Premessa
Antonio Gramsci
Lettere dal carcere
6 marzo 1933 *
Carissima Tania,
ho ancora vivo il ricordo (ciò non sempre mi capita piú in questi ultimi tempi) di un paragone che ti ho fatto nel colloquio di domenica per spiegarti ciò che avviene in me. Voglio riprenderlo per trarne alcune conclusioni pratiche che mi interessano.
Ti ho detto su per giù cosí: - immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno. Prima del naufragio, come è naturale, nessuno dei futuri naufraghi pensava di diventare... naufrago e quindi tanto meno pensava di essere condotto a commettere gli atti che dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere, per esempio, l’atto di diventare... antropofaghi.
Ognuno di costoro, se interrogato a freddo cosa avrebbe fatto nell’alternativa di morire o di diventare cannibale, avrebbe risposto, con la massima buona fede, che, data l’alternativa, avrebbe scelto certamente di morire. Avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale.
Ma in realtà si tratta delle stesse persone? Tra i due momenti, quello in cui l’alternativa si presentava come una pura ipotesi teorica e quella in cui l’alternativa si presenta in tutta la forza dell’immediata necessità, è avvenuto un processo di trasformazione «molecolare» per quanto rapido, nel quale le persone di prima non sono piú le persone di poi e non si può dire, altro che dal punto di vista dello stato civile e della legge (che sono, d’altronde, punti di vista rispettabili e che hanno la loro importanza) che si tratti delle stesse persone.
Ebbene, come ti ho detto, un simile mutamento sta avvenendo in me (cannibalismo a parte). Il piú grave è che in questi casi la personalità si sdoppia: una parte osserva il processo, l’altra parte lo subisce, ma la parte osservatrice (finché questa parte esiste significa che c’è un autocontrollo e la possibilità di riprendersi) sente la precarietà della propria posizione, cioè prevede che giungerà un punto in cui la sua funzione sparirà, cioè non ci sarà piú autocontrollo, ma l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo «individuo» con impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti.
Ebbene, io mi trovo in questa situazione. Non so cosa potrà rimanere di me dopo la fine del processo di mutazione che sento in via di sviluppo [...].
* FONTE. LIBERLIBER/BIBLIOTECA GRAMSCIANA - RIPRESA PARZIALE.
Sul tema proposto da Gramsci ("immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno"), si cfr.:
Il celebre quadro di Théodore Géricault, La zattera della Medusa (Wikipedia)
PER GRAMSCI (COME PER KANT), TUTTO DA RIVEDERE. L’infinita scoperta di Gramsci. Un saggio di Angelo D’Orsi - con una premessa
il saggio di Angelo d’Orsi è contenuto nel volume "Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra" di Francesca Chiarotto (...)
Gramsci, l’umanità di un politico integrale
Le «Lettere dal carcere», riproposte nei Millenni Einaudi con dodici testi inediti, sono una testimonianza di dignità dell’uomo «che ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali» (Emilio Gentile,13.10.2020).
𝐗𝐗𝐕 𝐂𝐨𝐧𝐠𝐫𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐅𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚:
"Philosophy across Boundaries" / "La filosofia attraversa i confini":
𝐗𝐗𝐕 𝐂𝐨𝐧𝐠𝐫𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐅𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚 (Roma, 1-8 agosto), organizzato dalla International Federation of Philosophical Societies, dalla Società Filosofica Italiana e da Sapienza Università di Roma.
A Roma la filosofia abbatte i confini. Ritrovando i Quaderni di Gramsci
Al Congresso quasi seimila partecipanti, provenienti da 109 Paesi: con la cultura italiana tornata al centro del dibattito
di Marina Calloni ( Quotidiano Nazionale Magazine, 10 agosto 2024).
"Io so cantare, so suonare, so reagire ad un addio, ma stasera non mi riesce niente". Sulle note della Tosca di Puccini si era aperto il 1° agosto nella maestosa cornice delle Terme di Caracalla il 25° Congresso Mondiale di Filosofia incentrato sul tema “Filosofia oltre i confini”.
La filosofia dalla storia millenaria intende così superare quelle barriere che ostacolano la libera circolazione delle idee, così come oltrepassare quei limiti che si è autoimposta, rinchiudendosi in un ambito disciplinare angusto e monotono. La Notte della Taranta con musica, canti e balli della tradizione salentina ha concluso l’8 agosto il Congresso travolgendo partecipanti scatenati, a segno del bisogno di distensione e convivialità. Anche il caldo soffocante è stato così superato, trovando rifugio in aule ben attrezzate, climatizzate e affollate, ospiti della Sapienza Università di Roma.
La filosofia non è fatta solo di pensiero, ma di corpi, emozioni e relazioni, una sfida che ha voluto sfatare un’idea idealizzata e ridicolizzata di ragione, dove solo l’astrattezza è di casa. La filosofia va vissuta.
A parte alcune critiche riportate nei giornali da parte di chi o non è stato invitato o non ha partecipato agli incontri, i numeri hanno dato invece ragione agli organizzatori, in particolare a chi negli ultimi anni ha svolto un lavoro estenuante, come in particolare Luca Scarantino (presidente della Federazione internazionale delle Società di Filosofia) ed Emidio Spinelli (responsabile del comitato organizzativo italiano). I numeri sono notevoli: 5.723 sono stati i partecipanti, provenienti da 109 Paesi; 8.626 sono state le proposte di relazioni, a cui si aggiungono 997 presentazioni da parte di studenti. Gli ambiti tematici sono stati 89, sviluppati in 400 sessioni, con riferimenti sia a tradizioni di pensiero ben consolidate (come Kant, Hegel, Rawls), sia a questioni urgenti di interesse pubblico (dall’eredità postcoloniale alla crisi climatica, alle tensioni internazionali fino all’intelligenza artificiale). Dibattiti filosofici sono anche usciti dalla cittadella universitaria, per espandersi “sotto le stelle” allo Stadio Palatino, dove parole e musiche si sono unite in piena assonanza.
Il Congresso si è soprattutto configurato come una poli-polis, una città molteplice con sfaccettate arene del dialogo, in un momento in cui gli spazi del pensiero e della libera espressione sembrano contrarsi sempre più, nonostante la parvenza dell’illimitato spazio di Internet. Il bisogno di incontro è stato altresì mostrato dalle aule sempre popolate e da un programma davvero fitto (ogni giorno dalle 9 alle 19), puntualmente riportato in un’apposita app e pubblicato in un file generale che conta 552 pagine. La tecnologia è venuta incontro anche a un ostacolo apparentemente insormontabile: la conoscenza e la comprensione di lingue diverse dalla propria, tanto da limitare la partecipazione di alcuni. Ebbene, specifiche applicazioni hanno permesso traduzioni simultanee (soprattutto di e da lingue asiatiche), tanto da aver facilitato gli interventi, le conoscenze reciproche e la costituzione di reti, foriere di nuovi progetti comuni. Al centro ci sono state giovani generazioni di studiosi e studenti che - oltre che a presentare i loro lavori - sono stati decisivi per l’organizzazione e la buona riuscita dell’intero congresso.
Le tre linee innovative che si intendeva sviluppare sono state pienamente centrate, quali il discorso sull’interculturalità, l’approccio interdisciplinare, le questioni di genere, tali da indicare reciproche interdipendenze e intersezioni. Ma la domanda radicale rimane: ovvero se sia mai possibile parlare di una filosofia mondiale, se non intesa nelle sue molteplicità e differenze. O come sia mai possibile comprendere il mondo in trasformazione, facendo interagire la tradizione con l’innovazione concettuale.
Uno dei più importanti risultati è tuttavia consistito nel rimettere al centro del dibattito internazionale la filosofia, l’arte e la cultura italiana. Straordinaria l’esposizione - inedita - dei 33 Quaderni dal Carcere di Gramsci (prima custoditi dalla cognata Tatiana Schucht e ripubblicati nel 1975 dall’Istituto Gramsci in una nuova versione critica) che ha guidato come un filo rosso i diversi temi del Congresso. L’esposizione è stata accolta con emozione dai partecipanti, da chi per anni ha studiato Gramsci, ma non aveva mai visto la sua minuta e ordinata scrittura, le copertine colorate che racchiudevano le sue idee con la prospettiva di un’Italia liberata dal fascismo e di una cultura che potesse fare da collante a società libere e a individui emancipati. L’idea di egemonia in Gramsci ha influenzato molte correnti di pensiero a livello internazionale, a partire dagli studi postcoloniali e dalla possibilità di dare voce ai subalterni. La filosofia non può che superare i propri limiti concettuali e territoriali, grazie a una tradizione in movimento che non si appaga delle ripetizioni e che grazie a immaginazione produttiva può pensare a mondi possibili, non necessariamente utopici.
Prossimo appuntamento in Giappone, a Tokyo nel 2028, dove il tema sarà “Per una filosofia mondiale pluralizzata”. La sfida consisterà nuovamente nel superamento di un elitismo escludente o di chi ha diritto al pensiero. Del resto, come ricorda Gramsci, nel Quaderno 1 §12 esposto: "Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici".
Storia.
Gli irriducibili del "no" a Mussolini
Dopo i “redenti” Mirella Serri dedica uno studio ai giovani che sfidarono il fascismo "senza se e senza ma": Un quadro variegato da cui spiccano i tre fratelli Sereni
di Massimo Onofri (Avvenire, sabato 23 novembre 2019)
Mirella Serri insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea a La Sapienza di Roma e può vantare una lunga militanza come giornalista culturale e critico letterario per “La Stampa” e il suo supplemento “Ttl”, ma è da una quindicina d’anni che s’è fatta anche storica delle idee, a partire, cioè, dall’uscita per Corbaccio d’un libro molto fortunato, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, su quegli uomini di cultura che, formatisi dentro l’ideologia fascista abbracciata con fervida fede, si volsero poi all’antifascismo e alla resistenza, vivendo il mutamento come una conversione, se non addirittura un cammino di redenzione. Seguirono poi, sullo stesso originale solco e dentro problematiche non lontane da quella di partenza, tutti per Longanesi, Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980) (2012), Un amore partigiano. Storia di Gianna e Neri (2014), Gli invisibili. La storia segreta dei prigionieri illustri di Hitler in Italia (2015) e Bambini in fuga. I giovanissimi ebrei braccati dai nazisti e fondamentalisti islamici e gli eroi italiani che li salvarono (2017).
Ho parlato di originale solco per questo percorso di ricerca: laddove l’originalità sta nel fatto che Mirella Serri, quella storia delle idee nonché la sequenza degli eventi grandi e piccoli, sa farli camminare concretamente sulle gambe degli uomini e delle donne che ne sono protagonisti, concretamente restituiti nella loro personalità (nei loro sogni e gusti, nelle loro passioni e speranze, nelle loro paure e idiosincrasie), coniugando, con grande felicità, il primato del documento e delle fonti a un’invidiabile, diciamo così, disposizione al racconto. Qua-lità, si aggiunga che trovano conferma anche in questo suo ultimo notevole lavoro, in cui convergono i temi di sempre (il nazifascismo, la drammatica questione ebraica, la resistenza e l’antifascismo): Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini (pagine 242, euro 19).
Ecco: chi sono gli “irriducibili”? Un «piccolo gruppo di giovani nati nel primo decennio del secolo passato» che, in grande anticipo sulla stessa resistenza, nella generale ed entusiastica adesione di tutti gli altri al regime, rifiutando anche l’idea d’un maestro come Croce che parlava della dittatura come mera parentesi d’una ben altra storia nazionale, «non si adagiarono nel consenso all’Italia fascista e che per questo scontarono anni di prigionia, di confino e di esilio», soprattutto in Francia, ma anche in Palestina e in Tunisia. E poi: «Erano intellettuali, pensatori e filosofi alle prime armi e accomunati da una medesima provenienza sociale e culturale». E ancora: «Facevano parte delle élite per nulla ’conservatrici’, con buona pace di Vittorini » (ecco, Vittorini: uno dei “redenti”, i cosiddetti fascisti di sinistra). Infine: «Appartenenti a famiglie borghesi e colte, una parte di loro aveva aderito al Partito comunista d’Italia, altri militavano in Giustizia e Libertà, altri ancora erano socialisti riformisti o repubblicani». I nomi sono presto fatti.
Su tutti i fratelli Sereni: Enrico, lo scienziato che si sposa improvvisamente con la sua assistente Dvora Rabinowitz; il filosofo Enzo e la moglie Ada Ascarelli, che in Palestina, dove emigrano, fondano un kibbutz (seppure Enzo, tornato in missione in Europa morirà nel campo di concentramento di Dachau); Emilio, detto Mimmo, «il saputello o saccente di famiglia », prima ebreo ortodosso fino al fanatismo, poi, altrettanto fanaticamente, stalinista intransigente, che sposa Xeniuska Silberberg, figlia di un socialista rivoluzionario impiccato dallo zar, del quale Mimmo Altiero Spinelli arriverà a dire che era «di abile menzogna». Poi bisognerà citare Giorgio Amendola e Manlio Rossi-Doria, i quali seguono dappresso le vicende dei fratelli Sereni, soprattutto Emilio, almeno sino al 1939, quando il patto di non aggressione tra Germania e Urss porterà a rotture e divaricazioni (è il caso di Rossi-Doria, che aderirà in seguito al Partito d’azione). Non posso non aggiungere Maurizio Valenzi - l’eroe della resistenza tunisina prima ancora che il sindaco amato del futuro - e Litza Cittanova, Giuseppe Di Vittorio, Velio Spano «rivoluzionario di professione» e Nadia Gallico, Ferruccio Bensasson, e tanti altri ancora.
Il libro di Serri fa perno sin da subito sulla storia della famiglia Sereni, proprio perché i tre fratelli rappresentano tre istanze politico-antropologiche diverse e tre diverse ipotesi di destino che si spalanca sulla storia - purtroppo minoritaria - della sinistra italiana: Enzo è sionista; Enrico è socialista; Emilio, appunto, comunista. Quell’Emilio, così ciecamente devoto all’Unione Sovietica, così pronto a obbedire agli slogan staliniani, da arrivare a rompere ogni rapporto coi due fratelli, l’ebreo che sceglie Israele e il “socialfascista”. Tre catalizzatori, diciamo così, dentro cui si possono leggere le vicende degli altri compagni di lotta, tra amori e odi, generosità e risentimento, lealtà e tradimento.
S’è detto d’una storia minoritaria della sinistra italiana. Al di là dei tanti rivoli biografici, che Serri asseconda con grande gusto affabulatorio, mi pare necessario sostare sulle lucide e amare pagine finali, in cui la scrittrice riflette sul rapporto tra “redenti” e “irriducibili”, cercando di spiegarsi come e perché, per dire, i Di Vittorio e gli Spano (sua è, per altro, a proposito di Carlo Muscetta, la definizione di “redenti”), che avevano prestissimo «incrociato le armi con il nazismo e avevano lottato contro l’antisemitismo», «si ritrovarono in sparuta minoranza». Perché questo è il punto: i “redenti” - «propensi a sottolineare il tratto populista, ugualitario e antielitario del fascismo», a porre in secondo piano «il piglio sanguinario e razzista della tirannia » -, «con la rielaborazione della memoria, (...) misero la sordina alle imprese dei primi antifascisti, di coloro che avevano combattuto la violenza del regime mussoliniano fin dal suo avvento».
IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO
EDITORIALE
«L’Unità fondata da Gramsci uccisa dall’incuria di questi ultimi due anni»
Editoria. L’editore sospende le pubblicazioni. Martedì incontro decisivo alla Fnsi. I lavoratori dell’Unità impaginano il giornale solo per l’on line e scrivono l’ultimo editoriale
Ci sono storie che non dovrebbero finire, per la storia che hanno raccontato e testimoniato, per quella che hanno cercato di capire, per chi ci ha creduto, per chi ci ha messo passione, professionalità e attaccamento.
Questa storia, la nostra, hanno deciso di chiuderla nel modo peggiore, calpestando diritti, calpestando lo stesso nome che porta questa testata, ciò che ha rappresentato e ciò che avrebbe potuto rappresentare.
L’editore ha comunicato, con una lettera spedita alle ore 22.49 del 1° giugno, che incontrerà la Federazione nazionale della stampa, Stampa Romana e il Cdr per illustrare la situazione economico-finanziaria del giornale e la «conseguente decisione di interrompere volontariamente la pubblicazione». «Riteniamo - aggiunge l’amministratore delegato Guido Stefanelli - che questa sia la scelta più giusta da fare in attesa di portare a compimento le procedure di ristrutturazione aziendale».
Una decisione grave, arrivata dopo giorni di assenza del giornale dalle edicole perché lo stampatore ha fermato le rotative per la mancata riscossione dei crediti maturati e per i quali da mesi chiedeva il relativo pagamento.
Se si è arrivati fino a questo punto non è stato per un improvviso fatto esterno, ma per una decisione più volte annunciata dallo stesso stampatore. Nel silenzio più totale da parte dell’amministratore delegato abbiamo tuttavia continuato a svolgere il nostro lavoro confezionando un giornale che nessuno ha potuto acquistare in edicola, destinato soltanto agli abbonati che per alcuni giorni neanche riuscivano a scaricarlo nella sua versione online. Nel silenzio più assoluto da parte di un’azienda che non ha neanche ritenuto di dover comunicare che non avrebbe pagato gli stipendi ai lavoratori e alle lavoratrici.
E che oggi dà notizia di una ristrutturazione annunciata da mesi ma mai avviata davvero. In questi mesi l’azienda, la stessa che in due anni non ha presentato un seppur minimo piano industriale, ha solo più volte minacciato licenziamenti collettivi, come se a pagare il conto della mancata gestione aziendale dovessero essere i lavoratori e le lavoratrici.
Tutto questo è avvenuto in un giornale che si chiama l’Unità, che ha fatto della difesa dei lavoratori il suo tratto distintivo, e di cui ancora oggi il Partito democratico è socio al 20% attraverso la fondazione Eyu.
Non siamo cioè di fronte a una società composta di soci privati tout court: siamo di fronte ad un’impresa editoriale che ha al suo interno un partito politico che ha fatto della difesa dei diritti il suo cavallo di battaglia. Un Pd che ha assistito a quanto sta avvenendo da mesi, compreso il ricatto al sindacato di non pagare gli stipendi fino a quando lo stesso cdr non avesse convinto ex dipendenti a rinunciare ai loro diritti sanciti dal giudice del lavoro, senza prendere una forte posizione pubblica.
Ci sono storie ed imprese editoriali che possono iniziare con la migliore delle intenzioni e poi, malgrado ogni sforzo, scontrarsi con una competizione su un mercato difficile e in forte crisi, e dunque prendere atto di non avercela fatta ma garantendo sempre, fino all’ultimo momento, il rispetto dei diritti dei propri dipendenti, delle relazioni sindacali, della professionalità di tutti.
Questa storia, la nostra, invece, è stata scritta in un altro modo.
Nessun progetto, nessun piano industriale, relazioni sindacali calpestate, dignità professionali umiliate, tanto da arrivare nell’incredibile situazione di dover confezionare un quotidiano che non va in edicola. Anche in questa giornata siamo qui, al lavoro, per un giornale diverso da tutti quelli finora scritti: il più doloroso, il più triste.
Perché l’Unità finisce oggi, con questo numero, visto che la redazione sarà in sciopero fino al giorno dell’incontro in Fnsi con l’editore. Fino a quando non ci diranno cosa intendono fare del futuro di questo giornale, con quali risorse, con quale progetto industriale ed editoriale e in quali tempi.
Non ci fidiamo più, troppe promesse disattese, troppi strappi a qualunque civile e normale dialettica tra azienda, sindacato e lavoratori. Quello che chiediamo con forza a tutti i soggetti in campo è di avere almeno il rispetto che meritano i lavoratori e le lavoratrici di questo giornale. Il rispetto per l’Unità, fondata da Antonio Gramsci e uccisa giorno dopo giorno dall’incuria di questi ultimi due anni.
In questa storia sono in diversi a dover rispondere di quanto accaduto. Gli editori di maggioranza, la Piesse di Massimo Pessina e Guido Stefanelli, Eyu, che fa capo al Partito Democratico, e lo stesso segretario del Pd Matteo Renzi a cui più volte ci siamo rivolti senza mai ottenere una risposta o una parola di solidarietà nei momenti più duri della lotta quando per otto giorni di seguito la redazione è scesa in sciopero ad oltranza.
Un silenzio che ha ferito tutti coloro che in questo giornale hanno lavorato accettando condizioni spesso al limite dell’accettabile. Ci chiediamo se anche di fronte a questa decisione dell’editore proseguirà la scelta del silenzio.
Ai nostri lettori diciamo che noi ce l’abbiamo messa tutta. Fino all’ultimo momento. Malgrado tutto, malgrado le scelte e le inerzie dei colpevoli. Anche noi odiamo gli indifferenti, e in questa storia siamo gli unici a non esserlo stati.
Le storie possono essere scritte in tanti modi. Per noi hanno scelto il peggiore.
IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO
Antonio Gramsci fan delle avanguardie
di Simona Maggiorelli *
Quella di Gramsci fu certamente una visione d’avanguardia. Nei contenuti e per il metodo di pensiero. Libero, laico, antidogmatico. Ma anche per quel suo legare strettamente politica e cultura nell’idea di egemonia, come capacità di reagire all’oppressione, ingaggiando una lotta senza armi, avendo il coraggio di schierarsi contro il nazifascismo. Dai suoi scritti traluce una idea alta di cultura, intesa come l’espressione più profonda della realtà umana. Va di pari passo con il suo interesse per l’arte come linguaggio universale e per la ricerca di forme innovative capaci di esprimere progetti rivoluzionari. Non stupisce dunque che l’avanguardia artistica l’abbia sempre attratto in tutte le sue manifestazioni.
Fin dai tempi in cui era giovane critico teatrale de L’Avanti, come testimoniano le sue recensioni, pubblicate trent’anni fa da Einaudi e più di recente riproposte in un nuovo volume da Aragno con prefazione di Davico Bonino. Un libro prezioso perché riporta in primo piano il suo avventurarsi solitario fra le innumerevoli facce e i fermenti del teatro di allora, diviso tra intrattenimento e sperimentazione, tra Niccodemi e Pirandello o Rosso di San Secondo, tra vaudeville e futurismo, senza tuttavia trascurare, autori «sociali» oggi difficili di digerire come Andreev. Con piglio corrosivo Gramsci si scagliava contro la degenerazione trombonesca del “grande attore” e smascherava le «ditte» che per ragioni commerciali puntavano al ribasso qualitativo dell’offerta. Da socialista non perdeva mai di vista l’educazione e l’emancipazione delle classi lavoratrici ma era anche sensibile alle questioni estetiche che non giudicava fine a stesse. Così fu il primo a lanciare Luigi Pirandello riconoscendogli quella sua speciale capacità drammaturgica di far vivere i personaggi sotto i nostri occhi. Anche se poi ebbe a dire che Pensaci, Giacomino! era un testo appesantito da «abitudini retoriche» e Il giuoco delle parti da un «verbalismo pseudo filosofico».
