Crisi nucleare
L’Iran alza il tono dello scontro. La Russia prevede «conseguenze devastanti»
Diplomazia Parigi invoca il consiglio di sicurezza. Si allarga il fronte delle «nuove e forti sanzioni»
Teheran: se ci portano la guerra lo Stato di Israele sarà distrutto
Di fronte all’acuirsi della crisi tra Israele e Iran, si moltiplicano gli sforzi internazionali per una svolta diplomatica. L’Europa chiede un rafforzamento delle sanzioni. Tel Aviv le accetta solo se saranno «paralizzanti».
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 10.11.2011)
Le preoccupazioni della comunità internazionale. Le minacce di Teheran. La partita delle sanzioni e l’opzione militare sempre più incombente da parte israeliana. È il giorno dell’allarme rosso, all’indomani della pubblicazione del rapporto dell’Aiea sul nucleare iraniano.
Il vice comandante delle forze armate iraniane ha avvertito Israele che nel caso di un attacco contro la Repubblica islamica verrà «distrutto» e la rappresaglia «non si limiterà al Medio Oriente». «Un’azione anche minima di Israele contro l’Iran e verranno distrutti», ha affermato il generale di brigata Masoud Jazayeri in un’intervista all’emittente locale Al-Ala. Il generale ha assicurato che sono già «pronti piani di rappresaglia» nel caso di un attacco israeliano, che nei giorni scorsi lo stesso Shimon Peres aveva definito «sempre più probabile». Per Jazayeri tra gli obiettivi nel mirino di Teheran ci sarebbe Dimona, la sede del programma nucleare israeliano che ha definito «il bersaglio più accessibile».
PARTITA FINALE
Dal generale al presidente. «Non arretreremo di un centimetro rispetto al cammino che stiamo percorrendo», avverte Mahmud Ahmadinejad, secondo il quale i vertici dell’Aiea, presentando un rapporto fondato su elementi già datati e basati su documenti «fabbricati da Washington», «hanno sacrificato la reputazione dell’Agenzia». «Il popolo iraniano è intelligente ha ribadito Ahmadinejad rivolgendosi all’Occidente non si mette a costruire due bombe, contro le 20 mila che voi avete».
Da Teheran a Gerusalemme. Sta alla comunità internazionale impedire all’Iran «di puntare verso armi nucleari, che mettono in pericolo la pace nel mondo e nel Medio Oriente», afferma il governo israeliano. «Il rapporto dell’Aiea rileva un comunicato dell’Ufficio del primo ministro israeliano, riferendosi al documento divulgato l’altro ieri rafforza la posizione della comunità internazionale e di Israele, che l’Iran sta sviluppando armi nucleari». «Il significato di questo rapporto prosegue il comunicato è che la comunità internazionale deve far sì che l’Iran cessi di puntare ad armi nucleari che mettono in pericolo la pace nel mondo e nel Medio Oriente».
Sanzioni «paralizzanti» chiede Israele. Le risposte raccontano di una comunità internazionale divisa. La Francia si è detta pronta ad adottare «sanzioni senza precedenti» se Teheran non cambierà rotta. «Se l’Iran rifiuterà di attenersi alle richieste della comunità internazionale e respingerà tutte le iniziative serie di cooperazione, siamo preparati ad adottare, insieme alle nazioni che seguiranno, sanzioni senza precedenti», recita un comunicato del Quai d’Orsay. Sulla stessa lunghezza d’onda è Londra.
Francia e Gran Bretagna raccomandano delle «nuove e forti sanzioni» contro l’Iran se si rifiuta di cooperare sul dossier nucleare. Lo afferma la presidenza francese in un comunicato pubblicato ieri al termine della riunione a Londra del «gruppo di alto livello» franco-britannico. I due Paesi «hanno espresso la loro profonda preoccupazione relativa alla dimensione militare del programma nucleare e affermano la loro chiara determinazione a cercare nuove e forti sanzioni», si legge nel comunicato.
GRUPPO DI PRESSIONE
Gli Stati Uniti, a loro volta, vogliono riflettere su come poter esercitare una possibile «pressione supplementare» sull’Iran, dopo il rapporto dell’Aiea sul suo programma nucleare. Il rapporto contiene «affermazioni molto gravi, accuse gravi e l’Iran deve dialogare in modo credibile e trasparente con l’Agenzia atomica internazionale per fugare i timori», dice il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner.
Sul fronte opposto c’è Mosca. La Russia critica il rapporto sostenendo che non contiene elementi nuovi e che viene usato per minare gli sforzi diplomatici per risolvere la situazione di stallo tra Teheran e le potenze mondiali. «Sulla base delle nostre valutazioni iniziali, non ci sono elementi fondamentali nuovi nel documento», si legge in un comunicato del ministero. Il ministero aggiunge che gli autori del rapporto «giocano con le informazioni allo scopo di creare l’impressione che ci sia una presunta componente militare nel programma nucleare iraniano». «Un tale approccio può difficilmente essere considerato professionale e obiettivo. È politicizzato», insinua Mosca. Dove il viceministro agli esteri afferma che «un illegittimo uso della forza avrà conseguenze imprevedibili e terribili». La partita delle sanzioni è tutta da giocare. Ma il fattore tempo è decisivo. «Sanzioni paralizzanti», chiede Israele. Altrimenti...
Piani d’attacco pronti
Ma Tel Aviv ha bisogno di alleati per resistere
Tre rotte possibili per il raid dell’Armata volante di Tel Aviv: il confine turco-siriano, i cieli giordani o quelli sauditi e iracheni Da soli i cento caccia potrebbero effettuare un’unica ondata
di U.D.G. (l’Unità, 10.11.2011)
La sala di comando delle operazioni militari è scavata nelle viscere della terra sotto il ministero della Difesa, a Tel Aviv. Da qui verrà guidata «l’Armada volante». Sembra la sceneggiatura di un film stavolta la realtà supera l’immaginazione cinematografica. Manca solo la luce verde politica. I piani operativi sono già pronti. All’ora prescelta si leveranno in cielo cento apparecchi, fra aerei da combattimento, da intercettazione, da rifornimento, da guerra elettronica.
Gli aerei F16i e F15i sono del resto in grado di raggiungere l’Iran senza rifornimenti in volo anche con un carico di ordigni, ha affermato in questi giorni la Tv commerciale israeliana. Tre sono le possibili rotte d’attacco: una lungo il confino turco-siriano; un’altra sulla Giordania; una terza su Arabia Saudita ed Iraq.
La mappa degli obiettivi
«Se costretto ad agire da solo osserva Efraim Kamm, del Centro di studi strategici dell’Università di Tel Aviv Israele è in grado di portare a termine una sola ondata di attacchi» sull’Iran. Dunque la selezione degli obiettivi che i vertici iraniani hanno disperso sull’intero territorio e protetto sotto terra risulta determinante. Secondo uno degli scenari apparsi su internet, Israele non cercherà quindi di distruggere l’intera rete degli stabilimenti nucleari iraniani, ma solo quelli ritenuti d’importanza critica: le località che vengono spesso menzionate sono Natanz, Isfahan, Kom, Arak. Quanto alla centrale di Bushehr, c’è chi ritiene che vada risparmiata, per non provocare una fuga di materiale radioattivo.
In questa fase potrebbero entrare in azione i missili Jericho II e Jericho III, contro i quali l’Iran risulta impotente. Per intaccare gli obiettivi principali, dovrebbero esserne impiegati diverse decine. Secondo il quotidiano britannico The Guardian, Londra e Washington sarebbero solidali, e già pronti a rilocalizzare le navi e i sottomarini equipaggiati con missili Tomahawk. Nei giorni scorsi Israele ha testato un missile intercontinentale con gittata di 7.000 km nella sua base di Palmachim, a sud di Tel Aviv. Secondo il sito israeliano Debka (vicino ai servizi di intelligence), per eliminare le basi nucleari iraniane servono 42 missili con armamento convenzionale.
La scorsa settimana sei squadroni con la stella di Davide hanno simulato un attacco a distanza. Teatro dell’esercitazione il cielo di Sardegna, base Nato di Decimomannu. Ad affiancare i caccia israeliani c’erano i Tornado tedeschi, gli F-16 olandesi. L’aviazione italiana ha utilizzato degli Amx, Tornado, F-16s e degli Eurofighter Typhoon. «Di fronte alla minaccia iraniana, l’aviazione israeliana ha intensificato le proprie esercitazioni all’estero negli ultimi anni, soprattutto in seguito al rifiuto turco di permettere ai jet israeliani di addestrarsi nel proprio spazio aereo», scrive il Jerusalem Post. Non basta. Sottomarini israeliani sono stati dispiegati nel Mare Arabico, da dove possono eventualmente lanciare contro tutto il territorio iraniano.
La risposta iraniana
«Se saremo attaccati risponderemo con i missili all’aggressione», avverte il generale Mohammed Ali Jafari, comandante dei Guardiani della rivoluzione. I vettori iraniani possono trasportare sia testate convenzionali che chimiche o batteriologiche e addirittura nucleari. Se venissero utilizzate armi di distruzione di massa la risposta israeliana non si farebbe attendere grazie ai missili balistici Jericho II e Jericho III. Non solo: le testate nucleari miniaturizzate a bordo dei sottomarini con la stella di Davide potrebbero colpire Teheran dal golfo dell’Oman. Non è la trama di un film ma uno scenario (reale) da brividi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Onu.
Da oggi il mondo è un posto migliore: in vigore il trattato contro le atomiche
Sarà più difficile produrle e l’Onu avrà strumenti più idonei di «dissuasione». La strada da percorrere però è ancora lunga. Molte diocesi italiane in prima linea: oggi campane a festa per l’evento
di Lucia Capuzzi*
Illegali. Non c’è più posto nel mondo per gli armamenti nucleari. È vietato detenerli, non solo utilizzarli. Così è scritto nel Trattato Onu che entra in vigore oggi, a 90 giorni dalla 50esima ratifica - quella dell’Honduras -, del 24 ottobre scorso. Con buona pace del fragile equilibrio garantito della dottrina della deterrenza. E anche delle oltre 1.300 testate chiuse negli arsenali del club atomico: Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Pakistan, India, Israele e Corea del Nord. Le nove potenze - e i loro alleati, Italia inclusa - non fanno parte dell’accordo che non si applica, al momento, nei rispettivi territori.
Non saranno, però, impermeabili ai suoi effetti, come la storia del disarmo dimostra. Pur senza aderire al divieto, ad esempio, gli Stati Uniti hanno interrotto la fabbricazione di munizioni a grappolo mentre 34 Paesi hanno congelato i movimenti di mine-anti-persona. I trattati di proibizione, inoltre, stringono i rubinetti del credito: gli istituti finanziari spesso scelgono di non investire in «armi controverse».
Abp, uno dei cinque maggiori fondi pensione, ha già chiuso ai produttori nucleari. «Una svolta», come afferma Beatrice Fihn, leader dell’International campaign against nuclear weapons (Ican), promotrice del bando e insignita del Nobel per la Pace nel 2017. Un traguardo per la società civile: in base all’ultimo sondaggio di Ican in Belgio, Danimarca, Islanda e Spagna oltre l’80 per cento dei cittadini sostiene la proibizione. In Italia addirittura l’87 per cento. Qui oggi, dunque, sarà una giornata di celebrazione, con momenti di incontro via Web, e di slancio di «Italia, ripensaci», movimento che chiede di sostenere il Trattato, guidato da Rete italiana pace e disarmo (Ripd) e SenzAtomica, parte di Ican.
Alle 9, in punto, suoneranno le campane della basilica santuario di Santa Maria de Finibus Terrae a Santa Maria di Leuca in Puglia. Alle 12, quelle della cattedrale di Padova e del municipio suoneranno a festa. Mentre 7 diocesi del Triveneto - Padova, Belluno-Feltre, Concordia-Pordenone, Trento, Treviso, Vicenza e Vittorio
Veneto - hanno organizzato iniziative.
La diocesi di Brescia ha rivolto invece un appello a farsi promotori di una cultura di pace con azioni coerenti e coraggiose. Sono molte le realtà ecclesiali che chiedono uno scatto al Paese.
«Prevediamo un percorso di passi positivi verso questo obiettivo. Per prima cosa verrà presentata un’interrogazione parlamentare perché il nostro governo partecipi, come osservatore, alla prima conferenza degli Stati aderenti al bando - spiega Francesco Vignarca, coordinatore di Rip -. Chiederemo anche una partecipazione effettiva ai programmi umanitari a favore delle vittime di test nucleari previste dal Trattato».
Il 7 luglio 2017, l’Assemblea dell’Onu ha approvato, con 122 sì, il Trattato che vieta l’utilizzo, lo sviluppo, i test, la produzione, la detenzione, la acquisizione, l’immagazzinamento, il trasferimento, la ricezione, la minac-cia di impiegare, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari. Finora l’hanno firmato 86 nazioni.
IL VIDEOMESSAGGIO DEL SEGRETARIO ONU GUTERRES
* Fonte: Avvenire, 22.01.2021 (ripresa parzia, senza immagin e senza video).
Pax Christi.
«Abolire subito le armi nucleari, anche l’Italia firmi il trattato»
di Giacomo Gambassi (Avvenire, mercoledì 5 agosto 2020)
«Immorali». Non aveva usato mezzi termini papa Francesco in Giappone lo scorso novembre per condannare gli armamenti nucleari e il loro potere distruttivo che hanno lasciato un segno indelebile ad Hiroshima e Nagasaki dove il 6 e il 9 agosto 1945 vennero sganciate le bombe atomiche americane.
Le parole del Pontefice, la sua «condanna» della minaccia nucleare, la denuncia dell’«affronto mortale» che mina non solo il benessere della terra ma anche il rapporto con Dio tornano nella lettera aperta che Pax Christi invia alla Cei in occasione del 75° anniversario dei bombardamenti atomici in Giappone dove sollecita i vescovi italiani a chiedere al Governo di firmare il trattato sul bando totale delle armi atomiche approvato dall’Onu nel 2017.
Il testo «ha un sempre più crescente sostegno mondiale», scrivono il vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, Giovanni Ricchiuti, e don Renato Sacco, rispettivamente presidente nazionale e coordinatore nazionale di Pax Christi. Tuttavia, aggiungono, «per diventare effettivo c’è bisogno di altre firme per superare la soglia necessaria di cinquanta Stati. Il Vaticano lo ha da tempo ratificato e le Conferenze dei vescovi cattolici di Giappone e Canada hanno chiesto ai loro esecutivi di fare altrettanto».
In Italia, invece, il tema sta passando sotto silenzio. «Nel nostro Paese - racconta don Sacco ad Avvenire - esistono due siti che ospitano ordigni nucleari: Aviano, in provincia di Pordenone, e Ghedi, nel Bresciano. Non sappiamo quanti siano ma il loro potenziale è di gran lunga più elevato di quello impiegato nel 1945. E, come dice il Papa, non va censurato solo l’uso ma anche il possesso».
Don Sacco ricorda il cartoncino fatto distribuire da Bergoglio a fine 2017 con la foto di un bambino di 10 anni che trasportava sulle spalle il cadavere del fratellino ucciso dalla bomba a Nagasaki. «Il Papa aveva scritto: “Il frutto della guerra...”. La tragedia avvenuta in Giappone è un monito per l’oggi, un grido sempre più attuale».
La lettera del Movimento cattolico per la pace prende spunto dall’emergenza Covid per riflettere sulla piaga atomica. «Le conseguenze dannose della pandemia impallidiscono rispetto a quelle che sarebbero capitate alla famiglia umana, e alla terra stessa, in caso di guerra nucleare», affermano Ricchiuti e Sacco. E spiegano che, mentre si cerca un vaccino al virus, «stiamo sperimentando come investire centinaia di miliardi di dollari per lo sviluppo, la fabbricazione, i test e lo spiegamento di armi nucleari non solo non è riuscito a renderci sicuri, ma ha privato la comunità umana delle risorse necessarie per il raggiungimento della vera sicurezza umana: sufficienza alimentare, alloggio, lavoro, formazione scolastica, accesso all’assistenza sanitaria».
Ancora. «Di fronte al coronavirus le speranze di sopravvivenza nelle nostre comunità si sono fondate sul sacrificio in prima linea dei soccorritori. Eppure, ammonisce la Croce Rossa internazionale, tali soccorritori non ci sarebbero in caso di un attacco nucleare: i medici, gli infermieri e le infrastrutture sanitarie sarebbero essi stessi cancellati».
Ecco il richiamo. «La cosiddetta “sicurezza” offerta dalle armi nucleari si basa sulla nostra volontà di annientare i nostri nemici e la loro volontà di annientarci. A 75 anni dagli avvenimenti di Hiroshima e Nagasaki è giunto il tempo per rifiutare questa logica di reciproca distruzione e costruire una vera sicurezza».
Pax Christi chiarisce che in caso di una guerra nucleare, «anche se limitata», la vita sul pianeta «sarebbe messa in grave pericolo». Serve allora eliminare gli armamenti atomici. «Ma - conclude il movimento - la finestra temporale che ci resta potrebbe essere troppo breve. Se non riusciamo ad agire adesso e con decisione, giochiamo pericolosamente non solo con la pandemia ma anche con l’estinzione totale».
Israele, 200 armi nucleari puntate sull’Iran
di Manlio Dinucci (il manifesto, 15.05.2018)
La decisione degli Stati uniti di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano - stipulato nel 2015 da Teheran con i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania - provoca una situazione di estrema pericolosità non solo per il Medio Oriente.
Per capire quali implicazioni abbia tale decisione, presa sotto pressione di Israele che definisce l’accordo «la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran», si deve partire da un fatto ben preciso: Israele ha la Bomba, non l’Iran.
Sono oltre cinquant’anni che Israele produce armi nucleari nell’impianto di Dimona, costruito con l’aiuto soprattutto di Francia e Stati Uniti. Esso non viene sottoposto a ispezioni poiché Israele, l’unica potenza nucleare in Medioriente, non aderisce al Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, che invece l’Iran ha sottoscritto cinquant’anni fa.
Le prove che Israele produce armi nucleari sono state portate oltre trent’anni fa da Mordechai Vanunu, che aveva lavorato nell’impianto di Dimona: dopo essere state vagliate dai maggiori esperti di armi nucleari, furono pubblicate dal giornale The Sunday Times il 5 ottobre 1986.
Vanunu, rapito a Roma dal Mossad e trasportato in Israele, fu condannato a 18 anni di carcere duro e, rilasciato nel 2004, sottoposto a gravi restrizioni. Israele possiede oggi (pur senza ammetterlo) un arsenale stimato in 100-400 armi nucleari, tra cui mini-nukes e bombe neutroniche di nuova generazione, e produce plutonio e trizio in quantità tale da costruirne altre centinaia.
Le testate nucleari israeliane sono pronte al lancio su missili balistici, come il Jericho 3, e su cacciabombardieri F-15 e F-16 forniti dagli Usa, cui si aggiungono ora gli F-35. Come confermano le numerose ispezioni della Aiea, l’Iran non ha armi nucleari e si impegna a non produrle sottoponendosi in base all’accordo a stretto controllo internazionale. Comunque - scrive l’ex segretario di stato Usa Colin Powell il 3 marzo 2015 in una email venuta alla luce - «quelli a Teheran sanno bene che Israele ha 200 armi nucleari, tutte puntate su Teheran, e che noi ne abbiamo migliaia».
Gli alleati europei degli Usa, che formalmente continuano a sostenere l’accordo con l’Iran, sono sostanzialmente schierati con Israele. La Germania gli ha fornito quattro sottomarini Dolphin, modificati così da poter lanciare missili da crociera a testata nucleare. Germania, Francia, Italia, Grecia e Polonia hanno partecipato, con gli Usa, alla più grande esercitazione internazionale di guerra aerea nella storia di Israele, la Blue Flag 2017.
L’Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare (Legge n. 94, 2005), vi ha partecipato con caccia Tornado del 6° Stormo di Ghedi, addetto al trasporto delle bombe nucleari Usa B-61 (che tra non molto saranno sostituite dalle B61-12). Gli Usa, con F-16 del 31st Fighter Wing di Aviano, addetti alla stessa funzione.
Le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico Nato, nel quadro del «Programma di cooperazione individuale» con Israele, paese che, pur non essendo membro della Alleanza, ha una missione permanente al quartier generale della Nato a Bruxelles. Secondo il piano testato nella esercitazione Usa-Israele Juniper Cobra 2018, forze Usa e Nato arriverebbero dall’Europa (soprattutto dalle basi in Italia) per sostenere Israele in una guerra contro l’Iran.
Essa potrebbe iniziare con un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, tipo quello effettuato nel 1981 a Osiraq in Iraq. In caso di rappresaglia iraniana, Israele potrebbe far uso di un’arma nucleare mettendo in moto una reazione a catena dagli esiti imprevedibili.
Pronto il “Rahav”, cresce sui mari la potenza nucleare israeliana
Israele. La Germania, dove sono costruiti i sommergibili israeliani, contribuisce a creare un arsenale atomico galleggiante in Medio Oriente di cui nessuno parla.
di Michele Giorgio (il manifesto, 20.12.2015)
GERUSALEMME Mentre il Congresso discute il rinnovo, sicuro, del finanziamento annuale statunitense di tre miliardi di dollari, in gran parte ad uso militare, destinato a Israele, il portavoce delle Forze Armate dello Stato ebraico ha diffuso le foto del sottomarino “Rahav” (“Nettuno”, in ebraico) che lascia il porto tedesco di Kiel diretto ad Haifa.
Il “Rahav” è l’ultimo dei sommergibili di classe Dolphin II, di fabbricazione tedesca, ad entrare in servizio e, nel silenzio internazionale, accrescerà ulteriormente le capacità atomiche di Israele che non ha mai firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e continua a mantenere segreto il suo arsenale atomico costituito, secondo alcuni esperti internazionali, da 100 forse 200 bombe.
Costruito nei cantieri Howaldtswerke-Deutsche Werft, con un costo di 2 miliardi di dollari sostenuto dalla Germania (nel quadro dei risarcimenti tedeschi per l’Olocausto), il “Rahav” non è a propulsione atomica ma, come altri due dei quattro sommergibili israeliani costruiti in Germania già in servizio, è in grado di trasportare missili con testate nucleari nei mari del Medio Oriente e nell’Oceano Indiano. Se gli Stati Uniti sono garanti della superiorità bellica di Israele nei confronti degli altri Paesi della regione, la Germania di Angela Merkel da anni contribuisce alla costituzione di una flotta di sottomarini israeliani dotati anche di armi non convenzionali.
Grazie all’aiuto di Berlino, Israele può tenere sotto il tiro dei suoi missili Popeye con una gittata di 1500 km e armati con atomiche fino a 200 chilogrammi non solo il “nemico” Iran, la Siria, tutti gli altri Paesi arabi e parte dell’Asia centrale. Tre anni fa, la rivista tedesca Der Speigel, in un servizio di 12 pagine intitolato “L’Operazione Sansone”, scrisse che i missili israeliani con testata nucleare possono essere lanciati dai sommergibili grazie a un sistema idraulico speciale di ultima generazione. «Utilizzando la tecnologia tedesca, Israele ha creato un arsenale nucleare galleggiante in Medio Oriente», aggiunse il giornale.
Angela Merkel ha sempre negato che i sottomarini consegnati a Israele siano in grado di trasportare testate nucleari. In realtà, spiegava Der Spiegel, il governo tedesco è consapevole della capacità nucleare dei sommergibili però accetta di guardare da un’altra parte in nome della “sicurezza di Israele”.
Nella visione strategica israeliana, ha scritto Ronen Bergman, analista militare per il quotidiano di Tel Aviv Yedioth Ahronot, il “Rahav” e gli altri sottomarini garantirebbero a Israele la capacità del “secondo colpo”, ossia la possibilità di rispondere con le atomiche ai nemici anche dopo aver subito un attacco nucleare. Altri esperti, non israeliani, sostengono che i sommergibili hanno il compito di affermare la superiorità militare e la potenza nucleare dello Stato ebraico nella regione, quindi di rappresentare un potere di deterrenza, o, secondo un altro punto di vista, una costante minaccia non dichiarata davanti alle coste degli avversari. È perciò strategica la capacità che il “Rahav”, il suo predecessore “Tanin” e il sesto sommergibile israeliano ora in costruzione in Germania, hanno di rimanere in immersione anche per 18 giorni consecutivi.
Sarebbe l’Eritrea, secondo il centro ricerche strategiche Stratfor, a fornire una base navale strategica, nell’arcipelago di Dahlak, ai sottomarini di Israele che si alternano nella missione di tenere sotto tiro l’Iran e nel controllo delle navi di Tehran che entrano nel Mar Rosso. Allo stesso tempo l’Eritrea assicura un porto, ad Assab, anche alla Marina militare iraniana, ottenendo dai due Paesi avversari armi e aiuti finanziari.
Obama agli americani: “L’alternativa all’accordo era la guerra con l’Iran”
Il presidente Usa attacca i repubblicani: se la vogliono, lo dicano
Ma il Congresso può bocciarlo, 13 senatori democratici in bilico
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 16.07.2015)
«L’alternativa era la guerra. Chi la vuole, abbia il coraggio di dirlo». Non poteva essere più esplicito, il presidente Obama, nel difendere l’accordo nucleare con l’Iran. Ora però la battaglia si trasferisce al Congresso, dove la Casa Bianca ha bisogno del voto positivo di almeno 34 senatori per far sopravvivere l’intesa. Al momento, secondo i calcoli fatti dal «Washington Post», i suoi avversari contano su 54 no, e quindi devono convincere 13 rappresentanti democratici nella Camera alta a prendere posizione contro il loro presidente.
L’offensiva mediatica
Obama aveva cominciato l’offensiva per difendere l’accordo già martedì sera, con un’intervista a Tom Friedman del «New York Times», in cui aveva chiesto di valutare l’intesa sulla base della sua capacità di impedire all’Iran di ottenere la bomba atomica, non su quella di cambiare la Repubblica islamica. Ieri pomeriggio ha allargato l’operazione con una conferenza stampa alla Casa Bianca. «La nostra priorità - ha ricordato - era evitare che Teheran costruisse un’arma nucleare, e questo obiettivo è stato raggiunto. Naturalmente io spero che si possa costruire sull’accordo, e avviare una conversazione con l’Iran affinché assuma posizioni meno ostili. Non ci conto, però, e non ci scommetto su». Questo argomento risponde ai critici che volevano un accordo capace di smantellare il programma nucleare, e nello stesso tempo pretendere un cambiamento della linea politica della Repubblica islamica.
L’altro punto contestato è che l’intesa consente a Teheran di conservare le sue capacità atomiche, e ricevere miliardi di dollari finora congelati che potrà usare per sviluppare le sue armi convenzionali, finanziare gruppi terroristici come Hezbollah, e ingerire in maniera negativa sugli equilibri mediorientali. «Non stiamo normalizzando le relazioni con l’Iran», ha risposto il Presidente, e quindi tutto il contenzioso che non riguarda il programma nucleare resta aperto. «Ai critici dell’accordo, però, io chiedo una cosa: qual è la vostra alternativa? Finora non l’ho sentita». La risposta, secondo Obama, è una sola: «L’alternativa era fra la soluzione diplomatica della questione attraverso il negoziato, o quella militare. Se i repubblicani o Israele ritengono che sarebbe stato meglio fare la guerra, lo dicano apertamente».
È vero infatti che Teheran potrebbe violare l’accordo, ma il sistema di ispezioni creato dall’intesa consente di controllarlo come ora sarebbe impossibile e di reagire ad eventuali violazioni, anche se in caso di obiezioni richiederà fino a 24 giorni per poter entrare nei siti contesi. Quanto alle armi convenzionali, le preoccupazioni di Israele e degli altri critici sono legittime, ma per evitare il rischio bisogna potenziare soprattutto l’intelligence e la capacità operativa di bloccare eventuali iniziative minacciose.
L’alternativa qui era lasciare le cose come stavano, e cioè consentire all’Iran di continuare le operazioni di ingerenza e riarmo che già conduceva senza controllo. Obama non si illude che Teheran userà i circa 150 miliardi di dollari liberati per costruire asili, ma questo è un rischio che bisognava correre se si riteneva più pericoloso il programma nucleare. Il presidente si è risentito, quando gli hanno chiesto perché non ha collegato l’intesa alla liberazione dei 4 americani detenuti in Iran: «È assurdo pensare che non ci lavoriamo, ma legare questo tema al negoziato avrebbe consentito a Teheran di usarlo per ottenere concessioni».
La sfida in Congresso
La sfida ora si trasferisce in Congresso, dove i repubblicani sono compatti contro l’accordo. Per fermarlo, però, hanno bisogno della maggioranza di due terzi, necessaria a superare il veto promesso da Obama contro qualunque legge che deragli l’intesa. Le lobby sensibili alle critiche venute in particolare da Israele sono già al lavoro, per premere sui 13 democratici incerti come Bennet, Cardin, Casey, Donnelly, Kaine, Nelson, Warner, Menendez, Wyden, Schumer, affinché voltino le spalle al loro presidente. Hillary Clinton però ha difeso l’accordo e così ha serrato i ranghi del partito, chiarendo che non si può puntare sulla sua vittoria alle presidenziali del 2016 per annullarlo.
Per gli iraniani è come il crollo del Muro di Berlino
Il futuro. In queste ore i giovani sperano di viaggiare, partecipare e tornare a essere cittadini del mondo
di Azadeh Moaveni (la Repubblica, 16.07.2015)
SE DOVESSI scegliere una parola per provare a raccontare quello che pensano le persone normali in Iran, senza dubbio sceglierei speranza. In queste ore ci sono così tante persone che sperano nel mio Paese di origine: sperano di poter comprare cibo migliore per la loro famiglia perché i prezzi dei beni alimentari scenderanno con la fine delle sanzioni, sperano di poter lavorare appieno avendo accesso a tutte le tecnologie disponibili, sperano di viaggiare, partecipare e tornare ad essere cittadini del mondo.
Penso ai giovani soprattutto: a tutti quelli che sognano di studiare all’estero, ma non hanno mai potuto farlo, che volevano prendere un diploma universitario online ma non hanno mai potuto iscriversi ai corsi, a quelli che meritano di avere le stesse possibilità che hanno i loro coetanei che studiano nel resto del mondo. E penso a chi sogna di andare in vacanza in Turchia o a Dubai. In Iran c’è la classe media più istruita della regione, che ha sempre amato viaggiare, una classe media moderata e desiderosa di confrontarsi con il resto del mondo, ma che per anni ha perso la possibilità di essere cosmopolita e si è ridotta a chiudersi su se stessa: come è successo alla classe media irachena negli anni di Saddam Hussein.
Fino a oggi potevano viaggiare solo i molto ricchi: oggi 18 milioni di persone sperano di potersi aprire di nuovo al mondo, di leggere i giornali che tutti leggono, accedere agli stessi siti Internet, scaricare libri da Amazon e partecipare alla conversazione globale.
Per questo fra gli iraniani più liberali c’è chi parla di questo accordo come dell’equivalente della caduta del Muro. Poi c’è l’economia: l’Iran è un paese ricco di risorse naturali e pieno di potenzialità. Se venissero sfruttate, come non è stato possibile finora, sono pronta a scommettere che in 10 anni questa si trasformerà in una delle 10 economie più ricche del mondo, superando la Turchia, come era una volta. Penso alla speranza degli imprenditori, che non dovranno più rivolgersi al mercato nero per avere i pezzi di ricambio necessari per i loro macchinari e potranno finalmente pagarli il giusto e non tre volte il prezzo reale come è accaduto finora.
Per questo oggi mi sento ottimista.
Tante persone dicono che non ci si può fidare dell’Iran, ma credo che questo accordo sia ricco di clausole di controllo e che il controllo ci sarà. Penso anche che quando l’ayatollah Khamenei mette tutto il suo peso dietro a un’intesa, quell’intesa sarà rispettata.
Qual era del resto l’alternativa? Attacchi militari su Isfahan e sulle altre centrali, nuova tensione, possibili reazioni. Sedersi a un tavolo e cercare una soluzione negoziale come questi sei Paesi hanno fatto con l’Iran era la cosa più giusta. A chi dice che l’Iran non rispetterà i patti, rispondo che per anni ha detto “no” a ogni accordo: se ora è arrivato un “sì” significa che c’è la volontà di mettere da parte o almeno interrompere la tensione. Ci saranno, certo, quelli che sono contrari: sono una minoranza di persone, molte delle quali corrotte, che dalle sanzioni hanno guadagnato molto, creando un’economia sotterranea.
Tutti gli altri staranno ad ascoltare Khamenei.
Del resto, anche in America la strada dell’accordo non è semplice: ma da cittadina americana penso che chi si oppone a questo accordo si oppone principalmente alle politiche di Obama, qualunque esse siano. A queste persone chiedo che alternativa ci sarebbe oggi per far scendere la tensione in Medio Oriente e arginare il dilagare dell’Is. Riguardo al pubblico americano, posso sperare che la retorica del confronto con Teheran venga presto archiviata e che una nuova, giovane, classe di diplomatici aiuti a far capire al mondo che il tempo dello scontro aperto è finito.
Quanto a me, spero di poter tornare a Teheran: manco dal 2009 e da lontano ho visto nascere nuove mode, nuovi esperimenti tecnologici, nuovi movimenti sociali, come quello degli ambientalisti. Mi piacerebbe andare a guardare tutto questo con i miei occhi e davvero capire se il Muro è crollato anche per l’Iran.
(testo raccolto da Francesca Caferri)
*
L’AUTRICE Azadeh Moaveni è una giornalista e scrittrice irano-americana
Fra i suoi libri pubblicati in Italia “Lipstick Jihad” e “Viaggio di nozze a Teheran” (ed. Newton Compton)
Il ruolo Jihadista
Sulla Palestina l’ombra del califfo nero
di Marek Halter (la Repubblica, 11.07.2014)
BENJAMIN Netanyahu sta sbagliando bersaglio. Non sono le milizie di Hamas che lanciano razzi contro Israele, perché il movimento islamico non ha nessun interesse a scatenare una guerra totale contro il suo vicino. Chi è allora il responsabile della morte dei tre ragazzi israeliani e della pioggia di razzi sullo Stato ebraico? In Medio Oriente è improvvisamente apparso un nuovo attore, una figura inaspettata, che non rispetta le regole.
E CHE nessuno sa come contenere, aggredire o neutralizzare. Sto parlando di Abu Bakr al Baghdadi, il nuovo Bin Laden, che a differenza del fondatore di Al Qaeda ha scelto di operare in una regione del mondo che ci riguarda più da vicino, per il petrolio, ovviamente, ma anche perché a Gerusalemme c’è il Dio delle tre grandi religioni monoteiste, dove i fedeli possono camminare sulle orme di Gesù, del re Davide e di Maometto.
Al Baghdadi ha una strategia ben precisa. Scatenare l’inferno a Gaza è il diversivo che gli consentirà di penetrare in Giordania. Mentre Israele combatte o invade la Striscia, lui potrà tranquillamente dirigersi verso Amman per realizzare il sogno del califfato, un progetto tutt’altro che assurdo. Infatti, con il califfato si aboliscono le frontiere politiche e si ritorna all’idea originaria dell’Islam, dove i ricchi saranno costretti a spartire i loro beni con i poveri e dove sarà la religione a risolvere ogni problema. È un’idea seducente, che piace a molti. Per metterla in opera, Al Baghdadi e i suoi hanno capito che è necessario superare la guerra tra sciiti e sunniti, e hanno perciò creato brigate sciite che marceranno assieme ai sunniti, scongiurando il rischio di provocare un’ennesima fitna , una guerra civile tra musulmani.
Il jihadista Al Baghdadi procede ora su due teatri: alla frontiera con la Siria, per unirsi con i musulmani radicali siriani, allo scopo di abolire insieme quel confine; e alla frontiera con la Giordania, dove è consapevole che una volta entrato gli sarà facilissimo far insorgere la popolazione contro il re, il quale verrebbe difeso solo dai beduini. Ma anche Israele sarebbe allora costretto a intervenire per proteggere la monarchia giordana, perché una volta arrivate in Giordania le brigate di Al Baghdadi si troverebbero di fatto già in Palestina. Ecco perché il nuovo Bin Laden vuole aprire un secondo fronte a Gaza.
L’ultima volta che incontrai Khaled Meshal, il capo di Hamas, mi disse che presto non avrebbe più controllato Gaza, dal momento che la situazione gli stava sfuggendo dalle mani. Mi disse anche che era giunto il momento di negoziare con Israele, perché nella Striscia stavano nascendo falangi jihadiste, le quali non avrebbero mai trattato con lo Stato ebraico. Ebbene, a Gaza sono proprio quei gruppi paramilitari, molto più intransigenti e più radicali di Hamas, che oggi stanno mettendo il fuoco alle polveri.
Per opportunismo politico, a Netanyanhu e ai suoi alleati della destra israeliana conviene dire che è soltanto colpa di Hamas, perché in questo modo giustificano l’impasse dei negoziati con Abu Mazen. Il leader palestinese ha firmato un trattato con Hamas per formare un governo comune: dunque, dice Netanyanhu, se Hamas continua a lanciare razzi su Israele, noi non possiamo di certo negoziare con il suo sodale o con il suo alleato.
Il premier israeliano è prigioniero della sua stessa strategia. In realtà Hamas ha teso la mano ad Abu Mazen nella speranza, un giorno, di vincere democraticamente le elezioni in Palestina e governare sia in Cisgiordania sia a Gaza, costringendo Israele a negoziare anche alle sue condizioni.
Ma Hamas non può più contare sull’appoggio egiziano, poiché il generale Sissi li considera alla stregua dei Fratelli musulmani. E, a parte il Qatar e qualche principe saudita, nessuno è più disposto ad aiutarlo. In questo momento, avrebbe troppo da perdere se scoppiasse una vera guerra con Israele.
Al contrario, i jihadisti non hanno nulla da perdere. Senza contare che se Israele conosce tutte le basi militari di Hamas e le bombarda con precisione chirurgica, ignora dove siano ubicate le cellule islamiche nella Striscia, che continuano indisturbate a lanciare i loro sofisticati razzi.
Se volessimo risalire negli anni, uno degli artefici di questo disastro è l’ex presidente George W. Bush, il quale usando la menzogna ha destabilizzato quella parte del pianeta, dall’Iraq alla Siria. Bush è un criminale di guerra che andrebbe processato dal Tribunale internazionale dell’Aja.
A un passo dalla guerra
E il mondo resta a guardare
Il presidente israeliano Peres ha lanciato l’ultimo avvertimento ad Hamas: stop ai razzi o sarà invasione. Abu Mazen: «Fermare il genocidio».
di Rocco Cangelosi (l’Unità, 10.07.2014)
I tentativi di gestire la crisi innescata dal ritrovamento dei tre adolescenti rapiti e barbaramente uccisi, seguita dall’altrettanto barbaro omicidio di un giovane palestinese, sono miseramente falliti di fronte all’escalation della violenza da una parte e dall’altra.
A nulla sono valsi i gesti distensivi promossi dal presidente israeliano uscente Shimon Peres, che ha voluto condividere il dolore con la famiglia del palestinese ucciso, nè le prudenti parole di Mahmoud Abbas. Né sembra aver alcuna possibilità di successo il tentativo del governo israeliano di indurre Abbas a rompere l’accordo di governo di unità nazionale raggiunto con Hamas. Svanita questa possibilità, Netanyahu e il nuovo presidente di Israele Rivlin hanno dovuto piegarsi alle pressioni dei falchi e della pubblica opinione che chiede un’azione esemplare nelle striscia di Gaza.
Il rischio è che l’azione israeliana ormai imminente non possa essere circoscritta, ma rischi di deflagrare in un conflitto di più ampie proporzioni in una congiuntura politica esplosiva per tutta la regione, in coincidenza con l’offensiva condotta dall’autoproclamato califfato dell’Iraq e del levante (Isil), che richiederebbe nuove alleanze per frenare la furia distruttiva del nuovo leader del terrorismo Al Baghdadi.
È noto infatti il sostegno che l’Iran fornisce ad Hamas da lungo tempo e non è escluso che Teheran faccia pesare diplomaticamente il ruolo di contenimento nei confronti dell’Isil, che è stata chiamata a giocare indirettamente dagli Stati Uniti.
A ciò si aggiunga la drammatica situazione in Siria, dove un nuovo conflitto israelo-palestinese potrebbe innescare nuove violenze e nuovi scontri, aprendo le porte ai jahidisti dell’Isil. Intanto la diplomazia internazionale si rimette in movimento per cercare di arginare il conflitto e stabilire una tregua tra le due parti nella speranza che si riannodi il difficile percorso verso la pace. Ma per il momento gli interventi - sia degli Usa, sia dell’Unione europea - si sono limitati a generiche dichiarazioni di condanna senza un piano organico che riporti al tavolo negoziale le due parti in causa.
Emerge da tutto questo il sostanziale fallimento del tentativo di mediazione condotto dall’amministrazione Obama attraverso il segretario di Stato John Kerry e la marginalità dell’Europa nell’area. Federica Mogherini ha chiesto esplicitamente un ruolo della Ue per la ripresa dei negoziati e incontrando il suo omologo russo Serghei Lavrov ha rappresentato la gravità della situazione che sta vivendo il Medio oriente in queste ore invitando Mosca a contribuire alla ricerca di una tregua. Obama da parte sua ha invitato israeliani e palestinesi a proteggere gli innocenti e a operare in maniera ragionevole non per vendetta, né per rappresaglia. Ma le buone parole non bastano più e sarà necessario uno sforzo collettivo della diplomazia internazionale per costringere le due parti al tavolo del negoziato, ricorrendo anche a misure coercitive per impedire che la spirale della violenza accenda nuovi fuochi in tutta la regione.
L’amministrazione Obama è tuttavia sempre più riluttante ad impegnarsi in azioni concrete in un’area che considera sempre più di minore di importanza strategica per gli interessi economici degli Stati Uniti dopo la rivoluzione dello «shale gas». Dovrebbe essere l’Europa a svolgere un ruolo di primo piano di mediazione e sostegno al processo di pace, ma le divisioni e i distinguo tra i vari Stati membri hanno impedito finora che la Ue potesse assumere una posizione credibile unitaria nell’ambito della politica estera e di sicuerzza comune (la cosiddetta «Pesc»), limitando il suo ruolo a quello di ufficiale pagatore, quando si tratta di erogare aiuti o concessioni commerciali nell’area.
La spirale infinita nel caos mediorientale
Perché il copione questa volta non potrà ripetersi
di Lucio Caracciolo (la Repubblica, 10.07.2014)
PARREBBE la solita storia. Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse; aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili; segue spedizione punitiva di Tsahal, stivali per terra nella Striscia.
