speranza, di rinnovamento e determinazione. Crogiolo per secoli, l’America è stata messa di nuovo alla prova. E l’America ha raccolto la sfida. Oggi celebriamo il trionfo non di un candidato, ma di una causa, la causa della democrazia. Il popolo, la volontà del popolo, è stata ascoltata, e la volontà del popolo è stata tenuta in conto. Abbiamo imparato ancora una volta che la democrazia è preziosa. La democrazia è fragile. E in questa ora, amici miei, la democrazia ha prevalso.
Così adesso, su questo suolo sacro, dove appena pochi giorni fa la violenza ha cercato di scuotere il Campidoglio dalle fondamenta, noi ci riuniamo come una sola nazione sotto la protezione di Dio, indivisibile, per portare a termine la pacifica transizione di potere, come abbiamo fatto per oltre duecento anni.
Mentre guardiamo avanti nel nostro modo unicamente americano, irrequieti, audaci, ottimisti e puntiamo alla nazione che sappiamo di poter essere e di dover essere.
Ringrazio i miei predecessori di entrambe le parti per la loro presenza qui oggi. Li ringrazio dal profondo del cuore. E so, e conosco la resilienza della nostra Costituzione e la forza, la forza della nostra nazione, così come il presidente Carter con cui ho parlato ieri sera, che non può essere con noi oggi, a cui rendiamo onore.
Ho appena fatto il sacro giuramento che ciascuno di quei patrioti ha fatto. Il primo giuramento prestato da George Washington. Ma la storia americana non dipende da nessuno di noi, non da alcuni di noi, ma da tutti noi, da noi popolo, che cerchiamo un’unione più perfetta. Questa è una grande nazione. Siamo brave persone. E nel corso dei secoli, attraverso tempeste e conflitti, in pace e in guerra, siamo arrivati così lontano, ma abbiamo ancora molta strada da fare. Andremo avanti con velocità e urgenza, perché abbiamo molto da fare in questo inverno di pericoli e possibilità significative. Molto da riparare, molto da ripristinare, molto da curare, molto da costruire e molto da guadagnare. Poche persone nella storia della nostra nazione sono state più sfidate o hanno trovato un momento più impegnativo o difficile di quello in cui ci troviamo ora.
Un virus capitato in un secolo insegue silenziosamente il Paese. Si è preso tante vite in un anno quante ne ha perse l’America durante la seconda guerra mondiale. Sono andati persi milioni di posti di lavoro, centinaia di migliaia le attività commerciali sono state chiuse, un grido di giustizia razziale da 400 anni ci assale. Il sogno di giustizia per tutti non sarà più rinviato.
Un grido di sopravvivenza viene dal pianeta stesso. Un grido che non può essere più disperato o più chiaro, e ora c’è un aumento dell’estremismo politico, della supremazia bianca, del terrorismo interno che dobbiamo affrontare e sconfiggeremo.
Per superare queste sfide, per ripristinare l’anima e garantire il futuro dell’America, serve molto di più delle parole. Serve la più sfuggente di tutte le cose in una democrazia, l’unità. Unità. In un altro gennaio, il giorno di Capodanno del 1863, Abramo Lincoln firmò la Proclamazione di emancipazione. Quando ha messo nero su bianco, il presidente ha detto, e cito, "se il mio nome passerà mai alla storia, sarà per questo atto, e tutta la mia anima è lì dentro". "Tutta la mia anima è lì dentro."
Oggi, in questo giorno di gennaio, tutta la mia anima è in questo: riunire l’America, unire il nostro popolo, unire la nostra nazione. E chiedo a ogni americano di unirsi a me in questa causa. Unirsi per combattere i nemici che affrontiamo, rabbia, risentimento e odio, estremismo, illegalità, violenza, malattie, disoccupazione e disperazione. Con l’unità possiamo fare grandi cose, cose importanti.
Possiamo correggere gli errori. Possiamo dare un buon lavoro alle persone. Possiamo far studiare i nostri figli in scuole sicure. Possiamo sconfiggere il virus mortale. Possiamo premiare - premiare il lavoro e ricostruire la classe media e rendere l’assistenza sanitaria sicura per tutti. Possiamo fornire giustizia razziale e possiamo rendere l’America ancora una volta la forza trainante del bene nel mondo.
So che parlare di unità può suonare ad alcuni come una stupida fantasia di questi tempi. So che le forze che ci dividono sono profonde e reali. Ma so anche che non sono nuove. La nostra storia è stata una lotta costante tra l’ideale americano secondo cui siamo tutti uguali e la dura e brutta realtà che il razzismo, il nativismo, la paura, la demonizzazione ci hanno a lungo separati.
La battaglia è perenne e la vittoria non è mai assicurata. Attraverso la Guerra civile, la Grande depressione, le guerre mondiali, l’11 Settembre, la lotta, i sacrifici e le battute d’arresto, i nostri angeli migliori hanno sempre prevalso. In ciascuno di questi momenti, un numero sufficiente di noi - un numero sufficiente di noi - si è riunito per portare avanti tutti noi, e possiamo farlo ora.
La storia, la fede e la ragione mostrano la via, la via dell’unità. Possiamo vederci, non come avversari, ma come vicini. Possiamo trattarci a vicenda con dignità e rispetto. Possiamo unire le forze, fermare le urla e abbassare la temperatura. Perché senza unità non c’è pace, solo amarezza e furore. Nessun progresso, solo estenuante indignazione. Nessuna nazione, solo uno stato di caos. Questo è il nostro momento storico di crisi e sfida e l’unità è la strada da percorrere. E dobbiamo incontrare questo momento come gli Stati Uniti d’America. Se lo facciamo, ve lo garantisco, non falliremo. Non abbiamo mai, mai, mai, mai fallito in America quando abbiamo agito insieme.
E così oggi, in questo momento, in questo luogo, ricominciamo da capo, tutti noi. Cominciamo ad ascoltarci di nuovo.
Ascoltiamo l’un l’altro. Vediamoci l’un l’altro. Mostriamo rispetto gli uni per gli altri. La politica non deve essere un fuoco ardente, che distrugge tutto ciò che incontra. Ogni disaccordo non deve essere motivo di guerra totale. E dobbiamo rifiutare la cultura in cui i fatti stessi vengono manipolati e persino fabbricati.
Miei concittadini americani, dobbiamo essere diversi da questo. L’America deve essere migliore di così, e credo che l’America sia molto meglio di così. Guardatevi intorno. Ci troviamo qui, all’ombra della cupola del Campidoglio, come si è detto prima, completata durante la guerra civile, quando l’unione stessa era letteralmente in bilico. Eppure abbiamo resistito. Abbiamo vinto.
Eccoci qui, a guardare il grande Mall dove il dottor King ha parlato del suo sogno. Siamo qui dove, 108 anni fa, in un’altra inaugurazione, migliaia di manifestanti cercarono di bloccare le donne coraggiose che marciavano per il diritto di voto. E oggi celebriamo il giuramento della prima donna nella storia americana eletta a una carica nazionale, la vicepresidente Kamala Harris.
Non ditemi che le cose non possono cambiare!
Qui ci troviamo, dall’altra parte del Potomac, dal cimitero di Arlington, dove gli eroi che hanno donato l’estremo atto di devozione, riposano in pace eterna. Ed eccoci qui, pochi giorni dopo che una folla ribelle pensava di poter usare la violenza per mettere a tacere la volontà del popolo, per fermare il lavoro della nostra democrazia, per allontanarci da questo terreno sacro. Non è successo. Non succederà mai. Non oggi. Non domani. Mai.
Mai. A tutti coloro che hanno sostenuto la nostra campagna, sono onorato dalla fiducia che avete riposto in noi. A tutti coloro che non ci hanno sostenuto, lasciatemi dire questo. Ascoltatemi mentre andiamo avanti. Concedetemi una possibilità.
Se ancora non sarete d’accordo, così sia. Questa è la democrazia. Questa è l’America. Il diritto di dissentire pacificamente. All’interno dei confini della nostra repubblica, è forse la più grande forza di questa nazione. Eppure ascoltatemi chiaramente, il disaccordo non deve portare alla divisione. E ve lo prometto, sarò un presidente per tutti gli americani, tutti gli americani.
E vi prometto che combatterò duramente per coloro che non mi hanno sostenuto come per quelli che l’hanno fatto. Molti secoli fa sant’Agostino, un santo della mia chiesa, scrisse che un popolo era una moltitudine definita dagli oggetti comuni del loro amore. Definiti dagli oggetti comuni del loro amore. Quali sono gli oggetti comuni che amiamo noi americani, che ci definiscono americani?
Penso che lo sappiamo. Opportunità, sicurezza, libertà, dignità, rispetto, onore e, sì, la verità. Le ultime settimane e mesi ci hanno insegnato una lezione dolorosa. C’è verità e ci sono bugie, bugie raccontate per il potere e per il profitto.
E ognuno di noi ha un dovere e una responsabilità come cittadini, come americani, e soprattutto come leader, leader che si sono impegnati a onorare la nostra Costituzione e proteggere la nostra nazione, a difendere la verità e a sconfiggere le bugie.
Sentite, capisco che molti dei miei connazionali americani guardano al futuro con paura e trepidazione. Capisco che si preoccupino del loro lavoro. Capisco che come mio padre, stando a letto si chiedono posso mantenere la mia assistenza sanitaria? Posso pagare il mutuo? Pensando alle loro famiglie, a quello che verrà dopo. Ve lo prometto, ho capito.
Ma la risposta non è voltarsi verso noi stessi, ritirarsi in fazioni in competizione, diffidando di coloro che non assomigliano a voi o non si informano dalle stesse vostre fonti. Dobbiamo porre fine a questa guerra incivile che mette il rosso contro il blu, campagna contro città, conservatore contro liberale. Possiamo farlo se apriamo le nostre anime invece di indurire i nostri cuori.
Se mostriamo un po’ di tolleranza e umiltà, e se siamo disposti a stare nei panni dell’altra persona - come direbbe mia madre - solo per un momento, mettiamoci nei suoi panni. Perché ecco il punto della vita: non sappiamo cosa il destino ha in serbo per noi. Alcuni giorni hai bisogno di una mano. Altri in cui sei chiamato a darla. È così che deve essere. Questo è quello che facciamo l’uno per l’altro.
E se siamo così, il nostro Paese sarà più forte, più prospero, più pronto per il futuro. E possiamo ancora non essere d’accordo. Miei concittadini americani, nel lavoro che ci aspetta avremo bisogno l’uno dell’altro. Abbiamo bisogno di conservare tutta la nostra forza e di resistere in questo inverno buio. Stiamo entrando in quello che potrebbe essere il periodo più duro e mortale del virus.
Dobbiamo mettere da parte la politica e affrontare finalmente questa pandemia come una nazione, una nazione. E vi prometto questo. Come dice la Bibbia, "piangete, potete perseverare per una notte, ma la gioia viene al mattino". Ce la faremo insieme. Insieme. Guardate, gente, tutti i miei colleghi con cui ho prestato servizio alla Camera e al Senato, lo capiamo tutti: il mondo ci sta guardando, guarda tutti noi oggi. Quindi ecco il mio messaggio per coloro che sono oltre i nostri confini.
L’America è stata messa alla prova e ne siamo usciti più forti. Ricostruiremo le nostre alleanze e ci impegneremo ancora una volta con il mondo. Non per affrontare le sfide di ieri, ma le sfide di oggi e di domani.
E guideremo non solo con l’esempio del nostro potere, ma con il potere del nostro esempio. Saremo un partner forte e affidabile per la pace, il progresso e la sicurezza.
Sentite, sapete tutti che abbiamo passato così tante cose in questa nazione. Nel mio primo atto da presidente, vorrei chiedervi di unirvi a me in un momento di preghiera silenziosa per ricordare tutti coloro che abbiamo perso lo scorso anno a causa della pandemia, quei 400.000 concittadini americani - mamme, papà, mariti, mogli, figli, figlie, amici, vicini e colleghi di lavoro. Li onoreremo diventando le persone e la nazione che sappiamo di poter e dover essere.
Quindi, vi chiedo, diciamo una preghiera silenziosa per coloro che hanno perso la vita e per coloro che sono rimasti indietro e per il nostro Paese.
(MOMENTO DI SILENZIO)
Amen. Gente, questo è un momento di prove. Dobbiamo affrontare un attacco alla nostra democrazia e alla verità. Un virus impetuoso, una crescente disuguaglianza, la piaga del razzismo sistemico, un clima in crisi. Il ruolo dell’America nel mondo. Uno qualsiasi di questi sarebbe sufficiente per sfidarci in modo profondo. Ma il fatto è che li affrontiamo tutti in una volta. Poniamo a questa nazione una delle responsabilità più gravi che abbiamo avuto. Ora stiamo per essere messi alla prova.
Faremo un passo avanti, tutti noi? È tempo per l’audacia, perché c’è così tanto da fare. E questo è certo. Vi prometto che saremo giudicati, voi ed io, per come risolveremo questa crisi a cascata della nostra era. Saremo all’altezza dell’occasione, è la domanda.
Riusciremo a dominare quest’ora rara e difficile?
Riusciremo ad adempiere ai nostri obblighi e trasmetteremo un mondo nuovo e migliore ai nostri figli? Credo che dobbiamo. Sono sicuro che lo farete anche voi. Credo che lo faremo. E quando lo faremo, scriveremo il prossimo grande capitolo nella storia degli Stati Uniti d’America, la storia americana, una storia che potrebbe suonare come una canzone che significa molto per me. Si chiama "American Anthem". E c’è un verso che spicca, almeno per me.
Ed è così: "Il lavoro e le preghiere di secoli ci hanno portato fino ad oggi. Quale sarà la nostra eredità? Cosa diranno i nostri figli? Che almeno possa sapere nel mio cuore, quando i miei giorni saranno finiti, America, America, che ho dato il mio meglio per te”. Aggiungiamo. Aggiungiamo il nostro lavoro e le nostre preghiere alla storia che si sta svolgendo nella nostra grande nazione.
Se lo facciamo, quando i nostri giorni saranno finiti, i nostri figli ei figli dei nostri figli diranno di noi, hanno dato il meglio, hanno fatto il loro dovere, hanno guarito una terra devastata. Miei concittadini americani, chiudo il giorno in cui ho iniziato, con un sacro giuramento davanti a Dio e a tutti voi. Vi do la mia parola, sarò sempre sincero con voi. Difenderò la Costituzione. Difenderò la nostra democrazia. Difenderò l’America.
E darò tutto, a tutti voi, tutto quello che farò sarà per voi, pensando non al potere ma alle possibilità, non ai torti personali ma al bene pubblico. E insieme scriveremo una storia americana di speranza, non di paura. Di unità, non di divisione. Di luce, non di oscurità. Una storia di decenza e dignità, amore e guarigione, grandezza e bontà.
Possa questa essere la storia che ci guida, la storia che ci ispira, e la storia che racconta secoli ancora a venire che abbiamo risposto al richiamo della storia ed eravamo pronti. Democrazia e speranza, verità e giustizia non sono morte sotto la nostra guardia, ma hanno prosperato, che l’America si è assicurata la libertà in patria e si è levata di nuovo come un faro per il mondo. Questo è ciò che dobbiamo ai nostri antenati, a noi, gli uni e gli altri, e alle generazioni che verranno.
Quindi, con scopo e determinazione, ci rivolgiamo a coloro che hanno il compito del nostro tempo, sostenuti dalla fede, spinti dalla convinzione e devoti l’uno all’altro e al Paese che amiamo con tutto il cuore. Possa Dio benedire l’America e possa Dio proteggere le nostre truppe. Grazie, America”.
* Fonte: Agi, 20 gennaio 2021
Il Papa a Biden: costruire una società giusta e libera
Francesco scrive al 46esimo presidente Usa un messaggio nel giorno del suo insediamento
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 20 gennaio 2021)
Il Papa scrive al 46esimo presidente Usa Joe Biden un messaggio nel giorno del suo insediamento. Francesco invoca la costruzione di una società caratterizzata da "autentica giustizia, libertà" e dal rispetto dei "diritti" e della "dignità di tutti".
"In occasione del suo insediamento come 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America - scrive Francesco nel messaggio - le porgo cordiali auguri e l’assicurazione delle mie preghiere che Dio Onnipotente le conceda saggezza e forza nell’esercizio del suo alto ufficio".
"Sotto la sua guida - scrive il Papa - possa il popolo americano continuare a trarre forza dagli elevati valori politici, etici e religiosi che hanno ispirato la nazione sin dalla sua fondazione. In un momento in cui le gravi crisi che devono affrontare la nostra famiglia umana richiedono risposte lungimiranti e unite, prego che le sue decisioni siano guidate dalla preoccupazione per la costruzione di una società caratterizzata da autentica giustizia e libertà, insieme al rispetto incrollabile dei diritti e della dignità di ogni persona, specialmente i poveri, i vulnerabili e coloro che non hanno voce".
"Allo stesso modo - scrive Bergoglio - chiedo a Dio, la fonte di ogni saggezza e verità, di guidare i suoi sforzi per promuovere la comprensione, la riconciliazione e la pace negli Stati Uniti e tra le nazioni del mondo al fine di promuovere il bene comune universale. Con questi sentimenti, invoco volentieri su di lei, sulla sua famiglia e sull’amato popolo americano un’abbondanza di benedizioni".
Oggi il giuramento.