L’ idea gramsciana di letteratura era lontana dall’idealismo astratto ed estetizzante di Croce, quanto dal realismo socialista. La rivoluzione doveva darsi modi nuovi anche di espressione artistica. In Machiavellismo e marxismo Gramsci scriveva, «lottiamo per la nuova cultura. In un certo senso quindi è anche critica artistica, perché dalla nuova cultura nascerà una nuova arte...». Dunque fu molto incuriosito, soprattutto nelle prime fasi, dal futurismo, che cercava vie diverse per raccontare le trasformazioni della modernità. -Quando uscì il primo manifesto il 20 febbraio del 1909, l’avvento del fascismo era ancora lontano. Allora appariva come un movimento magmatico, in cui accanto a Filippo Tommaso Marinetti, che pericolosamente inneggiava alla «guerra sola igiene del mondo», si muovevano personalità le più diverse. Fortissima all’interno del movimento era l’ala anarco-sindacalista. Il futurismo anarcoide fu un torrente rivoluzionario negli anni Dieci, tanto che, ancora nel 1921, Gramsci definiva quel filone «nettamente rivoluzionario, assolutamente marxista». Ma quel gruppo non divenne mai egemone. A prevalere, come è noto, fu l’ala futurista che diventò organica al regime.
Con la morte di Umberto Boccioni che si era arruolato volontario, il futurismo perse il suo miglior talento. Da tempo non c’era più quella volontà totalizzante di “rifondare” il mondo: di «ricostruire l’universo» come predicava il Manifesto del 1915 di Balla e Depero, che si erano dati inizialmente l’obiettivo di creare un’arte nuova, in sintonia con il mondo moderno, ridisegnando ogni aspetto del vivere: dall’ambiente, delle case, agli abiti, passando dalla scrittura, alla musica, al teatro, dal cinema, alla fotografia. Il sipario si era squarciato e i futuristi - specie quelli della seconda ondata - divennero picchiatori fascisti. Già nel 1920 Antonio Gramsci li accusava di essere solo una manica di irresponsabili scappati da un collegio di gesuiti: «sono solo degli scolaretti che hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti dalla ferula sotto la guardia campestre».
Molte cose erano cambiate da quando, nel 1913, ancora studente, era intervenuto sul Corriere Universitario di Torino in difesa dei futuristi attaccati dalla rivista bolognese San Giorgio, organo di gruppi cattolici integralisti e reazionari. Come ha scritto Umberto Carpi - autore di Bolscevico immaginista (1981) e molti altri studi sul rapporto fra socialismo rivoluzionario e movimenti d’avanguardia - per Gramsci il fenomeno futurista andava letto nel quadro della rivoluzione formale operata in quegli anni dalle avanguardie artistiche europee. Non di bizzarrie si trattava, ma di un radicalismo formale ricercato e consapevole, che voleva rifondare il discorso artistico nell’ottica di una modernità vissuta come rivoluzionaria.
Giovanissimo e brillante intellettuale, Gramsci era impegnato in uno sforzo di comprensione di quella Torino operaia, città-fabbrica, simbolo della modernità e del macchinismo, tematizzato seppur in maniera ambigua dai futuristi. I pochi di sinistra, fra loro, facevano capo all’anarco-bolscevismo e al raggismo russo e a loro si rivolgeva cogliendone il rapporto con lo specifico della realtà industriale, come luogo del mutamento permanente, perché nella metropoli si realizzava il processo di distruzione del passato in un’ottica di incessante rinnovamento. Ed è lì che devono operare i rivoluzionari: su questa visione strategica ordinovisti e futuristi furono in assoluta sintonia. Ad Antonio Gramsci, poi, non sfuggiva l’importanza non secondaria della questione “culturale” nella battaglia per l’egemonia e la questione delle alleanze; per questo lavorava per indirizzare in senso progressista il ribellismo anti borghese delle frange intellettuali futuriste.
Dall’osservatorio speciale di Torino capiva che non confrontarsi con i futuristi significava abbandonarli al richiamo forte dell’attivismo fascista. In questo contesto nasce nel 1921 l’Istituto di cultura proletaria (Proletkultur) con lo scopo dichiarato di rendere i “produttori” protagonisti anche della battaglia di rinnovamento rivoluzionario dell’arte e della cultura. Un progetto che trovò sponde nel gruppo dirigente dell’Internazionale comunista di cui era esponente Lunačarskij che era stato in Italia fra il 1905 e il 1912 e sapeva di Marinetti e del movimento da lui avviato.
Un tentativo di dialogo che si tradusse in un episodio alquanto “singolare”: la partecipazione di una folta delegazione di operai ordinovisti alla esposizione futurista torinese del 1922, guidati dallo stesso Marinetti che raccontava una cronaca su L’Ordine nuovo, «si prodigò a spiegare il significato pittorico dei singoli quadri e il valore del futurismo in genere».
Questo per dire quanto fosse confuso e complesso il quadro a pochi mesi dalla marcia su Roma del 28 ottobre del 1922. E la situazione ben presto precipitò, anche per Antonio Gramsci dal punto di vista personale. Nel giugno del 1922 giunse a Mosca la delegazione del Partito comunista d’Italia per partecipare all’esecutivo della Terza Internazionale. E nel novembre del 1923 il dirigente del Pcd’I Antonio Gramsci si trasferisce da Mosca a Vienna, nel maggio 1924 torna in Italia e l’8 novembre 1924 viene arrestato.
Ma torniamo ancora per un attimo al suo arrivo in Russia. Nel 1922 era noto a Mosca e apprezzato da Lenin come ideatore del movimento dei consigli di fabbrica e fondatore de L’Ordine nuovo e da tempo si interessava all’arte di avanguardia. Lo ricorda Noemi Ghetti in un denso paragrafo “Il comunismo e gli artisti” nel suo libro Gramsci nel cieco carcere degli eretici (L’Asino d’oro, 2014, l’autrice ne parla in un incontro con gli studenti a Latina il 28 aprile), ricostruendo le prime vicende del futurismo russo che aveva avuto un fulminante avvio con Schiaffo al gusto corrente di Chlebnikov e Majakovskij. La svolta di Kandinskij verso l’astrattismo era già iniziata nel 1905 come splendidamente racconta la mostra milanese Kandinskij, il cavaliere errante al Mudec (aperta fino al 9 luglio, vedi Left n.12).
Il gruppo cubo-futurista o Gileja conquistò presto la ribalta moscovita. «Sorta qualche anno dopo quella europea, l’avanguardia russa non conosce i confini che in Occidente dividono una corrente e una forma di espressione artistica dall’altra», annota Guido Carpi nella sua Storia della letteratura russa (Carocci, 2016). «Elementi desunti dal fauvismo e dal cubismo si fondono con elementi dell’espressionismo tedesco e del futurismo italiano. Il tutto in un contesto ancora ben memore del panteismo simbolista e delle concezioni teurgiche dell’arte nel 1910». Con la prima mostra del Fante di quadri la scena artistica russa fu scossa da una profondo terremoto anti-accademico. Dominava la scomposizione dei volumi, fiorivano forme e colori squillanti, immagini deformate segnate da violente linee nere, annota Guido Carpi, parlando dell’arte di Burljuk, Larionov, Gončarova, Ekster, Kandinskij, Lentulov, Koncalovskij, Tatlin. «Da questo gruppo ben presto si sarebbero separati Majakovskiij e Burljuk, i due più di sinistra», fa notare il professore di russo dell’ Università Orientale di Napoli.
Intanto Larionov aveva dato vita al raggismo (cosiddetto per i fasci di raggi irradiati), era «il primo esperimento di pittura non oggettuale in Russia. Un ideale condiviso di arte sintetica e dinamica portò alla collaborazione fra poeti e pittori. Il costruttivismo di Tatlin e il suprematismo di Malevič incontravano fortemente gli ideali della rivoluzione, alla quale Gramsci dedicò molti e approfonditi interventi (ora riproposti in Antonio Gramsci Come alla volontà piace, Castelvecchi).
In quel cruciale 1922, a Mosca, non frequentava solo il centralissimo Hotel Lux dove alloggiavano i dirigenti del Comintern e il sanatorio di Serebriani Bor, scrive Noemi Ghetti ne La cartolina di Gramsci (Donzelli, 2016). Ricordando che in quel periodo Gramsci incoraggiava Giulia a tradurre in italiano il romanzo politico-fantascientifico La stella rossa di Aleksandr Bogdanov, che nella Seconda Internazionale su ribattezzato la bestia nera di Lenin. Ancora una volta Gramsci si rivolgeva alla sperimentazione letteraria e cercava di tenere aperto il raggio dei rapporti per difendersi dal più rigido apparato.
Potremmo dire in conclusione che l’interesse per le forme sperimentali di arte non abbandonò mai Gramsci, nonostante le numerose delusioni? «Se il primo rapporto con il futurismo risale al 1913, si consolidò nel periodo de L’Ordine nuovo (1920-21). Si inseriva nel tentativo compiuto dal gruppo torinese di replicare in Italia quelle esperienze di originale “cultura proletaria” che in Russia avevano dato vita all’imponente movimento del Proletkul’t», risponde Guido Carpi, autore di Russia 1917, un anno rivoluzionario, appena uscito per Carocci. «Alle idee e alla pratica del proletkultismo, Gramsci era stato introdotto dal Commissario del popolo alla Cultura Anatolij Lunačarskij, da sempre convinto, sulle orme del filosofo marxista “eretico” Aleksandr Bogdanov, che la cultura sia esperienza collettiva organizzata e che debba mirare alla trasformazione del mondo e al superamento della cultura borghese, individualistica, passiva e sterilmente compensatoria».
In questa prospettiva, conclude il docente dell’Orientale, «l’apporto fondamentale del futurismo era per Gramsci non certo il gusto per la provocazione fine a se stessa, ma il tentativo di elaborare l’alfabeto di un’arte legata indissolubilmente ai luoghi e ai ritmi della produzione industriale e della società di massa: esperimenti che in Russia portavano Majakovskij, Rodčenko e Šklovskij a fondare il movimento costruttivista, con la straordinaria “appendice” dei laboratori sperimentali Vchutemas. L’influenza di Bogdanov e Lunačarskij del resto, non si limitò a questo: l’idea che la classe operaia dovesse fungere da baricentro organizzativo per una trasformazione universale della cultura e, in prospettiva, della vita sociale, portò Gramsci a elaborare la concezione di “egemonia”».
* LEFT, 24 APRILE 2017 (ripresa parziale).
L’eredità scomoda di un intellettuale
Scaffale. «Nonostante Gramsci» di Marco Gatto, per Quodlibet
La ricezione della sua opera nel tormentato percorso del marxismo italiano
di Paolo Desogus (il manifesto, 06.12.2016)
Fra i pochi marxisti ancora capaci di influire sul dibattito critico-letterario italiano occupa una posizione di rilievo Antonio Gramsci. Questa sua fortuna pare tuttavia non dipendere tanto dalla salute del marxismo, quanto da una crisi avvenuta al suo interno, che ha modificato il rapporto tra fenomeni estetico-letterari e fatti storico-materiali.
DA TEMPO, nei dipartimenti di italianistica e di letterature comparate il Gramsci più letto e discusso è quello filtrato dai cultural studies e dalle sue diramazioni dei postcolonial e dei subaltern studies: un Gramsci dunque d’importazione, slegato dalla stagione post-resistenziale della via italiana al socialismo di Togliatti, così come dalla variegata discussione degli anni Sessanta nata a sinistra del Pci; un Gramsci certamente rinnovato, ma in fondo politicamente poco compromettente, perché il più delle volte adattato a contesti sociali lontani da quello italiano o ancora perché riletto attraverso una rivalutazione delle categorie del suo pensiero in un senso puramente culturale e interpretativo.
GIÀ IN UN SUO PRECEDENTE saggio (Marxismo culturale, Quodilbet, 2012) Marco Gatto si è interrogato su questo «trapasso del patrimonio marxista da ‘filosofia della prassi’ a bene di cultura, da agente di pensiero pratico e politico a oggetto di conoscenza». Ora questa sua indagine conosce un ulteriore sviluppo con un nuovo volume (Nonostante Gramsci, Quodlibet, pp. 192, euro 18) interamente dedicato a Gramsci e alla complessa ricezione della sua opera nel tormentato percorso del marxismo italiano dal secondo dopoguerra sino agli esiti più recenti.
IN QUESTO LAVORO di scavo, attuato in un territorio da anni rimosso dalla critica, Gatto mostra come la separazione tra pensiero e prassi non sia o, comunque, non sia solo la conseguenza necessaria della crisi dell’89, ma sia anche l’esito delle incertezze interne alla stessa critica marxista: alle sue difficoltà di integrare le note gramsciane sulla letteratura nel complessivo quadro dialettico tracciato nei Quaderni.
Lo si osserva anzitutto nelle pagine dedicate all’autonomia dell’estetico di matrice crociana, che negli anni Cinquanta, nonostante l’elezione di Gramsci ad Anti-Croce, continuava ad informare il discorso critico-letterario anche fra gli autori sensibili alla lezione dei Quaderni. Certo, l’idealismo su cui si era formata la generazione di scrittori e critici dell’engagement non poteva essere facilmente superato; quello che però è mancato è stata la capacità di trarre proprio dal pensatore sardo la linfa per recuperare il legame tra giudizio estetico e valore politico e, attraverso questo processo, per ricomporre quella separazione tra intellettuali e popolo tipica del cosmopolitismo italiano.
L’INDAGINE DIVIENE ancora più penetrante quando Gatto affronta alcune delle esperienze più significative della critica marxista degli anni Sessanta, come quelle di Asor Rosa, Franco Fortini, Leone de Castris e Romano Luperini. È in questa fase che si consuma nel marxismo italiano l’occasione di costruire un modello di critica letteraria capace di farsi carico dell’eredità gramsciana.
Ma a questa conclusione Gatto arriva tenendo conto delle differenze più che dei tratti comuni fra gli autori di quella fase. Spiccano così il lavoro di recupero dell’opera di Leone de Castris, su cui da anni pesa un inspiegabile oblio, e il serrato confronto tra Fortini - a cui sono dedicate le pagine migliori del volume - e Asor Rosa, dalla cui opera sorgono invece le questioni più problematiche e forse attuali. Sulla scia di Tronti e del nascente operaismo, Scrittori e popolo ha condotto una delle più serrate critiche al pensiero gramsciano e ai suoi interpreti della via italiana al socialismo.
QUELLO CHE È INTERESSANTE non è solo la rilettura della critica di Asor Rosa al nazionale-popolare su cui il Pci ha costruito parte della propria linea politico-culturale. Gatto mostra quanto Scrittori e popolo abbia agito molto più in profondità della polemica con la lettura comunista, mettendo in discussione quel principio della mediazione tra letteratura, società e lotta politica su cui si innerva il pensiero dei Quaderni, secondo una prospettiva intimamente storico-materialistica. In un’epoca, come quella attuale, di distacco o nel migliore dei casi di impegno testimoniale della letteratura, ripensare a quel nesso costituisce probabilmente il primo passo per una riscoperta, anche in ambito critico-letterario, del valore operativo e politico del pensiero gramsciano.
La passione per le sorelle Eugenia e Giulia Schucht e la politica svelati in un disegno di Antonio del 1922
Gramsci in love
Quella misteriosa cartolina che nasconde un triangolo
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 05.11.2016)
«Prendetelo prendetelo, è un controrivoluzionario», grida una donna magrissima e scarmigliata, le braccia allungate come tenaglie su un letto che se la dà a gambe levate. Davvero una strana cartolina, anche un po’ esoterica tra sfingi, piramidi, curiosi simboli grafici. Chissà cosa deve aver pensato Eugenia nel ritirarla tra la posta di Serebriani Bor, il sanatorio alla periferia di Mosca dove da tempo era ricoverata per un esaurimento nervoso. Delle cinque sorelle Schucht era la terzogenita, quella più politicizzata, d’una bellezza un tantino legnosa, mortificata dalle vestine color topo, soprattutto resa opaca dalla malattia che ne irrigidiva i movimenti e l’espansività emotiva.
Certo la doppia firma dello stravagante cartoncino sarà stato un colpo al cuore: Antonio e Iulka insieme, il rivoluzionario sardo di cui s’era invaghita nei corridoi della clinica e la sorella violinista dal fascino enigmatico. Era stata Eugenia a presentarli durante una delle visite in sanatorio. «Ecco, Antonio, questa è mia sorella Giulia. E questo è il compagno Antonio Gramsci». Lui era rimasto trafitto dall’ovale con gli zigomi alti e gli occhi allungati, una lunga treccia sulle spalle. «Che viso magnifico ha sua sorella! Ha qualcosa di bizantino, non è vero?».
Non sappiamo se Eugenia abbia ripensato a quelle parole mentre cerca di interpretare la criptica cartolina. È passato solo un mese dall’incontro tra Giulia e il compagno Gramsci. Però il nuovo messaggio appare inequivocabile: «carissima compagna nonché sorella, ci troviamo riuniti nella stanza numero 5 Sovietskie nomerà, è l’una del mattino, e siamo invidiosi che lei possa giocare... mentre noi siamo costretti a fare dei discorsi nei congressi dei cinovniky... ». Sono insieme, in una stanza d’albergo, all’una di notte. Allegri e spiritosi. Forse già innamorati.
Quante storie possono nascondersi in una cartolina disegnata durante una notte felice, il 16 ottobre del 1922. La più evidente è una trama d’amore, o meglio di un triangolo sentimentale che non sarà facile risolvere, e infatti non si risolverà, destinato a complicarsi in un quadrangolo con la comparsa sulla scena della terza sorella Tania Schucht. Quella più nascosta è una storia che investe la politica, cosa piuttosto complicata nell’autunno del 1922 a Mosca.
Arrivato in giugno per partecipare ai lavori dell’esecutivo dell’Internazionale comunista, il compagno Gramsci poco più che trentenne deve vedersela con il dogmatismo di Lenin peraltro già colpito da ictus, con il compagno segretario Bordiga di cui non condivide le scelte politiche e con le camicie nere pronte a marciare su Roma. Inutile aggiungere che amore e politica sono sfere maldestramente intrecciate nel prolungato grigiore che precede il totalitarismo.
Fu casuale la conoscenza tra Nino e le sorelle Schucht, figlie dell’aristocratico Apollon, amico personale di Lenin? O furono Eugenia e Giulia sollecitate dagli apparati comunisti a controllare il bravo ma indocile compagno italiano? E la vigilanza politica può escludere del tutto un coinvolgimento sentimentale? A Noemi Ghetti il merito di essersi inoltrata in un terreno scivoloso, valorizzando un documento non inedito ma passato finora inosservato ( La cartolina di Gramsci. A Mosca tra politica e amori, 1922- 1924, Donzelli). E di averci costruito sopra una storia non sempre coerente nella ricostruzione ma rivelatrice di aspetti meno indagati della biografia gramsciana.
Torniamo alla notte in cui viene scritta la strana cartolina destinata a Genia. Gramsci si trova a Ivanovo - un centro tessile noto come la Manchester russa - per partecipare a una manifestazione di partito. Con lui è Giulia che fa da interprete, avendo imparato l’italiano negli anni trascorsi a Roma con la famiglia. Che cosa è saltato nella testa di entrambi? Certo il desiderio di prendere le distanze dalla severa Eugenia, soppiantata nel cuore di Nino dalla bellezza morbida di Giulia.
La figuretta disseccata che grida al “controrivoluzionario” altri non è che la più inquadrata delle sorelle Schucht, la comunista granitica che aveva lavorato come segretaria nell’ufficio di Nadezda Krupskaja: era stata la moglie di Lenin a favorirne il ricovero nella “foresta d’argento” per quella incertezza sulle gambe. Mentre nel letto fuggiasco possiamo riconoscere l’altro inquilino del sanatorio, Gramsci, che probabilmente cominciava a sentire il peso di un’amicizia sentimentale zavorrata dalla malattia e dalla ortodossia. Anche il titolo della cartolina può essere rivelatore: La croce di Giulia, dove la croce va cercata nella rigida sorella maggiore. Una cartolina liberatoria, in sostanza, con cui Giulia e Nino tentano di uscire allo scoperto.
Poche settimane prima, sempre Nino aveva vergato una fantasiosa parodia de La croce, canzonetta popolare di Pietro Paolo Parzanese, nella quale allo “stoccafisso” Eugenia viene contrapposta la dolcezza saporita di Giulia. Tra nonsense, schizzi e disegni è un momento di grande divertimento, forse dettato anche da eccitazione per così tante attenzioni femminili.
E la politica? Nonostante gli intrighi sentimentali, è la politica a restare in primo piano. Un piano denso di rischi, visti i tempi confu- si. La spregiudicatezza intellettuale di Gramsci si ritrova anche nella cartolina, dove veste i panni scherzosi del “controrivoluzionario”. Ma si dispiega soprattutto nell’amore per Aleksandr Bogdanov, politico, medico e scrittore caduto pesantemente in disgrazia al cospetto di Lenin. È La stella rossa di Bogdanov, già parzialmente censurato a Mosca, il primo romanzo scelto da Gramsci da dare in traduzione a Giulia. Ed è intorno a questo libro - una metafora dei limiti dell’utopia rivoluzionaria - che si svolge l’iniziale corrispondenza tra i due innamorati.
Tra amori e politica, il biennio trascorso in Russia tra il ‘22 e il ‘24 appare tra i più spericolati. Anche per la confusione sentimentale di Nino, che continua a ronzare intorno a Eugenia. Nel febbraio del 1923 è lei la destinataria di alcune lettere d’amore erroneamente attribuite a Giulia. «Perché dice che è troppo presto? Perché dice che il mio amore è qualcosa fuori di lei, che non la riguarda? », insiste lui non senza qualche impudenza. Il filo con l’altra sorella musicista non s’è mai interrotto.
Quando Gramsci lascia Mosca per Vienna, il 4 dicembre del 1923, Giulia è già in attesa del primogenito Delio. Il loro sarà un amore bello e crudele, vissuto più in assenza che in presenza, schiacciato tra due totalitarismi e da una sofferenza psichica - quella di lei - forse anche esasperata dal doppio registro tragico di sposa e controllore politico. E tra i piedi sempre la ferrigna Eugenia, che si vendicherà dell’abbandono di Gramsci prevaricando sulla fragile personalità della sorella.
Giulia ed Eugenia, inseparabili anche nella trama nevrotica. Eccole ancora insieme nella stagione della vecchiaia, in un grande caseggiato di Mosca segnato dall’incuria. Un appartamento di tre stanze, le loro e quella dedicata a Nino in fondo al corridoio, le pareti tappezzate di libri e un vaso sempre pieno di fiori freschi. Chissà se avranno mai fatto cenno a quella vecchia cartolina.