SALVO rientro alle basi entro un paio di settimane. Tutti pronti a ricominciare dopo congruo intervallo. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio. È cambiato il contesto. E stanno rapidamente mutando i rapporti di forza all’interno delle élite dirigenti (si fa per dire) palestinesi e della leadership israeliana.
Il contesto prima di tutto. Il Grande Medio Oriente si sta disintegrando. Dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua. Le “primavere arabe” e le controrivoluzioni di marca saudita non hanno finora prodotto nuovi equilibri, ma guerre, miseria, precarietà. Valgano da paradigmi di questa Caoslandia il golpe egiziano con tentativo tuttora in corso di annegare nel sangue la Fratellanza musulmana; la disintegrazione della Libia; il massacro permanente sulle macerie della Siria; la mai spenta guerra civile in Iraq che in ultimo ha visto riemergere le tribù sunnite e i vedovi di Saddam, insieme ai jihadisti dell’Isis, inventori dell’improbabile “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi. Sullo sfondo il rischio che anche la Giordania, battuta da cotante onde sismiche, finisca per crollare.
Infine i tre massimi punti interrogativi: quanto e come potrà tenere l’Arabia Saudita, che stenta a riprendere il controllo dei “suoi” jihadisti e altri agenti scagliati contro il regime di al-Assad e gli sciiti iracheni di al-Maliki - oltre che dediti a liquidare i Fratelli musulmani dovunque siano - alla vigilia di una delicatissima successione al trono? Quale fine farà il disegno dell’Iran - o di parte dei suoi leader - di rientrare a pieno titolo nella partita internazionale sacrificando le proprie ambizioni nucleari sull’altare di un accordo con gli Stati Uniti? Per conseguenza: Obama vorrà portare fino in fondo il suo ritiro dal Medio Oriente, o sarà costretto a smentirsi per non perdere quel che resta della credibilità americana nella regione e nel mondo?
Nel campo palestinese, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale. Abu Mazen si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani.
Ma la pax cisgiordana degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio di tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite. In questa vicenda è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso.
L’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione. A compiere quel crimine sono probabilmente stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale. Una scheggia, non un referente militare della peraltro divisa leadership di Gaza.
La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. Spirale infinita, ma non uguale a se stessa. A ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso. La crisi potrà essere sedata, magari a lungo. Non risolta.
Fino a ieri Netanyahu non sembrava preoccupato da tale deriva. Anzi, nel foro interno la salutava in quanto conferma dell’inaffidabilità dei “terroristi” della Striscia appena riciclati come uomini di “governo” nel patetico abbraccio con Abu Mazen e con ciò che residua del Fatah.
Oggi il primo ministro israeliano rischia di fare i conti con gli effetti imprevisti del machiavellismo con cui lui, come i suoi predecessori, ha pensato di chiudere la partita palestinese giocandone le fazioni una contro l’altra. Dopo aver cercato il basso profilo nella rappresaglia contro Hamas, la pressione dell’opinione pubblica, angosciata dalla continua pioggia di razzi, lo sta spingendo ad alzare il tiro. L’estrema destra lo accusa di passività, la coalizione di governo perde pezzi (Avigdor Lieberman) e il suo aspirante successore, Naftali Bennett, affila le armi. Risultato: quarantamila riservisti sono mobilitati e una nuova campagna di terra dentro Gaza sembra imminente.
Con quale obiettivo? Una soluzione radicale dovrebbe prevedere la rioccupazione della Striscia. Impossibile senza un bagno di sangue, con perdite considerevoli anche fra i soldati israeliani. Eppoi, l’ultima cosa che Gerusalemme vuole è riaccollarsi la responsabilità di quell’inferno da cui Sharon seppe smarcarsi quasi dieci anni fa.
La storia non si ripete. Massimo, fa rima. E illude. Tutti i contendenti pensano di recitare un copione scritto. Anche volendo, non possono. Dentro e intorno a casa, tutti hanno preso a correre all’impazzata. Verso dove, nessuno sa. Meno che mai quelli che pensano di saperlo.
Siria, Lavrov: "Prove Usa non convincono".
Vaticano: "Si rischia guerra mondiale"
ROMA - Un attacco in Siria potrebbe avere effetti devastanti e allargare il conflitto ad altri Paesi, trasformandolo in un conflitto mondiale. L’allarme arriva dal Vaticano: "La via di soluzione dei problemi della Siria non può essere l’intervento armato. La violenza non ne verrebbe diminuita. C’è, anzi, il rischio che deflagri e si estenda ad altri Paesi. Il conflitto in Siria contiene tutti gli ingredienti per esplodere in una guerra di dimensioni mondiali", ha detto Mario Toso, del dicastero vaticano Giustizia e Pace. E ha insistito: "L’alternativa non può essere che quella della ragionevolezza, delle iniziative basate sul dialogo e sul negoziato. Insomma occorre cambiare strada. Occorre imboccare senza indugio la via dell’incontro e del dialogo, che sono possibili sulla base del rispetto reciproco, dell’amore". Poi ha aggiunto: "Come ha fatto intendere Papa Francesco occorre essere angosciati per i drammatici sviluppi che si prospettano, alla luce di come si stanno muovendo i grandi della terra". E come aveva fatto ieri durante l’Angelus, Papa Francesco, questa volta su Twitter, ha esortato a evitare lo scoppio delle violenze: "Mai più la guerra! Mai più la guerra!". Il Papa ha, poi, definito inaccettabile l’uccisione di esseri umani in Siria e ha affermato che "i leader mondiali devono fare tutto il possibile per evitare la guerra", hanno riferito gli esponenti del World Jewish Congress (Wjc) ricevuti oggi in udienza in Vaticano.
Bonino: "Forse digiuno insieme al Papa". Non esclude di unirsi all’iniziativa di Papa Francesco il ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino: "È probabile", ha risposto sulla possibilità di aderire alla giornata di digiuno per la Siria proposta da Bergoglio per il 7 settembre. Il ministro ha spiegato che con i radicali "si sta valutando la possibilità di fare tre giorni di digiuno nei giorni di venerdì, sabato e domenica" a sostegno di una soluzione politica in Siria.
A Roma riunione ’Amici della Siria". Un incontro tra i Paesi ’Amici della Siria’, probabilmente a livello di ministro degli Esteri, si terrà a Roma domenica 8 settembre. Lo riferiscono diverse fonti diplomatiche.
Russia scettica. Le prove fornite dagli Stati Uniti sull’uso di armi chimiche da parte del regime di Damasco non convincono per niente la Russia: lo ha dichiarato il ministro degli Esteri di Mosca, Serghei Lavrov. "Quello che ci hanno mostrato in precedenza e più di recente i nostri partner americani, come pure quelli britannici e francesi, non ci convince assolutamente", ha tagliato corto il capo della diplomazia russa. "Ci hanno mostrato alcuni materiali che non contengono nulla di specifico e che non ci convincono", ha ribadito Lavrov parlando davanti agli studenti dell’Università moscovita ’Mgimo’. "Non ci sono né mappe geografiche né nomi né alcuna prova che che i campioni siano stati prelevati da professionisti", ha proseguito il ministro, "e neppure contenevano alcun commento sul fatto che molti esperti hanno messo in forte dubbio i video che girano su Internet".
"Russia e Cina sono esclusivamente per soluzioni diplomatiche" e sono "contrarie al ritorno al linguaggio degli ultimatum e alla rinuncia del negoziato", ha detto il capo della diplomazia russa in merito alla crisi siriana, ma ricordando anche altri dossier caldi come quelli iraniano e nordcoreano. La Russia, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa Interfax, ha inviato una nave da ricognizione della sua flotta del Mar nero verso la Siria. La nave ssv-201 Priazovye dell’intelligence russa ha mollato ieri sera le cime dal porto di Sebastopoli, in Ucraina, per "un servizio militare nel Mediterraneo orientale".
Conferenza di pace a rischio. Le conseguenze di un attacco americano contro la Siria potrebbero essere molto pesanti, tanto da "rinviare per un lungo tempo, addirittura per sempre" la conferenza di pace cosiddetta ’Ginevra-2’, ha proseguito il ministro degli Esteri russo. I presidenti dei due rami del parlamento russo, comunque, hanno proposto un dialogo tra i parlamentari russi e americani sulla Siria, anche mandando una delegazione in Usa, riferiscono le agenzie, aggiungendo che Putin sostiene questa idea.
Valido l’invito in Russia per Obama. "L’invito resta valido" per una visita di Obama in Russia, ha precisato il ministro degli Esteri russo nel suo tradizionale incontro con gli studenti e i docenti dell’Mgimo, la prestigiosa università moscovita che sforna la classe dirigente del Paese. Il capo della diplomazia russa ha ricordato che la Casa Bianca ha annullato il vertice bilaterale previsto a Mosca prima dell’imminente G20, ma ha sottolineato che l’invito "resta valido".
Presidente Usa invita McCain a Casa Bianca. Continua l’opera diplomatica del presidente americano per convincere gli indecisi sull’opportunità dell’intervento limitato in Siria. Per questo Obama ha invitato il senatore John McCain alla Casa Bianca: "Secondo me non può essere solo un lancio di missili da crociera" ha dichiarato McCain al programma televisivo della Cbs "Face the Nation", parlando del possibile attacco statunitense alla Siria. In un’intervista con una rete televisiva israeliana McCain ha dichiarato che Obama ha "incoraggiato i nostri nemici" chiedendo l’approvazione al Congresso. Secondo quanto dichiarato dal senatore McCain, che nel 2008 venne sconfitto da Obama per la presidenza, il suo incontro con il presidente degli Stati Uniti avverrà oggi.
Cina a Stati Uniti: "No decisioni unilaterali". La Cina ha invitato gli Stati Uniti a non intraprendere azioni unilaterali contro la Siria. È quanto dichiarato dal portavoce del ministero degli Esteri cinese Hong Lei, il quale ha precisato che Washington ha aggiornato Pechino sulla questione. Hong ha dichiarato inoltre che la Cina è molto preoccupata per qualunque utilizzo di armi chimiche, anche se ha precisato che Pechino è contraria a un’azione solitaria da parte degli Usa.
Nato: "Attacchi armi chimiche non si possono ignorare". La posizione della nato sulla Siria è Chiara: gli attacchi con armi chimiche costati la vita a centinaia di uomini, donne e bambini alla periferia di damasco "non possono essere ignorati", ha detto in conferenza stampa il segretario generale dell’Alleanza atlantica, le cui dichiarazioni sono state rilanciate sul suo profilo ufficiale Twitter. "C’è una ragione - ha proseguito - per la quale le armi chimiche sono bandite nel mondo civilizzato. Queste armi orribili e barbare non trovano posto nel ventunesimo secolo". "Restare fermi - ha aggiunto - darebbe la risposta sbagliata ai dittatori di tutto il mondo" quindi "la comunitá internazionale deve rispondere" alle prove di attacco chimico a Damasco.
Governo Parigi: "Prove a parlamentari su colpe Assad". Il governo francese ha detto che metterà a disposizione dei gruppi parlamentari alcuni documenti che permetterano di "identificare con precisione" le responsabilità del regime di Bashar al-Assad nell’attacco chimico compiuto il 21 agosto alle porte di Damasco. Si tratta di "un insieme di elementi di prova di differente natura che permetteranno di indicare con precisione il regime come responsabile dell’attacco chimico del 21 agosto", ha indicato una fonte vicina al governo francese. Un’altra fonte governativa ha precisato che si tratta di "documenti segreti declassificati", di cui alcuni "potranno essere resi pubblici".
Egitto: "Rivedremo legami con Damasco". La decisione di "tagliare i legami con la Siria è stata presa in fretta (da Morsi), e non è particolarmente utile": lo ha detto il ministro degli Esteri egiziano Nabil Fahmi citato dalla Mena, bollando la politica di Morsi come "ideologica". Il governo provvisorio "rivedrà i rapporti con Damasco" per "rilanciare Ginevra 2".
Lega Araba: "Non sicuri su uso armi chimiche da Assad". La condanna della Lega Araba sull’uso di armi chimiche in Siria "non significa che siamo completamente certi che il regime di Assad abbia commesso questo crimine, ma la responsabilità ricade sul governo in carica, che deve proteggere il popolo siriano", ha detto il segretario della Lega Araba, Nabil Arabi.
Mauro: "Bene pausa di riflessione". Il ministro della Difesa italiano, Mario Mauro accoglie con favore la "pausa di riflessione" che Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia si sono presi per un eventuale intervento armato in Siria. Lo ha detto oggi a Torino a margine del 39mo Congresso della Commissione internazionale di Storia Militare. "Gli interventi finalizzati a ottenere la pace - ha aggiunto il ministro Mauro - sono la strada maestra, perché attraverso il tempo di contenimento dei conflitti la pace venga raggiunta. Quando possono scatenare rimedi peggiori del male, vanno compresi e quindi impediti. Il caso Siria a quale delle due categorie appartiene? Credo che la pausa di riflessione che i parlamenti britannico, quello francese e il congresso americano si sono presi voglia definire esattamente questo". Il ministro, poi, ha chiarito che "l’Italia non sta scegliendo tra sta Stati Uniti e Assad, bensì ridicendo in modo chiaro a tutti che l’opzione politica è privilegiata, che va alimentata con buone ragioni. Siamo un Paese che è credibile nel dirlo perché abbiamo più di seimila uomini impegnati in 23 Paesi e 33 missioni diverse per sostenere la pace nel mondo".
Independent: "Aziende Gb autorizzate a dare sostanze chimiche". L’esportazione di sostanze chimiche utili per lo sviluppo di armi chimiche verso la Siria da parte di aziende britanniche sarebbe stata autorizzata ancora nel 2012. Lo rivela oggi l’Independent, aggiungendo che il governo di Londra sarà chiamato oggi in parlamento per spiegare come mai un simile traffico sia stato autorizzato. Si tratta in particolare di due sostanze chimiche, il fluoruro di potassio e il fluoruro di sodio che, adeguatamente trattate, servono anche alla creazione di gas sarin.
Esercito siriano resta in stato di allerta. L’esercito siriano rimane in stato di allerta nonostante la prospettiva di un attacco militare da parte degli Stati Uniti sembri al momento più lontana: lo hanno reso noto fonti delle forze armate di Damasco. "L’aggressione statunitense nei confronti della Siria, se mai dovesse accadere, è una forma di sostegno al terrorismo: l’esercito è in stato di allerta e vi rimarrà fino a che il terrorismo non sarà stato completamente debellato", hanno spiegato le fonti; il regime di Damasco definisce infatti "terroristi" le milizie ribelli attive nel Paese. La Siria, inoltre, ha chiesto all’Onu di impedire qualsiasi attacco. L’azione militare degli Stati Uniti sarà messa ai voti nel Congresso, che termina la sua pausa estiva il 9 settembre, dando al presidente Bashar al-Assad, il tempo di preparare il terreno per ogni assalto e cercare di raccogliere il consenso internazionale contro l’uso della forza. Intanto un gruppo di hacker siriano ha piratato il sito Us marines.
* la Repubblica, 02.09.2013
Siria:Iran, gravi conseguenze se attacco
Portavoce ministero Esteri, ma speriamo in sagge decisioni *
TEHERAN, 27 AGO - L’Iran, attraverso il portavoce del ministero degli Esteri, ha ribadito che un attacco alla Siria avrebbe ’’gravi conseguenze’’ in ’’tutta la regione mediorientale’’. Serve una ’’soluzione politica’’ alla crisi siriana e ha espresso la speranza di Teheran che i ’’leader europei’’ prendano ’’sagge decisioni’’ evitando l’attacco.
*ANSA, 27 agosto 2013, 08:08
Il rischio egiziano e l’assordante silenzio dell’Europa
di Rocco Cangelosi (l’Unità, 06.07.2013)
LA SITUAZIONE IN EGITTO STA DRAMMATICAMENTE PRECIPITANDO. L’APPELLO ALLA RICONCILIAZIONE nazionale lanciato dal Consiglio supremo delle forze armate dopo la caduta del presidente Morsi è destinato a cadere nel vuoto e ieri ci sono stati i primi morti in piazza. L’arresto dei più alti responsabili dei Fratelli musulmani, in particolare di Mohamed Badie, guida suprema della confraternita e del suo vice Khairat al Chater ha fatto temere arresti di massa e ha scatenato le reazioni della folla fedele al presidente deposto. D’altra parte anche i sostenitori della rivoluzione vedono con preoccupazione le azioni di forza che potrebbero essere condotte da parte dell’esercito per reprimere i tumulti e evitare una saldatura tra il fronte islamista e il fronte rivoluzionario. I precedenti sono significativi. Nel 1981 Sadat fece arrestare 1500 persone e Mubarak lo superò largamente negli anni 90 . Anche questa volta i militari potrebbero fare ricorso alla forza se posti alle strette.Intanto le reazioni internazionali sono estremamente imbarazzate.
Lo strano golpe, con il quale i militari hanno rimosso a furor di popolo il presidente Morsi, legittimamente eletto, viene seguito con estrema prudenza, in attesa delle mosse americane. Non è un mistero il rapporto stretto che da decenni lega l’esercito egiziano agli Stati Uniti sulla base di ingenti aiuti militari che alimentano la più importante lobby affaristica dell’Egitto, di cui gli alti gradi dell’esercito sono i principali attori e beneficiari. Il sostegno americano è stato finora ripagato dalla fedeltà e dal ruolo svolto dal Cairo per tenere a bada gli estremismi di Hamas e svolgere un ruolo di moderazione e stabilizzazione nell’area.
L’avvento di Morsi e dei fratelli musulmani aveva in qualche modo rimesso in discussione questo patto tacito e gli Usa non hanno mancato di far conoscere discretamente il loro punto di vista alla gerarchia militare, che aveva mantenuto saldamente in mano il potere reale. Il golpe ha sancito la situazione di fatto esistente, tant’è che il generale Al Sissi si è affrettato a dire che l’esercito non vuole sostituirsi al potere civile, affidando al presidente della Corte Costituzionale Mansour il traghettamento del Paese verso nuove elezioni. In tal modo i militari conservano saldamente nelle loro mani le leve del potere ed evitano di metterci la faccia.
In questo contesto il silenzio dell’Europa è assordante, come se la questione non la riguardasse. Dopo essere stata sorpresa dallo scoppio della primavera araba, che ha spazzato i dittatori sui quali la sua politica mediterranea aveva fatto affidamento, l’Unione europea e i Paesi membri maggiormente proiettati verso il Mediterraneo, rimangono in attesa degli eventi e delle decisioni statunitensi. L’Egitto è un tassello fondamentale per tutto il medio-oriente e la situazione è talmente complessa che nemmeno i militari possono essere sicuri di dominare gli eventi e impedire lo scoppio di una guerra civile di religione, con il rischio di infiammare tutta la regione mediterranea ancora in ebollizione.
L’Europa avrebbe tutto l’interesse a prendere l’iniziativa facendosi promotrice di un articolato programma di sviluppo e sostegno alle riforme per dare ai Paesi dell’area e soprattutto ai giovani, che sono stati gli artefici della primavera araba, una reale prospettiva di cambiamento che non sia affidata nè al fondamentalismo islamico nè alla dittatura strisciante dei militari. La situazione dell’Egitto è infatti sull’orlo del collasso. Il crollo di valuta estera proveniente dal turismo, la crisi del sistema bancario e un’inflazione selvaggia possono aprire la strada agli scenari più preoccupanti spingendo i salafisti a riprendere la strada della violenza e i movimenti terroristici, come Al Quaeda, a riproporsi come interlocutori credibili.
il paese nel caos
Golpe in Egitto, Morsi ai domiciliari
I carri armati dell’esercito nelle strade*
L’Egitto precipita nel caos dopo che oggi è scaduto l’ultimatum dell’esercito al presidente. Mentre gli elicotteri militari sorvolano piazza Tahrir, i carri armati hanno iniziato a muoversi nelle strade e centinaia di soldati si sono schierati attorno al palazzo presidenziale, la tv indipendente el Hayat ha diffuso la notizia - che, al momento, non trova ancora conferme ufficiali - secondo cui Morsi è stato posto agli arresti domiciliari dai militari nella sede della guardia repubblicana al Cairo. Le forze di sicurezza egiziane hanno imposto il divieto di espatrio al numero uno dei Fratelli Musulmani. il suo consigliere della sicurezza nazionale ha detto che il golpe militare è iniziato e che si attende che l’esercito e la polizia ricorreranno alla violenza per deporre Morsi. Anche la polizia ha fatto sapere di essere accanto all’esercito, di sostenere la legittimità del popolo, e che proteggerà i manifestanti pacifici e non permetterà nessun sopruso.
La resistenza disperata
Tutto meno che la resa, e nessuna sostanziale concessione alle forze di opposizione, accusate anzi di ostruzionismo: questo in sintesi il tenore del comunicato con cui il presidente Mohamed Morsi ha cercato di giocare d’anticipo sul filo di lana rispetto alla scadenza dell’ultimatum di 48 ore, impartito l’altroieri agli ambienti politici egiziani alle Forze Armate. «La Presidenza della Repubblica», si legge nella nota, pubblicata sul proprio account FaceBook, «concepisce un governo unitario di coalizione», ma «temporaneo» e «fondato sulla partecipazione nazionale», il quale «sovrintenda alle prossime elezioni parlamentari e vigili sulla fase che si prepara». Poco dopo voci non verificate hanno iniziato a parlare di arresti domiciliari per Morsi.
Piazze piene
Al Cairo la situazione sembra poter precipitare da un momento all’altro. Carri armati sono stati schierati fuori dalla sede della tv statale egiziana. Il personale che non sta lavorando alle dirette è stato evacuato. Le piazze della rivolta sono stracolme. La presidenza egiziana ha postato sulla sua pagina facebook un comunicato nel quale ribadisce che «violare la legittimità costituzionale minaccia la pratica della democrazia». Morsi appare sempre più isolato. Le defezioni si susseguono con il passare delle ore. L’ultimo a lasciare è stato il governatore di Giza, che fa parte della grande Cairo: ha presentato le dimissioni in seguito ai sanguinosi incidenti avvenuti davanti all’università del Cairo, che hanno provocato 18 morti secondo l’ultimo bilancio.
“Meglio morire”
Per Mohamed Morsi «è meglio morire» piuttosto che «essere condannato dalla storia e dalle generazioni future»: lo ha ribadito Ayman Ali, portavoce del controverso leader islamista del quale le forze di opposizione reclamano le dimissioni. Anche gli altri attori in campo usano la retorica. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha scritto su Facebook che «l’esercito giura su Dio che sacrificherà anche il proprio sangue per difendere l’Egitto e il popolo dai terroristi e dagli idioti». Insomma: se i Fratelli Musulmani sono pronti a morire per il paese insomma, i soldati non sono da meno. Nel clima di attesa e di confusione la Jamaa Islamiya, movimento integralista che sostiene Morsi, prima ha affermato, tramite uno dei suoi esponenti più noti Tarek el Zumar, di essere favorevole ad un referendum su elezioni anticipate, per smentire poco dopo in un comunicato dell’organizzazione.
Il bilancio degli scontri
Mentre il paese tira le somme degli scontri della notte scorsa quando dopo il discorso televisivo del presidente Morsi centinaia di suoi sostenitori sono scesi in strada per “difendere con il sangue” (come aveva appena detto Morsi) la legittimità del voto, si avvicina la scadenza dell’ultimatum militare, fissata per le 16,30 di oggi. Il bilancio è di almeno 16 morti e 200 feriti e questa volta non nel remoto sud del paese ma nella capitale, davanti all’università del Cairo, dove fino a stamattina presto si sono affrontati islamisti e forze di polizia. Il movimento Tamarod (quello che ha raccolto 22 milioni di firme contro Morsi accendendo di fatto la seconda rivoluzione egiziana) ha messo su internet una sorta di clessidra, il MorsiTimer (http://morsitimer.com/), che sostituisce simbolicamente il MorsiMeter con cui nei mesi scorsi erano state valutate le promesse disattese del presidente (solo 10 dei 64 obiettivi promessi per i primi 100 giorni di mandato sono stati rispettati). In questo momento mancano poco meno di 7 ore al big bang.
I Fratelli Musulmani al capolinea
I Fratelli Musulmani fanno quadrato ma sono in difficoltà serissima. Pochi minuti dopo le parole di Morsi il suo gabinetto ha postato su Twitter una sconfessione scrivendo che se ne discostava e prendeva le parti del popolo. L’ennesima defezione dal presidente dopo l’abbandono di 13 tra segretari, portavoce e ministri, in fuga dalla nave che affonda. La piazza dal canto suo, festeggia a oltranza. Comunque finisca - anche se la violenza dovesse dilagare - la percezione è che gli odiati Fratelli Musulmani sono finiti. Tra gli attivisti circola la notizia secondo cui ieri il potente businesman Kheirat al Shater avrebbe confessato ai suoi il timore che se venissero estromessi oggi dal potere i Fratelli non lo riotterrebbero più per almeno mezzo secolo. In realtà parecchi nell’opposizione afferrano bene la contraddizione del trincerarsi dietro l’esercito che, per quanto lo neghi, procede, come nel caso di Mubarak, a colpi di golpe. Un inizio non promettente per chi sogna da liberal e accetta metodi non esattamente democratici. Ma, per ora, domani è un altro giorno.
* La Stampa, 03/07/2013
Morsi resiste
Egitto verso il golpe militare
Dal movimento islamico del presidente appello contro il «colpo di Stato dell’esercito»
L’esecutivo rimette il mandato. Senza accordo, le forze armate scioglieranno il Parlamento
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 03.07.2013)
L’Egitto è sull’orlo del baratro. Sospeso tra golpe e martirio. Mentre il tempo corre verso la scadenza delle 48 ore imposte dall’esercito al presidente Morsi per trovare un accordo con l’opposizione, ultimatum respinto dalla presidenza, da fonti militari trapelano dettagli sulla bozza di road map tracciata dall’esercito per la transizione che seguirebbe la deposizione di Morsi. In particolare, sarebbe previsto lo scioglimento del Parlamento e la sospensione della Costituzione. Il progetto prevede anche modifiche alla Carta entro pochi mesi, seguite da elezioni presidenziali anticipate.
CAOS TOTALE
I Fratelli musulmani, il movimento del presidente Morsi, hanno lanciato un appello al «martirio» per fermare quello che denunciano essere un tentativo di colpo di Stato dei militari. «Il martirio per prevenire questo golpe è quello che possiamo offrire ai precedenti martiri della rivoluzione», ha esortato Mohamed al-Beltagui, segretario generale del partito Libertà e Giustizia.
Il riferimento è all’ultimatum di 48 ore posto l’altro ieri dal ministro della Difesa e capo delle forze armate, il generale Abdel Fattah al Sisi. Intanto il premier Hisham Qandil ha messo a disposizione il suo mandato nella mani del presidente Mohamed Morsi. La mossa arriva dopo che lo stesso Morsi, l’altra notte, ha respinto l’ultimatum delle forze armate. «Proseguirò nella mia azione di riconciliazione nazionale. I militari devono farsi da parte e non interferire con la vita civile del Paese. Le loro richieste non possono essere prese in considerazione», è stata la secca risposta del presidente all’aut aut dei militari. Morsi, inoltre, ha rilevato nelle parole usate dal capo delle Forze Armate «alcune frasi contenute nell’ultimatum stesso che potrebbero creare confusione».
Per sgombrare il campo da ogni illazione, l’Fsn, principale coalizione dell’opposizione egiziana, ha affermato in un comunicato di non sostenere l’idea di un colpo di Stato militare, sottolineando che l’ultimatum lanciato dall’esercito al presidente islamista «per soddisfare le rivendicazioni del popolo» non equivale a dire che l’esercito intenda giocare un ruolo politico nella vicenda, come dichiarato dagli stessi vertici militari.
VUOTO POLITICO
Assieme al premier Qandil, il presidente egiziano, scrive l’agenzia Mena, ha ricevuto il ministro della Difesa e capo delle forze armate Abdel Fattah el Sissi, che a sua volta ha presieduto la riunione del consiglio militare. Secondo fonti militari, le truppe sarebbero pronte a schierarsi nelle strade del Cairo e delle altre città egiziane per prevenire scontri tra i sostenitori di Morsi e quelli dell’opposizione. Il bilancio della nuova ondata di protesta in Egitto al momento è di 16 morti e 781 feriti.
Il fortino del presidente egiziano continua a scricchiolare. Al di là delle dichiarazioni, lo testimoniano le defezioni in poche ore di sei ministri, tra i quali il titolare degli Esteri, i due portavoce della presidenza, Omar Amer e Ihab Fahmy, che hanno presentato le loro dimissioni facendo richiesta di rientrare proprio al ministero degli Esteri. Dimissionario anche il portavoce del governo, Alaa el Hadidi.
MESSAGGI USA
Su Morsi ha cominciato a fare pressioni anche Barack Obama, che lo ha chiamato esprimendogli preoccupazione per l’escalation della crisi e chiedendogli di rispettare le richieste della piazza. Washington sta «facendo pressioni» sul presidente egiziano affinché convochi le elezioni e contemporaneamente ha avvertito l’esercito del rischio di un golpe militare: lo hanno riferito funzionari dell’amministrazione alla Cnn. «Stiamo discendo (a Morsi) che trovi un modo per andare a nuove elezioni: questa può essere l’unica maniera perché il braccio di ferro si risolva», ha spiegato un alto funzionario di governo. Secondo la fonte, l’amministrazione Usa sta anche cercando di convincere Morsi a «nominare un nuovo premier e un nuovo governo» per «dimostrare all’opposizione che sta governando per tutti gli egiziani». Gli Usa hanno anche avvertito le forze armate che un golpe militare farebbe tagliare gli aiuti che Washington fornisce alll’Egitto, pari a 1,5 miliardi di dollari all’anno.
Dopo aver accolto con un boato di giubilo la notizia del aut-aut dei militari a Morsi, il movimento dell’opposizione ha sollecitato i manifestanti a rimanere in piazza Tahrir fino alle dimissioni del presidente. E torna d’attualità il nome di Mohamed el-Baradei. L’ex capo dell’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), premio Nobel per la pace nel 2005, che si era presentato alle prime elezioni presidenziali post-Mubarak e poi si era ritirato, è stato individuato dai vari gruppi della coalizione dell’opposizione egiziana per rappresentarli nei negoziati sul futuro del Paese. Con l’avvicinarsi della scadenza dell’ultimatum dei militari, l’aria che si respira al Cairo si fa sempre più pesante.
Il ministro della Difesa e capo delle forze armate egiziane, il generale el Sissi, avrebbe chiesto esplicitamente a Morsi di cedere il potere per salvare quelle vite che andrebbero perse negli scontri tra l’opposizione e i suoi sostenitori nell’eventualità di una sua resistenza ad oltranza. Lo riferisce la rete panaraba Al Arabiya. Per l’Egitto sono ore drammatiche. Avvisaglia di una giornata destinata a segnare il futuro del Paese. Con o senza Morsi.
Morsi sotto assedio resiste ai militari e spera nei Fratelli
Oggi scade l’ultimatum delle forze armate, il movimento musulmano unico sostegno
di Francesca Cicardi (il Fatto, 03.07.2013)
Il Cairo Il presidente egiziano Mohamed Morsi e i Fratelli Musulmani non sembrano disposti a lasciare il potere, che hanno conquistato con sangue e sudore dopo oltre 80 anni di vita politica in clandestinità. La presidenza ha respinto in un comunicato l’ultimatum di 48 ore lanciato dall’Esercito il giorno prima, interpretato da molti come un colpo di stato contro l’islamista, che ieri ha incontrato il ministro della Difesa e leader dei generali “golpisti”.
Non sembra vi siano progressi per un eventuale accordo per risolvere la crisi entro questo pomeriggio, quando scadrà l’ultimatum. I militari hanno già pronta una “road map” - che prevede scioglimento delle Camere e annullamento della Costituzione - ma la presidenza ha insistito a continuare il “dialogo nazionale”, lanciato mesi fa e mai accettato dall’opposizione, che ora ha rapidamente assecondato l’iniziativa dei militari, anche se ufficialmente è contraria al ritorno dei generali.
Il movimento di protesta ha designato l’ex candidato presidenziale e Premio Nobel della Pace el Baradei portavoce del fronte anti Morsi, e interlocutore di un eventuale negoziato. Ma le forze rivoluzionarie si preparano già al post-Morsi, e la loro road map non dista molto da quella ideata dai militari.
A piazza Tahrir, dove sono arrivate le rumorosissime vuvuzuelas e l’ambiente è sempre più di festa, assicurano che il presidente sarà fuori dal palazzo oggi stesso, e quasi nessuno teme che si terrà un golpe violento o un conflitto sanguinoso.
Intanto, gli islamisti hanno detto che resisteranno a qualsiasi “tentativo di colpo” contro il presidente eletto democraticamente e hanno chiesto ai fedeli di scendere nelle strade e le piazze del paese per rivendicare la legittimità di Morsi. Uno dei leader storici della Fratellanza ha persino dichiarato che la resistenza contro un “golpe” potrebbe implicare il “martirio”.
Nel grande accampamento di Rabaa al Adawiya, alla periferia del Cairo, i sostenitori di Morsi si preparano per lottare, cantando strofe per il presidente e la sharia (legge islamica). “Il presidente non è solo, moltissime persone sono con lui, in tutto il paese, e siamo disposti a sacrificare anche la vita”, assicurava Atif, un manifestante arrivato dal Delta del Nilo. Opinioni divise sull’ultimatum dell’esercito, che non spaventa e non preoccupa più di tanto, mentre gli elicotteri che sorvolano la capitale ininterrottamente vengono accolti con fischi dai “barbuti”. Gruppetti di giovani Fratelli si allenavano ieri, con fasce in testa, bastoni e altre armi.
La Fratellanza è compatta e unita, e soprattutto gerarchica: l’obbedienza cieca potrebbe avere dei risultati drammatici per l’Egitto, che sogna ancora di poter risolvere l’impasse solo con la pressione della piazza. Anche quella internazionale potrebbe avere la sua importanza e, ancora una volta, sia l’Esercito che Morsi, aspettano un cenno degli Usa per la prossima mossa.
Nuovo raid di Israele in Siria, Damasco: e’ dichiarazione di guerra
L’obiettivo sarebbe stato un rifornimento di missili in transito dall’Iran agli Hezbollah libanesi *
TEL AVIV - Israele torna a colpire in Siria e la tensione a cavallo del confine sale alle stelle, scatenando inquietudine e reazioni in tutta la regione. Il raid, il secondo in pochi giorni, sarebbe stato condotto questa volta contro un centro di ricerche militari, a Jamraya, alle porte di Damasco, dove - secondo informazioni non confermate, ma neppure smentite nello Stato ebraico - i jet con la Stella di Davide avrebbero centrato e distrutto missili Fateh-110 in transito dall’Iran verso le milizie sciite libanesi di Hezbollah. Un’incursione che arriva a circa 48 ore da quella che, tra giovedì e venerdì, avrebbe preso di mira un altro stock di missili. E che la Siria ha bollato, per bocca del vice ministro degli Esteri Faisal al Medad, come "una dichiarazione di guerra".
Israele intanto ha cominciato a rafforzare la sicurezza a ridosso del confine, con il dispiegamento - tra l’altro - di due batterie anti-missilistiche ’Iron Dome’ schierate a protezione del nord del Paese e la chiusura dello spazio aereo nella zona, malgrado l’azione israeliana - rivelata da una fonte occidentale non identificata - non sia stata per ora confermata ufficialmente né dal premier Benyamin Netanyahu - partito come nulla fosse per la Cina - né da altre fonti. Il ministro dell’Informazione siriano, Mahmud al Zubi, ha invece confermato tutto e ha detto che l’entrata in azione di Israele "apre la strada a tutte le possibilità": tanto che la Siria - secondo fonti di Damasco, citate dalla tv Almayadin, emittente iraniana vicina agli Hezbollah che trasmette da Beirut - avrebbe dispiegato a sua volta batterie di missili puntate verso il ’nemico sionista’.
I raid, che alcuni commentatori israeliani hanno interpretato come un chiaro messaggio all’Iran (e ai suoi piani nucleari), sono stati condannati - in un soprassalto di sintonia con Teheran, raro di questi tempi - sia dall’Egitto, che parla di "aggressione israeliana", sia dalla Lega Araba, che denuncia la "violazione grave della sovranità" nazionale della Siria. Per l’Iran, che ha negato che l’attacco fosse contro suoi missili, l’incursione finirà per "accorciare la vita" di Israele; giudizio accompagnato dall’invito ai paesi della regione "a levarsi" contro il nemico di sempre. Tacciono invece, almeno per ora, gli Hezbollah in Libano.
L’Onu - di cui è stato invocato l’intervento - ha espresso tramite il segretario generale Ban Ki-moon "grave preoccupazione" e ha invitato le parti - precisando che le Nazioni Unite non dispongono ancora dei dettagli del blitz, e non sono in grado di verificare in maniera indipendente l’accaduto - ad agire con la massima moderazione per evitare un’ulteriore escalation del sanguinoso conflitto siriano.
Da parte israeliana ha parlato per conto del governo solo il viceministro della Difesa Danny Danon: senza confermare né smentire raid, ha detto in un’intervista alla radio militare che "Israele sta proteggendo i suoi interessi e continuerà a farlo". Una strategia complessiva che sembra essere avallata dal presidente degli Usa, Barack Obama, il quale ieri ha giustificato in qualche modo l’alleato israeliano, affermando che questo ha il diritto "di proteggersi" dal trasferimento di armi sofisticate a "organizzazioni terroristiche come gli Hezbollah". Ma di fronte alla quale non mancano dubbi sulle reali possibilità di manovra di Washington.
Fatto sta che gli avvenimenti di stanotte hanno acuito la tensione. Ne ha preso atto lo stesso Netanyahu: prima di partire stasera per un viaggio di stato in Cina di cinque giorni, ha convocato d’urgenza una riunione del gabinetto di sicurezza per "discutere i recenti sviluppi nella regione".
Sul campo spicca la chiusura dello spazio aereo civile nel nord del Paese, cosa che non avveniva dal 2006 nel periodo dell’ultima guerra in Libano. Ma anche il dispiegamento a Haifa e Safed (Galilea) di due postazioni Iron Domé (Cupola di ferro), sistemi antimissile impiegati massicciamente durante il recente conflitto con Gaza del novembre scorso. Il comando delle retrovie israeliane ha poi disposto nelle ultime ore tutta una serie di ispezioni nei rifugi pubblici al nord, in particolar modo a Haifa e sulle alture del Golan. Mentre i 30 mila abitanti israeliani della zona hanno avuto ordine di verificare l’agibilità delle ’stanze protette’ nelle loro abitazioni, nel timore di possibili rappresaglie dalla Siria. E dalle roccaforti di Hezbollah in Libano.
* Ansa, 05 maggio 2013, 20:32
Tensione altissima: con Damasco anche paesi arabi e russi
Blitz israeliano
Siria e Iran “Risponderemo”
L’Intelligence occidentale: l’obiettivo erano missili Sa-17 destinati a Hezbollah
di Maurizio Molinari
corrispondente da New York
Damasco e Teheran minacciano rappresaglie militari contro Israele per il blitz con cui ha distrutto una spedizione di missili anti-aerei siriani a Hezbollah. All’origine dei venti di guerra che spazzano il Medio Oriente c’è la decisione di Hezbollah di trasferire sotto il proprio controllo i gioielli dell’arsenale siriano: armi sofisticate e ufficiali in grado di adoperarle.
Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha affidato l’operazione a Mustafa Bader Al-Din, consigliere per la sicurezza, che dall’inizio di gennaio opera in una duplice direzione: spostare dalla Siria in Libano armamenti in grado di alterare l’equilibrio di forze con Israele e offrire ospitalità a Beirut agli ufficiali alawiti, che compongono la spina dorsale delle forze di Bashar Assad oramai in dissoluzione.
Documenti di intelligence occidentali, consultati da «La Stampa», attestano che Al-Din ha offerto «lussuosi alloggi a Beirut e stipendi equivalenti al grado militare attuale» agli ufficiali alawiti puntando a farne arrivare il numero più alto - e in tempi stretti - in Libano per migliorare le capacità militari di Hezbollah. Tali ufficiali alawiti avranno il compito di addestrare Hezbollah all’uso di nuove armi: convenzionali come i missili anti-aerei e anche non convenzionali, come i gas, se riusciranno a essere spostate.
Il passaggio di armi e ufficiali dalla Siria al Libano avviene grazie alla presenza di contingenti Hezbollah nelle aree di combattimento a Damasco, Aleppo, Al-Zabadani, Homs e Al Qusair, d’intesa con le Guardie della rivoluzione iraniana. La decisione presa da Hezbollah e Teheran di prelevare dalla Siria armamenti e specialisti militari svela la convinzione che i giorni del regime di Assad siano contati. I satelliti militari occidentali che sorvegliano la Siria hanno consentito di riscontrare tale processo e il governo di Israele ha deciso, la scorsa settimana, un blitz aereo a Jimraya - sulla strada fra Damasco e il confine libanese - per impedire a Hezbollah di impossessarsi di batterie di Sa-17 di produzione russa.
Si tratta di missili terra-aria in grado di minacciare gli aerei israeliani: ogni batteria può ingaggiare 24 obiettivi simultaneamente. Assad li acquistò da Mosca nel 2007 a seguito del blitz con cui Gerusalemme distrusse il suo reattore nucleare segreto. Se i Sa-17 fossero giunti in Libano avrebbero alterato l’equilibrio di forze, impedendo a Israele di pattugliare i cieli delle aree dove operano gli Hezbollah. Si tratterebbe tuttavia solo di una delle operazioni intraprese da Israele, e da altri Paesi, per ostacolare il trasferimento di uomini e mezzi di Assad in Libano in una guerra segreta da cui dipende la sorte dell’arsenale siriano, il più agguerrito del mondo arabo grazie alle forniture russe.
Da qui la brusca reazione di Damasco, arrivata dall’ambasciatore a Beirut Ali Abdul-Karim Ali, su possibili «risposte sorprendenti» all’«aggressione contro la nostra terra». Hezbollah ha espresso «solidarietà ai fratelli siriani» e Teheran, con un portavoce del Leader Supremo Ali Khamenei, ha aggiunto: «Un attacco alla Siria è un attacco contro di noi».
Sul fronte diplomatico è la Russia di Vladimir Putin a guidare la condanna di Israele parlando, con un comunicato del ministero degli Esteri, di «attacco non provocato contro uno Stato sovrano in violazione lampante della Carta Onu«. Sull’intera vicenda continua il silenzio di Washington, preavvertita da Gerusalemme del blitz a Jimraya, come era già avvenuto nel 2007.