Joe Biden entra alla Casa Bianca e fa posto per gli immigrati
Il presidente uscente non parteciperà all’evento. Ma, a sorpresa, ha invitato a «pregare» per il successo del nuovo governo
di Elena Molinari (Avvenire, mercoledì 20 gennaio 2021)
New York Davanti a un mare di bandiere anziché a una folla di americani, sui gradini di un Campidoglio circondato da transenne di metallo e pattugliato da militari armati in mimetica, Joe Biden diventerà oggi il 46esimo presidente americano. Il giuramento - sullo sfondo di una pandemia che ha ucciso oltre 400mila americani e alla fine di un’elezione dagli stralci violenti - sarà il momento iniziale di un mandato che presenta sfide enormi.
Assente il suo predecessore - che ieri, a sorpresa, ha invitato a «pregare» per il successo dell’Amministrazione Biden -il 78enne democratico, che ieri ha salutato il suo Delaware ricordando il figlio Beau - «doveva essere lui il presidente» - si rivolgerà ai connazionali invocando un’unità al momento inesistente negli Usa.
Subito dopo, firmerà una serie di misure che rischiano di creare ancora più divisioni nel Paese, ma che considera necessarie per riportare l’America in linea con i suoi valori storici.
Ci si attende infatti che oggi stesso il neo-presidente invii al Congresso un disegno di legge che delinei «una chiara tabella di marcia per condurre alla cittadinanza» i circa 11 milioni di immigrati che vivono negli Stati Uniti illegalmente. La stessa proposta renderà permanente il Daca, il programma che protegge dalla deportazione circa 645.000 dreamers, arrivati negli Usa da bambini e che Donald Trump ha tentato di eliminare. Biden ribadirà anche lo status di protezione temporanea, che consente permessi di lavoro a persone provenienti da Paesi colpiti da disastri naturali o conflitti armati (il repubblicano ha cercato di cancellare anche questo).
Il nuovo capo della Casa Bianca intende infine abbandonare i «protocolli per la protezione dei migranti» voluti da Trump, che hanno già costretto decine di migliaia di richiedenti asilo ad aspettare in Messico le udienze per l’immigrazione degli Stati Uniti. Una politica di «tolleranza zero» che ha portato anche alla separazione di migliaia di bambini dai loro genitori.
Biden si è inoltre impegnato a interrompere immediatamente la costruzione del muro di confine tra Stati Uniti e Messico, che Trump ha pubblicizzato come un risultato importante durante una visita in Texas pochi giorni prima di lasciare l’incarico.
Biden chiaramente non vuole perdere tempo e vuole approfittare della risicata maggioranza che i democratici hanno strappato al Senato per far passare una riforma che da anni elude i legislatori americani e per ridare, nelle sue parole, agli Stati Uniti «l’immagine di un Paese giusto e accogliente».
Ma se l’immigrazione può suscitare controversie, è sicuramente la questione della riconciliazione nazionale la sfida più ardua per il nuovo commander in chief, come faceva notare ieri anche l’Osservatore Romano. Non è chiaro infatti come il nuovo presidente potrà sanare le profonde ferite venute allo scoperto durante le manifestazioni della primavera e dell’estate contro il razzismo ed esplose nell’assalto senza precedenti al Campidoglio il 6 gennaio.
Secondo molti esponenti del partito democratico il Paese non potrà voltare pagina prima di aver fatto i conti con la pesante eredità di Trump e prima di aver inchiodato il presidente uscente alla responsabilità di aver fomentato la violenza in varie occasioni, soprattutto nel corso dell’attacco dell’Epifania. Biden finora ha preferito evitare l’argomento, ma ieri anche i vertici del partito repubblicano sembravano allinearsi con questa posizione.
Per la prima volta il capo del Grand old party al Senato, Mitch McConnell, ha sostenuto pubblicamente che «gli insorti che sono entrati con la forza in Congresso sono stati provocati dal presidente e da altre persone potenti. E hanno cercato di fermare un procedimento specifico del primo ramo del governo federale».
Il Senato riceverà in breve dalla Camera un singolo articolo di impeachment che accusa Trump proprio di «incitamento all’insurrezione». I commenti di McConnell potrebbero dunque indicare che ha deciso di votare per condannare il presidente, invitando i colleghi a fare altrettanto. Se 17 repubblicani si unissero a tutti i 50 democratici, Trump sarebbe ritenuto colpevole, e potrebbe essere interdetto dal ricoprire cariche pubbliche a vita.
Il processo di impeachment (il secondo nei confronti del repubblicano) potrebbe però distrarre la Camera alta da una rapida conferma dei membri dell’Amministrazione entrante e dalla discussione di misure urgenti per il contenimento della pandemia e il rilancio dell’economia - punti ai primi posti nell’agenda del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Jake Angeli chiede la grazia a Trump
L’avvocato: “Il mio cliente non è entrato in Campidoglio, al mio cliente la polizia di Capitol Hill ha tenuto aperte le porte del Campidoglio”
di HuffPost *
Jacob Chansley, noto come Jake Angeli, lo sciamano di QAnon, diventato un simbolo dell’assalto al Campidoglio, ha chiesto la grazia al presidente uscente Usa Donald Trump tramite il suo avvocato. Il legale ha detto che il suo cliente non è una persona violenta e dovrebbe essere perdonato perché sentiva che “stava rispondendo alla chiamata” di Trump entrando nell’edificio del Congresso. “Il mio cliente non è entrato in Campidoglio, al mio cliente la polizia di Capitol Hill ha tenuto aperte le porte del Campidoglio”, ha detto l’avvocato Albert Watkins, secondo quanto riporta Abc, aggiungendo che Trump lo ha invitato ad entrare in Campidoglio durante il suo discorso prima della rivolta.
Watkins ha detto che Trump “deve essere ritenuto responsabile” per aver incoraggiato i rivoltosi”. Chansley era nell’esercito e non aveva precedenti penali, ha detto il legale, aggiungendo che il suo cliente è un “vero sciamano”. “Il ragazzo indossa una pelliccia, ha le corna, è uno sciamano, pratica yoga, medita tutto il giorno, non potrebbe essere un essere umano più gentile e pacato”, ha detto l’avvocato.
* HuffPost, 15.01.2021 (ripresa parziale).
Usa: Trump di nuovo sotto impeachment, in un video condanna le violenze A favore 10 deputati repubblicani. Primo presidente in stato d’accusa due volte
di Redazione ANSA *
WASHINGTON Donald Trump condanna "inequivocabilmente" la violenza dell’assalto al Congresso, scarica i rivoltosi e lancia un appello agli americani a "superare gli impeti del momento" ma non fa alcun cenno all’impeachment, in un video di cinque minuti diffuso dalla Casa Bianca dopo la seconda messa in stato d’accusa. Parole tardive che, secondo molti, avrebbe dovuto pronunciare quando i suoi fan attaccavano Capitol Hill e che ora sembrano dettate da tattiche legali per evitare la condanna al Senato.
"Io condanno in modo inequivocabile - afferma con tono solenne il presidente uscente - la violenza a cui abbiamo assistito la settimana scorsa. La violenza e il vandalismo non hanno assolutamente spazio nel nostro Paese e nel nostro movimento. Coloro i quali sono stati coinvolti negli attacchi saranno portati davanti alla giustizia... Che tu sia di destra o di sinistra, che tu sia democratico o repubblicano, non ci può mai essere giustificazione alla violenza, nessuna scusa, nessuna eccezione". "Nessun mio vero sostenitore - prosegue - potrebbe mai giustificare la violenza politica. Nessun mio vero sostenitore potrebbe disprezzare le autorità o la nostra grande bandiera americana. Nessun mio vero sostenitore potrebbe mai minacciare o attaccare i suoi compatrioti americani. Se fate qualcuna di queste cose, non sostenete il nostro movimento, lo state attaccando. E state attaccando il nostro Paese, non possiamo tollerarlo".
Quindi lancia un messaggio sulle potenziali minacce di proteste armate a Washington in vista del giuramento di Joe Biden, riconoscendo che "tutti hanno diritto di far sentire la propria voce in base al primo emendamento della Costituzione" ma ammonendo contro "la violenza, la violazione della legge e i vandalismi". Infine un attacco a Big Tech, che ha bloccato i suoi account social e piattaforme di destra come Parler: "Voglio dire poche parole sull’assalto senza precedenti alla libertà di parole. Gli sforzi di censurare, cancellare e mettere nella lista nera i nostri cittadini sono sbagliati e pericolosi".
Il fondatore e patron di Twitter, Jack Dorsey, considera la decisione di bandire il presidente americano uscente Donald Trump dalla piattaforma "quella giusta", ma che costituisce comunque un "fallimento" e che "stabilisce un precedente pericoloso" nell’ambito del potere detenuto dalle grandi aziende.
Il presidente americano uscente Donald Trump è stato bandito permanentemente anche da Snapchat, dopo una iniziale sospensione. "Nell’interesse della sicurezza pubblica e in base ai suoi tentativi di diffondere disinformazione, discorsi d’odio e incitazioni alla violenza, che sono chiare violazioni della nostre linee guida, abbiamo preso la decisione di mettere fine permanentemente al suo account", ha spiegato un portavoce dell’applicazione multimediale. A una settimana esatta dalla fine del suo mandato alla Casa Bianca, la Camera ha approvato in un solo giorno l’impeachment più veloce di sempre contro Donald Trump, che diventa così il primo presidente della storia ad essere messo in stato d’accusa due volte. Ai 222 democratici si sono uniti 10 repubblicani su 211, la metà di quelli previsti dalla Casa Bianca. Sono le prime crepe nel partito, dopo il no compatto nel precedente impeachment per l’Ucrainagate. Ma non ancora così profonde da scuotere il partito, anche se molti Gop, a partire dal leader di minoranza Kevin McCarthy, hanno riconosciuto la responsabilità del presidente opponendosi però ad una "inutile" destituzione a fine mandato.
L’accusa è di incitamento all’insurrezione per aver istigato in un comizio i suoi fan ad assaltare il Congresso e impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden, che ha contestato per settimane evocando inesistenti brogli elettorali e minacciando anche il segretario di Stato della Georgia. Un attacco violento costato cinque morti, diversi feriti, danneggiamenti e un vulnus senza precedenti alla democrazia americana. "Trump è un pericolo evidente ed immediato, ha incitato la ribellione armata contro la nazione, deve essere destituito", ha denunciato in aula prima del voto la speaker della Camera Nancy Pelosi, definendo i rivoltosi non "patrioti", come li ha chiamati il presidente, ma "terroristi".
Il voto è avvenuto "nella stesa scena del delitto", come ha sottolineato un deputato. E in un’atmosfera da stato di guerra nella capitale, dopo l’allarme dell’Fbi su possibili attacchi armati tra il 16 e il 20 gennaio in tutti gli Stati Usa, in vista del giuramento di Joe Biden: centinaia di riservisti hanno passato la notte all’interno di Capitol Hill, dormendo e bivaccando nelle sale e nei corridoi mentre arrivavano gli eletti. Ma la Guardia Nazionale, che il giorno del giuramento schiererà 20 mila uomini, presidia a mano armata anche tutto il perimetro esterno del parlamento, difeso come tutti i principali edifici governativi da griglie metalliche. La mozione d’impeachment arriva dopo che la Camera ha approvato quella sul 25esimo emendamento. Mike Pence tuttavia si è rifiutato di invocarlo, ritenendo che non sia "nel miglior interesse del Paese" ed invitando ad evitare "azioni che dividerebbero e infiammerebbero ulteriormente la passione del momento".
La seconda messa in stato d’accusa di Trump ha però ricevuto un crescente consenso tra i repubblicani. Già prima del voto erano usciti allo scoperto cinque deputati del Grand Old party. Tra loro Liz Cheney, numero tre del Gop alla House e figlia del controverso ex vicepresidente di George W. Bush. "E’ Trump ad aver acceso il fiammifero dell’attacco", ha accusato la parlamentare, che pilota il fronte interno contro The Donald candidandosi di fatto a guidare il partito alla Camera togliendo la leadership a Kevin McCarthy.
Uno strappo che segna l’inizio della guerra dentro il Grand Old Party, costretto a scegliere fra Trump e la sua condanna. La chiave di volta potrebbe essere il potente leader repubblicano al Senato Mitch McConnell, che in privato ha detto di vedere di buon occhio l’impeachment, ritenendolo fondato e utile per aiutare il partito a voltare pagina. Se confermasse pubblicamente la sua posizione, potrebbe aprire una grande breccia tra i suoi, consentendo forse di arrivare alla maggioranza dei due terzi per la condanna. Ma per ora ha fatto sapere di non avere ancora deciso come votare e di voler ascoltare gli argomenti giuridici in Senato, escludendo di convocarlo prima della fine del mandato presidenziale.
Trump è tornato a lanciare un appello alla calma e ad evitare "vandalismi e violenze" dopo il suo comizio di martedì in Texas, dove però aveva respinto ogni responsabilità, ammonendo che la messa in stato d’accusa è "la prosecuzione della più grande caccia alle streghe della storia" e sta causando una "enorme rabbia" nel Paese. Intanto pensa a graziare se stesso e i figli (ma Donald Junior non la vuole) mentre precipita nei sondaggi, è abbandonato dalla fedelissima consigliera Hope Hicks, viene messo al bando anche da Youtube e la città di New York rescinde tutti i contratti con la Trump Organization. Compresi quelli per l’iconica giostra e le due piste di pattinaggio di Central Park. L’unica consolazione per lui forse è che neppure Ivanka andrà al giuramento di Biden perchè, ha spiegato una fonte della Casa Bianca, "non è consuetudine che i figli del presidente uscente partecipino alla cerimonia".
* ANSA 14 gennaio 2021 08:18 (ripresa parziale).
Usa: Pence boccia il 25/o emendamento, Trump verso l’impeachment
La Camera approva la richiesta. Fuga di repubblicani dal presidente
di Redazione ANSA *
WASHINGTON. Mike Pence non intende invocare il 25/o emendamento e strappare i poteri a Donald Trump. "Non è nell’interesse del paese o in linea con la Costituzione", ha detto in una lettera indirizzata alla Speaker della Camera, Nancy Pelosi.
Una missiva che è arrivata mentre in aula era in corso il dibattito sulla risoluzione per chiedere proprio al vicepresidente di ricorrere al 25/o emendamento e rimuovere Trump.
Il dibattito e il voto sono andati avanti lo stesso: la risoluzione è stata approvata con 223 voti a favore e 205 contrari. Ma si tratta di un via libera puramente simbolico dopo lo schiaffo di Pence che, oltre a chiudere alla rimozione di Trump, ha esortato anche Pelosi e il Congresso a "evitare azioni che dividerebbero e infiammerebbero ulteriormente la passione del momento".
Con il no secco di Pence i democratici si preparano ora a procedere con l’impeachment, il secondo per Trump. Il presidente è sempre più isolato e il suo stesso partito ne sta prendendo le distanze. L’elenco dei deputati repubblicani che intendono votare a favore dell’impeachment si allunga con il passare delle ore. A rompere il ghiaccio è stato John Katko di New York, seguito da Liz Cheney. La figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney e terza nella gerarchia repubblicana alla Camera ha usato parole dure contro Trump, accusato di aver "acceso il fiammifero" delle proteste.
L’annuncio di Liz Cheney segue le indiscrezioni su Mitch McConnell. Il leader dei repubblicani in Senato, e per anni alleato del presidente, sarebbe furioso con Trump per le proteste in Congresso e lo riterrebbe responsabile di offese da impeachment. McConnell - riporta il New York Times - vedrebbe la messa in stato di accusa come la strada maestra per "liberare" il partito da Trump. Nelle ultime ore McConnell avrebbe avuto contatti anche con Joe Biden. Il presidente eletto gli avrebbe chiesto se riteneva che il Senato potesse in parallelo occuparsi della conferma delle sue nomine e dell’impechament. McConnell gli ha assicurato una risposta al più presto.
Intanto proseguono i preparativi per la cerimonia di insediamento di Biden. I 15.000 agenti della Guardia Nazionale a Washington saranno in parte armati, e il Secret Service sta allestendo una maxi-operazione di sicurezza per blindare la città. Il timore è di nuove proteste violente: almeno 16 gruppi, di cui alcuni armati, si sono fatti avanti per manifestare.
Usa: giuristi, basta 14/mo emendamento per interdire Trump
Con voto maggioranza semplice delle Camere. Bocciano impeachment
di Redazione Ansa *
WASHINGTON Per bandire Donald Trump dai pubblici uffici non serve l’impeachment, basta piu’ semplicemente e velocemente applicare la sezione terza del 14/mo emendamento della costituzione. Lo suggeriscono in un intervento sul Washington Post due autorevoli giuristi americani, Bruce Ackerman e Samuel R. Rosen, docenti di diritto rispettivamente alla Law School di Yale e dell’Indiana university.
La sezione terza del 14/mo emendamento prevede tra l’altro che nessuna persona che abbia prestato giuramento come funzionario esecutivo possa ricoprire alcuna carica civile o militare se si accerta che e’ stata coinvolta "in insurrezione o ribellione" contro la costituzione.
