Aveva 94 anni, era uno dei personaggi più popolari del Paese. Sempre su posizioni progressistae, ha sostenuto le unioni omosessuali
Francia, è morto l’Abbé Pierre difese i poveri e i rifugiati
Nel 2005 ammise di aver avuto rapporti sessuali con una donna dopo l’ordinazione *
PARIGI- E’ morto l’abate Pierre, simbolo del cattolicesimo francese. Aveva 94 anni. Il religioso è deceduto durante la notte nell’ospedale Val de Grace di Parigi dove era ricoverato dallo scorso 15 gennaio. La notizia è stata diffusa dal Martin Hirsch, presidente di Compagnons d’Emmaus Francia, l’organizzazione per i poveri e i rifugiati, fondata dall’abate nel 1949.
Henri Groues, detto l’Abbè Pierre, prese gli ordini religiosi nel 1938 e, durante la seconda guerra mondiale, partecipò alla resistenza francese salvando numerose vite e favorendo la fuga di ebrei e perseguitati politici verso Svizzera o Algeria.
"L’Abate ci ha lasciato alle 05:25" ha aggiunto Martin Hirsch annunciando la morte del religioso che era stato ricoverato per una infezione polmonare. L’Abbè Pierre era uno dei personaggi più popolari della Francia.
Nell’ottobre 2005, fece scalpore per l’ammissione di un rapporto sessuale con una donna dopo l’ordinazione e per il suo appoggio alle unioni omosessuali.
Addolorata la prima reazione del presidente Jaques Chirac: "Tutta la Francia è profondamente commossa. Abbiamo perso un’immensa figura, una coscienza, un uomo che impersonificava la bontà" (la Repubblica, 22 gennaio 2007)
La biografia di Henri Antoine Groués. L’ordinazione come cappuccino, gli anni della Resistenza e al Parlamento, la Fondazione di Emmaus
L’Abbè Pierre, dalla vocazione ad Assisi alla battaglia accanto ai poveri per la giustizia
di ROSARIA AMATO *
ROMA - "Amici miei, aiuto! Una donna è morta assiderata alle 03:00 di questa mattina. In mano aveva ancora il documento con cui il giorno prima le era stato notificato lo sfratto". Con quest’appello lanciato da Radio Lussemburgo l’1 febbraio 1954, seguito dalla richiesta di "5.000 coperte, 300 grandi tende americane e 200 fornelli da campo" per i senzatetto l’Abbè Pierre divenne in Francia, e non solo, il più conosciuto e rispettato difensore dei diritti dei più poveri. Ruolo che ha conservato fino ad oggi, tanto da far dire al presidente francese Jaques Chirac che con la morte del religioso la Francia ha perduto "una figura immensa, una coscienza, un’incarnazione della bontà".
Henri Antoine Groués, detto Abbé Pierre, era nato il 5 agosto 1912 a Lione, quinto di otto figli, da una famiglia benestante. Dopo gli studi presso il Collegio dei Gesuiti di Lione, a 16 anni aveva incontrato il francescanesimo, in seguito a una gita in Italia, ad Assisi, compiuta con gli Scout. Lì, al Convento Le Carceri, aveva avvertito forte la vocazione per la vita monacale, e così a 19 anni era entrato nel convento di clausura dei Cappuccini di Lione, dopo aver distribuito ai poveri la sua parte di eredità paterna.
Nel 1938 viene ordinato sacerdote, ma negli anni successivi la sua vita non è quella di un religioso fuori dal mondo. La vocazione alla povertà più assoluta si coniuga infatti con l’impegno sociale, che in quegli anni significa impegno per la giustizia, per la libertà in una Francia assogettata e umiliata dal nazismo. Nel 1942 comincia così un’intensa azione di salvataggio delle vittime della tirannia nazista. E’ proprio in quegli anni che l’Abbé Groués diventa l’Abbé Pierre. Salva diverse persone (ebrei, polacchi) ricercate dalla Gestapo. Falsifica passaporti, diventa guida alpina e trasporta attraverso le Alpi ed i Pirenei le persone in pericolo.
Nel 1943, diventa a tutti gli effetti partigiano ed organizza l’Armata di Vercors che, si ricorda nella biografia del religioso pubblicato nel sito della comunità Emmaus, ha dato un importante contributo per la liberazione della Francia dal nazismo. L’Abbè Pierre viene anche arrestato dalla Gestapo, ma riesce a scappare e viene spedito ad Algeri in aereo nascosto in un sacco postale.
Dopo la guerra, rientra a Parigi e viene eletto Deputato alla Assemblea Nazionale. Nel 1947 fonda con Lord Boyd Orr il Movimento Universale per una Confederazione Mondiale. Nel 1949, con André Philip presenta un disegno di legge per il riconoscimento dell’Obiezione di coscienza. E nello stesso anno fonda il Movimento Emmaus, al quale si dedica più profondamente dal 1951, quando lascia il Parlamento in opposizione a una legge elettorale che definisce "truffa".
Il primo alleato dell’Abbè Pierre nell’opera per i senzatetto è George, un uomo condannato per omicidio e tornato a Parigi dopo venti anni di lavori forzati, che aveva tentato il suicidio visto che si era ritrovato malato e solo, abbandonato dai propri parenti. George si trasferisce a Neuilly Plaisance, una vecchia casa alla periferia di Parigi che diventa la prima Comunità Emmaus.
Il movimento Emmaus diventa conosciuto e in grado di attirare un gran numero di donazioni soprattutto dopo il famoso appello a Radio Lussemburgo che nel 1954 scuote la Francia. Un mese dopo, viene aperto il primo cantiere per 82 case per i senzatetto. Nei mesi successivi l’Abbé Pierre gira tutte le città della Francia, ma viene chiamato anche da diversi paesi europei per incontri e conferenze.
E poi, negli anni, arrivano anche gli inviti dall’America, il Medio Oriente, ovunque cominciano a sorgere le Comunità Emmaus, comunità di poveri che mediante il lavoro di recupero e riutilizzo di quanto viene buttato via, riescono ad aiutare chi sta ancora peggio.
Tra i messaggi più celebri dell’Abbè Pierre, "Poveri che diventano donatori, e provocatori di chi ha e non fa nulla", "Servire e far servire per primi i più sofferenti, è la sorgente della vera Pace.", "La miseria giudica il mondo e rovina ogni possibilità di pace." "Siamo condannati a sapere tutto. L’urgenza è la condivisione, condivisione anche del bene lavoro, del tempo libero..."