* La Stampa, 01/02/2013
Israele, lampi di guerra Caccia colpiscono in Siria
Bombardato un convoglio di armi alla frontiera tra Siria e Libano.
No comment di Gerusalemme
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 31.01.2013)
Israele entra nel teatro di guerra siriano. I caccia con la stella di David hanno bombardato un convoglio di armi al confine tra Siria e Libano. «Le forze aeree israeliane hanno fatto saltare in aria un convoglio che aveva appena attraversato il confine dalla Siria verso il Libano», ha detto la fonte, rimasta anonima. La notizia arriva dopo che, nella mattinata, fonti occidentali avevano riferito che l’altra notte l’Air Force israeliana aveva compiuto una serie di raid aerei contro obiettivi al confine tra Siria e Libano.
ESCALATION
«Israele mantiene la massima vigilanza di fronte alle attività regionali dell’Iran e segue con attenzione la sorte degli arsenali di armi mortali in Siria, un Paese che va spaccandosi». Nei giorni scorsi, aprendo la seduta settimanale del consiglio dei ministri il premier israeliano Benyamin Netanyahu aveva sciolto le riserve, lanciando l’ennesimo messaggio alla comunità internazionale.
Lo aveva fatto alla vigilia delle indiscrezioni trapelate dal suo vice, Silvan Shalom, a proposito di una riunione a porte chiuse tenuta dai vertici della sicurezza nazionale pochi giorni dopo l’esito delle legislative. Una consultazione lampo, durante la quale i fedelissimi di Netanyahu avevano discusso per la prima volta l’apertura di un’ondata di raid preventivi volti ad impedire che gli arsenali chimico-batteriologi siriani i più grandi dell’intera regione potessero finire nelle mani delle milizie sciite libanesi di Hezbollah o di gruppi legati ad al Qaeda.
E ieri, i raid, sono arrivati nel consueto format adottato da Tzahal: lampo. In un lampo Israele è sceso in campo in prima linea nel conflitto che da oltre 22 mesi devasta il popolo siriano. I suoi caccia hanno bombardato un convoglio di armi al confine con il Libano, calcando perfettamente la linea intrapresa di recente nel corso dell’operazione «Pilastro della difesa» condotta nei confronti delle cellule terroristiche di Hamas. «Le forze aeree di Tel Aviv hanno fatto saltare in aria un convoglio che aveva appena attraversato il confine dalla Siria verso il Libano», ha spiegato una fonte parlando a condizione di anonimato, viste le delicate dimensioni della questione.
Una seconda voce, proveniente da ambienti della sicurezza, ha tuttavia precisato che «l’obiettivo, colpito intorno a mezzanotte, al momento dell’attacco si trovava ancora nel territorio siriano». Entrambe le fonti hanno inoltre registrato un «alto livello», definito «inusuale», di attività dell’aviazione israeliana nello spazio aereo libanese negli ultimi due giorni.
L’esercito di Beirut ha confermato la notizia: «Dalle 8:30 di ieri alle 2 notturne di mercoledì diversi aerei da guerra di Israele sono entrati per almeno 16 volte nello spazio aereo libanese». «Ogni giorno ci sono sorvoli israeliani, ma ieri erano molto più intensi del solito», ha puntualizzato, poi, una terza fonte alla France Presse.
Un ufficiale statunitense, con la condizione dell’anonimato, ha dichiarato che il raid ha colpito un convoglio di camion. Un portavoce dell’esercito israeliano non ha voluto confermare la notizia. L’attacco è stato lanciato solo pochi giorni dopo che Israele ha trasferito a nord due batterie del suo sistema anti-missile Iron Dome, a fronte del crescente timore che il conflitto siriano possa riversare armi in Libano.
Il raid aereo, è stato prontamente smentito dalle autorità libanesi «Le notizie di raid israeliani al confine siro-libanese sono semplici dicerie», afferma l’agenzia di Stato libanese Nna e snobbato dagli organi d’informazione ufficiali di Damasco, rischia ora di aprire una nuova spaccatura in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, già profondamente diviso dall’ostruzionismo manifestato a più riprese da Pechino e Mosca. Una divisione che ieri ha costretto lo stesso inviato speciale di Onu e Lega araba, Lakhdar Brahimi, a ricordare a Washington e Bruxelles che non ha intenzione di mollare il proprio incarico, ma che al contempo i Quindici hanno l’obbligo di esercitare una pressione più consistente verso il regime di Bashar al-Assad.
Intanto Israele mantiene un elevato stato di allerta nel Nord del Paese. La radio militare ha spiegato che in particolare esiste il timore che armamenti sofisticati, e non necessariamente chimici, passino dalla Siria agli Hezbollah. Radio Gerusalemme ha riferito che in alcune zone di Israele si è notato ieri un netto aumento delle persone che ritirano maschere antigas dalle apposite postazioni del comando delle retrovie: erano state allestite da mesi, ma finora erano state spesso ignorate.
Iran, sonda nella spazio
con una scimmia a bordo
Il vettore ha raggiunto quota 120 km e poi è tornato a terra con l’animale ancora in vita. Queste attività spaziali sono viste con sospetto dalla comunità internazionale considerando che i missili potrebbero montare in futuro testate nucleari *
TEHERAN - Andata e ritorno, fino a quota 120 chilomentri. L’Iran ha lanciato con successo una sonda nello spazio con una scimmia a bordo, ha fatto sapere la tv Al Alam. Il vettore ha raggiunto l’altezza prevista, tornando a Terra con l’animale in vita. Teheran, come ha ricordato di recente il sito dell’emittente Press Tv, aveva inviato nello spazio la sua prima "biocapsula di creature viventi" nel febbraio 2010 usando i vettori iraniani Kavoshgar-3 (Explorer-3).
L’invio della scimmia a bordo di un Kavoshgar 5 a 120-130 chilometri di altitudine era stato annunciato nel maggio scorso per l’estate ma era stato poi rinviato. L’animale è stato addestrato per un anno e all’epoca era stato sottolineato che gli studi sulla scimmia sarebbero serviti per preparare un lancio di astronauti, in "cinque-otto anni" come ha previsto questo mese l’Agenzia spaziale iraniana.
L’Iran ha un intenso programma spaziale, imperniato sul lancio di satelliti e già l’anno scorso ha completato almeno all’80% un proprio centro per questo tipo di attività iniziata nel 2009 con il satellite "Omid" (Speranza) proseguito nel giugno 2011 con il Rasad e, il 3 febbraio scorso, con il Navid portato da un razzo Safir B1.
Queste attività sono monitorate con attenzione per il sospetto, secondo Teheran del tutto infondato, che i vettori possano essere utilizzati in futuro per montare testate nucleari. L’Iran comunque si considera "la quinta o sesta maggiore potenza missilistica al mondo" ed esalta i risultati delle sue esercitazioni militari con testate convenzionali come elemento di deterrenza nei confronti delle minacce belliche israeliane.
* la Repubblica, 28 gennaio 2013
Iran, arrestati 40 giornalisti:
"Collaborano con gli occidentali"
Blitz nelle redazioni giornalistiche delle testate vicine all’opposizione. Circa 40 reporter sono stati arrestati da agenti in borghese, accusati di spionaggio e collaborazione con gli "antirivoluzionari". L’ondata di arresti arriva a meno di quattro mesi dalle presidenziali *
TEHERAN - Gli agenti dei servizi di sicurezza iraniani hanno perquisito nel fine settimana le sedi di quattro giornali riformisti nella capitale iraniana e hanno arrestato decine di giornalisti. Secondo il sito di opposizione kaleme, gli agenti in borghese che effettuavano i controlli hanno minacciato diversi giornalisti sul posto.
Tra i giornali coinvolti nella retata sono "Shargh", "Bahar", "Etemad" e "Arman". In tutto quattro quotidiani, un settimanale e l’agenzia semi-ufficiale Ilna. Fra i giornalisti arrestati ieri - riporta Le Monde - figura l’umorista Pouria Alami e la notista politica Saba Azarpeyk. Non è chiaro in quale centro di detenzione siano stati portati. Si tratta di sette uomini e quattro donne, i loro nomi sono stati diffusi dai loro direttori. Alcuni degli arrestati avevano già trascorso medi dietro le sbarre per aver scritto articoli critici del regime o di difesa dei diritti delle donne poi citati da media iraniani dissidenti operanti all’estero. Tre di loro provengono dal giornale riformista Etemad, altri tre dallo Shargh: il direttore ha raccontato che sono stati prelevati nella redazione. La Azarpeik, del settimanale Tejarat-e-Farda, è invece scomparsa e i colleghi ne temono l’arresto. E’ stato poi bloccato senza comunicarne il motivi il sito conservatore Tabnak, vicino all’ex comandante delle Guardie rivoluzionarie Mohsen Rezaei. Sabato erano stati arrestati Milad Fadaie, caporedattore del servizio politico dell’agenzia ufficiale Ilna, e Soleyman Mohammadi, caporedattore della cronaca del quotidiano Bahar: entrambi sono stati portati nella prigione di Evin.
Alcuni giorni fa il portavoce del ministero della giustizia, Gholam-Hossein Mohseni Ejei, aveva dichiarato: "secondo informazioni certe, purtroppo alcuni giornalisti cooperano con gli media occidentali ostili e con gli antirivoluzionari". Dal 2000 sono oltre 120 le testate riformiste chiuse e decine i giornalisti imprigionati in base a vaghe accuse di insulto alle autorità.
Obiettivo Teheran
di Vittorio Zucconi (la Repubblica, 19.11.2012)
WASHINGTON SI SCRIVE Gaza, ma si pronuncia Teheran. Si scrive con il sangue dei bambini, come sempre, anche la nuova pagina dell’odio senza fine. È l’Iran, non i missili di Hamas o la rappresaglia di Tsahal, l’esercito israeliano, l’obbiettivo al quale guardano gli attori di una nuova edizione della interminabile strage. Si testano a vicenda, si sfidano e si misurano con il sangue, con la crudeltà insopportabile di quei corpi di bambini. Bambini mussulmani ed ebrei, palestinesi e israeliani, ma sempre e soltanto innocenti con cui cercano di risucchiare Obama nel pozzo senza fondo del loro odio.
Ricostruiamo i tempi, che in ogni storia sono sempre essenziali per trovare un filo di comprensione e dare un senso, se è possibile farlo, a questo abominio. Era trascorsa appena una settimana dalla riconferma di Barack Obama alla Casa Bianca quando i missili di Tsahal, l’esrcito israeliano, sono piovuti mercoledì scorso su Gaza e hanno ucciso Ahmed al Jabary lo stratega di Hamas, insieme con altri cinque palestinesi e una bambina di 7 anni. Può essere stata soltanto una coincidenza cronologica, se scatta ora, improvvisamente, un’operazione che il New York Times ha definito «il più feroce e violento assalto degli ultimi quattro anni» su Gaza?
Quattro anni sono appunto quanti ne sono trascorsi dalla prima vittoria di Barack Hussein Obama nel novembre 2008. Se mai la frusta e abusata espressione può essere usata a ragione, questa “feroce” recrudescenza della rappresaglia israeliana contro Hamas e Gaza, ha tutto il sapore di un azione a orologeria.
Lanciata certamente per colpire al Jabary, ma soprattutto per mettere alla prova il vero, storico e fondamentale obbiettivo della politica estera e militare israeliana: il presidente degli Stati Uniti. Per vedere fino a che punto Israele possa contare su di lui, se decidesse di affrontare il vero nemico che teme, l’Iran nucleare.
Che Bibi Netanyahu e Barack Obama non siano né amici né siano in perfetta sintonia come Israele era con George W. Bush fino al 2008 è un fatto che la campagna elettorale americana finita da due settimane aveva ampiamente illustrato. Le accuse di indifferenza, tradimento, presa di distanza lanciate contro il presidente erano state esplicite e la simpatia della destra israeliana al potere era chiaramente riservata a Romney e ai suoi consiglieri strategici, i vecchi compari “neo con” che sarebbero tornati alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato dietro di lui.
Nella logica brutale del Medio Oriente il solo strumento sicuro ed efficace per “testare” alleanze e solidarietà è la violenza. E alla violenza ha fatto ricorso Hamas, oggi puntellata e rifornita anche dall’Iran che l’ha dotata dei missili capaci di raggiungere Tel Aviv, che doveva mettere alla prova i nuovi governi emersi dai ruderi dei vecchi regimi dispotici, soprattutto in Egitto. Gli israeliani, che dopo la eroica e solitaria resistenza nella guerra del 1947, sanno di dovere, e di potere, contare sugli Stati Uniti per sopravvivere, dovevano, volevano vedere come Obama avrebbe reagito di fronte alla escalation di violenze militari più furiosa dal tempo dell’Operazione Piombo Fuso del dicembre 2008. Il mese della transizione fra l’amico certo, Bush, e l’incerto amico ancora da provare.
La risposta della Casa Bianca, secondo il classico stile di Obama, è stata più ambigua che soddisfacente, più ambivalente che rassicurante, per Netanyahu. In partenza per il viaggio in Birmania, dove è andato per celebrare il lento ritorno alla democrazia di quella dittatura militare, il primo Obama ha riconosciuto «il diritto di Israele alla legittima difesa », di fronte all’aggressione quotidiana di «migliaia di missili».
Ma dopo avere dato l’imprimatur Usa al diritto di difendersi l’altro Obama ha condizionato le parole del primo. «Il diritto all’autodifesa e la protezione dei civili possono essere esercitati senza un’escalation della azione militare ». Evitare la rioccupazione, o l’intervento diretto a Gaza «sarebbe preferibile, non soltanto per il popolo che vive in quella striscia, ma per le stesse truppe israeliane che sarebbero esposte al rischi di molti caduti».
Né semaforo verde, né semaforo rosso, è dunque il risultato del sanguinoso test che Hamas e Netanyahu hanno sottoposto ai rispettivi sponsor e sostenitori. Come l’Egitto, che dalla pace di Camp David nel 1976 fra Sadat e Begin resta il pilastro sul quale si regge la “non guerra non pace” in Medio Oriente, non vuole incoraggiare Hamas a scatenare quel bagno di sangue “infernale” che ha promesso, così l’America di Obama non vuole trovarsi di fronte a un’altra catastrofe politica, umanitaria e propagandistica come quella creata da “Piombo Fuso” nel 2008.
Semaforo giallo, dunque, da Washington a Tel Aviv, procedere con prudenza, con saggezza, con il coraggio del più forte davanti alle provocazioni del più debole e non fare prove generali per ben altri e ben più rischiosi attacchi militari non ai prigionieri di Gaza, ma a una grande nazione come l’Iran. Quei civili e quei bambini morti sulla linea di demarcazione fra palestinesi e israeliani sono, orribile a dirsi, pedoni mossi e divorati su una scacchiera per muovere verso pezzi importanti. Bibi Netanyahu parla di Gaza, ma pensa a Teheran.
Israele e Gaza, atti di guerra
Colpita Gerusalemme
Continua il lancio di missili su Tel Aviv che riapre i rifugi. Oltre 29 vittime palestinesi
Richiamati 75mila riservisti, minacciato l’attacco di terra ai Territori
Abu Mazen si schiera con Hamas
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 17.11.2012)
Razzi su Gaza e Tel Aviv. Gaza bombardata. I carri armati di Tsahal ammassati ai confini con la Striscia. I miliziani di Hamas, pronti a colpire nel cuore d’Israele, che annunciano trionfanti: «Abbiamo abbattuto un caccia» con la stella di David. I rifugi che tornano a riaprirsi dopo 21 anni. Nessuna tregua. È guerra. Senza quartiere. Circa 85 missili sono esplosi ieri dì mattina a Gaza nell’arco di 45 minuti, facendo salire in aria dense nubi di fumo nero e provocando due morti secondo fonti di Hamas. È salito ad almeno 29 il bilancio delle vittime palestinesi. Tra i morti ci sono sei bambini e 12 militanti. Un bimbo di 4 anni è stato ucciso insieme a un giovane uomo quando un missile israeliano è caduto vicino alle loro case a Jabaliya. Ci sono anche centinaia di feriti. Nella notte nuovo colpo contro Hamas: l’aeronautica israeliana ha eliminato Ahmed Abu Jalal, uno dei leader del movimento di resistenza islamico in un raid aereo nella Striscia. Lo riferisce il Jerusalem Post.
Un altro ordigno ha raggiunto, invece, un edificio che ospita un generatore di corrente, situato vicino alla casa del primo ministro Ismail Haniyeh. Successivamente però è arrivata anche la risposta di Hamas. Una nuova esplosione è stata udita a Tel Aviv, a causa di un razzo che sarebbe finito in mare. Il sindaco della città ha disposto l’apertura dei rifugi pubblici. Erano 21 anni che non accadeva L’ultima volta che gli abitanti di Tel Aviv erano stati costretti a riparare nei rifugi fu nel 1991, quando la città fu colpita a più riprese da missili iracheni Scud. Il municipio di Tel Aviv consiglia agli abitanti di verificare dove sia il rifugio pubblico più vicino, in particolare a quanti non abbiano nei loro appartamenti stanze dalle pareti rafforzate.
Le sirene nel pomeriggio sono risuonate anche a Gerusalemme, dove sono state udite alcune esplosioni. Si tratta di razzi Fajr-5 di fabbricazione iraniana che hanno colpito il circondario cittadino. In particolare un razzo è caduto nei pressi dell’insediamento di Gush Etzion, alla periferia sudovest della Città Santa. Dopo il missile caduto nell’area di Gerusalemme, il sindaco della città Nir Barkat ha affermato che al momento non c’è uno stato di allerta tale da dover aprire i rifugi pubblici, come invece è stato fatto a Tel Aviv. Le istruzioni date dal primo cittadino sono di continuare la «normale routine», ma di essere «particolarmente vigili» e di seguire le notizie e gli appelli che arriveranno nelle prossime ore via tv e radio.
Il razzo lanciato dalle Brigate al Qassam, il braccio armato di Hamas, contro Gerusalemme è stato denominato M75 in ricordo di uno dei fondatori del movimento radicale, Ibrahim al Maqadma, ucciso in un raid israeliano nel 2003. «La M sta per Maqadma, 75 per la gittata, che è di 75-80 km», scrivono le Brigate.
Successivamente le brigate Ezzeddin al Qassam di Gaza hanno affermato di aver abbattuto un caccia israeliano con un missile terra-aria. Ma la notizia non ha trovato conferma da parte del ministero della Difesa israeliano.
PAURA
Israele si prepara a proseguire lo scontro militare con i palestinesi e pensa a un’operazione di terra. Lo dimostra il fatto che ha cominciato a richiamare 16.000 dei 30.000 riservisti per i quali è stato dato il via libera alla partecipazione al conflitto con Gaza. L’ingresso dei riservisti nella campagna militare che dura da due giorni indica la necessità di un’operazione che potrebbe durare diversi giorni, anche attraverso un dispiegamento delle truppe sul terreno. Siamo alla vigilia di una campagna massiccia, molto più di quanto lo è stata quella di 4 anni fa. Israele è pronto a mobilitare fino a 75.000 riservisti per la campagna di Gaza. È quanto riporta la tv Canale 2. In serata, il capo di Stato Maggiore delle forze armate israeliane, generale Benny Gantz, arriva al confine sud con la Striscia di Gaza. «Siamo qui stasera (ieri, ndr), alla vigilia di una possibile operazione di terra» ha detto ai soldati. E ha aggiunto: «Non è la nostra prima volta a Gaza». Lo riferisce l’esercito israeliano.
Le Brigate Givati e dei paracadutisti hanno intanto ultimato la «fase di preparazione». Tsahal ha bloccato tutte la strade di accesso alla Striscia, considerata ormai all’interno di una zona di operazioni militari e dunque interdetta al traffico civile.
Da Ramallah prende la parola il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmud Abbas (Abu Mazen). «È il momento giusto per la riconciliazione con Hamas. Uniti contro Israele» afferma. «Andremo comunque all’Onu il 29 novembre per chiedere il passaggio come Stato non membro. Qualunque cosa succeda», aggiunge il presidente palestinese che non intende rinunciare alla sua campagna per un riconoscimento politico dell’Anp. E aggiunge che il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon «fra due o tre giorni» farà visita nei Territori palestinesi.
Parla, Abu Mazen, ma le sue parole si perdono nel clamore delle armi. Gaza si prepara al peggio. Le testimonianze sono angoscianti. Le scene viste in questi giorni negli ospedali dei Territori sono al limite della sopportazione umana. Le vittime giungono a ondate, presentano talvolta ferite orribili, patiscono sofferenze atroci. Le équipe mediche lavorano senza sosta da 72 ore, giorno e notte. Ma è evidente che medici e infermieri sono esausti, scossi: anche loro stanno probabilmente per crollare. È uno scenario apocalittico.
La primavera araba sceglie Hamas
L’isolamento è rotto
La diplomazia dei Paesi arabi da Egitto a Tunisia ha rotto l’isolamento politico del leader palestinese
di U.D.G. (l’Unità, 17.11.2012)
Una prigione infuocata. Ma non più politicamente isolata. Questa è Gaza oggi. Sul piano militare le drammatiche vicende di questi giorni riportano alla memoria l’Operazione «Piombo Fuso», scatenata da Israele quattro anni fa nella Striscia. Ma la storia non si ripete eguale a se stessa. Ciò che è cambiato, profondamente, rispetto a quattro anni fa è lo scenario mediorientale. Non sono sole le piazze arabe a sostenere la «resistenza dei fratelli palestinesi» contro la «brutalità sionista». Il dato di novità, ed è una novità pesantissima, sta nelle nuove leadership prodotte dalle «primavere arabe».
A cominciare dal Paese-chiave negli equilibri regionali: l’Egitto. Da Hosni Mubarak a Mohamed Morsi: dal «faraone» garante di una pace, per quanto fredda, con lo Stato ebraico al presidente emanazione dei Fratelli Musulmani. Basta questo per comprendere la portata del cambio epocale che va oltre il Paese delle Piramidi.
«A nome del popolo egiziano vi dico che l’Egitto di oggi è diverso dall’Egitto di ieri e che gli arabi di oggi sono diversi dagli arabi del passato rimarca Morsi in una breve dichiarazione rilasciata dopo la preghiera del venerdì in una moschea del Cairo e rilanciata dal’agenzia di stampa Mena Il Cairo non lascia Gaza da sola». Da presidente di «lotta e di governo», Morsi sa il peso che la causa palestinese ha nell’orientamento dell’opinione pubblica araba. Al tempo stesso, il primo presidente del dopo-Mubarak sa bene che l’Egitto ha bisogno del sostegno economico e militare non solo dei munifici emiri del Golfo, ma anche degli Stati Uniti.
IL CAMBIO DI SCENARIO
La guerra di Gaza è il primo, severo, test per quell’Islam politico che è uscito vincitore dalle elezioni, a partire da Egitto e Tunisia. Non è un caso che nel giro di 24 ore Gaza ha visto la presenza del premier egiziano, Hisham Qandil, ieri ed oggi il ministro degli Esteri tunisino Rafiq Abdessalem. Un po’ per convinzione e molto perché la causa palestinese può servire ancora come collante interno, efficace strumento di propaganda: una lezione del passato che i nuovi leader arabi sembrano aver assimilato in fretta.
La visita a Gaza di Abdessalem è stata ufficialmente annunciata con un comunicato dalla presidenza della repubblica a Tunisi. Nella nota si sottolinea il «sostegno indefettibile alla causa palestinese». La delegazione tunisina, sarà composta dal rappresentanti del Ministero degli Esteri e della stessa Presidenza della repubblica, come espressamente deciso dal capo dello Stato, Moncef Marzouki. Quella di Israele nei confronti di Gaza, si legge nella nota della presidenza, «è un’aggressione barbarica». La nota spiega che il capo dello Stato tunisino ha parlato al telefono con il premier palestinese di Hamas, Ismail Hanyeh, e gli ha espresso «solidarietà con la lotta del popolo palestinese». Il governo tunisino ha chiesto la convocazione di una riunione urgente del Consiglio di sicurezza e «sanzioni contro Israele».
Il premier egiziano accompagnato da dirigenti di Hamas. Il presidente tunisino che telefona ad Hanyeh, «dimenticandosi» che i palestinesi hanno un presidente: Mahmud Abbas (Abu Mazen). Il fatto che a Gaza qualche settimana fa ha fatto visita l’emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa al Thani, portando con sé un assegno di 400milioni di dollari. Tutto questo c’entra poco con la solidarietà umana. Quello che sta ad indicare è che è in atto un riconoscimento politico di Hamas, fatto in tempi di guerra. L’isolamento fisico rimane, ma quello politico è rotto. Per Hamas è certamente una vittoria.
Il nuovo Egitto si schiera: cambia lo scacchiere Mediorientale
di Antonio Ferrari (Corriere della Sera, 17.11.2012)
La guerra di Gaza ha un terzo protagonista politico, influente, e soprattutto esterno: il nuovo Egitto. Nuovo perché il presidente Mohammed Morsi si è affrettato a spiegare che il suo Paese «non è più quello di ieri» e che anche «gli arabi di oggi non sono più quelli di ieri». Un messaggio sibillino che ne ha accompagnato uno esplicito: «L’Egitto non lascerà sola Gaza», che è vittima «di un’eclatante aggressione contro l’umanità».
Linguaggio inusuale per il capo del più importante Paese arabo, che per decenni aveva accuratamente evitato ogni eccesso pur di proteggere il trattato di pace di Camp David. Ma allora Hosni Mubarak, ergendosi a bastione della stabilità, faceva quel che voleva e non doveva rispondere a nessuno. Adesso il presidente Morsi, eletto democraticamente, deve rispondere a chi gli ha dato il voto, e rendere conto di ogni passo compiuto.
C’è però una seria complicazione, Mohammed Morsi non è un capo di Stato neutrale. Avrà di sicuro carisma e volontà da statista, come sostengono i suoi collaboratori, ma appartiene alla Fratellanza musulmana. E se da una parte può essere più spregiudicato del suo predecessore Mubarak, dall’altra deve tener conto che la base dei suoi elettori è sicuramente più vicina ad Hamas che ai gruppi palestinesi laici, come il Fatah. Infatti, Hamas è sicura espressione della Fratellanza, e oggi si trova nell’ambigua posizione d’essere blandito sia dagli sciiti sia dai sunniti. I legami dei padroni della Striscia con l’Iran sono noti e hanno una lunga storia. Ma ora, oltre alle interessate carezze (e promesse) egiziane vi sono i soldi, tanti, 400 milioni di dollari, portati a Gaza dall’emiro del piccolo e multimiliardario Qatar, alleato di ferro dei sauditi. Un solido sostegno sunnita quindi, cui potrebbe accostarsi anche la Turchia di Erdogan.
Ecco perché questa guerra di Gaza è molto più insidiosa delle precedenti. Per i popoli coinvolti (israeliani e palestinesi) e per gli influenti attori esterni. Fa impressione che il presidente egiziano Morsi abbia deciso di richiamare immediatamente il suo ambasciatore a Tel Aviv, e di inviare subito il primo ministro per offrire concreta solidarietà agli abitanti della Striscia e ai loro leader. Pensare al Cairo come mediatore, a questo punto, è davvero arduo, anche se il premier israeliano Netanyahu finge di crederci e l’Amministrazione Obama fa capire di volerlo credere.
Mohamed El Baradei: «La Striscia è una prigione. La soluzione non è nelle armi»
Ex direttore dell’Aiea, premio Nobel per la pace, tra i protagonisti della «primavera egiziana», fondatore del partito laico Al-Dostour
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 16.11.2012)
La nostra conversazione spazia dal Medio Oriente in fiamme alla controversa transizione egiziana. Un giro d’orizzonte alquanto interessante se il «compagno di viaggio» è un uomo che ha accumulato nel corso della sua vita pubblica un bagaglio considerevole d’esperienza: Mohamed El Baradei, già direttore dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica delle Nazioni Unite, premio Nobel per la pace, tra i protagonisti della «primavera egiziana».
A Gaza è guerra: «Non basta far tacere le armi riflette El Baradei se poi si lascia che la Striscia di Gaza resti una enorme prigione a cielo aperto, isolata dal resto del mondo, dove cresce solo rabbia e disperazione. Non c’è pace senza giustizia, e giustizia vuole che al popolo palestinese sia riconosciuto finalmente il diritto ad uno Stato indipendente. È con la politica e non con le armi che Israele può difendere la sua sicurezza. Israele ha nel presidente Abbas (Abu Mazen, ndr) un interlocutore saggio, disposto a negoziare una pace giusta, duratura, tra pari. Delegittimarlo come Israele sta facendo è un altro errore esiziale».
El Baradei si sofferma anche sul dossier iraniano e sulle voci di contatti segreti tra Washington e Teheran: «Non so se questi contatti si sono svolti - osserva l’ex direttore dell’Aiea ma sono convinto che il dialogo costruttivo è la linea giusta da seguire, perché le sanzioni da sole non risolveranno il problema, tanto meno l’opzione militare che, se praticata, avrebbe effetti devastanti per l’intero Medio Oriente e per la sicurezza nel mondo. Se l’Iran venisse aggredito, riceverebbe immediato appoggio non solo da tutti i cittadini iraniani, ma anche da quasi tutti gli abitanti del Medio Oriente, oltre che da un vasto numero di persone sparse in tutto il mondo».
«Prego aggiunge affinché una cosa simile non possa mai accadere. Mi auguro che gli israeliani si rendano conto che una tale decisione ne minerebbe gravemente la posizione, invece che consolidarne la sicurezza. La questione potrà essere risolta solo quando Stati Uniti e Iran decideranno di sedersi al tavolo delle trattative intenzionati a giungere a una soluzione che accontenti entrambi».
A Gaza è di nuovo guerra. È la resa dei conti finale tra Israele e Hamas?
«Chi lo pensa è un irresponsabile e gioca con il fuoco. Già in passato, Israele ha provato a risolvere con la forza il “problema-Hamas” eliminando molti dei suoi dirigenti. Ma altri li hanno sostituiti e la storia si ripeterà. Non è con le armi che Israele potrà sentirsi più sicuro. La sua sicurezza è legata indissolubilmente alla realizzazione del diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente. Un diritto fin qui colpevolmente negato».
C’è il rischio che la guerra di Gaza possa estendersi?
«Certo che sì. Ed anche per questo che l’incendio va domato al più presto. La “primavere arabe”, non in termini anti-israeliani ma come parte di quelle istanze di libertà e di giustizia che non valevano solo per l’interno. Sono il primo a ritenere che non esista alternativa al dialogo e che il diritto di resistenza non vada confuso con attacchi indiscriminati contro i civili. Ma, lo ripeto, alla pace va data una chance, vera, reale. Solo così potranno essere sconfitti gli estremisti».
Mentre a Gaza si combatte, l’Egitto fa i conti con una transizione difficile e per molti aspetti contraddittoria.
«Dagli avvenimenti dell’ultimo anno dobbiamo trarre la lezione che divisi si perde. La divisione delle forze laiche, democratiche e progressiste ha pesato in misura decisiva alla vittoria di Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani nelle elezioni presidenziali. Occorre voltar pagina e l’unità raggiunta tra Al-Dostour (il partito della Costituzione di cui El Baradei è stato co-fondatore, ndr) e l’Al-Adl (Giustizia», partito laico centrista, ndr) va nella giusta direzione».
A proposito di Costituzione, un punto centrale nel programma dell’Al-Dostour, è proprio quello di battersi per una nuova carta costituzionale che recepisca lo spirito e le istanze che furono alla base della rivolta anti-Mubarak.
«La Costituzione è la legge fondamentale, quella che dà l’impronta ad un Paese, e i suoi dettami non possono compromettere la libertà umana, la dignità e l’uguaglianza. Diritti civili e giustizia sociale: sono i pilastri di una battaglia che ha come posta in gioco il futuro dell’Egitto».
Lei è stato molto critico con i Fratelli Musulmani. Perché?
«Perché il modo in cui il Fratelli Musulmani gestiscono il bene pubblico si scontra con i tentativi del popolo di trasformare l’Egitto in uno Stato di diritto. A ciò si aggiunga che nulla è stato fatto per migliorare le condizioni di vita della popolazione e offrire una prospettiva alle nuove generazioni. La lotta ora non è a Piazza Tahrir (il centro della rivolta anti-Mubarak, ndr) ma nell’arena politica. L’impegno del mio partito è quello di radicarsi in ogni segmento della società egiziana».
Equilibri mutati in Medio Oriente. Ora si rischia una deflagrazione
di Franco Venturini (Corriere della Sera, 15.11.2012)
Da almeno una settimana tra Israele e Gaza tirava vento di guerra. Hamas aveva lanciato un centinaio di razzi Qassam contro la città di Sderot, i militari israeliani avevano risposto con ripetuti raid aerei. Poi, ieri, il governo di Gerusalemme ha deciso di colpire duro: una incursione mirata ha ucciso Ahmed al-Jaabari, capo dell’ala militare di Hamas e carceriere del caporale franco-israeliano Gilad Shalit liberato nell’ottobre del 2011 dopo oltre cinque anni di prigionia. E, quel che più conta, Israele ha spiegato che questa è soltanto la prima mossa di una più ampia «operazione di pulizia» a Gaza, che potrebbe comprendere, «se necessario», anche un intervento terrestre..
Una escalation di ostilità tra le due parti appare dunque probabile, tanto più che Hamas ha promesso vendetta accusando gli israeliani di aver «aperto i cancelli dell’inferno» e sul fronte opposto Netanyahu non può apparire debole mentre si avvicinano nello Stato ebraico le elezioni di gennaio. Si arriverà a una ripetizione della controversa «Operazione piombo fuso» di quattro anni addietro? È presto per dirlo, ma sin d’ora appare chiaro che il nuovo scontro frontale tra Israele e Hamas si colloca in una cornice internazionale profondamente cambiata rispetto al 2008.
È diverso l’Egitto, che tante volte ha mediato tra israeliani e palestinesi. Oggi al Cairo comandano i Fratelli musulmani, «fratelli» se non figli dei loro correligionari di Gaza. Il pur moderato presidente Morsi avrà molte difficoltà a restare neutrale, incalzato com’è dagli oltranzisti salafiti che già reclamavano una revisione del trattato di pace con Israele (ieri sera Morsi ha richiamato l’ambasciatore egiziano in Israele e chiesto alla Lega araba di convocare un incontro d’emergenza).
Sono diversi gli equilibri della regione, scossi dalla sanguinosa guerra civile in Siria. Nella complessa geografia dei gruppi islamici i sunniti di Gaza intrattengono un legame con l’Hezbollah libanese sciita, che a sua volta è vicino agli alawiti (sciiti) del governo di Damasco. Non soltanto. I gruppi sunniti dell’opposizione anti-Assad hanno appena concluso a Doha un patto unitario la cui tenuta andrà verificata, ma certamente alcuni di loro sono più anti-israeliani di altri e potrebbero riprendersi un margine di autonomia in caso di guerra a Gaza. Resi più fragili dalla vicenda siriana sono anche la Giordania, il Libano e naturalmente la Turchia, che nell’eventualità di una «Operazione piombo fuso II» si troverebbero a fare i conti con i loro fronti interni. Per non parlare dei palestinesi separati di Mahmud Abbas, che proprio in questi giorni hanno rilanciato la loro richiesta di diventare «membro osservatore» dell’Onu.
È diversa, malgrado la rielezione di Obama, anche l’America. Il capo della Casa Bianca non ha ottenuto progressi negoziali tra israeliani e palestinesi durante il suo primo mandato, e i suoi rapporti con Netanyahu non sono mai stati cordialissimi. Ora, mentre gli Usa tenevano d’occhio piuttosto le intenzioni israeliane nei confronti dell’Iran, arriva una possibile crisi a Gaza. Quando il presidente è alle prese con l’affare Petraeus, con un ampio rimpasto del suo governo e con l’impostazione del negoziato con i repubblicani per allontanarsi dal fiscal cliff. La posizione statunitense sarà certamente di piena solidarietà con il diritto alla difesa di Israele, ma è altrettanto indubbio che Washington tenterà di gettare acqua sul fuoco e suggerirà ad entrambe le parti reazioni proporzionate proprio per evitare l’escalation.
Poco resta da dire sugli europei, che svolgono un ruolo importante come finanziatori civili dei palestinesi di Ramallah ma che non sono mai riusciti a pesare più di tanto sull’ultradecennale vicenda del conflitto israelo-palestinese. Parole di buon senso, queste sì, vengono anche dagli europei: occorre riprendere le trattative di pace e nel contempo favorire un ravvicinamento inter-palestinese, vanno rispolverate le idee su un accordo complessivo, devono essere isolati gli estremisti. Giusto, ma dopo ieri la situazione dalle parti di Gaza più che al buon senso sembra affidata al grilletto.
Israele minaccia Damasco e lancia missili contro il Golan
di U. D. G. (l’Unità, 12.11.2012)
Venti di guerra sul Golan. Sinistri presagi di una preoccupante escalation della guerra siriana. Israele ha esploso ieri «colpi di avvertimento» contro la Siria. Ad annunciarlo è Tsahal, l’esercito dello Stato ebraico. È la prima volta, dalla guerra del 1973, che Israele apre il fuoco contro le postazioni siriane. «Poco fa (tarda mattinata, ndr) un colpo di mortaio ha colpito una postazione militare sulle Alture del Golan, nei pressi del confine tra Israele e Siria, nell’ambito del conflitto interno alla Siria. I soldati israeliani hanno risposto esplodendo colpi di avvertimento verso aree siriane», ha dichiarato l’esercito in un comunicato. Si tratta, conferma la radio siriana, del primo coinvolgimento diretto dell’esercito israeliano sulle Alture del Golan dalla guerra del 1973. Il ministro della Difesa, Ehud Barack, ha intimato al regime di Damasco (ma di fatto senza escludere i ribelli) che Israele è pronta a «risposte più dure» se saranno sparati nuovi colpi dalla Siria verso il proprio territorio.
Una fonte della sicurezza israeliana ha indicato che l’esercito ha fatto fuoco nella direzione di una postazione di mortaio che aveva lanciato un colpo caduto vicino a un insediamento ebraico senza provocare vittime. Le Forze di difesa israeliane hanno «depositato una denuncia attraverso le forze Onu attive nell’area, affermando che il fuoco proveniente della Siria verso Israele non sarà tollerato e troverà una severa risposta».
Sempre in giornata il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva fatto sapere che lo Stato ebraico «sta monitorando attentamente quello che sta succedendo al confine con la Siria» aggiungendo di essere «pronto per ogni tipo di sviluppo». La tensione è altissima. Israele rafforza le sue postazioni nel Golan.
Nella notte l’allarme è suonato nelle città frontaliere israeliane. «Israele ritiene responsabile di quanto è accaduto e potrà accadere il governo di Damasco - ribadisce in serata un portavoce del ministero della Difesa di Tel Aviv - Spetta al presidente Assad garantire la sicurezza dell’area di frontiera in territorio siriano. Intervenga, se è ancora in grado di farlo». Sono segnali che rafforzano i timori della comunità internazionale che la guerra civile in Siria possa sfociare in un più ampio conflitto regionale.
L’ARTE DELLA GUERRA
L’ARMA DEL SILENZIO MEDIATICO
di Manlio Dinucci *
Si dice che il silenzio è d’oro. Lo è indubbiamente, ma non solo nel senso del proverbio. È prezioso soprattutto come strumento di manipolazione dell’opinione pubblica: se sui giornali, nei Tg e nei talk show non si parla di un atto di guerra, esso non esiste nella mente di chi è stato convinto che esista solo ciò di cui parlano i media. Ad esempio, quanti sanno che una settimana fa è stata bombardata la capitale del Sudan Khartum? L’attacco è stato effettuato da cacciabombardieri, che hanno colpito di notte una fabbrica di munizioni. Quella che, secondo Tel Aviv, rifornirebbe i palestinesi di Gaza.
Solo Israele possiede nella regione aerei capaci di colpire a 1900 km di distanza, di sfuggire ai radar e provocare il blackout delle telecomunicazioni, capaci di lanciare missili e bombe a guida di precisione da decine di km dall’obiettivo. Foto satellitari mostrano, in un raggio di 700 metri dall’epicentro, sei enormi crateri aperti da potentissime testate esplosive, che hanno provocato morti e feriti. Il governo israeliano mantiene il silenzio ufficiale, limitandosi a ribadire che il Sudan è «un pericoloso stato terrorista, sostenuto dall’Iran».
Parlano invece gli analisti di strategia, che danno per scontata la matrice dell’attacco, sottolineando che potrebbe essere una prova di quello agli impianti nucleari iraniani. La richiesta sudanese che l’Onu condanni l’attacco israeliano e la dichiarazione del Parlamento arabo, che accusa Israele di violazione della sovranità sudanese e del diritto internazionale, sono state ignorate dai grandi media. Il bombardamento israeliano di Khartum è così sparito sotto la cappa del silenzio mediatico.
Come la strage di Bani Walid, la città libica attaccata dalle milizie «governative» di Misurata. Video e foto, diffusi via Internet, mostrano impressionanti immagini della strage di civili, bambini compresi. In una drammatica testimonianza video dall’ospedale di Bani Walid sotto assedio, il Dr. Meleshe Shandoly parla dei sintomi che presentano i feriti, tipici degli effetti del fosforo bianco e dei gas asfissianti. Subito dopo è giunta notizia che il medico è stato sgozzato.
Vi sono però altre testimonianze, come quella dell’avvocato Afaf Yusef, che molti sono morti senza essere colpiti da proiettili o esplosioni. Corpi intatti, come mummificati, simili a quelli di Falluja, la città irachena attaccata nel 2004 dalle forze Usa con proiettili al fosforo bianco e nuove armi all’uranio. Altri testimoni riferiscono di una nave con armi e munizioni, giunta a Misurata poco prima dell’attacco a Bani Walid.
Altri ancora parlano di bombardamenti aerei, di assassinii e stupri, di case demolite con i bulldozer. Ma anche le loro voci sono state soffocate sotto la cappa del silenzio mediatico. Così la notizia che gli Stati uniti, durante l’assedio a Bani Walid, hanno bloccato al Consiglio di sicurezza dell’Onu la proposta russa di risolvere il conflitto con mezzi pacifici.
Notizie che non arrivano, e sempre meno arriveranno, nelle nostre case. La rete satellitare globale Intelsat, il cui quartier generale è a Washington, ha appena bloccato le trasmissioni iraniane in Europa, e lo stesso ha fatto la rete satellitare europea Eutelsat. Nell’epoca dell’«informazione globale», dobbiamo ascoltare solo la Voce del Padrone.