Secondo i due esperti, basterebbe un voto di maggioranza semplice di entrambe le camere, anziche’ i due terzi previsti in Senato per la condanna nel processo di impeachment. In base al 14/mo emendamento, Trump potrebbe ricandidarsi alla Casa Bianca solo se riuscisse a persuadere il futuro Congresso, "con un voto di due terzi di ciascuna camera, a rimuovere questa disabilita’". Il presidente uscente, ammettono, potrebbe impugnare la decisione nei tribunali ma sarebbe rischioso, perche’ dovrebbe testimoniare sotto giuramento rispondendo ad un interrogatorio dettagliato da parte degli avvocati del governo sulla sua condotta in relazione all’assalto del Congresso da parte dei suoi fan. Inoltre, se l’autorita’ giudiziaria confermasse la decisione del parlamento, la sua sentenza vanificherebbe le accuse dell’estrema destra che Trump e’ vittima di una vendetta di parte.
I due giuristi invitano quindi a seguire questa strada e fare un passo indietro, fermando un impeachment "affrettato" che a loro avviso non potrebbe concludersi entro il 20 gennaio e non potrebbe proseguire dopo che Trump ha lasciato la Casa Bianca: "la costituzione prevede l’impeachment solo come uno strumento per procedere contro un presidente mentre e’ in carica", "per proteggere il paese, non per punire il trasgressore", sottolineano.
Usa, Pelosi: Pence rimuova Trump o avanti con l’impeachment
La Camera americana chiederà al vicepresidente di invocare il 25mo emendamento
di Redazione ANSA *
NEW YORK La Camera americana stringe i tempi per rimuovere il presidente uscente Donald Trump. Fra poche ore i democratici presentano una risoluzione per chiede al vicepresidente Mike Pence di invocare il 25/o emendamento.
Pence a quel punto ha 24 ore per dare una risposta. Se non lo rimuoverà o se risponderà picche, allora si procederà con l’impeachment, il secondo per Trump. Nancy Pelosi delinea le tappe dell’azione dei liberal. Un’azione che deve essere "urgente" perché Trump è una "minaccia" per la Costituzione e la democrazia, scrive la speaker della Camera ai colleghi democratici. "Nel proteggere la nostra Costituzione e la nostra democrazia, agiremo con urgenza perché questo presidente è una minaccia imminente - mette in evidenza Pelosi -. Anche se trascorrono i giorni, l’orrore per l’assalto alla nostra democrazia perpetrato dal presidente si intensifica e per questo c’è bisogno di un’azione immediata". L’iniziativa dei democratici fa salire la pressione su Pence. Secondo indiscrezioni, il vicepresidente non esclude un ricorso al 25/o emendamento ma solo nel caso in cui Trump divenisse più instabile.
Appare invece un’ipotesi altamente improbabile quella delle dimissioni del presidente: fonti della Casa Bianca ribadiscono infatti che non ha nessuna intenzione di fare un passo indietro nonostante le pressioni, anche di alcuni membri del partito repubblicano.
"Mi piace il 25/o emendamento perché ci consente di sbarazzarci di Trump", dice secca Pelosi in un’intervista a ’60 Minutes’. Poi spiega comunque che l’impeachment sta incassando un forte sostegno anche perché "squalifica" il presidente da eventuali futuri incarichi pubblici, mandando così in frantumi il sogno del 2024 di Trump. La Camera potrebbe votare l’impeachment già martedì o mercoledì. Poi ancora non è chiaro quello che succederà successivamente. Una delle ipotesi è l’invio al Senato del procedimento dopo i primi 100 giorni della presidenza Joe Biden, in modo di consentire al presidente eletto di incassare il via libera alle sue nomine di governo e affrontare le priorità della sua agenda, ovvero il Covid e l’economia. Senza guardare troppo a lungo termine, i democratici sono ora concentrati sui nove giorni restanti della presidenza Trump. Pochi ma che potrebbero essere di fuoco e durante i quali il presidente, in sfida a tutto e tutti, potrebbe lanciarsi in un’ondata di concessioni di grazia, anche a se stesso.
"Può auto-graziarsi solo per offese federali, non per quelle statali", precisa Pelosi ricordando le indagini in corso sul presidente nello stato di New York. A preoccupare non è però solo l’imprevedibilità di Trump. I timori sono alti anche per possibili nuove manifestazioni. "La minaccia di gruppi estremisti violenti resta alta e le prossime due settimane sono decisive nel nostro processo democratico" con la cerimonia di insediamento di Biden, mette in guardia il leader dei democratici in Senato. Lancia l’allarme anche il sindaco di Washington, Muriel Bowser, che chiede un rafforzamento della sicurezza. Secondo le voci circolate in rete, nuove proteste sarebbero già in via di organizzazione al grido: "abbiamo conquistato" il Congresso "una volta. Possiamo farlo ancora". Le date a rischio sarebbero il 17 gennaio o il 20 gennaio, il giorno dell’insediamento quando Biden intende giurare come da tradizione al Campidoglio.
Arnold Schwarzenegger: “Mercoledì è stata la notte dei cristalli degli Stati Uniti"
In un lungo videomessaggio, l’ex attore e governatore della California si scaglia contro il presidente uscente: "Ha costruito un colpo di Stato con le bugie"
di HuffPost *
“Il peggior presidente di sempre”. Arnold Schwarzenegger, attore ed ex governatore repubblicano della California, non usa mezzi termini con Donald Trump e paragona i fatti di Capitol Hill alla Notte dei cristalli del 1938, in epoca nazista.
Nel video pubblicato su Twitter, che ha raccolto immediatamente migliaia di consensi e ricondivisioni in poche ore, Schwarzenegger ha raccontato della propria infanzia in Austria, dove è nato nel 1947 e cresciuto con il duro ricordo di quella notte, durante la quale furono commesse violenze contro gli ebrei da parte dei nazisti, “gli equivalenti dei Proud Boys” di oggi.
“Mercoledì”, ha detto, ”è stata la notte dei cristalli degli Stati Uniti e la folla non solo ha frantumato le finistre del Campidoglio, ma ha infranto le idee che davamo per scontate” andando a calpestare “i principi stessi su cui era fondato il nostro Paese”. L’attore si è rivolto agli americani avvertendoli che devono fare attenzione “alle conseguenze del cinismo e dell’egoismo”.
Poi, Schwarzenegger ha rivolto la sua attenzione a Donald Trump, “un leader fallito”, accusandolo di aver “cercato un colpo di Stato ingannando le persone con bugie”. Passerà alla storia come il peggior presidente di sempre. La cosa buona è che presto sarà irrilevante come un vecchio tweet”.
“Dobbiamo cercare di guarire insieme dal dramma che si è svolto qualche giorno fa”, conclude nel suo videomessaggio, “e dobbiamo mettere la democrazia al primo posto. Non come repubblicani o democratici ma come americani”. Dopo l’augurio a Joe Biden per “un grande successo”, Schwarzenegger lancia un monito a chi ” pensava di poter ribaltare la costituzione: non vincerete mai”.
* HuffPost, 10/01/2021 (ripresa parziale).
l’alfabeto
Kamala Harris
Fattore K
La madre indiana la chiamò “fiore di loto” e lei ora è vice presidente degli Stati Uniti: «Sono così, ho radici profonde».
di Viviana Mazza *
di Viviana Mazza *
La chiameremo Harris, il suo cognome, come facciamo con Trump, Biden o Pence. Ma non vogliamo rinunciare a usare, a volte anche da solo, quel nome originale e fiero che racchiude la storia della prima vicepresidente donna degli Stati Uniti: Kamala.
Kamala, “fiore di loto”, è il nome scelto per lei dalla madre indiana, che ha cresciuto le due figlie bi-razziali in California, portandole al tempio hindu e ancorandole alla cultura afroamericana. Il simbolo «Il fiore di loto cresce sott’acqua, spunta sulla superficie mentre le radici sono piantate saldamente nel fondo del fiume», spiega Harris nell’autobiografia The Truths We Hold (Le nostre verità). Già prima dello storico discorso della vittoria - vestita di bianco in onore delle suffragette - Harris ha spesso descritto la sua corsa come parte di un percorso più lungo, a staffetta. «Niente di quello che ho realizzato» scrive nel libro «avrei potuto raggiungerlo da sola».
Ora la prima vicepresidente ha legato a sé i sogni e le speranze delle donne di colore (e non solo), che sono la “base” del Partito democratico. L’identificazione con un leader passa anche dal livello emotivo. Vedere al potere qualcuno che ti assomiglia è un simbolo fortissimo. Ma la gente vuole anche la sostanza, l’impatto della politica sulle proprie comunità.
In un’intervista congiunta con Biden e Harris, il giornalista Jake Tapper della Cnn ha chiesto alla futura vicepresidente quali saranno i dossier di cui si occuperà e se, come Mike Pence, dirigerà la task force sul Covid-19. Lei ha risposto con la sua emblematica risata. «Se ciò che è avvenuto finora è un’indicazione del futuro, io e Joe saremo veri partner. È stato molto chiaro con me: vuole che io sia la prima e l’ultima nella stanza». Biden è intervenuto per assicurare che vuole ripetere il rapporto che aveva con Obama: la sua numero 2 non avrà dossier specifici ma parteciperà a tutte le decisioni importanti e gestirà «qualunque cosa sia urgente e di cui io non posso occuparmi».
Non si può pensare a Harris senza immaginare che potrebbe diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti e, inevitabilmente, sarà subito giudicata anche in questa luce. Biden sembra suggerire che non dovrà “aspettare il suo turno” per avere potere, però d’altra parte il ruolo di vice richiede di moderare le ambizioni. «Quel che farò, che Joe vuole che io faccia, è di condividere la mia esperienza su ogni questione che affrontiamo», dice. Biden, già prima di diventare vice di Obama, aveva più esperienza di Harris al Senato e in politica estera. Lei è un volto relativamente nuovo su scala nazionale: al primo mandato al Senato; è stata all’estero solo per tre visite ufficiali: Israele, Giordania e Afghanistan (comunque si è circondata di tre consigliere e due portavoce, tutte donne, altamente qualificate). Ma possiede altre esperienze che mancano al 78enne Biden: bambina nera in America, figlia di genitori immigrati dall’India e dalla Giamaica, donna 56enne ex procuratrice di San Francisco e poi dell’intera California, moglie (da 6 anni) di un avvocato ebreo già padre di due adolescenti che lascerà il lavoro per diventare “second gentleman”.
Non era mai accaduto nella storia che Time scegliesse come “persona dell’anno” non solo il presidente-eletto ma anche il vice, come quest’anno con Biden e Harris (nella foto a sinistra): la ragione, spiega la rivista, è che insieme determineranno «dove siamo diretti».
Il ruolo e il futuro di Kamala dipenderanno dal rapporto che costruirà con il presidente più anziano mai eletto in America ma anche dagli eventi che l’Amministrazione si troverà ad affrontare. Il fiore di loto, dopotutto, è un simbolo di trasformazione.
* FONTE: CORRIERE DELLA SERA-7 (ripresa parziale) - Un vocabolario d’autore per non dimenticare e guardare al 2021.
La democrazia americana fatta a pezzi
La miccia accesa quattro anni fa ha fatto il suo lavoro e la bomba è esplosa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 07 gennaio 2021)
Quattro morti, oltre a più di 50 arresti, è il bilancio provvisorio di una giornata che avrebbe dovuto certificare la decisiva vittoria democratica alle elezioni per il Senato in Georgia, l’elezione di Biden e Harris e l’avvio del nuovo Congresso. Una giornata che invece ha rappresentato un salto di qualità nello scontro politico, dimostrando, una volta di più, quanto la democrazia americana possa essere fragile e a rischio.
La presidenza Trump si inaugurò, quattro anni fa, con un discorso sullo American carnage, sulla carneficina di una classe media bianca a opera di forze economiche più o meno oscure con la complicità dei democratici. Rischia di terminare con la carneficina di istituzioni che sembrano non reggere più di fronte a un «re folle», come ormai molti commentatori definiscono Trump. Persino il suo sodale, Rudolph Murdoch, attraverso il «New York Post», lo ha invitato ad abbandonare l’interpretazione di un re Lear farsesco più che tragico se non fosse che riesce, come si è visto anche ieri, a trascinare il consenso di minoranze, certo, ma che hanno dietro i quasi 73 milioni di voti presi nelle elezioni dello scorso novembre.
Ancora una volta Trump si è assunto la responsabilità di alimentare il caos, le convinzioni cospirazioniste di chi, più che vivere una realtà alternativa, tenta di piegarla verso ciò che ritiene «verità di per sé evidenti». Al direttore di «The Atlantic», Jeffrey Goldberg, uno dei manifestanti radunatasi davanti al Congresso, ha gridato: «Arrenditi se credi in Gesù, arrenditi se credi in Donald Trump».
Sarebbe sbagliato liquidare questa frase, così come i cartelli con la scritta «Pelosi satana» come espressioni freak di estremisti cospirazionisti ed esponenti della destra armata. Ovvio: fra coloro che sono penetrati nelle aule e negli uffici del Congresso ci sono anche quelli. Hanno peraltro l’appoggio di esponenti repubblicani appena eletti, come nel caso di un deputato della West Virginia, entrato assieme agli altri manifestanti per filmare e postare quello che stava accadendo. Ma per molti di loro era la dimostrazione del vero spirito americano, di un «popolo» che si sente defraudato da elezioni considerate corrotte e rubate, come d’altronde Trump ha ribadito anche quando ha invitato i suoi sostenitori a «tornare a casa».
In fondo, non è la Dichiarazione di indipendenza il documento che legittima il diritto a resistere a un potere tirannico? Non è questo il messaggio che i manifestanti vestiti con abiti settecenteschi volevano trasmettere? Le immagini dei «patrioti» che si fanno immortalare seduti sullo scranno del presidente del Senato o della Camera verranno percepite, dall’America profonda che crede in Trump, come la riappropriazione delle istituzioni da parte del popolo sovrano, come l’espressione autentica di quello spirito di libertà che affonda nelle radici della lotta rivoluzionaria. Perché stupirsi, ha detto una manifestante bardata con la bandiera americana, non è così che questo Paese è stato fondato, non è così che i nostri Padri fondatori hanno travolto l’impero britannico?
La certificazione dell’elezione di Joe Biden e di Kamala Harris può e deve essere letta come la capacità del sistema di superare la crisi, ma rimane il vulnus rappresentato da un presidente uscente che ha dimostrato fino a che punto si possono mettere in tensione le istituzioni americane e quanto forti siano le aporie del sistema.
Le divisioni che hanno portato per la prima volta dal 1812 a vedere violato l’edificio del Congresso rimangono inalterate perché non sono state alimentate solo da Trump, ma da un Partito repubblicano che ha la responsabilità di aver avallato una presidenza anti-sistema come quella uscente e corteggiato razzismo, suprematismo ed estremismo armato. E se Mike Pence ha avuto la decenza di comprendere che le norme costituzionali non potevano essere stravolte - contravvenendo peraltro a uno dei principi del Partito repubblicano, quello della centralità degli Stati nell’assetto federale -, altri come Ted Cruz e un manipolo di senatori e di deputati che hanno presentato mozioni per contestare il voto in Georgia, Arizona e Pennsylvania, continuano a solleticare gli istinti profondi della base trumpiana, con l’opportunismo miope di chi crede in questo modo di utilizzare il capitale politico e di consenso lasciato in eredità dal quasi ormai ex presidente.
L’interrogativo cruciale, adesso, è se i repubblicani, spaventati da quello che è successo, saranno in grado di fare un passo indietro ed esprimere qualcosa di più di frasi di circostanza per lavarsi la coscienza.
Congresso Usa proclama vittoria di Biden. Trump isolato, rischia la rimozione
E’ salito a 4 il bilancio delle vittime negli scontri di ieri. Sono 13 i feriti e 52 le persone arrestate, molte per violazione del coprifuoco. Lascia il numero due della sicurezza nazionale
di Redazione Ansa*
Il Congresso ha proclamato Joe Biden e Kamala Harris presidente e vicepresidente degli Stati Uniti al termine della seduta del Congresso a camere riunite per certificare i voti del collegio elettorale, vinto dal ticket dem con 306 voti contro i 232 di quello repubblicano. Il parlamento ha respinto alcune contestazione avanzate da esponenti repubblicani dopo che la seduta era stata interrotta per l’assalto dei manifestanti pro Trump a Capitol Hill.
Biden e Harris giureranno il 20 gennaio.
Si aggrava intanto il bilancio delle vittime in seguito agli scontri avvenuti ieri durante l’assalto al Congresso americano da parte dei sostenitori di Donald Trump. Oltre alla donna uccisa da colpi d’arma da fuoco esplosi da un agente del Campidoglio, altre tre persone sono morte per emergenze e complicazioni mediche. Sono stati colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia a uccidere Ashli Babbit durante le proteste. Lo ha riferito il capo della polizia di Washington, sottolineando che un’inchiesta è stata aperta sull’evento. La donna è stata colpita da un agente in uniforme della polizia del Campidoglio con la sua arma di servizio.
Sono 13 i feriti e 52 le persone arrestate, molte per violazione del coprifuoco. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale, Matt Pottinger, si è dimesso in seguito all’assalto al Congresso da parte dei fan di Donald Trump. Lo riferisce la Cnn.
Intanto il sindaco di Washington ha esteso l’emergenza pubblica per altri 15 giorni, fino al 21 gennaio, il giorno dopo l’insediamento di Joe Biden, appuntamento per il quale si temono nuovi forti tensioni.
