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Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi
di Antonio Gramsci *
Uno dei luoghi comuni più banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il “numero sia in esso legge suprema” e che “le opinioni di qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta in certi paesi) valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato esattamente quanto quello di chi allo Stato e alla nazione dedichi le sue migliori forze”, ecc. (le formulazioni sono molte, alcune anche più felici di questa riportata, che è di Mario da Silva, nella "Critica Fascista" del 15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale).
Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia “legge suprema”, né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia “esattamente” uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie, ecc., cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia “esattamente” uguale.
Le idee e le opinioni non “nascono” spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica di attualità.
La numerazione dei “voti” è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che “dedicano allo Stato e alla nazione le loro migliori forze” (quando sono tali).
Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi “nazionali” che non possono non essere prevalenti nell’indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro.
“Disgraziatamente” ognuno è portato a confondere il proprio “particulare” con l’interesse nazionale e quindi a trovare “orribile”, ecc., che sia la “legge del numero” a decidere: è certo miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi “ha molto” intellettualmente che si sente ridotto al livello dell’ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all’uomo “qualunque” anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.
Dalla critica (di origine oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza), queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte.
In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come “funzionari” dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al self-government.
Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè un’avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento “volontarietà” nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere. (Queste osservazioni potrebebro essere svolte più ampiamente e organicamente mettendo in rilievo anche altre differenze tra i diversi tipi di elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali sociali e politici: rapporto tra funzionari elettivi e funzionari di carriera ecc).
* Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a c. di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, 1/III, pp. 1624-1626
I NUMMERI *
Conterò poco, è vero:
- diceva l’Uno ar Zero -
ma tu che vali! Gnente: proprio gnente!
Sia ne l’azzione come ner pensiero
Rimani un coso voto e incorcrudente.
Io invece se me metto a capofila
De cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
E’ questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso
* TRILUSSA, Poesie scelte, Mondadori.
Così Sofocle contestò la maggioranza iniqua
Quando la conta dei voti sancisce un abuso
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 14.04.11)
Può sembrare semplificatoria l’osservazione, spesso ripetuta, secondo cui «quando parliamo dei Greci, allo stesso tempo parliamo dell’oggi» . Non è retorica. Poche epoche del passato si presentano a noi con una tale maturità di pensiero (filosofico, etico, giudirico, politico), con una tale avanzatissima elaborazione stilistica e tecnica dell’oratoria pubblica, per non parlare di altri aspetti sconcertanti quali la perfezione dell’esametro omerico. Al centro dell’attività artistica destinata alle masse, praticata ad Atene con il sostegno dello Stato, c’è il teatro. Ed è lì che il pubblico vedeva - attraverso il filtro delle trame relative a figure più o meno mitiche - scontrarsi idee, concezioni della vita, della morte, del destino dell’uomo, del vivere sociale, della politica.
Davide Susanetti ha appena pubblicato un volume sui sette drammi superstiti della vastissima produzione drammaturgica di Sofocle, il «beniamino» (si usa dire) del pubblico ateniese. (E per «pubblico» , non dimentichiamolo, bisogna intendere migliaia e migliaia di persone, più numerose spesso di quello dell’assemblea popolare).
Il titolo può sembrare troppo duro ma è, in fondo, appropriato: Catastrofi politiche (Carocci, pp. 236, e 18). Qui «politicità» è intesa nel senso più ampio, come è chiaro dal sottotitolo (Sofocle e la tragedia del vivere insieme). E del resto in senso ampio va intesa la stessa parola greca politeia, che, soprattutto nel V secolo a. C., indicava non soltanto il «sistema politico» , ma anche lo stile della conduzione politica della città: non soltanto, per dirla coi giuristi, la costituzione scritta e gli ordinamenti, ma anche la «costituzione materiale» .
Del mutamento che convive con la tendenziale fissità degli ordinamenti si occupa un altro libro appena pubblicato, dovuto ad un nostro notevole storico, Giorgio Camassa: Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico (L’Erma di Bretschneider, pp. 202, e 80). Da storico formatosi - tra l’altro - alla scuola di Giovanni Pugliese Carratelli, Camassa affronta non solo il mondo greco e romano, ma anche quello «orientale» , dalla Mesopotamia all’Israele biblico.
Ma certamente il cuore dell’autore batte soprattutto in Grecia. Ed è importante l’attenzione che egli ha dedicato, nel finale, alla riflessione teorica antica sul «mutamento delle leggi» , che è quanto dire il modo in cui la costituzione materiale, consolidandosi, diviene col tempo, a sua volta, nuova costituzione formale o codificata. È quel processo descritto in modo geniale da Platone, nelle Leggi, là dove parla del «mutamento» come del «legame» (desmós) tra la costituzione esistente e quella che si viene formando, per l’appunto nel mutamento.