Gramsci vittima della sua strategia
Giorgio Fabre, «Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato», da Sellerio.
di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 01.11.2015)
A partire dai primi studi di Spriano, la vicenda dei tentativi falliti di liberare Gramsci ha conosciuto una fortuna storiografica che ne ha fatto un tema sempre più ricorrente, e anche ineludibile nella discussione sul comunismo italiano, per le implicazioni che conteneva attorno al contrasto tra il «capo» dei comunisti e i suoi compagni che dall’estero tenevano in vita le stentate fortune di quel partito. Nel tempo si è trasformato, anche, in un «genere letterario» aperto a scorribande complottistiche, a processi sommari basati su brandelli di documenti decontestualizzati.
Oggi con il libro di Giorgio Fabre (Lo scambio Come Gramsci non fu liberato, Sellerio «La diagonale», pp. 536, euro 24,00) si esce decisamente dal complottismo o dalla reticenza (che è stata a esso speculare), e la vicenda viene riportata alla sua dimensione storica effettiva, dentro la quale però si annida anche un grumo di pensieri, di cose non dette e solo accennate o adombrate, e che tali inevitabilmente resteranno.
È un quadro molto ampio e frastagliato, di cui è impossibile rendere conto in dettaglio. Forse non tutto è egualmente significativo, e non è detto che dietro a ogni singolo gesto, supposizione od omissione debba nascondersi parte di un disegno o di molti disegni che si intersecano.
La trattazione segue le tre fasi che si succedono: una prima collegata a una sperata mediazione vaticana tra potere fascista e governo sovietico (scambio con vescovi) che si rivela inconsistente. Poi quello che Gramsci definisce il «tentativo grande», fase più lunga, che interviene mentre i rapporti fra Italia fascista e Urss conoscono un momento di incontro e collaborazione (Patto di amicizia del settembre 1933), che non dà vita neppure stavolta allo scambio auspicato ma che si conclude comunque con la concessione della «libertà condizionale» presso le cliniche di Formia e poi di Roma. Libertà che diviene però ben presto molto condizionata e sorvegliata e non si traduce nella concessione dell’espatrio in Russia per ricongiungersi alla famiglia, che è l’ultimo tentativo di un Gramsci ormai piegato e destinato a spegnersi il 27 aprile del 1937.
Posto che la mancata liberazione di Gramsci dipese in ultima istanza dalla volontà di Mussolini di mantenere uno stretto controllo sulla sua persona, la discussione che si apre riguarda il ruolo dei sovietici e, soprattutto, dei comunisti italiani.
Qui si possono cogliere molte novità. Intanto, contrariamente a quanto molti avevano adombrato, si può dire che non viene mai meno l’impegno dei sovietici per ottenere la liberazione di un loro uomo, malgrado le critiche del 1926, rivolte non tanto alla maggioranza staliniana quanto alle modalità di esercizio del suo predominio. Più complicato e dolente è il quadro dei rapporti con i compagni italiani. Lasciando da parte dissensi e dissapori sulle scelte dell’Internazionale, che pure agiscono sullo sfondo, la questione si pone sui pochi e spesso male improvvisati interventi nella questione.
Alla fine, si può anche convenire con l’autore che «gli italiani non facevano una gran bella figura» nella vicenda, sia perché «era difficile trovare qualche episodio che li vedesse positivamente coinvolti nei tentativi di liberazione del loro leader», sia perché alcuni interventi furono controproducenti e tali vennero severamente giudicati da Gramsci. Imbarazzo e reticenza che accompagneranno tale memoria e che impediranno fino all’ultimo una ricostruzione veritiera della vicenda. Ma qui è giusto ricordare che i comunisti italiani si mossero sotto un condizionamento difficilissimo tanto da ignorare quanto da accettare pienamente.
Infatti la novità più rilevante del libro è quella di porre al centro di tutta la vicenda Gramsci stesso, non solo in quanto oggetto di iniziative altrui ma soprattutto in quanto regista e stratega delle tortuose strade che avrebbero dovuto condurre alla sua liberazione. Una strategia largamente fallimentare, bisogna pur dire. Fin dall’inizio, con una fiducia immotivata nella disponibilità vaticana a trattare il suo scambio. Ma soprattutto con una strategia processuale debolissima e che si sarebbe rivelata all’origine di tutti i contrasti e di tutte le amarezze vissute nel rapporto con i compagni italiani.
Volontà di Gramsci era che gli italiani si tenessero fuori da ogni aspetto di quella trattativa, interamente demandata all’impulso sovietico. Una pesante intromissione era stata considerata la «famigerata» lettera di Grieco del 1928, sulla quale molto si è scritto, e che procurò in Gramsci un’irritazione destinata a riaffiorare nel tempo, mentre non suscitò reazioni simili in Terracini e Scoccimarro, che erano gli altri destinatari della missiva.
Al riguardo, bisognerebbe cominciare pure a chiedersi se davvero una polizia efficientissima come quella fascista avesse bisogno della lettera di Grieco per «scoprire» che Gramsci era uno dei massimi dirigenti del partito comunista. Ma tutta la strategia prescelta puntava ad attenuare e porre in dubbio l’esercizio di quel ruolo dirigente: il che comportava anche la raccomandazione di evitare campagne propagandistiche volte a rivendicare la sua liberazione.
A questo era particolarmente difficile attenersi, per un partito clandestino in patria e che aveva un compito naturale di mobilitazione di coscienze sul piano internazionale. Tanto più diverrà difficile col passare del tempo, quando, ad esempio, col patto di unità d’azione siglato con i socialisti nel 1934 il nome di Sandro Pertini verrà stabilmente ad associarsi a quello di Terracini tra le vittime del carcere fascista di cui si chiedeva la liberazione.
Al riguardo, è singolare che in questa letteratura non si sia mai tenuto conto della lettera di Togliatti a Turati del 30 ottobre 1930, nella quale venivano segnalate le gravi condizioni di salute di Pertini nel carcere di Santo Stefano, si invitava a una mobilitazione unitaria e si suggeriva di inoltrare la richiesta di trasferimento a un carcere più idoneo: come poi avvenne, nel carcere-sanatorio di Turi nel quale era recluso anche Gramsci (Sandro Pertini combattente per la libertà, a cura di S. Caretti e M. Degl’Innocenti, Lacaita 2006, pp. 70-71). La vicenda, tanto più significativa perché avvenuta in piena epoca di «socialfascismo», fa comprendere come da parte comunista si tenessero unite le dimensioni dell’agitazione politica e dell’esperire le vie «legali» consentite dai regolamenti.
Se si eccettuano cadute approssimative e dilettantesche (il modo in cui Azione popolare del 29 dicembre 1934, diretta da Teresa Noce, diede conto della scarcerazione di Gramsci, irrigidendo la posizione di Mussolini e dando luogo a quello che ancora nel 1969 Sraffa definiva un «disastro» rispetto alle speranze di Gramsci), la posizione del gruppo dirigente comunista fu nel complesso di accettazione della richiesta di Gramsci, se pure non condivisa e ritenuta sicuramente onerosa sul piano politico. Anche il ruolo di Togliatti emerge come particolarmente rispettoso della personalità dell’amico e vòlto a salvaguardarne la memoria, attribuendogli perfino colorite espressioni contro Trotskij nel momento in cui Grieco, Di Vittorio e altri sollecitavano un processo postumo contro Gramsci, che riuscì a bloccare. A Togliatti si deve in larga misura anche l’invenzione della frase eroica pronunciata di fronte al Tribunale speciale, dibattimento che invece si svolse in forma timida e stentata.
Quando all’inizio del 1934 Dimitrov venne espulso dalla Germania, dopo avere trionfato contro il Tribunale nazista, Gramsci dovette probabilmente porsi delle questioni e venire assalito da dubbi. Perché la strategia seguita dall’«eroe di Lipsia» era stata esattamente opposta a quella che Gramsci aveva prescelto: politicizzare al massimo il dibattimento, dare a esso la massima pubblicità, convogliare l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica internazionale. Gli ultimi anni di Gramsci furono amarissimi, segnati da delusione e scoramento, da sensazioni di abbandono e tradimento. Un esito di cui fu certamente vittima, ma che in qualche misura contribuì anche a determinare.
Liberare Gramsci: i tentativi sovietici e tutti gli errori del Partito comunista.
Colpe. I compagni italiani dimostrarono in questa vicenda leggerezza e cinismo
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 20.10.2015)
È uscito un libro che dice finalmente come andarono le cose quando si tentò di tirar fuori Antonio Gramsci dal carcere. Si tratta di un volume edito nei giorni scorsi da Sellerio, intitolato Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato , di uno storico italiano tra i più esperti di ricerche in archivio, Giorgio Fabre, curiosamente escluso dal mondo universitario, ad opera di docenti non di rado quasi digiuni della ricerca archivistica. D’altra parte è noto che ormai molte forze intellettuali valide non si trovano dentro l’istituzione universitaria, ma fuori.
Ma veniamo a questo libro per tanti versi decisivo. È talmente ricco che è difficile darne una descrizione completa. Proverò a darne il senso. Il risultato della ricerca è il seguente: il governo dell’Unione Sovietica e l’ambasciata sovietica a Roma operarono a più riprese per tirar fuori Gramsci dalla galera. Dapprima indirettamente (tramite il Vaticano: e su ciò Fabre porta molte novità), poi compiendo passi presso il governo italiano e direttamente presso Mussolini, col quale l’Unione Sovietica nel settembre 1933 aveva stretto un patto di amicizia e collaborazione che vigoreggiò fino alla rottura determinata dalla guerra d’Etiopia.
Alcuni episodi restano ancora passibili di progressi nell’indagine. Ad esempio, molti anni fa fu pubblicato il verbale di un incontro tra l’ambasciatore Potëmkin e Mussolini: verbale del quale inizialmente si disse che non era una cosa seria. In realtà l’incontro comunque ci fu e molto probabilmente (l’autore su questo punto è prudente), il tema Gramsci venne fuori nel dialogo tra l’ambasciatore sovietico e Mussolini. Sta di fatto che l’azione retroscenica dell’interlocutore sovietico, coordinata - nonostante tutto - con l’iniziativa acuta ed efficace dello stesso Gramsci, condusse alla concessione della libertà condizionale, con conseguente ricovero di Gramsci in clinica già alla fine del 1934.
Quello che era rimasto in ombra è che i compagni ostili a Gramsci, in particolare Athos Lisa, suo accusatore politico in carcere e dopo, continuarono a godere della piena fiducia del Centro estero del Pcd’I (almeno fino al momento in cui Mussolini poté, morto Gramsci, utilizzare su «Il Popolo d’Italia» un ignobile articolo del doppiogiochista Taddei che chiamava in causa a proprio sostegno Athos Lisa).
Gli interventi giornalistici promossi dal Centro estero del Pcd’I, in particolare su «Azione popolare» del 29 dicembre 1934 (a titoli cubitali: Gramsci è stato scarcerato) determinarono l’irrigidimento del governo italiano e l’arenarsi di ulteriori possibilità, ivi compresa quella di consentire a Gramsci di ricongiungersi alla famiglia in Russia. La notizia «sparata» da «Azione popolare» e presentata come effetto della campagna per la liberazione di Gramsci (cosa non vera) fu poi ripresa dal quotidiano del Pcf «L’Humanité».
Non aveva torto Piero Sraffa quando, scrivendo a Paolo Spriano nel 1969, parlò di vero e proprio «disastro», alludendo chiaramente a questa vicenda. Purtroppo Spriano, per motivi di opportunità partitica, non rese mai pienamente chiaro il senso di queste parole; e perciò nei suoi libri gramsciani l’episodio è sbiadito.
Cade con ciò la tesi che ha avuto tanta fortuna nella pubblicistica degli anni Novanta, soprattutto a destra, secondo cui vendicativamente i sovietici volevano mantenere Gramsci in carcere a causa della sua presa di posizione dell’ottobre 1926, in merito allo scontro in atto nel Partito comunista russo. Da parte dei compagni italiani ci furono leggerezza e cinismo: si volle sfruttare la vicenda Gramsci per fini agitatorii, giungendo a sostenere una tesi completamente falsa, che cioè Mussolini avesse ceduto di fronte alle pressioni della propaganda antifascista all’estero.
Nel volume del Fabre ci sono moltissime altre novità, a partire dalla prima edizione veramente completa dei documenti che Gorbaciov donò ad Alessandro Natta, riguardanti il primo tentativo sovietico - compiuto attraverso il Vaticano - di liberare Gramsci a ridosso dell’arresto. Anche in questa vicenda l’attenta rilettura, che Fabre fornisce, dei documenti e delle strane cancellature che li sfigurano si è rivelata molto istruttiva. Siamo di fronte ad un contributo che segna un punto fermo nella ricostruzione biografica su Gramsci.
Il nuovo saggio di Fabre ricostruisce le trattative “vaticane” per far uscire dal carcere il leader comunista
Quando Gramsci non fu liberato
storia politica di un fallimento
Nell’Archivio Andreotti i documenti sullo “scambio”
Mussolini fu irremovibile e influenzò il processo
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 02.10.2015)
Uno dice: Antonio Gramsci. E quel nome gli apre agli occhi della mente un grande paesaggio, come accade con pochi altri nomi dell’intera storia civile e vita intellettuale italiana. Di Gramsci si legge e su Gramsci si riflette nel mondo intero. E c’è almeno una cosa che tutti sanno di lui: che, chiuso in una prigione fascista e impedito di agire nella lotta politica e nei conflitti sociali del ‘900 europeo di cui era uno dei protagonisti, si dedicò a un’opera di pensiero
destinata al futuro: fece insomma, si direbbe coi versi di Dante che Benedetto Croce dedicò a Palmiro Togliatti, «come quei che va di notte che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte».
Di quell’opera si impadronì un esecutore testamentario, il Partito comunista di Togliatti, che ebbe il merito di conservarla ma ne fece un uso strumentale più o meno simile a quello che fece della figura dell’autore. C’è un rivolo di devozione che ha veicolato l’immagine di quel giovane uomo occhialuto con la grande testa incassata nelle spalle aureolandola della corona del martirio. Immagine adatta a un «santo leader morto in carcere», come scrive con amara ironia Giorgio Fabre nel suo nuovo e densissimolibro Lo scambio.
Come Gramsci non fu liberato (Sellerio editore); un’opera importante che affronta con decisione e con robusta ricerca un tema da tempo presente nelle discussioni intorno alla vita e all’opera di Gramsci: i tentativi di liberarlo dal carcere.
La vicenda fece la sua comparsa notevolmente tardi arrivando non proprio dal centro degli studi gramsciani legati al Pci: fu nel 1966 che un bel libro di Giuseppe Fiori raccontò del tentativo di Gramsci di ottenere la liberazione elaborando il piano di uno scambio di prigionieri e affidandolo alla mediazione della Chiesa cattolica.
Ci vollero altri undici anni perché una storiografia di partito in cauteloso avvicinamento alle regole della pratica storiografica accademica e agli angoli oscuri del proprio passato partorisse il libro di Paolo Spriano su Gramsci in carcere e il partito. Da allora si è aperta una discussione spesso vivacemente polemica che ha investito in modo speciale il nodo dei rapporti tra il partito comunista e il suo leader. Allora non si diceva “leader” ma “capo”: una parola molto più forte, osserva giustamente Giorgio Fabre. È una precisazione che nasce dallo scrupolo di aderire alla verità delle fonti frenando quel «furibondo cavallo ideologico» (come diceva Delio Cantimori) che nel campo degli studi su Gramsci e il Partito comunista ha avuto molte occasioni per far avvertire il suo furioso scalpitio.
Giorgio Fabre dichiara subito in apertura di libro la passione che lo lega al suo tema. Il suo è un forte sentimento d’ammirazione per l’uomo Gramsci, per il modo in cui riuscì a «bucare le pareti del suo carcere» e a guardare a ciò che si faceva e si pensava nel mondo intorno allo scontro politico in atto in Europa, col risultato di dare ai suoi Quaderni quel respiro di straordinaria curiosità e libertà intellettuale che tutti conoscono.
Ma chi fu che gli permise di conoscere e di sapere? Forse non ne sappiamo abbastanza: e Giorgio Fabre suggerisce piste e nomi per altre ricerche segnalando ad esempio il rapporto che si instaurò a un certo punto tra Gramsci e il presidente della Cassazione Mariano D’Amelio. Dunque questo libro non intende chiudere la ricerca, semmai per certi aspetti la riapre.
Forse la più importante novità sulla questione dello scambio riguarda il rapporto tra Gramsci e la Chiesa. Questa pista si apre con una esplorazione tra le carte dell’archivio Andreotti. Qui si conservano le copie di documenti provenienti da due diversissime direzioni e relativi alla questione della proposta di scambio tra Gramsci ed ecclesiastici cattolici prigionieri in Unione Sovietica: ci sono quelli tratti dagli archivi russi che Alessandro Natta, segretario del Pci, riportò dalla sua visita a Mosca del 1988 e quelli di origine vaticana che Andreotti, dietro richiesta di Paolo Spriano, si fece riprodurre pubblicandone poi una parte.
La proposta dello scambio era stata avanzata dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan Bratman-Brodowski al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli il 1° ottobre 1927. Giorgio Fabre ha approfondito questa pista con ottimi frutti e ha potuto raccontare per intero l’andamento e l’esito fallimentare di quel tentativo. Si approfondisce così come nel gioco della trattativa intervenissero diversi personaggi: tra gli altri il gesuita Pietro Tacchi Venturi, allora il tramite del papato con Mussolini. E si capisce come e perché la trattativa si chiudesse in maniera doppiamente negativa per Gramsci. Di fatto il Vaticano decise di lasciar cadere l’offerta in ragione di un diverso orientamento della sua politica verso l’Unione Sovietica. Ma intanto l’occhio attento del carceriere di Gramsci, Benito Mussolini, colse l’occasione per imprimere una svolta al processo in corso che aggravò le imputazioni a carico di Gramsci e ne chiuse a doppia mandata le porte del carcere.
Il giudizio di Fabre è che qui si coglie un primo errore di Gramsci: un errore legato in qualche modo a quella sua speciale considerazione della Chiesa di Roma che ha lasciato tracce anche nei Quaderni . Altri errori sono rilevati nella sua strategia successiva, soprattutto nel tentativo “grande”, quello del 1933 per ottenere la libertà condizionale. E ci furono anche le iniziative - non richieste né desiderate - del gruppo dirigente del Pci che mandarono a vuoto i progetti di un Gramsci sempre più sospettoso dopo la celebre vicenda della lettera di Ruggero Grieco, fino a fargli nascere il dubbio che i compagni avessero deciso di sacrificarlo. Molte le verità amare che Giorgio Fabre racconta in questo libro, molti e tenaci i silenzi, le mezze verità e le deformazioni del gruppo dirigente del Partito comunista.
Va detto tuttavia, a scanso di equivoci, che questa non è la rancorosa revisione di una vicenda interna a un partito. Le limpide e robuste pagine di Fabre non mandano mai i rancidi sapori del reducismo. La storia che qui emerge ha le robuste fondamenta di nuove conoscenze documentarie ma anche l’ampiezza di respiro che si conviene a una vicenda di dimensioni pienamente europee. Un solo esempio: per capire quello che avvenne col primo tentativo di scambio del 1927 Fabre ricostruisce l’intero quadro della situazione religiosa della Russia sovietica e della conseguente strategia vaticana in materia: il che ci permette di situare nel contesto grande la strategia di Gramsci e di capire quante e quali contraddizioni ne ostacolassero il successo. È una bella lezione di quale dovrebbe essere la pratica della ricerca storica sull’età contemporanea.
Al centro del libro resta lui, l’uomo Gramsci, il suo stile intellettuale e politico. L’indagine sui pensieri e comportamenti suoi in questi tentativi ne rivela le doti straordinarie: di pazienza, di lettura del mondo, di conoscenza degli uomini. E da parte dello storico c’è anche, inutile dirlo, un sentimento di perdita, un rimpianto di quello che la storia avrebbe potuto essere e non è stata: la possibile storia di un Gramsci che lascia l’Italia da uomo libero e in Italia torna con la Liberazione da grande e riconosciuto capo della sinistra comunista per agire nella nuova realtà del nostro paese. Una storia che non c’è stata, una perdita di cui noi italiani siamo stati tutti vittime.
Anche Silone tradì Gramsci
Rivelò il suo ruolo ai fascisti. E Togliatti ne usurpò le idee
di Dino Messina (Corriere della Sera, 18.11.2013)
Che cosa rende unica, nella storia del comunismo, la vicenda umana, politica e intellettuale di Antonio Gramsci? L’aver costruito un sistema di pensiero considerato ancora oggi vitale per l’interpretazione della cultura e della politica italiana e occidentale. Un’impresa ancor più importante se si tiene conto che il grande pensatore la realizzò nella solitudine del carcere fascista, tra l’incomprensione e l’ostilità del mondo comunista che avrebbe dovuto essergli amico.
È questo il giudizio che si ricava dalla lettura del nuovo saggio dello storico Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata , appena edito da Marsilio (pagine 257, e 19,50). Canali, studioso noto per la sua dimestichezza con gli archivi, di cui ha dato prova per esempio nelle opere Il delitto Matteotti e Le spie del regime (edite entrambe dal Mulino), mette tutta la sua sapienza documentaria e passione per svelare definitivamente le falsificazioni di cui è stato oggetto il pensatore sardo. Un «santino», nella mitografia costruita da Togliatti, utile per illustrare una storia lineare e senza conflitti del gruppo dirigente del comunismo italiano.
Naturalmente, come si racconta da qualche anno, le cose stanno in maniera diversa, e Canali ha il merito di mettere assieme tutti i tasselli anche sulla base di nuove acquisizioni documentali. Innanzitutto lo studioso smonta la linea di continuità fra Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che già dall’ottobre 1926, poco prima dell’arresto del leader sardo, interpretavano due linee diverse e due modi opposti di intendere il lavoro politico.
Canali cita in particolare due lettere a Togliatti in cui Gramsci prende le distanze da un modo di agire burocratico e opportunista e soprattutto esprime una concezione del «centralismo democratico» opposta a quella interpretata da Stalin e dal gruppo dirigente dell’Internazionale comunista.
Gramsci è per l’inclusione delle opposizioni, a cominciare da Trockij, e per la costruzione del socialismo che non esclude un passaggio attraverso la «democrazia borghese», gli altri sono per il muro contro muro e l’eliminazione dei dissidenti. È questa l’origine di una divergenza che si acuirà con gli anni, fino a toccare il suo acme con la nota vicenda della lettera di Ruggero Grieco del 29 febbraio 1928, che fece infuriare il leader sardo, ormai prigioniero da un anno e mezzo.
