La finanza modello al Qaeda
di Furio Colombo (il Fatto, 16.09.2012)
Il modello è al Qaeda. Niente volto, niente luogo, niente Stato, un patrimonio fluido e portatile, continua guerra di propaganda, molta potenza che può colpire dovunque, ma che puoi raggiungere solo inventando un nemico vicario, ovvero qualcuno a caso.
Al Qaeda non ha e non vuole avere una cittadinanza o un territorio, esige una bandiera grande e visibile, che possa scatenare masse grandissime, ma ha punti di comando ignoti e remoti per mantenere segreto e potere intatti. Il suo vertice è leggero e mobile, destinato a restare introvabile. Se lo trovi, non sei mai sicuro che sia quello vero, o se hai raggiunto un avamposto o un personaggio abbandonato.
Il potere della finanza, che riesce a governare, spostare, sottomettere il mondo, che ha devastato e trasformato le esistenze di tutti (e costruito ricchezze enormi per pochi, spesso del tutto ignoti) ha reso in pochi anni irriconoscibile il paesaggio sociale del mondo, e cancellato la precedente epoca industriale, è organizzato allo stesso modo.
NON HA UNA patria, non ha uno Stato con cui coincidere, non condivide ideali, storia o interessi, comanda dovunque e non lo puoi trovare. Esige da Stati, persone, governi potenti e gruppi in rovina, somme immense che vengono restituite in minima parte, detraendo di volta in volta una parte della ricchezza comune.
Si tratta dunque, come per al Qaeda, di un potere grande ed eccentrico, senza Stato e senza popolo, ma con la forza di decidere quali e quanti popoli devono di volta in volta obbedire.
È chiaro - spero - che non sto parlando di questo o di quel governo e neppure di organismi internazionali. Parlo, con la stessa incertezza di chi non fa il finto esperto e la stessa paura di ogni cittadino, del cielo sopra i governi. È un cielo gravido di nuvole impenetrabili sopra tutto ciò che sappiamo, un cielo in cui occasionali schiarite non sono mai una promessa.
Non è più capitalismo, nel senso di Weber, Smith, Stuart Mills. La prova: non è il mercato. Il mercato, infatti, è una delle due strutture nel mondo connesso della produzione e dello scambio, che è stato tolto di mezzo, annullando merito del lavoro e valore del prodotto, sostituito dai versamenti rapidi e obbligati continuamente in corso, detti rating o spread arbitrari in cui vaste ricchezze passano di mano in mano, verso l’alto, fino a far perdere le tracce.
L’altra è l’improvvisa e brutale aggressione al welfare, visto come una intollerabile sottrazione di risorse al versamento globale, che è la nuova regola imposta senza elezioni e senza Parlamenti, e che tutti i governi hanno dovuto accettare.
Il trapasso quasi violento degli Stati Uniti da più grande Paese manifatturiero al più grande Paese di banca, Borsa e finanza, fa pensare, con mentalità del passato, che si tratti di una invasione americana sul benessere degli altri Paesi. Ma non è vero.
Certo, è americano lo storico momento di transizione, quando, durante la presidenza Reagan, è stata abolita ogni regolamentazione di funzioni e settori, di banca, finanza e controllo di imprese, permettendo libertà senza limiti e senza controlli nella formazione e nella gestione della ricchezza che è diventato modello per tutti gli altri Paesi.
Il grande simbolo è il dominio delle compagnie di assicurazione americane sulla salute dei cittadini statunitensi, che persino un presidente come Barack Obama forse non riuscirà ad abbattere o a diminuire.
È la bandiera della civiltà finanziaria che ha iniziato l’invasione (prima di tutto negli Usa), spingendo ai margini la civiltà industriale. E non si può dire che sia americano il dominio o il profitto, misterioso e immenso, della nuova epoca, perché, come per al Qaeda, la cittadinanza dei vari operatori non coincide con gli interessi di uno Stato o della politica di un governo.
È COMINCIATA una nuova internazionalità del capitalismo che non ha più come centro un Paese e neppure una cultura (come quando si parlava con fondamento di disegni e politiche di multinazionali e di imperialismo), ma è una struttura schermata e indipendente che provvede, con espedienti sempre diversi, a un continuo, esorbitante prelievo globale, senza riguardi e senza privilegi.