Nucleare iraniano. Non c’è solo la via militare
di Pino Arlacchi *
LA DISINFORMAZIONE SUL PROGRAMMA NUCLEARE IRANIANO ha raggiunto negli ultimi mesi il limite di guardia. Il partito della guerra contro l’Iran è più attivo che mai sia negli Usa che in Israele e in Europa. Poiché ogni guerra si basa su una menzogna più o meno grande, è importante che l’opinione pubblica conosca i tratti essenziali della bugia che sta venendo confezionata allo scopo di ripetere, dieci anni dopo, il disastro della guerra contro l’Irak.
Molti sono convinti che il governo iraniano abbia imboccato la strada della costruzione della bomba atomica e che l’unico modo per fermarlo sia quello di sanzionarlo a tutto spiano, isolarlo, minacciarlo di un attacco militare, colpirlo con le uccisioni mirate di scienziati e con la guerra informatica. Secondo questo modo di pensare, altri metodi sono destinati a fallire, perché gli ayatollah non hanno intenzione di trattare sul serio e vogliono solo guadagnare tempo per consentire ai loro tecnici di progredire verso la fabbricazione della bomba.
Da tre anni il governo americano, con l’assenso totale della Ue, propaganda questa visione delle cose. Adottata senza fiatare dai media occidentali, essa tace sulla posizione iraniana e minimizza o nasconde le informazioni sulle proposte di soluzione alternative.
Eppure queste proposte sono sul tappeto. Due anni fa, l’Iran dette il suo consenso ad un piano della Turchia e del Brasile secondo cui questi paesi avrebbero ricevuto dall’Iran materiale atomico da arricchire entro i limiti dell’uso civile, e l’avrebbero restituito all’Iran stesso. Ma Obama, dopo avere aderito alla proposta, fece un indecoroso dietro-front dopo che a Washington si era scatenata la lobby israeliana. La Ue non disse neppure una parola e quando ho chiesto conto in pubblico di questo comportamento alla signora Ashton ho ricevuto una risposta vaga.
L’anno scorso la Russia ha avanzato un piano che imponeva restrizioni sull’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran accompagnate da ispezioni più penetranti dell’Agenzia nucleare di Vienna. L’Iran era disposto a discutere il progetto ma non se ne fece nulla perché la priorità dell’amministrazione Obama era l’intensificazione delle pressioni internazionali su Teheran per arrivare a nuove sanzioni. Non si ha notizia della posizione europea sulla proposta. Si sa solo che la Ue ha adottato le sanzioni volute dagli Usa.
Il risultato è che gli oltranzisti iraniani hanno avuto facile gioco nel proseguire lungo la strada dell’arricchimento sospetto dell’uranio, arrivato oggi al 20%. Ogni nuovo accordo diplomatico è perciò da adesso in poi obbligato ad introdurre un monitoraggio ancora più intrusivo, dotato di un sistema di allerta precoce piazzato dentro l’establishment nucleare iraniano.
Questo ulteriore requisito è fondamentale, perché introduce un punto di rottura superato il quale l’Iran sa che scatteranno sanzioni più dure e anche attacchi militari. Ma un accordo che introduca questo requisito deve anche contenere una lista di passi ben precisi che l’Iran deve compiere per ottenere la cancellazione delle sanzioni. È ciò che l’Onu fece con l’Irak dopo la prima guerra del Golfo, e l’accordo funzionò finchè gli Usa non decisero che il loro vero obiettivo era il cambiamento di regime.
L’Iran ha più volte offerto in questi anni di ospitare un regime di ispezioni intrusive, più profonde di quelle attuate di norma dall’Agenzia atomica dell’Onu. Mousavian, il capo dei negoziatori fino a poco tempo fa, aveva suggerito un tetto di arricchimento pari al 5% ed aveva accettato di non stoccare sul suolo iraniano l’uranio arricchito in eccesso. In cambio, gli Stati Uniti ed i loro alleati avrebbero dovuto riconoscere il diritto dell’Iran alla tecnologia di arricchimento diritto che è uno dei cardini del Trattato di non proliferazione e smantellare gradualmente le sanzioni.
Qualcuno dei lettori ha mai sentito anche vagamente parlare di questa storia? Non se ne è mai saputo niente perché gli Stati Uniti e la Ue hanno testardamente rifiutato negli ultimi tre anni di cercare una soluzione negoziata con l’Iran. I negoziati falliti della primavera e dell’estate scorsa illustrano come se l’Occidente non ha da offrire alcunché, ma è ostaggio del partito dello scontro armato, dopo le elezioni presidenziali americane il mondo rischia di ritrovarsi di nuovo nella nebbia della guerra.
* l’Unità, 29.10.2012
«L’Iran accetta negoziati con gli Usa sul nucleare»
Giallo diplomatico, Washington smentisce *
WASHINGTON - E’ una «sorpresa d’ottobre». Dalle conseguenze tutte da immaginare, e sulla quale pesa una immediata smentita della Casa Bianca. Ma è comunque una sorpresa. A due settimane dalle elezioni presidenziali e alla vigilia dell’ultimo duello in tv tra Obama e Romney, il New York Times ha rivelato un’intesa degli Usa con l’Iran per colloqui diretti sul nucleare. Trattive che tuttavia inizieranno soltanto dopo il voto americano poiché gli iraniani, non a torto, vogliono sapere chi ci sarà alla Casa Bianca. Aspetto non certo secondario. Se i democratici e Obama hanno sempre lasciato aperta la porta al negoziato, lo sfidante Romney e i repubblicani sono apparsi contrari. Vogliono la linea dura, ma sul piano pratico le posizioni non sono poi così lontane da quelle degli avversari.
Lo sviluppo diplomatico può essere importante anche se pieno di insidie. E irrompe a tutta forza nella campagna elettorale. La Casa Bianca può «vendersi» il sì di Teheran come il risultato della sua strategia fatta di pressioni, linee rosse e sanzioni pesanti. Vedete, dirà Obama, che alla fine il nostro approccio ha portato - in linea di principio - ad un risultato. E magari eviterà il rischio di un nuovo conflitto. Al tempo stesso, però, i critici possono ribattere che la risposta di Teheran agli inviti al dialogo è solo l’ennesimo trucco per guadagnare tempo. Chi guarda con scetticismo verso gli iraniani ritiene che mai e poi mai la Guida Ali Khamenei rinuncerà al sogno della Bomba. Dunque perché andare dietro a ipotesi negoziali che esistono solo sulla carta?
In realtà - osserva il New York Times che ha rivelato l’intesa sulla trattativa - anche Romney deve procedere con cautela. Respingerla a priori può scoprire il fianco a non pochi rilievi. Se vuoi essere presidente non puoi speculare su un dossier così importante e neppure fare muro. Anche perché non esistono molte alternative. Le sanzioni stanno incidendo - lo si vede dall’impatto devastante sull’economia - ma non è detto che basti. Ed allora tornerebbero l’opzione militare, scenario sul quale Romney è apparso molto cauto.
Alla possibile svolta si è giunti dopo un lungo lavoro discreto affidato ai diplomatici dei due paesi, con il coinvolgimento (punto significativo) di emissari di Khamenei. Contatti svoltisi anche in fasi piuttosto critiche. La Casa Bianca, da un lato, ha gli iraniani, negoziatori tosti e instancabili. Dall’altra Israele, alleato chiave in Medio Oriente e ancor più importante alla luce del caos provocato dalle «primavere arabe», ma determinato nel voler risolvere, in un modo o nell’altro, la questione nucleare. Per Gerusalemme il tempo sta volando via e come ha spiegato il premier Netanyahu nel discorso all’Onu entro la fine di aprile-maggio Teheran potrebbe raggiungere il punto di non ritorno. Ecco che allora i negoziati diventano davvero l’ultimo appello.
* Corriere della Sera, 21.10.2012
Netanyahu deve parlare agli iraniani
di Abraham B. Yeoshua (La Stampa, 01.10.2012)
Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tiene un discorso davanti all’assemblea delle Nazioni Unite si rivolge solitamente a tre o quattro diversi gruppi di ascoltatori: innanzi tutto ai cittadini e al governo degli Stati Uniti, in secondo luogo agli ebrei americani che prestano grande attenzione alle sue parole, in terzo luogo ai rappresentanti dei paesi più o meno amici di Israele in Europa, in Sud America e in Asia e, infine, alla popolazione del suo Paese (benché abbia anche altre occasioni di rivolgersi a noi israeliani). A giudicare dal suo recente discorso all’Onu risulta comunque chiaro che Netanyahu non aveva nessuna intenzione di includere fra i suoi ascoltatori anche il popolo iraniano, l’opinione pubblica di quel Paese o i suoi alleati, nonostante sapesse che, in un mondo di rapide e intense comunicazioni come il nostro, il suo discorso avrebbe potuto facilmente arrivare ai ceti colti dell’Iran e dei Paesi arabi.
Sembra infatti che Netanyahu e i suoi consiglieri considerino perduta in partenza la battaglia per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica iraniana, e questo contrariamente alla tradizione politica sionista che, fin dai suoi albori, si è rivolta ai cittadini arabi e ha continuato a farlo anche negli anni in cui la stampa scritta ed elettronica veniva bloccata dai regimi totalitari dei loro Paesi e del blocco sovietico.
I leader e i portavoce israeliani si indirizzavano alle popolazioni arabe per spiegar loro nel miglior modo possibile il retroterra storico del popolo ebraico, le sue battaglie, la sua presenza in passato in questa regione e molto altro ancora. E nonostante il perdurare di un muro di ostilità sembra che qualcosa sia filtrato nelle loro coscienze se si è giunti non solo agli accordi di pace con l’Egitto e con la Giordania ma anche a quelli di Oslo e di Ginevra con i palestinesi.
Io non sono un esperto dei trucchi propagandistici della leadership iraniana ma ho l’impressione che ultimamente sia passata dall’ignobile negazione della Shoah al totale disconoscimento del passato storico degli ebrei in Medio Oriente. Il nostro primo ministro, però, forse per colpa dei suoi consiglieri religiosi, non si è dato la pena di citare concreti fatti storici. Ancora una volta ha optato per i cliché del Regno di Davide, delle promesse divine fatte nella Bibbia al popolo ebraico e del legame spirituale di quest’ultimo con la terra di Israele.
Non gli è venuto in mente, per esempio, di parlare dell’editto di Ciro, re di Persia, che nel 538 a. C. esortò gli ebrei a fare ritorno in patria e a ricostruire il loro tempio (un innegabile fatto storico che, se citato, avrebbe sgretolato le menzogne di Ahmadinejad e suscitato forse un sentimento di consapevolezza negli iraniani, un popolo dalla profonda coscienza storica).
Non gli è venuto nemmeno in mente di parlare della presenza millenaria di comunità ebraiche nelle nazioni del Medio Oriente tra cui, naturalmente, l’Iran, e di lodare persino l’atteggiamento di relativa tolleranza e rispetto dimostrato da questo Paese verso gli ebrei suoi residenti. Non gli è venuto in mente di parlare del riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Iran e della Turchia, due potenze musulmane, dopo la sua fondazione e del mantenimento dei rapporti diplomatici con esso per più di trent’anni. Non gli è venuto in mente di parlare degli israeliani di origine iraniana che hanno occupato, e ancora occupano, posizioni di primo piano nell’amministrazione civile e militare israeliana. E ai suoi consiglieri non è venuto in mente di suggerirgli di parlare della delegazione israeliana guidata da Lova Eliav rimasta per due anni nella regione iraniana di Qazvin negli Anni 60 per prestare soccorso alle vittime di un terribile terremoto.
Informazioni di questo tipo avrebbero potuto rappresentare una novità non solo per decine di rappresentanti di nazioni africane, sudamericane e asiatiche ma anche per gli stessi iraniani e per i palestinesi rimasti ad ascoltare le parole di Netanyahu. Informazioni di questo tipo avrebbero forse aiutato a confutare le affermazioni iraniane sulla nostra estraneità alla regione, più di riferimenti a promesse divine e al Regno di Davide.
E, in generale, perché assumere sempre il ruolo della vittima costretta a seminare minacce e avvertimenti? E perché rivolgersi soprattutto agli americani, come se Israele fosse davvero una loro succursale o, secondo le parole di uno dei ministri del Likud, una portaerei americana in Medio Oriente?
L’eccessiva «americanizzazione» del primo ministro israeliano è ormai più dannosa che utile.
La “pistola fumante” di Netanyahu è un fumetto “atomico”
di Stefano Citati (il Fatto, 29.09.2012)
È la nuova smoking gun, la “pistola fumante” per una guerra in Medio Oriente. Il disegno, volutamente infantile, nelle mani del premier israeliano Netanyahu che lo illustra dalla tribuna dell’Assemblea generale dell’Onu dove ha da qualche ora finito di parlare il presidente iraniano Ahmadinejad, è una bomba da fumetto con la miccia accesa e rappresenta lo stato della capacità atomica dell’Iran. Un segno rosso indica che gli scienziati di Teheran sono sempre più vicini all’ottenere - “entro la prossima estate”, dice Netanyahu - la Bomba, l’ordigno nucleare che minaccerebbe Israele e buona parte dell’Asia minore.
A differenza delle prove, anche fotografiche, che gli americani portarono a supporto delle loro ragioni per attaccare il regime iracheno di Saddam quasi 10 anni fa - e che si rivelarono poi false e montate, anche grossolanamente, il primo ministro di Gerusalemme usa l’illustrazione come una prova che ‘capirebbe anche un bambino’. E i bambini che siedono nel-l’Assemblea generale Onu rappresentando le nazioni del mondo dovrebbero convincersi che non c’è più tempo da spettare, che “Israele non permetterà che quella linea rossa venga varca” e il regime della teocrazia islamica raggiunga l’obbiettivo.
PER QUESTO il premier “falco”, rappresentate di quella destra oltranzista che ha una seppur debole maggioranza in Israele, si sta schierando, anche con la sceneggiata al Palazzo di Vetro, con il candidato repubblicano Mitt Romney, le cui posizioni sul Medio Oriente sono più belligeranti di quelle del presidente Obama. Forse per questo l’attuale inquilino della Casa Bianca ha, martedì, nel suo intervento d’apertura dell’Assemblea onusiana, usato parole minacciose nei confronti dell’Iran, per non farsi sorpassare a destra su un tema di politica internazionale comunque piuttosto sentito negli Usa. Al punto che in un colloquio telefonico ieri i due leader si sono detti “totalmente d’accordo” nell’impedire l’ordigno iraniano. La deterrenza della “sponda” repubblicana di Netanyahu sembra aver funzionato.
Boom di caricature in Rete per Netanyahu
di V. Ma. (Corriere della Sera, 29.09.2012)
«Volete sapere quanto è vicino l’Iran alla bomba? Guardate questo diagramma...». Il disegno mostrato all’Assemblea generale dal premier israeliano Benjamin «Bibi» Netanyahu doveva far cogliere appieno ai leader mondiali i rischi insiti nel programma nucleare di Teheran. Questa almeno era l’idea degli «stretti consulenti» che per giorni gli avevano sottoposto «diagrammi» diversi. L’attenzione, in effetti, non è mancata. Decine di migliaia di commenti in pochi minuti hanno inondato Twitter. Su questo tono: «Se Wile Coyote mette le mani su quei piani, Bip Bip è fritto», ha scritto il New Yorker. E dopo i tweet, decine di caricature in Rete.
I sostenitori di Bibi insistono che il «diagramma» è stato un successo: l’obiettivo era proprio questo, attirare l’attenzione. Ma Jeffrey Goldberg dell’Atlantic Monthly suggerisce che «proprio perché il programma iraniano è una tale minaccia per Israele, quella vignetta è una pessima idea». Una nota della Casa Bianca ieri riferiva che Netanyahu e Obama si sono parlati per telefono, sottolineando il loro «pieno accordo» e «l’obiettivo comune di impedire all’Iran di ottenere un’arma nucleare». Ma sul web si continuava a parlare della «Bomba di Bibi». «Se l’atomica iraniana è come quella di Wile Coyote non abbiamo nulla da temere», twittava un utente.
Iran, risponderemo agli attacchi di Israele
Iraniani, farneticazione di un responsabile di un regime sionista.
Intanto la stampa israeliana ironizza su ’Bibi-boom’. *
NEW YORK - L’Iran "risponderà con tutta la forza necessaria" ad un eventuale attacco israeliano. Il rappresentate iraniano all’ Onu, Eshagh Al Habib. risponde al discorso del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla necessità di un ultimatum, una "linea rossa", al programma nucleare iraniano. "La Repubblica islamica dell’Iran è abbastanza forte da potersi difendere e si riserva il diritto di rispondere con tutta la forza necessaria a qualsiasi attacco", sottolinea Al Habib.
Il discorso iraniano, che non era previsto, è la "risposta alle accuse del primo ministro israeliano" ieri pomeriggio davanti all’Assemblea generale dell’Onu, nel quale Netanyahu ha comparato un Iran nucleare ad una "Al Qaida armata di bombe atomiche". "Per la seconda volta nella storia recente delle Nazioni unite, un disegno immaginario ed infondato è stato utilizzato per giustificare una minaccia ad un membro fondatore dell’Onu", ha dichiarato Al Habib. Il rappresentante iraniano alle Nazioni unite ha anche ribadito come il programma nucleare di Teheran sia "esclusivamente pacifico ed in piena conformità degli obblighi internazionali".
Le dichiarazioni del primo ministro di Israele ieri all’Assemblea Onu "non sono nient’altro che le farneticazione di un responsabile di un regime sionista che sta cercando di approfittare della tribuna delle Nazioni Unite per gettare nel panico l’opinione pubblica mondiale". Lo ha detto l’ambasciatore iraniano in Italia, Mohammad Ali Hosseini, incontrando i giornalisti in una conferenza stampa. "Gli iraniani non sono preoccupati d’un eventuale isolamento internazionale mi sembra isolato, invece, quel regime che oggi costruisce muri altissimi intorno a sé per separarsi anche fisicamente dal resto del mondo", ha aggiunto il diplomatico.
Il discorso del premier Benyamin Netanyahu, che ha esposto un disegno in stile comics di una ’bomba iraniana’ scatena i commentatori sulla stampa israeliana, che alternano toni ironici ad analisi preoccupate. Tutti ammettono comunque che ’Bibi’ Netanyahu, con quell’espediente, ha avuto il pregio di evidenziare per le masse un concetto estremamente complesso: ossia il momento in cui i progetti nucleari dell’Iran arriveranno a un punto di non ritorno.
Sotto al titolo ’Bibi-Boom’ un analista di Yediot Ahronot scrive con sarcasmo che il premier israeliano è tornato a far riferimento alle origini: ossia ai volumetti comics che presumbilmente leggeva nella sua adolescenza trascorsa negli Stati Uniti. Anche Maariv sceglie l’arma dell’ironia quando nota che la ’linea rossa’ segnata platealmente ieri da Netanyahu si è fermata al 90 per cento di arricchimento dell’uranio: una tappa, che secondo il premier, potrebbe manifestarsi nella prossima primavera "o al massimo nella estate" del 2013. In passato, ricorda beffardo il giornale, Netanyahu e il suo ministro della difesa Ehud Barak avevano avvertito che un attacco alle infrastrutture nucleari iraniane avrebbe potuto rendersi necessario già nell’estate 2012; poi - aggiunge il giornale - hanno spostato la ’linea rossa’ all’autunno 2012, e adesso "hanno aggiunto altri sei mesi".
ANTICIPAZIONE DEL DISCORSO DEL PRESIDENTE ALL’ONU
Rivolte islamiche, Obama all’Onu:
"Attacco ai nostri valori comuni"
Monito all’Iran: "Non lasceremo che si doti della bomba atomica"
New York. I recenti attacchi contro gli Usa in Libia e in altri Paesi «sono stati un’aggressione agli ideali stessi su cui l’Onu è stata fondata»: con questo passaggio centrale nel suo intervento Barack Obama si è rivolto alla sessione inaugurale della 67ma Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il presidente americano, che spesso ha utilizzato il suo intervento annuale al Palazzo di Vetro per delineare le ambizioni di lungo termine dell’amministrazione, ha approfittato dell’occasione per ricordare che gli attacchi non sono stati solo un’aggressione all’America, ma minacciano i valori fondativi alla base delle Nazioni Unite e dei diritti dell’uomo. «Oggi possiamo dire che il nostro futuro sarà determinato da gente come Chris Stevens e non dai suoi assassini». «Questa violenza e intolleranza», ha aggiunto il presidente Usa alludendo alle proteste nel mondo islamico contro il film su Maometto prodotto in America (un film -ha tenuto a precisare- con cui gli Ua non hanno nulla a che vedere) «non ha posto tra le nostre Nazioni Unite». «Non ci sono parole o scuse per uccidere gente innocente, né per dare fuoco a un ristorante in Libano, distruggere una scuola a Tunisi o provocare morte e distruzione in Pakistan».
Quanto all’Iran, un regime repressivo e fiancheggiatore delle dittatura siriana, va isolato. «Esattamente come limita i diritti del suo popolo, il governo iraniano puntella un dittatore a Damasco e alimenta i gruppi terroristici all’estero». Obama ha ripetuto che vuole risolvere la crisi attraverso la diplomazia e che ritiene «esserci ancora tempo e spazio per farlo». «Ma il nostro tempo non è limitato», ha detto riecheggiando parole usate nel passato dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu. «Rispettiamo il diritto degli Stati di accedere al nucleare per uso civile, ma uno degli scopi delle Nazioni Unite è vigilare che sfruttiamo quel potere per la pace. Un Iran dotato dell’arma nucleare non è una sfida che si può tollerare: minaccerebbe la sicurezza di Israele, la sicurezza degli Stati del Golfo e la stabilità dell’economia globale. Rischierebbe di scatenare una corsa al riarmo nucleare nella regione, mettere a rischio il trattato di non proliferazione. Ed ecco perché gli Stati Uniti faranno ciò che è necessario per impedire all’Iran di avere l’arma nucleare».
Il discorso di Obama, tra i più attesi della prima sessione insieme a quelli di Ban Ki-Moon, del presidente francese, Francois Hollande, e dell’emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa Al-Thani, rientra nell’offensiva diplomatica lanciata dagli Usa per cercare di abbassare la tensione provocata dal film blasfemo su Maometto prodotto in America.
* La Stampa, 25/09/2012
Iran, le navi americane nello Stretto di Hormuz
Al via le megamanovre militari con gli alleati europei e arabi
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 17.09.2012)
Non ha precedenti, l’esercitazione navale che una trentina di nazioni hanno cominciato ieri intorno allo Stretto di Hormuz. Almeno sul piano dello spiegamento di forze, come non si era mai visto prima nella regione. L’obiettivo dichiarato è preparare la risposta ad una fantomatica organizzazione estremistica, che potrebbe decidere di minare quel tratto di mare, dove passa circa un terzo del petrolio mondiale trasportato via acqua. L’obiettivo reale, secondo gli analisti, è mandare un segnale all’Iran sulle reazioni che subirebbe nel caso lanciasse un’azione militare, e rassicurare Israele sulla determinazione della comunità internazionale a contenere la Repubblica islamica.
L’esercitazione, dal nome International Mine Countermeasures Excercise 2012, o IMCMEX 12, è enorme, perché copre tre fronti: a Nord il Golfo Persico nella zona del Bahrein, a Sud l’accesso allo stretto davanti all’Oman, e ad Ovest il Golfo di Aden che apre la porta del Mar Rosso. Hormuz non viene toccato direttamente, ma è accerchiato. Tra i Paesi partecipanti ci sono tutti i grandi giocatori dello scacchiere: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, ma pure l’Arabia Saudita e gli Emirati. La flotta mobilitata comprende unità per lo sminamento, ma anche portaerei, navi lanciamissili e sottomarini. Tutto quello che potrebbe servire per annientare una nazione.
Le manovre sono cominciate ieri e continueranno fino al 27 settembre, il giorno dopo l’intervento di Teheran all’Assemblea Generale dell’Onu, dove il suo programma nucleare sarà al centro del dibattito. Una volta conclusa l’esercitazione, poi, alcune delle unità impiegate resteranno in maniera permanente nella zona, nel caso il loro servizio diventasse realmente necessario. Qualche settimana dopo, infatti, l’Iran risponderà tenendo una propria operazione difensiva nella stessa area, per dimostrare la sua capacità di proteggere le strutture atomiche. Non ci vuole molto per collegare i puntini, e capire che il gioco è assai più ampio di quanto non si ammetta ufficialmente.
Proprio ieri il generale Mohammad Ali Jafari, capo delle Guardie Rivoluzionarie, ha avvertito che se la Repubblica islamica verrà attaccata, risponderà colpendo lo Stretto di Hormuz, Israele, e le basi americane in Bahrein, Kuwait, Emirati e Arabia Saudita: «E’ - ha detto - una politica dichiarata del mio Paese». Teheran, in effetti, ha minacciato di minare lo stretto. Gli analisti dubitano che lo farà, perché sarebbe contro il suo interesse: anche il petrolio iraniano e le importazioni del Paese transitano per questo tratto di mare largo appena 21 miglia, con due canali di navigazione ampi due miglia ciascuno. Se però gli ayatollah venissero messi con le spalle al muro, impediti a vendere qualunque quantità di greggio, e attaccati nel progetto nucleare, potrebbero rispondere bloccando Hormuz.
L’esercitazione serve a chiarire che questa ritorsione sarebbe inutile, perché le forze in campo potrebbero sminare lo stretto e lanciare risposte molto più pesanti, in grado di mettere in ginocchio il Paese. Nello stesso tempo, però, queste manovre rappresentano anche un segnale per Israele: «Gli Usa - ci spiega Charles Kupchan del Council on Foreign Relations - stanno conducendo una delle più grandi esercitazioni navali nella storia della regione, e hanno una collaborazione militare senza precedenti con lo Stato ebraico. Questa è l’unica cosa che conta davvero, nelle relazioni bilaterali». Intende dire che l’impegno di Obama a difendere Israele è fuori discussione, e questa rappresenta la migliore risposta pratica alla richiesta del premier Netanyahu di imporre «linee rosse» a Teheran. Washington vuole proseguire sulla strada delle sanzioni e del negoziato, e non vuole una guerra alla vigilia delle elezioni presidenziali, ma è pronta ad intervenire.
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu non verrà ricevuto da Obama Netanyahu sprona Obama: più duri con Teheran Il premier teme che a Washington prevalga la linea dei moderati
di Aldo Baquis (La Stampa 17.9.12)
TEL AVIV L’opportunità o meno di tracciare una inequivocabile «linea rossa», nell’intento di bloccare i programmi nucleari dell’Iran, è al centro di un’accesa schermaglia condotta da Usa ed Israele attraverso i media. Imperterrito (e forse infastidito per il rifiuto di Obama di riceverlo a fine mese) il premier israeliano Benyamin Netanyahu insiste invece che la leadership iraniana è lanciata verso la realizzazione dei progetti atomici e che solo la definizione di una «linea rossa» potrebbe indurla ad una dose di prudenza. Se si vuole esorcizzare il rischio di un blitz preventivo israeliano - lascia intendere il premier - occorre mettere sul tavolo una minaccia credibile.
Non essendo finora riuscito a convincere l’amministrazione democratica (né peraltro leader amici di Israele, come Angela Merkel e David Cameron) Netanyahu si è rivolto ieri direttamente all’opinione pubblica statunitense, con interviste alla Cnn e alla Nbc. «Non mi fiderei della razionalità dei leader iraniani, il loro zelo religioso viene prima della sopravvivenza, hanno uomini-bomba ovunque», ha osservato. «L’Iran è guidato da persone di fanatismo incredibile, lo stesso che ha investito in questi giorni le ambasciate Usa... Vorreste disponessero di armi atomiche? ». Ha ricordato Timothy McVeigh, il terrorista della bomba di Oklahoma City: «É come se entrasse in un negozio chiedendo fertilizzanti per il suo giardino. Andiamo, sappiamo che stanno facendo un’arma».
Le antenne del premier devono aver fiutato che nel Dipartimento di Stato spirano anche venti remissivi, di accettazione passiva di un Iran nucleare come «male minore» e come opzione meno catastrofica per la regione che non un blitz di Israele. Netanyahu ha allora messo il dito nella piaga: «C’è perfino chi pensa che un Iran nucleare stabilizzerebbe il Medio Oriente. Significa fissare nuovi standard della stupidità umana».
Ma in Israele i continui appelli di Netanyahu non trovano tutti assenzienti: fra i primi ad opporsi vi è il capo dello Stato Shimon Peres, preoccupato per le condizioni dei rapporti Israele-Usa. Anche un esperto israeliano di questioni strategiche, il dottor Efraim Ascolay, ha ieri espresso perplessità sulla politica suggerita da Netanyahu. Ci sono situazioni (ad esempio, per quanto riguarda l’arricchimento dell’uranio) in cui non è immediatamente chiaro se una «linea rossa» sia stata effettivamente varcata. Le informazioni di intelligence giungono talvolta in ritardo dall’Iran, o in maniera frammentaria. Semmai, suggerisce Ascolay, il gruppo 5 + 1 (i Paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Germania) dovrebbe stabilire una data precisa entro la quale l’Iran debba adempire alle richieste presentate dalla comunità internazionale.
Questo ultimatum dovrebbe essere accompagnato dalla minaccia di un’azione militare. Ma Obama, lo comprende anche Ascolay, non può prendere impegni del genere prima del voto di novembre. Dunque - lascia intendere - Netanyahu sembra trovarsi adesso in un vicolo cieco.
Un’idea da respingere decisamente!
di Giovanni Sarubbi *
Le elezioni presidenziali americane incombono sull’umanità e generano tragedie. Questo il dato che viene taciuto dai grandi mezzi di comunicazione quando raccontano dell’ennesima rivolta del mondo musulmano contro l’ennesimo film denigratorio del profeta dell’Islam Muhammad (o Maometto, come lo definiscono la maggioranza dei mass media secondo la volgarizzazione italiana del suo nome, che significa "grandemente lodato", fatta in età medievale, in un periodo quindi di lotte aspre fra mondo islamico e mondo cristiano).
Chi ricorda più che durante le scorse elezioni presidenziali americane, e precisamente nel periodo di passaggio dalla amministrazione Bush a quella Obama, vi fu l’operazione “piombo fuso” che lo Stato di Israele condusse contro Gaza, con migliaia e migliaia di morti e distruzioni immani? L’operazione si svolse dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009. Si concluse cioè esattamente due giorni prima dell’insediamento ufficiale di Barack Obama avvenuto il 20 gennaio 2009. Era il colpo di coda dell’amministrazione repubblicana di Bush che lasciava un’altra pesante eredità al suo successore democratico, un modo per ricordargli che la guerra è parte integrante e costituente degli Stati Uniti d’America, cosa di cui Obama non si è affatto dimenticato negli anni della sua presidenza aumentando il contingente USA in Afghanistan e scatenando la guerra in Libia e ora in Siria.
Oggi ci risiamo. Viene messo in giro un film denigratorio sull’Islam ed il suo profeta la cui realizzazione, afferma l’ADNKRONOS, sarebbe stata possibile grazie ad un permesso richiesto da una “associazione benefica cristiana” dal nome “Media for Christ”. Il film finisce su Youtube e immediatamente in giro per il mondo iniziano manifestazioni e attacchi ad ambasciate americane con la più grave accaduta a Bengasi, cioè in un territorio oggi controllato capillarmente dall’esercito degli USA che lo ha praticamente occupato dopo la guerra contro la Libia dello scorso anno.
Così il tema della “sicurezza” dei cittadini americani all’estero e degli USA nel suo complesso ritorna al centro della campagna elettorale americana con Obama che ha dichiarato: "Finché sarò io il comandante in capo, gli Stati Uniti non tollereranno tentativi di mettere in pericolo i nostri concittadini".
Non posseggo una videoteca con le immagini mandate in onda durante le passate rivolte arabe contro film o libri o vignette offensivi della religione islamica e non sono quindi in grado di fare confronti con quelli messi in giro oggi. Ma guardando le immagini messe in circolazione in questi giorni sulle TV nostrane, il sospetto che si tratti di immagini già viste, quelle che i giornalisti chiamano “di repertorio”, e che magari si riferiscono a tutt’altro, è molto forte. Si citano decine di paesi, persino l’Australia, come luoghi dove sarebbero in corso imponenti manifestazioni antiamericane da parte dei musulmani con tanto di bandiere bruciate e uomini barbuti che gridano. Ma chi ha generato tali notizie? Chi è l’autore dei filmati trasmessi da tutte le TV di tutto il mondo occidentale?
Scusate ma io diffido per principio di tutto ciò che viene trasmesso dalle nostre TV. Le immagini televisive possono prestarsi ai più subdoli inganni e mistificazioni soprattutto quando sono finalizzate alla guerra come è in questo caso.
E la guerra di cui stiamo parlando è quella contro l’Iran, con il bombardamento delle sue centrali nucleari da parte dello Stato di Israele di cui insistentemente si parla in queste ultime settimane e che molte fonti danno per imminente, già ai primi di ottobre. Rinfocolare quindi la tensione in medio oriente e in tutto il mondo arabo e acuire i contrasti fra “mondo cristiano” e “mondo musulmano” serve allo scopo e a creare l’idea del “mondo cristiano occidentale” sotto attacco dal “mondo musulmano” da cui occorrerebbe difendersi. E’ il vecchio slogan trito e ritrito dello “scontro di civiltà”. Un’idea da respingere decisamente!
Giovanni Sarubbi
Il discorso ‘sparito’ del patriarca
di Giovanni Panettiere (Quotidiano.net, 16 settembre 2012)
«Il riconoscimento dello Stato palestinese è il bene più prezioso che il mondo arabo possa ottenere in tutte le sue confessioni cristiane e musulmane». Quelle parole non avrebbe dovuto pronunciarle, almeno non davanti al papa, ma, alla fine, il patriarca greco cattolico melchita di Damasco,
Gregorio Laham III - al vertice di una comunità di oltre 1,3 milioni di fedeli -, ha rotto gli indugi. Accogliendo l’altro giorno Benedetto XVI nella basilica di San Paolo ad Harissa, in Libano, dove il Santo Padre ha firmato l’esortazione apostolica post sinodale sul Medio Oriente, il presule si è lanciato in un pieno e convinto sostegno alla causa palestinese, spronando il pontefice a dare il via libera allo Stato arabo.
Per il patriarca «il riconoscimento potrà garantire la realizzazione degli orientamenti espressi in questa esortazione apostolica post-sinodale per la quale abbiamo manifestato la nostra più viva gratitudine. Preparerebbe la strada verso una vera primavera araba, una vera democrazia e una vera rivoluzione capace di cambiare il volto del mondo arabo e dare la pace alla Terra Santa, al vicino Oriente e al mondo».
Non è la prima volta che Laham III si sbilancia sulla questione palestinese. Solo due anni fa, nel corso del sinodo sul Medio Oriente, il patriarca tradì la sua simpatia per Ramallah, senza però incontrare il favore della maggioranza dei padri sinodali. Nei giorni scorsi, invece, sul sito ufficiale della visita del papa in Libano (www.lbpapalvisit.com), era stato pubblicato in anteprima il testo del saluto del presule a Benedetto XVI. L’intervento conteneva anche un richiamo esplicito alle vicende della Terra santa. Ma il messaggio in rete c’è rimasto solo qualche giorno: alla vigilia dell’arrivo di Ratzinger è stato espunto dal web. Censura vaticana?
«Il testo è stato rimosso semplicemente perché questo genere di interventi si pubblicano dopo che sono stati pronunciati», si è affrettato a dire il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Appena in tempo, dal momento che fonti vaticane avevano già manifestato una certa irritazione per l’anteprima dell’intervento di Laham III. «È solo la posizione personale del patriarca», avevano precisato alla stampa. In effetti, la tesi del melchita appare chiaramente in disaccordo con l’orientamento della diplomazia d’Oltre Tevere, più propensa ad attendere un intervento delle Nazioni unite che ad avanzare la prima mossa sul terreno minato del riconoscimento di uno Stato palestinese.
Tolto il discorso dal web, Laham III ha tenuto il suo discorso davanti al pontefice. Liberamente, o quasi. Rispetto alla versione pubblicata on-line, il saluto pronunciato ad Harissa è stato, infatti, ripulito dei riferimenti più problematici: via il passaggio sul riconoscimento dello Stato palestinese come «atto coraggioso di equità, di giustizia e di verità», omesso il rimando al Vaticano che, con il disco verde a Ramallah, finirebbe «per incoraggiare gli altri Stati europei e non solo a riconoscere la sovranità dello Stato palestinese». A questa revisione del testo si aggiunge il caso della ripubblicazione sul sito ufficiale del viaggio papale: nonostante siano trascorsi due giorni dalla sua pronuncia, dell’intervento non c’è traccia. Molto probabilmente, una volta che il papa sarà rientrato a Roma, la pagina verrà aggiornata per dare al pubblico un quadro d’insieme della tre giorni in Medio Oriente. Al momento nulla si muove.
Senz’altro Ratzinger avrebbe preferito omettere nella sua visita in Libano qualsiasi riferimento alla politica, specie quella israelo-palestinese dato il rapporto, non sempre facile, tra il Vaticano e Tel Aviv. Solo qualche settimana fa Israele aveva protestato con la Santa sede per la nomina del nuovo nunzio apostolico, mentre resta sempre aperta la questione della beatificazione di Pio XII.
Benedetto XVI, come è suo stile, avrebbe voluto dare un taglio esclusivamente pastorale alla sua tre giorni in Medioriente. Tuttavia, di fronte alle violente manifestazioni nel mondo islamico di questi giorni, c’’è da chiedersi se il richiamo alla Palestina del patriarca Laham III non sia stato, non solo inevitabile, ma anche utile per allentare le tensioni tra Occidente e musulmani.
Giovanni Panettiere
CHE MILLE VOCI SI LEVINO CONTRO LA GUERRA
"VITERBO OLTRE IL MURO" *
Oltre dieci anni di partecipazione italiana alla guerra afgana, oltre dieci anni di stragi di cui anche noi cittadini italiani portiamo la responsabilita’ per non aver impedito allo stato italiano di prendervi parte (una partecipazione folle e criminale in flagrante violazione dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana).
Dieci anni di stragi e devastazioni. Di imbarbarimento la’ e qui, di desensibilizzazione nostra di fronte al dolore degli altri, di nostra effettuale complicita’ con il quotidiano massacro.
Quante persone sono state uccise? Quante mutilate per sempre? Quante ferite? Quante private di tutti i loro beni? Quante ridotte a una vita che e’ mera sofferenza?
Questo orrore deve finire.
L’Italia deve cessare di contribuire a massacrare il popolo afgano. L’Italia deve cessare di fare la guerra. L’Italia deve opporsi alla guerra ed impegnarsi per la pace.
*
Ci uniamo quindi alla campagna nonviolenta "Non un giorno di piu’" per la cessazione immediata della partecipazione italiana alla guerra afgana; per la pace, il disarmo e la smilitarizzazione; per il rispetto della vita, della dignita’ e dei diritti umani di tutti gli esseri umani.
Chiediamo al Presidente della Repubblica, al Governo e al Parlamento che lo stato italiano cessi immediatamente di partecipare alla guerra afgana, e si impegni concretamente per la pace che salva le vite.
*
Chiediamo a tutte le persone, i movimenti, le associazioni e le istituzioni che hanno a cuore il diritto alla vita e alla dignita’ di tutti gli esseri umani, che hanno a cuore la civile convivenza e la solidarieta’ che l’intera umanita’ unisce, di aderire alla campagna nonviolenta "Non un giorno di piu’" per la cessazione immediata della partecipazione italiana alla guerra afgana, e di promuovere iniziative ed appelli a tal fine.
*
Che mille voci si levino contro la guerra.
Che si rispetti il dettato della Costituzione della Repubblica Italiana: "L’Italia ripudia la guerra".
Che si abolisca la guerra prima che essa distrugga la civilta’ umana.
"Viterbo oltre il muro", gruppo di formazione e informazione nonviolenta
Viterbo, 14 settembre 2012
Nota trasmessa alla stampa a cura del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo
strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo
e-mail: nbawac@tin.it
web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Ratzinger e lo stallo della pace
di Marco Politi (il Fatto quotidiano, 14 settembre 2012)
Benedetto XVI arriva in Libano, mentre scorre il sangue in Medio Oriente. La morte dell’ambasciatore americano in Libia, le violente dimostrazioni in Egitto, nello Yemen, in Tunisia e in molte altre città arabe sono il culmine delle proteste seguite al film anti-islamico “Innocence of Muslims”.
Gli ingredienti per altre esplosioni di odio religioso e per aizzare gli estremisti salafiti, l’ala più violenta dell’Islam fondamentalista, sono sul tavolo. Il film, che descrive Maometto come un lussurioso folle e massacratore, è stato prodotto da un cristiano copto di origine egiziana, Morris Sadek, e lo sceneggiatore Sam Bacile - si apprende dal Wall Street Journal - è un ebreo-americano. I finanziatori provengono dall’estremismo copto, ebraico e protestante.
In Egitto la comunità copta è in allarme e si moltiplicano le richieste di espatrio al punto che il papa ha lanciato un accorato appello ai cristiani del Medio Oriente affinché restino nelle terre bibliche e siano “costruttori di pace e attori di riconciliazione”. Sarà il filo conduttore del suo viaggio a Beirut, che inizia stamane e si concluderà nel primo pomeriggio di domenica. Una visita lampo. Papa Ratzinger è sempre più stanco e impone agli organizzatori spostamenti brevi.
Il pontefice firmerà ad Harissa l’Esortazione apostolica per il Medio Oriente, frutto di un’assemblea speciale di vescovi della regione svoltasi a Roma nel 2010. Il clou della visita è rappresentato dall’incontro con la gioventù, dalla grande messa finale e specialmente dal discorso, che terrà domani nel palazzo presidenziale davanti a una platea di esponenti del governo, diplomatici, rappresentati religiosi e accademici. Sarà l’occasione per rivolgersi all’Islam e ricordare le crisi che travagliano la regione. Dialogo interreligioso, cooperazione e amicizia tra cristiani e musulmani, impegno comune per una società democratica, salvaguardia della libertà religiosa e della libertà di coscienza saranno i cardini dei suoi interventi in terra libanese.
ALL’APPUNTAMENTO
Benedetto XVI arriva con il peso internazionale della Santa Sede indebolito. Il Papa considera il rilancio della vita di fede e la “conversione” di ciascun cattolico come obiettivo primario della sua missione, ma è indubitabile che in passato la Santa Sede giocava un ruolo incisivo sulla scena internazionale. Ora il pontificato ratzingeriano ha prodotto una fase di stasi.
