COSTITUZIONE E MUTAMENTI. "CATASTROFI POLITICHE. Sofocle e la tragedia del vivere insieme" (Davide Susanetti)

ELEZIONI, VOTI, PRINCIPIO DI MAGGIORANZA, E INDIFFERENTI: C’E’ UNO E "UNO", E CI SONO ANCHE GLI "ZERO"! Il numero e la qualità. Gramsci, Trilussa, e Sofocle (una nota di Luciano Canfora) - a c. di Federico La Sala

(...) al centro della serrata disputa che Sofocle mette in scena viene appunto affrontata la questione delle questioni: la fondatezza o meno del principio di maggioranza (...)
domenica 17 aprile 2011.
 

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Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi

di Antonio Gramsci *

Uno dei luoghi comuni più banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il “numero sia in esso legge suprema” e che “le opinioni di qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta in certi paesi) valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato esattamente quanto quello di chi allo Stato e alla nazione dedichi le sue migliori forze”, ecc. (le formulazioni sono molte, alcune anche più felici di questa riportata, che è di Mario da Silva, nella "Critica Fascista" del 15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale).

Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia “legge suprema”, né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia “esattamente” uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie, ecc., cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia “esattamente” uguale.

Le idee e le opinioni non “nascono” spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica di attualità.

La numerazione dei “voti” è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che “dedicano allo Stato e alla nazione le loro migliori forze” (quando sono tali).

Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi “nazionali” che non possono non essere prevalenti nell’indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro.

“Disgraziatamente” ognuno è portato a confondere il proprio “particulare” con l’interesse nazionale e quindi a trovare “orribile”, ecc., che sia la “legge del numero” a decidere: è certo miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi “ha molto” intellettualmente che si sente ridotto al livello dell’ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all’uomo “qualunque” anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.

Dalla critica (di origine oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza), queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte.

In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come “funzionari” dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al self-government.

Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè un’avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento “volontarietà” nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere. (Queste osservazioni potrebebro essere svolte più ampiamente e organicamente mettendo in rilievo anche altre differenze tra i diversi tipi di elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali sociali e politici: rapporto tra funzionari elettivi e funzionari di carriera ecc).

* Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a c. di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, 1/III, pp. 1624-1626


I NUMMERI *

-  Conterò poco, è vero:
-  - diceva l’Uno ar Zero -
-  ma tu che vali! Gnente: proprio gnente!
-  Sia ne l’azzione come ner pensiero
-  Rimani un coso voto e incorcrudente.

-  Io invece se me metto a capofila
-  De cinque zeri tale e quale a te,
-  lo sai quanto divento? Centomila.

-  E’ questione de nummeri. A un dipresso
-  è quello che succede ar dittatore
-  che cresce de potenza e de valore
-  più so’ li zeri che je vanno appresso

* TRILUSSA, Poesie scelte, Mondadori.



-  Così Sofocle contestò la maggioranza iniqua
-  Quando la conta dei voti sancisce un abuso

di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 14.04.11)

Può sembrare semplificatoria l’osservazione, spesso ripetuta, secondo cui «quando parliamo dei Greci, allo stesso tempo parliamo dell’oggi» . Non è retorica. Poche epoche del passato si presentano a noi con una tale maturità di pensiero (filosofico, etico, giudirico, politico), con una tale avanzatissima elaborazione stilistica e tecnica dell’oratoria pubblica, per non parlare di altri aspetti sconcertanti quali la perfezione dell’esametro omerico. Al centro dell’attività artistica destinata alle masse, praticata ad Atene con il sostegno dello Stato, c’è il teatro. Ed è lì che il pubblico vedeva - attraverso il filtro delle trame relative a figure più o meno mitiche - scontrarsi idee, concezioni della vita, della morte, del destino dell’uomo, del vivere sociale, della politica.

Davide Susanetti ha appena pubblicato un volume sui sette drammi superstiti della vastissima produzione drammaturgica di Sofocle, il «beniamino» (si usa dire) del pubblico ateniese. (E per «pubblico» , non dimentichiamolo, bisogna intendere migliaia e migliaia di persone, più numerose spesso di quello dell’assemblea popolare).

Il titolo può sembrare troppo duro ma è, in fondo, appropriato: Catastrofi politiche (Carocci, pp. 236, e 18). Qui «politicità» è intesa nel senso più ampio, come è chiaro dal sottotitolo (Sofocle e la tragedia del vivere insieme). E del resto in senso ampio va intesa la stessa parola greca politeia, che, soprattutto nel V secolo a. C., indicava non soltanto il «sistema politico» , ma anche lo stile della conduzione politica della città: non soltanto, per dirla coi giuristi, la costituzione scritta e gli ordinamenti, ma anche la «costituzione materiale» .