L’Abbè Pierre ha anche ricevuto molte onoreficenze: tra le più importanti la Legion d’onore, nel 1981, e il Premio Balzan per la Pace nel 1991; venne anche proposto per il Nobel. Su di lui sono stati scritti libri e girati film, ed egli stesso, l’anno scorso, ha pubblicato un’autobiografia dal titolo "Dio Mio...perchè?", definita da più parti "una bomba". Nel libro infatti l’Abbè Pierre confessava di aver "conosciuto l’esperienza del desiderio sessuale e del suo rarissimo soddisfacimento", si schierava a favore del matrimonio dei preti e dell’ordinazione delle donne, criticando fortemente l’attuale Papa e il suo predecessore che confondevano in materia motivi sociologici con motivi teologici. E ammetteva anche le "alleanze" (non i matrimoni) omosessuali.
Tranne che nell’ultimissimo periodo, nel quale è stato sopraffatto dalla malattia, l’Abbè Pierre ha sempre continuato a viaggiare in tutto il mondo, per fondare nuove comunità, aiutare quelle esistenti e continuare le proprie battaglie in difesa delle persone ai margini della società.
* la Repubblica, 22 gennaio 2007.
Di seguito i link alle associazioni di Emmaus italiana e francese
«Amore, nome moderno dei diritti umani»
di Abbé Pierre (www.missionline.org, 20 gennaio 2012)
Quale «parola» è più spesso evocata, nei nostri temi - che si ama molto nominare (ma per dire cosa? «moderni», sebbene non vi sia niente di più futile e vano che le «mode» - insomma, quale termine viene più spesso richiamato della parola «diritto», e più ancora «diritti dell’uomo»? E senza dubbio chiunque, se è sincero, quando ne parla e lotta per il rispetto di questi «diritti», percepisce che egli sta evocando un valore che ha un carattere molto raro, tanto che definiamo «assoluto».
Ma chiunque lotta (fino a arrivare a rischiare di soffrire la persecuzione per questo motivo) per il rispetto di questo valore assoluto, non percepisce molto in fretta che il vero problema non è definire, numerare, migliorare l’elenco e la dichiarazione di questi «diritti», bensì trovare e riuscire a fare in modo che questi diritti poggino veramente su qualcosa per cui vi sia la reale possibilità che essi vengano rispettati?
Tutti i nostri sforzi non possono ottenere altro se non - vedi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, redatta da una commissione di cui facevo parte - la vaga allusione alla «comunità» di cui il servizio può rendere «possibile» il «libero e pieno sviluppo della personalità» di ciascuno.
Come stupirsi che, non osando parlare dell’amore, gli uomini non vedano i loro «diritti» restare frasi campate in aria, portate dal vento qui e là?
In realtà non ci sarà mai vero rispetto di nessuna Dichiarazione dei diritti dell’uomo fino a che, in qualche maniera, non sia riconosciuto, insegnato, messo in risalto il «perché l’uomo c’è», ovvero la sua finalità, posta sulle sue spalle (e in questo egli è unico, totalmente, tra tutti gli esseri che possiamo vedere), qualcosa che viene caricato su di lui per il fatto che egli possiede la libertà, ovvero la libera responsabilità d’essere capace e idoneo a usare questa corta durata che gli viene offerta nel tempo per imparare a Amare per sempre al di là del tempo.
L’Amore significa: «Quando tu soffri, tu, l’altro, chiunque tu sia, dove tu sia, io soffro e tutte le mie energie si sollevano per guarirci insieme del tuo male diventato il mio, per mettere la mia gioia nella tua e la tua nella mia».
Non esiste una sorgente di pace, ovvero di salvaguardia dei «diritti», se non qui. E qui, ne sono certo, si trova l’Incontro con l’Infinito della Tenerezza divina, verso la quale il cuore dell’uomo ha una fame e sete fortissima.
Coprite quel santo di cui non posso sopportare la vista*
di René Poujol
in “temoignagechretien.fr” del 6 febbraio 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ci si poteva aspettare che il 1° febbraio 2014 fosse l’occasione, per i media, di evocare, sessant’anni dopo, l’appello dell’abbé Pierre che invitava all’insurrezione della bontà.
L’anniversario è stato, in effetti, onorato, qua e là, ma in tono minore. È sicuramente il prezzo da pagare alle leggi dell’informazione. Come poteva competere il ricordo del vecchio prete con i fuochi d’artificio degli amori presidenziali o le folli paure dei corsi di educazione sessuale alla scuola materna?
Ricordando i giorni che seguirono la morte del fondatore di Emmaüs, il 22 gennaio 2007, la persona che era stato il suo ultimo segretario particolare confidava: “Ovunque si vedeva e si sentiva l’abbé Pierre. E io aveva l’impressione che l’uomo di cui si parlava non fosse quello di cui stavo preparando i funerali” (1).
È un’osservazione che continua ad essere valida. Sette anni dopo, è sempre la stessa immagine di ribelle, di costruttore, di difensore dei senzatetto che torna a galla, come cristallizzata per l’eternità nel momento stesso della sua morte.
Del “castoro meditabondo” dei suoi anni di scoutismo, l’opinione pubblica e i media hanno ripreso solo il militante del diritto alla casa. Hanno costantemente trascurato di interrogarsi sull’origine del suo impegno: quel “colpo di fulmine ad Assisi” dove, a quindici anni, il giovane Henri Grouès ha avuto l’intuizione “che l’adorazione fosse la più totale comunione universale e, allo stesso tempo, fonte d’azione” (2). Insomma, lui, che, da adolescente, sognava di essere un eroe e un santo, è riuscito ad imporre solo un’immagine di combattente fino all’estremo, di santo laico, nel senso che Camus esprimeva in questi termini: “Se dovessi scrivere, qui, un solo libro di morale, avrebbe cento pagine, di cui novantanove sarebbero bianche. Sull’ultima, scriverei: «Conosco un unico dovere, ed è quello di amare»” (3).
L’eroismo lo si deve solo alle virtù personali di un uomo, di una donna, mentre la santità, la si riceve da una totale fiducia in Dio. E non si può comprendere nulla del destino del fondatore di Emmaüs, se non si prende atto del fatto che la sua vita fu un miracolo. Perché la sua costituzione fragile e malaticcia sembrava condannarlo all’immobilismo o all’insuccesso. Per due volte, nel corso della sua vita, si è sentito dire: lei deve rassegnarsi, non potrà fare più nulla. La prima volta all’età di 26 anni, lasciando il monastero dei cappuccini dove aveva pensato di morire... La seconda volta, venti anni dopo, uscendo dall’ospedale psichiatrico svizzero dove lo aveva portato il burn-out, l’esaurimento conseguente al superlavoro dell’Inverno 54.