Si profila, secondo alcuni diplomatici, un “viaggio impolitico”. Dinanzi alla primavera araba, con le sue speranze e i suoi rischi, Benedetto XVI non ha finora sviluppato un discorso di ampio respiro. Sulla vicenda siriana, al di là degli auspici di pace civile, il Vaticano si trova psicologicamente in uno stallo. In passato si fidava maggiormente della libertà concessa dal regime autoritario di Assad e oggi teme che la “rivoluzione” porti alla ribalta l’integralismo musulmano. Il chirurgo francese Jacques Bérès, co-fondatore di Medecins sans frontières, sostiene di aver trovato nell’ospedale di Aleppo controllato dai ribelli una “forte proporzione di fondamentalisti e jihadisti”, in gran parte stranieri.
Particolarmente preoccupante - alla luce della strategia di pace molto chiara di Giovanni Paolo II - è l’attuale silenzio papale di fronte all’attacco contro l’Iran, perseguito ossessivamente dal governo di Netanyahu. All’interno di Israele, persino negli ambienti dei servizi segreti, vi sono forti obiezioni ad un’avventura dagli esiti devastanti. I falchi israeliani non hanno mai accettato il negoziato di pace globale offerto dalla Lega araba del 2002 e trovano decennio dopo decennio sempre un nuovo nemico (e con il demagogo Ahmadinejad hanno buon gioco) per rimandare la fine dell’occupazione delle terre palestinesi, chiesta compattamente dai vescovi mediorientali. Per la destra israeliana c’è sempre un demone da combattere: Arafat, Hamas, Saddam Hussein, poi (per un periodo) la Siria e ora l’Iran. E il Papa tace. D’altronde anche l’Europa finge di non vedere. Il disastro dell’Iraq, pare, non ha insegnato nulla.
Obama, lotta ad Al Qaida. Mosse navi da guerra
Presidente: una giornata dura ma non dobbiamo mollare.
Youtube oscura il film anti-islamico *
E’ un "falso allarme" quello scattato nel consolato Usa di Berlino. Lo ha detto una portavoce della polizia contattato dall’ANSA. Dagli accertamenti sul posto si è stabilito che "non c’é alcuna sostanza pericolosa". Gli agenti hanno effettuato controlli anche su un uomo ritenuto sospetto, che si trova ancora nella struttura, e che sarà lasciato libero. L’allarme è scattato quando un dipendente ha accusato difficoltà respiratorie nel maneggiare alcuni documenti presentati dall’uomo.
Intanto stamattina il presidente americano Barack Obama ha telefonato ai leader di Libia e Egitto per discutere con loro di cooperazione nel campo della sicurezza dopo il sanguinoso attacco di Bengasi contro il consolato americano e le manifestazioni del Cairo contro l’ambasciata. Obama ha chiesto alla Libia di collaborare con Washington perché vengano arrestati e assicurati alla giustizia gli assassini dell’ambasciatore americano Chris Stevens e degli altri tre cittadini americani uccisi a Bengasi ed ha insistito perché l’Egitto rispetti i suoi impegni in materia di protezione delle rappresentanze americani e dei loro dipendenti.
Gli Stati Uniti "restano vigili": "dobbiamo assicurarci di continuare a esercitare pressione su Al Qaida e gli affiliati in altre parti del mondo, come il Nord Africa e il Medio Oriente. Questa è una cosa che sono determinato a fare" ha affermato Obama. "Oggi è stata una giornata dura. A volte le cose sono molto dure - ha detto il presidente - ma se noi siamo risoluti, non molliamo, non diventiamo cinici, ma continuiamo ad essere realistici su come siano duri i cambiamenti, sempre mantenendo però un senso degli Ideali e un senso di proposta, alla fine nel tempo qualcosa di buono accadrà".
PENTAGONO SPOSTA 2 NAVI GUERRA VERSO COSTE - Il Pentagono sta muovendo due navi da guerra verso le coste libiche. Lo riporta la stampa americana citando alcune fonti dell’amministrazione.
Le due navi da guerra non hanno una missione specifica, afferma la stampa americana, ma devono essere pronte a qualsiasi missione ordinata dal presidente. Le unità, armate con missili Tomahawk, sono la USS Laboon e la USS McFaul.
PROTESTE DAVANTI AMBASCIATA, FERITI ED ARRESTI - Una folla di manifestanti è tornata ad ’assediare’ l’ambasciata statunitense al Cairo, protestando contro il controverso film anti-Islam prodotto negli Usa. Film che ha scatenato la rabbia dell’intero mondo arabo, sconfinata nell’attacco di ieri alla sede diplomatica Usa di Bengasi, in cui sono morti 4 americani. Le immagini in diretta della Cnn mostrano decine di persone che urlano la loro rabbia e chiedono che dagli Stati Uniti arrivino scuse ufficiali per le offese al Profeta.
Alcuni siti parlano di scontri, con la polizia che ha dovuto lanciare gas lacrimogeni per disperdere alcuni gruppi che lanciavano pietre contro l’edificio dell’ambasciata. Secondo l’agenzia di stampa egiziana Mena - rifericono sempre alcuni siti americani - ci sarebbero anche dei feriti.
Secondo quanto riportato su alcuni siti americani, alcune auto sarebbero state rovesciate e date alle fiamme. La tensione è salita quando alcuni manifestanti hanno nuovamente tentato di violare il perimetro dell’ambasciata Usa cercando di aprire una breccia nel recinto di filo spinato che protegge l’edificio. La polizia sarebbe comunque riuscita a respingere i manifestanti più scalmanati verso la vicina piazza Tahrir.
Le linee rosse di Israele e la cautela degli europei
di Maurizio Caprara (Corriere delal Sera, 06.09.2012)
GERUSALEMME - Due fattori stanno cambiando i termini di una controversia internazionale in corso da circa un decennio, quella sui piani nucleari con i quali Teheran potrebbe dotarsi di bomba atomica: il potenziale collasso del regime siriano di Bashar Assad, che priverebbe l’Iran di un alleato prezioso, e le difficoltà finanziarie che turbano l’Europa e gli Stati Uniti. Il primo fattore indebolisce la Repubblica islamica presieduta da Mahmoud Ahmadinejad. Il secondo l’ipotesi che Unione Europea e numerosi Paesi, se non trascinati da un’accelerazione, assecondino bombardamenti israeliani o statunitensi su impianti atomici iraniani. Incursioni aeree o colpi di artiglieria farebbero salire il prezzo del petrolio, e affaticherebbero i desiderati scatti in avanti nelle economie occidentali.
Questa partita è scivolosa, elementi oggi non visibili in superficie o sottovalutati potrebbero imprimere svolte di segno opposto. La strada delle armi tuttavia ha costi che sembrano in rialzo. «La comunità internazionale deve stabilire una linea rossa che l’Iran non può oltrepassare», ha detto ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme dopo aver ricevuto il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi.
Da giorni Netanyahu, premier di destra di un governo di coalizione, evita di precisare se quel limite, al quale farebbe seguire bombardamenti qualora fosse valicato, vada indicato in ostacoli di Teheran alle ispezioni dell’agenzia atomica Aiea, nell’eventuale scoperta di impianti nucleari nascosti, in arricchimenti dell’uranio oltre una percentuale da non superare. «Trigger», grilletto, chiamano quel limite gli israeliani nei colloqui con governi stranieri.
È innanzitutto agli Stati Uniti diretti verso le presidenziali del 6 novembre che Netanyahu di fatto indirizza la richiesta di certificare una linea rossa. Dopo mesi nei quali prevaleva la diffidenza verso future instabilità, il governo israeliano adesso ritiene che nella Siria pro iraniana la caduta di Assad sia preferibile a una stabilità corrosa.
Per l’Italia, Terzi ieri ha sottolineato a Netanyahu e al collega Avigdor Lieberman quanto le sanzioni e il negoziato con l’Iran siano meglio di una guerra. Il ministro, che conosce entrambi da quando era ambasciatore a Tel Aviv, lo ha fatto però senza riservare all’opzione dei bombardamenti toni tali da irritare il governo israeliano, interessato a salvaguardare da cori di sconfessioni europee la deterrenza dell’eventuale opposizione armata a una minaccia atomica in cantiere. «Qui dà fastidio sentire da alcuni Paesi europei che l’azione militare avrebbe conseguenze devastanti», osserva il titolare della Farnesina. Chi la reputasse una delicatezza eccessiva si domandi quanto si addica, a questo dossier, il metodo dell’agitare prima dell’uso.
Netanyahu: Obama ostacola i miei piani di guerra all’Iran
Retroscena di un faccia a faccia al vetriolo tra il premier israeliano e l’ambasciatore Usa
di U.D.G. (l’Unità, O3.O9.2012)
«Ora basta, signor primo ministro, adesso è davvero troppo». Gerusalemme, ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu. L’atmosfera è carica di tensione. A fianco di Netanyahu c’è il ministro della Difesa, Ehud Barak. Dall’altro lato del tavolo, l’ambasciatore Usa a Tel Aviv, Dan Shapiro. Al centro dell’incontro c’è il tema che più sta a cuore al primo ministro israeliano: il nucleare iraniano.
Netanyahu è un fiume in piena, accusa la comunità internazionale di essere succube degli ayatollah iraniani, e si lascia andare ad una durissima requisitoria contro la politica estera di Barack Obama: «Un discorso che avrebbe infiammato la Convention repubblicana di Tampa», dice a l’Unità una fonte diplomatica di stanza in Israele. A un certo punto della requisitoria, rivela a sua volta Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano, sono volate «saette e scintille».
Quello che il vicepremier israeliano Moshe “Bughy” Yaalon definisce adesso «uno scambio di idee fra amici» assomiglia sempre più ad una gara di wrestling fra Obama, presente in spirito, e Netanyahu. «Se Obama fosse confermato alla Casa Bianca avverte una fonte statunitense citata dalla radio militare israeliana Netanyahu dovrebbe trovarsi un riparo sicuro per sfuggire alla vendetta del Presidente». Il fattore tempo è sempre più cruciale. Lo chiarisce molto bene l’ex capo del Mossad, Efraim Halevy. In una recente intervista al New York Times, Halevy ha detto che «siccome gli israeliani sono notoriamente contrari ad attacchi d’inverno e visto che l’attuale situazione siriana non consentirà ad Hezbollah e ad Assad di dare manforte agli alleati iraniani, se c’è un momento buono per attaccare è proprio questo».
Tra Netanyahu e Obama la rottura
Netanyahu: Obama ostacola i miei piani di guerra all’Iran
Retroscena di un faccia a faccia al vetriolo tra il premier israeliano e l’ambasciatore Usa
di U.D.G. (l’Unità, O3.O9.2012)
«Ora basta, signor primo ministro, adesso è davvero troppo». Gerusalemme, ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu. L’atmosfera è carica di tensione. A fianco di Netanyahu c’è il ministro della Difesa, Ehud Barak. Dall’altro lato del tavolo, l’ambasciatore Usa a Tel Aviv, Dan Shapiro. Al centro dell’incontro c’è il tema che più sta a cuore al primo ministro israeliano: il nucleare iraniano.
Netanyahu è un fiume in piena, accusa la comunità internazionale di essere succube degli ayatollah iraniani, e si lascia andare ad una durissima requisitoria contro la politica estera di Barack Obama: «Un discorso che avrebbe infiammato la Convention repubblicana di Tampa», dice a l’Unità una fonte diplomatica di stanza in Israele. A un certo punto della requisitoria, rivela a sua volta Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano, sono volate «saette e scintille».
Quello che il vicepremier israeliano Moshe “Bughy” Yaalon definisce adesso «uno scambio di idee fra amici» assomiglia sempre più ad una gara di wrestling fra Obama, presente in spirito, e Netanyahu. «Se Obama fosse confermato alla Casa Bianca avverte una fonte statunitense citata dalla radio militare israeliana Netanyahu dovrebbe trovarsi un riparo sicuro per sfuggire alla vendetta del Presidente». Il fattore tempo è sempre più cruciale. Lo chiarisce molto bene l’ex capo del Mossad, Efraim Halevy. In una recente intervista al New York Times, Halevy ha detto che «siccome gli israeliani sono notoriamente contrari ad attacchi d’inverno e visto che l’attuale situazione siriana non consentirà ad Hezbollah e ad Assad di dare manforte agli alleati iraniani, se c’è un momento buono per attaccare è proprio questo».
Tra Netanyahu e Obama la rottura appare insanabile. «Bibi Netanyahu ndr punta tutto su Romney», confida a l’Unità una fonte molto vicina agli ambienti governativi dello Stato ebraico. «Tra i due, amici personali da molti anni (dai tempi in cui entrambi erano consulenti della stessa società finanziaria, ndr) - aggiunge la fonte - la sintonia è totale». Sull’Iran e non solo. In questa chiave andrebbe letta la decisione del Pentagono di ridurre l’entità di alcune manovre congiunte con le forze israeliane: a sostenerlo è il settimanale statunitense Time, secondo il quale la decisione deriverebbe dalle divergenze fra Washington e Tel Aviv su come contrastare le ambizioni nucleari iraniane.
Citando fonti bene informate in entrambi i Paesi, il settimanale rivela come il numero di effettivi che si recheranno in Israele sia stato tagliato di due terzi (da 5mila a 1.500) mentre le batterie di missili Patriot arriveranno regolarmente ma senza il relativo personale. Quanto ai due incrociatori dotati di sistemi di difesa missilistica Aegis, potrebbe arrivarne uno solo o addirittura nessuno. Secondo fonti militari israeliane la decisione giustificata ufficialmente dai tagli di bilancio equivale ad affermare: «Non ci fidiamo di voi». D’altro canto, l’intelligence Usa crede che Israele abbia già deciso di attaccare l’Iran, «a meno di cambiamenti importanti del programma nucleare iraniano nelle prossime settimane».
A riportarlo è l’emittente israeliana Channel 2, citando un «alto funzionario americano». «Tutti i funzionari dell’intelligence Usa sono certi che la leadership israeliana abbia già deciso di attaccare l’Iran». Una decisione che verrebbe sostenuta dal candidato repubblicano alla Casa Bianca «Se Israele dovesse agire per conto proprio per impedire che l’Iran venga a dotarsi di quelle capacità, il governatore (Romney) rispetterebbe quella decisione» ha del resto confermato il suo alto consigliere per la politica estera, Dan Senor in occasione della visita di Romney in Israele lo scorso 29 luglio.
In quella circostanza, Netanyahu si era anche compiaciuto per le dichiarazioni rilasciate da Romney prima del suo arrivo in Israele. Fra queste, il fatto che «il pericolo maggiore» è che il regime degli ayatollah iraniani si doti di armi nucleari: uno sviluppo «inaccettabile», che va dunque impedito. «Mitt, io stesso non avrei potuto dirlo meglio» aveva aggiunto Netanyahu. Della delegazione al seguito di Romney c’era Sidney Abelson, un magnate dell’ industria dei casinò che si è impegnato a spendere 100 milioni di dollari per sconfiggere il presidente Obama. Adelson è ossessionato da una questione in particolare: l’appoggio incondizionato allo Stato d’Israele e una opposizione oltranzista verso qualsiasi trattativa con i palestinesi. Il patto Netanyahu-Romney è ormai realtà. Resta l’ostacolo-Obama.
NON UN GIORNO DI PIU’
UNA CAMPAGNA NONVIOLENTA PER LA CESSAZIONE IMMEDIATA DELLA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLA GUERRA AFGANA
Occorre far cessare la guerra in Afghanistan.
Ed a tal fine la prima e decisiva azione che come cittadini italiani possiamo e dobbiamo svolgere consiste nell’ottenere che l’Italia cessi di partecipare alla guerra.
Perche’ l’Italia a quella guerra non avrebbe mai e poi mai dovuto prendere parte, proibendoglielo esplicitamente il dettato della sua legge fondamentale, la Costituzione della Repubblica Italiana. Occorre quindi costringere governo e parlamento italiani a tornare nella sfera della legalita’, a desistere dal crimine: occorre costringere lo Stato italiano a cessare di prendere parte alla guerra e alle stragi di cui essa consiste. Oltre un decennio di eccidi e barbarie dovrebbe aver aperto gli occhi a chiunque; e del resto ogni persona ragionevole sente e sa che la guerra e’ nemica dell’umanita’, che solo la pace salva le vite.
*
Occorre far cessare la guerra in Afghanistan, cominciando con la cessazione della partecipazione italiana. Dobbiamo far crescere dal basso una vera e propria insurrezione nonviolenta contro la guerra e contro le uccisioni, per la legalita’ costituzionale e per il primario diritto di ogni essere umano a non essere ucciso.
Dobbiamo imporre al potere esecutivo e al potere legislativo del nostro paese l’immediata cessazione della partecipazione italiana alla guerra.
E dobbiamo farlo con la forza della verita’, con la forza della legalita’, con la forza della dignita’ e della solidarieta’ umana, con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza; dobbiamo farlo con una campagna nonviolenta di massa che faccia rinascere in Italia un movimento per la pace e i diritti umani di tutti gli esseri umani.
*
Una campagna nonviolenta per salvare le vite umane: che nasca dal basso in ogni citta’ e in ogni paese, e che abbia questa semplice e chiara finalita’: "cessazione immediata della partecipazione italiana alla guerra afgana; pace, disarmo e smilitarizzazione; rispetto della vita, della dignita’ e dei diritti umani di tutti gli esseri umani".
Peppe Sini
direttore del notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza e’ in cammino"
Viterbo, 30 agosto 2012
Mittente: redazione de "La nonviolenza e’ in cammino", c/o "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: nbawac@tin.it e centropacevt@gmail.com , web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Con l’aiuto di Dio (e delle armi) così i repubblicani sfidano Obama
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2012)
Vi diranno che la Convention repubblicana che sta per aprirsi a Tampa, in Florida, sarà una quattro giorni di parata dei libertari che non vogliono Stato ma solo libertà, niente tasse e ciascuno responsabile da solo del proprio destino. Vi diranno che sarà la impetuosa manifestazione del partito della grande potenza che non deve accodarsi, ma deve decidere e prendere sempre, da sola, il comando.
Vi diranno che questa di Tampa sarà l’assemblea della immensa ricchezza che non viene a patti con questioni di beneficenza, assistenza, solidarietà, perché quello che conta è moltiplicare la vastità dei profitti, che poi ricade su tutti (specialmente se gli ex assistiti, una volta privati di perniciosi sussidi, usciranno dal loro pigro rifugio e si daranno personalmente da fare).
È tutto vero. O meglio, ho raccolto dai giornali e dalle televisioni americane di questi giorni e di queste ore, ciò che i Repubblicani pensano e dicono di se stessi, con comprensibile enfasi e la determinazione, evidente di ciascuna descrizione dei gruppi diversi, di spingere Barack Obama fuori dalla scena politica americana per sempre.
Ma mi sembra affidabile l’interpretazione che gli inviati del New York Times hanno annotato nel loro primo articolo da Tampa, il 27 agosto:
“Tutto ciò riflette una campagna segnata dalla lama tagliente di cose non dette di classe e di razza. Venerdì scorso Romney (probabile candidato repubblicano alla presidenza, ndr) ha detto in un comizio: “Nessuno ha mai dovuto chiedermi il mio certificato di nascita”. E Ryan (candidato vicepresidente scelto da Romney, ndr) ha invocato la sua ardente fede cattolica e il suo amore per le battute di caccia”.
LA BREVE citazione contiene tutte le parole-codice che consentono di capire che cosa è accaduto in questa campagna elettorale e che cosa accadrà nella Convenzione repubblicana di Tampa. L’accusa a Obama di non essere americano e di avere alterato il certificato di nascita per candidarsi illegalmente, sollevata molto presto e mai abbandonata, da alcuni leader del Tea Party (la frangia estrema del Partito repubblicano), evoca in modo violento la vera anomalia che evidentemente circola ancora in settori arretrati della tribù americana: Obama non è bianco. Obama è afroamericano, “eppure” governa l’America. Ryan, da parte sua, ha aggiunto le altre due parole codice,
Dio e le armi. Infatti, proclamarsi appassionato cacciatore (love of hunting) significa dare il segnale di libera circolazione delle armi automatiche e semi automatiche che, più o meno permesse nei vari Stati, circolano liberamente, con il pretesto della caccia, negli Stati Uniti, sotto la potente protezione della National Gun Association, una sorta di Confindustria delle armi personali, che è in grado di sostenere o di abbattere qualunque candidato al Congresso usando, pro o contro, pesantissimi interventi finanziari. In questo modo Ryan si fa riconoscere e tenta di mettere in imbarazzo chiunque invochi una limitazione delle armi in America, a cominciare dal presidente Obama.
Dio entra in campo, accanto alle armi, anzi nella stessa frase, come non era mai accaduto prima negli Usa. In questo senso Ryan rovescia il mondo civile e rispettoso di John Kennedy che sulla sua fede cattolica aveva detto: “È una mia questione personale che non potrà mai interferire con le leggi degli Stati Uniti, quelle esistenti e quelle da fare”.
Qui però il senso di codice della proclamazione di fede si fa più ricco e complesso e, allo stesso tempo, diventa un rude ma efficace gesto di propaganda. Dio è il Dio della potenza e delle armi che è sempre dalla nostra parte quando decidiamo di combattere secondo il nostro destino di grande potenza che deve eliminare per sempre la civile prudenza di Barack Obama. E in questo senso la caccia definisce il vero uomo americano, ben distinto e ben lontano dalla pretesa di dare spazio ad altri modi di vita e atri tipi di famiglie.
Ma il Dio cattolico, interviene con tutta la sua vasta immagine a coprire e nascondere l’ignoto e sospetto Dio mormone di Romney. Ma il Dio cattolico di Ryan scende in campo per tuonare contro la discutibile religiosità di Barack Obama, che forse è di fede islamica (altro modo di screditare un presidente nero, fingendo però di non evocare mai la razza). E soprattutto, questo Dio cattolico, autorizzato dal Vaticano, ha la missione di trasformare la vasta sala della Convention di Tampa in una Cappella Sistina americana dal cui cielo condannerà la tolleranza di Obama per le coppie di fatto, l’inaudita accettazione di un rapporto legale e uguale per i gay d’America e, soprattutto, il fatto che la sua riforma sanitaria finanzia anche la libertà delle donne di decidere sulla procreazione.
E QUI IL GIOCO tentato dai Repubblicani è uno straordinario atto di acrobazia politica: indurre, attraverso il messaggio religioso, masse di poveri a votare contro se stessi, contro le cure mediche gratuite che non hanno mai avuto e non avranno mai. Lo comanda, assieme a Romney e Ryan e alle grandi compagnie di assicurazione, la Chiesa cattolica.
Per la prima volta sarà l’arcivescovo di New York Theodore Dolan, il più alto rappresentante della gerarchia cattolica in America, a benedire la Convention repubblicana, la sua ricchezza, le sue armi, la sua potenza, la sua proibizione di aiutare i poveri, la sua negazione della riforma sanitaria, il suo progetto di tagliare drasticamente le tasse ai ricchi. Il tentativo è di usare la formula tradizionale dei processi americani, cambiando il senso e le parole per la nuova minaccia: “Dio contro il popolo americano”.
Non allineati riuniti a Teheran *
Teheran, 25. Culminerà in un summit cui sono attesi una cinquantina di capi di Stato e di Governo la riunione dei Paesi Non allineati che si apre domani a Teheran. La riunione - alla quale il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha annuciato la sua partecipazione sollevando le perplessità di Stati Uniti e Israele - segnerà il passaggio dall’Egitto all’Iran della presidenza triennale del movimento. Non solo: la visita che per l’occasione il presidente egiziano Mohammed Mursi compirà nella capitale iraniana costituirà l’occasione per riallacciare rapporti bilaterali che, al massimo livello, sono stati interrotti oltre trent’anni fa, dopo la firma del trattato di Camp David tra Egitto e Israele. "L’Iran - ha recentemente dichiarato il ministro degli esteri Ali Akbar Salehi - vuole stabilire con l’Egitto relazioni di amicizia e fratellanza. L’Egitto è il cardine della regione e ha un’importanza speciale nei Paesi arabi e musulmani".
* L’Osservatore Romano 26 agosto 2012
Il terrorismo, la violenza e i valori di Bibi
di Moni Ovadia (l’Unità, 25 agosto 2012)
Il 19 agosto il quotidiano israeliano Ha’aretz, in un articolo a firma di Barak Ravid, ha riferito che il 16 un taxi palestinese ha preso fuoco nei territori occupati, nei pressi dell’insediamento israeliano di Bat Ayin, per il lancio di una bomba incendiaria da parte di alcuni coloni mentre viaggiava vicino al campo rifugiati di Al Arub che si trova vicino alla colonia israeliana. L’atto criminale ha provocato il ferimento grave di sei palestinesi appartenenti alla stessa famiglia.
L’articolo riferisce che il giorno dopo 4 giovani palestinesi sono stati aggrediti a Gerusalemme da una dozzina di loro coetanei israeliani, che secondo alcuni testimoni, giravano in cerca di palestinesi da pestare. Jamal Julani, una delle vittime dell’attacco, versa in serie condizioni. Julani, 17 anni, proveniente dal quartiere di Gerusalemme di Ras al Amud, è stato ammesso all’unità di terapia intensiva dell’ospedale universitario di Hadassah, Ein Karem.
Il vice primo ministro Moshe Aya’alon ha detto: «Gli attacchi dei coloni contro arabi nel West Bank e a Gerusalemme sono atti terroristici. I crimini di odio commessi nel weekend contro arabi in Giudea e Samaria (sic!) e a Gerusalemme sono oltraggiosi ed intollerabili e vanno affrontati con la massima fermezza». Ha poi soggiunto: «Questi attacchi terroristici sono contrari all’etica e ai valori ebraici e costituiscono un fallimento educativo e morale».
Ma di quale fallimento parla il ministro, e soprattutto di quale etica e di quali valori. Quali sarebbero i valori ebraici del governo di Bibi? L’occupazione di terre altrui? La colonizzazione perversa capillare ed inarrestabile di terre espropriate contro tutte le norme della legalità internazionale? Lo sradicamento di migliaia di ulivi? Il razionamento dell’acqua? La demolizione sistematica di case palestinesi? La costruzione di una prigione a cielo aperto? Il disprezzo razzista per chi chiede i propri diritti di popolo? L’apartheid de facto? Il muro della vergogna?
Questi non sono valori ebraici, sono i valori barbari di un nazionalismo fanatico e ottuso. Il governo di Bibi non solo ha fatto carne di porco dei valori ebraici ma insulta, intimidisce, perseguita coloro che con passione e disperazione, in Israele e in Diaspora, continuano a difenderli
La guerra segreta di Monti
di Gianluca Di Feo
Il governo ’tecnico’ ha autorizzato gli aerei italiani a bombardare l’Afghanistan. Una strategia che dovrebbe preparare il nostro futuro disimpegno, ma che si sta trasformando in un’escalation drammatica e costosissima *
L’ultima battaglia si è combattuta a inizio agosto, per colpa di un convoglio Usa che si è ostinatamente infilato nella valle sbagliata. Il comando italiano di Herat, che da anni gestisce la regione occidentale dell’Afghanistan e conosce i pericoli di queste strade, aveva cercato di mettere in guardia gli alleati. Ma la colonna americana non ha rinunciato alla spedizione e dopo pochi chilometri la massicciata si è sbriciolata: un mezzo corazzato da dieci tonnellate è finito in una scarpata. Una festa per i talebani, corsi a colpire il reparto intrappolato. E un incubo per le truppe della Nato: cinque giorni di bombe e sparatorie, con tre bersaglieri feriti, un elicottero semidistrutto e tre blindati in fiamme.
Tutto è accaduto nella prima delle zone strategiche dove si sta ammainando il tricolore. Oggi il nostro contingente è nel pieno della "transizione", nome burocratico per indicare la lenta ritirata che si chiuderà nel 2014: nessuno al vertice della Nato crede che l’esercito di Kabul possa difendere da solo le postazioni che gli stiamo consegnando. Il costo di questa guerra però è diventato insostenibile per l’Alleanza atlantica. Anche l’Italia ha già pagato un prezzo altissimo: finora 4,28 miliardi di euro e 51 vite umane. Mentre la sicurezza resta un’illusione, poco più che uno slogan.
SALVATE IL CONVOGLIO. Questa estate è stata caldissima per i nostri militari, 4.200 tra uomini e donne che devono sorvegliare una zona grande quanto l’Italia settentrionale. Una delle emergenze più drammatiche è stata provocata proprio dal convoglio americano imprigionato. Tutta colpa di un Buffalo, un veicolo corazzato a prova di bomba che ha fatto cedere la strada, bloccando un’altra dozzina di blindati. In piena notte, un elicottero spagnolo è sceso per portare i primi aiuti ma il terreno si è rivelato troppo fragile anche per il velivolo Super Puma, che si è ribaltato. A quel punto è scattata la massima emergenza. Pure i talebani sono stati informati della situazione e non hanno perso tempo, seminando le vie d’accesso di micidiali ordigni Ied. Le colonne di soccorso di bersaglieri e marines ne hanno subito incassati due, poi sono finite sotto il tiro dei kalashnikov. Intanto due grandi elicotteri italiani Chinook hanno agganciato il velivolo spagnolo, portandolo via in volo. E solo dopo due giorni di scontri una gru dei nostri genieri è riuscita a tirare il Buffalo fuori dalla scarpata. La marcia è ripresa, ma per poco. Un’altra bomba ha distrutto le ruote del veicolo di testa, mentre i guerriglieri ricominciavano a fare fuoco. Troppo pericoloso avvicinarsi: i rifornimenti di acqua e munizioni sono stati paracadutati. Poi all’alba gli americani hanno fatto saltare in aria il mezzo danneggiato e sono ripartiti, mentre nuove squadre di rinforzo si dirigevano verso il convoglio, accolte da mine e raffiche. L’ultimo agguato ha preso di mira i bersaglieri della Garibaldi: una carica esplosiva contro un blindato Lince ha ferito tre soldati che hanno salvato la pelle grazie alla prontezza della loro reazione. L’odissea per arrivare alla fortezza di Qal-E-Now è durata cinque giorni, mentre caccia statunitensi F-18, elicotteri da battaglia Mangusta e bombardieri Amx italiani si sono alternati per tenere a distanza i miliziani.
TIRO ALLE ANTENNE. Anche i jet dell’Aeronautica adesso usano le bombe: il tabù degli attacchi dal cielo è stato fatto cadere dal governo Monti a fine gennaio. Da allora i jet italiani decollano con gli ordigni sotto le ali. Gli Amx si sono specializzati nella distruzione delle antenne, con cui i talebani potenziano la loro rete di comunicazioni: incursioni con ordigni di precisione, pianificate con cura per evitare rischi ai civili. Quando però ci sono reparti nei guai, allora i raid diventano ravvicinati: a luglio una formazione di bersaglieri e soldati afghani è caduta in trappola, con raffiche e razzi da tre lati. Solo le bombe dei caccia italiani hanno impedito che l’agguato si trasformasse in strage. A luglio ci sono state oltre 120 missioni degli Amx tra ricognizioni e sostegno ai reparti. E anche queste azioni sono il segno dell’escalation che accompagna "la transizione", senza dimenticare i raid non stop degli elicotteri Mangusta: hanno già superato 7 mila ore di volo, sparando milioni di proiettili.
Blogger svela piani Israele di guerra all’Iran
Richard Silverstein pubblica online dettagli segreti attacco Teheran
*
Un attacco coordinato, che includa anche un’aggressione cibernetica senza precedenti in grado di paralizzare totalmente il regime iraniano e la sua capacità di comprendere cosa stia accadendo entro i propri confini. I presunti piani di guerra d’Israele contro Teheran sono stati rivelati dal blogger israelo-americano Richard Silverstein che ha pubblicato sul suo sito ’Tikun Olam’ (’Riparare il mondò, in ebraico) un estratto di un dossier che gli sarebbe stato dato da una fonte israeliana di alto livello che a sua volta l’ha ricevuto da un ufficiale delle Forze di Difesa israeliane. Il documento è stato passato perché, secondo la sua fonte, "questi non sono tempi normali e temo che Bibi (Netanyahu, premier d’Israele, ndr) e Barak (ministro della Difesa, ndr) facciano maledettamente sul serio".
Il dossier rivela il piano di attacco in tre fasi: nella prima si ricorrerebbe alla tecnologia più sofisticata per mettere ko Internet, i telefoni, la radio, la tv, le comunicazioni satellitari, le connessioni in fibra ottica degli edifici strategici del Paese, comprese le basi missilistiche sotterranee di Khorramabad e Isfahan. Per la seconda fase sarebbe previsto il lancio di decine di missili balistici, in grado di coprire una distanza di 300 chilometri, contro la Repubblica islamica dai sottomarini israeliani posizionati vicino al Golfo Persico. Missili "non dotati di testate convenzionali", precisa il documento, "ma con punte rinforzate, progettate per penetrare in profondità".
In questo caso, il dossier fa riferimento ai siti sotterranei, come quello di Fordo, forse quello che più preoccupa Israele perché scavato in una montagna vicino a Qom ad una profondità tale che si presume sia fuori della portata anche delle bombe più perforanti. Infine la terza fase, con il lancio di altri missili - questa volta da crociera - per mettere ko i sistemi di comando e controllo, di ricerca e sviluppo e le residenze del personale coinvolto nel piano di arricchimento dell’uranio. Le informazioni raccolte nel corso degli anni saranno utilizzate per decapitare completamente i ranghi professionali e di comando dell’Iran in questi campi. Dopo la prima ondata di attacchi, che saranno cronometrati al secondo, un satellite passerà sopra l’Iran per valutare i danni agli obiettivi. Le informazioni saranno quindi trasferite agli aerei di guerra dotati di tecnologia sconosciuta al grande pubblico e anche all’alleato americano, invisibili ai radar e inviati in Iran per finire il lavoro, colpendo un elenco ristretto di obiettivi.
ISRAELE: ’PRONTI A GUERRA DI 30 GIORNI’ - Israele ha preparato la popolazione a un eventuale conflitto che potrebbe durare 30 giorni su diversi fronti simultaneamente. Lo ha dichiarato il ministro israeliano uscente della Difesa ’interna’, Matan Vilnai. "Non c’é alcuna ragione di essere isterici. Mai prima d’ora il fronte interno è stato così ben preparato", ha detto il ministro al quotidiano Maariv mentre una parte della stampa israeliana aveva denunciato nei giorni scorsi l’impreparazione della difesa civile in caso di conflitto con l’Iran, accusato di volersi dotare dell’arma nucleare. "Posso assicurarlo con la massima autorità: oggi ognuno sa esattamente quello che deve fare", ha aggiunto riferendosi alla ripartizione dei compiti tra le diverse istituzioni incaricate della protezione civile, per quanto riguarda la concentrazione della popolazione fuori dalle zone di combattimento in tempo di guerra. Secondo Vilnai, "Israele si è preparato a uno scenario di guerra di 30 giorni su diversi fronti" che potrebbero causare 500 morti "persino di più, o meno". Inoltre ha precisato che ci sono kit contro attacchi chimico-batteriologici disponibili per oltre la metà della popolazione israeliana. L’esercito sta intanto testando un sistema di allerta per sms per avvertire la popolazione in caso di attacchi missilistici.
Israele, la guerra passa Damasco
Netanyahu si prepara ad attaccare l’Iran.
di Barbara Ciolli *
Per Tel Aviv, il tempo della resa dei conti è arrivato. Se ne parla da anni, ma nell’autunno 2012, almeno secondo i piani di Benjamin “Bibi” Netanyahu, l’attacco di Israele all’Iran potrebbe davvero concretizzarsi.
ALLERTA MISSILISTICA VIA SMS. La prova che i vertici militari sarebbero pronti a passare dalle parole ai fatti sta nelle migliaia di sms inviati, la seconda settimana di agosto, ai cittadini dello Stato di Israele in ebraico, arabo, russo e inglese. Un test e nulla più, per adesso. Fatto però per attivare un sistema di messaggi che, in caso di confronto militare, avverta in tempo reale i residenti invitandoli a mettersi in salvo delle aree a rischio di attacchi missilistici in arrivo. SI SPEZZA L’ASSE CON DAMASCO. Il casus belli è da tempo la corsa al nucleare della teocrazia degli ayatollah. E la via per colpire l’Iran passa, ora più che mai, dalla Siria.
Scardinando il potere degli Assad, sulla scia di Arabia Saudita e Qatar, Israele punta a ridimensionare l’influenza mediorientale di Teheran.
Certo, evitare il conflitto siriano sarebbe stato cruciale per Tel Aviv, in modo da contenere l’effetto domino dei disordini nella regione. Ma adesso che il dado è tratto e che gli attentati e gli scontri al confine sono ormai travalicati in Libano e Giordania, Israele cerca di trarre il maggior vantaggio possibile dagli eventi in corso.
Così, con l’escalation dei combattimenti in Siria e il presidente Bashar al Assad pronto a giocarsi il tutto e per tutto ad Aleppo, il governo israeliano di Netanyahu è ripartito alla carica, con nuove, allarmanti minacce di guerra preventiva all’Iran. Il momento è proficuo: in un un futuro prossimo, infatti, Teheran potrebbe non poter più contare su Damasco, storico alleato di ferro, né sugli Hezbollah libanesi.
* Lettera 43, 13 Agosto 2013 - (ripresa parziale).
Israele, possibile attacco all’Iran in autunno
Anche gli Stati Uniti temono il programma nucleare di Teheran. *
Israele starebbe preparando un attacco alle infrastrutture atomiche dell’Iran per l’autunno del 2012. Lo ha rivelato il quotidiano Yediot Ahronot, secondo cui il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il ministro della Difesa Ehud Barak sono determinati ad attaccare Teheran prima delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
Un dirigente israeliano, in forma anonima, ha dichiarato al quotidiano Haaretz che «la spada puntata ora al nostro collo è più affilata di quella alla vigilia della guerra dei sei giorni del 1967», quando Israele optò per un attacco militare preventivo contro i Paesi vicini.
In un sondaggio di opinione, Maariv ha rilevato che il 40 per cento degli israeliani sono favorevoli ad un operazione militare contro le centrali nucleari in Iran.
USA-ISRAELE, STIME VICINE SUL NUCLEARE. Il ministro Barak ha spiegato che le stime degli Usa e di Israele sulla possibilità che l’Iran si doti di armi nucleari si sono avvicinate. La Casa Bianca non ha voluto rilasciare commenti su queste dichiarazioni ma, secondo Haaretz, Washington e Tel Aviv sono d’accordo sul fatto che l’Iran abbia compiuto progressi significativi «allarmanti» nel suo programma nucleare.
* Lettera 43, Venerdì, 10 Agosto 2012
NOTA:
Usa 2012, Romney appoggia Netanyahu: se attaccaste Iran capirei
Ma Obama svela piano B e fa ombra a candidato repubblicano
di Aldo Baquis *
GERUSALEMME - La schermaglia fra i due candidati alle presidenziali Usa si e’ spostata oggi a Gerusalemme dove il repubblicano Mitt Romney ha evocato a piu’ riprese la ’’minaccia nucleare iraniana’’ e non ha lesinato espressioni di sostegno allo Stato ebraico. ’’Se Israele dovesse agire per conto proprio per impedire che l’Iran venga a dotarsi di quelle capacita’, il Governatore (Romney) rispetterebbe quella decisione’’ ha detto il suo consigliere Dan Senor.
Ma anche il democratico Barack Obama ha fatto avvertire a Gerusalemme in maniera eloquente la propria presenza. In mattinata con un titolo vistoso di Haaretz - probabilmente ispirato da Washington - secondo cui il suo consigliere per la sicurezza nazionale Dan Donilon avrebbe illustrato a Netanyahu, in dettaglio, i progetti elaborati dagli Usa per attaccare le infrastrutture nucleari in Iran se le altre strade fallissero.
In precedenza Obama aveva firmato nuove intese di cooperazione militare che nel ministero israeliano della difesa vengono descritte come ’’una pietra miliare’’ nei rapporti bilaterali. Includono: lauti finanziamenti per il progetto di difesa aerea ’Iron Dome’; cooperazione nella intercettazione di missili; sostegno alle attese israeliane di un maggiore coinvolgimento nella Nato; manovre congiunte, e altro ancora.
Questioni che saranno discusse nei prossimi giorni a Tel Aviv dal segretario alla difesa Leon Panetta. Da Washington, Obama ha giocato cosi’ di anticipo, mandando a dire all’elettorato ebraico in Usa che quando si tratta di cooperazione strategica con Israele, difficilmente Romney potrebbe fare meglio di lui. In Israele Romney ha toccato con mano la complessita’ della scena politica locale. Pochi minuti dopo che Netanyahu gli aveva fatto notare che finora le sanzioni internazionali all’Iran ’’non hanno provocato nemmeno un rallentamento infinitesimale’’ ai suoi progetti atomici, il presidente Shimon Peres e il capo della opposizione Sahul Mofaz (Kadima) gli hanno detto che invece proprio la strada delle sanzioni e delle pressioni internazionali va percorsa fino in fondo. Romney ha ribadito che e’ ’’inaccettabile’’ che il regime degli ayatollah si doti di armi atomiche e che occorre fare tutto il necessario per impedirlo. Come ultima scelta: anche il ricorso alla forza. Un testo non molto dissimile, nella sostanza, da quelli di Obama.
Per Romney, secondo alcuni opinionisti, la tappa di Gerusalemme era peraltro un’occasione per darsi una patina di uomo di Stato internazionale, con l’aggiunta di una importante ’photo opportunity’: il tutto nella sensazione che la sua immagine a un palmo dalla pietre millenarie del Muro del Pianto potrebbe giungere utile per convincere del suo rapporto intimo con la Citta’ Santa una porzione dell’elettorato ebraico e i cristiani evangelici.
Domani incontrera’ 50 uomini d’affari statunitensi che si sono impegnati a finanziare la sua campagna elettorale. Avrebbe potuto riceverli negli Stati Uniti ma e’ il contesto che conta: l’Hotel King David, di fronte alle mura della Citta’ Vecchia di Gerusalemme. Quindi Romney volera’ verso la Polonia, per lanciare da la’ segnali ulteriori di amicizia: questa volta all’elettorato cattolico statunitense.
Accolto il ricorso dei Vescovi Usa
Rischia la riforma sanitaria di Obama *
"È bastato un mese alla Chiesa cattolica americana per rispondere alla battaglia vinta da Obama di fronte alla Corte Suprema a difesa della sua riforma sanitaria.""Portano loro (i cattolici), oggi, la bandiera del primo emendamento: ispirano il conservatorismo americano; intravedono il trionfo contro Obama."
* cit. dall’art. di Marco Ventura, Corriere della Sera, 30 luglio 2012.
La guerra che verrà. L’ultima offensiva di Roma contro il Vaticano II
di John Sivalon
da Adista Documenti n. 24 del 23/06/2012
DOC-2451. SCRANTON-ADISTA. Qual è la relazione tra il recente commissariamento, da parte del Vaticano, del massimo organismo di rappresentanza delle religiose statunitensi (Lcwr, v. Adista Notizie n. 16/2012) e la “barricata” che papa Ratzinger sembra ergere da tempo, nella Chiesa, contro il Concilio Vaticano II?
