UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE .....
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
PROBLEMA di storia dell’arte (e/o, forse, "tiro mancino" dei carmelitani "calzati" ai carmelitani "scalzi"?!): TERESA d’AVILA,
ARTE #STORIA #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA:
PROFETI E #SIBILLE NEL "REGNO DI #NAPOLI" AGLI INIZI DEL #SEICENTO...
UNA GRANDE OCCASIONE PER FAR FESTA E, POSSIBILMENTE, FAR CONOSCERE AI #DODICI PROFETI, 12 PROFETI MINORI DI #RIBERA LE 12 SIBILLE DELLA #CHIESA DELLA "MADONNA DEL CARMINE" DI #CONTURSI TERME (#CARMELITANI SCALZI, 1613), CHE, RICOMPARSE DOPO IL TERREMOTO DEL 1980, SONO COSTRETTE A VIVERE ANCORA IN UNO STATO DI DISAGIO (DELLA CIVILTA’), IN GRAN DIFFICOLTA’.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, ARTE, E STORIOGRAFIA: UNA DOMANDA (UNA "QUESTION" HAMLETICA) SULLA PRESENZA DEI PROFETI E DELLE SIBILLE NELLA STORIA DELLA CULTURA EUROPEA.
NELLA UDIENZA DEL MERCOLEDI’ (16 ottobre 2024), il papa, portando avanti il suo "Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza" e, in particolare, sul tema del «“Credo nello Spirito Santo”. Lo Spirito Santo nella fede della Chiesa», ha detto che lo Spirito Santo "ha parlato per mezzo dei profeti": "[...] Nei primi tre secoli, la Chiesa non ha sentito il bisogno di dare una formulazione esplicita della sua fede nello Spirito Santo. Per esempio, nel più antico Credo della Chiesa, il cosiddetto Simbolo apostolico, dopo aver proclamato: “Credo in Dio Padre, creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo, nato, morto, disceso agli inferi, risorto e asceso al cielo”, si aggiunge: “[credo] nello Spirito Santo” e niente di più, senza alcuna specificazione.
Ma fu l’eresia a spingere la Chiesa a precisare questa sua fede. Quando questo processo iniziò - con Sant’Atanasio nel quarto secolo - fu proprio l’esperienza che essa faceva dell’azione santificatrice e divinizzatrice dello Spirito Santo a condurre la Chiesa alla certezza della piena divinità dello Spirito Santo. Questo avvenne nel Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo con le note parole che ancora oggi ripetiamo nel Credo: «Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti». [...]"(cit.).
I "VEGGENTI" DI MICHELANGELO E LA "CAPPELLA SISTINA". RICORDANDO IL FALLIMENTARE DISCORSO TEOLOGICO-POLITICO E ANTROPOLOGICO DEL FILOSOFO (E CARDINALE) NICOLA CUSANO, LEGATO ALLA SUA OPERA FONDAMENTALE, LA "DOTTA IGNORANZA" (1440), E ALLA SUA PROPOSTA SULLA "PACE DELLA FEDE" ("DE PACE FIDEI", 1453), NONCHE’ LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), E, AL CONTEMPO, IL LAVORO CRITICO DI FILOLOGIA REALIZZATO DA LORENZO VALLA SULLA "DONAZIONE DI COSTANTINO" ("De falso credita et ementita Constantini donatione", 1440), FORSE, E’ OPPORTUNO RICHIAMARE ALLA MEMORIA LA LUNGA ONDA DELLA SOLLECITAZIONE UMANISTICO-RINASCIMENTALE E RIAPRIRE GLI OCCHI SUL FILO DELLA PROPOSTA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL DISCORSO "PROFETICO" NON SOLO DELLA TRADIZIONE CULTURALE DEL POPOLO EBRAICO MA ANCHE DELLE TRADIZIONI CULTURALI DEGLI ALTRI POPOLI.
Nella intera Europa, è un caso che, a partire dalla costruzione della Cappella Sistina, "tra il 1475 e il 1481 circa, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, da cui prese il nome", fino alla beatificazione di Teresa d’Avila da papa Paolo V nel 1614 e, ancora, alla santificazione da papa Gregorio XV nel 1622, i Profeti e le Sibille camminano insieme non solo nella Volta della stessa Cappella Sistina dipinta da Michelangelo Buonarroti (1508-1512)?
INVERTIRE IL PRESENTE E RIATTIVARE LA MEMORIA (E IL SERVIZIOPOSTALE): RIANNODARE LE FILA DELLA #STORIA "LOCALE" E DELLA STORIA "GLOBALE".