Donald Trump è sempre più solo. L’ipotesi di invocare il 25/o emendamento per rimuoverlo si sta rafforzando nel gabinetto del presidente, anche se l’idea non è stata ancora ventilata al vicepresidente Mike Pence. Il 25/o emendamento della Costituzione prevede che il vicepresidente prenda i poteri nel caso il presidente muoia, si dimetta o sia rimosso dal suo incarico. D’accordo sulla rimozione anche alcuni leader repubblicani.
"Impeach". Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata star dei democratici, è stringata ma chiara sulle sue intenzioni. Vorrebbe procedere con l’impeachment di Donald Trump per gli scontri in Congresso. Ilham Omar, altra deputata liberal parte dello Squad (il quartetto che include anche Rashida Tlaib e Ayanna Pressley), ha annunciato di essere già al lavoro per la stesura degli articoli per l’impeahchment.
Intanto si susseguono diverse dimissioni, dalla portavoce di Melania Trump al vice portavoce della Casa Bianca. E stanno valutando di lasciare anche il ministro dei Trasporti e il consigliere per la sicurezza Nazionale. Intanto Trump, che ieri è intervenuto con un video in cui ribadiva l’accusa di elezioni falsate invitando comunque i suoi fan a ’tornare a casa’, è stato bannato temporaneamente dai principali social media, Twitter, Facebook e Instagram.
La condanna per l’assalto al Congresso statunitense è arrivata unanime da tutto il mondo. L’ex presidente Obama ha parlato di "grande disonore e vergogna" per gli Stati Uniti ma non "una completa sorpresa". La violenza, ha detto, è stata "incitata da un presidente che ha continuato a mentire sul risultato delle elezioni". "La violenza è incompatibile con l’esercizio dei diritti politici e delle libertà democratiche", le parole del premier italiano, Giuseppe Conte. Parole di condanna sono arrivate anche da tutti i leader europei, da Macron a von der Leyen e Johnson. Protesta anche del mondo dello sport americano.
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Fonte: ANSA WASHINGTON 07 gennaio 2021 - 09:57 (ripresa parziale, per ulteriori approfondimenti clicca sulla zona evidenziata).
Biden: Trump chieda stop all’assalto
"La nostra democrazia è sotto un assalto senza precedenti, mai visto in passato, un assalto contro i rappresentanti del popolo". Lo ha detto Joe Biden condannando l’attacco dei sostenitori al Congresso, sottolineando che è un attacco "allo stato di diritto". I fatti di oggi "sono un doloroso memento del fatto che la democrazia è fragile e per preservarla sono necessari persone di buona volontà", ha affermato Biden dicendosi "shoccato e rattristato" per il fatto che l’America sta vivendo "un momento così buio" ma esprimendo la convinzione che, come in altri momenti, alla fine prevarrà.
Lanciando un appello a Trump di "andare ora in tv e di rispettare il suo giuramento e difendere la Costituzione e chiedere la fine dell’assedio", perché "la parola di un presidente conta", Biden nel suo messaggio ha sottolineato che le scene di caos al Congresso "non rappresentano quello che siamo, non è la vera America". Il presidente eletto è stato molto duro poi nel condannare quella che ha definito "mob", folla di rivoltosi: "questo non è dissenso, è insurrezione". E ha puntato il dito contro "un piccolo gruppo di estremisti" che sta provocando "caos, disordine al limite della sedizione". "Il caos deve finire, si devono ritirare ora", ha concluso Biden.
Trump, appello: Elezioni rubate ma andate a casa - Video
"Sono elezioni rubate, ma ora andate a casa in pace". E’ l’appello che Donald Trump, con un video su Twitter, invia ai manifestanti che hanno invaso il Congresso. "So che state soffrendo, le elezioni ci sono state rubate. E’ stata una elezione" vinta "a valanga, lo sanno tutti e specialmente dall’altra parte. Ma ora dovete andare a casa, dobbiamo avere pace, ordine e dobbiamo rispettare le forze dell’ordine. Non vogliamo che nessuno si faccia male, è un periodo duro", dice Trump nel video di circa un minuto. "Non c’è mai stato un periodo come questo in cui sia accaduta una cosa del genere. E’ stata un’elezione fraudolenta ma non possiamo cadere nei tranelli di questa gente, dobbiamo avere pace. Andate a casa, siete persone speciali. So come vi sentite, ma andate a casa e andate in pace".
Il messaggio di Trump viene segnalato da Twitter, che non cancella il cinguettio ma lo segnala e impedisce interazioni: non si può replicare a Trump e non si può retwittare il video. "Le affermazioni relative a frodi elettorali non sono dimostrate, non si può replicare a questo tweet -si legge- non si può effettuare retweet e non si può mettere il like per il rischio di violenza".
Scontri a Washington tra i fan di Trump e la polizia
Discorso del tycoon a migliaia di suoi fan nel parco a sud della Casa Bianca
di Redazione ANSA WASHINGTON *
(ANSA) - NEW YORK, 06 GEN - I sostenitori di Donald Trump sono arrivati a Capitol Hill, dove il Congresso è impegnato nel processo per la ratifica della vittoria di Joe Biden. Immediato lo scontro con la polizia, costretta a intervenire dopo che gli appelli a disperdersi sono caduti nel vuoto.
"Non ci arrenderemo mai, non concederemo mai" la vittoria: Donald Trump ha esordito così davanti ad alcune migliaia di fan radunatisi nel parco a sud della Casa Bianca per la manifestazione ’Save America’ contro i brogli.
"Fermeremo il furto" dei voti, ha detto, usando lo slogan "stop the steal".
"Avremo un presidente illegittimo, non possiamo permetterlo" ha anche detto Trump.
"Se Mike Pence fa la cosa giusta vinciamo le elezioni": arringando i suoi fan a Washington, Donald Trump rafforza le pressione sul vicepresidente perché ribalti la vittoria di Joe Biden quando il Congresso si riunirà sotto la sua presidenza per certificarla.
Nel suo comizio contro i brogli, a Washington, Donald Trump ha attaccato come "deboli" i repubblicani che al Congresso intendono certificare la vittoria di Joe Biden.
Donald Trump evoca su Twitter il sospetto di nuovi brogli nei due ballottaggi in Georgia per il Senato, che col 97% dei voti vedono un serrato testa a testa tra i candidati. "Sembra che stiamo preparando una grande ’discarica di voti’ contro i candidati repubblicani. Aspettano di vedere di quanti voti hanno bisogno?", ha cinquettato. "E’ appena successo che sono stati trovati altri 4000 voti nella contea di Fulton. Ci siamo", ha aggiunto. Il presidente ha inoltre ritwittato post che insinuano il furto del voto.
Pence, non ho autorità sull’esito delle elezioni - "La presidenza appartiene agli americani. Non ritengo che i padri fondatori volessero investire il vicepresidente con l’autorità unilaterale di decidere quali voti devono essere contati e quali no". Lo afferma Mike Pence in una nota sul conteggio dei voti elettorali. Il vicepresidente di fatto respinge così l’invito di Donald Trump a capovolgere il risultato elettorale in Congresso.
Fan Trump tentano irruzione, evacuati due edifici Washington - La polizia di Washington evacua due edifici governativi dopo che i sostenitori di Donald Trump hanno cercato di fare irruzione. I palazzi evacuati sono il Madison e il Cannon Building.
McConnell a Trump, niente brogli,non danneggiare l’America - "Le elezioni non sono state rubate. Non ci sono stati brogli. Il Congresso non può nominarsi come il board delle elezioni": capovolgere il risultato delle elezioni significa danneggiare la repubblica per sempre. Lo afferma Mitch McConnell, il leader dei repubblicani in Senato, voltando le spalle al suo alleato degli ultimi quattro anni, Donald Trump.
Alleati Trump si oppongono a ratifica voti Arizona - Gli alleati di Donald Trump in Congresso si oppongono alla ratifica dei voti dei grandi elettori dell’Arizona, dopo che quelli dell’Alabama e dell’Alaska sono stati certificati. A presentare l’opposizione è il senatore repubblicano Roy Blunt. L’obiezione fa sì che la sessione congiunta del Congresso venga interrotta, con la Camera e il Senato che tornano nelle rispettive aule per una discussione che può durare fino a due ore. Nel corso del processo di ratifica sono attese diverse interruzioni analoghe per gli stati almeno di Georgia e Pennsylvania.
Schumer, repubblicani sostengono ’colpo di Stato’ - I repubblicani contestando la vittoria di Joe Biden "sostengono un tentativo di colpo di Stato". Lo afferma il leader dei democratici in Senato, Chuck Schumer, nel corso del dibattito seguito all’obiezione sollevata da alcuni alleati di Donald Trump a ratificare i voti dei grandi elettori dell’Arizona.
* Fonte: ANSA WASHINGTON, 06 gennaio 2021 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PAURA DELLLA GUERRA CIVILE, SCHIAVITU’, E COSTITUZIONE. Dal film "Amistad", l’arringa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti di John Quincy Adams.
FLS
Usa, Biden: "Ecco come saranno i miei primi 100 giorni" *
"Questo non è un terzo mandato Obama. Abbiamo di fronte un mondo completamente diverso da quello che avevamo davanti durante l’amministrazione Obama-Biden. Il presidente Trump ha cambiato il paesaggio". A dichiararlo, in un’intervista alla NbcNews, è stato il presidente eletto Joe Biden.
Tra le priorità dei suoi primi cento giorni, Biden ha inserito i temi dell’immigrazione e dell’ambiente. Nell’intervista il presidente eletto ha detto di voler promuovere normative che prevedano la cittadinanza per chi è senza documenti, sottolineando come molto dipenderà dalla cooperazione "che potrò o non potrò avere dal Congresso".
"Invierò un progetto di legge sull’immigrazione al Senato contenente l’indicazione di una via per la cittadinanza per 11 milioni di persone senza documenti in America", ha affermato. "Mi muoverò anche per prendere le distanze da alcuni degli ordini esecutivi, credo, molto dannosi che hanno avuto un impatto significativo sul peggioramento del clima e sul renderci meno sani, dal metano a tutta una serie di cose che il presidente ha fatto".
Biden riceverà i briefing quotidiani di intelligence dopo il via libera della Casa Bianca. Ad annunciarlo è stato l’Ufficio del Direttore nazionale di intelligence (ODNI). "Questo pomeriggio la Casa Bianca ha approvato" la procedura che permetterà all’Odni "di fornire i briefing quotidiani nel quadro del sostegno al processo di transizione", è stato reso noto.
* Fonte: AdnKronos 25/11/2020 07:53 (ripresa parziale).
Usa. Il governo avvia la transizione a Biden. Ma Trump non cede sui ricorsi
Il presidente uscente twitta: "Continueremo la buona battaglia e credo che vinceremo! Tuttavia, nel migliore interesse del nostro Paese, raccomando che facciano ciò che deve essere fatto"
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 24 novembre 2020)
Il governo federale ha riconosciuto il presidente eletto Joe Biden come il "vincitore evidente" delle elezioni del 3 novembre, avviando così formalmente la transizione del potere dal presidente Donald Trump - che ha trascorso settimane a testare i limiti della democrazia americana - al nuovo inquilino della Casa Bianca. Il messaggio formale è arrivato dopo ulteriori sconfitte legali e procedurali da parte del presidente uscente nel tentativo, apparentemente inutile, di ribaltare le elezioni con affermazioni infondate di frode.
Trump però si è rifiutato di concedere la vittoria all’avversario e ha promesso di continuare a combattere in tribunale anche dopo che l’amministratore dei servizi generali Emily Murphy ha dato il via libera lunedì al presidente eletto Biden, offrendogli così la possibilità di coordinarsi con le agenzie federali prima dell’inaugurazione del suo mandato il 20 gennaio. Anche Trump, pur non ammettendo la sconfitta, ha twittato che stava indirizzando la sua squadra a collaborare alla transizione.
Yohannes Abraham, direttore esecutivo della transizione di Biden, ha affermato che la decisione "è un passo necessario per iniziare ad affrontare le sfide che la nostra nazione deve affrontare, incluso il controllo della pandemia e la ripresa della nostra economia".
Emily Murphy, l’incaricata di Trump per la transizione, nei giorni scorsi ha affrontato critiche bipartisan per non aver avviato il processo prima, impedendo così al team di Biden di lavorare con i funzionari delle agenzie federali sui piani da sviluppare nel corso della sua amministrazione. Il ritardo ha negato a Biden l’accesso a briefing sulla sicurezza nazionale altamente classificati e ha ostacolato i preparativi del suo team, soprattutto per quanto riguarda i piani per rispondere alla pandemia di coronavirus che infuria negli Stati Uniti. Murphy si è difesa dicendo che queste lentezze sono dovute unicamente a una sua decisione.
"Tenete presente che sono giunta alla mia decisione in modo indipendente, sulla base della legge e dei fatti disponibili. Non sono mai stata messa sotto pressione, direttamente o indirettamente, da alcun funzionario del ramo esecutivo, compresi quelli che lavorano alla Casa Bianca o alla General Service Administration, per quanto riguarda la sostanza o la tempistica della mia decisione", ha scritto in una lettera indirizzata a Biden.
Trump ha twittato pochi istanti dopo la decisione di Murphy: "Continueremo la buona battaglia e credo che vinceremo! Tuttavia, nel migliore interesse del nostro Paese, raccomando che Emily e il suo team facciano ciò che deve essere fatto rispetto ai protocolli iniziali e hanno detto al mio team di fare lo stesso".
Max Stier, presidente e amministratore delegato della partnership apartitica per il servizio pubblico, ha criticato il ritardo ma ha detto che il team di Biden può essere in grado superare questo ostacolo.
"Sfortunatamente, ogni giorno perso a causa del ritardo nell’accertamento è stata un’opportunità persa per l’amministrazione uscente per aiutare il presidente eletto Joe Biden a prepararsi per affrontare le più grandi sfide del nostro paese", ha affermato. La buona notizia è che il presidente eletto e il suo team sono i più preparati e meglio equipaggiati di qualsiasi amministrazione entrante negli ultimi tempi".
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Il leader democratico del Senato Chuck Schumer ha affermato che il messaggio della General Service Administration "è probabilmente la cosa più vicina a una concessione che il presidente Trump potrebbe emettere". Sottolineando che gli Usa "affrontano molteplici crisi che richiedono una transizione ordinata", Schumer ha esortato Democratici e Repubblicani a "unirsi insieme per una transizione fluida e pacifica che andrà a vantaggio dell’America".
La lettera di Murphy è stata inviata appena 90 minuti dopo che i funzionari elettorali del Michigan hanno certificato la vittoria di Biden con 154.000 voti nello stato. Il Board of State Canvassers, che ha due repubblicani e due democratici, ha confermato i risultati con un voto per 3-0 con un’astensione del GOP.
Jill Biden, il cambio della first ladyship sulle orme di Eleonor
First Ladies. Nel primo anno da first lady Eleanor Roosevelt guadagnava quanto il presidente, spendendo i suoi soldi per cause sociali e l’emancipazione delle donne.
di Rossella Rossini (il manifesto, 13.11.2020)
Complice oltre un secolo di storia di emancipazione delle donne, di cui il suffragio universale, nel 1920 in tutti gli Stati dell’Unione, segnò una tappa importante, la svolta produsse un cambio di rotta nella first ladyship degli Stati uniti e continua a rappresentare un lascito prezioso. La scelta di Jill Biden di non rinunciare alla sua professione di insegnante di lingua e letteratura inglese colloca la nuova prima cittadina sulla strada dell’indipendenza aperta da Eleanor Roosevelt nei dodici anni trascorsi alla Casa Bianca (1933-1945), ma già imboccata come first lady dello Stato di New York, di cui Franklin Delano Roosevelt fu governatore.
Eleanor Roosevelt aveva nutrito dubbi sulla candidatura del marito e aveva accolto con perplessità la vittoria alla convenzione democratica, nel timore che ciò potesse comportare la rinuncia alla sua vita pubblica e alle sue molteplici attività. Invece, avrebbe saputo arricchire il nuovo ruolo di inedite funzioni, cementando l’unione con Franklin come «coppia politica» e divenendo negli anni una first lady a tutto tondo, che condivideva e sosteneva gli obiettivi del consorte e intanto faceva passi da gigante lungo il cammino dell’autonomia.
Leader riconosciuta nel mondo dell’associazionismo, si batteva per la pace, l’eguaglianza e la democrazia; per l’internazionalismo; per i diritti delle donne, degli afroamericani e delle fasce più emarginate della popolazione, destreggiandosi con la stessa maestria sulla scena pubblica e politica degli Stati Uniti e tra i suoi numerosi interessi e mestieri.
Di essi fecero parte l’insegnamento di storia, letteratura e affari pubblici alla Todhunter School di New York, una scuola privata per ragazze di cui era anche comproprietaria e co-direttrice; l’intenso lavoro giornalistico per testate e stazioni radiofoniche, anche commerciali, che portavano la sua voce e il suo pensiero fino negli angoli più remoti del paese; l’attività di imprenditrice, con la fondazione e gestione assieme a due amiche femministe delle Val-Kill Industries, di cui facevano parte una fabbrica di mobili, una fornace per metalli e una tessitura, che insegnavano un mestiere e davano lavoro a giovani non più in grado di mantenersi nei campi impoveriti dalla depressione.
Alla fine del primo anno da first lady della nazione Eleanor guadagnava quanto il presidente, spendendo tutti i suoi introiti per cause sociali e, forse, vedendo la sua lotta per consolidare la propria indipendenza anche economica connessa alla più ampia battaglia per i diritti e l’emancipazione combattuta per tutte le donne.