A collegare i vari punti del disegno è p. John C. Sivalon, ex superiore generale della Congregazione religiosa di Maryknoll ed attualmente docente di teologia presso l’Università di Scranton (Pennsylvania), in un articolo pubblicato il 27 maggio sul sito di sostegno alle religiose www.istandwiththesisters.org. Per Sivalon, in realtà, il peggio deve ancora venire: l’attacco più forte allo spirito del Vaticano II arriverà il prossimo ottobre, con l’apertura del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Riportiamo l’articolo, intitolato «Il Vaticano dichiara l’Anno dell’attacco» in una nostra traduzione dall’inglese. (l. e.)
L’ANNO DELL’ATTACCO
di John Sivalon
Sotto il pretesto di un “Anno della Fede”, il Vaticano ha lanciato un attacco frontale contro qualunque teologia o interpretazione del Vaticano II basata su quella che viene definita come “ermeneutica della rottura”. Tale attacco teologico viene articolato nel documento di Benedetto XVI noto come Porta Fidei (la lettera apostolica con cui è indetto l’Anno della Fede, ndt) e si precisa ulteriormente nella “Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della Fede” elaborata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Entrambi i documenti sono citati dal card. Levada nella sua Valutazione dottrinale della Leadership Conference of Women Religious (Lcwr). La logica di questa valutazione come di altre misure punitive messe a punto negli ultimi mesi (Caritas Internationalis, istituti educativi, ragazze scout) va intesa nel contesto più ampio di questo speciale “Anno dell’Attacco”.
Il vero nodo della questione, secondo la Nota, è quello di una «corretta assimilazione» del Vaticano II contro «interpretazioni erronee». Secondo Benedetto XVI tali interpretazioni sarebbero basate su un’“ermeneutica della discontinuità”, in contrasto con l’“ermeneutica del rinnovamento” su cui si basa invece la sua interpretazione. In realtà, tali ermeneutiche andrebbero meglio definite, rispettivamente, come “ermeneutica della missione” e come “ermeneutica del trinceramento”.
L’ermeneutica della missione individua nei documenti del Vaticano II un tentativo da parte della Chiesa di riscoprire nel suo passato nuclei di nuove comprensioni e di nuove strutture ecclesiali che rispondano in maniera più autentica e rilevante a quello che il Concilio ha chiamato mondo moderno. A tale ermeneutica appartiene l’affermazione, da parte dei Padri Conciliari, della tradizione come fondamento sul quale la fede può costruire e crescere continuamente in un contesto che cambia. E la visione della presenza continua di Dio nella storia e nella cultura, che generosamente offre nuove percezioni per comprendere e interpretare la pienezza della rivelazione.
L’ermeneutica del trinceramento, al contrario, vede nei documenti del Vaticano II la riaffermazione di dottrine fossilizzate in un linguaggio che possa essere inteso dal mondo moderno. L’ermeneutica del trinceramento si riferisce alla tradizione come un baluardo contro comprensioni erronee. E tende anche a leggere negativamente la modernità, definendola in termini di secolarismo, relativismo o pluralismo. Come afferma Benedetto XVI, «mentre, nel passato, era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, ampiamente condiviso nel suo appellarsi ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi pare che non sia più così in grandi settori della società...». L’ermeneutica del trinceramento, pertanto, rimpiange il passato, un’epoca idealizzata della cristianità.
Così, il provvedimento contro la Lcwr e le altre misure nei confronti di voci leali di cristiani fedeli, aperti al discernimento della saggezza di Dio nella cultura moderna, devono essere considerate delle incursioni iniziali per spaventare e ammorbidire le aree più forti di resistenza, prima che il vero attacco abbia inizio. Questa grande offensiva è prevista per ottobre del 2012, in occasione dell’apertura del Sinodo dei vescovi sulla “Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. I Lineamenta di questo sinodo stabiliscono chiaramente il bersaglio della “Nuova Evangelizzazione”, che è chiaramente la cultura moderna. Secondo il documento, il mondo moderno è espresso da una cultura del relativismo, che si è infiltrato fin nella stessa vita cristiana e nelle comunità ecclesiali. Gli autori affermano che le sue «gravi implicazioni antropologiche (...) mettono in discussione la stessa esperienza elementare umana, come la relazione uomo-donna, il senso della generazione e della morte». Associato a questo fenomeno, afferma il documento, vi è l’enorme mescolanza di culture, che si traduce in «forme di contaminazione e di sgretolamento dei riferimenti fondamentali della vita, dei valori per cui spendersi, degli stessi legami attraverso i quali i singoli strutturano le loro identità e accedono al senso della vita». Benedetto XVI ha definito tutto questo, in altre occasioni, come pluralismo, completando così la sua trilogia del demoniaco: secolarismo, relativismo e pluralismo, a fronte del sogno di una cultura dell’Europa medioevale recuperata e romanticizzata.
Gli istituti religiosi femminili, invece, esemplificano in maniera forte l’ermeneutica della missione: le suore hanno superato lo stile di separazione dal mondo; affrontano la sfida di abbracciare la presenza di Dio nella cultura moderna; lottano fedelmente per essere un segno autentico e chiaro dell’amore di Dio per il mondo. La Valutazione dottrinale è oltraggiosa per l’arroganza paternalista e patriarcale che esprime. Ma è chiaro che ha a che vedere con molto di più: la crepa drammatica all’interno della Chiesa Cattolica Romana in relazione all’interpretazione del Vaticano II e alla presenza o meno di Dio nella cultura moderna.
Quello che è più pernicioso in questo attacco, al di là degli effetti sulle vite delle persone che ne sono immediatamente e drammaticamente vittime, è l’appropriazione di concetti sviluppati da quanti operano a partire da un’ermeneutica della missione da parte di coloro che difendono un’ermeneutica del trinceramento, i quali ridefiniscono e utilizzano tali concetti in funzione della loro offensiva. Tre rapidi esempi si incontrano nella Valutazione dottrinale della Lcwr del card. Levada.
Per prima cosa, Levada afferma che l’obiettivo principale della Valutazione è quello di contribuire a realizzare un’“ecclesiologia di comunione”. I teologi che hanno sviluppato tale ecclesiologia hanno basato le proprie riflessioni sull’enfasi posta dal Vaticano II sulla Chiesa come Popolo di Dio, come Corpo di Cristo o come Popolo Pellegrino. Tutte queste immagini sono state utilizzate dal Vaticano II per ampliare la comprensione della Chiesa al di là della gerarchia. E nessuna immagina l’unità come qualcosa di costruito per mezzo della forza o dell’obbedienza alla dottrina. Al contrario, l’unità è vista come frutto del dialogo e del discernimento comune laddove il Popolo di Dio lotta unito per essere testimone fedele e autentico dell’Amore che spoglia se stesso. Chi più di questi istituti religiosi femminili riassume la comunione fondata sulla fede e vissuta come autospoliazione?
In secondo luogo, la Valutazione dottrinale sulla Lcwr definisce il carattere sacramentale della Chiesa quasi esclusivamente come gerarchia patriarcale. Di nuovo, il documento usurpa una comprensione della Chiesa del Vaticano II come sacramento e la riformula. Il Vaticano II, al contrario, postula la Chiesa nella sua interezza come sacramento del Regno di Dio.
Nel post-Vaticano II, molti teologi di varie parti del mondo hanno elaborato l’immagine della Chiesa come Profeta, fondando tale visione sull’opzione preferenziale per i poveri, sulla fede nella salvezza come liberazione e sulla necessità di denuncia nei confronti non solo delle strutture del mondo ma anche di quelle della Chiesa stessa e del suo ruolo di supporto a situazioni di oppressione e di negazione dei diritti. Al contrario, la Valutazione nega qualunque possibilità di profezia nei confronti della gerarchia della Chiesa o qualunque presenza profetica separata da tale gerarchia. Questa aberrante mancanza di considerazione per i profeti biblici e per la loro forte presa di posizione contro sacerdoti, re e rituali di fede svuotati non è colta come una rottura con il passato o con la tradizione da parte di coloro che operano a partire da questa ermeneutica del trinceramento.
Nel momento in cui si celebra il 50º anniversario dell’apertura del Vaticano II, entriamo in un nuovo capitolo della storia della Chiesa. Il Concilio convocato per aprire le finestre è ora reinterpretato con le persiane chiuse, per proteggere la Chiesa dai venti di tempesta di un mondo in cerca di autenticità spirituale. Per quanto lo si presenti come un momento di rinnovamento, l’Anno della Fede è realmente dedicato all’idolatria della dottrina, del potere e della gerarchia. Le suore che, nel loro servizio alla Chiesa e al mondo, non si limitato al voto di povertà, ma lo vivono realmente senza privilegi, status o accumulazione di ricchezze, sono in forte e profetico contrasto con l’inautenticità di un trinceramento mascherato da rigenerazione.
Guerra e pace
di Aldo Maria Valli (Europa, 10 agosto 2012)
Titolo a tutta pagina: “Eroi per la pace”. La pagina è quella dedicata alle inchieste più importanti e il giornale è Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani. Si parla «missioni di pace» dei militari italiani nel mondo e di un’associazione che sta per nascere, per raccogliere i reduci e le famiglie dei caduti, dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Somalia. C’è anche un’intervista a monsignor Vincenzo Pelvi, arcivescovo e ordinario militare, in pratica la guida dei cappellani militari. Il paginone è corredato da una grande foto di soldati italiani con il mitragliatore in pugno, sullo sfondo un mezzo blindato.
Poi c’è anche la foto di un soldato che agita un tricolore. Il tono generale pagina è dato da due frasi dell’arcivescovo: «Chi avvicina i reduci avverte la serenità di chi ha seminato giustizia». E poi quella ripresa nel titolo: «Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti, ma convergenti, perché la condizione militare trova il suo fondamento morale nella logica della carità».
Passano ventiquattro ore e il paginone di Avvenire provoca una dura reazione di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale alla cui presidenza c’è l’attuale vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Giudici. «Eroi per la pace o vittime della guerra?» si chiede l’associazione in un documento, firmato per ora da trenta parroci di tutta Italia, che stigmatizza «l’insopportabile retorica» del servizio e giudica inaccettabile l’idea circa la convergenza dell’essere cristiano e soldato. «Da sempre l’esperienza cristiana ci ha impegnato nella cura della missione e ci scandalizziamo ogni volta che un cristiano infanga questo valore confondendolo con le guerre, chiamate appunto missioni di pace ma in realtà avventure senza ritorno».
La sola «missione» in Afghanistan, nota Pax Christi, costa due milioni di euro al giorno. Non sarebbe stato meglio investirli in ospedali, scuole e acquedotti? Parliamo tanto delle vittime italiane, ma dei morti afghani o iracheni chi si occupa? «Chiediamo di aprire un confronto serio e schietto sul tema della guerra, del servizio militare e della presenza dei cappellani tra i militari». Di questo, dicono i firmatari, dovrebbe occuparsi il giornale cattolico. Magari ricordando quei cattolici (come il tedesco Franz Jägerstätter, ucciso dai nazisti) che sacrificarono la propria vita pur di ribadire il no all’uso delle armi.
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST", 2006). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia (...) Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo (...)
Il cardinale di New York per il GOP
di Massimo Faggioli (Europa, 24 agosto 2012)
Il cardinale di New York Timothy Dolan, presidente dei vescovi cattolici americani, pronuncerà una preghiera di benedizione alla convention repubblicana dell’inizio della settimana prossima in Florida, proprio nella sera in cui Mitt Romney riceverà la nomination dal partito. Il portavoce del cardinale Dolan si è affrettato a precisare che l’apparizione del presidente della Conferenza episcopale sul palco del GOP non è un “endorsement”, un appoggio al ticket repubblicano. Ma è chiaramente un “non-endorsement endorsement” (analogo a quelle “scuse non-scuse” che si fanno dicendo “non era mia intenzione offendere nessuno, se ho offeso qualcuno”).
La decisione è senza precedenti storici*, e non perché violi la “separazione tra Stato e Chiesa” in America - una separazione che non impedisce a politica e religione di combinarsi come in nessun altro paese occidentale. È senza precedenti perché prassi vuole - non senza buoni motivi teologici - che sia semmai il vescovo locale (e non il presidente di tutti i vescovi americani) ad offrire una preghiera per un evento pubblico-politico di questo tipo.
Il presidente dei vescovi americani che prega alla consacrazione politica del candidato repubblicano alle presidenziali non è di certo solo “un sacerdote che va alla convention per pregare”, come hanno tentato di dire in maniera tutt’altro che ingenua dalla curia di New York. La precisazione del portavoce di Dolan sembra voler dire che il cardinale è aperto anche ad un invito dei democratici alla loro convention di inizio settembre a Charlotte: ma dopo i rapporti tempestosi degli ultimi due anni tra vescovi e Obama, il messaggio di Dolan alla convention dei democrats potrebbe essere molto diverso dalla benedizione rivolta al duo Romney-Ryan.
Nei tre anni da arcivescovo di New York, Dolan ha più volte mostrato di non aver paura di sfidare le prassi consolidate: il funzionamento della Conferenza episcopale, i rapporti coi media, e i rapporti tra chiesa cattolica e politica e con l’amministrazione Obama in particolare.
Contro la Casa Bianca, nella primavera-estate 2012 i vescovi guidati da Dolan hanno mosso una campagna senza precedenti in nome della difesa della libertà religiosa, a loro dire violata da alcune norme della riforma sanitaria che sta per entrare in vigore.
La mossa di Dolan si avvicina molto ad un’investitura del ticket Romney-Ryan. Contrariamente al cattolico Joe Biden, uno degli ultimi “cattolici sociali” vecchia scuola, il candidato alla vicepresidenza Paul Ryan è il tipo di cattolico che piace a Dolan e al cattolicesimo neo-conservatore e neo-liberista americano. Pro-life e pro-business, distante dal magistero sociale dei vescovi americani degli anni ottanta, il giovane Ryan ha ricevuto pubbliche parole di elogio dal cardinale Dolan, mentre nell’aprile scorso una commissione dell’episcopato americano aveva bocciato il “piano Ryan” per la riduzione del deficit con queste parole: “la riduzione del deficit deve proteggere e non danneggiare le necessità dei poveri e dei vulnerabili. I tagli proposti falliscono in questo minimo requisito morale”.
La decisione di pregare sul palco del GOP a Tampa avrà molteplici conseguenze. Dal punto di vista ecclesiale, la mossa di Dolan dividerà ulteriormente la chiesa americana, che già vede, quando si tratta delle emergenze sociali del paese, i cattolici schierati su posizioni opposte: gran parte dei vescovi e i cattolici neo-liberisti col Partito repubblicano, e la maggioranza dei teologi, delle suore e dei laici col Partito democratico.
Dal punto di vista politico, Dolan espone la chiesa cattolica americana nei confronti di un partito e di un ticket presidenziale come non mai prima: c’è solo da immaginare quale tipo di relazioni si avrebbero tra Dolan e la Casa Bianca se Obama dovesse rivincere le elezioni.
Dal punto di vista culturale, infine, le elezioni del 2012 segnalano un passaggio epocale verso l’epoca post-protestante: non solo non c’è nessun protestante bianco in nessuno dei due ticket, ma la questione religiosa della campagna elettorale non ruota più attorno al valore morale della Bibbia, ma attorno alle interpretazioni della dottrina sociale della chiesa cattolica nella società americana.
Circa un secolo fa, l’America usciva dall’era dei “robber barons” e della “gilded age” per diventare, anche grazie al magistero sociale della chiesa cattolica e al “social gospel” protestante, un paese meno ineguale e con un sistema di protezioni sociali che il GOP ha deciso oggi di eliminare in nome di un “vangelo della prosperità” che suona molto più Gordon Gekko che Gesù di Nazareth. Il cardinale Dolan, prete cattolico con un dottorato in storia, lo sa certamente, ma ha deciso che la cultura liberal del Partito democratico è il vero nemico della chiesa americana e che per combatterla ogni mezzo è legittimo. Si può contare sul fatto che questa dichiarazione di guerra sarà ricambiata dall’altra metà del paese contro i vescovi, con conseguenze di lungo periodo che oggi sono difficilmente calcolabili per i fedeli della chiesa cattolica più grande d’Occidente.
* (errata corrige: c’è un precedente storico. Il cardinale Krol, presidente dei vescovi USA, fece lo stesso alla Convention repubblicana del 1972 per Nixon)
L’arsenale nucleare d’Israele? Parla tedesco
Lo Spiegel: atomiche montate sui sottomarini forniti a Tel Aviv
Un terzo della spesa a carico di Berlino all’insaputa dei cittadini
di Marina Mastroluca (l’Unità, 04.06.2012)
Israele installa missili nucleari sui sottomarini forniti dalla Germania. Apparentemente non è una notizia: è dalla fine degli anni ‘90 che senza mai una vera e propria conferma ufficiale da parte di Tel Aviv la storia circola sulle stampa internazionale. Ma l’inchiesta oggi in edicola sullo Spiegel è di quelle destinate a far montare la polemica. Perché Israele piazza missili nucleari sui sottomarini che Berlino ha costruito, in larga parte finanziato e per il resto venduto a condizioni agevolate. E il governo tedesco lo ha sempre saputo.
«La Germania anticipa lo Spiegel sta aiutando Israele a sviluppare le sue capacità nucleari militari», a dispetto di quanto ha finora sostenuto. E i contribuenti tedeschi danno una mano a loro insaputa. Non stupisce che il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak dichiari al settimanale che «i tedeschi possono essere fieri di aver garantito per molti anni l’esistenza dello Stato di Israele».
U-BOOT E INSEDIAMENTI
«Operazione segreta Sansone», il titolo di copertina dello Spiegel mostra il volto di Angela Merkel e quello di Netanyahu, sullo sfondo azzurrino con la sagoma di un U-Boot. Il settimanale, che ha dedicato mesi all’inchiesta, ha raccolto le testimonianze dell’ex sottosegretario alla Difesa, Lothar Ruehl, e dell’ex responsabile dell’Ufficio di coordinamento, Hans Ruehle. Entrambi hanno spiegato al settimanale di Amburgo di aver dato per scontato che Israele avrebbe montato missili nucleari sui sommergibili costruiti nei cantieri di Kiel.
Israele ha sempre mantenuto un assoluto riserbo sulle proprie capacità nucleari, lasciando tuttavia intendere di essere in possesso di un arsenale che non avrebbe difficoltà ad utilizzare. E secondo lo Spiegel, la Germania sapeva dei programmi nucleari israeliani sin dal 1961. L’ultima occasione documentata in cui la questione è stata sollevata tra i due governi risalirebbe al 1977, quando l’allora cancelliere Helmut Schmidt ne parlò con il ministro degli esteri israeliano Moshe Dayan.
Eppure da quando, dopo la prima Guerra del Golfo, Berlino ha fornito a titolo gratuito i primi due sottomarini ad Israele, i governi tedeschi sono stati estremamente vaghi sul possibile impiego di armi nucleari a bordo. Quando la questione è stata sollevata al Bundestag, in particolare perché i sommergibili erano dotati di tubi lanciasiluri da 650 millimetri compatibili con l’impiego di testate nucleari la risposta è stata che non se ne conosceva la ragione visto che la progettazione era su disegno israeliano.
Finora dai cantieri «Howaldtswerke» sono usciti tre sommergibili già consegnati allo Stato ebraico e segnalati in passato tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, da dove facilmente possono tenere sotto tiro l’Iran (che anche ieri ha proferito nuove minacce contro Israele). A bordo secondo quanto rivelato già nel 2003 da ufficiali Usa e israeliani avrebbero la possibilità di alloggiare missili da crociera a lungo raggio, i Popeye Turbo, capaci di colpire fino a 1500 chilometri. Altri tre sottomarini, più grandi e di nuova concezione, verranno forniti dalla Germania entro il 2017. La nuova serie, denominata U-212, è più veloce e silenziosa, più difficile da individuare e dotata di un finora segreto sistema di espulsione dei missili.
Il primo sottomarino di questa seconda serie è già stato consegnato all’inizio dello scorso maggio: si tratta della nave Tanin, coccodrillo in ebraico. E dopo qualche difficoltà a chiudere l’accordo, il governo tedesco ha di recente firmato il contratto per la fornitura del sesto sommergibile ma Israele sta considerando l’acquisto anche di altri tre.
Secondo lo Spiegel, la cancelliera Angela Merkel ha fatto «concessioni sostanziali» ad Israele. «Non solo Berlino finanzia un terzo del costo del sottomarino, circa 135 milioni di euro» ma ha anche consentito a Tel Aviv pagamenti dilazionati fino al 2015. La cancelliera avrebbe anche subordinato la consegna del sesto sottomarino ad uno stop della politica degli insediamenti e all’autorizzazione a realizzare nella Striscia di Gaza un impianto di depurazione delle acque, in parte finanziato dal governo tedesco. Nessuna di queste condizioni, specifica lo Spiegel, è stata finora mantenuta.
Israele prepara l’assalto totale ai siti nucleari iraniani
di: WSI *
New York - Tel Aviv si rende conto che non potra’ distruggere tutto l’arsenale del programma atomico iraniano, ma spera di poter infliggere un duro colpo alle ambizioni nucleari della Repubblica Islamica. Il 23 maggio, Usa, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania si riuniranno attorno a un tavolo a Baghdad con una delegazione iraniana con l’obiettivo di risolvere la questione spinosa del futuro nucleare di Teheran.
Per voce del suo ministro degli Esteri, l’Iran assicura che il paese e’ pronto ad affrontare e risolvere tutti i problemi all’incontro del prossimo mese, i cui colloqui sono stati battezzati P5+1, per via della presenza di cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza piu’ la Germania. Questo fine settimana si sono concluse delle trattative che vedevano la Turchia nel ruolo di mediatrice.
Secondo l’emittente nazionale iraniana PressTV, Teheran ha fiducia nel buon esito delle trattative ed e’ convinta che un nuovo approccio da parte dei sei paesi potrebbe veramente far rientrare il pericolo che le tensioni geopolitiche altissime sfocino in un conflitto armato.
Ma Israele non si fida. Anche se il resto del mondo sta seguendo la via diplomatica, Israele si prepara a un assalto totale ai siti nucleari iraniani, nel caso in cui le sanzioni e i colloqui dovessero fallire.
Lo ha riferito un report della tv israeliana citato da Greg Tepper del quotidiano The Times of Israel. I commenti sull’eventuale raid militare sono stati approvati dall’esercito di Tel Aviv.
"Nessun ordine verra’ dato - scrive Tepper - prima che i colloqui P5+1 ripartano in maggio. "Ma questa estate non sara’ solo calda, bensi’ anche estremamente tesa".
Se le trattative dovessero concludersi in un nulla di fatto e Israele dovesse lanciare un raid dall’alto, esso sara’ coordinato e imponente e coinvolgera’ "decine di aerei, se non di piu’". Vedra’ impegnati portaerei, aerei di rifornimento, elicotteri, droni, velivoli da guerra elettronici e jet bombardieri.
Quello che deve essere detto
di Günter Grass (la Repubblica, 04.04.2012)
Perché taccio, passo sotto silenzio troppo a lungo
quanto è palese e si è praticato
in giochi di guerra alla fine dei quali, da sopravvissuti,
noi siamo tutt’al più le note a margine.
E’ l’affermato diritto al decisivo attacco preventivo
che potrebbe cancellare il popolo iraniano
soggiogato da un fanfarone e spinto al giubilo organizzato,
perché nella sfera di sua competenza si presume
la costruzione di un’atomica.
E allora perché mi proibisco
di chiamare per nome l’altro paese,
in cui da anni - anche se coperto da segreto -
si dispone di un crescente potenziale nucleare,
però fuori controllo, perché inaccessibile
a qualsiasi ispezione?
Il silenzio di tutti su questo stato di cose,
a cui si è assoggettato il mio silenzio,
lo sento come opprimente menzogna
e inibizione che prospetta punizioni
appena non se ne tenga conto;
il verdetto «antisemitismo» è d’uso corrente.
Ora però, poiché dal mio paese,
di volta in volta toccato da crimini esclusivi
che non hanno paragone e costretto a giustificarsi,
di nuovo e per puri scopi commerciali, anche se
con lingua svelta la si dichiara «riparazione»,
dovrebbe essere consegnato a Israele
un altro sommergibile, la cui specialità
consiste nel poter dirigere annientanti testate là dove
l’esistenza di un’unica bomba atomica non è provata
ma vuol essere di forza probatoria come spauracchio,
dico quello che deve essere detto.
Perché ho taciuto finora?
Perché pensavo che la mia origine,
gravata da una macchia incancellabile,
impedisse di aspettarsi questo dato di fatto
come verità dichiarata dallo Stato d’Israele
al quale sono e voglio restare legato
Perché dico solo adesso,
da vecchio e con l’ultimo inchiostro:
La potenza nucleare di Israele minaccia
la così fragile pace mondiale?
Perché deve essere detto
quello che già domani potrebbe essere troppo tardi;
anche perché noi - come tedeschi con sufficienti colpe a carico -
potremmo diventare fornitori di un crimine
prevedibile, e nessuna delle solite scuse
cancellerebbe la nostra complicità.
E lo ammetto: non taccio più
perché dell’ipocrisia dell’Occidente
ne ho fin sopra i capelli; perché è auspicabile
che molti vogliano affrancarsi dal silenzio,
esortino alla rinuncia il promotore
del pericolo riconoscibile e
altrettanto insistano perché
un controllo libero e permanente
del potenziale atomico israeliano
e delle installazioni nucleari iraniane
sia consentito dai governi di entrambi i paesi
tramite un’istanza internazionale.
Solo così per tutti, israeliani e palestinesi,
e più ancora, per tutti gli uomini che vivono
ostilmente fianco a fianco in quella
regione occupata dalla follia ci sarà una via d’uscita,
e in fin dei conti anche per noi.
(Traduzione di Claudio Groff)
PREMESSA SUL TEMA:
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. (Federico La Sala)
La difficile scelta di Israele
Israele e le minacce dell’Iran
I troppi imprevisti della scelta nucleare
di Arrigo Levi (Corriere della Sera, 14.04.2012)
È probabile un attacco nucleare iraniano a Israele? O dobbiamo invece aspettarci un attacco preventivo di Israele all’Iran? Il mondo intero se lo domanda. Quanto è probabile un attacco nucleare iraniano a Israele per «eliminare dalla faccia della terra» lo Stato ebraico? O dobbiamo invece aspettarci un attacco preventivo di Israele all’Iran? E quanto è reale il pericolo che l’uno o l’altro di questi possibili eventi coinvolga tutto il Medio Oriente, o addirittura provochi un più vasto conflitto?
Il mondo intero si sta ponendo con grande senso d’urgenza questi interrogativi. Ed è giusto porseli alla vigilia della ripresa a Istanbul questo weekend, dopo una pausa di 15 mesi, dei negoziati con l’Iran dei cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania: il cui obiettivo minimo è di rinviare la possibile acquisizione da parte dell’Iran di un «potenziale nucleare», e di ottenere che cessi l’accumulazione di uranio arricchito nell’impianto sotterraneo di Fordo, situato presso la città santa di Qom. Saeed Jalili, responsabile per Teheran dei negoziati nucleari, ha annunciato che presenterà «nuove iniziative» e ha affermato che «è la strategia del dialogo e della cooperazione che può avere successo con l’Iran». Le dure sanzioni economiche, le apparenti contraddizioni sulle reali intenzioni dell’Iran, a partire dalla Guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, (che definisce «contrario all’Islam» il possesso di armi nucleari, ma difende duramente i programmi nucleari iraniani), fanno sì che da parte occidentale vi sia, accanto a un ragionato scetticismo, anche qualche speranza sull’esito di questi negoziati.
Ma prevale anche un grande senso d’urgenza, per i segnali che vengono da Gerusalemme, che fanno ritenere «possibile» un’azione militare d’Israele prima dell’autunno. Netanyahu chiede che l’Iran ponga fine all’arricchimento dell’uranio, sia al 20% (subito sotto la soglia del bomb grade) che al 3%; che tutto il materiale nucleare già arricchito sia portato fuori dall’Iran; che l’impianto di Fordo sia smantellato. Le affermazioni iraniane che i loro piani nucleari «hanno soltanto scopi pacifici» non godono di molto credito. Certo non ci crede Israele: non soltanto il governo di Netanyahu ma la grande maggioranza dell’opinione pubblica israeliana.
Sullo sfondo di questa grave crisi ci si trova di fronte a un interrogativo, che riguarda la minaccia iraniana ma ha una più vasta portata, ed è questo: fino a che punto la teoria della Mutual assured destruction (o Mad, «Distruzione Reciproca Assicurata»), sulla quale si è basata la pace nucleare fra le superpotenze, rimane valida, in vista del possibile possesso di armi nucleari da parte di nuovi Paesi, a cominciare dall’Iran (a cui certo seguirebbero altri Stati della regione)? Kissinger ha profetizzato che «quando ci saranno venti potenze nucleari un conflitto atomico sarà certo». Da questo numero siamo ancora abbastanza lontani; e la corsa al nucleare sembrava interrotta. Ma l’arma nucleare iraniana potrebbe rompere l’incantesimo.
E ancora: Israele possiede armi nucleari, in parte presumibilmente collocate su sottomarini o comunque indistruttibili. Ma ciò può funzionare da deterrente, nel caso della minaccia iraniana? Un «primo colpo» contro un Paese così piccolo potrebbe bastare (nelle speranze di un ipotetico aggressore) per metterlo fuori combattimento o distruggerlo? E poi, perché non immaginare che una o più bombe atomiche vengano cedute a gruppi terroristici, come Al Qaeda, prive di territorio, non esposte quindi a Mad?
Attenzione, perché queste non sono ipotesi fantascientifiche. Sono gli interrogativi che debbono necessariamente porsi i responsabili della sicurezza, anzi della sopravvivenza, di uno Stato del quale si minaccia l’annientamento. Quale è appunto Israele. Istintivamente, la lunga esperienza fatta con Mad induce a pensare che la minaccia di rappresaglia nucleare basti per rendere inimmaginabile un attacco nucleare contro un Paese nucleare. Ma la storia è piena di imprevisti, di sorprese, di svolte irrazionali. Ecco perché, di fronte al pericolo dell’arma nucleare iraniana, Israele si trova di fronte a scelte terribili.
Ma si può criticare governo e stato di Israele?
di Moni Ovadia (l’Unità, 14 aprile 2012)
La querelle che contrappone lo scrittore tedesco Guenter Grass, Premio Nobel per la letteratura e il governo israeliano continua. Dopo che il poemetto dello scandalo "quel che deve essere detto" ha provocato la rappresaglia del ministro degli Interni di Israele nei confronti di Grass interdetto dai confini nel Paese come persona non grata, lo scrittore, amareggiato ma per nulla intimorito, ha risposto al bando per le rime dicendo che un simile trattamento gli era già stato già riservato ma solo da regimi dittatoriali come la Ddr e la Birmania, lasciando intendere che il governo dello Stato di Israele ha comportamenti degni di sistemi totalitari.
Ora, a margine di questa vicenda c’è una domanda che mi sembra utile porre. Il governo di Israele e lo Stato che rappresenta possono essere criticati come qualsiasi altro governo e Stato? Devono anch’essi sottostare a tutte le convenzioni internazionali incluse quelle sugli armamenti atomici? Devono rispettare come tutti le risoluzioni dell’Onu? I critici severi delle politiche del governo Nethanyahu-Lieberman possono esprimere le loro opinioni senza essere dichiarati dei criminali antisemiti?
Ebbene secondo l’attuale esecutivo israeliano, secondo la maggioranza della coalizione che lo sostiene, secondo molti esponenti delle comunità ebraiche della diaspora e secondo gli ultras filosionisti "laici" la risposta è no e poi no! Mai! In nessun caso! Questa anomalia, giustificata con ragioni del credo sicuritario che non accetta il confronto con le opinioni, soprattutto quelle dure e sgradevoli, è un problema. Non per i critici, per il futuro della democrazia israeliana.
Cinque domande prima di fare la guerra a Iran e Siria
di Bill Keller (la Repubblica, 23.03.2012)
Quando si è sbagliato, come è accaduto a me, su una cosa importante come la guerra, si deve riflettere bene per cercare di non ricadere nell’errore. E se questo vale per un giornalista che dispensa consigli non richiesti, infinitamente di più vale per chi si trova in posizione di poter realmente dare avvio a un conflitto. Eccoci qui ancora impelagati nel ritiro dall’Afghanistan e già pungolati a intraprendere nuove imprese militari contro i regimi di Siria e Iran. Dato che fare domande è il mio mestiere, ne ho formulate cinque che il presidente Obama dovrebbe porsi, e noi a nostra volta, come suoi datori di lavoro, per decidere se entrare in guerra sia giustificato e se ne valga la pena. Seguono due mie osservazioni applicabili ai conflitti che si profilano.
1. Fino a che punto è la guerra degli Usa?
Che rientrasse nell’interesse nazionale americano dare la caccia ai fanatici omicidi dietro agli attacchi dell’11 settembre e attaccare il regime afgano che li ospitava, non si discute. Indipendentemente dall’opinione che ciascuno può avere su modalità e tempistica della guerra, l’intervento in quel caso si configurava come legittima difesa, per usare il linguaggio della legge. Spesso l’interesse americano non è così ben definito. A volte ci sentiamo in dovere di difendere un alleato (e certi alleati più degli altri). In passato abbiamo notoriamente combattuto per i nostri interessi economici. Interveniamo poi in nome dei valori americani, un concetto molto elastico che può significare tutto, dall’impedire un genocidio fino a promuovere la libertà secondo la dottrina espansionistica di George W. Bush.
Nel momento in cui il senatore John McCain chiede l’intervento delle forze aeree americane per aiutare i ribelli a rovesciare il governo di Bashar Assad in Siria, applica la logica dell’"agenda della libertà" di Bush: mettendo fine alle sofferenze di un popolo e aiutandolo a liberarsi della tirannia guadagniamo punti nei confronti dei vincitori aumentando le possibilità che la Siria sia in futuro meno ostile ai nostri interessi.
2. A che prezzo?
Se si usa come unico criterio di giudizio l’interesse nazionale, c’è poca differenza tra la Libia, in cui abbiamo aiutato un gruppo di ribelli alle prime armi a rovesciare un regime brutale e oppressivo, e la Siria, in cui finora abbiamo deciso di non aiutare un gruppo di ribelli alle prime armi a rovesciare un regime ancor più brutale ed oppressivo. La differenza fondamentale è che la Siria è un osso più duro. La Libia poteva contare su una debole difesa aerea, concentrata lungo le coste, facile bersaglio dei bombardieri occidentali. Le difese siriane sono più pericolose, più corpose e estese ai centri urbani interni. «Dovremmo crearci un corridoio bombardando a tappeto e rischiare che i piloti americani vengano abbattuti, catturati dal regime e usati come scudi umani», spiega John Nagl, esperto militare di controinsurrezione, docente all’Accademia navale Usa. «Provocheremmo molte più vittime», aggiunge.
L’analisi costi-benefici può sembrare un esercizio cinico ma è inscindibile dalla questione dell’interesse nazionale. Dopo più di dieci anni di guerra che ha comportato un’emorragia di almeno tremila miliardi dalle casse dello Stato, ucciso o reso disabili migliaia di soldati e creato la spirale che porta ad atrocità e profanazioni, qualsiasi ulteriore impegno deve essere valutato alla luce dei costi che comporta per la nostra sicurezza economica e la nostra capacità di affrontare una eventuale prossima, reale minaccia. Karl Eikenberry, che ha servito in Afghanistan come comandante militare e come ambasciatore, la pone in questi termini: «Se in futuro non equilibreremo meglio fini, modi e mezzi, gli storici un giorno potrebbero dire che dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan gli Stati Uniti furono costretti a ridimensionarsi a livello globale come i britannici alla fine degli anni ‘60 quando annunciarono la loro strategia "ad est di Suez"».
3. Quale alternativa?
Chi prende le decisioni al vertice dovrebbe - come ha fatto per lo più Obama - valutare con la massima attenzione le alternative alla guerra. Il presidente ha scongiurato un attacco aereo israeliano agli impianti nucleari iraniani mobilitandosi perché fossero applicate dure sanzioni ai danni delle industrie petrolifere e delle banche iraniane, e arrivando a un passo dal dichiarare che se l’Iran proseguirà nella corsa al nucleare gli Usa lo bombarderanno. Pare che le sanzioni sortiscano un qualche effetto. E se falliranno potremmo convivere con un Iran dotato di armi nucleari? Potremmo contare sul principio di deterrenza nel caso dell’Iran? Vale la pena di discuterne seriamente, ma se è vero che il concetto di deterrenza guadagna consensi tra gli esperti, Obama non può neppure accostarvisi, a meno di minare tutte le iniziative per bloccare il programma iraniano oltre che, non a caso, porre a rischio il suo secondo mandato.
4. Con chi?
In queste guerre opzionali è utile essere in buona compagnia - per accrescere la nostra autorità morale, estendere l’intelligence, dividere le spese, spalmare il rischio e per correggere la rotta. In Libia c’erano altre 17 nazioni a imporre il blocco e la no-fly zone, tra cui arabi e turchi. "Condurre da dietro" sarà anche risibile come espressione, ma è stata una strategia funzionale. Nessuno per ora si offre volontario per seguirci in Siria.
5. E poi?
È l’interrogativo che Robert Gates ha reso un mantra al Dipartimento della Difesa: che succede dopo? Quali saranno gli effetti di secondo e terzo grado? Come conseguenza involontaria (ma prevedibile) l’invasione dell’Iraq ci ha portato a distrarre attenzione ed energie dall’impresa assai più importante in Afghanistan. Ora una possibile conseguenza della fretta nel lasciare l’Afghanistan - per quanto forte possa essere la tentazione, dato il crollo della fiducia tra i due Paesi - è la crescente possibilità che la crisi afgana si trasmetta al Pakistan. In Pakistan ci sono sia armi nucleari che fanatici in abbondanza pronti ad usarle. Anche per la Siria bisogna riflettere bene sul caos che potrebbe scatenarsi. Dice Nagl: «Il problema non è rovesciare Assad, è il dopo. Alzi la mano chi è favorevole all’occupazione di un altro Paese islamico». La prima osservazione che avanzo riguarda l’opinione pubblica. Una democrazia non può ignorarla. Le guerre non si dichiarano alle urne. L’opinione pubblica può aver torto. Era con Bush, entusiasta, ai tempi dell’invasione dell’Iraq. Ma l’opinione pubblica pesa quando si tratta di decidere. Gli Usa hanno usato la forza per fermare il genocidio in Bosnia, ma non in Rwanda e nel Darfur. La differenza è stata che gli americani (e i media Usa) erano concentrati sulla carneficina in Europa, non sulle atrocità africane.
La mia seconda osservazione è che porre le domande giuste ha senso solo se si è pronti ad accettare risposte scomode. A volte i nostri leader partono dalle risposte e procedono a ritroso, adattando la realtà alla politica, come ha detto il capo dell’intelligence militare britannica riferendosi all’invasione dell’Iraq e alle false fonti sulle armi di distruzione di massa. Un esempio è l’insistenza di Rick Santorum, il falco dei candidati repubblicani alle primarie, sul fatto che il programma nucleare iraniano non è soggetto a ispezioni internazionali. È possibile che l’Iran abbia nascosto qualche impianto, ma tutto ciò che conosciamo, ossia quello che bombarderemo in caso di attacco, è sotto la sorveglianza degli ispettori internazionali. Se mai l’Iraq ci ha insegnato qualcosa è che bisogna accertare i fatti prima di inviare le truppe.
(c) 2012 New York Times News Service (Traduzione di Emilia Benghi)
La prossima guerra. La bomba iraniana
di Noam Chomsky (il manifesto, 18.03.2012)
Nel numero di gennaio-febbraio della rivista Foreign Affairs un articolo di Matthew Kroenig intitolato «È il momento di attaccare l’Iran» spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni unite, fondamento del diritto internazionale.
Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Stati uniti rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla «comunità internazionale» - nome in codice per definire gli alleati degli Stati uniti - le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.
I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione condivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati uniti (sondaggio WorldPublicOpinion.org) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumentà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia.
Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della Brookings Institution e di Zogby International.
I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso.
In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è ovvio, è "impiegarle" negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele. Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa.
Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in «Difesa della Terra santa», un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.
Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta.
In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni appoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.
Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione.
Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.
Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale.
L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) - Pakistan e India - paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.
L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.
Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la «comunità internazionale» la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
©La Jornada/il manifesto
"Israele, non colpire Teheran"
Perché dico no alla guerra con l’Iran
di David Grossman (la Repubblica, 12.03.2012)
Benjamin Netanyahu sta tenendo molti discorsi in questi giorni. Dinanzi ai nostri occhi infiamma i suoi ascoltatori, e anche se stesso, con ricorrenti riferimenti alla Shoah, al destino degli ebrei e delle generazioni future. Di fronte a questa retorica catastrofistica e apocalittica ci si può chiedere se Netanyahu distingua i pericoli reali che Israele deve affrontare dagli echi e dalle ombre dei traumi del passato. Questa è una domanda importante, cruciale, perché una confusione fra le due cose potrebbe condannare Israele a rivivere quegli echi e quelle ombre.
Ovviamente se tutto questo - il pathos, il grande mantice della Shoah - non è che un espediente destinato a indurre il mondo a esercitare pressione sull’Iran, e se l’espediente funzionerà senza che Israele sferri un attacco, allora ammetteremo con gioia che il primo ministro ha compiuto un ottimo lavoro e merita tanti complimenti. Ma se Netanyahu pensa e agisce secondo una visione del mondo ermetica, che oscilla tra i poli della tragedia e della salvezza, ecco che ci troviamo in un ambito di discussione completamente diverso.
Anziché tradurre in maniera monodimensionale l’Israele del 2012 nella Shoah degli ebrei d’Europa dovremmo porci un’altra domanda: è opportuno che Israele, di propria iniziativa, scateni una guerra contro un paese come l’Iran (una guerra dalle conseguenze imprevedibili) per prevenire uno scenario futuro, indubbiamente pericoloso, ma che nessuno è sicuro che si realizzi? In altre parole: Israele dovrebbe rischiare una catastrofe certa nel presente per impedirne una futura? (segue dalla copertina) Èdifficilissimo prendere una decisione oculata in una situazione simile. Sarebbe difficile per qualsiasi leader israeliano e senza dubbio lo sarà per Netanyahu, sul quale agiscono con forza il trauma del passato e quello possibile del futuro. Potrà Netanyahu, nel groviglio di pressioni da lui stesso create e fomentate, trovare un punto di appoggio in un presente ragionevole, lucido e pragmatico? Un presente che non sia parte di un mito tragico e apocalittico che sembra volere ripetersi per noi in ogni generazione? Anche questa è infatti la realtà del presente: già oggi tra Israele e Iran esiste un equiliIran" brio del terrore. Gli iraniani proclamano che centinaia di loro missili sono puntati verso le città israeliane, ed è ipotizzabile che Israele non rimanga a braccia conserte davanti a un simile pericolo.