Il tema è peraltro strettamente legato alla distinzione, vivissima nella riflessione filosofica-giuridica greca, tra legge scritta e legge non scritta la cui violazione - dice Pericle nell’ «epitafio» - reca «vergogna universalmente riconosciuta». Una formula precorritrice, che storicamente ha condotto all’intuizione di un diritto «naturale» : fondamento etico profondo dell’agire morale, svincolato dalle singole confessioni o precettistiche religiose. Questo è un tema, come ben si sa, particolarmente sofocleo, legato alla figura e alla «disobbedienza civile» di Antigone nell’omonima tragedia.
Susanetti studia, nel suo volume, questa tragedia soprattutto dal punto di vista del potere («Rovine e miraggi della sovranità» è il titolo di questo capitolo), e propone una lettura innovativa della vicenda: «Anche la norma posta da Creonte (il «tiranno», l’antagonista di Antigone) è orale tanto quanto le leggi degli dei. Il richiamo alle norme che vivono da sempre è semmai una mossa retorica di delegittimazione di un Creonte che si è appena insediato al governo» .
Ma è forse sull’Aiace che l’autore porta il miglior contributo. Egli dedica attenzione soprattutto alla parte finale della tragedia, quella in cui si svolge un serrato scontro dialettico tra Teucro, fratello di Aiace, che pretende sepoltura per l’eroe suicida, e la coppia Agamennone-Menelao, che tale sepoltura intende impedire in ragione della colpa (il massacro delle greggi) di cui Aiace si è macchiato.
Il paragrafo s’intitola «Voti truccati e principio di maggioranza». Infatti al centro della serrata disputa che Sofocle mette in scena viene appunto affrontata la questione delle questioni: la fondatezza o meno del principio di maggioranza. Aiace era stato soccombente: una «maggioranza» aveva decretato che le armi di Achille toccassero a Odisseo, non ad Aiace.
Contro questo verdetto - nella sostanza iniquo ma nella forma ineccepibile se si assume il principio di maggioranza come risolutivo e irresistibile - Aiace è insorto. Ma la dea sua persecutrice, Atena, lo ha reso folle ed egli ha infierito nottetempo sugli armenti, non sugli Achei addormentati nelle loro tende.
«Chi è stato sconfitto in base al criterio di maggioranza non ha diritto ad alcuna rivendicazione. Deve sottomettersi». Questo pretendono due figure «negative» del dramma, gli Atridi. E la risoluzione del dramma viene dalla lungimirante intelligenza di Odisseo, che comunque favorisce la sepoltura del rivale suicida, meritandosi parole di dissenso da parte degli Atridi.
Sofocle, che peraltro, da probulo, aveva agevolato la nascita dell’oligarchia nell’anno 411, ha posto sotto gli occhi del pubblico l’angoscioso problema in termini lucidi e dilemmatici. La «maggioranza» non ha necessariamente ragione. Anche se costituisce (o dovrebbe costituire) uno strumento del convivere civile, il principio di maggioranza - come bene spiegò Edoardo Ruffini in un fondamentale libretto ristampato da Adelphi negli anni Settanta - non ha alcun fondamento né logico né razionale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Odio gli indifferenti
di Antonio Gramsci (il Fatto, 19.02.2011)
Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. (...)
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti.
Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti.
Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo. (...) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Matteotti, italiano diverso
di Angelo d’Orsi (il Fatto, 16.04.2011
Il 10 giugno 1924 un signore, alto e distinto, che percorreva Lungo Tevere Arnaldo da Brescia veniva affiancato da un’automobile nera. Ne scendevano alcuni uomini che lo aggredivano, colpendolo fin quasi a tramortirlo, e a forza lo cacciavano nella vettura, dove la colluttazione proseguì, finché l’uomo fu trafitto da vari colpi di pugnale. Gli assassini erano guidati da Amerigo Dumini; l’ucciso si chiamava Giacomo Matteotti, e il suo cadavere, scarnificato, fu ritrovato in un bosco non lontano da Roma, il 16 agosto.
La “crisi Matteotti” fece vacillare il regime fascista, ma si risolse in un fiasco per le opposizioni, per la loro interna divisione, e per la complicità del re Vittorio Emanuele III con Mussolini. Questi il 3 gennaio 1925, con un discorso arrogante e ribaldo davanti a una Camera largamente asservita, si assumeva la responsabilità morale e politica di quanto era avvenuto. E dava il via a una seconda ondata di violenze squadriste. Già, “il fascismo non era poi così male”, potrebbe commentare (come ha fatto) il Giuliano Ferrara di turno.