Una nota a margine di un evento della seconda metà del 1600 (v. allegato), del #RegnodiNapoli, #Vicerame #spagnolo: l’apertura di un "ufficio postale con procaccia" nella città di #Contursi (nel #PrincipatoCitra: l’attuale città di #ContursiTerme, in #provincia di Salerno).
PER UN SECONDO (E #ALTRO) #RINASCIMENTO, CONTRO LA "#MALINCONIABAROCCA", UNA SOLLECITAZIONE STORIOGRAFICA A SVEGLIARSI DAL "#SONNODOGMATICO" E RICONSIDERARE L’IMPORTANZA STRUTTURALE E STRATEGICA DEL #SERVIZIOPOSTALE NELLA #ECONOMIA #POLITICA DELL’IMPERATORE #CARLOV E NELLA VITA DELL’#EUROPA:
“Tutta la storiografia recente converge verso un’idea del rapporto fra Spagna e Italia nel Cinque e nel Seicento assai diversa da quella tradizionale. Gli Asburgo non furono solo i dominatori di gran parte della penisola per due secoli. Il loro impero costituì un importante quadro di integrazione politica che consentì all’Italia una partecipazione non proprio marginale alla grande storia europea” (cfr. #AurelioMusi, "Alla periferia dell’impero (ma non troppo)", L’identità di Clio, 4 Marzo 2020).
NOTE:
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA.
IL REGNO DI NAPOLI, VICEREAME SPAGNOLO, "I PRINCIPI DI EBOLI", E IL GEMELLAGGIO (1998) EBOLI-PASTRANA.
"Eboli e Pastrana.
Eboli è gemellata dal 1998 con la città di Pastrana (Spagna), sulla base di una comunanza storica.
Eboli fu dal 1557 al 1569 possedimento della principessa Ana de Mendoza y de La Cerda, nata a Pastrana (Spagna), e di suo marito, il principe Ruy Gomez da Silva, nato a Chamusca (Portogallo), che proprio in virtù di tale dominio, ricevettero il titolo di “Principi di Eboli".
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STORIA ARTE E LETTERATURA:
IL CULTO DI MARIA MADDALENA, IL RICORDO DI UN’OPERA DEL POETA E SCRITTORE DEL REGNO DI NAPOLI, PAOLO SILVIO DI CONTURSI SALERNO), E IL RESTAURO E IL RITORNO DEL DIPINTO DI ORAZIO GENTILESCHI, "LA MADDALENA PENITENTE", A FABRIANO.
Alcuni appunti sul tema... *
A) È tornata a Fabriano la Maddalena penitente di Orazio Gentileschi. Dopo 9 mesi di restauro, il dipinto raffigurante la santa patrona dei cartai è stata ricollocata nell’oratorio a lei intitolato ( Marta Paraventi, "Il Giornale dell’Arte", 22 luglio 2024),
B) [Pia Università dei Cartai: "[...] Il culto di Santa Maria Maddalena->https://it.wikipedia.org/wiki/Pia_Universit%C3%A0_dei_Cartai]. La devozione dei cartai fabrianesi nei confronti della loro patrona Santa Maria Maddalena si rinnova inesauribile da oltre quattro secoli, più precisamente dal 22 luglio 1599 quando, per sua intercessione miracolosa, un operaio esce illeso da una pressa sotto alla quale è schiacciato. Il prodigio è illustrato in un ex voto conservato oggi nella sacrestia della chiesa omonima dedicata alla Santa. [...] Il culto verso la Santa è però ancora più antico. Lo testimonia un passo delle Riformanze comunali del 1453: la festa del 22 luglio è considerata obbligatoria e viene multato chiunque sia sorpreso a lavorare. È sconosciuta la ragione per cui i fabbricanti di carta fabrianesi scelgono Maria Maddalena come patrona, ma la causa può risiedere nella vicinanza tra la piccola chiesa e i primi mulini dedicati alla fabbricazione della carta, sorti lungo le sponde del fiume Giano. [...]".
C) StoriaeLetteratura: "La Madalena penitente", un "poema eroico" di "Paolo Silvio (Napoli, 1599): "Paolo Silvio è un canonico lateranense nato a Melfi ["nacque a Contursi": cfr. Camillio Miniero Ricci, 1844] nel 1564 e morto a #Napoli nel 1624. Il poema in ottava rima La Madalena penitente costituisce la sua unica opera poetica, mentre il resto della sua non estesa produzione letteraria è composta da trattati teologici. L’edizione della Madalena penitente impressa a #Milano nel 1602 non è la princeps dell’opera, nonostante tutte le fonti più recenti la indichino come tale: [le prime due stampe, oggi irreperibili, sono probabilmente realizzate a Napoli attorno al 1599. [...] il poema, che viene rimaneggiato e ampliato da Silvio in edizioni successive, si presenta diviso in tre parti, definite Pianti per il tema penitenziale che le impregna. [...]" (cfr. FRANCESCO SAMARINI, "Poemi di argomento biblico a Milano tra Cinque e Seicento".