La nuova situazione, anzi, colpisce in pieno l’America proprio in quanto prima potenza del mondo. Dimostra che non è l’America a decidere, dimostra che il suo presidente "socialista" si muove nel passato. Colpisce gli Usa anche attraverso le connessioni internazionali di grandi banche, americane e non americane, impegnate, attraverso il continuo imbroglio del "libor" (regolamentazione spontanea e concordata dei costo del danaro negli scambi tra banche) a rastrellare vasti profitti in ogni Paese, tra cui l’America, a vantaggio della galassia finanziaria che grava, senza nazione e senza Stato, sul mondo, con agenzie operative dislocate nei diversi Paesi, fra banche, Borse e agenzie mutanti gruppi politici.
I governi, con sempre meno potere, subiscono imposizioni pesanti, pena multe gravissime ai rispettivi Paesi, senza badare alle spinte di rivolta che creano. Quelle rivolte riguardano territori e governi, non il cielo del grande passaggio di ricchezza in corso.
Non sto dicendo che un nuovo fantasma si aggira per il mondo. Dico che si è messa in moto la grande rivoluzione della ricchezza che esige sempre più ricchezza, prelevandola ovunque, non intende rendere conto, sa come dare ordini e sa come punire. Mantiene, soprattutto, una incertezza infinita. Un fatto è evidente: il punto o i punti di ogni decisione sulla vita dei popoli e degli Stati sono stati del tutto sottratti al controllo della democrazia, benché la democrazia sia, in apparenza, intatta. È un fenomeno nuovo, vasto, sconosciuto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SOGNO DI UNA "COSA" DI BENEDETTO XVI: UNA CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI".
Così il nuovo capitalismo crea (e sfrutta) i nuovi schiavi
di Luciano Canfora (Corriere della Sera/La Lettura, 06.04.2014)
Una delle grandi novità del XXI secolo è il riapparire su larga scala delle forme di dipendenza schiavile e semischiavile. Un segnale in tal senso, sia pure espresso con disarmante ingenuità, si è avuto, in sede ufficiale, quando «da Oslo è partita una delegazione guidata da Ole Henning, allarmata dalle notizie sulla diffusione del caporalato nella raccolta del pomodoro nel Sud Italia» («Corriere della Sera», 23 ottobre 2013). Il riferimento è alla condizione semischiavile dei neri impiegati nelle campagne della Capitanata, di Villa Literno o di Nardò.
Beninteso, il pomodoro poco «etico» è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno mondiale, nel quale rientrano le maestranze schiave del Sud-Est asiatico o del Bangladesh, per non parlare dei minatori neri del Sud Africa, sui quali spara ad altezza d’uomo una polizia, anch’essa fatta di neri, per i quali la meteora Mandela è passata invano. È chiaro che il profitto si centuplica se il lavoratore è schiavo (schiavo di fatto, se non proprio formalmente). E il profitto è più sacro del Santo Graal nell’etica del «mondo libero».
La mondializzazione dell’economia e il venir meno di qualunque movimento - o meglio collegamento - internazionale dei lavoratori ha creato le condizioni per questo ritorno in grande stile di forme di dipendenza che in verità non erano mai scomparse del tutto. Basti ricordare che soltanto «nel febbraio del 1995 il Senato del Mississippi, uno dei baluardi storici del razzismo Usa, ha approvato il XIII emendamento della Costituzione americana, siglato nel 1865, secondo cui la schiavitù volontaria o involontaria non potrà esistere entro i confini degli Stati Uniti» («Corriere della Sera», 19 febbraio 1995).
E, quanto all’Europa, non sarà male ricordare che l’abrogazione della schiavitù coloniale, varata dalla Convenzione nazionale a Parigi nel febbraio 1794, rimase di fatto lettera morta, poiché nel frattempo buona parte delle colonie francesi nelle Antille era passata, nel turbine della rivoluzione in Francia, sotto controllo inglese e la liberale Inghilterra aveva vanificato gli effetti dell’abrogazione. Di qui la necessità di una nuova solenne abrogazione, nel 1848, sotto l’impulso di Henri Wallon e di Victor Schoelcher. Intanto incubava, negli Usa, la feroce guerra civile causata dalla secessione del Sud, baluardo della schiavitù.