CHI ERA Matteotti? Un italiano diverso, lo definisce lo storico Gianpaolo Romagnani che gli ha appena dedicato una biografia appassionata (Longanesi), che sebbene discutibile in qualche punto e in molti giudizi, è un lavoro utile che, dopo l’agiografia e il martirologio, vuole raccontare in modo critico la vita di questo riformista anomalo, che non smise di pensare alla rivoluzione, ma che era stato uno dei più tenaci oppositori della guerra, tanto nel 1911, per la prima impresa di Libia (ora siamo alla terza, dopo la seconda, sterminatrice negli anni ’30), quanto, poco dopo, nella Grande guerra.
La coerenza fu il tratto distintivo del rodigino Matteotti, pur nella incoerentissima posizione di rampollo (solo sopravvissuto dei 7 figli) di una ricca famiglia di proprietariespeculatori,nonproprio amatissimi nel povero Polesine tra Otto e Novecento. Ma a ben pensare, l’accusa di “tradimento” che gli si moveva da parte borghese, e i sospetti che si addensavano su di lui dalla sua parte, per quell’appartenenza sociale, costituiscono elementi che accrescono il valore del personaggio.
Quanto gli sarebbe stato più facile fare l’avvocato, amministrare le proprietà, o avviarsi alla carriera universitaria, o persino fare quella politica, ma dalla “sua” parte, quella dei padroni: invece Giacomo scelse la via stretta e aspra del militante (poi dirigente) socialista, scelse di stare dalla parte degli umili, e di aiutarli a risorgere.
Perciò egli ebbe sempre attenzione al linguaggio della politica: farsi capire dagli analfabeti e, aiutarli a crescere, culturalmente, prima che politicamente. Di qui il suo interessamento alle questioni scolastiche: e specialmente relative ai gradi più bassi dell’insegnamento. Organizzatore lefficace, formidabile oratore, ottimo amministratore a livello comunale, ebbe dei limiti sul piano della visione politica, ma fu davvero un combattente coraggioso, con quella sua “figuretta ostinata ed esigente”, come gli scriveva la sua adorata Velia, la compagna che gli diede tre figli, e che, cattolica e disinteressata alla politica, condivise con lui ansie, pericoli, ostracismi. Pur avendo denunciato, quasi con spavalderia, la natura ferocemente di classe del movimento mussoliniano, accusava innanzitutto la borghesia che lo sosteneva, ma non aveva il coraggio di farlo palesemente: reazionari e vili.
E LA REAZIONE incarnata dalle squadre armate fasciste colpì durissimamente proprio la provincia di Rovigo, dove il Socialismo aveva dominato incontrastato: era, come a livello nazionale, un gigante dai piedi d’argilla. E cadde, dolorosamente, travolto dal micidiale combinato disposto fra squadristi, forze dell’ordine (un bel paradosso) e altre pubbliche istituzioni, e associazioni agrarie.
L’azione di Matteotti fu instancabile, anche quando fu costretto a lasciare la provincia: gli era del resto già accaduto durante il primo conflitto mondiale quando fu inviato al confino di polizia in Sicilia, per timore che la presenza di un antimilitarista come lui avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti sulle truppe italiane.
Fu, il dopoguerra, la sua ultima stagione politica, ma anche la più intensa, cominciata e finita all’attacco: minacciato, pestato, addirittura (pare) sodomizzato dai fascisti, Giacomo Matteotti non arretrò di un passo, continuando nella sua opera di denuncia, documentata e precisa, delle violenze squadriste. Costanza, abnegazione, moralità severa, furono i tratti distintivi della sua azione, che ne fecero una delle figure più a rischio dell’antifascismo.
Matteotti non era un deputato in vendita, come s’usa oggi; non era un uomo per tutte le stagioni, secondo i modelli correnti; non aveva l’impudicizia del voltagabbana, oggi sulla cresta dell’onda. Era un uomo intero, che visse la politica con abnegazione assoluta, certo compiendo errori, ma assumendosene la responsabilità, secondo princìpi etici inderogabili, che non lo fecero mai venir meno a quell’assunto di “redenzione delle “plebi agricole” (come disse in uno dei suoi celebri discorsi) e più in generale della masse dei diseredati, guidandole sulla strada del socialismo. Un italiano da rimpiangere, in tempi di bunga-bunga.
Le ossessioni del capo
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.04.2011)
Nella prossimità delle elezioni Berlusconi si scalda e ricorre ai suoi cavalli di battaglia più logori e pericolosi. Qualcosa è cambiato, tuttavia; il tono è sempre più esasperato, minaccioso, truce, come di chi - nonostante i successi in Parlamento e le mille trappole legali a cui si dedicano i suoi avvocati - si sente perseguitato, colpito, braccato.
E reagisce con crescente furore. Così, i giudici sono ormai comunisti, eversori, un’associazione a delinquere che complotta per indebolire il premier, per danneggiarlo; ed è giusto e opportuno che il Legislativo, le Camere, organizzi una commissione d’inchiesta per appurarlo.