Nella preghiera, nell’adorazione, nella celebrazione quotidiana dell’Eucaristia: è lì che durante tutti i suoi 94 anni di vita l’abbé Pierre ha trovato la forza di compiere quella che percepiva essere la sua missione: attraverso il servizio al fratello, al più sofferente, diventare un credente credibile per rendere credibile il Dio d’amore.
Se, da un lato, la santità di quest’uomo sfugge ai media, dall’altro essa continua a far problema negli ambienti ecclesiastici, dove non si apprezza affatto una forma di evangelizzazione a cui interessa ben poco conquistare nuove anime alla Chiesa. È l’amore del fratello, solo quello, pensava l’abbé Pierre, che ci fa entrare nel Regno, quindi nella storia della Salvezza. E, se si ritiene che “fuori dalla Chiesa non c’è Salvezza”, allora bisogna ammettere che chi è nella Salvezza è anche, in un certo modo, nella Chiesa. Si possono capire le riserve che tali affermazioni possono suscitare in qualcuno! Ma non nel “piccolo popolo credente”, che ha invece sempre percepito la perfetta coerenza che c’era tra l’intuizione che ha del Vangelo, e la vita semplice e buona di quell’amico di Dio.
*In francese: “ Couvrez ce saint que je ne saurais voir ”, in una variante (con un gioco di parole tra “saint”=santo, e “sein”=seno ) del celebre verso che Molière fa dire a Tartuffe (il “religioso ipocrita” per eccellenza): “ Couvrez ce sein que je ne saurais voir ” = copra quel seno di cui non posso sopportare la vista.
(1)
Laurent Desmard,
La messe de l’abbé Pierre
, DDB éditions 2009.
(2)
Abbé Pierre,
Dieu merci
, Bayard, p.50
(3)
Albert Camus,
Carnets,
Folio, Tome 1, p.62.
René Poujol è co-autore di Le secret spirituel de l’abbé Pierre , ed. Salvator, scritto con padre Jean- Marie Viennet, ex segretario generale di Emmaüs international , confidente e confessore dell’abbé Pierre
Testimoni
L’abbé Pierre: ci ha tanto illuminato
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens (in Témoignage Chrétien del 25 gennaio 2007)
Ringraziamo Giancarlo Martini, responsabile del sito www.finesettimana.org, per averci segnalato il seguente articolo da loro tradotto e pubblicato nella loro rassegna stampa.
Sul settimanale francese Témoignage Chrétien è apparso un articolo sulla figura dell’abbé Pierre, recentemente scomparso, da parte del vescovo emerito di Amiens Jaques Noyer. In Francia, ben più che in Italia, la scomparsa dell’abbé Pierre ha suscitato enormi emozioni e reazioni. L’articolo, tradotto e proposto, risente della situazione francese, ma le osservazioni svolte dal vescovo sono stimolanti anche per la gente di chiesa italiana.
L’abbé Pierre: ci ha tanto illuminato
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens (in Témoignage Chrétien n. 3237 del 25 gennaio 2007)
Non ha mai nascosto la sua fede cristiana. Non ha mai taciuto il suo essere prete. Non ha mai rimesso in discussione la sua appartenenza alla Chiesa cattolica. Al contrario, ci ha svelato la sua intimità contemplativa col Cristo da cui traeva l’energia. Ha mostrato la sua fedeltà alla preghiera semplice dei credenti più umili. Non ha mai rinnegato l’esempio ricevuto nella sua famiglia lionese e che ha dato senso alla sua vita.
Le folle gli rendono omaggio. I media parlano solo di lui. I politici di ogni sponda si uniscono nel rispetto. I saltimbanchi esprimono una forte emozione parlando di lui. E i vescovi? E le Chiese? Non li ho ancora sentiti. Sarò ancora, come mi diceva al telefono l’abbé Pierre quando ha pubblicato le sue ultime confidenze (Mio Dio, perché? edito in Italia da Garzanti), l’unico vescovo a difenderlo? No, ho già sentito Jacques Gaillot. E, ne sono certo, prima ancora che questo giornale sia pubblicato, voci ben più solenni della mia si saranno fatte sentire.
Ma non è a loro che sono stati tesi i primi microfoni: non si è ritenuto che fossero loro i più vicini, i più interessati. Si era detto più volte che nella Chiesa la sua parola era stata libera e scomoda. Si è ricordato che aveva ammesso di aver avuto nella sua vita qualche debolezza sessuale. E’ per questo che la Chiesa esita a esprimere i suoi sentimenti? No, non arrivo a credere che vi si coltivi a tal punto la paura della sincerità e la severità per il peccatore.
Ciò che mette a disagio la gente di Chiesa, è che l’abbé Pierre in modo troppo evidente è un annunciatore e testimone di Vangelo. Non ha mai parlato a nome di una Legge, ma ha guardato lo sconosciuto che giaceva nel fosso. Non ha predicato una dottrina; ha invitato ad aprire gli occhi su coloro che soffrono e a far crescere in noi la rivolta del cuore. Non ha mai difeso un’istituzione, ma ha amato delle persone concrete. Non chiedeva ai cristiani di essere cristiani; chiedeva agli uomini di essere uomini.
Non ha mai rifiutato la politica, né la carità, né i media, né la notorietà, e neppure la violenza, ma non ha mai lasciato che i suoi obiettivi si impantanassero in queste paludi. Era una coscienza, risvegliatrice di coscienze.
Né una buona coscienza perché mai soddisfatta, né una cattiva perché mai disperata. Una coscienza! Un po’ come il Cristo che viene nel mondo ad illuminare tutti gli uomini. E se gli è capitato di avere parole discordanti sul celibato dei preti, l’omosessualità, il preservativo e altri temi, non è stato in nome di una teologia. E’ perché aveva incontrato uomini infelici, malati disperati, anime oppresse dal peso dei loro segreti.
Ci possiamo augurare che la gente di Chiesa senta attraverso di lui, attraverso le generosità che ha fatto sorgere, attraverso l’emozione dei più umili, il richiamo ad una Chiesa “a servizio e povera”, come si diceva al tempo del Concilio. Poiché è proprio quello che è stato abbozzato allora: aprire le finestre per vedere la realtà del mondo, mettersi in ascolto di ciò che gli uomini attendevano, preferire, alle sottigliezze della dottrina, il dialogo e il servizio. Il Vangelo non ci dice forse che la Legge è scritta nel cuore di ogni uomo e che l’incontro dell’altro, in particolare del povero, del prigioniero, del malato, dell’abbandonato, ha la capacità di farla sorgere senza neppure che il nome di Gesù sia pronunciato? Da Coluche ai fratelli Legrand[1], l’abbé Pierre ha già dei successori per risvegliare la coscienza di tutti davanti alla miseria dei nostri fratelli. Ci sarà qualcuno per aiutare la Chiesa ad uscire dalla sua buona o cattiva coscienza, affinché essa possa restare, come lo è stata spesso, uno dei luoghi dove si risveglia la coscienza dell’uomo?