L’indipendenza non fu solo economica. Dopo l’elezione di Franklin alla guida della nazione, furono quasi 40.000 i chilometri percorsi da Eleanor nei primi mesi del primo dei quattro mandati del marito per diffondere i valori e le politiche del New Deal, avere un resoconto di prima mano dello stato in cui versava il paese sconvolto dalla Grande Depressione e riferirne al presidente, contribuendo attivamente all’adozione delle politiche di relief.
Ma se apparentemente si prestava a svolgere il ruolo di supporting wife, come aveva già fatto in qualità di first lady dello Stato di New York, nel corso di quelle visite e di quei viaggi maturava non solo la Eleanor «occhi e orecchie» del presidente, limitato nei suoi spostamenti dalla poliomielite che lo aveva colpito nel 1921, ma l’attivista e riformatrice, colei che, già conosciuta e riconosciuta come leader politica autonoma e fortemente radicata in quella che oggi si definisce la società civile, rappresentava l’ala più progressista della nuova era, attenta e sensibile alle questioni di giustizia economica e sociale, ai diritti delle donne e dei giovani, delle minoranze e dei lavoratori e impegnata a battersi contro razzismo e discriminazioni.
All’interno della partnership politica con il marito, Eleanor cercò sempre di portare avanti i progetti che le stavano più a cuore: la battaglia per l’adesione degli Stati Uniti alla Corte internazionale di giustizia; l’estensione alle donne dei programmi volti ad aumentare l’occupazione nei lavori pubblici; il progetto di riqualificazione abitativa per le famiglie povere dei minatori della Virginia occidentale; le politiche a favore degli afroamericani; programmi per i giovani, con la creazione della National Youth Administration, a lei dovuta e di cui andava fiera; una legge federale contro i linciaggi.
Oltre 200 disegni sono stati respinti al Congresso per 120 anni dal blocco dei suprematisti bianchi del Sud eletti al Senato, fino al Justice for Victims of Lynching Act of 2019 che rende il linciaggio crimine federale, discusso e approvato all’unanimità il 14 febbraio 2019.
A presentarlo come prima firmataria la senatrice democratica Kamala Harris. Dovrebbero mancare pochi passi perché diventi definitivamente legge ed entri nel codice penale.
La vicepresidenza di Kamala Harris: un passo avanti fondamentale
Una come lei, finalmente
di Raffaella Baritono *
Cento anni dopo la ratifica del 19° emendamento che riconobbe il voto alle donne e 55 anni dopo il Voting Rights Act che garantì il rispetto del diritto di voto agli afro-americani, le travagliate, e ancora non del tutto concluse, elezioni di quest’anno vedono comunque un risultato storico, la nomina di Kamala Harris, prima donna, di discendenza indiana e caraibica, alla vicepresidenza.
Non è ancora la rottura definitiva del soffitto di cristallo, ma ci siamo andati molto vicini. Non ce l’aveva fatta Geraldine Ferraro, nel 1984, e men che meno Sarah Palin nel 2008. Nel primo caso, la nomina di Geraldine Ferraro si inseriva in quel processo di rinnovamento e apertura del partito democratico per cercare di risollevarsi dalla cocente sconfitta del 1968 che aveva messo fine alla sua egemonia sulla presidenza. -Sull’onda della necessità di ricostruire una coalizione altrettanto potente di quella che aveva dominato dagli anni Trenta in avanti, il partito democratico si stava aprendo al voto delle donne, dei giovani, delle minoranze. Geraldine Ferraro dovette fare i conti con le resistenze e gli stereotipi legati al suo essere donna, italo-americana, i media si accanirono sul marito, sul suo abbigliamento ‒ troppo femminile più adatto a una moglie che non a una candidata alle presidenziali, si osservò - sulla sua autorevolezza e capacità. Sarebbe stata, le chiese un giornalista, risoluta abbastanza da premere il bottone dell’arma atomica? D’altra parte la stessa Ferraro si presentava soprattutto “come una madre che aveva a cuore il benessere dei suoi figli”. Una madre, prima ancora che un’avvocata, che il sabato andava a fare la spesa come tutte le donne della classe media dei suburbi bianchi.
La scelta di McCain nel 2008 era palesemente opportunistica in un’elezione che aveva visto la corsa di Hillary Clinton alle primarie democratiche e la nomination del primo afro-americano alla presidenza, Barack Obama. Allo stesso tempo era un messaggio lanciato a quell’elettorato femminile repubblicano, spesso organizzato in circoli, associazioni e gruppi di base che, allora come adesso, costituiva spesso la fanteria dell’onda conservatrice. Anche Palin si presentò soprattutto come una madre che però riusciva a conciliare lavoro e famiglia, una “guerriera felice” - come scriveva la «National Review» - che non intendeva giocare la carta della vittima, semmai quella della Grizzly-mom, che non temeva di usare anche le armi se necessario.
Kamala Harris ha tutt’altra storia e non è una madre. Certo, come Ferraro ha alle spalle una storia legata all’immigrazione, e in particolare ai nuovi flussi provenienti da contesti non europei. Figlia di un giamaicano e di un’indiana arrivati negli Stati Uniti grazie alle borse di studio destinate ai figli delle classi medie dei Paesi in via di sviluppo - segno della generosità dell’America come Buon Samaritano, come aveva scritto Henry Luce nel 1941 -, sembra l’espressione più alta del sogno americano, dell’America come terra promessa, come non ha mancato di sottolineare nel suo discorso, presentandosi con un vestito bianco in onore delle suffragiste di inizio Novecento.
La sua carriera politica, fatta di molti primati, - prima donna "black" a diventare procuratrice a San Francisco e poi attorney general della California, nel 2016 seconda donna nera a diventare senatrice - è stata all’insegna dell’affermazione dell’altra America,quella delle minoranze e della multietnicità, della progressiva visibilità e protagonismo delle donne afro-americane, asiatiche e latine. D’altronde la scelta di Biden si inseriva nella volontà di creare un canale di comunicazione con quei movimenti sociali che fin dal giorno precedente l’inaugurazione della presidenza Trump avevano costituito uno dei terreni di opposizione, la Women’s March e il movimento #metoo e, naturalmente, il Black Lives Matter.
Se Harris ha un modello di riferimento questo è stata Shirley Chisholm la prima donna afro-americana a essere eletta nel 1968 e la prima a intraprendere la corsa alle primarie presidenziali nel 1971. Una corsa che si interruppe anche perché Chisholm non ebbe l’appoggio del movimento femminista, soprattutto bianco, che nel 1972 preferì sostenere George McGovern. Ma Chisholm ha costituito un modello di riferimento, fra le fondatrici del Congressional Black Caucus e del National Women’s Political Caucus, non solo per Harris ma per molte donne nere (e non) che hanno dovuto sperimentare le difficoltà e le barriere di un sistema politico, come quello americano, che vede ancora gli Stati Uniti al 75° posto della classifica mondiale secondo i dati forniti dalla Inter-Parliamentary Union.
E quanto tali barriere siano forti lo dimostra la campagna elettorale di quest’anno che, in modo ancor più evidente che in passato, ha evidenziato come le strategie di delegittimazione non abbiano mancato di usare stereotipi razzisti e sessisti nei confronti di Harris: dalla storpiatura del nome ad opera di Trump e dei suoi seguaci, alla richiesta di presentare il certificato di nascita per dimostrare di essere nata sul suolo americano, alla campagna, infine, di disinformazione. Secondo alcuni istituti di analisi, dopo l’annuncio di Biden della scelta di Kamala Harris, sono stati individuate più di un milione di citazioni su Twitter e Facebook che rimandano a notizie false, quattro volte più di quanto non abbia riguardato le candidature maschili. Per non parlare dei meme che hanno associato Harris a immagini pornografiche. Mandy Greenwald, una consulente del partito democratico, ha sostenuto che solo Madeleine Albright si è sottratta a questa strategia rappresentativa essendo stata una delle poche leader che hanno potuto offrire l’immagine di forza senza essere chiamata “bitch”.
I commenti della stampa conservatrice a proposito dell’unico dibattito che ha opposto Kamala Harris a Mike Pence hanno ripreso, ad esempio, l’immagine della “angry black woman”, dissezionando il suo linguaggio corporale, stigmatizzando il modo in cui Harris volgeva lo sguardo o inclinava la testa o mettendo sotto la lente del microscopio le sue espressioni facciali.
A dispetto delle pulsioni sessiste e razziste, abilmente alimentate dal linguaggio aggressivo e delegittimante di un Trump che non accetta la sconfitta, la nomina di Kamala Harris rappresenta l’esempio più evidente di un’America multietnica e plurale che non può essere ricacciata ai margini a favore della nostalgia di un modello che non esiste più.
La nomina di Harris si situa sulla scia di quel cambiamento segnato dalla vittoria di Obama e che oggi dimostra di non essere stato un mutamento temporaneo, nonostante la realtà di un’America polarizzata e di una parte, tutt’altro che marginale, che non accetta di rinunciare alla rappresentazione dell’America come una “white man republic”, ma il segno della certificazione del mutamento dei tempi.
Anche da questo punto di vista la presidenza Biden-Harris sarà una presidenza di transizione o meglio di traghettamento. Vediamo se in funzione di una presidenza Harris, come già molti sottolineano. Intanto, un problema di protocollo e di prassi comincia ad assillare il chief usher della Casa Bianca: quale ruolo avrà il coniuge della vicepresidente, Doug Emhoff, il Second Gentleman, in attesa di conoscere il First Gentleman?
* Fonte: Il Mulino, 09.11.2020 (ripresa parziale - senza immagine).
Joe Biden e Kamala Harris: parole di unità e amicizia
i discorsi dei neoeletti alla Casa Bianca:
Primo discorso da presidente di Joe Biden. Traduzione integrale.*
Miei cari americani, le persone di questa nazione hanno parlato. Ci hanno consegnato una chiara vittoria. Una vittoria convincente. Una vittoria per “Noi, le persone”. Abbiamo vinto con il maggior numero di voti mai espressi per una candidatura presidenziale nella storia di questa nazione: 74 milioni. Sono onorato della fiducia che avete riposto in me. Mi impegno a essere un presidente che non cerca di dividere, ma di unificare. Non ci sono Stati rossi e Stati blu ma gli Stati uniti d’America. Lavorerò con tutto il cuore per conquistare e meritare la fiducia di tutto il popolo. Perché questa è l’America: le persone. Ed è di questo che si occuperà la nostra amministrazione.
Ho voluto questo incarico per ripristinare l’anima dell’America. Per ricostruire la spina dorsale della nazione: la classe media. Per rendere di nuovo l’America rispettata nel mondo e per unirci qui a casa. È l’onore della mia vita che così tanti milioni di americani abbiano votato a favore di questa visione. E ora renderla è il compito del nostro tempo.
Come ho detto molte volte prima, sono il marito di Jill. Non sarei qui senza l’amore e il sostegno instancabile di Jill, Hunter, Ashley, tutti i nostri nipoti, i loro coniugi e tutta la nostra famiglia. Sono il mio cuore. Jill è una mamma - una mamma severa - e un’educatrice. Ha dedicato la sua vita all’istruzione, ma insegnare non è solo quello che fa, ma anche quello che è. Per gli educatori americani, questo è un grande giorno: ne avrete uno alla Casa Bianca e Jill diventerà un’ottima first lady.
E sarò onorato di lavorare con un fantastico vicepresidente - Kamala Harris - che entrerà nella storia come la prima donna, la prima donna nera, la prima donna di discendenza dell’Asia meridionale e la prima figlia di immigrati mai eletta alla carica nazionale in questo Paese. È da tempo che la stiamo aspettando. Stasera ricordiamo tutti coloro che hanno lottato così duramente per così tanti anni per far sì che ciò accadesse. Ma ancora una volta, l’America ha piegato l’arco dell’universo morale verso la giustizia. Kamala, Doug, che vi piaccia o no, siete una famiglia. Siete diventati dei Biden onorari e non avete via d’uscita.
A tutti coloro che si sono offerti volontari, hanno lavorato alle urne nel mezzo di questa pandemia, funzionari elettorali locali - meritate un ringraziamento speciale da questa nazione. Alla mia squadra, e a tutti i volontari, a tutti coloro che hanno dato così tanto di se stessi per rendere possibile questo momento, vi devo tutto. E a tutti coloro che ci hanno sostenuto: Sono orgoglioso della campagna che abbiamo costruito e condotto. Abbiamo costruito la più ampia e diversificata coalizione della storia: democratici, repubblicani, indipendenti, progressisti, moderati, conservatori, giovani, anziani, di città, delle periferie, delle aree rurali, omosessuali, eterosessuali, transgender, ispanici, asiatici, nativi americani; E soprattutto, per quei momenti in cui questa campagna era al minimo, la comunità afroamericana, che ha continuato a sostenermi. C’è sempre stata per me e io ci sarà sempre per voi.
Ho detto fin dall’inizio che volevo rappresentare l’America tutta e penso che lo abbiamo fatto. Anche il governo deve farlo ora. So che i sostenitori di Trump sono delusi, capisco il loro disappunto questa sera, io stesso ho perso un paio di elezioni; ma ora dobbiamo darci una possibilità reciproca.È tempo di mettereda parte la retorica, abbassare i toni, rivederci, ascoltarci di nuovo. Per fare progressi, dobbiamo smetterla di trattare i nostri avversari come nostri nemici. Non siamo nemici. Siamo americani.
La Bibbia ci dice che c’è una stagione per ogni cosa: per costruire, seminare, raccogliere. E un tempo per guarire. Questo è il momento di guarire in America. Qual è ora la volontà delle persone? Qual è il nostro mandato? Io credo che sia questo.Gli americani ci hanno chiesto di schierare le forze della decenza e dell’equità. Di schierare le forze della scienza e della speranza nelle grandi battaglie del nostro tempo: contro virus, per l’economia, per la cura della salute delle nostre famiglie, per sradicare il razzismo sistemico, e anche la battaglia per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici. Dobbiamo difendere l’onestà e la democrazia, dare a tutti in questa nazione una possibilità. È questo che ci chiedete.
Non possiamo risanare l’economia, la nostra vitalità o assaporare i momenti più preziosi della vita - abbracciando un nipote, partecipando a compleanni, matrimoni, lauree, tutti i momenti che contano di più per noi - finché non avremo sotto controllo questo virus.
Lunedì nominerò un gruppo di importanti scienziati ed esperti come consulenti per questa transizione, per aiutare a prendere il piano Biden-Harris sul Covid e convertirlo in un piano d’azione che inizierà il 20 gennaio 2021. Quel piano sarà costruito su un fondamento scientifico. Sarà costruito dalla compassione, dall’empatia e dalla preoccupazione. Non risparmierò alcuno sforzo - o impegno - per fermare questa pandemia.
Ho corso come un orgoglioso democratico. Adesso sarò un presidente americano. Lavorerò tanto per coloro che non hanno votato per me, quanto per quelli che lo hanno fatto. Lasciamo che questa cupa era di demonizzazione in America finisca - qui e ora. Il rifiuto di Democratici e Repubblicani di cooperare tra loro non è dovuto a una forza misteriosa al di fuori del nostro controllo. È una decisione. È una scelta che facciamo. E se possiamo decidere di non cooperare, allora possiamo decidere di collaborare. E credo che questo faccia parte del mandato del popolo americano. Vogliono collaborazione. Questa è la scelta che farò. E invito il Congresso, democratici e repubblicani, allo stesso modo, a fare questa scelta con me. La storia americana parla del lento ma costante ampliamento delle opportunità.
Non dobbiamo commettere errori: troppi sogni sono stati rinviati per troppo tempo. Dobbiamo rendere la promessa del Paese reale per tutti, indipendentemente dall’etnia, dalla fede, dall’identità o dalla disabilità.L’America è sempre stata plasmata da punti di svolta, da momenti in cui abbiamo preso decisioni difficili su chi siamo e cosa vogliamo essere.
Lincoln nel 1860 - per salvare l’Unione.
F.D.R. nel 1932 - per promettere un New Deal a un Paese assediato.
J.F.K. nel 1960 - per promettere una nuova frontiera.
E 12 anni fa - quando Barack Obama ha fatto la storia - e ci ha detto: "Sì, possiamo”.
Ci troviamo di nuovo a un punto di svolta. Abbiamo l’opportunità di sconfiggere la disperazione e di costruire una nazione di prosperità e scopo. Possiamo farlo. So che possiamo. Ho parlato a lungo della battaglia per l’anima dell’America. Dobbiamo ripristinarla.
La nostra nazione è formata dalla battaglia costante tra i nostri intenti migliori e i nostri impulsi più oscuri. È tempo che prevalgano i primi. Stasera, il mondo intero sta guardando l’America. Credo che nel migliore dei casi l’America possa essere un faro per il globo. Non siamo guidati dall’esempio del nostro potere, ma dal potere del nostro esempio.
Ho sempre creduto che si possa definire l’America in una parola: possibilità. In America dovrebbe essere data a tutti l’opportunità di spingersi oltre i propri sogni e poi sarà il dono dato da Dio a portarli. Io credo nella possibilità di questo Paese. Guardiamo sempre avanti. Verso un’America più libera e più giusta. Verso un’America che crea posti di lavoro con dignità e rispetto. Verso un’America che cura malattie come il cancro e l’Alzheimer.