Questo equilibrio del terrore, che a detta degli esperti comprende armi non convenzionali, chimiche e biologiche, finora non è stato violato e nessuno può stabilire con certezza se sarà mantenuto in futuro. Nessuno può nemmeno sapere se armi o capacità nucleari "filtreranno" dall’Iran a gruppi terroristici o se l’attuale regime iraniano sarà sostituito da uno più moderato. Anche il capo del governo, il ministro della Difesa e i membri del gabinetto di sicurezza israeliani che dovranno votare a favore o contro un attacco all’Iran operano, nell’attuale dilemma, sulla base di ’’ ,, supposizioni, timori, congetture e ansie. Senza sottovalutare l’importanza di congetture e di ansie possiamo ritenere che siano una base solida per un’azione che potremmo rimpiangere per generazioni?
Nessuno in Israele è assolutamente certo che tutto il potenziale nucleare iraniano verrà distrutto da un attacco israeliano. Nessuno sa neppure con esattezza quale livello di morte e distruzione una reazione iraniana seminerà nelle città di Israele. Non è superfluo ricordare la sicurezza e l’illusione di conoscenza e di informazioni precise con le quali lo stato maggiore dell’esercito e il governo israeliani affrontarono lo scoppio della seconda guerra del Libano, né il fallimento delle previsioni della prima guerra del Libano a seguito della quale Israele si ritrovò invischiata in un’occupazione di 18 anni. E ci sono altri innumerevoli esempi.
Inoltre, anche se le infrastrutture del potenziale nucleare dell’Iran verranno distrutte, non si potranno cancellare le conoscenze accumulate. Queste conoscenze, e i loro depositari, si risolleveranno dalla polvere e creeranno nuove infrastrutture e questa volta, insieme all’intero popolo iraniano, bruceranno di offesa, di odio sfrenato e di sete di vendetta per la profonda umiliazione subita.
L’Iran, come si sa, non è solo un paese fondamentalista ed estremista. Ampie fasce della sua popolazione sono laiche, colte e progredite. Numerosi rappresentanti del suo vasto ceto medio hanno manifestato con coraggio e a rischio della propria vita contro un regime religioso e tirannico che detestano. Non sto dicendo che una parte del popolo iraniano provi simpatia per Israele ma un giorno, in futuro, queste persone potrebbero governare l’Iran ed essere forse più propense a Israele. Una tale possibilità sfumerebbe tuttavia se Israele attaccasse l’Iran raffigurandosi come una nazione arrogante e megalomane, un nemico storico contro il quale lottare strenuamente, anche agli occhi dei moderati iraniani. Questa eventualità è più o meno pericolosa di un Iran nucleare? E cosa farà Israele se a un certo punto anche l’Arabia Saudita deciderà di volere armi nucleari e le otterrà? Sferrerà un altro attacco? E se anche l’Egitto, sotto il nuovo governo, sceglierà questa strada? Israele lo bombarderà? E rimarrà per sempre l’unico paese della regione autorizzato ad avere armi nucleari?
Sebbene questi interrogativi siano già noti e risaputi occorre ripeterli costantemente un attimo prima che le orecchie si otturino nella foga della battaglia: una guerra porterà un vantaggio concreto? Un vantaggio tale da assicurare a Israele una vita tranquilla per molti anni futuri? Un vantaggio tale da far sì che un giorno, forse lontano, lo stato ebraico verrà accettato come legittimo vicino e partner così che l’intera questione delle armi nucleari, israeliane e di altri paesi, risulti superflua? Una risposta legittima a questi interrogativi, difficile da digerire ma che vale la pena di discutere pubblicamente, è che se le sanzioni economiche non indurranno l’Iran a interrompere la produzione di uranio arricchito, e se gli Stati Uniti, per motivi loro, non attaccheranno l’Iran, Israele farebbe meglio a non sferrare un attacco, anche se questo significherà doversi rassegnare, a denti stretti, a un Iran nucleare.
Questa possibilità sarebbe estremamente dura da accettare e la nostra speranza è che le pressioni internazionali la vanifichino. L’eventualità di un attacco israeliano potrebbe però essere altrettanto dura e amara. E siccome non c’è modo di stabilire con certezza se un Iran dotato di armi nucleari attaccherà Israele, Israele non dovrà attaccare l’Iran.
Un simile attacco sarebbe azzardato, sconsiderato, precipitoso e potrebbe cambiare completamente il nostro futuro, non oso nemmeno immaginare come. Anzi, no: lo posso immaginare, ma la mano si rifiuta di scriverlo.
Non invidio il capo del governo, il ministro della Difesa e i membri del gabinetto. Sulle loro spalle pesa una responsabilità indescrivibile. Penso al fatto che in una situazione tanto ambigua e controversa l’unica cosa certa talvolta è la paura. Sarebbe allettante aggrapparvisi, consentirle di consigliarci e guidarci, percepire il palpito familiare che noi israeliani riconosciamo. Sono sicuro che chi è a favore di un attacco all’Iran lo giustifica sostenendo che in questo modo si eviterà la possibilità di un incubo peggiore in futuro. Ma chi ha il diritto di condannare a morte così tante persone solo in nome di un timore che potrebbe non concretizzarsi mai? (Traduzione di Alessandra Shomroni)
Il Mossad: Tel Aviv attaccherà l’Iran senza avvertire
Per il servizio segreto dello Stato ebraico il presidente americano Barack Obama avrà un preavviso di sole 12 ore
di Dieter Bednarz, Erich Follath, Juliane von Mittelstaedt e Holger Stark (il Fatto e Der Spiegel. 11.03.2012)
Secondo fonti del Mossad, le autorità isrealiane avrebbero detto al capo di stato maggiore Usa Martin Dempsey che, in caso di attacco contro l’Iran il governo di Tel Aviv avvertirà la Casa Bianca solo 12 ore prima. È questo il modo di trattare il più importante alleato?
Chiaramente il presidente Obama e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non si piacciono e lo si è visto in occasione dell’ultimo vertice, concluso con un nulla di fatto. Obama non vuole che l’Iran si doti di armi nucleari, ma non vuole nemmeno l’ennesima guerra. Per fare contento il suo ospite il presidente ha ripetuto che “tutte le opzioni sono sul tavolo”, ma questa dichiarazione a Netanyahu non basta più.
IL FATTO è che non c’è ancora “la pistola fumante”, la prova certa che l’Iran sta mettendo a punto un ordigno nucleare. Nemmeno gli ispettori dell’Aiea sono stati in grado di prendere posizione limitandosi a concludere in modo ambiguo che il programma nucleare iraniano “ha una dimensione militare”. Ma sono elementi tali da giustificare una guerra? Esperienze recenti - Afghanistan e Iraq - inducono alla cautela. In realtà il conflitto tra Israele e l’Iran sulla questione del nucleare è già in corso da qualche tempo. Si tratta di una guerra non dichiarata iniziata da Gerusalemme quattro anni fa. Stando alle voci - per altro mai smentite - squadre speciali israeliane avrebbero assassinato scienziati nucleari a Teheran impiegando bombe magnetiche mentre numerosi sono stati i tentativi di bloccare il programma sabotando i computer con i virus.
Nell’ultimo rapporto dell’Aiea, il direttore generale Yukiya Amano sottolinea “le sue gravi e crescenti preoccupazioni” in ordine alle ambizioni nucleari iraniane. Il rapporto ha rafforzato l’opzione militare e si parla già dei possibili obiettivi di un raid aereo israeliano: i centri per l’arricchimento dell’uranio a Natanz e Qom, lo stabilimento di riconversione nei pressi di Isfahan, il reattore ad acqua pesante in costruzione ad Arak e la centrale nucleare di Busheehr. Fonti militari, politiche e del Mossad ritengono che l’attacco dovrebbe avere luogo in una data compresa tra la prossima estate e l’autunno.
Netanyahu ha parlato spesso di “una seconda Auschwitz” e prende maledettamente sul serio le minacce del negazionista Ahmadinejad. Non a caso bolla la politica occidentale di codardia e ricorda quali furono le conseguenze dalla politica di appeasement con Hitler: “Si sta ripetendo la situazione del 1938 con l’Iran nei panni della Germania”, ama ripetere. Ma questa volta, aggiunge, gli ebrei non svolgeranno il ruolo dell’“agnello sacrificale”.
IL PROSSIMO ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan e i rivolgimenti in diversi Paesi del Medio Oriente hanno indebolito il regime iraniano. L’eventuale caduta di Assad sarebbe per Ahmadinejad un duro colpo in quanto perderebbe un prezioso alleato e la sua influenza su Hamas. Nella regione poi, diversi Paesi arabi del Golfo non gradiscono l’ipotesi di un Iran ancor più forte. Una cosa è certa: nel 2012 il problema più grave della politica internazionale sarà l’Iran, crisi dell’euro a parte. Obama a questo riguardo non sembra padrone della situazione. È contrario all’uso della forza, ma non può inasprire le relazioni con Israele e fornire sul piatto d’argento un argomento come questo ai Repubblicani alla vigilia delle elezioni. Inoltre pende sul capo dell’Occidente la minaccia iraniana di chiudere lo stretto di Hormuz e Mario Draghi, presidente della Bce, ha ricordato all’Ue che le conseguenze potrebbero essere incalcolabili: aumento vertiginoso del prezzo del petrolio e fiammate inflazionistiche. In Occidente prevale il pessimismo. Ma le cose stanno in questi termini? Molti descrivono l’Iran come un Paese con diversi centri di potere e una guida politica razionale e tutt’altro che imprevedibile.
L’Iran è il quarto Paese esportatore di petrolio e il quarto al mondo quanto a riserve petrolifere. Non è un Paese povero anche se il reddito è distribuito iniquamente e metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Ma è anche un Paese dove fortissime sono le contraddizioni: formalmente è una democrazia parlamentare, ma il “leader rivoluzionario”, l’ayatollah Khamenei, controlla tutti gli organismi elettivi. Una delle stranezze del programma nucleare iraniano è di esser nato non in località segrete e remote, ma nel cuore di Teheran. Il centro di ricerca nucleare, costruito dagli americani negli anni ’60, si trova in pieno centro abitato.
Gli scienziati iraniani insistono sulle finalità pacifiche del nucleare iraniano: “Il mio lavoro consiste nel salvare vite umane”, ha dichiarato Fereydoon Abbasi-Davani, responsabile dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica. Ma i timori occidentali riguardano il centro di Fordo dove viene arricchito l’uranio e dove sono state installate diverse centinaia di centrifughe. La buona notizia è che a Fordo sono presenti gli ispettori dell’Aiea. Basta per essere tranquilli? È comunque certo - come sottolineano molti in Occidente - che un attacco israeliano farebbe il gioco di Ahmadinejad, chiuderebbe la bocca all’opposizione e ricompatterebbe il Paese dietro il suo leader. E magari consentirebbe a Khamenei e Ahmadinejad di dare veramente il via alla costruzione dell’atomica.
Dieter Bednarz, Erich Follath, Juliane von Mittelstaedt e Holger Stark, © Der Spiegel, 2012 - Distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Israele
Gaza di nuovo nel centro del mirino
È arrivato, purtroppo, anche il turno dei bambini. Nell’escalation di violenza tra gruppi appartenenti alla jihad islamica - che hanno trovato un largo spazio operativo nella Striscia di Gaza - e Israele, un drone ha ucciso un ragazzo di 16 anni nel nord della Striscia di Gaza mentre altri aerei hanno ferito circa 30 bambini. Come aveva “predetto” sabato il ministro della Difesa Barak, la tornata di attacchi dell’aviazione israeliana sulla Striscia non finirà a breve, anzi si estenderà. Ieri ha rincarato la dose il premier Netanyahu che, incontrando il nostro ministro della Difesa di Paola alla Knesset, ha detto: “La sua visita qui avviene mentre la attenzione è concentrata sugli attacchi terroristici condotti da elementi sostenuti e finanziati dall’Iran. Decine e decine di razzi stanno cadendo da venerdì scorso su Israele. Questi attacchi terroristici, come appunto quelli condotti dalla Jihad islamica evidenziano la gravità del pericolo che si creerebbe se dietro a costoro si schierasse un Iran nucleare. Il mondo deve tenersi unito di fronte alla minaccia iraniana”.
* il Fatto, 13.03.2012
Rinvio sull’Iran in cambio di armi, l’accordo segreto Netanyahu-Obama
di Francesco Battistini (Corriere della Sera, 09.03.2012)
Armarsi di pazienza. A tornare sui retroscena del lunedì scorso alla Casa Bianca, dove Netanyahu è andato per sapere se ci sarà semaforo verde a un attacco sull’Iran, una cosa si capisce: più che il rosso, Obama ha fatto scattare il giallo. Il premier israeliano lo considera un mezzo successo, ma forse è l’incasso minimo. Non potendo indovinare se Barack sarà rieletto, non potendolo convincere dell’inevitabilità d’uno strike preventivo, s’accontenta per ora d’averlo costretto a un segreto accordo armi-in-cambio-di-pazienza: se a Gerusalemme accettano di non bombardare prima del 2013, il presidente che verrà s’impegna a garantire gli eventuali rifornimenti in volo e soprattutto le Big Blue, le più potenti delle bombe antibunker, le sole capaci di colpire i siti atomici che gli iraniani hanno scavato nelle montagne.
La guerra s’è allontanata? Bibi è tornato dall’America con un dossier arricchito delle foto satellitari che, un giorno, potrebbero mostrare al mondo la «pistola fumante»: gli ayatollah stavolta hanno fatto un errore, dice Israele, e per la prima volta un occhio elettronico avrebbe scattato da lassù immagini d’attrezzature militari che, col nucleare civile, c’entrano punto.
Per fortuna, l’autismo politico dei leader israeliani deve fare i conti con altri fattori. Uno è il parere dei loro governati, che nei sondaggi sono per la maggioranza contrari a blitz senza il consenso americano. Un altro, più cogente, è la situazione siriana: nessuno vuole aprire un fronte con l’Iran, finché la piccola Volpe di Damasco non finisce in pellicceria e le sue armi biologiche non finiscono in mani sicure. Per paura del dopo Assad, Netanyahu il temporeggiatore sta cercando un’intesa perfino col turco Erdogan, l’unico leader occidentale che detesta forse più di Obama.
Questo weekend, Bibi passeggerà inquieto nella sua villa di Cesarea, le finestrate sugli scavi, l’occhio a cascare dove fu trovata una celebre lapide col nome di Ponzio Pilato. Gli pruderanno le mani, di certo. E dovrà tenerle in tasca. Ma non vorrà passare alla storia come il premier che se le lavò.
MEDIO ORIENTE
Raid israeliani sulla Striscia di Gaza almeno 14 i palestinesi uccisi
Negli attacchi aerei sferrati a partire dal pomeriggio di ieri sarebbero morti anche il leader dei Comitati di Resistenza Popolare, Zuhir al Qaisi, e un suo collaboratore *
GAZA - E’ salito a quattordici palestinesi uccisi e altri diciannove feriti il bilancio di una serie di raid israeliani effettuati tra ieri pomeriggio e oggi sulla Striscia di Gaza. Le ultime due vittime sono due giovani che viaggiavano a bordo di una motocicletta a Khan Yunes. Una quarantina di razzi e di colpi di mortaio sono stati lanciati ieri dalla Striscia di Gaza sul sud d’Israele provocando il ferimento di quattro israeliani, dei quali uno in modo grave, secondo quanto rende noto l’esercito israeliano. Lanci sono proseguiti poi per tutta la nottata con altre quattro persone ferite, per lo più in modo leggero.
Sempre secondo fonti israeliane, negli attacchi sarebbero stati uccisi anche il leader dei Comitati di Resistenza Popolare, Zuhir al Qaisi, e il suo collaboratore, Mahmoud Hanani. I due palestinesi viaggiavano a bordo di un’auto che è stata colpita da due missili sparati da un aereo israeliano. Secondo un portavoce dell’esercito, al Qaisi stava organizzando un ampio attacco terroristico coordinato da perpetrare in Israele, vicino al confine con la Striscia di Gaza.
I Comitati di Resistenza Popolare sono responsabili del rapimento in Israele del soldato Gilad Shalit, liberato lo scorso ottobre 1 dopo cinque anni di prigionia a Gaza, in cambio della scarcerazione di migliaia di detenuti palestinesi 2.
La nuova fiammata di violenza è cominciata ieri, quando, dopo il lancio di due colpi di mortaio verso Israele, lo Stato ebraico ha risposto con il raid contro al Qaisi. L’uccisone del dirigente palestinese ha scatenato la ripresa su larga scala dei lanci di missili e colpi di mortaio contro Bèer Sheva, Ashdod, Kiryat Malachi, Netivot e Ashkelon. Attacchi ai quali le forze israeliane hanno reagito con una nuova serie di raid aerei, promettendo di fare altrettanto in futuro. Il capo dello stato maggiore dell’esercito, Benny Gantz, al termine di una riunione dei vertici militari sulla escalation in corso nella Striscia di Gaza, ha annunciato che le forze armate risponderanno con determinazione ad ogni lancio di missili contro Israele.
Da Gaza alcuni gruppi armati hanno annunciato di non sentirsi più impegnati dal tacito periodo di calma con Israele. Messaggi separati di condanna nei confronti di Israele sono giunti nel frattempo da Hamas e da un portavoce dell’Anp di Abu Mazen.
Nella mattinata, dopo diverse ore di quiete, tre razzi sono esplosi nel Neghev senza provocare vittime. Nel timore che gli attacchi possano proseguire, i responsabili alla protezione civile nel Neghev stanno valutando la possibilità di ordinare per domani la chiusura delle scuole nelle zone a rischio.
* la Repubblica, 10 marzo 2012
Iran, Netanyahu gela la Casa Bianca: "Israele si difende da sé" *
WASHINGTON - Uno degli incontri forse più decisivi fra il presidente americano Barack Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non riesce ad accorciare le distanze fra i due leader riguardo al programma nucleare iraniano. Prima del colloquio nello Studio ovale, Obama invoca l’arma della diplomazia, la necessità di attendere che le sanzioni imposte contro Teheran facciano il loro corso. Per nulla d’accordo, Netanyahu prospetta un’azione militare, e reclama il diritto di Israele a «potersi difendere da sé» poiché ritiene l’atomica degli ayatollah una minaccia alla propria esistenza.
«Una soluzione diplomatica è ancora possibile», dice Obama mentre assicura a Israele il ferreo sostegno dell’America. Questo non basta a fermare Netanyahu, convinto che se non verrà sferrato un attacco militare, presto le centrali nucleari di Teheran verranno sepolte in profondità sotto terra, irraggiungibili dalle bombe bunker-busting. Stando all’intelligence americana non esistono prove che gli ayatollah abbiano davvero deciso di armarsi dell’atomica. Su questo sfondo si rafforza la convinzione che Israele nei prossimi mesi possa agire in autonomia. Obama è il bersaglio anche dei repubblicani americani per la sua «indecisione» riguardo alla Siria: il senatore McCain chiede alla Casa Bianca di attivarsi a livello internazionale per lanciare una campagna di bombardamenti aerei sulla Siria.
* la Repubblica, 06.03.2012
Israele - Iran
La via della pace che passa dalla Palestina
di Abraham B. YeoshuaLa (La Stampa, 05.03.2012)
Ogni vero passo verso un accordo con i palestinesi farà sì che questi ultimi si uniscano alla ferma richiesta di bloccare le minacce di guerra iraniane Qualche giorno fa un giornalista televisivo olandese mi ha intervistato a proposito della questione nucleare iraniana. A quanto pare il primo ministro Netanyahu ha vietato ai politici di rilasciare interviste in merito e il giornalista olandese non ha avuto altra scelta che cercare altri candidati, forse più «intellettuali» ma privi di informazioni autorevoli e fondate. Il giornalista mi ha chiesto se ritenevo che Israele avrebbe attaccato gli impianti nucleari in Iran. Gli ho risposto che non lo sapevo. Mi ha chiesto se ritenevo fosse il caso di colpire la ricerca nucleare iraniana per impedire la produzione di una bomba atomica. Ho risposto che non lo sapevo. Ha insistito a domandare se ritenevo che l’Iran potesse usare un’eventuale bomba contro Israele. Ho risposto che non lo sapevo. Ha poi proseguito chiedendomi se ritenevo che Israele potesse accontentarsi delle sanzioni imposte dall’Occidente contro l’Iran. Ancora una volta ho risposto che non lo sapevo. A questo punto ho notato che il giornalista stava cominciando a mostrare segni di disperazione per questo suo intervistato «intellettuale» che rispondeva a ogni domanda con un «non lo so» e mi ha chiesto: «Allora mi dica cosa sa». Ho immediatamente risposto che sapevo cosa andava fatto con urgenza perché tutte le sue domande si rivelassero inutili: riprendere con energia, onestà e serietà il processo di pace con i palestinesi e arrivare a ciò che persino l’attuale governo di destra ha apertamente dichiarato essere un obiettivo politico: due Stati per due popoli. E come atto di buona volontà interrompere l’ampliamento degli insediamenti esistenti e smantellare quelli illegali. E se ciò sarà fatto gli iraniani saranno costretti ad abbandonare la loro retorica esaltata e le loro perfide minacce.
Non intendo addentrarmi nella questione della minaccia reale o immaginaria dell’Iran verso i Paesi arabi suoi vicini: l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo. Né intendo addentrarmi nella questione del prezzo del petrolio e delle sue eventuali ripercussioni. Che i musulmani, sciiti o sunniti, si sbrighino le loro beghe fra loro. E che gli Stati Uniti e l’Occidente si preoccupino da sé dei loro interessi vitali. E se ritengono che un Iran nucleare possa rappresenta una minaccia per i loro alleati, penso che abbiano a disposizione i mezzi economici o militari e abbastanza portaerei per neutralizzare questa minaccia senza mettere a repentaglio l’incolumità delle loro città e dei loro cittadini.
Una cosa però mi è chiara alla luce dell’esperienza passata e presente.
Quando lo Stato di Israele fu fondato Iran e Turchia, due Stati musulmani, lo riconobbero. Di più. I rapporti con le antiche comunità ebraiche presenti sul loro territorio si mantennero relativamente corretti e tolleranti, diversamente da quanto avvenne in altri Paesi arabi - e anche in alcuni cristiani - dove agli ebrei fu riservato un trattamento duro e umiliante. E negli anni in cui l’ostilità araba verso Israele era assoluta e inequivocabile l’Iran e la Turchia continuarono a mantenere relazioni economiche, diplomatiche, e persino militari con Israele. Anche dopo la guerra dei Sei giorni e quella del Kippur, quando questi due Paesi islamici, come altri Paesi del mondo, chiesero la creazione di uno Stato palestinese a fianco di Israele, non interruppero le relazioni diplomatiche con Israele.
Lo Stato ebraico non ha mai ucciso un soldato iraniano né l’Iran ne ha mai ucciso uno israeliano. I due Paesi non hanno una frontiera comune e non vi è alcuna controversia territoriale tra loro.
Non sono un esperto dell’Iran per cui non so se l’odio cocente che i suoi leader manifestano contro Israele provenga dal profondo del cuore o se permetta loro di dare un contenuto e uno scopo al dominio oltranzista religioso che rappresentano. Le intenzioni e dichiarazioni degli iraniani sono serie o sono soltanto slogan intesi a rafforzare l’unità nazionale? L’Iran, nonostante il regime crudele e fanatico che lo governa, non è la Corea del Nord, e questo lo si può vedere dai film profondi e complessi che produce e certamente dalla rivolta popolare avvenuta due anni fa. Anche gli iraniani sono consapevoli dell’evoluzione della situazione in Medio Oriente e della primavera araba che ha indebolito tutti gli Stati arabi.
È vero che dopo l’Olocausto occorre prendere in seria considerazione qualsiasi dichiarazione folle e irrazionale di Paesi totalitari. Non posso quindi biasimare le autorità israeliane che minacciano di bombardare gli impianti nucleari iraniani e si preparano militarmente a una tale eventualità. Ma sono sicuro che ogni vero passo verso la pace con i palestinesi farà sì che questi ultimi si uniscano alla ferma richiesta di fermare le minacce di guerra iraniane perché un eventuale conflitto fra Israele e Iran distruggerebbe ogni possibilità di indipendenza nella loro patria.
Il caso
Navi da guerra iraniane nel Mediterraneo
Un cacciatorpediniere ed un’unità ausiliaria hanno attraversato lo Stretto di Suez dirette verso i porti della Siria. Israele giudica la mossa di Teheran "una provocazione". E’ la seconda volta nel giro di pochi mesi che unità militari iraniane navigano nelle acque mediterranee *
SUEZ - Navi da guerra iraniane sono entrate nel Mediterraneo passando lo Stretto di Suez: lo annuncia il comandante della Marina della Repubblica islamica, ammiraglio Habibollah Sayyari, citato dall’agenzia ufficiale Irna.
In un ennesimo segnale di sostegno al regime di Bashar el Assad l’Iran ha inviato due navi da guerra, un cacciatorpediniere ed un’unità ausiliaria, verso le coste siriane. Una mossa giudicata "una provocazione" da Israele. Le due unità hanno attraversato il Canale di Suez, autorizzate dalla giunta militare egiziana che controlla la via d’acqua che collega il Mar Rosso al Mediterraneo. Teheran e Damasco hanno sottoscritto lo scorso anno un accordo per effettuare manovre congiunte. Le due navi militari hanno attraccato nel porto siriano di Tartus, dove sono previste attività di formazione dei militari della Marina siriana, come prevede un accordo siglato tra i due paesi un anno fa. Lo riferisce l’agenzia iraniana Mehr, spiegando che l’arrivo a Tartus, 220 km circa da Damasco, è avvenuto ieri, dopo che, il giorno precedente, il cacciatorpediniere e la nave di supporto hanno fatto ingresso nel Mediterraneo.
L’intento di Teheran è quello di mostrare la "potenza" della repubblica islamica contro Israele e a sostegno del presidente siriano, Bashar Assad. Lo ha annunciato all’Irna il capo della della Repubblica Islamica, Habibollah Sayari, ma l’invio delle navi era già noto da ieri, quando lo Stato ebraico lo aveva definito "una provocazione". Le due unità,
ha aggiunto Sayari, "hanno attraversato il Canale di Suez per la seconda volta 1dalla Rivoluzione Islamica (1979, ndr)". Lo scorso anno Teheran e Damasco sottoscrissero un accordo per effettuare manovre militari congiunte.
Le navi da guerra iraniane entrate oggi nel Mediterraneo portano un "messaggio di pace e amicizia" ai Paesi della regione, e "mostrano la potenza della Repubblica islamica": così l’ammiraglio Sayyari, capo della Marina di Teheran. Le navi potrebbero essere il cacciatorpediniere Shahid Qandi e quella di supporto Kharg, che la stampa iraniana aveva annunciato avrebbero fatto scalo nel porto saudita di Jedda.
L’operazione iraniana nel Mediterraneo interviene proprio mentre le tensioni tra l’Iran e Israele hanno raggiunto i loro livelli più alti, alimentate dai sospetti sul programma nucleare di Teheran e dai recenti attentati contro obiettivi dello stato ebraico in India e in Thailandia che Israele attribuisce proprio all’Iran.
* la Repubblica, 18 febbraio 2012
Il Washington Post svela il giudizio del capo del Pentagono Panetta. Lui No comment
“Israele attaccherà l’Iran in primavera”
Khamenei risponde: se saremo aggrediti, sarà peggio per gli Usa
di Maurizio Molinari (La Stampa, 04.02.2012)
Il capo del Pentagono Leon Panetta prevede che Israele attaccherà l’Iran fra aprile, maggio e giugno, innescando da Teheran la replica di Ali Khamenei: «Se verremo aggrediti vi saranno conseguenze negative per gli Stati Uniti».
A rivelare il pensiero di Panetta è David Ignatius. L’editorialista del Washington Post è a Bruxelles a seguito del ministro della Difesa Usa e in un suo articolo scrive: «Panetta ritiene che sia molto probabile un attacco di Israele contro l’Iran in aprile, maggio o giugno, prima che l’Iran entri in quella che gli israeliani definiscono una " zona di immunità" dove poter cominciare a costruire la bomba nucleare». Tale «zona di immunità», spiega Ignatius citando Panetta, è legata al fatto che per Israele «gli iraniani avranno presto immagazzinato sufficiente uranio arricchito a grande profondità sotterranea per poter costruire la bomba ed a quel punto solo gli Stati Uniti potranno fermarli militarmente».
Israele teme dunque di perdere la propria deterrenza militare nei confronti dell’Iran e poiché la sua strategia di sicurezza nazionale si basa, dalla fondazione nel 1948, sull’autosufficienza, l’attacco sta per avvenire. Bersagliato di domande dai reporter sull’articolo del Washington Post, Panetta ha evitato di smentirlo limitandosi a dire «non faccio commenti». Aggiungendo però che «Ignatius può scrivere ciò che vuole ma quello che penso e credo rientra in un’area che appartiene solo a me stesso». Non si può escludere che le frasi di Panetta riportate da Ignatius siano frutto della recente visita a Washington di Tamir Pardo, il capo del Mossad. A svelare i colloqui segreti avuti da Pardo è stata Dianne Feinstein, presidente della commissione Intelligence del Senato, affermando durante un’audizione sull’Iran di averlo incontrato così come ha fatto David Petraeus, capo della Cia.
Nel corso di questa audizione, avvenuta mercoledì, il direttore nazionale dell’intelligence James Clapper ha avvalorato l’avvicinamento dell’Iran all’atomica: «I progressi tecnici, soprattutto nell’arricchimento dell’uranio rafforzano la nostra valutazione che l’Iran ha le capacità scientifiche, tecniche e industriali per produrre armi nucleari, dunque la questione centrale è la sua volontà politica di farlo».
Proprio tali progressi tecnici sono stati al centro della visita in Israele di Martin Dempsey, capo degli stati maggiori congiunti, per colloqui con Ehud Barak, ministro della Difesa, sugli scenari militari relativi ad un eventuale attacco contro il programma nucleare iraniano. La maggiore preoccupazione di Washington riguarda la possibilità che Teheran reagisca lanciando attacchi, terroristici e missilistici, contro le truppe Usa dispiegate nel Golfo Persico oppure chiudendo la navigazione attraverso gli Stretti di Hormuz.
Ad avvalorare tali timori ci ha pensato ieri Alì Khamenei, il Leader Supremo della Repubblica islamica dell’Iran, affermando: «Attaccare l’Iran nuocerà all’America, in risposta alle minacce di embargo petrolifero e guerra noi abbiamo le nostre minacce per imporci al momento giusto». La terminologia, adoperata nel contesto del discorso del venerdì ai fedeli sciiti, mira a ribadire che l’Iran si sente in grado di lanciare una risposta militare se verrà attaccato. «Non ho paura di affermare che sosterremo e aiuteremo ogni nazione o gruppo che si vuole battere contro il nemico sionista», ha aggiunto Khamenei con un riferimento agli Hezbollah libanesi, il cui leader Hassan Nasrallah ha più volte affermato di disporre di un arsenale missilistico capace di colpire tutte le città israeliane, inclusa la metropoli di Tel Aviv.
Sui venti di guerra che spazzano il Medio Oriente è tornato a parlare Panetta in serata dalla base di Ramstein in Germania: «In questo momento la cosa più importante è mantenere l’unità della comunità internazionale per convincere l’Iran a non realizzare l’atomica, ma se loro faranno altrimenti noi abbiamo tutte le opzioni sul tavolo e saremo pronti a rispondere se dovremo farlo».
Propaganda alla ricerca di un nuovo Saddam
L’attacco all’Iran? Serve una bufala
di Robert Fisk (Il Fatto, 05.02.2012)
Beirut. Nel caso in cui Israele attaccase l’Iran nel corso del 2012 si rivelerrebbe - insieme agli americani - più folle di quanto pensano i suoi nemici. Non v’è dubbio che Mahmoud Ahmadinejad è fuori di testa, ma altrettanto suonato è Avigdor Lieberman, sedicente ministro degli Esteri di Israele. Forse i due vogliono scambiarsi un favore. Ma per quale dannata ragione gli israeliani vogliono bombardare l’Iran con l’effetto di scatenare la rabbia dei libanesi di Hezbollah e dei palestinesi di Hamas? Per non parlare della Siria, ovviamente. E una simile avventata iniziativa finirebbe per risucchiare tutto l’Occidente - Europa e Stati Uniti - nel-l’ennesimo, inutile conflitto.
Sarà perché vivo in Medio Oriente da 36 anni, ma la puzza di bruciato la sento subito. Leon Panetta, mica un passante ma il ministro della Difesa degli Stati Uniti, ci avverte che Israele potrebbe anche decidere di attaccare. E lo stesso fa la Cnn - nessuno puzza di bruciato più di questa emittente!! - e si aggiunge al coro anche il vecchio David Ignatius, che non fa il corrispondente in Medio Oriente da dieci o venti anni, ma continua ad essere preso sul serio quando, recitando il solito copione, parla delle sue ”fonti israeliane”.
Mi aspettavo tutto questo quando la settimana passata ho dato una scorsa al New York Times Magazine e ho letto un pezzo tutto preoccupato di un ”analista” israeliano (sto ancora cercando di capire cosa diavolo è un ”analista”), un certo Ronen Bergman, del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth.
Ecco le sue parole che sembrano il solito ciarpame propagandistico: “Dopo aver parlato con molti (sic) leader e capi (ancora sic) di primo piano dei servizi segreti e delle forze armate israeliani, sono giunto alla conclusione che Israele attaccherà l’Iran prima della fine del 2012. Forse utilizzando la piccola finestra ancora disponibile, gli Stati Uniti decideranno di intervenire, ma a sentire gli israeliani le speranze di un intervento militare americano sono poche. C’è invece quel caratteristico cocktail israeliano di paura e tenacia, di coraggiosa fermezza, giusta o sbagliata che sia, di convinzione che in ultima analisi solo gli israeliani possono difendersi”.
Tanto per cominciare, un giornalista che prevede un attacco di Israele contro l’Iran sta mettendo la testa su un ceppo pronto a farsela mozzare. Comunque sia qualunque giornalista con un po’ di sale in zucca - e in Israele sono moltissimi i bravi giornalisti - si porrebbe una domanda: per chi lavoro? Per il mio giornale? O per il mio governo?
LEON Panetta, sì proprio quello che mentì alle forze armate americane in Iraq affermando che si trovavano in quel Paese a causa degli attentati dell’11 settembre, dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che sta scherzando col fuoco. E lo stesso dicasi per la Cnn. Ignatius lasciamolo da parte. Ma di cosa stiamo parlando? A nove anni dall’invasione dell’Iraq causata dal fatto che Saddam Hussein aveva una arsenale di “armi di distruzione di amassa” (e non era così), ci apprestiamo a battere le mani a Israele che bombarda l’Iran con il medesimo ancora più indimostrabile pretesto delle “armi di distruzione di massa”.
Non ho il benché minimo dubbio sul fatto che a pochi secondi dalla notizia, i grotteschi individui che scrivono i discorsi a Barack Obama sarebbero già all’opera per trovare le parole giuste per giustificare l’attacco israeliano. Se Obama, al solo scopo di essere rieletto, può gettare alle ortiche la libertà dei palestinesi e il sogno di uno Stato palestinese indipendente, ovviamente può appoggiare l’aggressione isrealiana nella speranza di conservare il posto alla Casa Bianca.
Tuttavia se i missili iraniani cominceranno a colpire le navi da guerra americane nel Golfo Persico - per non parlare delle basi Usa in Afghanistan - il lavoro di quelli che scrivono i discorsi ad Obama potrebbe farsi ancora più difficile. Ma per piacere lasciamo fuori da questa storia britannici e francesi.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Ultimatum Usa all’Iran, se chiudete risponderemo
Nyt, aperto canale comunicazione Obama-Khamenei *
Se l’Iran deciderà di chiudere lo Stretto di Hormuz l’America risponderà. Assomiglia molto a un ultimatum il messaggio che da Washington è giunto fino all’Ayatollah Khamenei col quale - afferma il New York Times - l’amministrazione Obama ha stabilito un contatto attraverso un canale di comunicazione segreto e diretto. Più volte minacciata dalle autorità iraniane, l’eventuale chiusura dello stretto - dove transita il 40% del petrolio trasportato via mare - per gli Stati Uniti è considerata una ’linea rossa’ invalicabile: se qualcuno decidesse di valicarla - é l’avvertimento fatto giungere direttamente al leader supremo iraniano - questo provocherebbe una risposta certa degli Stati Uniti. La novità sta proprio nel contatto diretto tra la Casa Bianca e le massime autorità iraniane, perché il messaggio del presidente americano Barack Obama giunga a Teheran forte e chiaro. E’ il messaggio che già il numero uno del Pentagono, Leon Panetta, ha lanciato parlando ieri in una base militare in Texas: gli Stati Uniti - ha detto - non tollereranno la chiusura dello stretto, che significherebbe interrompere la via di comunicazione tra il Golfo Persico e il Golfo dell’Oman, dove ogni giorno transitano 16 milioni di barili di petrolio, circa un quinto del commercio mondiale di petrolio giornaliero.
E’ il generale Martin E. Dempsey, uno dei più autorevoli vertici militari negli Usa, a spiegare quale potrebbe essere la risposta americana: per riaprire lo stretto - ha spiegato - sarebbe inevitabile ricorrere ad azioni che posono essere compiute solo col ricorso a dragamine, navi scorta da guerra e, se necessario, bombardamenti aerei.
La decisione di stabilire un canale di comunicazione diretto con il leader supremo in Iran - spiega quindi il New York Times - è scaturita dalla necessità dell’amministrazione Obama di sottolineare "privatamente", al di là delle dichiarazioni pubbliche, la profonda preoccupazione dell’America per un’escalation delle tensioni nell’area. Per i vertici della marina Usa, infatti, la principale paura è quella che un episodio possa scatenare lo scontro, che un ufficiale navale della Guarda Rivoluzionaria troppo zelante possa provocare una pericolosissima crisi, anche senza un vero e proprio via libera da Tehran. A Washington, infatti, sono convinti che le autorità iraniane - al di là della propaganda - non intendono dare seguito alle loro minacce. Perché bloccare lo stretto di Hormuz significherebbe innanzitutto bloccare le esportazioni di petrolio iraniane: cosa per Teheran equivarebbe a un vero e proprio "suicidio economico".
Siria e Iran. Appello di intellettuali per fermare i preparativi di guerra
Fermare i preparativi di guerra! Mettere fine all’embargo! Solidarietà con il popolo iraniano e siriano!
di Domenico Losurdo, Gianni Vattimo, Manlio Dinucci, Vladimiro Giacché, Federico Martino *
Decine di migliaia di morti, una popolazione traumatizzata, un’infrastruttura largamente distrutta e uno Stato disintegrato: questo il risultato della guerra condotta dagli Usa e dalla Nato per poter saccheggiare la ricchezza della Libia e ricolonizzare questo paese. Ora preparano apertamente la guerra contro l’Iran e la Siria, due paesi strategicamente importanti e ricchi di materie prime che perseguono una politica indipendente, senza sottomettersi al loro diktat.
Un attacco della Nato contro la Siria o l’Iran potrebbe provocare un diretto confronto con la Russia e la Cina , con conseguenze inimmaginabili. Con continue minacce di guerra, con lo schieramento di forze militari ai confini dell’Iran e della Siria, nonché con azioni terroristiche e di sabotaggio da parte di ’unità speciali’ infiltrate, gli Usa e altri Stati della Nato impongono uno stato d’eccezione ai due paesi al fine di fiaccarli.
Gli USA e l’UE cercano in modo cinico e disumano di paralizzare puntualmente con l’embargo il commercio estero e le transazioni finanziarie di questi paesi. In modo deliberato vogliono precipitare l’economia dell’Iran e della Siria in una grave crisi, aumentare il numero dei disoccupati e peggiorare drasticamente la situazione degli approvvigionamenti della loro popolazione. Al fine di procurarsi un pretesto per l’intervento militare da tempo pianificato cercano di acutizzare i conflitti etnici e sociali interni e di provocare una guerra civile. A questa politica dell’embargo e delle minacce di guerra contro l’Iran e la Siria collaborano in misura notevole l’Unione europea e il governo italiano
Facciamo appello a tutti i cittadini, alle chiese, ai partiti, ai sindacati, al movimento pacifista perché si oppongano energicamente a questa politica di guerra.
Chiediamo al governo italiano:
di revocare senza condizioni e immediatamente le misure di embargo contro l’Iran e la Siria
di chiarire che non parteciperà in nessun modo a una guerra contro questi Stati e che non consentirà l’uso di siti italiani per un’aggressione da parte degli Usa e della Nato
di impegnarsi a livello internazionale per porre fine alla politica dei ricatti e delle minacce di guerra contro l’Iran e la Siria.
Il popolo iraniano e siriano hanno il diritto a decidere da soli e in modo sovrano l’organizzazione del loro ordinamento politico e sociale. Il mantenimento della pace richiede che venga rispettato rigorosamente il principio della non-ingerenza negli affari interni di altri Stati.
Domenico Losurdo
Gianni Vattimo
Manlio Dinucci
Vladimiro Giacché
Federico Martino
I fuochi di Teheran spingono Israele a un passo dalla guerra
L’Iran lancia ancora missili nel Golfo Persico: questa volta a lungo raggio
Fonti di Tel Aviv: «L’intervento? Non è questione di se, ma di quando»
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 03.01.2012)
Quei missili possono raggiungere i Paesi del Golfo alleati degli americani e le unità navali in pattugliamento nello Stretto di Hormuz dove transita un terzo dei rifornimenti mondiali di petrolio. Quei missili a lungo raggio sono la nuova sfida lanciata da Teheran a Usa e Israele. Dopo aver lanciato l’altro ieri un missile a medio raggio, implicita risposta alle ulteriori sanzioni adottate dagli Stati Uniti contro il suo controverso programma nucleare, l’Iran ha effettuato ieri «con successo» il lancio di prova di un missile balistico a lungo raggio nel corso delle esercitazioni navali che sta compiendo nel Golfo Persico.