Mentre era ancora aperta l’istruttoria per il processo che avrebbe portato a una condanna di oltre vent’anni ed erano in corso trattative (anche con la mediazione vaticana) per uno scambio di prigionieri tra l’Urss e l’Italia, Grieco mandava una lettera (partita da Vienna per Mosca e da qui spedita in Italia) che non poteva non mettere in allarme il sistema di sorveglianza fascista. Tanto che, nel dicembre 1932, Gramsci arrivò a confidare alla cognata Tania: «Può darsi che chi scrive fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». L’allusione, come viene confermato da documenti e testimonianze successive, è a Togliatti. È questi, secondo Gramsci, il personaggio «meno stupido» che lo aveva danneggiato. Il giudice istruttore Macis, che evidentemente aveva letto anche le lettere inviate da Grieco ad altri dirigenti del Pcd’I in carcere, aveva avvertito il capo comunista che c’era qualcuno fra i suoi amici che aveva interesse a tenerlo dentro.
Nell’intricata vicenda Gramsci, Canali analizza il ruolo avuto dalla famiglia della moglie, Giulia Schucht, ma anche quello dell’economista Piero Sraffa, di cui posticipa di circa un decennio l’adesione al comunismo attribuita dalla vulgata, e la responsabilità di Ignazio Silone nell’arresto di Gramsci. Fu Secondino Tranquilli, alias Ignazio Silone, alias «Silvestri», responsabile della propaganda del Pcd’I e informatore del funzionario di polizia Guido Bellone, a indicare a questi con precisione il ruolo di leader ricoperto da Antonio Gramsci. Il processo si basò fondamentalmente sulle accuse di Bellone. Ma il filo conduttore del racconto rimane l’ambiguo atteggiamento tenuto verso Gramsci da Togliatti, il quale, in una breve storia dei primi anni di vita del Pcd’I scritta nel 1932 ad uso del Comintern, rievocando il periodo 1923-1926, omise il nome di Gramsci, che era invece in quel periodo il leader riconosciuto del partito.
Dopo la morte del pensatore comunista, avvenuta il 27 aprile 1937, la cognata Tatiana tornò a Mosca con l’intenzione di fare i conti con Togliatti. Il Comintern in effetti istruì un’inchiesta (condotta da Stella Blagoeva) che nel 1940 portò all’allontanamento del «compagno Ercoli» dalle cariche direttive. La sconfitta del fascismo e la necessità di ricostruire il partito in Italia furono la salvezza per Togliatti.
Nel dopoguerra cominciò la gestione dell’eredità intellettuale di Gramsci, che passò attraverso la pubblicazione, con omissioni e destrutturazioni, dell’opera, base preziosa per la teoria della via italiana al socialismo. Un corpus di saggi e testimonianze usato e manipolato anche per costruire la leggenda di «Togliatti erede di Gramsci».
L’OSPITALITA’
di don Aldo Antonelli
Chiuso il giornale, la cui lettura ha buttato sale sulle ferite, mi sono messo in tenuta da footing e me ne sono andato in aperta campagna, a disintossicarmi l’animo, oltre che ossigenare il fisico. Cammin facendo, ho riflettuto sulle letture della liturgia di domani e mi sono venute a mente delle riflessioni di cui vi faccio partecipi.
Il tema, comune alla prima e alla terza lettura, è indubbiamente quello dell’ospitalità.
Ora , già il termine sembra risultare equivoco, dal momento che viene associato più ad una "libera scelta", che non ad un "civile dovere", così come lamentava già il 7 gennaio 1918 Antonio Gramsci che scriveva: «L’Italia è il paese classico dell’ospitalità (...). Ma lo spirito evangelico non ha saputo trasformarsi nella forma moderna della solidarietà e dell’organizzazione disinteressata e civile (...). L’assistenza, che è un diritto, diventa un regalo, una umiliante carità, che si può e non si può fare» (Odio gli indifferenti; pp.13 e 14).
L’ospitalità offerta da Abramo ai tre sconosciuti sta a significarci che l’ospitalità non è quella che riserviamo ai familiari, agli amici, che, grosso modo, sono sempre un pò parte di noi stessi, bensì quella che riserviamo al diverso, allo sconosciuto. Verso il quale, poi, (seconda riflessione) dovremmo assumere non tanto un atteggiamento faccendiero di “aiuto”, ma un atteggiamento attento di “ascolto” (La Marta e la Maria del vangelo....).
Parafrasando Jabès, possiamo dire che «il sapiente è colui che ha percorso tutti i gradi della tolleranza e ha scoperto che la fraternità ha uno sguardo e l’ospitalità un orecchio» (Edmond Jabès dice “una mano”...). Perché il diverso ha bisogno di essere ascoltato per essere capito, più che servito per essere aiutato.
«Ospitale è il soggetto la cui casa non è il luogo dove egli abita nel chiuso del rapporto da sé e sé, ma lo spazio che si apre all’altro e nelle cui porte la chiavi non chiudono, come vuole l’etimo del termine italiano, ma sono strumenti che aprono, come vuole l’etimo del termine ebraico, patah, che vuol dire disserrare e perciò aprire». (Carmine Di Sante Lo Straniero nella Bibbia; p.100).
Un’ultima riflessione, dalla prima lettura: il primo ritorno dell’ospitalità è un arricchimento personale. Colui che ospita è più quello che riceve che quello che dà...; soprattutto in termini di paternità, come Abramo.
Buona domenica.
Un artista svizzero ha avuto l’idea e la gente del quartiere newyorkese l’ha trasformata in una festa di strada. Da oggi per tutta l’estate l’happening culturale tra murales con il volto, la storia e le frasi dell’intellettuale italiano
Gramsci park. Un monumento nel Bronx “Il comunista meglio dei rapper”
di Massimo Vincenzi (la Repubblica, 01.07.2013)
NEW YORK Arrampicato su una scala, c’è un ragazzo che disegna un murales: la faccia è quella di Antonio Gramsci. «Antonio? Sarà spagnolo?», chiede a quello che gli sta vicino. L’amico gli risponde tutto d’un fiato, come uno che ha appena studiato: «No, è italiano. Un filosofo morto in prigione ».
Bisogna procedere senza troppa logica per raccontare questa storia che sembra una leggenda metropolitana: un artista che viene dall’Europa costruisce un monumento nel cuore del Bronx dedicato ad uno dei padri del movimento operaio e fondatore del partito comunista, così lo presenta la Cbs. Ma è la verità. Il monumento è qui, in questo cortile di erba e cemento al centro di un gruppo di grattacieli dai mattoni rossi. Il posto si chiama Forest Houses, negli anni Novanta ci arrivava solo la polizia con le pistole spianate a contrastare una delle tante lotte tra spacciatori di crack. Adesso va meglio, anche se la violenza c’è ancora e Manhattan è lontana come un altro pianeta. Proprio per questo, la strana creazione sta qui, “lontana dal centro e dalle altre gallerie”.
A vederla, sembra qualcosa che sta a metà tra una casa sugli alberi, icastelli per bambini nei parchi e una cabina da spiaggia. Oppure sembra una nave, come suggerisce Tim Rollins, pittore che insegna in un college vicino. È qui per vedere il lavoro del collega e perché ama Gramsci. Guarda i muri chiari, piegando un po’ la testa per abbracciare tutta la visuale: «La prua verso l’orizzonte, per navigare e portare il messaggio a quanta più gente è possibile». Costruita in legno compensato, plexiglass e tanto nastro adesivo, sta per essere completata in questa domenica umida di pioggia.
Una decina di persone dà gli ultimi ritocchi: oggi ci sarà l’inaugurazione, ma non è la parola giusta, meglio dire: oggi aprirà. Perché per quasi due mesi e mezzo sarà il centro pulsante del quartiere, un po’ happening culturale, un po’ festa di paese: ci saranno reading, lezioni difilosofi, corsi per bambini di tutte le età. Baby sitter e insegnanti a cui affidare i piccoli. E poi ancora concerti di musica classica e rock, spettacoli teatrali. Seminari sull’arte e sulla cucina. Una radio e un giornale che verranno animati da chi abita le case qui attorno. E un bar dove ogni sera verrà servito l’happy hour dalle sei alle sette.
Thomas Hirschhorn è l’artista,di solito veste di nero e ha gli occhiali spessi. Ha 56 anni, è svizzero e nel suo ambiente è piuttosto famoso: se lo contendono le migliori gallerie. Ma lui pensa che i confini vadano allargati, che i musei vadano portati per le strade. Questo progetto è il quarto nel suo genere, il primo in America: gli altri sono ad Amsterdam dedicato a Spinoza, poi Gilles Deleuze ad Avignone eGeorge Bataille a Kassel, in Germania. Due anni fa, sceglie New York, inizia a girare per i quartieri periferici cercando persone con cui condividere il suo progetto: «All’inizio mi vedono e pensano che io sia un prete o un ricco eccentrico, poi capiscono che faccio sul serio e da lì in poi è tutto facile».
A capirlo per primo è Eric Farmer che guida l’associazione residenti di Forest Hou-ses. Immobilizzato dopo un incidente d’auto al college, gira per il cortile su una sedia a rotelle a motore. Lui Gramsci non lo conosceva, sì certo sapeva chi era ma non l’aveva mai letto. Si è fatto dare i libri da Thomas e dopo pochi giorni gli dice: «Mi sembra un’ottima idea. Lo spirito è quello giusto, costruiamo noi la tua cosa». Vengono assunti 15 residenti a 12 dollari all’ora per duemesi (la paga media in città è 7,5) e “il condominio di Gramsci” inizia a crescere. Alle pareti ci sono le sue massime, le citazioni delle lettere, il suo pensiero: “Tutti gli uomini sono intellettuali”. Appeso alla finestra di un grattacielo c’è un grande lenzuolo bianco con scritto: “Sono un pessimista a causa dell’intelligenza, ma un ottimista per diritto”. A settembre l’opera non verrà imballata ma regalata alla gente di qui, che si contenderà i vari pezzi in una lotteria: sarà la festa di fine estate.
Myma Alvarez tiene il figlio in braccio. Guarda gli uomini al lavoro con un sorriso e chiede loro se hanno bisogno di qualcosa: «È una bellissima idea, fantastica. Qui nonc’era niente e adesso avremmo questa casa tutta nostra dove passare il tempo insieme». In un’intervista al New York Times Thomas spiega: «Io non voglio cambiare le loro vite, le mie ragioni sono artistiche. Gramsci credeva nel valore della cultura e dell’insegnamento per liberare gli oppressi. Ecco, se riesco a far riflettere sulla potenza dell’arte e della letteratura, io sono felice. Ho ottenuto quel che volevo ».
Myma passa davanti al murales. Il ragazzo l’ha quasi finito, si fuma una sigaretta appoggiato al muretto. I due si conoscono da sempre. Lei lo prende in giro: «Ma sai chi è? È un rapper?». Lui serio: «No, è Antonio: un poeta italiano che è morto dentro una cella». Dice poeta e la nave può togliere l’ancora.
Ecco chi ha tradito Antonio Gramsci
Canfora indaga sull’arresto del padre del Pci
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 17.11.2012)
Luciano Canfora è noto quale detective in materia storica sui temi più vari. I suoi non sono, però, lavori di ginnastica intellettuale, eseguiti per il piacere di sciogliere un rebus. Li anima, invece, una passione civile e morale della verità, che gravita sempre su nuclei di problemi vivi e di spicco e risponde a profonde convinzioni politiche. Caso vissuto, quindi, di quella contemporaneità della storia, per cui è l’urgenza del presente a volgerci al passato e a renderne attuali i problemi; e il buono storico si distingue dal cattivo se la spinta del presente non altera ciò che del passato una corretta filologia ci può dire. Non è un caso, perciò, che Canfora inizi il suo nuovo libro Spie, Urss, antifascismo. Gramsci 1926-1937 (Salerno Editrice) con alcune colorite pagine sulle «storie sacre», ossia quelle in cui la ricerca è condizionata in partenza da fini ideologici o di parte.
Qui si tratta del rapporto fra Antonio Gramsci, dopo il suo arresto nel novembre 1926, e il gruppo dirigente del suo partito - un rapporto, finché non vi fu la postuma santificazione, difficile - e di tre lettere di Ruggero Grieco a Terracini, a Scoccimarro e a Gramsci, insidiose per quest’ultimo, che perciò definì «criminale» quella diretta a lui.
Per l’arresto (non facilmente evitabile) si configurano «pesanti ombre» e una inettitudine dei responsabili della sicurezza di Gramsci. Per le tre lettere - sfrondando al massimo la questione, che Canfora mostra al centro di scelte e condotte politiche rilevanti per la storia del comunismo italiano ed europeo negli anni di Stalin - emerge che Grieco si fece strumentalizzare da un qualcuno, mosso da torbidi fini e individuato in Angelo Tasca.
Intorno a tutto ciò Canfora fa ruotare la dirigenza comunista italiana fra il 1926 e il 1937, con una folla di personaggi maggiori (Sraffa, Togliatti, Bordiga, Camilla Ravera, la cognata di Gramsci, i diplomatici russi a Roma) e minori o quasi sconosciuti, che egli porta in luce. Una puntigliosa indagine illustra poi tormenti e difficoltà della storiografia dei comunisti fino alla pubblicazione delle lettere di Grieco (di cui una copia, non si capisce bene come, finì nell’Archivio dello Stato in Roma).
Si chiude, infine, con l’esame del pensiero gramsciano sull’affermazione del fascismo in Europa e sugli scenari aperti con la fine della prospettiva rivoluzionaria nell’Occidente europeo. Dalle sue analisi teoriche e storiche Gramsci emerge in tutto il rilievo di una rigorosa e vigorosa riflessione, in cui Luciano Canfora distingue tre fasi: quella «esordiale» fra il 1914 e il 1918, in cui egli si vota alla causa della rivoluzione socialista; la seconda, in cui crolla il sogno rivoluzionario e si hanno nuove condizioni nell’Europa fascista e nell’Unione Sovietica; la terza è quella del carcere e dei Quaderni, con un originale sforzo di riflessione storica e politica.
Per noi è dubbio che la scelta «esordiale» di Gramsci sia quella dal 1914 in poi. Il Gramsci di allora, per nulla vergine, aveva alle spalle un’intensa vicenda intellettuale, in cui la rivoluzione era già sull’orizzonte e in cui aveva influito a fondo su di lui la cultura italiana (e soprattutto, per noi, checché se ne pensi, Croce). Senza questi incunaboli il pensiero gramsciano perderebbe, sempre per noi, alcuni suoi tratti di fondo. Nelle altre fasi, e in specie nella terza, Canfora riporta a Gramsci l’idea di una via nazionale al socialismo e vede in Togliatti l’erede di questo progetto, connesso, così, alla storia della democrazia italiana.
Non si può qui approfondire la cosa, ma per il Togliatti post 1945 rimane sempre l’adesione piena, in effetti, alla linea di Mosca fin ben oltre i fatti d’Ungheria nel 1956, e ciò porta ad altre idee sul rapporto fra comunismo e democrazia in Italia. Il pensiero dell’ultimo Gramsci è, comunque, oggetto qui di un’analisi più che stimolante. Il fascismo come «rivoluzione passiva», la novità del nazismo, il corporativismo e il fascismo come «terza via», il rilievo dell’elemento nazionale, la riflessione sulle «rivoluzioni concorrenti», con le collusioni di Roma e poi di Berlino con Mosca, sono prospettive gramsciane, spesso di grande acutezza, che Canfora studia in pagine meritevoli di attento indugio.
Si conclude, così, degnamente un «romanzo storiografico», ricchissimo di figure sia note che quasi ignote, nelle cui logiche comportamentali Canfora penetra spesso con acume; ricco, altresì, di vicende al limite del paradossale, se non dell’incredibile; e scritto con lucida e partecipe foga dall’autore di una ricerca, che vale anche come un eloquente monito contro errori e nefandezze a cui, nell’oppressione della libertà congiunta a spirito settario e all’accettazione di un verbo totalitario, idoli falsi e bugiardi (rivoluzione, nazionalismo o altro) possono portare i fautori di qualsiasi causa.
Il codice di Gramsci prigioniero
Opera di Beppe Vacca
La biografia del fondatore del Pci negli anni del carcere, fondata su documenti finora inediti
di Nerio Naldi (l’Unità, 22.4.12)
La vita e i pensieri di Antonio Gramsci di Beppe Vacca poggia su un lungo percorso di ricerca e in quanto tale riprende lavori già pubblicati e presenta nuovi sviluppi; in entrambi i casi la trattazione sistematica di quelli che possiamo considerare i temi e i nodi cruciali della biografia personale, intellettuale e politica di Antonio Gramsci nell’ultimo decennio della sua vita, cioè negli anni del carcere, offre un grande contributo alla ricostruzione della sua vicenda e del suo pensiero e alla conservazione e alla trasmissione del suo patrimonio. Il titolo del libro è preciso: la vita e i pensieri (al plurale) di Antonio Gramsci si intrecciano. La parola carcere nel titolo non compare, ed effettivamente possiamo pensare che la grandezza di Gramsci abbia travalicato il carcere, ma è anche vero che egli non trascorse in carcere tutti gli anni fra il 1926 e il 1937: fu prima confinato, poi recluso, quindi detenuto costretto in un letto di ospedale; ma sappiamo che carcere fu.
La lettura è giustamente centrata sulla corrispondenza, perché, al di là di pochi colloqui, soltanto attraverso questa poteva passare la comunicazione, ma in alcuni casi l’analisi usa altre fonti e si estende ai Quaderni (come nell’esame del dissenso di Gramsci rispetto alla svolta del 1928-29 e del significato della sua proposta della Costituente, che, secondo Vacca, che le dedica uno spazio molto più ampio di quanto non avessero fatto precedenti studiosi, rappresenta il punto di confluenza di una serie di elaborazioni cruciali sviluppate nei Quaderni: l’idea che la democrazia e non la rivoluzione fosse il terreno su cui combattere la battaglia per la conquista dell’egemonia). Ma lo studio e la comprensione della vicenda di Gramsci negli anni fra il suo arresto e la sua morte richiedono la considerazione di un numero notevolissimo di piani diversi: il piano del rapporto di amore e di condivisione politica con sua moglie Giulia, le loro condizioni di salute, le sue riflessioni sul movimento comunista e sulle relazioni fra politica nazionale e sviluppo economico mondiale, la preparazione delle istanze relative alla riduzione della pena in seguito alla concessione di amnistie e indulti, l’accesso alla liberazione condizionale, i tentativi di ottenere la libertà attraverso una trattativa fra governo sovietico e governo italiano... fino al destino dei Quaderni dopo la sua morte.
Un merito del libro è nella capacità di renderne l’unitarietà senza cadere nella piattezza espositiva e dando specifico rilievo ai singoli elementi. Questo avviene essenzialmente individuando una chiave di lettura principale secondo cui la dimensione politica è sempre presente nei pensieri di Gramsci e, di conseguenza, nelle informazioni che trasmetteva ai suoi interlocutori diretti e indiretti. L’insistenza e la coerenza con cui, nel corso degli anni, Gramsci ha riaffermato la propria determinazione a non compiere gesti che potessero apparire come cedimenti al regime fascista è un elemento al tempo stesso cruciale e rivelatore di tale centralità. Ovviamente tali contenuti politici non potevano che essere nascosti e convogliati attraverso codici, perché dovevano raggiungere i destinatari superando la censura carceraria ed eventuali letture da parte di soggetti diversi dai destinatari desiderati. E lo stesso valeva per le lettere dei suoi interlocutori, che erano scritte sotto gli stessi vincoli.
CERCARE I MESSAGGI
Tutto ciò moltiplica le difficoltà di interpretazione e di ricostruzione. E fra queste difficoltà si deve anche considerare il fatto che ognuno dei soggetti coinvolti Antonio Gramsci e Giulia in primo luogo potevano essere condizionati anche emotivamente dalle circostanze restrittive in cui la loro comunicazione era costretta. D’altra parte questa chiave di lettura non può essere generale, perché la comunicazione non affrontava solo temi politici, anche se nel caso di Gramsci ed egli ne è consapevole quasi ogni gesto poteva assumere un significato politico e molte questioni dovevano comunque essere comunicate con la massima cautela. Di qui l’esigenza indicata da Vacca di ricercare i codici dietro cui il vero contenuto delle comunicazioni poteva essere nascosto e di interpretare allusioni, riferimenti e oscurità con questa consapevolezza, ma anche attraverso una valutazione circonstanziata caso per caso.
Dato questo contesto, l’autore riesce ad illuminare una molteplicità di episodi e di frasi che altrimenti potrebbero restare avvolti in una nebbia di incomprensione e stabilisce dei parametri di lettura che si potranno porre alla base di ulteriori ricerche e da cui, anche non condividendoli, non si potrà prescindere. Così, ad esempio, viene interpretato il significato della prima lettera (19 marzo 1927) in cui Gramsci presenta un programma di studio per il periodo che si preparava a vivere in carcere. Secondo Vacca, quel programma, in quel momento, non poteva essere un vero piano di lavoro, e, anche se lo era, poteva essere utilizzato per influenzare l’atteggiamento dei giudici e come prova della disponibilità di Gramsci, se liberato attraverso una trattativa fra il governo sovietico e il governo italiano a non svolgere attività politica. Inoltre, interpretato come un codice, comunicava a Togliatti l’intenzione di continuare a sviluppare in termini più generali, attraverso un’analisi teorica rigorosa e radicale che soltanto ironicamente si poteva dire disinteressata (così vanno intese le espressioni con cui Gramsci descriveva il tipo di studio a cui si proponeva di attendere e in effetti, se consideriamo il testo della poesia di Giovanni Pascoli Per sempre a cui Gramsci sembra fare riferimento, non possiamo pensare che egli volesse svincolare la sua analisi dalla concretezza dei processi storici), le posizioni politiche che era venuto elaborando nel corso del 1926 e su cui con Togliatti si era scontrato e che lo avevano portato ad esporre alla dirigenza sovietica la propria eterodossia. Il fatto poi che su quel piano di lavoro egli chiedesse a Tatiana Schucht di esprimere un parere, viene inteso da Vacca come una ulteriore indicazione di come il messaggio fosse rivolto al suo partito e a Togliatti in particolare, chiedendo alla cognata di assolvere ad un difficile e delicato compito di comunicazione politica.