Il nesso tra capitale e schiavitù non si è dunque mai del tutto spezzato. Ora un bel libro di Herbert S. Klein (Il commercio atlantico degli schiavi, Carocci, pp. 288, e 20) ricostruisce, con fredda e tanto più efficace documentazione, questa vicenda sulla scala dei secoli (soprattutto XV-XIX), non senza un breve ed efficace preambolo sulle origini antiche dell’ininterrotto fenomeno.
Nel rapido sguardo che Klein rivolge alla schiavitù antica si apprezza lo sforzo volto a distinguere l’entità del fenomeno in Grecia da un lato e dall’altro nel mondo mediterraneo e continentale unificato da Roma, dove la massa di schiavi, soprattutto nei secoli II a.C. - fine II d.C., fu di gran lunga più grande che nella Grecia delle poleis.
Forse Klein non conosce il sesto libro dei Sofisti a banchetto di Ateneo di Naucrati (fine II d.C.) - cioè la più grande enciclopedia a noi giunta di epoca ellenistico-romana -, ma certo lì la questione viene ampiamente sviscerata, cifre alla mano: e non è del tutto vero, a stare a quell’importante repertorio antiquario, che nella Grecia del tardo V e IV secolo a.C. non si riscontrassero realtà schiavistiche imponenti.
La schiavitù in Grecia ha creato qualche imbarazzo a una parte degli studiosi moderni (quelli in particolare cui è parso che il fenomeno offuscasse la purezza del miracolo greco), i quali perciò si sono affannati a screditare le poche cifre tramandate intorno all’entità del fenomeno. Altri interpreti hanno ritenuto preferibile una linea più provocante, e cioè: la schiavitù fu un bene perché rese possibile il miracolo greco.
Altri ancora, come il dilettante onnivoro, ciclicamente «riscoperto» per amor di paradosso, Giuseppe Rensi (1871-1941), propugnarono in pieno XX secolo il ripristino della schiavitù come unica garanzia di difesa del capitale: «Il lavoratore - scriveva Rensi nei Principi di politica impopolare (1920) - in quanto lavora non può non essere dipendente, sottoposto, servo di colui che gli richiede le sue funzioni (...). Aveva perfettamente ragione Aristotele quando sosteneva la necessità e l’eternità della schiavitù».
Questo modo di ragionare può avere vaste ramificazioni. Per esempio negli anni Settanta ebbe un quarto d’ora di celebrità Eugene D. Genovese: non già per i suoi studi molto utili sull’Economia politica della schiavitù (Einaudi, 1972), ma per i suoi paradossi sul carattere «progressivo» della schiavitù negli Usa del XIX secolo (Neri d’America , Editori Riuniti, 1977).
E invece gli studi di Genovese meritano di essere ricordati per altre ragioni: per aver messo in luce l’intreccio nell’epoca nostra, o molto vicina a noi, tra capitalismo e schiavitù. «Il capitalismo - scrisse - ha assorbito e anzi addirittura incoraggiato molti tipi di sistemi sociali precapitalistici: servitù della gleba, schiavitù etc.» (L’economia politica della schiavitù).
Quelle sue osservazioni risalenti all’inizio degli anni Sessanta, e focalizzate - tra l’altro - sul caso emblematico dell’integrazione perfetta dell’Arabia Saudita nel sistema capitalistico mondiale, tornano attualissime oggi, visti il ritorno in grande stile del fenomeno schiavitù come anello indispensabile del cosiddetto «capitalismo del Terzo millennio», nonché il ruolo cruciale della feudale monarchia saudita nella difesa del cosiddetto «mondo libero» e nella strategia planetaria degli Stati Uniti.
Per gli Usa infatti il criterio realpolitico ha quasi sempre avuto la meglio sulle scelte di principio, in questo come in altri campi: la forza e il tornaconto come potenza erano il fondamento, mentre la «dottrina» volta a volta esibita era, ed è, il paravento. La tratta degli schiavi è stata praticata senza problemi (anche il virtuoso Jefferson aveva i suoi schiavi, con tutte le implicazioni economiche ed etiche che ciò comportava).