Note
[1] Coluche (Michel Gérard Joseph Colucci, 1944-1986), conosciuto come comico impertinente e critico sulla società contemporanea, è stato il fondatore dei “Ristoranti del cuore”, dove si offre a chi ne ha bisogno la possibilità di mangiare gratuitamente. La celebre salopette con cui si presentava al pubblico gli era stata data dalla comunità di “Emmaus”.
I fratelli Legrand (Augustin, 31 anni, attore, Jean-Baptiste, 30 anni, produttore cinematografico e presidente dell’associazione “Enfants de Don Quichotte”, Joseph, 21 anni, studente in scienze politiche, con l’amico Pascal Oumakhlouf, 36 anni), avendo preso coscienza della realtà dei “senza fissa dimora” hanno installato il 16 dicembre scorso una lunga fila di tende lungo il Canal Saint-Martin a Parigi, per accogliere queste persone, ma anche per sensibilizzare l’opinione pubblica e sollevare il problema a livello politico.
* www.ildialogo.org, Mercoledì, 07 febbraio 2007
Quella volta, tre anni fa, con l’Abbé Pierre
di Maurizio Chierici *
Parlava con un filo di voce. Ma le parole erano le parole di sempre, intransigenti nel pretendere le stesse cose che da cinquant’anni continuava a chiedere: guardare non basta. La commozione è un sentimento sterile se non si vive la vita degli altri. Gli altri che hanno accompagnato l’Abbé Pierre sono gli ultimi senza nome, spesso «sans papier», stranieri clandestini in fuga da fame e paura. Ogni tanto mi sfiorava il braccio mormorando: «Come sono stanco, vorrei respirare...». Si aprivano silenzi interpretati dalla folla accorsa per ascoltarlo come un invito alla meditazione. E il silenzio dell’Abbé Pierre diventava il silenzio di tutti. Le pause si allungavano fino a quando riapriva gli occhi: «Un’altra domanda...».
Succedeva tre anni fa, ultimo incontro nella Pieve Romena a Pratovecchio, parco del Casentino. Si presentava un libro di poesie uscito in Francia mezzo secolo prima: Foglie sparse, per la prima volta firmato col nome dietro il quale il vecchio cappuccino era nascosto negli anni della Resistenza. La lettura dei versi dedicati agli «angeli custodi» suscita sgomento: «Ma dove siete, cosa fate? - c’è troppa sofferenza - c’è troppa miseria - in mezzo a troppi farabutti perbene». Espressione che suona forte perché siamo seduti sull’altare della Pieve troppo piccola per un gigante piegato dall’età.
La folla si allunga nel sagrato. E si apre mentre il basco dell’Abbé Pierre l’attraversa, appoggiato al bastone. Tanto tempo fa Sergio Zavoli lo aveva chiamato «monsignor Spazzatura» e quando glielo ricordo il sorriso si accende di felicità. Non alza la voce, non per stanchezza, forse non ha mai gridato nella lunga vita, eppure nelle Pieve Romena le sue parole attraversavano i nostri giorni annunciando la catastrofe che ci avrebbe coinvolti, molto, molto più di quanto lo siamo, se non riusciamo a capire che la disattenzione lentamente si trasforma in un crimine contro umanità e democrazia.
«Buttate via il fastidio di quando guardate gli stracci della gente che ai vostri occhi sporca le vostre città. Bisogna chiedere, chiedere, chiedere per restituire i diritti rubati a chi soffre per la frenesia del nostro accumulare beni, distinzioni sociali, poteri. Aiutiamo i politici ad ascoltare e non a parlare sempre e soltanto con persone simili a loro. Non capiscono che il silenzio può aiutare la preghiera che invoca giustizia».
Si deve essere ricordato di essere in un luogo sacro, è il pensiero che addolcisce la tensione di certi vecchi signori sbalorditi dall’intransigenza dell’ospite. Il lungo applauso sorprende l’Abbé Pierre. Si è abituato a sopportare gli egoismi e forse indovina quale realtà sta visitando, Italia 2003. «Possiamo essere tutti egoisti in dimensioni diverse. Nessuno è indenne dall’errore più grave: lo ripeto, è l’indifferenza. Il nostro mondo è diviso nelle zone grigie dell’indifferenza, nelle nere della violenza e nelle zone bianche dove si coltiva l’attenzione. Ma il grigiore si allarga e la pigrizia attenua l’analisi della società. La cosa più importante è reagire con entusiasmo ad ogni situazione difficile. Coloro che non sono né caldi, né freddi rischiano di finire nel pantano di chi fa della vita una gara per accaparrare tutti i beni possibili. Sono loro le periferie più drammatiche dell’umanità».
Si può resistere a queste rapine morali e con quali mezzi?, voglio sapere dall’uomo che ha imbracciato il fucile per impedire razzismo e genocidio e ha rischiato la vita organizzando fughe di ebrei in Svizzera e Spagna. «Bisogna mandare al governo chi ha ben chiaro, senza silenzi e ambiguità, che prima della guerra è doveroso tentare tutte le soluzioni possibili, non essere impazienti di usare le armi vendendo menzogne. Chi imbroglia va isolato, disprezzato per ciò che fa finta di non sapere a quali tragedie contribuisce sorridendo come un padre di famiglia».
Mi sfiora con la mano: «Vorrei andare...», lentamente se ne va. Più tardi gli chiedo di un’amicizia poco frequentata dalle biografie: lettere e incontri col dottor Schweitzer. Il giovane Abbé Pierre gli scrive pagine e pagine con tante domande. Riceve risposte telegrafiche e l’invito di andare a Lambaréné per parlare e capire. E l’Abbé Pierre visita l’ospedale e si consola osservando come la vita del grande dottore bianco in fondo somigli alla sua. L’Abbé dorme fra le baracche, Schweitzer fra gli ammalati africani. Schweitzer è un teologo protestante, l’Abbé un francescano che stava per diventare vescovo e ha scelto di abitare fra i senza niente. Ma qualcosa li divide: il dottore parla poco e l’Abbé lo tormenta con i dubbi. Il dottore si è tenuto lontano dalla politica, l’Abbé ha fatto il deputato sia pure in modo insolito: di giorno in parlamento, la notte coi baraccati.