La possibilità di essere liberato attraverso un intervento del governo sovietico e una trattativa diretta fra stati viene indicata da Vacca come una preoccupazione costante di Gramsci fin dall’inizio della sua detenzione: molte delle sue comunicazioni vengono lette in questa chiave e la famigerata lettera inviatagli da Ruggero Grieco nel febbraio del ’28 viene interpretata come un grave ostacolo frapposto al concretizzarsi del primo tentativo in tal senso. A questa lettura si collega poi la reinterpretazione compiuta, come in altri casi, alla luce di documenti fino a pochi anni fa non conosciuti e di un’acuta rilettura di documenti già noti del ruolo svolto dal giudice istruttore Enrico Macis nell’inchiesta che avrebbe portato al processo davanti al Tribunale speciale. Solitamente Macis era stato rappresentato come capace di carpire la fiducia di Gramsci e di ingannarlo sulle sue vere intenzioni; secondo Vacca, al contrario, l’operare di Macis non ebbe tali caratteristiche, seguì diverse fasi scandite da ordini provenienti dalla segreteria di Mussolini e rappresentò un tramite attraverso cui Mussolini volle mantenere aperto, almeno fino ad una certa fase, uno speciale canale di comunicazione (o piuttosto di interrogazione) con Gramsci, probabilmente perché interessato a valutare la possibilità di scambiarlo per ottenere vantaggi sia in termini di rapporti di forza interni sia in termini di posizione internazionale e di rapporti con l’Unione Sovietica.
LA PEDINA DEL GIOCO
In questo gioco di rapporti fra stati la posizione di Gramsci non poteva essere altro che quella di una pedina, ma ciò non gli impediva di valutare lucidamente la sua situazione e di cercare di sfruttare le opportunità che anche in tale contesto si potevano presentare, pur mantenendo sempre ferma, dall’arresto alla morte, la determinazione a non compiere alcun atto che potesse essere interpretato o contrabbandato come un cedimento al regime e in tal senso si possono leggere le affermazioni esplicite contenute in lettere di Gramsci o nelle comunicazioni dei familiari che furono in contatto con lui: la cognata Tatiana e i fratelli Gennaro e Carlo. A questo proposito si può aggiungere che la disponibilità a non impegnarsi nell’attività politica a fronte della liberazione, se fu davvero espressa, in codice, in una lettera del 1927, in realtà, nel momento in cui gli si aprì la possibilità di chiedere la liberazione condizionale, cioè nel 1934, Gramsci non la confermò anzi, appare molto probabile che, se richiesto di sottoscriverla, l’avrebbe rifiutata. Infatti, la dichiarazione che Gramsci effettivamente sottoscrisse riguardò solo l’impegno a non fare un utilizzo politico del provvedimento di liberazione condizionale che gli veniva concesso.
A proposito di «Quel che resta di Marx» di Giuseppe Vacca
di Valentino Parlato (il manifesto, 10.06.2016)
Ho letto e riletto Quel che resta di Marx. Rileggendo il Manifesto dei comunisti (Salerno Editrice, pp 98, euro 8,90), questo distillato libro di Giuseppe Vacca e mi ha molto intrigato. Provocatorio, il titolo sembrava indicare quel che di Marx andrebbe buttato nella spazzatura della storia e, invece, al contrario, Vacca ne ribadisce l’attualità del pensiero, fondandosi sulla lettura del Manifesto e senza arrampicarsi sui Grundrisse. La tesi di questo saggio - scrive Vacca a conclusione della sua premessa - è che la carenza di ricostruzioni soddisfacenti della storia mondiale contemporanea sia dovuta anche all’emarginazione del pensiero di Marx.
Tuttavia, invece di invocarne un generico ritorno, si vorrebbe dimostrare che «rimosso il continente Marx dal pensiero contemporaneo, questo funziona male perché non riesce a dare un fondamento storico e un respiro strategico all’agire politico». E, sempre su Marx, decisiva è l’insistenza di Vacca nel respingere la sua corrente riduzione a economista, per ribadire che Marx è un politico nel senso pieno della parola. Non un politicante (oggi il nostro mondo ne è pieno), ma un politico e un politico straordinario, che fonda il suo agire su una vasta cultura.
I grandi mutamenti realizzatisi con lo straordinario progresso tecnologico e, forse ancora di più, con la globalizzazione hanno cambiato la configurazione storica del movimento operaio, ma anche del capitalismo. Bisogna quindi costruire un «nuovo pensiero», che trova ancora una guida nel pensiero di Marx, che va studiato in rapporto alle trasformazioni del presente e alla sua complessità nella quale un causa può avere anche un effetto diverso da quello scontato.
Le pagine di Vacca vanno allora lette e rilette e sempre in rapporto col pensiero di Marx, quindi con una seria lettura dei suoi scritti: il mondo è in continuo cambiamento, ma Marx resta ancora in campo.
Gramsci, e ancora ci provano!
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 21.03.2012)
E ancora insiste! Non pago della figuraccia fatta per aver attribuito a Gramsci un «ravvedimento» inesistente, dopo aver citato un articolo del Codice Rocco che nel 1934 non lo includeva (quello a cui Gramsci si appellò per la libertà condizionale), Dario Biocca torna alla carica su Repubblica. Così: vero, l’art. 176 non prevedeva ravvedimento, ma Mussolini con l’art. 43 del Regio Decreto n. 502 del 28 -5 1931 attribuì al Ministero della Giustizia l’autorità di emanare le disposizioni applicative, con relativi decreti che imposero la verifica del ravvedimento, etc., etc.
Ma ci faccia il piacere, direbbe Totò! È roba da azzeccagarbugli.
Intanto c’è la svista, marchiana per uno storico: aver citato un testo del 1962, retrodatandolo al 1934. Poi, nella sua istanza Gramsci si appella all’art. 176 quale era allora, e non anche a «disposizioni attuative» che non mutarono quell’articolo e che lasciavano comunque ampi margini di discrezionalità all’autorità.
Inoltre Gramsci non firmò o barrò nessuna casella di un (eventuale) prestampato dal quale risulti essersi ravveduto. A latere, si impegnò solo a non far politica nel sito della libertà condizionale.
E nell’istanza addusse, oltre alle mere «condizioni giuridiche e disciplinari» che lo abilitavano alla libertà condizionale, soprattutto drammatici motivi di salute (perché fosse chiara la motivazione della richiesta). Infine, se Gramsci si fosse ravveduto, Mussolini non se la sarebbe rivenduta la notizia?
Decise per il sì, perché v’era stata una campagna in Europa, con alla testa Roland Rolland. Altra sciocchezza di Biocca: Gramsci nel 1934 interruppe i Quaderni. No, li protrae nel 1934 e nel 1935 e con dentro Americanismo e fordismo e altre cose straordinarie o politicamente pericolose. Eroicamente. Altro che pulci e processetti mediatici!
Perché non c’è stato nessun ravvedimento da parte di Gramsci
di Joseoph Buttigieg (la Repubblica, 03.03.2012)
Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della corruzione della società civile. Nella sua introduzione al Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di «assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell’attività scientifica [... ], irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per l’epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni paese ha il suo».
La figura di Gramsci ha attirato l’attenzione di parecchi loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in punto di morte grazie all’effigie di Santa Teresa. Le polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante. In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato in sintesi su Repubblica sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al cospetto del duce.
La tesi di Biocca è basata sulla supposizione che - con la richiesta per la libertà condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre del 1934, invocando l’articolo 176 del codice penale - il comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale». Questo, però, non è il testo dell’articolo 176 in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel novembre 1962.
Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci Society), il testo dell’articolo 176 nel codice in vigore nell’anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla».
Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del codice penale che non indica la revisione del articolo 176 effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento dell’evidenza testuale sarebbe la conseguenza di un’incompetenza filologica piuttosto che di una lettura intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l’immagine del documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica): «Sono d’avviso che il beneficio che sta per essermi concesso non è da attribuirsi a cause politiche».
Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.
Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch’esse contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto regolare con i suoi amici e compagni.
In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci è da prendere sul serio solo perché è un sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere - come ha fatto Gramsci - «sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato opportuno ripristinare.
(L’autore è presidente dell’International Gramsci Society e ha curato l’edizione critica dei "Quaderni dal carcere" per la Columbia University Press)
Gramsci, manca un quaderno
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 24.02.2012)
I Quaderni del carcere di Antonio Gramsci giunsero a Togliatti, da Mosca, il 3 marzo 1945. Il viceministro degli esteri sovietico, Vladimir Dekanozov, scrive il 20 aprile 1945 all’ufficio informazione internazionale del Pcus: il 3 marzo sono stati consegnati a Ercoli (cioè a Togliatti) 34 quaderni dei lavori di Antonio Gramsci. La lettera di Dekanozov fu pubblicata da Giulietto Chiesa su «La Stampa» il 12 maggio 1992.
Il 29 aprile ’45, al Teatro San Carlo di Napoli, Togliatti in persona, nel corso di un epocale comizio che si apre con una commemorazione di Gramsci, annuncia: «Egli ci ha lasciato un patrimonio letterario prezioso, il risultato di questo suo lavoro, di questi suoi studi: 34 grossi quaderni, come questo - eccone uno - coperti di una scrittura minuta, precisa, uguale». (Il testo di questo discorso si può leggere nel volume: Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1972, pagina 45).
La testimonianza è preziosa. Togliatti, che ha ricevuto i Quaderni da circa due mesi, decide di «lanciare» la grande notizia in una circostanza molto solenne: celebra la vittoria definitiva sul fascismo (Mussolini è stato ucciso il giorno prima) e l’anniversario (27 aprile) della morte di Gramsci. E decide addirittura di mostrare al pubblico uno dei Quaderni. E annuncia: «Noi in questi giorni siamo nuovamente venuti in possesso di questo capitale prezioso che a grande fatica riuscimmo al momento della morte di Gramsci a strappare al carcere ed imprenderemo la pubblicazione di questo materiale il quale arrecherà una sorpresa a molti per l’acutezza e la profondità dell’analisi, per l’audacia delle conclusioni».
Tutti e 34 i quaderni sono coperti di una «scrittura minuta, precisa». Dunque nel computo Togliatti non include i due quaderni «lasciati completamente in bianco» (evocati da Gianni Francioni sull’«Unità» il 2 febbraio scorso).
Dunque i Quaderni erano per l’appunto 34: trenta di ricerche e riflessioni, quattro di traduzioni. (Invece, l’edizione Gerratana - che esclude i 4 di traduzioni - comprende solo 29 quaderni «di lavoro teorico»). Se computiamo i 4 di traduzioni (A, B, C, D) si giunge a 33. Se si aggiungono i due «bianchi» si sale a 35. Comunque non a 34; e nemmeno si scende ai 32 indicati quattro volte nella Relazione sui quaderni del carcere di Felice Platone («Rinascita», anno III, aprile 1946, pagina 81).
Inoltre né 32 né 34 sono cifre «tonde» o approssimative. E Togliatti non pare fosse un tipo approssimativo. Il problema sollevato da Franco Lo Piparo nel suo recente saggio per Donzelli, dal titolo un po’ ad effetto I due carceri di Gramsci, è dunque fondato. A meno che non si debba includere nel computo il registro consegnato da Tania, peraltro tuttora inedito.
L’altro carcere di Gramsci
"Il giallo del quaderno sparito che svelava le critiche al Pci"
di Nello Ajello (Repubblica, 28.01.2012)
Un romanzo storico e un romanzo a tesi. Sono i "generi" che s’intrecciano nel volume di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci, appena uscito per Donzelli. Mai come questa volta spiegare un titolo non sarà superfluo. La trama storica percorre il destino toccato all’esponente sardo che nel 1928 il Tribunale speciale fascista condannò a vent’anni di reclusione (ne avrebbe scontati sei, ovvero otto se si calcola la fase d’arresto preventivo). Ecco, invece, la tesi. Secondo l’autore, alla pena inferta a Gramsci si sarebbe aggiunta, dopo la concessione della libertà condizionata, una condanna al silenzio. La decretò, a suo danno, il partito di cui egli era stato a capo. Fu un altro carcere, metaforico, di cui Gramsci avrebbe sofferto fino alla morte, nell’aprile del ’37 (con una postilla finale in cui si avanza la tesi di un quaderno, l’ultimo, scomparso).
È in questa seconda direzione che si sviluppa la ricerca di Lo Piparo, un filosofo del linguaggio che con Gramsci si è più volte misurato. Egli illustra ogni passo degli scritti gramsciani che sorreggono l’assunto. Il quale, agli occhi di chi abbia familiarità con la figura del leader sardo, risulterà meno provocatorio di quanto prometta. È infatti lontano il tempo in cui veniva data per scontata la concordia fra i testi gramsciani e le posizioni di quel Pci che lo avrebbe assunto a proprio nume tutelare.
Ben presto il carattere strumentale dell’operazione era emerso fra gli studiosi. Non a caso un certo sentore, se non di liberalismo, certo di socialdemocrazia emergeva dagli scritti gramsciani, anche se questi erano stati revisionati da Togliatti con l’aiuto di intellettuali di comprovata ortodossia comunista. Non a caso sia Benedetto Croce a proposito delle Lettere dal carcere, sia un suo seguace indocile come Luigi Russo, avevano espresso su Gramsci un giudizio quanto meno comprensivo.
Basterà, d’altronde, scorrere la bibliografia che Lo Piparo include nel suo saggio per notare la presenza di studiosi che di Gramsci hanno posto in risalto l’eterogeneità rispetto alla liturgia staliniana. Vi si trovano, per esempio, Aldo Natoli, Carlo Muscetta, Paolo Spriano e Giuseppe Fiori. Di quest’ultimo aggiungerei all’elenco di Lo Piparo la monografia Gramsci Togliatti Stalin (Laterza, 1991), in cui viene documentato quel contrasto fra l’obbedienza di partito e il dovere della verità, che nell’autore dei Quaderni fu centrale.
Nelle pagine di I due carceri (sostantivo maschilizzato nel plurale con l’autorevole consenso di Tullio De Mauro) ciò che più conta non è la tesi generale, quanto l’insieme dei personaggi. Soprattutto due: Tania, la cognata di Gramsci, e Piero Sraffa. Essi rappresentano la metà d’un quadrilatero che presiede al passaggio di impressioni, invocazioni ed ukase fra "dentro" e "fuori" il luogo di pena. I terminali del tragitto sono Gramsci e Togliatti. Tania, che può avvicinare il prigioniero e forse prova amore per lui, ne trasferisce i messaggi a Sraffa, che li trascrive per Togliatti a Mosca. La stessa trafila funziona in direzione inversa.
Le censure, sia fascista sia bolscevica, trasformano le lettere, rendendole, a tratti, esemplari nell’arte del dire e non dire. Sraffa, intellettuale raffinato, amico di Togliatti ma vigile nei rapporti con il vertice sovietico e apparentemente opaco quanto a ideologia (sarà «un comunista coperto»?), rappresenta la parte più ardua del rebus. Tania è un interrogativo in forma di donna. Della sua «vita privata», scrive Lo Piparo, «si sa pressoché niente», se non che è «la meno comunista delle sorelle Schucht» (meno di Giulia, la moglie di Antonio, donna dalla psiche delicata, legata come le sue sorelle ai servizi segreti sovietici. Meno ancora si sa di Eugenia, considerata una "bolscevica" integrale). Trascritte e commentate da Lo Piparo, molte delle lettere di Gramsci, pur sottoposte a quegli arrischiati tragitti, conservano un fascino inquieto.
Non sapremmo, costretti alla brevità, quali scegliere tra le missive. In quella datata 27 febbraio 1933, Lo Piparo mette in rilievo la dichiarazione, da parte del prigioniero, della «propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo»: e infatti sarà espunta da Togliatti nell’edizione del ’47 delle Lettere dal carcere. Ce n’è una del 14 novembre 1932 in cui il prigioniero comunica la sua decisione di divorziare da Giulia, madre dei suoi figli. Segna il massimo dell’emotività epistolare, esprimendo il doppio ruolo interpretato da quella donna nell’animo del recluso: è sua moglie ma, nota Lo Piparo, «è la Russia sovietica».
L’eco di un’altra lettera aleggia nel libro. La scrisse nel 1928, durante il processo Gramsci, l’alto esponente comunista Ruggero Grieco. Indirizzata a Mosca, dove risiedeva Togliatti, e poi spedita a Gramsci nel carcere di San Vittore, s’intrattiene sui casi del comunismo nel mondo. All’intellettuale sardo non sfugge però di essere lui il protagonista di quei fogli. Vi si sottolinea il ruolo centrale che egli ha svolto nel Pci. Il giudice istruttore del processo non mancherà infatti di osservare: «Onorevole, lei ha degli amici i quali certamente desiderano che rimanga un pezzo in galera». Un «atto deplorevolissimo» Gramsci avrebbe sempre giudicato la lettera di Grieco.
Nel complesso, quella tracciata da Lo Piparo è la parabola di un comunista a sé stante, di cui il partito volle reprimere ansie e anticonformismi. Il trattamento a lui riservato dopo la morte, con l’edizione revisionata dei suoi trentatré Quaderni (in una lunga postilla finale del volume emerge la possibile esistenza di un quaderno poi scomparso, il trentaquattresimo: per mano di chi?) resta un promemoria della perfidia di Togliatti. Quegli scritti - così si sarebbe espresso il segretario del Pci il 25 aprile 1941 - «possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione»: solo così il partito li darà alle stampe.
Dopo non essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle carceri fasciste, il Pci decise in ritardo di ricordarsi di lui onorandone la memoria. Ma l’interpretazione di Lo Piparo è, a questo riguardo, molto netta: un Gramsci libero, in era fascista, non avrebbe avuto lunga vita: «Un plotone di esecuzione o un attentato erano a portata di mano». Su questa linea è la conclusione dell’autore dei Due carceri di Gramsci: proprio perché opportunista, Togliatti salvò Gramsci. Al che non si sa bene che cosa replicare. A volte, in tempi politicamente atroci, c’è più verità in un paradosso che in cento professioni di fede.
«Quaderno 32», il mistero c’è
La polemica sui manoscritti di Gramsci dal carcere. Franco Lo Piparo è autore di un saggio, nel quale si sostiene la tesi che un quaderno fu sottratto da Togliatti. Gianni Francioni, su l’Unità, ha contestato questa ricostruzione
di Franco Lo Piparo (l’Unità, 05.02.2012)
Gianni Francioni scrive: «La tesi di Lo Piparo (è esistito un quaderno XXXII, oggi scomparso) risulta, all’analisi delle modalità di numerazione di Tatiana, destituita di ogni fondamento». Francioni ha una lunga frequentazione dei manoscritti gramsciani avendone curato l’edizione anastatica. Andiamo alla questione avendo cura di separare i fatti dalle interpretazioni.
Nella numerazione ufficiale il numero XXXII è attribuito al Quaderno 18 di Gerratana. Non è quindi di Tatiana. Secondo la mia ipotesi l’attribuzione nasce dal bisogno di colmare il salto che i numeri di Tatiana, così come li conosciamo, presentano passando dal Quaderno XXXI al XXXIII.
UNA DOMANDA LECITA
Esaminiamo il Quaderno. Al centro della copertina campeggia una etichetta dove è scritto a caratteri grandi un «N. 4». Non esistono spiegazioni di questo numero e nemmeno noi riusciamo a trovarne una convincente. In alto, in inchiostro blu si legge un «(34)». Fin qui i fatti. I Quaderni che conosciamo sono 33. Da dove salta fuori il numero 34? Mi sembra una domanda lecita.
Nell’edizione anastatica Francioni spiega: «La cifra potrebbe alludere al numero complessivo dei quaderni effettivamente utilizzati da Gramsci, più il quaderno compilato da Tatiana come indice generale delle note». Non è l’argomento usato nell’articolo per confutare la mia ipotesi. Si trattava, infatti, di spiegazione debole. Se così fosse stato, il numero 34 avremmo dovuto trovarlo sul quaderno di indice. Quaderno che, tra l’altro, ha una numerazione a parte. È la stessa Tatiana che scrive sulla copertina del proprio quaderno: «I di Tania». La spiegazione data nell’articolo è altra.
A partire dal Quaderno XXIX Tatiana si sarebbe accorta di avere fatto degli errori nella numerazione e, per correggerli, incolla, nei Quaderni 12 e 13 di Gerratana, su precedenti etichette nuove etichette con la numerazione che conosciamo. Quali potrebbero essere stati questi errori? Difficile dirlo dal momento che la numerazione di Tatiana non ubbidisce a nessun criterio e appare del tutto casuale.
Francioni mi fa notare un dato importante a cui non avevo prestato attenzione. Lo ringrazio. Riporo le sue parole: «L’etichetta del Quaderno 12, col numero XXIX, è incollata sopra un’altra in cui si riesce a leggere, in trasparenza. “Incompleto|dap.1a26| XXXII”». Quindi esiste (è esistita) una etichetta di un Quaderno XXXII critto per 26 pagine. Dove cercare il Quaderno XXXII? Non può essere il 18 di Gerratana (che ha sulla copertina il numero 34 e a cui viene attribuito arbitrariamente il numero di Tania XXXII) dal momento che questo quaderno è scritto solo per due pagine e mezzo. È un dato che Francioni potrebbe aiutarci a capire.
La giustificazione dell’attribuzione posticcia del numero XXXII al Quaderno 18 Francioni la presenta al condizionale: «Fermo restando il XXXI già attribuito al Quaderno D, (Tatiana) dovrebbe ora dare un numero definitivo al Quaderno 18, superando con un XXXII quell’originario e provvisorio (34): cosa che però Tatiana non fa, per ragioni che non sappiamo ma sulle quali è inutile dilungarsi con ipotesi». Perché mai sarebbe inutile? Una ipotesi può essere sbagliata ma mai inutile. Il Quaderno col numero 34 e il salto, nella numerazione di Tatiana, da XXXI a XXXIII rimangono in questo modo senza spiegazione.
ALCUNI ELEMENTI IMPORTANTI
Questi ragionamenti sui numeri il lettore probabilmente fa fatica a seguirli. Sarebbero puro esercizio calcolistico se non si inserissero in un contesto di dati non univoci. Ne parlo nel libro. Ne ripeto alcuni.
(1) Nella lettera che Giulia e Eugenia Schucht scrivono nel 1940 a Stalin per dissuaderlo dall’affidare a Togliatti la cura dei manoscritti si parla di «30 quaderni, attualmente in nostro possesso». Dal conteggio vengono esclusi i 4 quaderni che contengono esercizi di traduzione. Noi di Quaderni teorici e storici ne conosciamo 29. Esiste un trentesimo Quaderno?
(2) In un appunto dattiloscritto, trovato da Gerratana in una cartella di Felice Platone, viene programmata «un’edizione diplomatica di 30 quaderni, secondo un rigido criterio cronologico e di fedeltà al testo manoscritto».
(3) Sraffa racconta di avere risposto, in una lettera del maggio 1937, «dettagliatamente alla richiesta di Togliatti» di essere informato sui manoscritti di Gramsci. La lettera conteneva «una descrizione dei temi e della stesura dei quaderni così come Gramsci la fece a lui, mostrandoglieli nella clinica “Quisisana”». Quella lettera non si trova e Togliatti non la cita mai. Non è strano? Mi pare che ci siano abbastanza elementi perché uno studioso senza pregiudizi indaghi e faccia ipotesi.