Verso un’America che non lascia mai indietro nessuno. Verso un’America che non si arrende mai. Questa è una grande nazione. E siamo una brava gente. Questi sono gli Stati Uniti d’America. E non c’è mai stato niente che non siamo stati in grado di fare quando l’abbiamo fatto insieme.
Negli ultimi giorni della campagna ho pensato a un inno che significa molto per me e per la mia famiglia, in particolare per il mio defunto figlio, Beau. Cattura la fede che mi sostiene e che credo sostenga l’America. E spero che possa fornire conforto alle oltre 230.000 famiglie che hanno perso una persona cara a causa di questo terribile virus quest’anno. Il mio cuore va a ciascuno di voi. Spero che questo inno ti dia anche conforto.
E ora, insieme - sulle ali dell’aquila - ci imbarchiamo nell’opera che Dio e che la storia ci ha chiamato a fare. Con il cuore pieno e le mani ferme, con la fede nell’America e negli altri, con l’amore per la patria e la sete di giustizia, cerchiamo di essere la nazione che sappiamo di poter essere. Una nazione unita. Una nazione rafforzata. Una nazione guarita. Gli Stati Uniti d’America. Dio vi benedica. E possa Dio proteggere le nostre truppe.
* Fonte: Helena Savoldelli, Redazione Gariwo
Il primo discorso di Kamala Harris come vicepresidente degli Stati Uniti *
Buonasera. Grazie. John Lewis, prima di lasciarci, ha scritto che la democrazia non è uno stato, è un atto e quello che intendeva dire è che la democrazia americana non è garantita: è tanto forte quanto la nostra volontà di lottare per essa. Dobbiamo difenderla, salvaguardarla, non darla mai per scontata. Questo richiede una battaglia, dei sacrifici, ma anche gioia e progresso, perché noi, il popolo, abbiamo il potere di costruire un futuro migliore. Quando l’essenza della nostra democrazia, la vera anima dell’America, era in gioco durante queste elezioni e il mondo ci guardava, voi avete dato vita ad un nuovo giorno, una nuova alba per l’America.
Ringrazio i volontari della nostra campagna, questo grandioso team, a loro va il nostro grazie per aver coinvolto il più alto numero di persone che si sia mai stato registrato e per avere reso possibile questo vittoria; ringrazio gli scrutatori, le autorità che hanno lavorato senza sosta per garantire che ogni voto venisse contato: il nostro Paese vi è grato. Avete promosso e difeso l’integrità della nostra democrazia e dei cittadini americani che rendono questo Paese quello che è. Grazie per aver votate in un numero record, per far sì che la vostra voce venisse ascoltata.
So che siamo in un momento difficile, soprattutto gli ultimi mesi, con la sofferenza, il dolore, le preoccupazioni, le battaglie; siamo testimoni del vostro coraggio, della vostra resilienza e generosità del vostro spirito. Per quattro anni avete marciato, organizzato manifestazioni per l’uguaglianza, la giustizia, le nostre vite, il nostro pianeta. Con il vostro voto, siete riusciti a consegnare un messaggio molto chiaro: avete scelto speranza, unità, decenza, scienza, verità. Avete scelto Joe Biden come prossimo presidente degli Stati Uniti d’America. Joe è una persona che sa guarire, unire, ha una mano ferma e sicura, esperienza, è una persona che ha vissuto sulla sua pelle cosa significa la perdita e questo gli ha dato uno scopo. Questo ci aiuterà come nazione, a ritrovare il nostro scopo. Joe è un uomo con un cuore grande, che ama tutti quelli che sono intorno a lui, la moglie Jill, che sarà un’incredibile first lady, i figli Hunter e Ashley, i suoi nipoti, tutta la sua famiglia. Io l’ho conosciuto quando era vicepresidente e l’ho conosciuto come padre di Beau, che vogliamo ricordare.
E per mio marito Doug, i nostri figli, mia sorella, la nostra famiglia: vi amo più di quanto potrò mai esprimere. Siamo davvero grati a Joe e Jill per averci accolto nella loro famiglia e in questo incredibile viaggio;ringrazio mia madre, Shyamala Gopalan Harris, che è sempre nei nostri cuori. Quando è arrivata qui a 19 anni dall’India non immaginava questo momento, ma credeva in un’America dove questi momenti fossero possibili.
Penso alle donne, alle donne nere, asiatiche, bianche, ispaniche, nativo americane, che nel corso della storia di questo Paese hanno spianato la strada per questo momento, si sono sacrificate per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia per tutti noi; penso alle donne nere che troppo spesso non sono considerate, ma sono la spina dorsale della nostra democrazia.
Penso a tutte le donne che hanno lavorato per garantire e proteggere il diritto di voto per più di cento anni - 100 anni fa con il 19esimo emendamento e 56 anni fa con il Voting Rights Act - e che ora nel 2020 con una nuova generazione hanno votato e continuano a lottare per il loro diritto di votare e di essere ascoltate.
Stasera voglio riflettere sulle loro battaglie, la loro determinazione, la loro capacità di vedere cioè che sarà a prescindere da quello che è stato. E io sono con loro. E questa è una testimonianza della personalità di Joe, che ha avuto il coraggio di buttare giù uno dei muri che continuavano a resistere nel nostro Paese scegliendo una donna come vicepresidente.
Anche se sono la prima a ricoprire questa carica, non sarò l’ultima. Ogni bambina, ragazza che stasera ci guarda vedrà che questo è un Paese pieno di possibilità.Il nostro Paese vi manda un messaggio: sognate con grande ambizione, guidate con cognizione, guardatevi in un modo in cui gli altri potrebbero non vedervi. Noi saremo lì con voi.
Mi rivolgo ai cittadini americani, a prescindere dal vostro voto: io lotterò per essere per Joe quello che lui è stato per Obama, leale, preparato, pensando sempre a voi e alle vostre famiglie. Ora comincia il lavoro duro, necessario, essenziale per salvare le vite e combattere l’epidemia, ricostruire l’economa, eliminare il razzismo sistemico, affrontare la crisi climatica, riunire il nostro Paese e far guarire l’anima di questa nazione. La strada non è facile, ma l’America è pronta. E lo siamo io e Joe. Abbiamo eletto un presidente che rappresenta il meglio di noi, un leader che il mondo rispetterà e che i nostri figli ammireranno, un comandante che rispetta i soldati e ci terrà al sicuro, un presidente per tutti agli americani.
*Fonte: Helena Savoldelli, Redazione Gariwo
Lo sguardo radicale di Helen Keller per raccontare l’America
Intervista. Una conversazione con John Gianvito, regista di «Her Socialist Smile», sull’attivismo politico dell’intellettuale sordo-cieca
di Giovanna Branca (il manifesto, 06.11.2020)
«Il Paese è governato per i più ricchi, per le corporation, i banchieri, gli speculatori terrieri, e gli sfruttatori del lavoro».
Le parole di Helen Keller, risalenti a oltre un secolo fa, sembrano raccontare il mondo di oggi. «È questa la ragione principale per cui ho fatto il film», spiega John Gianvito a proposito del suo
Her Socialist Smile - presentato nei giorni scorsi alla Viennale - in cui ripercorre il fervente credo socialista della celebre intellettuale sordo-cieca statunitense.
Nell’immaginario collettivo, la sua figura emerge dalla narrazione di Anna dei miracoli, ed è definita dal suo impegno per i disabili - ma quelli che lei definiva «gli occhi della mente» l’avevano portata a vedere molto oltre e più in profondità il mondo che la circondava - e quello a venire.
Come ha deciso di fare un film su Helen Keller?
Circa 21 anni fa, leggendo dei testi dello storico radicale Howard Zinn, ho scoperto che Helen Keller era stata un’ardente socialista. Ne ho cercato le prove, e le ho trovate in alcuni dei suoi discorsi. Sono rimasto profondamente colpito da quanto fossero rilevanti rispetto al momento storico attuale, come se fossero stati scritti quella stessa settimana. La maggior parte degli studenti qui negli Stati uniti impara la storia di come la giovane sordo-cieca Helen Keller ha imparato a leggere e parlare grazie all’impegno «miracoloso» della sua insegnante Anne Sullivan.
Ma cosa poi Keller abbia letto, scritto e detto è significativamente omesso dalle narrazioni ortodosse della sua storia. Così ho cominciato a esplorare la possibilità di fare un cortometraggio che delineasse questa dimensione poco conosciuta della sua vita. Ma dopo mesi di ricerca archivistica non ero stato in grado di trovare alcun film, materiale fotografico o audio che documentasse l’attivismo politico di Keller. Era un fatto particolarmente strano, soprattutto se si pensa che all’epoca era una delle donne più famose al mondo. Poi sono venuto a conoscenza dei molteplici incendi che hanno distrutto molti dei suoi materiali e il progetto di fare un film non mi è più parso possibile.
Infine tre anni fa il pensiero di questo progetto è riemerso. Una voce nella mia testa mi diceva: «Volevi fare un film sulla donna sordo-cieca più famosa al mondo, non hai immagini né suoni, e questo è in realtà un interessante problema creativo a cui non dovresti sottrarti». Il modo in cui ho «risolto» il dilemma della scarsità di materiali archivistici tradizionali rappresenta l’esperienza stessa del film. Con Her Socialist Smile non desideravo semplicemente correggere un’omissione storica nella biografia di Keller. Come Howard Zinn, sono interessato alla Storia nella misura in cui ci aiuta a pensare al presente, a costruire una strada migliore verso il futuro.
Le convinzioni socialiste di Keller sembrano ancor più stigmatizzate nell’America di oggi di quanto non lo fossero più di un secolo fa, quando ci si poteva apertamente definire socialisti e aspirare a ricoprire cariche pubbliche.
«La parola socialismo è uno spauracchio che i repubblicani hanno scagliato contro ogni progresso fatto dal popolo negli ultimi vent’anni». Non sono parole mie: le ha pronunciate il presidente Truman nel 1952. È senz’altro vero che negli ultimi decenni il concetto di socialismo è stato distorto, al punto che molti politici conservatori impiegano il termine come se dovessimo considerarlo per sua natura peggiorativo.
La strategia è sabotare una visione del mondo in cui, con le parole di Keller, «il benessere di ciascuno è legato al benessere di tutti». Ma nonostante tutti questi sforzi per denigrare il significato originario della parola, negli ultimi anni qui negli Usa abbiamo visto crescere la popolarità di figure dichiaratamente socialdemocratiche, come dimostra il caso di Bernie Sanders o l’elezione di parlamentari come Rashida Tlaib in Michigan e Alexandria Ocasio-Cortez a New York. E ripensando alla travolgente ascesa del movimento Occupy è evidente come sia montata una vasta insoddisfazione nei confronti del cosiddetto capitalismo del libero mercato. Anche se si tratta solo di un sondaggio, nel 2019 Axios/Harris ha stabilito che circa il 49% dei giovani statunitensi preferisce un sistema socialista a uno capitalista. E se ciò mi dà un po’ di ottimismo, questi restano per me ideali fondamentali per cui battersi anche se non si vede un progresso all’orizzonte.
Per Keller, il movimento femminista, la lotta di classe e quella razziale erano strettamente collegate. È una consapevolezza che è andata perduta nel discorso politico attuale?
Nel corso degli ultimi 10 anni il concetto di intersezionalità ha acquisito un notevole seguito qui negli Usa. Definibile come la natura interconnessa delle categorie sociali di genere, razza e classe, il termine è attribuito alla docente di giurisprudenza Kimberlé Crenshaw, che lo descrive come un «prisma da cui osservare il modo in cui le varie forme di ineguaglianza operano congiuntamente e si acuiscono a vicenda». Anche se non si serviva di questa parola, mi pare chiaro dagli scritti di Keller che fosse consapevole di queste connessioni, e che avesse letto Marx. La pressione perché Joe Biden scegliesse non solo una candidata donna alla vicepresidenza, ma anche nera, è a mio parere un’indicazione ulteriore che la consapevolezza di questi rapporti non è andata perduta.
«Her Socialist Smile» è anche una riflessione sulle parole e il loro potere. Sullo schermo le parole di Helen Keller appaiono come lunghi intertitoli, mentre altre volte vengono pronunciate dall’attrice Carolyn Forché. Come ha lavorato per portare il suo discorso politico al cinema?
Anche se Keller teneva periodicamente dei discorsi pubblici, comunicava con il mondo principalmente attraverso la parola scritta, e inoltre è attraverso la parola stampata che lei stessa coglieva gran parte di ciò che accadeva intorno a lei e nel mondo intero. Mi sembrava quindi appropriato fare esperienza delle sue parole concentrandosi, in silenzio, senza sentire il bisogno di immagini che catturino l’attenzione come accade nella maggior parte dei documentari storici.
Le immagini del film hanno una qualità tattile, e in qualche modo ci accompagnano in quella che Keller diceva essere la sua attività preferita: passeggiare nei boschi.
Leggendo le sue autobiografie ho scoperto quanto intensamente amasse passare del tempo da sola in mezzo alla natura. La sua capacità nel descrivere questa esperienza, in assenza di vista e udito, era straordinaria. Ad esempio questo passaggio di Midstream: «Avevo sempre amato le meraviglie della natura; ma non avevo neanche sognato l’abbondanza di piacere fisico in mio possesso finché non mi sono seduta e ho cercato di esprimere a parole i merletti di ombre sulle foglioline, le ali velate degli insetti, il mormorio della brezza, i palpitanti tremolii dei fiori, il respiro leggero del petto di una colomba, i filamenti sonori dell’erba agitata dal vento, e i fili delle ragnatele che si fanno e disfano senza sosta». La scoperta di questo aspetto del mondo interiore di Keller ha stabilito una connessione profonda con il mio spirito, e ha aperto una porta cinematografica attraverso la quale rapportarmi al film, specialmente perché per me il nostro rapporto con la natura ha una dimensione intrinsecamente politica.
Cosa pensa di quello che sta accadendo in questi giorni con le elezioni presidenziali, e del rifiuto di Trump di accettare il risultato se non dovesse essere il vincitore?
Virtualmente nulla di ciò che fa Donald Trump mi sorprende. Quando una persona è completamente priva di scrupoli morali, tutto è possibile. E tragicamente, questo individuo maligno e spregevole continua ad avere una vasta schiera di sostenitori. Se da un lato il testa a testa dei risultati elettorali mi sorprende e mi sgomenta, tutto questo va considerato anche attraverso la lente del nostro arcaico sistema del collegio elettorale. Con tanti voti ancora da conteggiare, il ticket Biden-Harris ha già diversi milioni di preferenze in più nel voto popolare. Sfortunatamente, mi aspetto ancora tanta divisione nei giorni, mesi, e anni a venire. La lotta continua.
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Il «golpe» mancato del presidente incendiario
Donald Trump. Molte cose possono ancora accadere prima del 20 gennaio alle 12, ora locale, quando Joe Biden dovrebbe giurare come 46° presidente degli Stati Uniti
di Fabrizio Tonello (il manifesto, 08.11.2020)
È fatta. Forse. Mentre il mondo civile tira un sospiro di sollievo al pensiero che il gangster approdato nel 2016 alla Casa Bianca se ne vada, sarà bene ricordare che l’annuncio dell’Associated Press «Biden presidente-eletto» non è sufficiente.
In tempi normali lo sarebbe e lo sconfitto telefonerebbe al vincitore per congratularsi, ma questi non sono tempi normali e Trump non è un politico normale bensì un megalomane narcisista e violento. In effetti, molte cose possono ancora accadere prima del 20 gennaio alle 12, ora locale, quando Joe Biden dovrebbe giurare come 46° presidente degli Stati Uniti.
Prima di tutto i conteggi dei voti devono essere terminati e in tre stati chiave, Pennsylvania, Wisconsin e Georgia le schede saranno ricontate. Occorre poi che gli stati certifichino la vittoria e assegnino il pacchetto dei delegati nel collegio elettorale a Biden: dovrebbe accadere anche in Arizona, portando il totale complessivo del candidato democratico a 306 grandi elettori. Questi si dovranno poi riunire nelle capitali dei rispettivi stati il 14 dicembre e votare effettivamente per Biden (e gli altri 232 per Trump).
Occorre notare che però i grandi elettori non sono obbligati a votare per il candidato che rappresentano. Benché il fenomeno sia raro, i faithless electors esistono: per esempio nel 2016 ben sette grandi elettori votarono per un candidato diverso da quello per cui avrebbero dovuto. Tre voti andarono a Colin Powell, uno a Bernie Sanders, uno a John Kasich, uno a Ron Paul e uno a un capo Sioux.
Voti perfettamente validi e quest’anno, se il margine nel collegio elettorale fosse molto piccolo, la corruzione o l’intimidazione potrebbero rovesciare un risultato che oggi tutti danno per scontato.
Probabilmente non accadrà: i tweet roboanti di Trump e dei suoi scherani, gli appelli alla Corte Suprema e le tecniche intimidatorie sembrano per ora minacce a vuoto. Il tentativo di mantenersi al potere pur avendo ricevuto ben quattro milioni di voti meno di Biden, un golpe bianco con l’aiuto dei giudici amici della Corte Suprema, in queste ore sembra fallito. Sui motivi di questo fallimento vale la pena di soffermarsi.
Donald Trump è un uomo di televisione, quindi non legge. Se lo facesse, avrebbe tenuto sul comodino The Dictator’s Handbook di Bruce Bueno de Mesquita, che è un serio scienziato politico americano e spiega a lunghezza di 322 pagine perché «i cattivi comportamenti sono quasi sempre buona politica». Purtroppo, in questo sottotitolo del libro, la parola chiave è «quasi»: non sempre mentire, intimidire, creare lager per i migranti, violare le regole e minacciare gli avversari è davvero una buona politica.