Ogni giorno il dottore si siede all’organo per suonare Bach, all’Abbé è mancato il tempo per amare la musica. Un consiglio Schweitzer glielo dà: meno discorsi, meglio lavorare in silenzio. Ma sul tavolone di Pratovecchio, davanti alla zuppa che pesca lentamente, l’Abbé Pierre fa capire che da questa diversità nascevano atteggiamenti disuguali anche se l’impegno era lo stesso. La lontananza aveva impedito a Schweitzer d’essere coinvolto nelle paure della guerra mondiale. Non sapeva come erano cambiate le città. Profughi e stracci. Per consolarli bisognava parlare per chiedere, sempre e a tutti: spiegando. L’Abbé Pierre sorride col cucchiaio in mano ma non dice se l’amicizia è continuata.
* l’Unità, Pubblicato il: 23.01.07, Modificato il: 23.01.07 alle ore 12.58
Il consiglio del Cardinale di Ravenna all’Abbé Pierre!!!
PREGA IL VERO “DIO DEI PASTORI”, IL GRANDE PAN !!!
di Federico La Sala
Siamo seri! Ma quale messaggio eu-angelico! Questa è la vera preghiera del terzo millennio che viene!!!: “O caro Pan, e voi altri dèi che siete in questo luogo! Concedetemi di diventare bello di dentro, e che tutte le cose che ho di fuori siano in accordo con quelle che ho dentro! Che possa considerare ricco il sapiente, e che possa avere una quantità d’oro quanta nessun altro potrebbe prendersi e portarsi via, se non il temperante!”.
Già, e ancora, nel 1800, Johann Gottfried Herder così scriveva: “La preghiera di Socrate a conclusione del Fedro [di Platone] deve restare sempre la nostra preghiera”.
E, oggi, il cardinale di Ravenna se ne è ricordato e consiglia all’Abbé Pierre (cfr. Ignazio Ingrao, “Abbé Pierre, perché l’hai fatto?”, www.panorama.it, 04.11.2005) di rileggerla.... Nietzsche, a sua volta, a rileggere l’intervista del cardinale Tonini sulle rivelazioni dell’Abbé Pierre si è svegliato ed è scoppiato in una risata che l’ha riportato ancora e di nuovo a trentamila e più metri sopra il cielo. La ‘commedia’ della chiesa romano-‘cattolica’ è finita: Edipo è in Vaticano, e il grande Pan .... è risorto - incipit tragedia!
Federico La Sala
* www.ildialogo.org/editoriali, Sabato, 05 novembre 2005
TESTIMONIANZA
La vita del sacerdote francese appena scomparso è stata ricca di impeti per i poveri, «rabbie» che spesso sferzavano il potere politico e anche la Chiesa. Era un vecchio prete «scomodo» ma con un’enorme fiducia nell’uomo e nella sua libertà. Il ricordo di Graziano Zoni, amico italiano da sempre
Abbé Pierre, «collera di Dio»
Nel 1949 l’incontro con Georges, ex carcerato abbandonato da tutti, gli cambiò la vita: nacque Emmaus una comunità dove il «recupero» è la trasformazione della persona, ottenuta rispettando la sua dignità
di Graziano Zoni (Avvenire, 24.01.2007)
Ho avuto la grazia e la responsabilità, per quasi 40 anni, di conoscere molto bene questo «prete fuori da tutti gli schemi», come lo definì il suo amico cardinal Roger Etchegaray. Ogni colloquio, ogni incontro con lui sono stati una lezione pratica sull’Uomo, sulla dignità e sul valore infinito di ogni vita, anche quella più misera, più provata dalla sofferenza, più emarginata dalle ingiustizie. Un continuo approfondimento e una costante esperienza dell’Eterno che è Amore e - quindi - che noi tutti siamo amati e siamo capaci di amare.
Quanto fosse ferma nell’Abbé Pierre la convinzione della dignità della persona umana risulta evidente come non mai, nell’incontro con Georges, assassino e tentato suicida, avvenuto per caso nel novembre 1949. L’Abbé Pierre era, all’epoca, un sacerdote-deputato che possiamo definire maturo. Varie esperienze, alcune molto forti, avevano contribuito a segnare profondamente la sua vita, e a formare la sua speciale straordinaria personalità. Da non dimenticare, come lui stesso precisa, i ricorrenti periodi di malattie, alcune gravi, che hanno segnato sempre i passaggi principali della lunga vita, alquanto stravagante, di questo profeta e testimone del nostro tempo.
Sintetizzando molto, possiamo ricordare la formazione religiosa ed umana ricevuta in famiglia; una famiglia ricca, ma ben radicata nei valori cristiani, in cui domina la figura del padre, determinante nella caratteristica della sensibilità umana e spirituale del futuro Abbé, quinto di 8 figli. Poi l’incontro con san Francesco, avvenuto all’età di 16 anni ad Assisi, all’Eremo delle Carceri, e il tormento scavato nell’animo, straordinariamente mistico e sensibile, del giovane Enrico (nome di battesimo dell’Abbé Pierre) dalla frase di Francesco: «L’Amore non è amato...».
Quindi i 7 anni di rigida vita monastica nel noviziato dei Cappuccini di Lione, che l’Abbé Pierre afferma essere essenziale in quello che è accaduto dopo. Inoltre la sua partecipazione, anche qui "per caso" , alla Resistenza durante la guerra, quando si trasformò in guida alpina per portare in salvo in Svizzera ebrei, polacchi ed altri ricercati dalla Gestapo. In questo periodo imparò, da una suora, come falsificare i passaporti per dare nuove identità ai ricercati politici e fu ripetutamente arrestato dalla polizia italiana e francese ed infine dalla Gestapo, dalla quale riuscì a fuggire in Algeria nascosto in un sacco postale. Infine il rientro a Parigi, a guerra terminata, e l’elezione all’Assemblea Nazionale per tre legislature (lascerà il Parlamento nel 1951, per non votare una legge-truffa).
In questi anni da deputato, con l’indennità parlamentare l’Abbé Pierre aveva affittato a poco prezzo una vecchia casa abbandonata alla periferia di Parigi, che nei momenti liberi lui stesso aveva sistemato per farci un Ostello internazionale della gioventù, chiamato «Emmaus» nel ricordo dei discepoli sfiduciati e illusi che incontrarono Gesù Risorto, «lo riconobbero nello spezzar del pane» e rientrarono a Gerusalemme trasformati dalla disillusione entusiasta.
L’idea che sottostava all’ostello era dare occasione ai figli di coloro che si erano reciprocamente uccisi durante la guerra di vivere insieme per conoscersi meglio e rafforzare le basi di una società nuova, giusta ed umana, fondata sul rispetto reciproco e sull’accoglienza di tutti, specialmente dei più deboli.