Gramsci e il mistero del Quaderno XXXIII
di Franco Lo Piparo (Corriere della Sera, 06.06.2012)
Morto Gramsci (27 aprile 1937), la cognata Tania (o Tatiana) Schucht ha due ossessive preoccupazioni tra loro collegate. Prima preoccupazione. I manoscritti del cognato non devono andare nelle mani di Togliatti. Lettera alla sorella Giulia (moglie di Antonio) del 5 maggio: «La sua (di Gramsci, ndr) volontà è che sia tu a ricevere questi manoscritti, e non la sezione italiana, capisci mia cara?». Lettera del 25 maggio alla sorella Eugenia: «Non bisogna pensare che un italiano qualsiasi, un compagno ex amico, debba farsi carico di questo lavoro (di edizione dei manoscritti, ndr)». Non pare che ci siano margini per interpretazioni.
Seconda preoccupazione. Bisogna vigilare perché i manoscritti non vengano manomessi. Lettera a Sraffa del 12 maggio: «Volevo che Giulia sapesse della mia intenzione di mandarle tutti gli scritti affinché lei li ritirasse per evitare qualsiasi perdita o intromissione di chicchessia».
Tania è portavoce dei timori che il cognato le ha comunicato nelle cliniche Cusumano e Quisisana. La conferma che i timori fossero fondati la fornisce la lettera che Togliatti scrive il 25 aprile 1941 a Dimitrov, all’epoca segretario del Comintern: «I quaderni di Gramsci che io ho (...) accuratamente studiato (...) possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione. (...) Alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito». Gramsci e Togliatti concordano sulla dissonanza dei quaderni con pratica e teoria bolsceviche. Ciò ha reso necessaria ai fini della pubblicazione una qualche «perdita» o «intromissione» di mano estranee? Degli indizi che fanno pensare alla «perdita» di un quaderno mi sono occupato nel recente libro I due carceri di Gramsci (Donzelli). Ne aggiungo un altro che non avevo notato nel libro.
Nei giorni immediatamente successivi alla morte del cognato, Tania ha incollato sulla copertina di ciascun quaderno, allo scopo di meglio identificarlo, una etichetta con un numero in cifre romane. I numeri che ci sono pervenuti sono attribuiti in modo del tutto casuale, vanno dal I al XXXIII, ma saltano da XXXI a XXXIII.
In basso a sinistra sulla copertina del quaderno che nella edizione di Gerratana ha il numero 10 (La filosofia di Benedetto Croce), è incollata una strisciolina di carta col numero XXXIII. Riporto la descrizione analitica che ne fanno Francioni e Cospito nella presentazione dell’edizione anastatica: «In una strisciolina di carta incollata in basso sul dorso del quaderno a scopo di inventario dopo la morte di Gramsci, Tatiana Schucht ha scritto a matita l’indicazione XXXIII».
Francioni e Cospito si sbagliano: l’indicazione XXXIII non è stata scritta da Tatiana Schucht. Il lettore se ne può accorgere da solo confrontando, a titolo esemplificativo, il numero XXVIII, sicuramente scritto da Tania, col numero XXXIII, scritto nella «strisciolina di carta incollata sul dorso del quaderno». Per maggiore sicurezza ho chiesto una perizia grafologica al dottor Pietro Pastena, consulente di diversi uffici giudiziari. Il responso è stato netto: il numero XXXIII non è attribuibile alla mano di Tania. Si può escludere che una precedente etichetta di Tania sia stata sostituita con quella posticcia che leggiamo nel manoscritto? Se le cose sono andate in questo modo perché l’intrusione di una mano estranea?
Le tecnologie moderne sono in grado di dare una risposta sicura a questi e altri dubbi. Faccio un appello al presidente della Fondazione Gramsci, Giuseppe Vacca, perché costituisca un gruppo di lavoro, presieduto da Francioni, autorizzato a esaminare direttamente (non sul monitor o su copie anastatiche) i manoscritti, con l’incarico di stabilire come effettivamente stanno le cose.
L’argomento è troppo importante per non affrontarlo con la dovuta cautela e perizia tecnica. Potrebbe rivelarsi il grimaldello filologico con cui aprire nuovi percorsi interpretativi della figura umana e politica di Antonio Gramsci.
Il Quaderno fantasma
Giallo Gramsci, sì all’inchiesta
L’equipe di esperti sarà guidata da Gianni Francioni
La sfida di Franco Lo Piparo: un gruppo di lavoro per accertare se manca un fascicolo
Oggi sarà resa pubblica la risposta positiva della Fondazione Gramsci
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 07.06.2012)
UNA COMMISSIONE PER FARE LUCE SU UN QUADERNO «SCOMPARSO». IPOTETICAMENTE VERGATO DA ANTONIO GRAMSCI. E il «giallo» continua. Riassunto delle puntate precedenti: davvero manca uno dei Quaderni del carcere? Talché quelli teorici erano 30 e non 29? È questa la tesi di Franco Lo Piparo, studioso di Gramsci e di linguistica, che l’aveva delineata, tra le altre cose, nel suo I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, 2012).
Oggi Lo Piparo, che già aveva duellato su l’Unità con Gianni Francioni a riguardo replicando ai suoi rilievi (2/2 e 2/5/2012) riprende la questione e rilancia. Con un nuovo «indizio» sul quaderno «rubato» o scomparso, esibendolo sul Corriere della Sera. Di che si tratta? Di una discrasia calligrafica tra la mano di Tatiana Schucht e quella di una mano altra e misteriosa.
Vale a dire: la dicitura in lettere romane, apposta in etichetta da Tania ai quaderni XXXI-XXIII, non collima grafologicamente con la scrittura delle altre etichette apposte da Tatiana, la quale, tra molte confusioni ed errori, si era occupata della classificazione dei singoli quaderni. E c’è tanto di esperto a confermarlo: il professor Pietro Pastena, consulente di vari uffici giudiziari.
Dunque grafia diversa come indizio, proprio su una delle piccole etichette ottagonali a numeri romani che la cognata di Gramsci appose ai fascicoli all’indomani della morte del prigioniero, verso la metà di giugno 1937, e prima di inoltrarli a Mosca. E grafia diversa proprio in corrispondenza di un presunto Quaderno XXXII (mancante) che nell’ipotesi di Lo Piparo potrebbe contenere le prove di una fuoriuscita di Gramsci dal comunismo al liberalismo (o alla socialdemocrazia?). Va da sé, per inciso, che sarebbe stato Togliatti a nascondere il Quaderno «eretico», visto che fu Ercoli a voler gestire in prima persona il lascito gramsciano. Malgrado come è noto il prigioniero volesse affidarlo non a lui ma a Piero Sraffa.
Lo Piparo chiede quindi ufficialmente a Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci e tra i massimi studiosi gramsciani, l’istituzione di un gruppo di lavoro. Presieduto dall’«antagonista» Gianni Francioni, storico della filosofia e artefice massimo della nuova edizione critica nazionale dei Quaderni, quella non più «cronologica» ma basata su criteri logici e neo-filologici. Vacca, a nome del «Gramsci» risponde positivamente. Ringrazia. E accoglie con piacere la sfida di Lo Piparo: la commissione si farà. Sarà autorizzata ad esaminare de visu e materialmente sui manoscritti originali la congruenza filologica dell’ipotesi di Lo Piparo, eventuali mancanze, anomalie grafologiche ed altro.
Al fine di appurare una volta per tutte l’esistenza o meno di quel quaderno fantasma. Un’iniziativa senza precedenti, con al vertice Francioni, che ha subito accolto con piacere la «nomina» giratagli da Vacca in guisa di proposta. E al suo fianco agiranno inoltre Giuseppe Cospito e Fabio Frosini, studiosi e collaboratori di Francioni, nella nuova edizione nazionale. Nonché, dulcis in fundo, come giudici a latere Luciano Canfora e lo stesso Lo Piparo. Dunque, l’istruttoria sta per cominciare e la notizia verrà data ufficialmente nel pomeriggio di oggi. Alla Biblioteca del Senato Giovanni Spadolini in Roma, nel corso della presentazione dell’ultimo libro di Giuseppe Vacca (Vita e pensieri di Antonio Gramsci, Einaudi), libro che entra nel vivo delle questioni evocate da Lo Piparo. Alla quale parteciperanno Anna Finocchiaro, Roberto Gualtieri, Pierluigi Castagnetti e Massimo D’Alema. Sicché non resta che aspettare il dibattimento. Che prima di produrre risultati dovrà passare attraverso un confronto serrato, con le armi della filogia più agguerrita e della storia indiziaria.
Ma prima di allora, e per seguire, meglio il match, ecco ancora un paio di ragguagli. Ecco il primo. Attualmente i Quaderni di Gramsci, custoditi in banca ma passibili di consultazione fisica e non al monitor o in anastatica (come chiede Lo Piparo) sono 36. Ventinove sono quelli teorici, quattro quelli di traduzione, e due quelli non compilati (il 17 bis e 17 ter). Più l’indice avviato da Tatiana Schucht. Più volte s’è letto e detto che erano trenta, escludendo però l’indice, i due vuoti e i quattro di traduzione. Infine, per Lo Piparo nel dicembre 1932, tramite un «messaggio» alla moglie Julia via Tania, Gramsci avrebbe inteso chiedere a Stalin di farlo scarcerare dal fascismo. Perché tanto lui non era più comunista, bensì liberale. Francamente implausibile, e di là di ogni scoop filologico.
Oggi a Roma il libro di Beppe Vacca, spunti per una discussione
L’arresto, la reclusione. E la «famigerata» lettera di Grieco del 1928, dopo il dissenso con Togliatti del 1926. Poi: l’idea di Gramsci di aver subìto la condanna di un tribunale più vasto di quello fascista. Fino ai tentativi di liberazione, alla morte e al destino dei Quaderni. Sono i nodi dell’ultimo libro di Giuseppe Vacca: Vita e pensiero di Antonio Gramsci. 1926-1937 (Einaudi). Se ne discute oggi a Roma alle 16,30, alla Biblioteca del Senato con Anna Finocchiaro, Roberto Gualtieri, Pierluigi Castagnetti, Massimo D’Alema. Modera il direttore de l’Unità Claudio Sardo
“Togliatti e Sraffa nascosero il Quaderno mancante”
Franco Lo Piparo: nuovi dettagli sul caso del taccuino che avrebbe imbarazzato il Pci
Il “Migliore” e il grande economista avrebbero sottratto il documento alla cognata del filosofo
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 02.02.2013)
Per Franco Lo Piparo, lo studioso lanciato sulle tracce di Gramsci, non vi sono più dubbi. È esistito un quaderno di 26 pagine, targhetta XXXII, poi scomparso. Bisognerebbe cercarlo tra le carte di Togliatti e Sraffa. Il suo contenuto? Non è dato saperlo. Forse riportava feroci critiche all’ex amico, forse l’abiura al comunismo tout court.
L’unica cosa certa, si trattava di un materiale scottante, «di difficile digestione per una mente comunista di quegli anni». Bisognava tenerlo nascosto. Lontano dal Comintern. Secretato anche per i compagni italiani. Ne andava di mezzo il destino del partito. Ma il taccuino è esistito eccome, ribadisce Lo Piparo alla fine di una sua nuova investigazione sugli originali dei manoscritti gramsciani, confrontati con una riproduzione fotografica realizzata negli anni Quaranta e fin qui sconosciuta.
L’enigma del quaderno (pagg. 162, euro 18) è il titolo del suo nuovo saggio in uscita da Donzelli, ultima puntata di una spy-story che non accenna a chiudersi. Le critiche piovute sul suo precedente Gramsci e i due carceri, peraltro insignito del Viareggio, non sembrano averlo scoraggiato. Sono stato sbeffeggiato, dice l’autore, ma non importa, io vado avanti. E vi dimostrerò che ho ragione.
Davvero è in grado di dimostrarlo? Il libro esce ancor prima degli esiti definitivi della commissione promossa dall’Istituto Gramsci per far luce sul quaderno scomparso. Quasi volesse giocare d’anticipo, nell’eccitata contesa che divide la cittadella gramsciana. Per Lo Piparo - affiancato nell’impresa da Luciano Canfora - è tutto chiaro. I quaderni di contenuto storico-teorico-politico sono trenta e non ventinove, come invece risulta dalle diverse edizioni, e qualche mano abile ha sottratto un taccuino.
Il colpevole? La regia è attribuita a Togliatti - astutissimo stratega della pubblicazione dell’opera - ma il responsabile materiale del furto viene individuato nel suo complice Piero Sraffa, l’insigne economista citato da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche.
Secondo la ricostruzione di Lo Piparo, fu Sraffa a ingannare la povera Tania Schucht, la cognata incaricata dallo stesso Gramsci di porre in salvo i mano-scritti, destinandoli non ai compagni italiani ma alla moglie Giulia. Il trappolone scatta tra il 30 giugno e il 1 luglio del 1937 (Gramsci è morto in aprile). Il “compagno Piero” viene a Roma e chiede a Tania di portargli a casa tre dei quaderni che la donna andava affannosamente catalogando. Di questi tre taccuini, nessuno è restituito a Tania. Due però raggiungeranno gli altri quaderni intanto volati a Mosca (La filosofia di Benedetto Croce e Niccolò Machiavelli).
Il terzo, invece, rimarrà nello scrigno segreto di Togliatti. Per sempre condannato all’oblio. Perché proprio Sraffa nel ruolo del trafugatore? L’economista è persona informata dei fatti. Conosce i contenuti di quel taccuino, presumibilmente annotato durante il ricovero nella clinica Quisisana, tra l’agosto del 1935 e il 27 aprile del 1937. Il suo amico Antonio deve avergli detto qualcosa. Fu durante una di quelle conversazioni che Gramsci demolì la pratica dell’autoaccusa su cui si reggevano i processi staliniani. «Diceva che la confessione è un principio giuridico del Medioevo », riferirà Sraffa ad Alfonso Leonetti. Sraffa sa che quel quaderno è troppo pericoloso. Non può finire nelle mani sbagliate. È necessario sottrarlo alla ignara Tania. Fin qui il suggestivo racconto di Lo Piparo, non privo di un suo fascino romanzesco.
Ventisei pagine finora segrete in cui Gramsci distrugge le fondamenta del comunismo sovietico: una golosità per il lettore democratico di oggi. Ma come dimostrarlo? Con commovente acribia l’indagine porta alla luce tutta una serie di incongruenze nella catalogazione. Fa notare che su un quaderno privo dell’etichetta vergata da Tania ne è stata aggiunta un’altra, che lo studioso attribuisce “probabilmente” a Valentino Gerratana (targhetta XXXIII). Insiste sulla bizzarra circostanza che sotto un’etichetta che indica il numero XXIX ne figura un’altra con il numero XXXII. Passa in esame tutte le curiose discrepanze tra gli originali russi e le traduzioni italiane “ufficiali” (qui il bersaglio è soprattutto Giuseppe Vacca, accusato di aver tradotto un’indicazione precisa di Tania - «Sono in tutto XXX pezzi» - nell’espressione più vaga: «I quaderni saranno una trentina»). Richiama l’attenzione su un secondo quaderno dove Tania avrebbe continuato ad annotare l’indice dei Quaderni, anche questo scomparso. Si dà da fare, Lo Piparo, nell’ina nellare una serie di sparizioni, pagine strappate, singolari contraddizioni. Ma quest’affastellamento di indizi, frutto di una dedizione stupefacente, stenta a tradursi in prova filologica convincente.
Per andare avanti, il racconto necessita di quella che lo studioso definisce “phantasia logiké”, «immaginazione sorretta da argomentazioni a loro volta ancorate a fatti reali». Un esercizio anche legittimo, che però è cosa diversa dalla ricostruzione storica, su fonti certe e non su congetture. Seguendo gli stessi indizi, si può approdare a risultati opposti. Ne è chiara dimostrazione proprio l’editore di Lo Piparo, Carmine Donzelli, antico cultore di Gramsci: in una sua recente pubblicazione fa morire il prigioniero da leninista duro e puro, e non da liberademocratico, come in fondo vorrebbe Lo Piparo. Senza poi trascurare il curioso effetto di straniamento che l’esercizio indiziario può produrre nel lettore.
Prendiamo la lettera scritta da Tania a Sraffa il 7 luglio del ‘37, poco dopo il presunto “furto”. «Ieri ho consegnato i quaderni (tutti quanti): ed anche il catalogo che avevo iniziato», annota meticolosamente la cognata di Gramsci. Secondo lo studioso, l’inciso parentetico - (tutti quanti)- sarebbe un segnale di disappunto e sta a significare: ho eseguito l’ordine, non ho trattenuto nessun quaderno e, naturalmente, non ho potuto consegnare quelli che ti sei preso. Interpretazione abbastanza lunare, ma forse la “phantasia logiké” è un’arte che non ammette confini.
L’immaginazione galoppa anche sul versante delle etichette. Delusa e ferita da Sraffa, Tania avrebbe escogitato uno stratagemma da agente segreto - e Lo Piparo lascia intendere che ne conoscesse bene l’arte - per far capire a Giulia (la moglie destinataria degli scritti) che esistevano altri tre quaderni (quelli rubati da Sraffa). Cosa inventa Tania? Prende le etichette destinate ai tre quaderni rubati, già scritte ma non ancora incollate sui libri portati a casa di Piero, e decide di utilizzarle comunque incollandole sugli ultimi tre quaderni che erano ancora senza etichetta. Poi sulle etichette “false” incolla quelle vere, con il numero delle pagine e con le descrizioni dei quaderni. Da qui Lo Piparo non esita a individuare in quel numero XXXII nascosto sotto l’etichetta XXIX l’inequivocabile cifra del quaderno mancante.
A fare le spese di questa nuova ricostruzione è principalmente Sraffa, ritratto con un profilo bifronte: da una parte astuto agente del Comintern (che però nasconde al Comintern la natura esplosiva dei Quaderni); dall’altra figlio d’una influente famiglia ben inserita nei gangli del potere fascista, che si adopera in mille modi per la scarcerazione del prigioniero. Un’immagine poco limpida, che sembra riacquistare l’antica luce solo quando Lo Piparo ritorna sul terreno che più padroneggia - la linguistica - e accenna agli interessantissimi intrecci tra le conversazioni con Gramsci e le conversazioni con Wittgenstein, di cui rinviene traccia negli ultimi scritti del filosofo austriaco. Ma è solo una parentesi purtroppo, subito chiusa perché estranea all’indagine in corso. Che - promette (o minaccia) l’autore - non mancherà di darci presto nuove sorprese.
I Quaderni di Gramsci erano trenta Parola di Tania e di Togliatti
Le lettere della cognata e del Migliore citano il testo mancante
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 04.02.2013)
Nello scorso giugno, discutendosi alla Biblioteca del Senato il libro interessante ma troppo affrettato di Giuseppe Vacca su Vita e pensieri di Antonio Gramsci, e venendo inevitabilmente in taglio la questione, ormai sul tappeto, dell’integrità o meno del corpus dei Quaderni gramsciani, Massimo D’Alema ebbe una felice e a suo modo illuminante battuta: «Non me lo vedo un Togliatti che distrugge un Quaderno, piuttosto lo conserva per un tempo successivo». Effettivamente è questo l’atteggiamento mentale che si dovrebbe avere quando si discorre di grandi testi che hanno costituito, di per sé e in quanto tali, un fatto politico, e che dunque sono soggetti alle vicissitudini, ai tempi e alle necessarie prudenze della politica. Questo vale sempre, non soltanto nel caso di un movimento - quello comunista - che fu anche, nel bene e nel male, una chiesa, come ha rivendicato di recente Mario Tronti celebrando i 90 anni di Pietro Ingrao.
Le raccolte fondanti degli scritti di coloro che sono stati, nella azione e nel pensiero, personaggi storici decisivi hanno di necessità subìto vicende testuali determinate dalle esigenze di chi, dopo di loro e in nome loro, ha agito. Si potrebbe partire dalla tormentata e affascinante vicenda del canone neotestamentario, e si potrebbe seguitare sul filo dei millenni.
Ma, per tenerci al fenomeno storico del comunismo, viene in mente la censura esercitata da Karl Kautsky - più o meno in accordo con l’autore - nell’atto di pubblicare l’ultimo scritto di Engels (1895). E si potrebbe ricordare il destino testuale del cosiddetto testamento di Lenin, che mi è accaduto di ricostruire qualche anno addietro per le edizioni della Fondazione Corriere della Sera: testo per lunga pezza dato per inesistente, e perciò ritenuto inesistente dalla massa dei militanti (ma non dalla élite dirigente) e alla fine sfoderato con clamore e distorsioni interpretative nel corso del kruscioviano XX Congresso del Pcus (1956) e solo allora finalmente inserito nelle opere complete di Lenin (da Mosca alle parigine Editions sociales, ai romaneschi Editori Riuniti).
E quanto a opere complete si potrebbe largamente esemplificarne la intenzionale incompletezza - quando l’autore non sia un poeta parnassiano, ma un politico che ha fatto storia - dovuta a ragioni tutte politiche: le quali vanno capite e giudicate non col metro dello scandalo, ma della intelligenza storica. Si pensi alle lacune nella edizione nazionale di Mazzini.
Non paia troppo irenico questo modo di vedere le cose. Nel fuoco dello scontro diviene comprensibile tanto l’occultamento, nelle opere «complete» di Gramsci, della lettera sua al Partito comunista russo (ottobre 1926), culminante nel profetico giudizio «state distruggendo l’opera vostra», quanto la volontà di tirarla fuori, quella cruciale lettera, da parte di chi non accettava più o riteneva ormai anacronistica la voluta rimozione di quel testo. Siffatte opposte volontà non si manifestano quasi mai in garbata successione diacronica, ma, più spesso, scendono in lotta l’una contro l’altra. E posso capire quanto sia stata e sia tuttora disagevole la posizione di chi difende la storia sacra di partito fino ad essere superato dalla ricerca scientifica, ostinandosi in tale atteggiamento anche quando si è smarrito l’oggetto cui quella storia si riferiva.
È questo il caso che si è venuto sviluppando intorno al primo e soprattutto al secondo saggio che Franco Lo Piparo ha dedicato alla storia del testo dei Quaderni di Gramsci. Il merito principale del recentissimo saggio L’enigma del Quaderno (Donzelli) è di aver finalmente avviato il lavoro che si doveva fare da tempo: mettere in ordine e vagliare le fonti riguardanti la consistenza di quell’importante corpus. Nello svolgere tale meritorio lavoro, di cui certamente gli editori premurosi del corpus gli saranno grati, egli si è imbattuto in fenomeni che meritavano di essere posti in luce.
Un esempio tra tanti è la traduzione di una frase che è anche la prima attestazione sulla consistenza del corpus. Si tratta di una lettera in lingua russa di Tania Schucht, prima tutrice del lascito gramsciano, alla famiglia a Mosca, scritta appena 28 giorni dopo la morte di Gramsci. Ora sappiamo che Tania scrisse: «i Quaderni di Antonio sono in tutto XXX (scritto così) pezzi (XXX štuk)». La traduzione adoperata dal Vacca suonava strambamente: «i Quaderni di Antonio saranno una trentina»!