Così, il Capo va protetto da indagini e processi, perché il suo ruolo è troppo importante perché lo si possa disturbare con "bazzecole" mentre "deve difendere il suo Paese in politica estera" (la citazione letterale è dovuta). Così, è ormai venuto il momento di vibrare il colpo finale: andare alle urne per elezioni anticipate e confermare l’attuale maggioranza, coesa, dura e pura, per potere finalmente, nel quarto tempo della parabola tendenzialmente infinita di Berlusconi, riformare la Costituzione e in particolare la Giustizia.
Così, soprattutto, si potrà mettere in chiaro che la sovranità appartiene al popolo, che la "cede" (letterale) al Parlamento; e che quindi questo - naturalmente si parla della maggioranza, opportunamente prodotta da un’apposita legge elettorale - deve essere lasciato legiferare in santa pace, al riparo dalle pretese di una Corte Costituzionale oggi in mano ai comunisti e ai pm di sinistra, che non si potrà più permettere di disfare con un tratto di penna i frutti di un lungo lavoro parlamentare (con particolare riguardo al lodo Schifani, al lodo Alfano e alla legge sul legittimo impedimento). Il registro espressivo di questa politica è ormai paradossale, isterico, estremistico: è strutturato per ossessioni. Che sono certamente rivolte a utilizzare e attizzare pulsioni di lungo periodo dell’elettorato del Pdl, ma che ormai sono, altrettanto certamente, condivise anche da Berlusconi, che ne è come prigioniero, in una sorta di perfetta identificazione tra se stesso e il suo popolo. In una solitaria prefigurazione di un regime monocratico.
La prima è quella del comunismo: Berlusconi lo vede ovunque, nei pm, nei giudici, nel personale politico dei partiti d’opposizione. Non sa bene che cosa è, e non si cura di definirlo per i suoi ascoltatori; al riguardo s’intendono benissimo: c’è una sorta di precomprensione empatica tra di loro. Comunismo è una natura diabolica che si impossessa di una persona e non la abbandona mai più, rendendola per sempre malvagia e animata da spirito critico verso la tradizione, il buon senso, le persone per bene e i buoni sentimenti; e soprattutto istillando odio per lui, per Berlusconi. Comunista, anzi, è chiunque si opponga al Cavaliere e alla sua politica, anche se - poniamo - è liberale. Questo anticomunismo è la vendetta postuma del moderatismo italiano contro la sinistra, nell’epoca storica che sta vedendo l’estinzione di questa.
L’altra ossessione, fondamentale, è quella della magistratura - che va insultata e minacciata con particolare enfasi e vigore -; e qui emerge un altro elemento storico chiarissimo: Berlusconi è la rivincita postuma di Craxi su Mani Pulite, ed è al tempo stesso l’esorcisma collettivo della maggioranza degli italiani verso il soprassalto di legalità che li colse vent’anni fa, e che ora va dimenticato come un lontano errore.
L’ultima ossessione - anche questa condivisa da Berlusconi e dalla sua ‘gente’ - è quella del popolo; entità misteriosa, evocata continuamente come ‘sovrana’ contro le élites, anzi contro l’ultima élite sopravvissuta: appunto la magistratura. Che questo sovrano sia maneggiato, attivato e disattivato a piacere da Berlusconi e dalle sue molte macchine comunicative non è percepito dal popolo stesso, che ha appreso da tempo a sentirsi libero solo quando per bocca del Capo può sfogare il proprio rancore postumo contro gerarchie sociali e culturali ormai tramontate. Il trionfo della maggioranza sulla competenza, dell’omogeneità sulla distinzione, si compie così, felicemente, attraverso il magnate populista, attraverso colui che sta costruendo per sé solo l’eccezione assoluta che lo rende superiore a ogni norma e a ogni regola.
È, quello di Berlusconi, un populismo monocratico, reso profondamente antidemocratico appunto dal richiamo al popolo a vantaggio di una persona sola. E soprattutto dalla necessità che il cavaliere ha di alimentarlo con l’attivazione di un conflitto permanente tra il popolo e le istituzioni. Un populismo di micidiale efficacia, che viene da un passato collettivo potenziato dalla volontà di Uno, e che cerca di impadronirsi del futuro; un populismo che è frenato solo, per ora, da ciò che - giustamente - esso identifica come il proprio avversario: il moderno costituzionalismo, il sistema di equilibri e di garanzie, che informa di sé la nostra Costituzione. Il baluardo che ci separa da una postmodernità squilibrata, informe e feroce.
Privatizzare la libertà statale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 17.04.2011)
Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi.
Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Non è difficile però comprendere le ragioni dell’odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l’accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l’attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall’onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c’è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d’indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l’indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell’autobiografia del premier.
La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell’apprendimento, cioè l’esatto contrario dell’indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell’impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".
C’è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l’avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall’ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell’uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca.
Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario.
Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all’istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell’Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall’attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.