In questo periodo avvenne l’incontro con Georges. Georges aveva ucciso suo padre in un momento di rabbia e di follia e, dopo aver scontato una ventina d’anni di lavori forzati nella Guyana francese, era di ritorno a Parigi. Sua moglie conviveva con un altro uomo; c’erano bambini che portavano il suo nome, ma non erano suoi... La sua unica vera figlia, ormai ventenne, non lo voleva nemmeno vedere, perché è ammalato e alcolista. Disperato, vuole farla finita. Con un rasoio da barba tenta di togliersi la vita. Non ci riesce. L’Abbé Pierre viene chiamato al capezzale di quest’uomo che ha solo un’idea fissa: riprov are a suicidarsi e riuscirci. L’Abbé gli dice semplicemente: «Georges, tu sei libero, se vuoi ucciderti, nulla te lo impedisce... Ma prima, perché non vieni ad aiutarmi a terminare le 20 case per senzatetto che sto costruendo illegalmente, nei momenti liberi dal Parlamento? Da solo non ce la faccio...».
In quel momento - diceva l’Abbé Pierre - il volto di Georges cambiò improvvisamente. Capì che era, che poteva essere ancora utile a qualcuno, a qualcosa. Appena dimesso dall’ospedale, si mise con l’Abbé a lavorare in solidarietà. E così nacque la prima Comunità Emmaus. Ed è facile vedere in questo episodio quanto l’Abbé Pierre rispetti la persona umana. Rispetta talmente Georges non solo da ritenerlo capace - lui così disperato - di dargli una mano, ma addirittura la proposta non è fatta «per recuperarlo», per «reinserirlo» come si direbbe oggi. No. L’Abbé gli dice: «Prima di ritentare di suicidarti...». Il rispetto assoluto anche della sua libertà.
Rispetto e fiducia nella persona. Caratteristiche che l’Abbé Pierre ha sempre vissuto ed ha saputo infondere nel suo movimento. A chi bussa alla porta delle nostre Comunità, infatti, non viene chiesto nulla del suo passato. Se sia credente o meno, di destra o di sinistra, «regolare» o «clandestino». Gli si domanda se ha bisogno di mangiare, di farsi una doccia, di un letto per dormire. E gli si propone «solo» di lavorare per guadagnarsi da vivere, di stare insieme in comunità e di destinare quanto rimane del lavoro in azioni di solidarietà, in Italia e nel mondo. Una proposta di vita: non per avere, ma per essere. E qui sta il vero «recupero», la trasformazione della persona.
Quando morì, dopo 15 anni di vita solidale e sobria a Emmaus, Georges confessò all’Abbé Pierre, che qualsiasi cosa gli avesse dato, quel giorno non avrebbe risolto nulla: «Non mi mancava di che vivere! Mi mancavano valide ragioni per vivere». E Georges trovò la ragione della sua vita nel vivere il resto dei suoi giorni in solidarietà con gli altri , cominciando dai più deboli e poveri.
Personalmente è sempre rimasta scolpita nel mio cuore e nella mia mente quella frase che sentii pronunciare dall’Abbé Pierre nel marzo del 1971 a Firenze, nel Salone dei 500, gremito di gente: «Fate bene a commuovervi di fronte a tanti bambini che muoiono di fame nel mondo. Facciamo bene a dare, per loro, ai missionari o ad altri, la nostra offerta... Ma ricordiamoci: se non siamo decisi, contemporaneamente, a mettere a disposizione non solo i nostri soldi, ma tutto il nostro impegno politico e la nostra "collera d’Amore" perché a questi bambini sia garantito di vivere nel pieno rispetto di tutti i loro diritti fondamentali di esseri umani, nella giustizia e nella pace, allora vi dico che saremmo stati meno crudeli a lasciarli morire in giovane età, pur di non costringerli a vivere disperati in condizione di miseria e di sfruttamento».
La vita dell’Abbé è stata piena di queste «collere d’amore» e spesso, in Francia e non solo, il potere politico ha avuto paura di lui e delle sue azioni a difesa dei più poveri. Anche alla Chiesa l’Abbé Pierre non ha risparmiato critiche e provocazioni.
E per ricordare questo vecchio prete «scomodo» un po’ per tutti, dentro e fuori la Chiesa, mi sembra alquanto significativa la lettera di Pierre Hervé, ex redattore capo del giornale comunista L’Humanité e compagno dell’Abbé Pierre nella Resistenza: «Padre, se un giorno ci sarà qualcosa che mi porterà a condividere la tua fede e la tua speranza, più che le esortazioni appassionate ed erudite di tanti "predicatori" sarà l’esempio dei tuoi amici stracciaioli. Poveri che lavorano non per arricchirsi, ma per donare».
TESTIMONI DEL ’900
Una folla enorme ha salutato l’«apostolo dei senza tetto», morto lunedì scorso a 94 anni. Insieme alle massime autorità nazionali tantissimi poveri cui aveva ridato speranza
L’ultimo abbraccio all’abbé Pierre
Nella cattedrale parigina di Notre Dame ieri i funerali del religioso. Tanta la gente rimasta fuori. Il cardinale Barbarin: la forza nel servire i poveri gli veniva dal dialogo quotidiano con Gesù
Da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 27.01.2006)
Le massime autorità politiche e religiose francesi, i confratelli di Emmaus e, soprattutto, un’immensa folla silenziosa assiepata in gran parte all’esterno della Cattedrale di Notre Dame.
Sono stati in migliaia a rendere ieri a Parigi l’estremo omaggio alla salma dell’abbé Pierre, «apostolo dei senza tetto» che in vita non aveva mai rinunciato a tendere la mano agli esclusi. E non è un caso se, in mezzo alla commozione generale, gli occhi più luccicanti e i volti più sconsolati sembravano proprio quelli di tante persone «riscattate» dalla Fondazione Emmaus. Volti spesso gonfi e scavati dai morsi del freddo di chi aveva trovato nell’abbé un padre accogliente ancor prima che un formidabile avvocato.
Al cordoglio di tutti i presenti si è aggiunto quello di Benedetto XVI che, tramite il segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, ha inviato un telegramma al cardinale Jean-Pierre Ricard, arcivescovo di Bordeaux e presidente della Conferenza episcopale francese. Un messaggio, letto durante la celebrazione, nel quale il Pontefice prega affinché il «Signore accolga nella pace del suo regno questo prete che in tutta la sua vita ha lottato contro la miseria».
La salma è giunta verso le 11 davanti al sagrato ed è stata poi accompagnata verso l’altare da tre familiari e tre «compagni» di Emmaus internazionale. Sopra la semplicissima bara sono stati posati la celebre mantellina e il copricapo scuri, oltre che le decorazioni pubbliche della République.