Che dunque i Quaderni, a parte i 4 di traduzioni, fossero esattamente 30 e non 29 come nell’edizione Gerratana, resta ormai assodato. E mette conto osservare che il dato è confermato da Togliatti stesso in una lettera a Manuilskij scritta due settimane più tardi, l’11 giugno ’37: «Esistono 30 quaderni da lui scritti, che contengono una rappresentazione materialistica della storia d’Italia» (definizione acuta e pertinente, che ovviamente non riguarda i 4 quaderni di traduzioni dalle fiabe dei fratelli Grimm o da un trattato di linguistica).
Da quel momento in avanti si oscilla, nelle fonti sinora disponibili, tra 30, 32 e 34 Quaderni (mai 33 quanti sono quelli fin qui noti). E dunque ci sarà pure un problema - che in filologia si chiama la recensio dei testimoni conservati o perduti - per gli studiosi che da tempo si affannano su questi testi. Problema che non si risolve (come fece tempo addietro Guido Liguori, l’autore del Gramsci conteso) invocando il turbamento in cui versava l’animo di Togliatti, quando disse e scrisse che i Quaderni erano 34, perché due giorni prima era stato fucilato Mussolini.
Non è il caso di addentrarsi qui ulteriormente nella trama sottile dei riferimenti che lo studio di Lo Piparo raccoglie e mette a frutto, lontano ormai dalle escursioni ideologiche che disturbavano il precedente suo saggio. Spiace invece osservare che, in un momento di malumore, il Vacca, prima ancora di aver letto il volume, abbia definito le nuove acquisizioni documentali che stanno emergendo in questo e in altri ambiti delle ricerche: «ossicini di Cuvier» (piccoli indizi da cui si traggono grandi ricostruzioni).
C’è da augurarsi invece che, al di là delle inevitabili effervescenze della prima ora (intervista a Simonetta Fiori, «la Repubblica», 2 febbraio), anche questo nuovo studio rallegri il lavoro dell’officina gramsciana tuttora all’opera, cui è da augurare serenità e filologico progresso.
Gramsci in cella e in clinica
I paradossi di una prigionia
di Franco Lo Piparo (Corriere della Sera, 30.05.2016)
«Per venti anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». È la frase che avrebbe pronunciato il pubblico ministero nel processo contro Antonio Gramsci. In tanti ci è capitato almeno una volta di citarla. La notizia la dà Togliatti nell’articolo scritto nel 1937 per commemorare la recente morte del compagno. Quella frase non è stata mai detta da nessun giudice. Chi volesse controllare non ha che da leggere gli atti del processo, pubblicati da Domenico Zucaro nel 1961.
Il falso storico del 1937 è il punto di partenza di altre falsificazioni su Gramsci e il fascismo. Molte sono note, anche se non sono mai state adeguatamente valorizzate. Ne ricordo alcune tra le più eclatanti.
Ancora Togliatti, nel 1944 appena arrivato in Italia, scriverà che la cognata Tania i Quaderni era riuscita «a trafugarli dalla cella la sera stessa della sua morte, grazie al trambusto creatosi». Gramsci non è morto in una «cella», ma in una delle cliniche più costose di Roma, la Quisisana.
Era accusato di avere attentato alla sicurezza dello Stato. In presenza di un tale capo di imputazione anche i regimi liberal-democratici adottano misure di rigido controllo di ciò che il detenuto scrive. Mussolini, se avesse voluto sequestrare i Quaderni, non aveva che da applicare leggi e regolamenti. Nessuna astuzia di compagni e cognata sarebbe stata efficace. I Quaderni uscirono dalla clinica col consenso o nel disinteresse totale del fascismo. Perché? Escluderei il ricorso all’inefficienza dell’apparato repressivo.
La documentazione disponibile mette sotto gli occhi un paradosso che attende una spiegazione. Gramsci al momento dell’arresto era coperto da immunità parlamentare. Il suo arresto fu illegale, la sentenza o infondata o eccessiva. Una volta condannato (ecco il paradosso) si ha la sensazione che si sia formata una specie di rete protettiva governata direttamente da Mussolini. I fatti che orientano verso questa supposizione sono tanti.
Gramsci dispone di una cella tutta sua che, stando alla descrizione che il detenuto fa alla madre il 31 settembre 1931, è «una cella molto grande, forse più grande di ognuna delle stanze di casa». La lettera non trascura alcuni particolari: «Ho un letto di ferro, con una rete metallica, un materasso e un cuscino di crine e un materasso e un cuscino di lana e ho anche un comodino».
A partire da febbraio 1929 può usare carta, penna e libri diversi da quelli della biblioteca del carcere. Privilegio non concesso agli altri detenuti politici.
A volte il direttore gli proibisce la lettura di determinati libri. Gramsci scrive direttamente a «S.(ua) E.(ccellenza) il Capo del Governo» e l’autorizzazione alla lettura arriva. Nella lettera dell’ottobre 1931 indirizzata a Mussolini, ad esempio, scrive: «Ricordando come ella mi abbia fatto concedere l’anno scorso una serie di libri dello stesso genere, La prego di volersi compiacere di farmi concedere in lettura queste pubblicazioni». Tra esse ci sono: La révolution défigurée di Trotsky, Le opere complete di Marx e Engels, le Lettres à Kugelmann di Marx con prefazione di Lenin. Non pare proprio che Mussolini abbia voluto impedire al cervello di Gramsci di funzionare.
A partire dal dicembre 1933 fino alla morte (aprile 1937) Gramsci non è più in carcere ma nella clinica Cusumano, a Formia, prima, nella costosa clinica romana Quisisana dopo. Dodici dei trentatré quaderni a noi pervenuti non hanno timbro carcerario e sono stati interamente redatti nelle cliniche. Correttezza filologica vorrebbe che venissero chiamati Quaderni del carcere e delle cliniche.
La conoscenza del periodo delle cliniche è molto lacunosa. Il cordone protettivo si rafforza. Ruoli importanti vi svolgono l’economista Piero Sraffa e lo zio Mariano D’Amelio, senatore e primo presidente della Corte di Cassazione. È un periodo che presenta molti buchi neri e che potrebbe riservare sorprese.
Prendiamo gli ultimi venti mesi prima della morte, dal 24 agosto 1935 al 27 aprile 1937. Li trascorre nella clinica Quisisana frequentata dalla buona borghesia romana. Al mantenimento delle spese contribuisce la Banca commerciale italiana tramite il banchiere Raffaele Mattioli. Il ministero dell’Interno dispone la vigilanza solo esterna. La Questura più volte scrive al ministero per lamentarsi che, dati i numerosi ingressi della clinica e il poco personale disponibile, non è nelle condizioni di garantire un vero controllo.
Cito un passaggio della Nota riservata della Questura datata 14 novembre 1935: «La vigilanza esterna non offre neppure la possibilità di alcun controllo sulle persone che si recano a visitare il Gramsci, in quanto trattasi di una clinica vasta, di lusso, in cui sono ricoverati numerosi malati di agiate condizioni e che quindi vengono visitati da persone che vi si recano quasi sempre in automobile».
Non risulta che il ministero abbia risposto o preso provvedimenti. Segno che così era stato deciso nelle alte sfere del governo.
Il fascismo è crollato da più di settant’anni. Dalla morte di Gramsci sono passati settantanove anni. Il muro di Berlino è stato abbattuto ventisette anni fa. I tempi sono più che maturi per esplorare senza pregiudizi ideologici un capitolo fondamentale della storia d’Italia. Se non ora quando?
Il quaderno mancante
Lo Piparo rilancia la sua tesi del testo sparito di Gramsci
Sarebbe il trentesimo: «Poteva contenere affermazioni critiche nei confronti di Togliatti o del comunismo sovietico» sostiene lo storico nel libro appena uscito per Donzelli
di Oreste Pivetta (l’Unità, 06.02.2013)
TRENTA. OPPURE UNA TRENTINA. LA DIFFERENZA NON È DI SCARSO RILIEVO. PARLIAMO DEI QUADERNI DI ANTONIO GRAMSCI, FONDATORE A LIVORNO DEL PARTITO COMUNISTA, fondatore dell’Unità, morto il 27 aprile 1937, in una clinica romana, dopo anni di carcere fascista. Lasciando in eredità la propria storia, il proprio esempio e quei quaderni, affidati a Tatiana Schucht, la cognata, che alla famiglia comunicò in una lettera, in russo, così: «... sono in tutto XXX pezzi e alcuni di essi hanno duecento pagine». Sembrerebbe tutto chiaro. Senonché in altra traduzione si può leggere: «I quaderni di Antonio saranno una trentina...».
Una vaghezza che di per sé giustificherebbe il fatto che si parli sempre di ventinove quaderni soltanto (altri quattro si contano, ma contengono solo esercizi di traduzione), quanti si conservano presso la Fondazione Istituto Gramsci. La differenza nella traduzione ha indotto uno studioso, Franco Lo Piparo, ordinario di Filosofia del linguaggio a Palermo, a chiedersi (e a chiedere) se sia poi infondato sospettare la sparizione di un quaderno. Ne ha scritto in un libro, I due carceri di Gramsci (premio Viareggio) con un sottotitolo che spiega molto: «La prigione fascista e il labirinto comunista».
Ha ripreso il tema in un altro libro, appena uscito per l’editore Donzelli, titolo da spy story, L’enigma del quaderno, sottotitolo esplicativo: «La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci», ricostruzione, che si affida a strumenti linguistici (il «giallo» delle traduzioni), a «dati di fatto testuali», a perizie grafologiche e fotografiche, formulando ipotesi: che si tratti di un quaderno scritto quando Gramsci era ricoverato nella clinica Quisisana (quando s’era ormai peraltro convinto a raggiungere Mosca, una volta riguadagnata la piena libertà), che si tratti di un quaderno di ventisei pagine, che lo si potrebbe cercare tra le carte di Togliatti o di Sraffa.
Ascoltiamo Franco Lo Piparo. Perché avrebbero dovuto cancellare quel quaderno?
«Non lo conosciamo, non sappiamo che cosa contenesse. Avrebbe potuto contenere affermazioni molto critiche nei confronti di Togliatti, oppure nei confronti del comunismo sovietico, forse esprimeva giudizi più articolati sul fascismo, forse alludeva ad una sua possibile svolta politica...».
Siamo nel campo delle supposizioni....
«Gramsci può sempre sorprenderci, perché non si chiude mai nell’ortodossia, quando si riteneva l’ortodossia un valore, e legge il mondo alla luce della sua formazione marxista, ma privilegiando aspetti che non toccano solo i processi economici. Gramsci scrive di cultura, di libri, di letteratura, di costume. Il suo sguardo è originale e penetra la società utilizzando strumenti originali. Gramsci è già in questo senso un post comunista».
Gramsci è soprattutto il grande intellettuale del Novecento, che ancora insegna...
«Certo, ma la sua attualità è legata proprio a una visione eterodossa della società dei suoi tempi, mai piattamente ideologica... Per questo riesce a indicarci percorsi di analisi ancora praticabili. A quali conclusioni sarebbe giunto non possiamo dire. Forse quelle pagine, che sospetto mancanti, avrebbero potuto aggiungere qualcosa. Gramsci liberale? Pare che la parola liberale dia fastidio. A me dà la sensazione di un lessico usurato. Che senso hanno certi termini, se non si aggiunge qualche aggettivo? Liberalismo, comunismo. E poi? Se leghiamo il comunismo con l’idea di giustizia sociale siamo d’accordo. Ma sappiamo che il comunismo non fu soltanto quello».
Lei cita (anche in questo caso annotando diversità di traduzione) una lettera di Togliatti a Dimitrov. Siamo nel 1941 e Togliatti allude a materiali che potrebbero danneggiare il partito.
«Togliatti prende tempo e intanto rivela quello che farà: un’opera di riaggregazione degli scritti, di ‘accurata redazione’, perché tutto venga utilizzato ‘come è opportuno e necessario’. Togliatti capisce di aver in mano qualcosa di importante per il movimento comunista. Intanto lo tiene per sè. Se ne riparlerà dopo la guerra».
Un personaggio emerge nel suo libro, arricchito in tutti i sensi, non solo postino dei quaderni, Sraffa...
«Uomo intelligente, colto, capace di interloquire a proposito di linguistica con il più grande filosofo di sempre del linguaggio, Wittgenstein. Ma anche un agente del Comintern, convinto che per realizzare l’utopia dell’eguaglianza si possano usare le armi della violenza e che si possa persino sposare la brutale politica sovietica».
Un agente del Comintern che sottrae i quaderni al Comintern e di cui Gramsci nutre piena fiducia, però. E adesso?
«Bisogna cercare negli archivi, sapendo che non è indifferente lo spirito e l’orientamento con i quali si affronta la ricerca».
Profili di letterati e politici attraverso gli occhi di Gramsci
Un volume curato da una trentina di giovani studiosi
e un convegno a Torino per discutere dell’identità dell’Italia
di Leonardo Pompeo D’Alessandro (l’Unità, 25.01.2012)
L’identità italiana con gli occhi di Antonio Gramsci. È stato il tema di un incontro svoltosi a Torino, organizzato da Angelo d’Orsi e promosso dall’Istituto Gramsci piemontese. Occasione del convegno è stata la pubblicazione del volume Il nostro Gramsci. Antonio Gramsci a colloquio con i protagonisti della storia d’Italia, curato dallo stesso d’Orsi ed edito da Viella. Il volume contribuisce a una messa a punto sul pensiero di Gramsci e consente di rivisitare, attraverso il suo pensiero, i processi che hanno condotto alla formazione dello Stato nazionale.
LA NAZIONE ITALIANA
Il progetto che ha portato al volume e all’incontro di Torino muove dall’idea che il tema fondamentale di tutto il pensiero di Gramsci sia il problema storico della nazione italiana. I 31 giovani studiosi che hanno contribuito alla sua realizzazione si sono confrontati sia con gli scritti giornalistici e politici che con la riflessione dei Quaderni del carcere, ricostruendo 52 profili di protagonisti della storia d’Italia (letterati, filosofi, politici) con i quali Gramsci ha dialogato dal 1915 al 1935. Si tratta infatti di quasi tutti gli autori italiani presenti nei suoi scritti.
Questi stessi personaggi sono stati al centro della giornata torinese, evocati dalla voce degli autori secondo il profilo tracciatone da Gramsci nei suoi scritti. Così, Petrarca, «l’intellettuale cosmopolita», ha potuto rivivere accanto ad un Foscolo «icona della retorica nazionale». Il «grande statista» Cavour accanto a Verdi, che ha saputo mettere in musica il «nazionale-popolare», e al letterato e «uomo di Stato» De Sanctis. Crispi, il giacobino «deteriore», accanto a Giolitti, «Machiavelli in sessantaquattresimo», e al meridionalista Fortunato, «conservatore», ma «illuminato». Il casto socialista e «colonialista di programma» Pascoli, col «fenomeno sociale» D’Annunzio; la «faciloneria di un linguista» come Panzini, con l’«ardito del teatro» Pirandello. E ancora, la riflessione sull’egemonia attraverso la figura di Croce, sui limiti dell’antigiolittismo attraverso Salvemini, e sul fallimento della classe politica liberale, attraverso Nitti, hanno potuto rivivere accanto alla figura del «geniale pagliaccio» Marinetti e dell’«onesto massimalista» Serrati. E, infine, il «gladiatorismo gaglioffo» di Gentile con un «intellettuale che non prende parte» come Prezzolini, col «capopopolo» Mussolini e col «camaleonte snob» Malaparte.
L’iniziativa si inserisce a pieno titolo nel dibattito sull’identità italiana sviluppatosi attraverso le innumerevoli iniziative che hanno caratterizzato le celebrazioni per il 150o anniversario dell’unità. L’individualità della figura di Gramsci viene così illuminata dalla sua riflessione su questi protagonisti e simboli della storia lunga della politica e della cultura italiana.
L’orizzonte concettuale entro cui ha preso corpo l’incontro torinese si individua nell’interesse che il Gramsci dirigente politico mostrava per la storia. Ciò è più evidente nelle note sul Risorgimento, in cui egli avvertiva che le sue ricerche erano finalizzate a un programma politico ed erano concepite «col fine di distruggere concezioni antiquate, scolastiche, retoriche, assorbite passivamente per le idee diffuse in un dato ambiente di cultura popolaresca», e suscitare «un interesse scientifico per le questioni trattate».
È quanto emerso nel corso della stessa presentazione del volume, per la quale sono stati chiamati a discutere, col curatore, Vera Schiavazzi e Giuseppe Vacca. Quest’ultimo, pur rimarcando l’assenza nel volume della riflessione di Gramsci sul ruolo dei cattolici nella storia d’Italia (emblematica la mancanza di una voce dedicata a Sturzo, fondatore del Partito popolare, la cui nascita Gramsci considerava «il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento») ha sottolineato l’originalità del contributo offerto dai giovani studiosi, che colloca il loro lavoro tra le migliori iniziative su Gramsci realizzate in questi anni.
RINNOVATO INTERESSE
Anche questo volume e questa iniziativa documentano l’ampiezza e la vivacità di una nuova stagione di studi gramsciani favorita anche dalla preparazione della Edizione nazionale degli scritti. Una stagione che ha riportato in Italia il centro propulsore degli studi dedicati a un classico del Novecento, uno dei pochi autori italiani sempre più letti, tradotti e studiati in tutto il mondo.
Grazie ai profili dei numerosi protagonisti della storia risorgimentale presenti nel volume, è possibile rileggere nella sua vera luce anche il dibattito sull’interpretazione del Risorgimento sviluppatosi nel secondo dopoguerra.
Lo stereotipo che ha attribuito a Gramsci la visione del Risorgimento come «rivoluzione agraria mancata», tuttora presente in volumi di carattere sia scientifico che divulgativo, fa risalire a Gramsci un’idea del Risorgimento che non fu sua e che, se mai, ha avuto come principale interprete in campo marxista Emilio Sereni.
La manifestazione è stata intervallata da musiche medievali e rinascimentali suonate da Antonio Gramsci Jr. e conclusa da un suo intervento che raccontava la scoperta del nonno cominciata venti anni fa in Italia quando, insieme a suo padre Giuliano, venne da noi per alcuni mesi e cominciò ad impadronirsi della nostra lingua.
Il piccolo grande Gramsci
Anche da studente di IV elementare, era già lui
di Sandra Amurri (il Fatto, 12.11.2011)
La grafia è quella di un bambino di dieci anni. Il contenuto è quello di un bambino che a dieci anni già parlava agli uomini di domani. Il suo nome è Antonio Gramsci. Questo è il suo tema di italiano all’esame di quarta elementare: “Se un tuo compagno benestante e molto intelligente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli risponderesti?". Scuola elementare di Ghilarza, 15 luglio 1903. Non si può che restare colpiti da un maestro che chiede a dei bambini di affrontare un argomento così centrale per una società giusta e uguale: il diritto allo studio che nel 1948 diverrà un diritto sancito dalla Carta costituzionale, oggi così discussa. Ma non solo: lo studio come forma più alta della libertà di un individuo a prescindere dalle sue condizioni economiche. Non è il denaro, che la modernità ha posto al centro della vita di relazione e neppure lo sfarzo che ne deriva, per il piccolo Gramsci, a garantire un futuro onorato e dignitoso.
IL SOLO strumento per combattere l’ingiustizia sociale è la cultura. La conoscenza, perché chi non conosce non sceglie e chi non sceglie non è una persona capace di esercitare a pieno il suo compito di cittadino attivo. Più o meno le stesse cose rivendicate dagli studenti scesi in piazza contro la Riforma Gelmini, per una scuola pubblica di tutti e per tutti.
Ma veniamo al tema. Antonio Gramsci si rivolge all’ipotetico amico che chiama Giovanni per fargli sapere: “Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi. Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale”.
E lo stupore cresce di fronte alla consapevolezza che il suo compagno di banco Giovanni abbia deciso di non andare più a scuola, lui che è un privilegiato: “Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non riprenderai più gli studi, perché ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna”.
E quanta amorevole insistenza nelle sue parole: “Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili. Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillan-tissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare. Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito”.
INFINE, il saluto, Antonio si rivolge a Giovanni scusandosi per la franchezza del suo dire, dettata dal cuore e dall’affetto: “Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti. Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo amico Antonio”.
Le fotocopie di questo “tema d’autore” appartiene a Giovanni Cocco, giovane ricercatore dell’Università di Sassari, segretario provinciale del Pdci, che a sua volta l’ha ricevuta da suo padre Agosti-no, per oltre 20 anni segretario della scuola elementare intitolata ad Antonio Gramsci nel 1985, occasione in cui a tutti i bambini, venne regalato L’albero del riccio. Ma l’originale dove si trova, visto che all’Archivio di Stato di Oristano, dove Agostino Cocco lo aveva inviato assieme a tutti gli altri, non è mai arrivato? Un giallo che siamo riusciti a risolvere a patto che il nome di chi lo conserva - con la stessa gelosia con cui si ha cura di un tesoro - resti misterioso. L’originale del tema di quarta elementare di Gramsci ce l’ha il figlio della domestica del maestro di Antonio Gramsci, che ha ereditato la sua casa.
NELLA BIBLIOTECA, nascosto tra le pagine di un libro, c’era il tema di quel bambino che a dieci anni dava lezione di latino ai compagni del ginnasio. Una sola volta lo ha prestato alla Casa Museo Gramsci di Ghilarza perché fosse esposto durante un convegno, ma restando di guardia finché non gli è stato restituito. “È un vecchio compagno, cresciuto come me a pane e Gramsci”, dice Giovanni Cocco “che grazie ad Antonio ha appreso le cose veramente importanti per ognuno di noi, come il senso critico, e ha imparato - per fare un esempio di attualità stretta - che bisogna guardare alla speculazione finanziaria dando priorità alla speculazione mentale”. Eppure in Italia Antonio Gramsci non è così studiato, mentre è il terzo autore più letto a livello planetario dopo Karl Marx e Jean-Jacques Rousseau. Fino a diventare l’autore più studiato nei club neoliberisti americani. Una malattia tutta italiana quella della perdita della memoria, che condanna chi non è padrone della sua storia a non esserlo neppure del suo futuro.
La fine dell’innocenza
di Luca Telese (il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2011
L’intervista rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari contiene una scudisciata che il giorno dopo farà sobbalzare i lettori di La Repubblica e metà della classe politica italiana: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. Nessun leader, nel tempo della prima repubblica, con l’esclusione dell’antisistema Marco Pannella - aveva mai osato tanto. Sono passati trent’anni da quel giorno. Trent’anni di questione morale. Trent’anni di rabbia e di oblio.