Trump ha un talento naturale per le bugie e il suo stile provocatorio, i suoi i comportamenti da bullo di cortile piacciono a decine di milioni di americani. Questo non è sorprendente: le personalità autoritarie spesso attraggono le folle, è una malattia della democrazia da cui non siamo vaccinati. Quando il gioco si fa duro gli aspiranti dittatori che vogliono mantenersi al potere devono però seguire il manuale perché i golpe, i semi-golpe e le elezioni truccate non sono cose da dilettanti.
E il manuale prescrive: prima di tutto occorre il cash, la grana, i dobloni, o magari i Bitcoin, insomma qualcosa con cui corrompere chi potrebbe ostacolare i propri piani. Trump forse è ricco e forse no, ma comunque è sempre stato piuttosto sparagnino con i suoi soldi: per esempio vinse la campagna elettorale del 2016 spendendo molto meno di Hillary Clinton e non risulta che quest’anno ne abbia usati, come fanno molti politici negli Stati Uniti.
Secondo: occorre essere certi dell’appoggio dei settori che contano nel paese, in particolare dei militari (de Mesquita ha letto Mao: «Il potere nasce dalla canna del fucile».
Al contrario, Donald Trump si è circondato immediatamente di generali ma poi li ha licenziati tutti: Jim Mattis, Michael Flynn, H. R. McMaster. Non solo: ha comprato un sacco di giocattoli per le forze armate ma ha offeso eroi di guerra intoccabili come John McCain (prigioniero in Vietnam e poi senatore). Ha insultato le famiglie di caduti in Afghanistan, insomma non ha capito che mantenere la lealtà dei militari esige qualcosa di più che immaginare parate di stile nordcoreano a Washington.
Terzo: l’establishment conta, e se un aspirante dittatore vuole mantenersi al potere dopo la fine del suo mandato, occorre che esso sia d’accordo. I finanzieri sono stati ovviamente felici dei lussuosi regali fiscali dell’amministrazione Trump ma sono sufficientemente rassicurati dal vittorioso Joe Biden per essere certi che il nuovo presidente non toccherà i loro privilegi. L’indice Dow Jones non ha fatto una piega quando Trump lanciava i suoi tweet incendiari, considerandoli parte dello spettacolo, non annunci di guerra civile.
Insomma: Trump ha dietro di sé 70 milioni di voti ma né l’oro né la spada, per citare il titolo di un celebre libro di Charles Tilly sulle radici del potere negli ultimi mille anni. Per questo ha fallito (salvo sorprese da qui al 20 gennaio).
CONVENTION:
IL DISCORSO DI JOE BIDEN.
Stanotte l’ex vicepresidente Joe Biden ha tenuto il discorso di accettazione della candidatura a presidente degli Stati Uniti. Qui di seguito c’è la traduzione integrale. [21 agosto 2020] *
"Buona sera. Ella Baker, un gigante del movimento dei diritti civili, ci ha lasciato questa perla di saggezza: fornisci luce alla gente e loro troveranno la strada.Fornire luce alla gente.Queste sono le parole del nostro tempo.L’attuale presidente ha ammantato l’America nell’oscurità per troppo tempo. Troppa rabbia. Troppa paura. Troppa divisione.Qui ed ora, io vi darò la mia parola: se vi fidate di me e mi eleggerete presidente, io mi affiderò a ciò che di meglio c’è in noi, non a ciò che vi è di peggio. Io sarà un alleato della luce, non dell’oscurità.
E’ arrivato il momento per noi, per "We the People", di unirci. Non facciamo errori. Uniti possiamo, e di sicuro lo faremo, superare questa stagione di oscurità in America. Scegliere la speranza sulla paura, i fatti sulla finzione, l’equità sul privilegio. Io sono un fiero esponente democratico e sarò onorato di portare avanti la bandiera del nostro Partito nelle elezioni generali. Quindi, è con grande onore ed umiltà che accetto la nomination a presidente degli Stati Uniti d’America.
Ma visto che io sarò il candidato democratico, devo iniziare a pensare che tipo di presidente potrei essere. Intendo lavorare duramente per coloro che non mi supportano, allo stesso modo di coloro che lo fanno. Questo è il ruolo di un presidente. Rappresentare tutti, non solo la nostra base elettorale o il nostro partito. Questo non è il momento di essere di parte. E’ il momento di essere americani. E’ il momento in cui vi è bisogno di speranza, luce ed amore. Speranza per il nostro futuro, luce per andare avanti, ed amore per il prossimo. L’America non è solo una collezione di interessi che si scontrano tra loro o di Stati blu democratici e rosso repubblicani.Siamo più grandi di tutto questo. Siamo più grandi di tutto questo. Quasi un secolo fa, Franklin Roosevelt ha forgiato un New Deal in un momento di alta disoccupazione, incertezza e paura. Colpito da una malattia, devastato da un virus, FDR ha insistito sul fatto che lui si sarebbe ripreso ed avrebbe prevalso, e credeva che anche l’America avrebbe potuto farcela. E lui ce l’ha fatta. E così possiamo farcela anche noi.
Questa campagna non riguarda solo ottenere voti. Riguarda vincere il cuore, e si, anche l’anima dell’America. Vincere per i più generosi tra di noi, non gli egoisti. Vincere per i lavoratori che mandano avanti questo Paese, non per i pochi privilegiati che sono al comando. Vincere per quelle comunità che hanno conosciuto ingiustizie come il "ginocchio sul collo". Per tutti quei giovani che hanno conosciuto solo un’America di crescente ineguaglianza e di sempre minori opportunità. Loro meritano di conoscere l’America a pieno. Nessuna generazione conoscerà in anticipo quello che la storia le chiede. Tutto quello che sappiamo è che dobbiamo essere pronti quando arriverà il nostro momento. Ed ora la storia ci ha messo dinanzi al momento più difficile che l’America ha mai dovuto affrontare.
Quattro crisi storiche. Tutte alle stesso tempo. Una tempesta perfetta. La peggior pandemia da 100 anni a questa parte. La peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione. La più forte richiesta di giustizia razziale dagli Anni Sessanta. E l’innegabile realtà e le minacce sempre più forti provenienti dal cambiamento climatico. Quindi la questione per noi è semplice: siamo pronti ad affrontare tutto questo? Io credo di si. Dobbiamo esserlo.
Tutte le elezioni sono importanti. Ma sappiamo dentro di noi che questa avrà delle conseguenze enormi. L’America è ad un momento chiave della sua storia. Un momento di grande pericolo, ma allo stesso tempo di straordinarie possibilità. Possiamo scegliere la strada di diventare più arrabbiati, perdere la speranza, ed essere sempre più divisi. Una strada di ombre e sospetti. O possiamo scegliere una strada differente, e tutti assieme, approfittare di questa chance per curare la nostra nazione, rinascere ed unirci. Una strada fatta di speranza e di luce.
Questa è una elezione che cambierà la nostra vita e determinerà il futuro dell’America per un periodo molto lungo. Il carattere stesso dell’America è sulla scheda elettorale. La compassione è sulla scheda elettorale. La decenza, la scienza, la democrazia. E’ tutto sulla scheda elettorale. E la scelta non potrebbe essere più chiara di questa. Non vi è bisogno di retorica. Basta giudicare questo presidente sui fatti. 5 milioni di americani contagiati dal COVID-19. Più di 170 mila deceduti. Di gran lunga il dato peggiore tra tutte le nazioni sulla Terra. Più di 50 milioni di americani hanno fatto richiesta di sussidio di disoccupazione in questo anno. Più di 10 milioni di persone rischiano di perdere la propria assicurazione sanitaria in questo anno. Quasi 1 piccola azienda su 6 ha chiuso in questo anno. Se questo presidente sarà rieletto, sappiamo tutti quello che succederà. I casi di contagio ed i decessi rimarranno troppo elevati. Sempre più aziende chiuderanno in via definitiva. Le famiglie dei lavoratori americani avranno difficoltà ad andare avanti, e nonostante questo, l’1% più ricco continuerà a guadagnare decine di miliardi di dollari grazie a nuovi tagli alle tasse. E l’assalto contro l’Affordable Care Act [ObamaCare, ndt] continuerà fino alla sua distruzione, togliendo l’assicurazione sanitaria a più di 20 milioni di persone -- inclusi più di 15 milioni coperti da Medicaid -- e fino a porre fine alle protezioni che io ed il presidente Obama abbiamo approvato per coloro che soffrivano di condizioni mediche pre-esistenti.
E parlando del presidente Obama, un uomo che sono stato onorato di servire per 8 anni come vicepresidente, permettetemi di usare questo momento per affermare qualcosa che non abbiamo detto abbastanza volte. Grazie, presidente. Sei stato un grande presidente. Un presidente a cui i nostri figli dovrebbero -- e lo hanno fatto -- guardare come un esempio.
Nessuno può dire queste cose dell’attuale occupante della Casa Bianca. Quello che sappiamo di questo presidente è che se otterrà altri quattro anni, continuerà la politica già vista negli ultimi quattro anni. Un presidente che non intende assumersi alcuna responsabilità, rifiuta di guidare questa nazione, attacca gli altri, fa comunella con i dittatori e soffia sulle fiamme dell’odio e della divisione. Lui si sveglia ogni giorno pensando che l’unica cosa che conta è se stesso, non gli altri. Non tu.
E’ questa l’America che vuoi, che vuole la tua famiglia e che vogliono i tuoi figli? Io vedo una America differente. Una generosa e forte. Una altruista e umile. Si tratta di una America che possiamo ricostruire assieme.
Come presidente, il primo passo che intraprenderò è quello di mettere sotto controllo il virus che ha rovinato così tante vite. Perché io ho compreso qualcosa che questo presidente non ha compreso. Non rimetteremo mai in piedi la nostra economia, non rimanderemo mai i nostri figli in sicurezza a scuola e non riavremo mai indietro le nostre vite, finché non batteremo questo virus.
La nostra tragedia attuale è che non avremmo dovuto arrivare a questo. Basta guardarci attorno. La situazione non è così drammatica in Canada, in Europa, in Giappone. O praticamente da qualsiasi altra parte del mondo. Il presidente continua a dirci che il virus scomparirà nel nulla. Continua a sperare in un miracolo. Beh, io ho una notizia da dargli, non sta arrivando nessun miracolo. Siamo al primo posto nel mondo per casi confermati di contagio e per decessi. La nostra economia è a pezzi, con le comunità nere, latino americane, asiatico americane e nativo americane che soffrono più di qualunque altra. E dopo tutto questo tempo, il presidente ancora non ha un piano per rispondere a questa situazione. Beh, io si.
Se io sarò eletto presidente, a partire dal primo giorno implementerò la strategia nazionale che ho esposto a partire da marzo. Farò sviluppare e metterò a disposizione test rapidi per tutti con risultati immediati. Farò in modo di avere le medicine ed i DPI di cui il nostro Paese ha bisogno, facendoli produrre qui in America, Per non essere più alla mercé della Cina o di qualsiasi altro Paese straniero nel momento in cui c’è bisogno di proteggere i nostri cittadini.
Faremo in modo che le nostre scuole abbiano le risorse di cui hanno bisogno per essere aperte, in maniera sicura ed efficace. Metteremo da parte la politica e prenderemo ispirazione dai nostri esperti in modo tale che l’opinione pubblica abbia tutte le informazioni di cui ha bisogno e che merita di avere. La verità, onesta e senza veli. Siamo in grado di accettarla. Ci sarà l’obbligo nazionale di indossare le mascherine non come un imposizione, ma per proteggerci gli uni con gli altri. E’ un dovere patriottico. In sintesi, faremo ciò che avrebbe dovuto essere fatto sin dall’inizio.
Il nostro attuale presidente ha fallito nel suo dovere più elementare di fronte a questa nazione. Non è stato in grado di proteggerci. Non è stato in grado di proteggere l’America. E, miei cari americani, questo è imperdonabile.
CONVENTION:
IL DISCORSO DI JOE BIDEN.
Stanotte l’ex vicepresidente Joe Biden ha tenuto il discorso di accettazione della candidatura a presidente degli Stati Uniti. Qui di seguito c’è la traduzione integrale. [21 agosto 2020] *
Come presidente, vi farò questa promessa: proteggerò l’America. La proteggerò da qualsiasi attacco. Visibile, invisibile. Sempre e comunque. Senza eccezioni. In qualsiasi momento. Guardate, comprendo che sia difficile avere speranza in questo momento. In questa notte d’estate, lasciatemi prendere un momento per parlare a coloro di voi che hanno perso ciò che hanno di più caro.
Io so bene cosa significa perdere qualcuno che amate. Conosco quel profondo buco nero che si apre nel vostro petto. Quella sensazione di essere risucchiati al suo interno. Io so quanto possa essere cattiva e crudele la vita alle volte. Ma io ho imparato due grandi insegnamenti. Prima di tutto, i tuoi cari possono aver lasciato questa Terra ma non lasceranno mai il tuo cuore. Saranno sempre con te. E secondo, io ho trovato che il modo migliore di superare il dolore e la perdita sia quello di trovare uno scopo. E come figli di Dio, tutti noi abbiamo uno scopo nelle nostre vite.
Ed abbiamo un grande scopo anche come nazione: quello di aprire le porte dell’opportunità a tutti gli americani. Salvare la nostra democrazia. Tornare ad essere un faro di luce per tutto il mondo. Quello di rispettare e rendere vere le parole scritte nei documenti sacri che hanno fondato questa nazione, ovvero che tutti gli uomini e le donne sono creati uguali. Ed hanno ottenuto dal proprio Creatore alcuni diritti fondamentali. Tra questi, il diritto alla vita, alla libertà ed alla ricerca della felicità. Lo sapete, mio padre è stato un uomo onorevole e decente. La vita lo ha colpito alcune volte in maniera forte, ma lui si è sempre rimesso in piedi. Ha lavorato in maniera dura ed costruito una grande vita da classe media per la nostra famiglia. Ricordo che mi ha detto, "Joey, io non speravo che il governo fosse in grado di risolvere i miei problemi, ma almeno che fosse in grado di comprenderli". E poi ha continuato: "Joey, un lavoro è più di un salario. E’ dignità, rispetto. E’ il tuo posto all’interno della comunità. E’ la capacità di guardare i tuoi figli negli occhi e dirgli, caro, andrà tutto bene".
Non ho mai dimenticato queste lezioni. E questo è il motivo per cui il mio piano economico parla di lavoro, dignità, rispetto e comunità. Assieme possiamo, e lo faremo, ricostruire la nostra economia. E quando lo faremo, non solo la ricostruiremo, ma ne costruiremo una migliore. Con strade, ponti, autostrade moderne, banda larga e nuovi aeroporti come fondazione di una nuova crescita economica. Con tubi che trasportano acqua pulita a tutte le comunità americane. Con 5 milioni di nuovi posti di lavoro nei settori manifatturieri e tecnologici in modo da creare il futuro qui in America. Con un sistema sanitario con premi assicurativi e prezzi dei farmaci più bassi costruito a partire dall’Affordable Care Act, che questo presidente sta cercando in tutti i modi di distruggere.
Con un sistema educativo che addestra le nostre persone a trovare i migliori lavori del ventunesimo secolo, dove i costi non vietano ai giovani di andare al college ed il debito degli studenti non distrugge la loro vita una volta laureati. Dove sarà possibile per i genitori andare al lavoro senza preoccupazione per la salute dei propri figli e per gli anziani restare a casa con dignità. Con un sistema dell’immigrazione che da potere alla nostra economia e riflette i nostri valori. Con sindacati che assumeranno un ruolo sempre maggiore. Con salari uguali per le donne. Con salari in aumento con cui sarà possibile crescere una famiglia. Si, faremo di più che suonare le lodi per i nostri essenziali lavoratori. Intendiamo iniziare sul serio a pagarli di più.
Noi possiamo, e lo faremo, rispondere al cambiamento climatico. Non è solo una crisi, è una enorme opportunità. Una opportunità per l’America di guidare il mondo nella battaglia per l’energia pulita e creare milioni di nuovi posti di lavoro ben pagati in questo processo. E possiamo pagare per tutto questo, ponendo fine alle scappatoie fiscali ed ai 1,3 mila miliardi di regali fiscali che questo presidente ha dato all’1% più ricco ed alle corporation più grandi e ricche, molte delle quali ad oggi non pagano proprio tasse. Perché non abbiamo bisogno di un sistema fiscale che premia di più coloro che sono ricchi, di coloro che lavorano. Io non intendo punire nessuno. Lungi da me. Ma è passato da tempo il momento in cui i più ricchi e le grandi corporation debbono tornare a pagare il giusto. Per i nostri anziani, la Social Security [il sistema pensionistico, ndt] è un obbligo sacro, una sacra promessa. L’attuale presidente sta minacciando la sua sopravvivenza. Sta proponendo di eliminare la tassa che finanzia quasi metà delle spese della Social Security senza però allo stesso tempo trovare altre entrate. Io non permetterò che questo accada. Se io sarò il vostro presidente, intendo difendere Social Security e Medicare. Avete la mia parola.