Klein dimostra molto bene nel suo saggio, dal quale abbiamo preso le mosse, che fu la penuria di mano d’opera interna a incrementare l’opzione in favore della tratta; e che il meccanismo incominciò a declinare nella seconda metà dell’Ottocento, non tanto in conseguenza della guerra civile americana, quanto piuttosto per l’irrompere sulla scena della massiccia emigrazione dall’Europa.
Il fenomeno accomunò le due Americhe: «La colonizzazione dell’Ovest statunitense e la conquista argentina del deserto furono movimenti del primo e del tardo Ottocento che provocarono il massacro delle native popolazioni amerindie che vi si opposero e la loro sostituzione con coloni immigrati».
La «macchia» rappresentata dalla schiavitù non passava inosservata in Europa: non bastava l’autoesaltazione retorica americana a celarla. Nel 1863 un politico inglese di rango, che era anche un fine studioso di storia antica, John Cornewall Lewis, pubblicò un dialogo, di tipo platonico-socratico, intitolato Qual è la miglior forma di governo? (riedito vent’anni fa da Sellerio), nel quale la pretesa dell’interlocutore denominato «Democraticus» di provare la possibilità di attuare il modello democratico e repubblicano con l’argomento «gli Stati Uniti lo sono» viene demolito dall’antagonista, il quale osserva che tale non può essere un Paese in cui esista la schiavitù.
È una considerazione, oltre che un monito, che vale anche per il nostro presente. Nel giugno 2013 si tenne a Kiev, mentre era al governo il presidente eletto Yanukovich, la conferenza dell’Osce sul traffico di esseri umani. Nel rapporto conclusivo si leggeva: «Dal 2003 il traffico di esseri umani ha continuato a evolversi fino a diventare una seria minaccia transnazionale, che implica gravi violazioni dei diritti umani. Sono stati sviluppati nuovi sofisticati metodi di reclutamento, sottile coercizione e abuso della vulnerabilità delle vittime, nonché di gruppi emarginati e discriminati». A questo si aggiungano le risultanze del rapporto Eurostat sul traffico di esseri umani in Europa dell’aprile 2013.
Negli stessi mesi «La Civiltà Cattolica» pubblicava un saggio del gesuita Francesco Occhetta, La tratta delle persone, la schiavitù nel XXI secolo , mentre sul versante giuridico appariva un volume denso non solo di dottrina ma anche di storia, La giustizia e i diritti degli esclusi di Giuseppe Tucci con una significativa introduzione di Pietro Rescigno. Si può ben dire, in conclusione, che l’intreccio tra ramificata, onnipresente e indisturbata malavita e finanza incontrollata e incontrollabile (riciclaggio del denaro «sporco») rappresenta ormai il contesto ideale per lo sfruttamento intensivo e lucroso delle nuove forme di schiavitù.
Altro che articolo 600 del nostro codice penale! Il culto feticistico del profitto, del denaro che produce sempre più denaro, è giunto al suo criminogeno apogeo. Ed è tragicomico vedere e ascoltare il personale politico che amministra i Paesi in cui tutto questo è consentito pontificare ipocritamente sulla tutela, in casa d’altri, dei «diritti umani».
Quei ministri usciti da un libro di Calvino
di Luciano Gallino (la Repubblica, 16.09.2012)
SENTITE le dichiarazioni di Marchionne, Passera ha detto che vuole «capirne le implicazioni». Dunque, per lui, un dirigente che ha promesso 20 miliardi di investimento, ne ha effettuato uno, e poi dichiara che degli altri 19 non se ne parla proprio, è stato poco chiaro.
Bisogna capire meglio cosa vuol dire. D’altra parte Passera ha assicurato all’ad che «non è pensabile che la politica si sostituisca alle (sue) scelte imprenditoriali e di investimento». Quanto alla ministra Fornero, ha fornito alcune date disponibili per incontrarlo. «Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda», ha fatto sapere. Però anche lei vuole «approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione».