«Abbiamo lanciato un missile a lunga gittata costa-mare denominato Qader (la cui precedente versione aveva un raggio d’azione di 200 chilometri), che è riuscito a distruggere bersagli predeterminati nel Golfo», scrive l’agenzia iraniana Irna citando il vice comandante della Marina Mahmoud Mousavi. Poche ore prima l’ammiraglio Mousavi aveva annunciato il lancio di prova del Qader (Capace) e di un altro missile balistico a lungo raggio, il Nour. Il collaudo era già stato annunciato e poi smentito due giorni fa. Teheran aveva preannunciato un nuovo doppio test missilistico nel Golfo Persico per ieri. «Il missile "ideato e costruito" in Iran ha spiegato ancora il portavoce delle manovre navali è dotato della più recente tecnologia volta a colpire obiettivi “invisibili” e sistemi intelligenti che provano a interromperne la traiettoria».
Le manovre navali - nome in codice «Velayat 90» si concluderanno oggi, ha aggiunto Mousavi, con un’esercitazione destinata a testare la capacità iraniana di chiudere lo Stretto: «Gran parte delle nostre unità navali si posizionerà in modo tale da rendere impossibile, se Teheran lo riterrà necessario, il transito a qualunque nave». Gli Usa hanno già definito «irrazionale» un’ipotesi di questo genere la cui attuazione, hanno minacciato, «non sarà tollerata». La seconda sfida iraniana è stata resa nota dall’Agenzia iraniana dell’energia atomica che ha comunicato di aver «introdotto nel cuore del reattore di ricerca nucleare di Teheran per verificarne il buon funzionamento» una barra di combustibile nucleare per la prima volta prodotto in Iran. Il test «ha avuto successo».
«Il punto non è più “se” ma “quando” partirà l’attacco. Il conto alla rovescia è iniziato...». La fonte israeliana è di quelle che pesano negli ambienti politici e militari dello Stato ebraico. Con la garanzia dell’anonimato, a l’Unità rivela anche che «gli Usa sono entrati nell’ottica di idee che occorre coordinare con noi tempi, modalità e “paletti” di una operazione che ormai si ritiene inevitabile». 2012: l’anno della resa dei conti con Teheran. I piani di attacco sono già da tempo definiti. Si tratta «solo» di avere la luce verde. Una scelta politica che, rimarca la fonte a Tel Aviv, «Israele intende condividere oltre che con gli Usa, con la Nato, la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia, l’Olanda che dovrebbero partecipare, direttamente o indirettamente all’operazione israeliana».
Più interlocutorie sono le prese di posizione ufficiali: «Abbiamo letto le notizie delle esercitazioni operate dagli iraniani nello Stretto di Hormuz, compreso il lancio di alcuni missili. A mio modo di vedere - dichiara il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak ciò riflette innanzitutto le difficoltà dell’Iran per l’inasprimento delle sanzioni economiche, comprese le recenti decisioni applicate sull’export di petrolio e la possibilità di applicare sanzioni contro la banca centrale. Dubito - aggiunge Barak che l’Iran possa permettersi di considerare seriamente di chiudere lo Stretto di Hormuz, anche in uno scenario di sanzioni più aspre. Con una mossa del genere, Teheran si metterebbe contro l’intero pianeta».
Fuori dall’ufficialità, Israele si prepara all’attacco. Con l’attivo assenso di Washington. «Se dobbiamo farlo lo faremo», si è lasciato andare, con i suoi più stretti collaboratori, il segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta. In attesa, l’industria militare americana fa affari nel Golfo Persico. Primo colpo: Boeing ha concluso un’intesa con il governo saudita per la vendita di 84 cacciabombardieri F-15SA, un contratto del valore tra 29 e 30 miliardi di dollari. La notizia, riportata dal blog dell’autorevole rivista di settore Flight International, è stata confermata alle agenzie di stampa Usa da fonti del Dipartimento di Stato. L’affare ha un importante significato politico perché gli F-15 sono in grado di attaccare l’Iran. Secondo colpo: gli Usa hanno venduto agli Emirati un sistema anti-missile per 3,5 miliardi di dollari. Ed è solo l’inizio.
MEDIO ORIENTE
Iran, lanciati missili a lungo raggio dal Golfo nuova sfida all’Occidente
L’annuncio del vice comandante della marina iraniana Mousavi: "Pronti i Qader e Nour". Poi il lancio. Tensione altissima dopo le minacce dei giorni scorsi su una possibile chiusura dello stretto di Hormuz *
TEHERAN -Prima la minaccia, poi la smentita, poi di nuovo l’annuncio e infine il lancio. "Siamo pronti a testare due missili a lunga gittata", aveva detto il vice comandante della Marina Mahmoud Mousavi: "Oggi spareremo i razzi a lunga gittata Qader e Nour". E stavolta, invece di arrivare la smentita, è arrivata la notizia. I due missili sono stati effettivamente lanciati.
Certo, sempre di esercitazioni si parla. Manovre che la marina iraniana sta svolgendo da dieci giorni nel Golfo Persico e che fanno parte la guerra mediatica del regime di Ahmadinejad contro le sanzioni dell’Occidente. Solo ieri, a poche ore dalla decisione di Obama di varare nuove sanzioni alla Banca centrale della Repubblica islamica, l’esercito di Teheran ha sperimentato un dispositivo ’superficie-aria’ 1.
Venerdì scorso il lancio dei missili 2 Qader e Nour era stato annunciato e poi smentito. Ma non sono questi i modelli che preoccupano l’Occidente: il sistema missilistica iraniano comprende anche gli Shahab-3, in grado di colpire sia Israele sia le basi statunitensi in Medio Oriente.
Rimane quindi altissima la tensione nell’area, dopo dieci giorni di esercitazioni e la minaccia - con durissima reazione da parte degli Usa 3 - di bloccare lo stretto di Hormuz, se la comunità internazionale dovesse decidere un embargo petrolifero come sanzione contro i piani nucleari del regime. Lo stretto è uno snodo chiave per il traffico di petrolio: da qui passa il 40% del greggio trasportato dalle petroliere.
* la Repubblica, 02 gennaio 2012
La bufala dei missili iraniani a "lungo raggio"
di Alessandro Marescotti *
Alla redazione di Rainews
Vorrei segnalare che la notizia...
Iran, testato con successo missile a lungo raggio
http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=160191
...contiene una evidente inesattezza. Parlare di missili a "lungo raggio" per un missile terra-aria che ha una gittata di 200 chilometri è completamente fuori dai sistemi di classificazione militare che definiscono a corto raggio missili di gittata fino a 300 chilometri, come è ad esempio per gli SCUD, si veda:
http://it.wikipedia.org/wiki/SS-1_Scud
Per una definizione dei missili e della loro gittata si veda la Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/missile/ Solamente se ci si riferisce ad una classificazione della gittata dei missili aria/aria dei caccia da intercettazione si può parlare di lunga gittata. Ma per questo caso è assolutamente confondente per il lettore. Non è escluso che sia stato lo stesso regime iraniano a definire "di lunga gittata" il suo missile, ma sarebbe curioso che i media occidentali usassero la stessa informazione manipolata "di regime" per confondere le idee all’opinione pubblica. In ogni caso se l’informazione non veritiera proviene da fonte iraniana dovrebbe essere virgolettata la frase e attribuita alla fonte.
Affermare poi, come è scritto sull’articolo, che questi missili iraniani "sono in grado di colpire le basi Usa" senza specificare che ci si riferisce alla base Usa della Quinta Flotta in Qatar non è un sistema di fare informazione che offra al lettore tutti gli elementi per comprendere ciò che legge. Semmai ci si dovrebbe chiedere come mai gli Usa abbiano deciso di spostare una propria base navale così vicino all’Iran per poi lamentarsi di sentirsi "minacciati". La realtà si capovolge!
Come contribuente del servizio pubblico chiederei che voi giornalisti verifichiate le informazioni "nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza possibile", così come prevede la Carta dei Doveri del Giornalista (sottoscritta dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana l’8 luglio 1993).
Cordali saluti
Alessandro Marescotti
www.peacelink.it
* http://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/noguerra/NotizieCommenti_1325519482.htm
IRAN Drone Usa abbattuto nell’est del Paese Teheran: "Daremo risposta fuori da confini" La tv iraniana ha diffuso la notizia di un aereo senza pilota statunitense abbattuto dall’esercito. Il veivolo è stato confiscato dalle forze armate. La Casa Bianca non commenta. Isaf: "Forse aereo Usa disperso durante una missione nell’ovest dell’Afghanistan" *
TEHERAN - L’esercito iraniano ha abbattuto un aereo senza pilota statunitense, in volo di ricognizione sul settore orientale dell’Iran: lo ha riferito una fonte militare anonima alla tv di Stato iraniana, Al Alam. "L’esercito ha abbattuto un drone americano Rq-170 che si era introdotto in Iran orientale", ha riferito il network in lingua araba, citando la fonte anonima. "L’aereo spia, che è stato abbattuto con pochi danni, è stato confiscato dalle forze armate iraniane". Ma una fonte ufficiale statunitense, che ha chiesto di mantenere l’anonimato, ha detto che ’’Non c’è alcuna indicazione al momento a conferma che il drone sia stato abbattuto dagli iraniani’’.
Secondo quanto riferito dai media iraniani, "potrebbe essere" l’aereo senza pilota statunitense di cui si erano perse le tracce durante una missione nell’ovest dell’Afghanistan, riferisce un comunicato della Nato in Afghanistan (Isaf). "Gli operatori del drone hanno perso il controllo dell’apparecchio e stanno cercando di capire che cosa sia successo", sottolinea la nota. ’’Gli operatori dell’Uav (velivolo di ricognizione pilotato a distanza) - dice l’Isaf - ne hanno perso il suo controllo alla fine della settimana e stavano cercando di determinarne la localizzazione’’.
L’Iran ha annunciato che alla violazione del proprio spazio aereo da parte del drone darà una risposta al di fuori dei suoi confini nazionali, lo scrive l’agenzia Fars.
La Casa Bianca per ora non reagisce alle informazioni in arrivo dall’Iran. Il portavoce Tommy Vietor ha affermato di non avere al momento commenti sulla vicenda.
* la Repubblica, 04 dicembre 2011
IRAN
Teheran, assalto all’ambasciata Gb
liberi i sei ostaggi, edifici in fiamme
Le proteste dopo la decisione di Londra di sanzionare il Paese sul programma atomico. Le forze di sicurezza non hanno impedito subito l’attacco, i dipendenti scappano dal retro. Arresti tra i manifestanti. L’ambasciatore britannico sarà espulso entro due settimane. Il governo britannico: "Indignati per l’attacco". Dura condanna da Usa, Germania e Ue *
TEHERAN - Decine di manifestanti hanno fatto irruzione nella sede dell’ambasciata britannica della capitale iraniana, e hanno tolto dall’edificio la bandiera della Gran Bretagna, sostituendola con quella dell’Iran. Nell’attacco, che ha interessato anche un altro complesso di proprietà del Regno Unito, sono stati anche incendiati documenti sottratti agli uffici. Gli occupanti avevano fatto sapere che avrebbero lasciato i due complessi solo quando l’ambasciatore britannico fosse andato via. Invece, in serata, la manifestazione degli studenti si è conclusa e i manifestanti hanno lasciato le due proprietà. E’ rimasto solo un gruppo di studenti che, secondo l’agenzia ufficiale Irna, ha fatto sapere che non metterà fine al sit-in finché non sarà la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, a chiederlo. Durante la protesta Londra aveva avvertito i cittadini britannici che si trovano in Iran di "rimanere in casa e mantenere un basso profilo".
L’ambasciata oggi ha subito due assalti, e dopo il secondo si sono registrati scontri tra la polizia e i manifestanti. Uno studente è rimasto ferito in modo grave, mentre altri manifestanti e alcuni poliziotti hanno riportato ferite leggere negli scontri. L’agenzia semi-ufficiale iraniana Fars ha riferito che la polizia ha usato gas lacrimogeni, mentre gli studenti hanno lanciato contro la sede diplomatica molotov e pietre. Sempre secondo la Fars, le forze di sicurezza iraniane hanno eseguito diversi arresti durante gli incidenti e i dimostranti arrestati sono stati trasferiti in alcune stazioni di polizia nella capitale.
Teheran ha deplorato l’attacco e in un comunicato del ministero degli Esteri ha dichiarato di essere impegnata a garantire la sicurezza dei diplomatici. In serata gli assalti sono stati argomento di discussione dei membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che stanno cercando di arrivare alla stesura di un comunicato che condanni l’accaduto e chieda alle autorità di Teheran di proteggere i diplomatici stranieri, come previsto dal diritto internazionale.
L’ASSALTO - LE IMMAGINI 1 - VIDEO 2
Liberi i sei ostaggi. Oltre che nell’ambasciata, centinaia di studenti sono entrati nel parco Qolhak di proprietà britannica a nord della città, e hanno sottratto documenti "segreti" e collegati ad attività di "spionaggio". Qui gli studenti hanno preso in ostaggio almeno sei dipendenti della struttura, successivamente liberati dalle forze dell’ordine dopo gli scontri del pomeriggio. In precedenza l’agenzia Mehr aveva riportato la notizia del sequestro, senza specificare di quale nazionalità fossero gli ostaggi. La stessa agenzia aveva poi cancellato la notizia dal suo sito web senza dare spiegazioni. Nessun altro mezzo di informazione iraniano aveva fatto cenno all’episodio. ’’Ci troviamo davanti a una situazione fluida, i dettagli stanno ancora emergendo. Stiamo raccogliendo con urgenza informazioni sul nostro staff a Teheran e i loro collaboratori’’, ha detto un portavoce del ministero degli Esteri britannico a proposito del ’giallo’ dei sei dipendenti.
"Via quando l’ambasciatore lascerà". Gli studenti penetrati nell’ambasciata britannica avevano posto un lucchetto e una catena all’ingresso, con un gesto simbolico per indicare la volontà di chiudere la sede diplomatica, e avevano fatto sapere che non se ne sarebbero andati "fin quando l’ambasciatore britannico in Iran non lascerà il Paese". La tv di stato iraniana aveva riportato una versione differente, ovvero che i manifestanti non sarebbero andati via prima dell’espulsione dell’ambasciatore e la fine alla politiche "ostili" della Gran Bretagna.
L’assalto all’ambasciata. I manifestanti, che hanno protestano contro le sanzioni imposte da Londra all’Iran 3 a causa del suo controverso programma nucleare, hanno anche infranto dei vetri a colpi di pietre e bruciato due bandiere, una britannica e una israeliana. A penetrare per primi nel complesso dell’ambasciata sono stati alcuni studenti che hanno scavalcato il muro di cinta, aprendo poi la porta agli altri. Qualcuno è riuscito a entrare una seconda volta dopo il primo sgombero e all’interno si sono scontrati con la polizia.
Le forze di sicurezza in tenuta antisommossa che proteggevano l’ambasciata, non sono però intervenute subito per impedire l’attacco, che è avvenuto dopo che centinaia di manifestanti si erano radunati davanti alla sede diplomatica chiedendo l’espulsione "immediata" dell’ambasciatore. La polizia dopo l’iniziale mancanza di reazione, ha poi cercato di cacciare gli intrusi.
Dall’estero dura condanna all’attacco. Non si sono fatte antendere le reazioni delle cancellerie europee e statunitense. Per prima naturalmente la Gran Bretagna si è detta "Indignata per l’attacco". Un portavoce del Foreign Office ha parlato di azione "del tutto inaccettabile e da condannare senza mezze misure", sottolineando che vengono esercitate pressioni sul governo iraniano affinché "agisca con urgenza per riportare la situazione sotto controllo". Due giorni fa il Parlamento iraniano ha votato una legge che riduce le relazioni diplomatiche a livello di incaricati d’affari, e prevede l’espulsione dell’ambasciatore britannico nel giro di due settimane. Anche questa decisione è stata presa in risposta alle nuove sanzioni economiche contro l’Iran decise da Londra, insieme con Usa e Canada. I tre Paesi hanno scelto questa opzione dopo la pubblicazione di un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica 4 secondo il quale Teheran lavora dal 2003 per fabbricare armamenti nucleari.
Dura anche la reazione di Washington, che ha condannato "nella maniera più assoluta" l’attacco e ha sollecitato l’Iran a perseguire i responsabili. Il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha rimarcato che gli Stati Uniti, "sono a fianco degli alleati in questi momenti difficili".
Il capo della diplomazia della Ue, Catherine Ashton, ha condannato "l’incursione totalmente inaccettabile" all’ambasciata britannica a Tehran. In un comunicato, ha chiesto alle autorità iraniane di rispettare "immediatamente i suoi obblighi internazionali", in particolare quelli relativi alla protezione del personale diplomatico e delle ambasciate.
* la Repubblica, 29 novembre 2011 (ripresa parziale)
Contro la guerra PAROLA D’ORDINE : DISOBBEDIENZA! Lettera al signor Prefetto di Cagliari
di Antonio Repetto *
Antonio Repetto è lo storico militante ambientalista e antimilitarista carlofortino (Sardegna) che lo scorso 23 ottobre 2011, insieme ad altri militanti antimilitaristi sardi, ha piantato un bandiera della pace e lasciato dei cartelloni ("RADAR STOP", "SPESE MILITARI STOP - PIU’ LAVORO, PIU’ OSPEDALI, PIU’ SCUOLE") nella zona di Capo Sandalo (Carloforte), dove è prevista l’installazione di un radar militare (per maggiori info vedi: http://noradarcaposperone.blogspot.com/). Con il presente comunicato egli continua la sua azione nonviolenta contro la nuova avventura militare contro l’Iran che, ove mai dovesse realizzarsi, avrà conseguenze catastrofiche per l’intera umanità. *
Al sig. Prefetto di Cagliari
e, p.c., Organi di stampa
Sig. Prefetto,
le invio (lo trova sotto), il mio comunicato stampa, per informarla che alla prima occasione entrerò dentro un sito o una base militare, dove collocherò la bandiera per la pace, per protestare contro l’imminente azione di guerra che Stati uniti, Israele e Gran Bretagna, stanno per compiere nei confronti dell’Iran. L’Iran è una dittatura, ma non è questo il modo di risolvere il problema. D’altronde, anche Israele ha la bomba atomica! Un’azione di questo tipo rischia di fatto di scatenare un conflitto mondiale.
In pratica, mi sto autodenunciando.
La mia coscienza di cittadino, l’Italia sta violando per l’ennesima volta l’Articolo 11 della Costituzione, e di cristiano, mi impone, di nuovo, di disobbedire.
Distinti saluti,
Antonio Repetto
Carloforte (CI)
PAROLA D’ORDINE : DISOBBEDIENZA!
La situazione è molto grave: Israele, Inghilterra, Sati uniti, vogliono bombardare, è solo questione di tempo, i siti nucleari iraniani. Dalle base aerea della Nato di Decimomannu, in Sardegna, vicino a Cagliari, partiranno, o faranno tappa, gli aerei, anche israeliani, che colpiranno l’Iran.
Invito tutte le persone di buona volontà a mobilitarsi, in maniera pacifica e nonviolenta, per dire NO a questa folle avventura guerrafondaia che rischia di innescare una catastrofica reazione a catena, dagli esiti nefasti, in tutto il Medio Oriente con serie conseguenze per la pace nel mondo!
Conseguentemente invito tutti a violare, per protesta, le basi militari di tutta Italia, collocando al loro interno la bandiera della pace.
Come ben sapete, poco tempo fa, ho violato la zona militare a Capo Sandalo, issando la bandiera della pace, insieme ad altri pacifisti, per protestare contro l’installazione dei radar della Guardia Costiera nell’isola di San Pietro, dove io risiedo. Sono stato denunciato, ma la mia coscienza di cittadino e di cristiano mi impone di continuare a disobbedire!
Consapevole di stare invitando le persone ad addentrarsi nelle zone militari, anch’io tornerò alla prima occasione a farlo: mi autodenuncio per la seconda volta!
Milioni di persone, soprattutto bambini, muoiono di fame in tutto il pianeta!
Basta con le spese militari e le guerre!
Più cibo, più lavoro, più ospedali, più ricerca scientifica, più scuole!
La nostra parola d’ordine deve essere: disobbedienza civile nonviolenta!
Voglio citare simbolicamente, per concludere, la "preghiera semplice" di San Francesco di Assisi, il frate simbolo della pace universale, molto caro a tutta l’umanità.
Antonello Repetto - Aderente a Pax Christi - Movimento internazionale per la pace
O Signore, fa’ di me uno strumento della tua Pace:
Dove è odio, fa’ ch’io porti l’Amore.
Dove è offesa, ch’io porti il Perdono.
Dove è discordia, ch’io porti l’Unione.
Dove è dubbio, ch’io porti la Fede.
Dove è errore, ch’io porti la Verità.
Dove è disperazione, ch’io porti la Speranza.
Dove è tristezza, ch’io porti la Gioia.
Dove sono le tenebre, ch’io porti la Luce.
O Maestro, fa’ ch’io non cerchi tanto:
Essere consolato, quanto consolare.
Essere compreso, quanto comprendere.
Essere amato, quanto amare.
Poiché sì è:
Dando, che si riceve;
Perdonando che si è perdonati;
Morendo, che si risuscita a Vita Eterna.
Iran, la guerra del Mossad è già iniziata
Omicidi mirati e sabotaggi per fermare i test atomici. "Israele dietro l’attacco ai pasdaran"
Dal 2007 ad oggi uccisi scienziati e messi fuori uso i sistemi informatici dei siti nucleari
di Fabio Scuto (la Repubblica, 15.11.2011)
GERUSALEMME. Sanzioni economiche, crediti internazionali bloccati ma anche sabotaggi, attentati, omicidi, mirati, virus informatici. Quando si dice che tutte le opzioni per fermare la proliferazione nucleare iraniana restano sul tavolo si parla di questo. Se un esercito di diplomatici è al lavoro per mettere la comunità internazionale unita di fronte alla minaccia atomica degli ayatollah - con la Russia e la Cina sempre contrarie a ogni misura di contenimento - un esercito "di ombre" è in attività per rallentare in ogni modo i progressi nell’arricchimento dell’uranio ormai chiaramente orientato verso l’uso militare e impedire che l’Iran si doti anche di missili balistici in grado "di trasportare" la bomba verso obiettivi lontani come Riad o Tel Aviv.
Ieri i Paesi europei si dicono pronti a rafforzare le loro sanzioni contro l’Iran - ieri una decisione di Bruxelles in merito è slittata al 1 dicembre ma restano però divisi sulla opportunità di un’azione militare. Se la Francia giudica un intervento militare «un danno irreparabile», la Gran Bretagna per mantenere forte la pressione internazionale sostiene che «tutte le opzioni sul tavolo», posizione condivisa anche dagli Stati Uniti. In Israele, dove la minaccia nucleare iraniana è particolarmente avvertita, la leadership è convinta che solo l’opzione militare possa fermare, o rallentare, quel programma nucleare. Siamo più vicini a un punto di non ritorno «di quanto la gente non pensi», l’ultimo monito attribuito al premier Benjamin Netanyahu. Per questo la "macchina della guerra" israeliana è pronta e i piani di un attacco aereo e missilistico vengono aggiornati ogni 36 ore.
Ma intanto l’intelligence, il "mondo delle ombre", non sta con le mani in mano. Ci sarebbe la mano del Mossad, il servizio segreto israeliano, dietro l’esplosione di sabato nella base missilistica iraniana che ha provocato 17 morti. Nell’impianto di Bigdaneh c’erano i missili Shahab, quelli su cui potrebbe essere montata una testata nucleare. Un attacco al "cuore del nemico" nel quale è stato ucciso fra gli altri il "padre" del sistema balistico iraniano, un colpo perfetto, che solo un alto livello di penetrazione nel territorio nemico può dare. Nell’esplosione è morto il generale di divisione Hassan Moghadam, fondatore dell’artiglieria e delle forze balistiche iraniane. Una figura di primo piano del "programma", alle sue esequie ieri a Teheran c’era anche la Guida suprema della Rivoluzione Ali Khamenei.
«Non bisogna credere agli iraniani che dicono sia stato un incidente, c’è Israele dietro l’attacco di sabato», afferma una fonte confidenziale di un servizio di intelligence occidentale del settimanale Time, aggiungendo che «questo non sarà certo l’ultimo atto di sabotaggio per impedire agli iraniani di dotarsi di armi nucleari». «Ci sono altre pallottole di riserva», il virus informatico Stuxnet, che quest’anno è riuscito a bloccare per mesi i computer degli impianti nucleari iraniani, per esempio è il frutto di una collaborazione fra Mossad e Cia.
Interpellato ieri su un coinvolgimento israeliano nell’attentato alla base iraniana, il ministro della Difesa Ehud Barak ha replicato con un sorriso enigmatico e una sola frase: «Certo ce ne vorrebbero di più». In ogni caso incidenti, attentati, uccisioni di scienziati si sono moltiplicati negli ultimi quattro anni. Il primo caso nel novembre del 2007 con una esplosione in una base missilistica a sud di Teheran con decine di morti. L’ultimo nel giugno di quest’anno: un aereo che trasportava i tecnici russi alla centrale atomica di Busher si è schiantato al suolo, fra le vittime 6 importanti scienziati. Fatalità? Un caso? A gennaio dell’anno scorso a Teheran con una moto-bomba è stato assassinato Massud Ali-Mohammad fisico nucleare di grande importanza lo scorso novembre è toccato a Majid Shahriari e in luglio a Daryush Rezaei, altri due scienziati impegnati nel programma atomico. Tre conferme che "un esercito di ombre" è al lavoro per fermare con ogni mezzo la corsa iraniana, forse in maniera più efficace di quanto sarebbe un attacco aereo e missilistico contro le basi iraniane che sconvolgerebbe completamente la regione. Perché l’unica certezza che abbiamo è che non appena la prima bomba colpirà l’Iran, il Medio Oriente che abbiamo conosciuto finora si dissolverà.
NUCLEARE
Iran,Gb non esclude intervento militare
ma la Germania frena: "Siamo contrari"
Nuove prese di posizione sul programma atomico di Teheran. Per la Russia, si è "esaurita la via delle sanzioni". Obama dice che "tutte le opzioni sono sul campo", anche se sarà privilegiata la democrazia" *
ROMA - Non è ancora un’escalation, ma negli ultimi giorni la tensione per la corsa verso il nucleare dell’Iran è cresciuta moltissimo. La Gran Bretagna è esplicita: "Non escludiamo l’intervento militare".Barack Obama dice che "nessuna opzione è esclusa" anche se, garantisce, "la via privilegiata è la diplomazia". Più cauta la Germania: "Siamo contrari a considerare l’opzione militare in Iran" dice il capo della diplomazia tedesca Guido Westerwelle. Disco rosso dalla Russia: "La strada della sanzioni è esaurita, è in atto una campagna orchestrata contro il programma nucleare iraniano per alimentare la tensione".
Durante la conferenza stampa di chiusura dei lavori dell’Apec, gli Stati Uniti hanno annunciato che si consulteranno nelle prossime settimane con Russia e Cina sul dossier Iran. "C’è un ampio consenso - dice Obama - contro il programma nucleare dell’Iran, che pone rischi non solo per la regione ma per gli Stati Uniti. Teheran dovrebbe rispettare gli obblighi internazionali. Il mondo è unito e l’Iran è isolato e le sanzioni imposte stanno avendo un enorme effetto".
Ma proprio sulle sanzioni è arrivata la presa di posizione della Russia. Il ministro degli esteri Serghiei Lavrov ritiene che sia una via "esaurita". "La campagna legata all’ultimo rapporto dell’Aiea è orchestrata - sottolinea Lavorv - Penso che possa servire come mezzo per alimentare la tensione per imporre nuove sanzioni unilaterali". "Minacciare sanzioni e attacchi aerei significa solo far allontanare e non avvicinare la possibilità di una soluzione negoziabile" con Teheran, spiega ancora Lavrov. "La situazione iraniana sta seguendo un copione scritto da qualcuno con l’unico obiettivo di sollevare la contrapposizione. Il copione sembra un tentativo di rovesciare il regime". No all’intervemto militare anche dal Lussemburgo: "Le conseguenze sarebbero devastanti".
Ad alzare il tono della polemica anche il ministro degli esteri britannico, William Hague: la Gran Bretagna ritiene che non si debba escludere "nessuna opzione" riguardo all’Iran, compresa quella militare. "Tutte le opzioni devono restare sul tavolo - continua Hague - anche se noi non lo prevediamo in questo momento". E ancora: "Non facciamo appello ad un’opzione militare né la auspichiamo - ha chiarito Hague - ma tutte le opzioni devono restare sul tavolo". Per l’Olanda ulteriori sanzioni dell’Unione Europea contro l’Iran sono "sicure", ma non si dovrebbe escludere alcuna opzione dal tavolo, compresa la possibilità di un’azione militare. La Francia, invece, invita i partner europei e internazionali a concentrarsi su nuove sanzioni per obbligare l’Iran a cooperare con l’Aiea sul suo programma nucleare. "Dobbiamo prepararci a rafforzare le sanzioni per evitare ogni intervento irreparabile" dice il ministro francese Alain Juppè.
La scorsa settimana il dossier Iran è tornato con prepotenza sul tavolo delle diplomazie occidentali. Secondo un rapporto dell’Aiea, Teheran sta pianificando sperimentazioni per condurre un test nucleare militare. Il tutto aiutati "da un esperto russo 2". Ovviamente il regime di Ahmadinejad ha negato tutto ("sono notizie false e vecchie"), ma ha anche lanciato un monito: "Gli Stati Uniti non potranno colpirci senza pesanti ritorsioni".
Pressione nucleare
Ex capo del Mossad: “Bibi è ossessionato dall’attacco all’Iran”
Sono 17 le persone morte ieri per l’esplosione avvenuta in un deposito di munizioni di una base militare dei Guardiani della Rivoluzione a ovest di Teheran, a circa 40 chilometri dalla capitale. Panico nel mondo, ma il nucleare non c’entra nulla. Nel frattempo il segretario di Stato americano Hillary Clinton ha intimato all’Iran di fornire risposte entro i prossimi giorni al rapporto dell’Aiea che accusa Teheran di volersi dotare di armi nucleari. di Ronen Bergman e Juliane von Mittelstaedt
Da mesi l’ex capo del Mossad, Meir Dagan, fa di tutto per sventare la prospettiva di un attacco contro l’Iran che a suo giudizio potrebbe tradursi in una catastrofe. Ovviamente le sue dichiarazioni hanno mandato su tutte le furie il premier Netanyahu. Ma Dagan non molla: “Dobbiamo pensare a quello che succederebbe il giorno dopo”, dice. Secondo voci che circolano in Israele, mercoledì scorso alcuni caccia israeliani avrebbero eseguito esercitazioni sulla Sardegna.
NELLE STESSE ORE giungeva notizia di progetti della Gran Bretagna: inviare navi di guerra armate di missili cruise nel Golfo Persico e nel mare arabico. Siamo in presenza di una semplice guerra psicologica o Israele intende davvero attaccare l’Iran? O si tratta di pressioni esercitate sugli Stati Uniti e l’Europa? In settimana l’Aiea dovrebbe confermare per la prima volta che l’Iran starebbe effettuando esperimenti allo scopo di costruire una bomba nucleare. Non è possibile al momento escludere nessuna ipotesi. Israele ritiene di avere al massimo 9-12 mesi per bloccare militarmente il programma nucleare iraniano. Secondo gli Stati Uniti i mesi di tempo sono 18-21. In Israele il dibattito sull’opportunità di lanciare un attacco aereo è più aperto che in passato. Non solo sono i giornalisti a occuparsene, ma anche uomini politici, vertici militari, funzionari sei servizi. Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth è uscito con un titolo a caratteri cubitali: “Pressione atomica”. E l’editoriale iniziava con queste parole: “Il primo ministro e il ministro della Difesa hanno già deciso di attaccare le installazioni nucleari iraniane? ”. E qui entra in gioco Dagan che per otto anni è stato ai vertici del Mossad dove lo chiamavano “l’uomo con il coltello tra i denti”.
Ma dal 6 gennaio 2011 il taciturno Dagan ha deciso di uscire allo scoperto. Il giorno in cui ha lasciato l’incarico, per la prima volta ha convocato i giornalisti nella sede del Mossad e ha detto che gli iraniani avrebbero messo a punto una bomba nucleare non prima della metà del decennio in corso e che quindi un attacco al momento appariva insensato. Un attacco avrebbe potuto avere conseguenze tremende e spingere l’Iran ad accelerare la corsa agli armamenti. Per non parlare della possibilità di ritorsioni con il lancio di missili da nord per mano di Hezbollah e di Hamas. Alla fine di quella conferenza stampa un funzionario del Mossad disse ai giornalisti presenti che non potevano pubblicare nemmeno una parola di quanto avevano sentito. Il fatto era clamoroso: per la prima volta nella storia di Israele il capo dei servizi dichiarava pubblicamente di non fidarsi del suo governo e di temere che avrebbe potuto trascinare il Paese in una guerra inutile e dagli esiti imprevedibili.
Comunque sia, se Dagan ha detto il vero il primo ministro Netanyahu e il suo ministro della Difesa hanno veramente intenzione di attaccare l’Iran. Malgrado i tentativi di censura le parole di Dagan sono finite sui giornali. Ma Dagan ormai è un fiume in piena e interviene su tutti i temi politici caldi. Ha definito un “grave errore” la liberazione di oltre mille prigionieri in cambio di Shalit, ha criticato il governo per il suo rifiuto di negoziare con i palestinesi, per il peggioramento delle relazioni diplomatiche con la Turchia e il crescente isolamento di Israele. Alcuni lo considerano un eroe, altri un nemico dello Stato. È stato costretto a restituire il passaporto diplomatico e alcuni politici di destra hanno chiesto la sua incriminazione.
Dal canto suo il premier Netanyahu è impegnato a fugare l’impressione che ci sia ancora molto tempo a disposizione per impedire all’Iran di costruire una bomba nucleare. Per Netanyahu la bomba nucleare in mano all’Iran è un evento paragonabile all’Olocausto.
MA CHI È DAGAN? È nato nel gennaio 1945 su un treno merci in viaggio dalla Siberia alla Polonia. A 26 anni comandava una unità speciale dell’esercito israeliano ed era noto perché “non faceva prigionieri”. Durante tutta la sua permanenza ai vertici del Mossad ha tenuto una foto nel suo ufficio: la foto ritraeva un anziano ebreo con la barba in ginocchio con le mani alzate e un ufficiale delle Ss che gli puntava la pistola in testa. “Era mio nonno. Fu assassinato dai nazisti il 5 ottobre 1942”. In realtà molti israeliani sono convinti di essere parenti dell’uomo ritratto nella foto, ma Dagan è certo di avere ragione e, non diversamente da Natanyahu, considera Ahmadinejad il nuovo Hitler.
Secondo Dagan, Netanyahu è incapace di governare il Paese che è più forte che mai militarmente, ma ha leader politici inadeguati al compito. Sempre secondo Dagan, Netanyahu ha un’unica ossessione: l’Iran. “E per raggiungere lo scopo di attaccare l’Iran, il premier e il suo ministro della Difesa Ehud Barak stanno tentando di soffocare tutte le voci critiche”. A giudizio di Dagan, Netanyahu e Barak vogliono decidere senza coinvolgere il resto dell’esecutivo. Comunque sia Dagan è deciso a portare avanti la sua lotta solitaria: “Continuerò a parlare. Costi quel che costi”.
© 2011 Der Spiegel Distributed by The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
* il Fatto, 13.11.2011
DOPO LA PUBBLICAZIONE DEL RAPPORTO DELL’AIEA SUL PROGRAMMA NUCLEARE DELLA REPUBBLICA ISLAMICA
Iran, niet di Mosca a nuove sanzioni
Londra e Parigi chiedono “misure senza precedenti”. Netanyahu: fermiamo Teheran
di Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE DA NEW YORK *
La Russia si oppone alle nuove sanzioni Onu all’Iran invocate da Francia e Gran Bretagna mentre Teheran assicura che non farà passi indietro sul proprio programma nucleare. All’indomani della pubblicazione, da parte dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), del rapporto che accusa l’Iran di volersi dotare di armi atomiche lo scontro diplomatico verte attorno alla possibilità che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvi sanzioni più rigide contro Teheran.
d invocarle sono Parigi e Londra che, in un comunicato congiunto, parlano della necessità di «nuove e forti sanzioni», esprimendo «profonda preoccupazione per la dimensione militare del programma nucleare iraniano». Il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, compie il passo formale della richiesta di convocazione del Consiglio di Sicurezza, ritenendo necessarie «misure senza precedenti» davanti alla perdurante volontà iraniana di «ostacolare le indagini dell’Aiea». A sostenere l’iniziativa anglofrancese c’è l’Amministrazione Obama, che sta studiando imprecisate «forme di pressione supplementare» ed è al tempo stesso impegnata in serrati negoziati con la Cina per convincerla a rompere i rapporti militari con Teheran.
Ma sulla strada di una possibile nuova risoluzione Onu contro il programma nucleare iraniano c’è la Russia. È il viceministro degli Esteri, Gennady Gatilov, a far sapere che «non sosterremo un inasprimento delle sanzioni», perché, se ciò dovesse avvenire, «verrebbe interpretato dalla comunità internazionale come uno strumento per favorire un cambio di regime a Teheran». E, secondo la diplomazia russa, il rapporto dell’Aiea non cambia nulla perché «non ci sono elementi fondamentalmente nuovi», ma soltanto «fatti conosciuti, ai quali viene data un’interpretazione politicizzata».
Dopo aver vissuto con fastidio l’intervento Nato in Libia e aver opposto il veto - assieme alla Cina - a sanzioni contro la Siria di Bashar Assad, il Cremlino ribadisce così di non condividere l’approccio di europei e americani alle crisi in atto nello scacchiere di Nordafrica e Medio Oriente. Se la strada dell’Onu dovesse restare bloccata, Ue e Usa potrebbero scegliere di adottare ulteriori sanzioni nazionali, come dimostrano le notizie che trapelano da Bruxelles e Berlino sulle discussioni fra i partner europei per definire in fretta «misure più rigide».
Da Teheran a parlare è il presidente, Mahmud Ahmadinejad, il quale assicura che «non cambieremo di uno iota il programma nucleare e non arretreremo di un centimetro», sebbene l’ambasciatore iraniano all’Aiea, Alì Ashgar Soltaniyeh, assicuri: «Siamo pronti a collaborare al fine di dimostrare che il rapporto pubblicato è fondato su bugie». Il vicecapo di Stato Maggiore, generale Massoud Jasayeri, si rivolge invece a Israele ammonendolo a non condurre blitz militari «perché se ciò dovesse avvenire noi reagiremo e vi sarà la distruzione di Israele». In particolare Jasayeri identifica un possibile obiettivo: «La centrale nucleare israeliana di Dimona è il sito più accessibile cui possiamo mirare e abbiamo capacità importanti per colpirlo».
Da Gerusalemme il premier israeliano, Benjamin Nethanyau, ha diffuso una nota in cui plaude al rapporto dell’Aiea chiedendo alla comunità internazionale di «fermare la corsa dell’Iran alle armi nucleari che mettono in pericolo la pace nel mondo e in Medio Oriente».
* La Stampa, 10/11/2011
Nucleare: pressing su Teheran, ma escluso attacco
Israele: ’Mondo fermi Iran’ *
Resta alta la tensione sul controverso programma nucleare iraniano dopo che il rapporto dell’Aiea (l’Agenzia nucleare dell’Onu) di martedi’ scorso ha accusato apertamente Teheran di lavorare alla realizzazione della bomba atomica. L’opzione militare non e’ sul tavolo - solo Israele la minaccia - e le diplomazie internazionali sono al lavoro per percorrere ogni soluzione alternativa, in primis quella di un inasprimento delle sanzioni contro il regime di Teheran. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto oggi che ’’i mezzi per costringere l’Iran ad essere trasparente non sono ancora esauriti’’.
Una posizione in linea con quella espressa dal capo del Pentagono, Leon Panetta, che ieri ha bocciato un eventuale attacco contro l’Iran perche’ potrebbe avere un ’’grave impatto’’ sulla regione con ’’conseguenze indesiderate’’. Tuttavia - secondo il Wall Streer Journal - gli Stati Uniti starebbero mettendo a punto un piano alternativo che prevede la fornitura di migliaia di bombe di precisione anti-bunker a guida laser al principale alleato nell’area, gli Emirati arabi uniti. Secondo le fonti governative anonime citate dal giornale, l’amministrazione Obama si appresterebbe a sottoporre al Congresso gia’ nei prossimi giorni il nuovo programma di assistenza militare agli Emirati. Si tratta - secondo il Wsj - di 4.900 bombe di precisione capaci di penetrare gallerie sotterranee e difese supercorazzate, adatte quindi a neutralizzare anche le installazioni nucleari degli ayatollah.
L’amministrazione Obama ha inviato negli ultimi anni importanti forniture militari agli alleati del Golfo per mantenere alta la pressione sull’Iran. I ministri degli Esteri dell’Ue si riuniranno intanto lunedi’ prossimo a Bruxelles per discutere sull’inasprimento delle sanzioni contro Teheran, ma fonti diplomatiche hanno rivelato oggi che ogni decisione potrebbe slittare al Consiglio del prossimo primo dicembre. L’Unione europea ha già espresso (il 23 ottobre scorso) la volontà di inasprire le sanzioni esistenti ’’al momento appropriato, se l’Iran continuasse a non cooperare per rispettare i propri obblighi’’. Il rapporto dell’Aiea ha pero’ aumentato ’’seriamente le preoccupazioni’’ dell’Ue perché va oltre quando detto finora sugli scopi militari del programma nucleare iraniano’’, commentano le fonti. ’’Tuttavia - precisano - il dibattito di lunedì prossimo avra’ un carattere preliminare, in attesa della riunione dei governatori dell’Aiea e dell’eventuale decisione di portare la questione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu’’.
La Ue ’’e’ comunque pronta ad andare avanti anche in modo autonomo con nuove sanzioni unilaterali perché la situazione e’ sempre più preoccupante e sempre meno accettabile", si sottolinea a Bruxelles. Al momento e’ in vigore un embargo non sulle esportazioni ma sugli investimenti delle aziende europee in società petrolifere iraniane. Il nuovo pacchetto dovrebbe estendere l’embargo a tutto il settore petrolifero e del gas. La minaccia di nuove sanzioni non sembra pero’ impensierire troppo il regime di Teheran. ’’Non arretreremo di un millimetro rispetto al nostro irrinunciabile diritto di conseguire tecnologia nucleare a scopi pacifici’’, ha detto all’ANSA l’ambasciatore iraniano a Roma.
* Ansa, 12 novembre 2011, 17:02
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/speciali/2011/11/08/visualizza_new.html_642007312.html