Del mutamento che convive con la tendenziale fissità degli ordinamenti si occupa un altro libro appena pubblicato, dovuto ad un nostro notevole storico, Giorgio Camassa: Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico (L’Erma di Bretschneider, pp. 202, e 80). Da storico formatosi - tra l’altro - alla scuola di Giovanni Pugliese Carratelli, Camassa affronta non solo il mondo greco e romano, ma anche quello «orientale» , dalla Mesopotamia all’Israele biblico.

Ma certamente il cuore dell’autore batte soprattutto in Grecia. Ed è importante l’attenzione che egli ha dedicato, nel finale, alla riflessione teorica antica sul «mutamento delle leggi» , che è quanto dire il modo in cui la costituzione materiale, consolidandosi, diviene col tempo, a sua volta, nuova costituzione formale o codificata. È quel processo descritto in modo geniale da Platone, nelle Leggi, là dove parla del «mutamento» come del «legame» (desmós) tra la costituzione esistente e quella che si viene formando, per l’appunto nel mutamento.

Il tema è peraltro strettamente legato alla distinzione, vivissima nella riflessione filosofica-giuridica greca, tra legge scritta e legge non scritta la cui violazione - dice Pericle nell’ «epitafio» - reca «vergogna universalmente riconosciuta». Una formula precorritrice, che storicamente ha condotto all’intuizione di un diritto «naturale» : fondamento etico profondo dell’agire morale, svincolato dalle singole confessioni o precettistiche religiose. Questo è un tema, come ben si sa, particolarmente sofocleo, legato alla figura e alla «disobbedienza civile» di Antigone nell’omonima tragedia.

Susanetti studia, nel suo volume, questa tragedia soprattutto dal punto di vista del potere («Rovine e miraggi della sovranità» è il titolo di questo capitolo), e propone una lettura innovativa della vicenda: «Anche la norma posta da Creonte (il «tiranno», l’antagonista di Antigone) è orale tanto quanto le leggi degli dei. Il richiamo alle norme che vivono da sempre è semmai una mossa retorica di delegittimazione di un Creonte che si è appena insediato al governo» .

Ma è forse sull’Aiace che l’autore porta il miglior contributo. Egli dedica attenzione soprattutto alla parte finale della tragedia, quella in cui si svolge un serrato scontro dialettico tra Teucro, fratello di Aiace, che pretende sepoltura per l’eroe suicida, e la coppia Agamennone-Menelao, che tale sepoltura intende impedire in ragione della colpa (il massacro delle greggi) di cui Aiace si è macchiato.

Il paragrafo s’intitola «Voti truccati e principio di maggioranza». Infatti al centro della serrata disputa che Sofocle mette in scena viene appunto affrontata la questione delle questioni: la fondatezza o meno del principio di maggioranza. Aiace era stato soccombente: una «maggioranza» aveva decretato che le armi di Achille toccassero a Odisseo, non ad Aiace.

Contro questo verdetto - nella sostanza iniquo ma nella forma ineccepibile se si assume il principio di maggioranza come risolutivo e irresistibile - Aiace è insorto. Ma la dea sua persecutrice, Atena, lo ha reso folle ed egli ha infierito nottetempo sugli armenti, non sugli Achei addormentati nelle loro tende.

«Chi è stato sconfitto in base al criterio di maggioranza non ha diritto ad alcuna rivendicazione. Deve sottomettersi». Questo pretendono due figure «negative» del dramma, gli Atridi. E la risoluzione del dramma viene dalla lungimirante intelligenza di Odisseo, che comunque favorisce la sepoltura del rivale suicida, meritandosi parole di dissenso da parte degli Atridi.

Sofocle, che peraltro, da probulo, aveva agevolato la nascita dell’oligarchia nell’anno 411, ha posto sotto gli occhi del pubblico l’angoscioso problema in termini lucidi e dilemmatici. La «maggioranza» non ha necessariamente ragione. Anche se costituisce (o dovrebbe costituire) uno strumento del convivere civile, il principio di maggioranza - come bene spiegò Edoardo Ruffini in un fondamentale libretto ristampato da Adelphi negli anni Settanta - non ha alcun fondamento né logico né razionale.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO
-  KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE. Materiali sul tema

-  ANTONIO GRAMSCI, SULLA "ZATTERA DELLA MEDUSA". Una lettera dal carcere: una grande lezione di vita, di pensiero, e di libertà

-  FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.


Odio gli indifferenti

di Antonio Gramsci (il Fatto, 19.02.2011)

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.

L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. (...)

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti.

Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti.

Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo. (...) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.


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