È stato esattamente trent’anni fa, che in una estate calda come questa Enrico Berlinguer ha coniato - in una intervista che sarebbe entrata in tutti gli archivi - una locuzione destinata a raccontare l’Italia di allora, quella di Mani pulite (che sarebbe arrivata undici anni più tardi) e - purtroppo - anche quella che stiamo vivendo, nel tempo dei pizzini, degli appalti facili, delle p3 e della P4, dei contributi spontanei alle fondazioni “amiche”. Intervista “profetica”, si disse. Ma in realtà nata con un processo di elaborazione che in Berlinguer fu tutt’altro che rapido.
Oggi Scalfari ricorda quel giorno con una nitidezza cristallina: “Parlammo ore. Segnai pochi appunti e poi ricostruii di getto tutta l’architettura del discorso. Berlinguer era uno dei pochi politici che mi considerava e di cui mi consideravo amico. Poteva capitare che cenassimo insieme, a casa mia o a casa sua. Ancora più frequentemente a casa di Tonino Tatò. Ma quando poi l’intervista era scritta, con lo stesso Tatò iniziava un lavoro minuzioso di limatura. Di quell’intervista - aggiunge il fondatore di La Repubblica - toccammo poco o nulla. E mi accorsi subito che la sua portata avrebbe trasceso quella della cronaca politica”.
ERA L’ITALIA che esce faticosamente dagli anni di piombo. L’Italia del terremoto, di Vermicino, delle lacrime di Sandro Pertini. Ed è il Pci che sta abbandonando la Solidarietà Nazionale e l’accordo con la Dc per passare all’opposizione. Ma lo strappo che questa svolta produce nel partito non è, e non può essere, indolore.
Lo scontro che è già nell’aria prende corpo quasi improvvisamente, anche perché, il grande critico della svolta ha il nome del dirigente più pesante nel gruppo dirigente di quel Pci: Giorgio Napolitano. Sono curiosi i paradossi della storia, quando passano trent’anni. Oggi forse Napolitano, che fu il fiero oppositore di quella svolta, limerebbe molte delle sue critiche del 1981 a Berlinguer, e condividerebbe molte delle sue affermazioni. E probabilmente Massimo D’Alema, che allora era un sostenitore del segretario, oggi lo criticherebbe.
Si disse che quel dialogo del segretario del Pci con Scalfari era stato l’atto fondativo dell’antipolitica: oggi, dopo tutto quello che la politica ci ha regalato, possiamo forse dire che quella critica drastica era (ed è) l’unica possibilità di salvezza della politica pulita. “I partiti - diceva Berlinguer - sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi - sosteneva - comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune”. In quei giorni, secondo la migliore tradizione del gruppo dirigente comunista, le ragioni della politica contingente vennero dissimulate dietro la disputa di dottrina. Napolitano aveva scelto di attaccare Berlinguer, partendo da lontano. Ovvero dall’editoriale che doveva scrivere per commemorare l’anniversario della morte di Togliatti, ma usando Togliatti per criticare Berlinguer su tre punti: il giudizio sul degrado dei partiti, la denuncia inappellabile che Berlinguer faceva sulla questione morale, la chiusura netta che il segretario del Pci opponeva a Craxi, il rifiuto della via socialdemocratica in nome della cosiddetta “terza via” fra socialismo reale e capitalismo.
Ma il giudizio più duro era quello sulla società italiana e sul suo degrado: “I partiti - diceva il segretario del Pci - hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali,gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali”. Parole che sarebbero passate alla storia come il manifesto della “Diversità”.
“Io - diceva il segretario - credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità”. E Scalfari: “Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?”. Berlinguer ovviamente negava: “Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Ma noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato”.
Per Napolitano era troppo. Racconterà di aver telefonato a Gerardo Chiaromonte: “Eravamo entrambi sbigottiti: in quella clamorosa esternazione coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica, visto che non riconoscevamo più nessun interlocutore valido, e negavamo che gli altri partiti, ridotti a macchine di potere e di clientela esprimessero posizioni e programmi con cui confrontarci”.
Insomma, lo spettro della cosiddetta “antipolitica”, e l‘esaltazione del primato dei partiti, il dilemma su cui ancora oggi si dibatte a sinistra, (a partire dal celebre discorso di D’Alema a Gargonza che preconizzò la fine dell’Ulivo nel 1996). Il primo segnale premonitore della Questione morale a sinistra, era arrivato da Torino, con lo scandalo Zampini. Un imprenditore era andato dal sindaco comunista Diego Novelli dicendo di aver pagato una tangente. Novelli (berlingueriano di ferro) anziché insabbiare disse: “Lei deve andare dal magistrato”.
Nel 1992-93, nel ciclone di Tangentopoli, emersero le confessioni di un segretario di federazione milanese, Cappellini, che ammetteva di aver preso tangenti e di “averle buttate nel calderone dei bilanci delle feste dell’Unità”. Parole che sconvolsero i militanti di base, insieme alle rivelazioni successive che riguardavano pagamenti per la metropolitana di Milano, e poi l’epopea del compagno “G”, alias primo Greganti, e quella della tangente “scomparsa” alle soglie di Botteghe Oscure su cui indagò (senza trovare prove definitive) il pm Di Pietro. Achille Occhetto arrivò a proclamare, contro la corruzione, “una seconda Bolognina”.
Poi i piccoli smottamenti di costume come l’entusiastico grido di Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte: “Abbiamo una banca?”. Proprio Fassino, nel suo Per passione, aveva ricostruito l’ultima parte della vita di Berlinguer come un partita a scacchi bergmaniana con Craxi, dove il segretario muore un attimo prima che l’altro gli faccia scacco matto. Parole di pessimo gusto, in ogni caso. Soprattutto alla luce degli scandali “sinistri” di questi giorni. Ha detto Pierluigi Bersani al Messaggero: “Nel nostro partito non c’è nessuna questione morale”. Ma la questione morale - sia per Berlinguer sia per Napolitano - prima che un problema giuridico, era uno stile di vita.
Pd e amalgama
Arriva un cattolico a casa Gramsci
di Daniela Preziosi (il manifesto, 6 luglio 2011)
Non capita spesso che i primi «cordiali auguri» a un nuovo direttore dell’Unità arrivino dall’Osservatore Romano, organo ufficiale della Città del Vaticano. Anzi, fin qui non era nell’ordine delle cose, nonostante il crollo del Muro e via scendendo.
È capitato ieri a Claudio Sardo, il primo cattolico (dichiaratamente tale, non solo in interiore homine) che dirigerà, dall’8 luglio, il giornale fondato da Gramsci. Sostituisce Concita De Gregorio, contratto scaduto e non rinnovato con i ringraziamenti della casa, nonostante la riconsegna delle chiavi a quota 38mila, meno 10mila copie di quelle che le aveva lasciato Antonio Padellaro.
Formalmente il Pd non c’entra con la nomina decisa dalla Nie, e in persona dall’editore Renato Soru, arrivato nel 2008 da presidente della Sardegna con la nuova stagione veltroniana, poi disarcionato e fra le concause della successiva ’walterloo’. Ma il vento è cambiato e l’editore, che ora punta sul suo nuovo Sardegna 24, si vuole disimpegnare. E così chiama il notista del Messaggero (e segretario della Stampa parlamentare) che, insieme allo storico Miguel Gotor ha firmato il libro-intervista di Bersani, «Per una buona ragione». L’ottima ragione di Soru è che così il Pd non potrà tirarsi indietro nel ’facilitare’ la sua uscita. L’ottima ragione di Bersani è che oltretutto le ultime interviste di Sardo al giornale di Caltagirone sono state D’Alema, Casini, oltreché lo stesso segretario Pd: più che articoli, un’alleanza di governo.
«Ma no, quello a cui potrei contribuire piuttosto è alla costruzione di un’alleanza fra società, movimenti e politica», replica Sardo. Che è cattolico, «di sinistra» ma soprattutto persona prudente. E non dimentica che la sua predecessora rischiò il collo raccontando la linea editoriale a un periodico prima che alla redazione. «Rispetteremo le radici dell’Unità e cercheremo di dare un contributo alla nuova identità plurale del Pd. Sapendo che non tutte le antinomie sono componibili. Dando priorità alla questione sociale. Ma l’Unità è un giornale, faremo giornalismo».
Su Gramsci ovviamente non c’è discussione, «importantissimo per la cultura italiana, come decisivo è stato l’apporto del Pci». Quanto al suo essere cattolico, «la cultura religiosa è spesso un apporto decisivo alla partecipazione e a un tessuto sociale solidale». Tanto basta per zittire i Fioroni e i D’Ubaldo.
Sardo è un ex aclista dell’era di Domenico Rosati, ai tempi ne ha anche diretto il settimanale. Ha certo un’allure meno scapigliata della tuttavia pettinatissima De Gregorio, che è approdata all’unità da Repubblica con nel curriculum un po’ di cose di sinistra, persino un libro sul G8 di Genova.
Tutto congiurerebbe contro di lui, dalla gioia dell’Udc a un entusiasmo che D’Alema e i dalemiani hanno messo in circolo per la sua nomina. Ma che Sardo non abbia il profilo del normalizzatore lo dimostra il fatto che la redazione - stanca di fili rossi e direttrici in tv - ha accolto con un comunicato affettuoso il «professionista serio e autorevole» a cui offre «massima collaborazione».
Lui ha ricambiato con un gesto di quelli che dicono cose, una prima informale visita alla redazione già lunedì, stringendo la mano a colleghi e poligrafici. Dettagli: la direttrice a metà giugno ha preso le ferie, e fin qui di saluti non se n’è visti.
Primo Levi su «un oceano dipinto»
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, 19 giugno 2011)
Primo Levi ha parlato molto di sé, nei quarant’anni compresi fra la pubblicazione di Se questo è un uomo e l’abbreviata fine della sua vita. Tuttavia, c’è una dimensione del suo racconto che noi continuiamo a ignorare per la maggior parte: è la dimensione duale (e intima, o comunque più privata che pubblica) del Levi scrittore di lettere. Fino a oggi l’epistolario è rimasto disperso, e quasi interamente inedito. Da qui l’importanza delle trouvailles, i rinvenimenti fortunosi. Come la lettera pubblicata in questa pagina, risalente al maggio 1965 e collegata a una precisa circostanza editoriale: la pubblicazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti della traduzione inglese de La tregua.
Due anni prima, nel 1963 (sedici anni dopo l’esordio ben poco fragoroso di Se questo è un uomo, e cinque anni dopo la più fortunata riedizione Einaudi), l’uscita della Tregua aveva dischiuso a Levi le porte del riconoscimento letterario: terzo classificato al premio Strega, vincitore del premio Campiello. Il racconto dell’avventuroso ritorno da Auschwitz - oltre sei mesi nel 1945 per ritrovare l’Italia, dopo un periplo attraverso la Polonia, la Russia, l’Ucraina, la Romania e l’Ungheria - aveva conferito a Levi, chimico di professione, lo status non più soltanto di un memorialista del Lager ma di un narratore a pieno titolo. E non soltanto in Italia, anche all’estero. Mentre le edizioni britannica e americana di Se questo è un uomo erano uscite, fra 1959 e 1961, per due editori di nicchia, a tradurre La tregua nel ’65 erano ormai due case di prima grandezza, Bodley Head e Little Brown.
Nonostante questo, entrambe le edizioni conobbero un fiasco: per sfondare presso il pubblico anglosassone Levi avrebbe dovuto attendere gli anni Ottanta, con la traduzione del Sistema periodico. Invece, fin dal 1961 aveva sfondato in Germania con la traduzione tedesca di Se questo è un uomo: cinquantamila copie vendute in pochi mesi... E un dialogo diretto con decine di lettori tedeschi, che avevano voluto scrivere all’autore e ai quali l’autore aveva risposto, inaugurando scambi epistolari anche distesi nel tempo.
Tale essendo il contesto d’origine della lettera ritrovata, in che cosa la missiva partita da Torino il 23 maggio 1965 verso un indirizzo postale del Massachusetts può contribuire significativamente alla nostra conoscenza di Primo Levi? L’inedito si rivela prezioso sia per documentare il rapporto con uno scrittore-chiave del suo pantheon letterario, il poeta romantico inglese Samuel T. Coleridge, sia per illuminare la genesi di un progetto editoriale che Levi coltivò nei primi anni Sessanta e che - dopo essere fallito in quanto progetto a sé stante - sarebbe sfociato nell’ultimo capitolo dell’ultimo suo libro.
Che Coleridge sia stato, con la tardosettecentesca Ballata del vecchio marinaio [CFR.: http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/SoleOnLine5/_Oggetti_Correlati/Documenti/Cultura/2011/The-Rime-of-the-Ancient-Mariner.pdf?uuid=f629e5c2-98f8-11e0-86a1-11cb473eec92[ , un autore-feticcio di Primo Levi, è cosa nota. Più volte Levi ha descritto il se stesso del 1946, straziato reduce di Auschwitz, come «simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi». Quando Levi avesse letto la Ballata per la prima volta non è dato di sapere con esattezza. Di sicuro, nel 1984 il sentimento di identificazione con il personaggio di Coleridge lo avrebbe spinto a intitolare con un verso del poemetto la principale sua raccolta di poesie, Ad ora incerta. E nel 1986 lo avrebbe spinto a riprendere (nell’originale inglese) l’intera strofa di quel verso come esergo del suo libro fondamentale e testamentario, I sommersi e i salvati.
La lettera del 1965 pubblicata qui per la prima volta [CFER.: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-06-17/primo-levi-oceano-dipinto-173901.shtml?grafici] offre un complemento d’informazione tanto suggestivo quanto istruttivo alla storia del rapporto di Levi con Coleridge. Attesta infatti come già all’epoca della traduzione inglese della Tregua lo scrittore torinese avesse immaginato di intitolare un suo libro con parole tratte dalla Ballata del vecchio marinaio. A fronte dei due titoli scelti rispettivamente dall’editore britannico e dall’editore statunitense - il letterale, ma «sofisticato» The Truce e il «molto insipido» The Reawakening, il risveglio - l’autore ne avrebbe preferito un terzo che trovava «molto bello», Upon a painted Ocean: «sopra un oceano dipinto», il verso n. 118 del poemetto di Coleridge. Così, già nel ’65 l’odissea del ritorno da Auschwitz si presentava a Primo Levi nella forma di una navigazione (il titolo italiano da lui inizialmente pensato per la Tregua era Vento alto) che attribuiva al marinaio il ruolo insieme fatidico e fatale dell’unico superstite.
Non meno notevole la seconda parte dell’inedito, quella relativa al «progetto tedesco». In pratica, si trattava dell’idea di raccogliere in volume le lettere che l’autore aveva ricevuto dai lettori tedeschi di Se questo è un uomo, unitamente alle sue proprie lettere di risposta. Era questo un progetto che Levi aveva presentato all’Einaudi nel gennaio 1963 e che la casa editrice aveva sottoposto all’attenzione del suo germanista di riferimento, Cesare Cases. Il quale Cases, benché fosse da sempre un estimatore di Levi, aveva poi dimostrato (apprendiamo dall’inedito) ben poco interesse. Da qui - «il campo è libero, e le lettere sempre a Sua disposizione» - la scelta di Levi di rimettere il «progetto tedesco» nelle mani di un suo interlocutore d’oltreoceano: il destinatario della missiva ritrovata, Kurt H. Wolff.
Ecco un nome che fa capolino per la prima volta, o quasi, nella ricostruzione del paesaggio biografico di Primo Levi. Nome peraltro assai noto agli studiosi di sociologia, se è vero che Wolff, nato in Germania nel 1912 ed emigrato in America nel 1939, fu esponente fra i maggiori della scuola sociologica tedesca in esilio, e sarebbe giunto negli anni Settanta a occupare la carica di presidente dell’American Sociological Association. Levi lo aveva probabilmente conosciuto fra il 1963 e il ’64, quando il professore della Brandeis University aveva trascorso un anno sabbatico in Italia: quell’Italia dove era emigrato ventunenne nel 1933, dopo la presa al potere di Hitler, e dove si era laureato a Firenze con una pioneristica tesi di sociologia della cultura.
SULLA LIBERTA’ DI GIUDIZIO, SULLA LIBERTA’ DI PENSIERO E DI AZIONE DI GRAMSCI, :UN IMPORTANTE, MA PARZIALE E AMBIGUO, RICONOSCIMENTO DA PARTE DEL ‘GRAN SACERDOTE’ DELLA “RELIGIONE DELLA LIBERTA’”:
“Benedetto Croce recensì nei “Quaderni della critica, (III,8,1947) le Lettere dal carcere. Ed è rimasta celebre la sua potremmo dire appropriazione dell’autore rivelato da quelle lettere: “Come uomo di pensiero egli fu dei nostri”
Cosa intendesse con tali parole è giusto chiedersi. La risposta prenderebbe molto spazio perché comporterebbe di affrontare una delle questioni centrali della cultura italiana del Novecento, e cioè l’implicazione profonda dell’opera di Gramsci, quale fu rivelata daí Quaderni, con le due correnti dominanti del neoidealismo italiano impersonate rispettivamente da Croce e da Gentile, nonché i limiti di tale implicazione e l’innesto che Gramsci tentò di quelle filosofie nell’orizzonte mentale e pratico del comunismo.
Ci terremo invece alla spiegazione che ne dà lo stesso Croce: ammirevole perché fondata sulla sola lettura delle lettere e non ancora dei Quaderni.
In quelle lettere Croce riscontra “apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giungesse, scrupolo di esattezza e di equanimità, gentilezza e affettuosità del sentire”, e soggiunge: “noi altri, nel leggerlo, ci confortiamo di quel senso della fraternità umana che, se sovente si smarrisce nei contrasti politici, è dato serbare nella poesia e nell’opera del pensiero, sempre che l’anima si purghi e di salire al cielo si faccia degna, come accadeva al Gramsci”.
E sfida gli intellettuali comunisti suoi antagonisti nella quotidiana battaglia delle idee “a adoprarsi a portare, se potevano, la dottrina comunistica a quell’altezza” (Cfr. Luciano Canfora, Prefazione, a: Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, RCS Quotidiani, Milano 2011, p. 9)
Il miracolo di Sant’Antonio (Gramsci)
Un saggio ripercorre la storia avventurosa dell’egemonia culturale della sinistra, per merito del marxista meno dogmatico del Novecento
di Elisabetta Ambrosi (il Fatto, 25.05.2011)
Una sera d’estate, profumo di resina e mare, il sollievo di una guerra mondiale alle spalle. Voci di intellettuali, discussioni non troppo animate (sul vincitore sono quasi tutti d’accordo), per assegnare il primo premio Viareggio del dopoguerra. Siamo nel 1947, e il presidente Leonida Répaci annuncia il titolo vincente, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Un’eccezione alla regola: non si tratta di un’opera letteraria e l’autore è scomparso da dieci anni. Eppure il filosofo sardo sembra quasi materializzarsi come “una presenza invisibile al nostro tavolo”. Con conseguente generale commozione, “che supera le contrapposizioni ideologiche dei vari membri della giuria”. Un po’ come San Gennaro, Antonio Gramsci, quel giorno come nei decenni a venire, sembra compiere il miracolo di sciogliere le divergenze e aggregare idealmente sulla sua figura il partito comunista italiano. È un miracolo “pilotato”, però, dal segretario Palmiro Togliatti. Che decide di usare la figura moralmente irreprensibile dell’autore dei Quaderni dal carcere come il perno su cui far ruotare il partito.
“Operazione Gramsci”: così definisce la strategia di Togliatti Francesca Chiarotto, nel saggio dall’omonimo titolo Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, uscito per Bruno Mondadori (pp. 240, euro 20). Un’operazione riuscita secondo l’autrice, perché, partendo dall’assegnazione del Premio Viareggio - secondo alcuni manovrata proprio dal segretario - approda nel porto del più grande partito comunista d’occidente.
Le tappe di questa felice via crucis ideologica, al termine della quale si crea l’“icona Gramsci”, sono i sei volumi dei Quaderni, usciti tra il 1948 e il 1951, divisi volutamente per temi. Anche qui, sostiene Chiarotto, non tanto per ragioni di censura, quanto per facilitarne la lettura e la diffusione. Acuta anche la scelta della casa editrice: sotto l’ombra dello struzzo Einaudi, l’operazione ideologica su Gramsci acquista legittimità culturale, senza assumere le sembianze di un’operazione platealmente politica.
LA MESSA IN PRATICA di una “paziente ricostruzione di un’egemonia culturale”, condotta capillarmente sul territorio anche attraverso case di cultura, biblioteche popolari, organizzazioni di massa consente al Pci di dialogare con la società italiana di quei decenni. In questo abile lavoro di soft power, la figura di Gramsci diventa fondamentale quando si tratta di non restare travolti dai fatti del 1956. L’autore dei Quaderni svolge poi anche un’altra funzione: quella di terreno ideologico, ma non direttamente politico, su cui dialogare con altre culture, quella liberale e cattolica.
La storia iniziata col premio Viareggio si interrompe con la caduta del Muro. Anzi, ancor prima con l’avvento degli anni Ottanta. Quando, mentre Gramsci impazzava all’estero , dai paesi arabi al Giappone, nell’Italia del craxismo e dell’edonismo reganiano in salsa nostrana, “l’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa o, peggio, della discoteca”, come scrive nel saggio introduttivo Angelo d’Orsi. Il silenzio si interrompe negli anni Novanta e Duemila, quando però ritroviamo non più un Gramsci “martire, nazionale e popolare”, il “fratello maggiore di Togliatti”, ma un Gramsci neutralizzato sul piano politico, forzato fino a diventare liberale e ad uso del grande pubblico deideologizzato. Tanto che la nota invettiva contro gli indifferenti finisce prima sul palco di San Remo e poi in volumetto per Chiare Lettere, che diventa un successo editoriale. D’Orsi spiega così i motivi del revival: “Gramsci ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che non sia più la presa del Palazzo d’Inverno ma nasca da un lungo processo di preparazione culturale”.
QUELLO CHE è meno chiaro per i due autori è come mai, mentre ritorna come icona pop, il filosofo sardo sia diventato invece un personaggio scomodo per la sinistra. Tanto che, alla nascita del Pd, nel pantheon democratico si dà la preferenza a Don Milani, Kennedy o Popper. Come dimostra un imbarazzato Veltroni nel 2000, quando, nel corso di un convegno gramsciano, si schiera a favore di Rosselli “dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno né l’altro”. In fondo, chiosa Chiarotto, “Rosselli è quello che ha preso il fucile per andare in Spagna a combattere con i repubblicani”. Gramsci diventa specchio della confusione ideologica dell’oggi.
Mentre il dogmatismo ideologico di ieri almeno una cosa l’aveva capita: che la politica senza intellettuali di massa, tra l’altro spariti da un pezzo, è destinata a morte certa. Insomma, cari giurati dei premi letterari, se squilla il telefono potete stare tranquilli. Ma anche no.
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Operazione Gramsci FRANCESCA CHIAROTTO, BRUNO MONDADORI, 233 PAGINE, 20 EURO