Dinanzi a una simile remissività dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio, e alle difficoltà che denunciano nel comprendere l’ad della Fiat, c’è da chiedersi se hanno capito, loro, il nocciolo della questione: sono in gioco, entro pochi mesi, decine di migliaia di posti di lavoro. Se lo capissero, la telefonata da fare sarebbe di questo tipo: «Dottor Marchionne, il governo considera gravissime le sue dichiarazioni circa le produzioni Fiat in Italia. Pertanto la aspettiamo domattina alle 8 precise a palazzo Chigi. Dovrà spiegarci con dati e cifre solide come la sua società intende operare nel prossimo futuro in questo Paese. Il governo non tollererà informazioni ambigue né generiche espressioni di intenti».
A parte ministri che non capiscono e telefonate che non si faranno, Marchionne ha pure dei sostenitori. C’è la crisi, essi rammentano, che comprime le vendite di auto. I salari lordi, tasse e contributi inclusi, in Italia sono molto alti. La produttività dei nostri operai è scarsa. In realtà le cose non stanno così. D’accordo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma ciò non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo.
Nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra cosa.
Del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando - ad esempio - di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.
In tale quadro di ministri simili al cavaliere di Calvino, inesistenti per quanto attiene alla questione Fiat (ma anche, duole dire, per altri casi recenti), e di commentatori sovente poco o male informati, spiccano le critiche di un imprenditore, Diego Della Valle, alle due massime cariche di Fiat, l’Ad Marchionne e il presidente Elkann. Ha detto, in soldoni, che la colpa di quello che sta accadendo alla società del Lingotto è tutta loro. Pare difficile dargli torto.
Se un’impresa si ritrova in basso nelle classifiche europee, dopo essere stata per decenni in prima fila, chiunque mastichi un poco di questioni industriali e manageriali non può fare a meno di pensare che il suo massimo dirigente, al governo di essa ormai dal lontano 2004, qualche responsabilità ce l’abbia. Siano queste da cercare nell’ambito delle competenze - Marchionne non è un uomo dell’industria, viene dalla finanza - oppure di un disegno volto a trasferire il peso produttivo dell’impresa verso altri lidi per i più diversi motivi.
Semmai si potrebbe obbiettare a Della Valle che al punto in cui siamo arrivati le critiche dovrebbero venir rivolte in maggior misura agli azionisti, in primo luogo alla famiglia che controlla finanziariamente la Fiat, più qualche altro grosso azionista che sta dalla sua parte, che non al dirigente di vertice. L’Ad in carica potrebbe essere congedato anche domani. Ma questo non cambierebbe di per sé la posizione dei maggiori azionisti, i quali ormai da lungo tempo mostrano, non con quello che dicono bensì con le scelte che compiono, di considerare l’industria dell’auto come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono.
Il discorso ‘sparito’ del patriarca
di Giovanni Panettiere (Quotidiano.net, 16 settembre 2012)
«Il riconoscimento dello Stato palestinese è il bene più prezioso che il mondo arabo possa ottenere in tutte le sue confessioni cristiane e musulmane». Quelle parole non avrebbe dovuto pronunciarle, almeno non davanti al papa, ma, alla fine, il patriarca greco cattolico melchita di Damasco,
Gregorio Laham III - al vertice di una comunità di oltre 1,3 milioni di fedeli -, ha rotto gli indugi. Accogliendo l’altro giorno Benedetto XVI nella basilica di San Paolo ad Harissa, in Libano, dove il Santo Padre ha firmato l’esortazione apostolica post sinodale sul Medio Oriente, il presule si è lanciato in un pieno e convinto sostegno alla causa palestinese, spronando il pontefice a dare il via libera allo Stato arabo.
Per il patriarca «il riconoscimento potrà garantire la realizzazione degli orientamenti espressi in questa esortazione apostolica post-sinodale per la quale abbiamo manifestato la nostra più viva gratitudine. Preparerebbe la strada verso una vera primavera araba, una vera democrazia e una vera rivoluzione capace di cambiare il volto del mondo arabo e dare la pace alla Terra Santa, al vicino Oriente e al mondo».