D) Editoria e storiografia: Una ristampa dell’edizione del 1605 del "poema eroico" di Paolo Silvio, "La Madalena penitente", a cura di Felice Pagnani Raele, è stata realizzata dalla Digital Press, a S. Maria di Castellabate (SA), nel luglio 2022.
NOTE:
*
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024), #STORIA, E #TEOLOGIA:
"N. S. #MONTE #CARMELO", "MADONNA DEL #CARMINE, #16LUGLIO. Un filo di memoria e di tradizione culturale europea e mediterranea, carico di teoria, che tocca nel profondo la #questione antropologica dell’attuale #presentestorico , e richiama l’eccezionale intervento "critico" e "cristico" di #TeresadAvila (1515-1582) e, al contempo, dell’opera del filosofo e teologo Jakob #Boehme (Jacob #Böhme, 1575-1624).
I CARMELITANI SCALZI NEL #REGNO DI NAPOLI (VICEREAME SPAGNOLO) E L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’#ECUMENISMO RINASCIMENTALE. Nel mio paese d’origine (#ContursiTerme, #Salerno), nella "vecchia" Chiesa della #MadonnadelCarmine, dedicata con i #CarmelitaniScalzi alla B.V. del Monte Carmelo (nel 1613), con una pala d’altare del 1608 (v. allegato), sono riemerse dopo il #terremoto del 1980 e il restauro completato nel 1989), le figure di 12 #Sibille (un richiamo forte ed esplicito alla lezione umanistico-rinascimentale, e a #Michelangelo #Buonarroti e alla sua "Sacra Famiglia" - il #TondoDoni).
NOTE:
FRANZ KAFKA, IL #BAMBINO DI PRAGA, E UNA "ARCHAICA" PREMESSA DI CIVILTÀ.
UNA NOTA di ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT2024), SULLO STORICO PRESENTE DELL’#EUROPA:
"[...] Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. Milano,20.01.2001 d.C».
NOTE:
IL "SAPERE AUDE" (#ORAZIO), LE "FRUTTIFERE" OPERE DELL’IMPERATORE RODOLFO (ARCIMBOLDO), E LA "PACE PERPETUA" (#KANT): #ARTE, #LETTERATURA, TEOLOGIA-POLITICA E... "PARADISO PERDUTO" (JOHN #MILTON)?!
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LA LUNGA ONDA DEL #RINASCIMENTO, IL SOGNO "UTOPICO" DEL GIARDINO, E IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE RODOLFO II D’ASBURGO...
LA LEZIONE DI ARCIMBOLDO ( https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Arcimboldo ): UN GRANDE INVITO AD AVERE L’ORAZIANO (E KANTIANO) CORAGGIO DI ASSAGGIARE E A FARE UN BUON USO DELLA PROPRIA FACOLTÀ DI #GIUDIZIO.