Le prime parole sono toccate ai presidenti del ramo francese e mondiale di Emmaus, che hanno ricordato il ruolo svolto dal fondatore fino all’ultimo. Se l’abbé non ha rifiutato in vita la prospettiva di funerali di Stato, ha spiegato Martin Hirsch il responsabile transalpino della Fondazione, è solo perché vedeva in ciò un’occasione per dare «forza supplementare alla lotta contro l’ingiustizia». Ma «il vero omaggio sarà di continuare la sua battaglia» ha concluso Hirsch, anticipando la promessa che ha poi voluto lanciare, a nome di tutti i compagni «giunti dai quattro continenti»: «Caro padre, siamo venuti qui per dirle arrivederci e dirle che continueremo sulla via che lei ha tracciato».
«L’abbé Pierre era un cristiano battezzato e i compagni di Emmaus ricordano questa luce che è stata portata dal Battesimo», ha detto durante l’Eucaristia l’arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois sottolineando la continuità dell’apostolato cristiano dell’abbé, fin dall’impegno come novizio neppure ventenne nell’Ordine dei Cappuccini che ha preceduto di diversi anni le prime responsabilità pastorali nella diocesi di Grenoble.
L’omelia è stata pronunciata dal cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione e primate di Francia, che ha tratteggiato con affetto la figura dell’abbé Pierre a partire dalla sua infanzia. Quei primissimi anni di vita, ha ricordato il porporato, segnati dall’esempio di carità e di rigore morale del padre Antoine che un giorno lanciò al piccolo una folgorante domanda: «E gli altri non contano per te?».
Quindi, rivolgendosi direttamente al religioso morto il porporato ha lanciato un vibrante appello: «Lei scompare e noi, come i discepoli di Emmaus, ripartiamo di buon passo, oggi, per testimoniare quest’amore e servire gli altri, fino al nostro ultimo alito». Barbarin ha infine ricordato che l’eccezionale «energia» dell’abbé nell’azione di tutti i giorni al servizio dei poveri era il frutto esclusivo di una «conversazione quotidiana con Gesù». Il segreto del «dinamismo intrepido» del pellegrino ammirato in Francia e nel mondo non può avere altre origini e in proposito l’arcivescovo di Lione ha esclamato: «Grazie, Signore, di averci dato un tale fratello! Grazie, abbé Pierre, di averci dato un tale esempio». Emmaus, «la parola che ha segnato tutta la vita di colui che nacque 94 anni fa proprio a Lione col nome di Henri Grouès», significa anche «pasto», ha spiegato il cardinale Barbarin: «È il pasto che viviamo in questo momento a Notre Dame di Parigi, e l’abbé Pierre vi prende parte misteriosamente». Il cardinale Ricard, infine, ha ringraziato l’abbé per «aver suscitato ciò che c’è di meglio in noi».
Il corpo dell’abbé riposerà nel piccolo cimitero di Emmaus ad Esteville (dipartimento della Senna Marittima), luogo dove il padre cappuccino aveva vissuto a lungo soprattutto negli anni Novanta. La sepoltura è avvenuta nel pomeriggio in presenza di pochi intimi. Col vento gelido a ricordare ancora una volta la missione su terra dell’abbé.
Il dio Pan è morto: la civiltà è finita
di Pietro Boitani (Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2013)
Che strano gennaio è questo dell’anno 1066 dalla fondazione della Città! Senatore di Roma, io me ne sto nella mia villa in Sabina circondato dai libri, mentre si vocifera di un imminente incontro a Milano tra i due Augusti Licinio e Costantino. Diocleziano lanciò l’ultima persecuzione contro i Cristiani dieci anni fa, e già si dice che i due si accorderanno per emanare un solenne Editto che permetta tutte le religioni.
Io preferisco la lettura. Ho appena aperto un saggio di Plutarco che non conoscevo, «Il tramonto degli oracoli», e m’imbatto subito in una storia che m’intriga: Tamo, il pilota egizio di una nave in viaggio dalla Grecia all’Italia, sente all’improvviso, una sera, una voce che gli annuncia la morte del dio Pan e la fine di tutti gli oracoli.
Sono turbato: vorrebbe dire il tramonto della nostra civiltà. Ho sentito, infatti, che alcuni Cristiani mettono in relazione la morte degli oracoli pagani con la nascita del loro redentore.
Insopportabili Cristiani! Abbiamo tentato di accoglierli o eliminarli, ma questa funesta superstizione, come la chiamava Tacito, cresce sul sangue dei suoi martiri. Il guaio è che sono intolleranti. Adriano scrive nelle sue Memorie: i Giudei non capiscono che il loro unico vero Dio equivale in sostanza a Giove. Ho dato uno sguardo al loro Libro sacro, in greco da quasi sei secoli. Stile umile, le storie un miscuglio di enigmi, lotte familiari, vendette di Dio sul popolo eletto. Sì, ci sono parti dove emerge una qualche grandezza. Personaggi quali Abramo e Giobbe hanno statura fuori del comune, e certa lirica, nei Salmi, nell’Ecclesiaste, nell’erotico Cantico, sorprende.
Del resto nel secolo scorso Longino, in quel suo librettosul Sublime, ha collocato Mosè sullo stesso piano di Omero, lodando il resoconto della creazione della luce.
Chissà come avrebbe trattato il cosiddetto Nuovo Testamento. L’ho qui in biblioteca e ci ho passato sopra due stagioni. È una raccolta strana, dominata da quattro versioni della vita, i miracoli e i discorsi di Gesù di Nazareth, un Giudeo condannato alla crocefissione dal nostro Ponzio Pilato: era il figlio di Dio, dicono loro, e sarebbe risorto dai morti. Anche qui, ci sono momenti impressionanti, fra tutti la Passione.
Quando Gesù dice di essere venuto al mondo per dare testimonianza della verità, la scena è pari a quella delle ultime ore di Socrate. Il nostro Ponzio, peraltro, vi fa una magnifica figura. Da vero erede della nostra gloriosa tradizione risponde con una semplice domanda: «Che cos’è la verità?». Naturalmente, alcuni Cristiani rivoltano la frittata e sostengono che Pilato non ha capito nulla, visto che ha la Verità lì davanti a lui, in carne e ossa. In quel Vangelo infatti Gesù dice: «Io sono la via, la verità e la vita».
Eppure, Porfirio aveva ragione nel suo libro contro i Cristiani. I loro Vangeli sono contraddittori, e Gesù spira dicendo tre cose diverse. Il loro messaggio, poi, è sovversivo. Se si esaltano i poveri di spirito, gli umili, i pacifici, si minacciano le fondamenta stesse della nostra civiltà, la sua ricchezza spirituale, la combattività.