Non è la prima volta che Laham III si sbilancia sulla questione palestinese. Solo due anni fa, nel corso del sinodo sul Medio Oriente, il patriarca tradì la sua simpatia per Ramallah, senza però incontrare il favore della maggioranza dei padri sinodali. Nei giorni scorsi, invece, sul sito ufficiale della visita del papa in Libano (www.lbpapalvisit.com), era stato pubblicato in anteprima il testo del saluto del presule a Benedetto XVI. L’intervento conteneva anche un richiamo esplicito alle vicende della Terra santa. Ma il messaggio in rete c’è rimasto solo qualche giorno: alla vigilia dell’arrivo di Ratzinger è stato espunto dal web. Censura vaticana?
«Il testo è stato rimosso semplicemente perché questo genere di interventi si pubblicano dopo che sono stati pronunciati», si è affrettato a dire il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Appena in tempo, dal momento che fonti vaticane avevano già manifestato una certa irritazione per l’anteprima dell’intervento di Laham III. «È solo la posizione personale del patriarca», avevano precisato alla stampa. In effetti, la tesi del melchita appare chiaramente in disaccordo con l’orientamento della diplomazia d’Oltre Tevere, più propensa ad attendere un intervento delle Nazioni unite che ad avanzare la prima mossa sul terreno minato del riconoscimento di uno Stato palestinese.
Tolto il discorso dal web, Laham III ha tenuto il suo discorso davanti al pontefice. Liberamente, o quasi. Rispetto alla versione pubblicata on-line, il saluto pronunciato ad Harissa è stato, infatti, ripulito dei riferimenti più problematici: via il passaggio sul riconoscimento dello Stato palestinese come «atto coraggioso di equità, di giustizia e di verità», omesso il rimando al Vaticano che, con il disco verde a Ramallah, finirebbe «per incoraggiare gli altri Stati europei e non solo a riconoscere la sovranità dello Stato palestinese». A questa revisione del testo si aggiunge il caso della ripubblicazione sul sito ufficiale del viaggio papale: nonostante siano trascorsi due giorni dalla sua pronuncia, dell’intervento non c’è traccia. Molto probabilmente, una volta che il papa sarà rientrato a Roma, la pagina verrà aggiornata per dare al pubblico un quadro d’insieme della tre giorni in Medio Oriente. Al momento nulla si muove.
Senz’altro Ratzinger avrebbe preferito omettere nella sua visita in Libano qualsiasi riferimento alla politica, specie quella israelo-palestinese dato il rapporto, non sempre facile, tra il Vaticano e Tel Aviv. Solo qualche settimana fa Israele aveva protestato con la Santa sede per la nomina del nuovo nunzio apostolico, mentre resta sempre aperta la questione della beatificazione di Pio XII.
Benedetto XVI, come è suo stile, avrebbe voluto dare un taglio esclusivamente pastorale alla sua tre giorni in Medioriente. Tuttavia, di fronte alle violente manifestazioni nel mondo islamico di questi giorni, c’’è da chiedersi se il richiamo alla Palestina del patriarca Laham III non sia stato, non solo inevitabile, ma anche utile per allentare le tensioni tra Occidente e musulmani.
Giovanni Panettiere
La deriva del capitalismo
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini (la Repubblica, 22.09.2012)
Le mille argomentazioni per spiegare la crisi in cui sono immersi i paesi occidentali da cinque anni a questa parte non ci appaiono molto convincenti e, come ha ricordato Vladimiro Giacché, riportano alla mente le giustificazioni di John Belushi nel film dei Blues Blothers.
Per convincere l’ex fidanzata abbandonata sull’altare a non ammazzarlo, Belushi dice: «Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un’invasione di cavallette!».
Alle mille spiegazioni della crisi, noi ne aggiungiamo un’altra: la liberazione del movimento dei capitali, che, all’inizio degli anni ’80, pose fine al grande compromesso di Bretton Woods fondato appunto sul divieto di circolazione dei capitali a cui faceva da contrappeso la libertà di circolazione delle merci.
Lo strappo effettuato dai due leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario.
A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della c
Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non
Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattor
Ma c’è anche un altro motivo, l’enorme concorrenza che si stabilisce dopo la liberazione dei movimenti di capitale tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale. Questa concorrenza acuisce e aumenta l’importanza del profitto nell’ambito della struttura economica. Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioniazionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo.
Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi “antispread” rappresentano un primo passo importante per ricostruire la sovranità monetaria dell’Unione Europea e per ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà. Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.