Una delle voci più forti che sentiamo oggi nel nostro Paese è quella dei giovani. Loro parlano dell’ineguaglianza e dell’ingiustizia che sono tornati a crescere in America. Ingiustizia economica, razziale, ambientale. Io sento la loro voce, e se ascoltate bene, potete sentirla anche voi. E che si tratti della minaccia esistenziale posta dal cambiamento climatico, dalla paura giornaliera di essere uccisi dalle armi da fuoco in una scuola, o dell’incapacità di trovare il primo lavoro - deve essere compito del prossimo presidente quello di restaurare per tutti le promesse dell’America.
Io non dovrò farlo da solo. Perché avrò un grande vicepresidente al mio fianco. La senatrice Kamala Harris. Lei è una voce potente per questa nazione. La sua storia è la storia americana. Lei conosce tutti gli ostacoli che questo Paese può mettere davanti a troppe persone. Donne, donne di colore, americani di colore, americani di origine sud-asiatica, migranti, tutti coloro che sono lasciati ai margini. Ma lei ha superato qualsiasi ostacolo che ha avuto di fronte. Nessuno più di lei è stato duro con le grandi banche o la lobby delle armi. Nessuno più di lei è stato duro nell’attaccare l’estremismo di questa Amministrazione, la sua incapacità di seguire la legge o anche solo di dire la verità.
Sia Kamala che io, raccogliamo la nostra forza dalle nostre famiglie. Per Kamala, si tratta di Doug e delle rispettive famiglie. Per me, è Jill e la nostra. Nessun uomo merita un così grande amore nella sua vita. Ma io ne ho conosciuto due. Dopo aver perso la mia prima moglie in un incidente automobilistico, Jill è entrata nella mia vita ed ha unito di nuovo la nostra famiglia. Lei è una insegnante. Una madre. Una madre militare. E non si ferma mai. Se lei ha deciso di fare qualcosa, la ottiene sempre. Perché è una donna che si da sempre da fare. E’ stata una grande Second Lady e sono sicuro che sarà una grande First Lady per questa nazione, che lei ama così tanto. Ed io avrò il coraggio di cui ho bisogno grazie alla mia famiglia. Hunter, Ashley, e tutti i nostri nipoti, sorelle e fratelli. Tutti mi hanno dato coraggio e mi hanno tirato su quando ne ho avuto bisogno.
Ed anche se non è più con noi, Beau continua ad ispirarmi ogni giorno. Beau ha servito la nostra nazione in uniforme da soldato. Era un veterano decorato della guerra in Iraq. Quindi io prenderò in maniera molto personale la responsabilità di servire come Comandante in Capo. Sarò un presidente che difenderà i nostri alleati ed amici e renderà chiaro ai nostri avversari che il giorno delle comunelle con i dittatori di tutto il mondo è finito.
Con Biden come presidente, l’America non farà finta di nulla di fronte alle taglie russe sulle teste dei soldati americani. E neppure farà finta di nulla di fronte all’interferenza straniera nel momento dell’esercizio più sacro della nostra democrazia -- il voto. Io sarò sempre dalla parte dei nostri valori, quelli dei diritti umani e della dignità. E lavorerò per raggiungere lo scopo comune di un un mondo più sicuro, pacifico e prospero. La storia ci ha assegnato un obiettivo ancora più urgente. Saremo in grado di essere la generazione che finalmente cancellerà la vergogna del razzismo dal nostro carattere nazionale? Io credo che saremo grado. Io credo che siamo pronti.
Solo una settimana fa, era il terzo anniversario degli eventi di Charlottesville. Ricordate quei neo nazisti e bianchi suprematisti che camminavano per le strade con le torce illuminate? Con le vene pulsanti? Urlando la stessa bile antisemita che circolava in Europa negli Anni Trenta? Ricordate gli scontri violenti che sono seguiti tra coloro che predicavano l’odio e coloro che avevano avuto il coraggio di ribellarsi contro di esso? Ricordate le parole del nostro presidente? C’erano, cito testualmente, "brave persone da entrambi i lati". In quel momento è suonato l’allarme per noi come Paese. E per me, è arrivato il momento di scendere in campo. In quel momento, ho deciso di correre per la presidenza. Mio padre mi aveva insegnato che essere silenti significava essere complici. Ed io non potevo essere in silenzio o complice di tutto questo.
In quel momento, ho detto che eravamo in una battaglia per l’anima di questa nazione. E lo siamo ancora. Una delle conversazioni più importanti che ho avuto nel corso di questa intera campagna elettorale è stata con qualcuno che è troppo giovane per votare. Mi sono incontrato con Gianna Floyd, una bambina di sei anni, il giorno prima che suo padre George Floyd venisse seppellito. E’ stata incredibilmente coraggiosa. Non lo dimenticherò mai. Quando mi sono avvicinato a lei parlare, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto, "papà ha cambiato il mondo". Le sue parole mi sono entrate nel cuore.
Forse l’assassinio di George Floyd è stato il punto di rottura di questa nazione. Forse la morte di John Lewis è stata l’ispirazione. Qualsiasi cosa accada, l’America ora è pronta, come affermava John, a porre fine "una volta e per tutte al grande fardello dell’odio" ed al razzismo sistemico.
La storia americana ci insegna che è stato nei momenti più difficili che abbiamo fatto i nostri più grandi progressi. Abbiamo trovato la luce. Ed in questo momento oscuro, io credo che siamo pronti di nuovo a fare grandi passi avanti. Che siamo in grado di trovare di nuovo la luce.
Io ho sempre creduto che si possa definire l’America con una sola parola: possibilità. Che in America, chiunque, e dico davvero chiunque, dovrebbe avere la possibilità di inseguire i propri sogni fino a dove le abilità fornite da Dio siano in grado di portarci. Non possiamo mai perdere questo carattere. In tempi così difficili come questi, io credo che ci sia una sola strada da seguire. Una America unita. Unita nel cercare una Unione sempre più perfetta. Unita nei nostri sogni per un futuro migliore per noi ed i nostri figli. Unita nella nostra determinazione di rendere migliori gli anni a venire. Siamo pronti? Io credo che lo siamo. Questa è una grande nazione. E noi siamo un popolo buono e decente. Questi sono gli Stati Uniti d’America. E non c’è mai stato nulla che non siamo stati in grado di ottenere quando siamo stati uniti.
Il poeta irlandese Seamus Heaney in passato ha scritto:
"La storia afferma,
Non c’è speranza su questo lato della tomba,
Ma allora, una volta nel corso della vita,
L’onda lunga che si attendeva da tempo
Della Giustizia si è mossa,
E la speranza e la storia si sono uniti in una rima".
Questo è il nostro momento di fare in modo che la speranza e la storia si uniscano assieme.
Con passione e giusti propositi, iniziamo -- tu ed io, assieme, come una unica nazione, guidata da Dio -- ad unirci nel nostro amore per l’America e nel nostro amore per il prossimo.
Perché l’amore è più forte dell’odio.
Perché la speranza è più forte della paura.
Perché la luce è più forte dell’oscurità.
Questo è il nostro momento.
Questa è la nostra missione.
Possa la storia affermare in futuro che la fine di questo capitolo oscuro della storia americana è iniziata oggi, mentre l’amore, la speranza e la luce si sono uniti assieme in questa battaglia per l’anima della nostra nazione.
E che questa sia una battaglia che tutti noi, assieme, vinceremo.
Ve lo prometto.
Grazie a tutti.
E che Dio vi protegga.
E che Dio possa proteggere le nostre truppe".
* Fonte: Elezioni USA 2020
Amanda Gorman, testo e traduzione di una poesia diventata culto
di Claudia Casiraghi (VF - Vanity, 21 gennaio 2021)
Ventiduenne, laureata ad Harvard, la «ragazzina magra, cresciuta da una mamma single» ha accompagnato Joe Biden nel giorno dell’insediamento, conquistando con la sua «The Hill We Climb» il mondo intero
Joe Biden se ne è innamorato in un giorno al Congresso, quando, durante un recital, l’ha sentita parlare. Amanda Gorman, giovane poetessa afroamericana, gli ha ricordato se stesso: il passato di bambino segnato da un difetto di pronuncia, l’ambizione, sana, di chi voglia essere artefice del proprio destino. Così, una volta eletto presidente degli Stati Uniti d’America, ha deciso di ricercarla.
Amanda Gorman, nel suo cappotto giallo, è salita a Capitol Hill e, sesta nella storia del suo Paese, ha accompagnato il giuramento di Biden con una poesia.
A scriverla, ci ha pensato da sé. Prima, con lentezza. Poi, scossa dalla violenza dei trumpiani. The Hill We Climb, completata nella notte dell’assedio a Capitol Hill, ha commosso l’America, che nella «ragazzina magra, cresciuta da una mamma single», ha visto il lascito di Martin Luther King. «Ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo», ha pronunciato, solenne, la Gorman, che al New York Times ha detto di voler correre per la presidenza. Non domani, ma nel 2036.
La ventiduenne, laureata ad Harvard e certificata National Youth Poet Laureate, ha dato mostra di una solidità rara, di una lucidità di pensiero con la quale ha ottenuto il plauso di Barack e Michelle Obama, pronti a sostenerla nel suo sogno politico. Un sogno che, oggi, va a braccetto con la carriera letteraria. Dopo aver pubblicato la raccolta The one for whom food is not enough, la Gorman ha in uscita un libro per bambini, Change Signs.
L TESTO DELLA POESIA, NELLA SUA VERSIONE ORIGINALE
When day comes, we ask ourselves where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry, a sea we must wade.
We’ve braved the belly of the beast.
We’ve learned that quiet isn’t always peace,
and the norms and notions of what “just” is isn’t always justice.
And yet, the dawn is ours before we knew it.
Somehow we do it.
Somehow we’ve weathered and witnessed a nation that isn’t broken,
but simply unfinished.
We, the successors of a country and a time where a skinny Black girl descended from slaves and raised by a -single mother can dream of becoming president, only to find herself reciting for one.
And yes, we are far from polished, far from pristine,
but that doesn’t mean we are striving to form a union that is perfect.
We are striving to forge our union with purpose.
To compose a country committed to all cultures, colors, characters, and conditions of man.
And so we lift our gazes not to what stands between us, but what stands before us.
We close the divide because we know, to put our future first, we must first put our differences aside.
We lay down our arms so we can reach out our arms to one another.
We seek harm to none and harmony for all.
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew.
That even as we hurt, we hoped.
That even as we tired, we tried.
That we’ll forever be tied together, victorious.
Not because we will never again know defeat, but because we will never again sow division.
Scripture tells us to envision that everyone shall sit under their own vine and fig tree and no one shall make them afraid.
If we’re to live up to our own time, then victory won’t lie in the blade, but in all the bridges we’ve made.
That is the promise to glade, the hill we climb, if only we dare.
It’s because being American is more than a pride we inherit.
It’s the past we step into and how we repair it.
We’ve seen a force that would shatter our nation rather than share it.
Would destroy our country if it meant delaying democracy.
This effort very nearly succeeded.
But while democracy can be periodically delayed,
it can never be permanently defeated.
In this truth, in this faith, we trust,
for while we have our eyes on the future, history has its eyes on us.
This is the era of just redemption.
We feared it at its inception.
We did not feel prepared to be the heirs of such a terrifying hour,
but within it, we found the power to author a new chapter, to offer hope and laughter to ourselves.
So while once we asked, ‘How could we possibly prevail over catastrophe?’ now we assert, ‘How could catastrophe possibly prevail over us?’
We will not march back to what was, but move to what shall be:
A country that is bruised but whole, benevolent but bold, fierce and free.
We will not be turned around or interrupted by intimidation because we know our inaction and inertia will be the inheritance of the next generation.
Our blunders become their burdens.
But one thing is certain:
If we merge mercy with might, and might with right, then love becomes our legacy and change, our children’s birthright.
So let us leave behind a country better than the one we were left.
With every breath from my bronze-pounded chest, we will raise this wounded world into a wondrous one.
We will rise from the golden hills of the west.
We will rise from the wind-swept north-east where our forefathers first realized revolution.
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states.
We will rise from the sun-baked south.
We will rebuild, reconcile, and recover.
In every known nook of our nation, in every corner called our country,
our people, diverse and beautiful, will emerge, battered and beautiful.
When day comes, we step out of the shade, aflame and unafraid.
The new dawn blooms as we free it.
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it.
If only we’re brave enough to be it.
IL TESTO DELLA POESIA, TRADOTTO IN ITALIANO
Quando arriva il giorno, ci chiediamo dove possiamo trovare una luce in quest’ombra senza fine?
La perdita che portiamo sulle spalle è un mare che dobbiamo guadare.
Noi abbiamo sfidato la pancia della bestia.
Noi abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace,
e le norme e le nozioni di quel che «semplicemente» è non sono sempre giustizia.
Eppure, l’alba è nostra, prima ancora che ci sia dato accorgersene.
In qualche modo, ce l’abbiamo fatta.
In qualche modo, abbiamo resistito e siamo stati testimoni di come questa nazione non sia rotta,
ma, semplicemente, incompiuta.
Noi, gli eredi di un Paese e di un’epoca in cui una magra ragazza afroamericana, discendente dagli schiavi e cresciuta da una madre single, può sognare di diventare presidente, per sorprendersi poi a recitare all’insediamento di un altro.
Certo, siamo lontani dall’essere raffinati, puri,
ma ciò non significa che il nostro impegno sia teso a formare un’unione perfetta.
Noi ci stiamo sforzando di plasmare un’unione che abbia uno scopo.
(Ci stiamo sforzando) di dar vita ad un Paese che sia devoto ad ogni cultura, colore, carattere e condizione sociale.
E così alziamo il nostro sguardo non per cercare quel che ci divide, ma per catturare quel che abbiamo davanti.
Colmiamo il divario, perché sappiamo che, per poter mettere il nostro futuro al primo posto, dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze.
Abbandoniamo le braccia ai fianchi così da poterci sfiorare l’uno con l’altro.
Non cerchiamo di ferire il prossimo, ma cerchiamo un’armonia che sia per tutti.
Lasciamo che il mondo, se non altri, ci dica che è vero:
Che anche nel lutto, possiamo crescere.
Che nel dolore, possiamo trovare speranza.
Che nella stanchezza, avremo la consapevolezza di averci provato.
Che saremo legati per l’eternità, l’uno all’altro, vittoriosi.
Non perché ci saremo liberati della sconfitta, ma perché non dovremo più essere testimoni di divisioni.
Le Scritture ci dicono di immaginare che ciascuno possa sedere sotto la propria vite e il proprio albero di fico e lì non essere spaventato.
Se vorremo essere all’altezza del nostro tempo, non dovremo cercare la vittoria nella lama di un’arma, ma nei ponti che avremo costruito.
Questa è la promessa con la quale arrivare in una radura, questa è la collina da scalare, se avremo il coraggio di farlo.
Essere americani è più di un orgoglio che ereditiamo.
È il passato in cui entriamo ed è il modo in cui lo ripariamo.
Abbiamo visto una forza che avrebbe scorsso il nostro Paese anziché tenerlo insieme.
Lo avrebbe distrutto, se avesse rinviato la democrazia.
Questo sforzo è quasi riuscito.
Ma se può essere periodicamente rinviata,
la democrazia non può mai essere permanentemente distrutta.
In questa verità, in questa fede, noi crediamo,
Finché avremo gli occhi sul futuro, la storia avrà gli occhi su di noi.
Questa è l’era della redenzione.
Ne abbiamo avuto paura, ne abbiamo temuto l’inizio.
Non eravamo pronti ad essere gli eredi di un lascito tanto orribile,
Ma, all’interno di questo orrore, abbiamo trovato la forza di scrivere un nuovo capitolo, di offrire speranza e risate a noi stessi.
Una volta ci siamo chiesti: “Come possiamo avere la meglio sulla catastrofe?”.
Oggi ci chiediamo: “Come può la catastrofe avere la meglio su di noi?”.
Non marceremo indietro per ritrovare quel che è stato, ma marceremo verso quello che dovrebbe essere:
Un Paese che sia ferito, ma intero, caritatevole, ma coraggioso, fiero e libero.
Non saremo capovolti o interrotti da alcuna intimidazione, perché noi sappiamo che la nostra immobilità, la nostra inerzia andrebbero in lascito alla prossima generazione.
I nostri errori diventerebbero i loro errori.
E una cosa è certa:
Se useremo la misericordia insieme al potere, e il potere insieme al diritto, allora l’amore sarà il nostro solo lascito e il cambiamento, un diritto di nascita per i nostri figli.
Perciò, fateci vivere in un Paese che sia migliore di quello che abbiamo lasciato.
Con ogni respiro di cui il mio petto martellato in bronzo sia capace, trasformeremo questo mondo ferito in un luogo meraviglioso.
Risorgeremo dalle colline dorate dell’Ovest.
Risorgeremo dal Nord-Est spazzato dal vento, in cui i nostri antenati, per primi, fecero la rivoluzione.
Risorgeremo dalle città circondate dai laghi, negli stati del Midwest.
Risorgeremo dal Sud baciato dal sole.
Ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo.
In ogni nicchia nota della nostra nazione, in ogni angolo chiamato Paese,
La nostra gente, diversa e bella, si farà avanti, malconcia eppure stupenda.
Quando il giorno arriverà, faremo un passo fuori dall’ombra, in fiamme e senza paura.
Una nuova alba sboccerà, mentre noi la renderemo libera.
Perché ci sarà sempre luce,
Finché saremo coraggiosi abbastanza da vederla.
Finché saremo coraggiosi abbastanza da essere noi stessi luce.