Capisco che la Buona Novella possa affascinare contadini e schiavi. Ma se diventasse una teologia della liberazione, sarebbe incitamento alla sedizione. E poi, un secolo fa Caracalla estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero. Che altro si vorrebbe? Senza schiavitù la nostra economia non sopravvivrebbe.
No, mi sento a mio agio solo con i nostri libri greci e latini. Mille anni di epica, tragedia, commedia, lirica, storiografia, di letteratura mistica ed ermetica. La nostra sapienza ci dice che "gli uomini devono sopportare la loro uscita dal mondo come la loro venuta". Se poi cercassimo la felicità sulla terra, basterebbe la contemplazione della contemplazione di Aristotele.
Io amo la distaccata profondità di Plutarco, le chiacchiere brillanti di Aulo Gellio e Ateneo. Giudei e Cristiani odiano la poesia erotica, la commedia, il romanzo. Sono puritani, e se non vengono frenati diverranno presto talebani. Si porteranno via dal nostro Senato la grande porta bronzea per installarla in una delle chiese che Costantino certamente costruirà per loro, distruggeranno le immagini degli dèi.
Tutta la nostra arte finirà così nella spazzatura e gli oracoli saranno davvero tramontati. A meno che non si diano a interpretare i nostri miti allegoricamente. Hanno già cominciato: Ulisse legato all’albero davanti alle Sirene diventa una prefigurazione di Cristo inchiodato alla croce. Sarebbe facile continuare il gioco con le Metamorfosi di Ovidio.
Poi, qualcuno comporrà magari una Commedia raccontando di un viaggio all’altro mondo sul modello di Enea. Già me lo vedo, uno così: un Etrusco di sicuro, ché quelli hanno sempre avuto gran presunzione e l’ossessione della morte.
A me basta questo mondo. È grande a sufficienza, e Roma l’ha trasformato in città, ha fatto Urbe di ciò che prima era Orbe. Ci sono posti che pochi hanno visto, ma dove è stato Alessandro: l’India, dalla quale i nostri mercanti riferiscono di una letteratura antica e imponente: ne sanno qualcosa Luciano e Plotino. Dione sostiene che vi hanno tradotto Omero! Nerone mandò una spedizione a cercare le sorgenti del Nilo, laggiù nel cuore di tenebra. Le Colonne d’Ercole sono da tempo favola vile ai naviganti industri. Platone parla di un’Atlantide in mezzo all’Oceano, e se in quelle terre verranno mai fondati altri imperi, li vedo già costruire dappertutto nuovi Campidogli.
Le nostre mappe mostrano anche il paese di Sinae. Un impero vasto quanto il nostro. Ne importiamo troppa seta, scrive Plinio il Vecchio. Ma una qualche comunicazione tra i due regni c’è stata. Uno degli Antonini inviò ambasciatori all’imperatore Han: tornarono entusiasti di qualcosa che chiamavano carta, sulla quale i Cinesi dipingono bellissimi paesaggi e liriche raffinatissime. E portarono notizia dei grandi saggi d’Oriente, Zoroastro, Buddha, Confucio, Lao Tze: persino di Mani.
Non potremmo passare i prossimi secoli a esplorare queste cose, a leggere i loro libri? Le nostre biblioteche si riempirebbero di testi meravigliosi. Abbiamo tradotto la Bibbia, potremo ben tradurre il Ramayana. E persino trascrivere i carmi dei Germani.
Invece, siamo costretti a combatterli, i Barbari. Le loro invasioni saran pure grandi migrazioni, ma francamente non me ne importa un fico. Devono essere assorbiti e trasformati in Romani decenti, o respinti una volta per tutte. Se si permette loro di scorazzare per le nostre terre, sarà la rovina. Finiremo per imbastardirci e parlare lingue barbariche come il tedesco, l’inglese, il russo!
Forse l’altra idea di Costantino è un colpo di genio da vero Romano. Si dice abbia in mente di rifondare Bisanzio e darle il proprio nome. Una nuova Roma tra Europa e Asia: per reggere l’impero a oriente e controllare i confini. Se gli riesce, terremo a bada Goti, Slavi e Arabi per altri mille anni.
Roma ha sempre agito così e ha già passato un millennio di vita. Dopo il Ratto delle donne di qui, le Sabine, i padri e i mariti vennero accolti in città mentre il loro capo regnò insieme a Romolo.
Abbiamo assorbito e digerito di tutto, nel nostro melting pot. Lo capì Polibio, notando come Roma avesse conquistato il mondo in meno di cinquantatré anni. Attribuiva lo straordinario successo alla nostra Costituzione, e aveva ragione. Ma essa è animata dal principio che l’ombra di Anchise proclama a Enea nell’aldilà: i Romani devono dominare le genti, stabilire leggi e pace, risparmiare i sottomessi e debellare i superbi.
Mi sono domandato spesso cosa possano pensare di questo i superbi: che so, i seimila schiavi che dopo aver seguito Spartaco nella rivolta furono crocefissi sulla Via Appia. Per costoro, debellare i superbi deve aver significato Soluzione Finale. E poi, lo sappiamo cosa agita chi non si sottomette.
Quando Tacito compose la biografia del suocero Agricola, governatore della Britannia, narrò un episodio che dà i brividi. Prima della battaglia finale tra Romani e Britanni, il loro capo Calgaco si rivolge ai suoi esortandoli a combattere per la libertà: contro i Romani, «la cui prepotenza invano si potrebbe pensare di sfuggire con l’obbedienza e la sottomissione». Un bel colpo all’ideale di Virgilio. Ma Calgaco va oltre, definisce i suoi nemici: noi, ì Romani: «ladroni del mondo», «il rubare, trucidare, rapinare, passano sotto il falso nome di impero: e quando hanno fatto il deserto, lo chiamano pace». Tacito era un buon Romano, un imperialista. Ma un Romano sa pure dar voce all’antimperialismo.
A pensarci bene, anche la prima trovata di Costantino, quella di dare spazio al Cristianesimo, non è così folle. Lo favorirà in ogni modo, pur controllandolo. E se alla fine i Cristiani si trasformassero, qui in Occidente, in baluardi della civiltà? Costruiranno un impero, vescovi al posto dei nostri governatori, cardinali vestiti di porpora come noi Senatori, e un Pontefice Massimo in guisa di Imperatore: a Roma. Faranno proprio il motto sull’urbe e l’orbe, trasformandolo in benedizione. Edificheranno chiese in forma di basiliche. E verrà il tempo in cui riscopriranno le nostre statue e cercheranno di imitarle. Sì, li vedo, eccitati, leggere Platone, Omero, Lucrezio, costruire cupole, rialzare colonne e obelischi, dipingere donne nude. Oh, avranno decine di Rinascimenti nei prossimi millecinquecento anni! E gli oracoli forse non tramonteranno.