NOTE:
IL DIO "VERTUMNO", IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE "GIARDINIERE". LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO E IL SOGNO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI RODOLFO ii D’ASBURGO. Appunti sul tema:
A) - "LA CITTA’ DEL SOLE" (TOMMASO CAMPANELLA) E L’IDEA DEL "PARADISO TERRESTRE" DELLA "MONARCHIA" (DANTE ALIGHIERI) : "[...] La curiosità per il pomodoro e le altre piante in arrivo dal Nuovo Mondo è evidente nel fantasioso, emblematico, spiritoso e ormai famoso ritratto che Giuseppe Arcimboldo fece all’imperatore Rodolfo II. In questo quadro, dipinto nel 1560, Arcimboldo ritrae l’imperatore nei panni di Vertumno, il dio romano dell’abbondanza e dell’alternanza delle stagioni. Le opere di Rodolfo vengono rappresentate sotto forma di frutti maturi, fiori e ortaggi. Il labbro inferiore dell’imperatore è formato da due pomodorini a ciliegia. Un’altra pianta nuova, il mais, forma l’orecchio e due peperoncini rossi adornano il suo mantello. Rodolfo aveva ereditato un vastissimo giardino dal nonno, Ferdinando I. Di quel terreno, che doveva essere un «teatro del mondo», un’enciclopedia vivente di alberi e piante, era stato fatto un giardino all’italiana per opera di un grandissimo esperto, Mattioli, che l’aveva anche curato. Rodolfo condivideva con il nonno la fascinazione per la natura, la scienza e la magia. Aveva una raccolta di «curiosità» provenienti da tutto il mondo conosciuto, famosa per la sua varietà e il suo valore. Il milanese Arcimboldo era stato il «ritrattista di corte» di suo padre e di suo nonno, anche se il ruolo che occupava effettivamente andava ben oltre l’incarico ufficiale. Rodolfo si affidava ad Arcimboldo come suo agente, e negli anni Ottanta l’aveva mandato in Germania a caccia di opere d’arte e di oggetti rari. Quindi, non c’è da sorprendersi se Arcimboldo ha inserito dei prodotti del Nuovo Mondo nel suo fantasioso ritratto. Quest’opera è simile alle varie serie delle Quattro stagioni che Arcimboldo aveva iniziato a dipingere quasi tre decenni prima. Ma facendo maturare tutti i frutti, i fiori e gli ortaggi insieme, Arcimboldo ci presenta un’allegoria del potere imperiale, ricordandoci le pretese di dominio globale di Rodolfo, oltre a prospettare il ritorno di una «età dell’oro» sotto il suo governo. "(DAVID GENTILCORE, "LA PURPUREA MERAVIGLIA. Storia del pomodoro in Italia", Garzanti, 2010, pp. 36-37).
B) - RODOLFO II, ARCIMBOLDO, E IL DIO "VERTUMNO": "[...] Giuseppe Arcimboldi o Arcimboldo ( 1526-1593 ). Figlio del pittore Biagio che era stato in contatto con Bernardino Luini e quindi con la scuola di Leonardo, lavorò all’inizio con il padre in opere decorative come pannelli d’organo, vetrate, cartoni per arazzi, Dopo essersi fatto conoscere ed apprezzare si trasferì alla corte di Praga al servizio del principe Massimiliano divenendo artista ufficiale di corte. Dopo aver realizzato composizioni antropomorfe con frutti e vegetali che ebbero subito grande successo ( le Quattro stagioni dal 1563 al 1577 ) , lasciò la corte imperiale del principe Rodolfo a cui prestava servizio dopo la morte di Massimiliano, per tornare nel 1587 a Milano dove si stabilì definitivamente. Qui dipinse il Ritratto dell’imperatore in veste di Vertunno databile intorno al 1589-90. Le composizioni di Arcimboldo erano definite al suo tempo illusionistiche ed erano costituite, se così possiamo dire, da figure umane con un insieme di prodotti di mercato e cucina: il personaggio raffigurato era composto dall’insieme degli elementi naturali che costituivano il suo mestiere, così, per esempio, un ritratto di cuoco, era formato dai cibi collocati dalla testa ai piedi. Un aspetto delle figure "illusionistiche" comico-grottesche di Arcimboldo è la reversibilità nel senso che possono essere viste sia in forma antropomorfa che, rovesciate, in forma vegetale pur essendo composte, entrambe, degli stessi elementi naturali.
Dovendo omaggiare l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, pensò di creare, nel 1590, un proteiforme ritratto frontale a mezzo busto in cui appariva come il dio Vertumno, dio delle stagioni, formato dalla straordinaria giustapposizione di frutti, ortaggi e fiori. Si trattava del punto di arrivo delle sue opere destinate alle stagioni che qui si riassumevano in un insieme delle quattro, ricche di tutti i prodotti della terra. L’opera naturalmente era elogiativa, voleva essere un’esaltazione dell’abbondanza che sotto il regno di Rodolfo si godeva in tutte le stagioni dell’anno, come in una nuova età dell’oro. L’ammasso ordinato e composito dei frutti, ortaggi e fiori non sminuiva l’impatto che doveva fornire l’imperatore: l’impressione di vigore fisico e potenza politica, né ne sviava l’interpretazione accentuando il senso del grottesco o del comico, ma invece ne forniva una vera e propria potenza figurativa che dava proprio quell’idea di floridezza e abbondanza che un sapiente e regolato governo sapeva dare. [...]" (cfr. Giangiacomo Scocchera, "La Sindrome di Stendhal Due": Il primo tempo: Musici, fioriere e fruttiere...).
Federico La Sala
SIBILLE E PROFETI NEL REGNO DI NAPOLI, NEL PRIMO SEICENTO.
ARTE, #STORIA, E #ANTROPOLOGIA: LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO.
I profeti nella Certosa di San Martino: il genio di Ribera attratto dalla magia di Napoli
di Aurelio Musi (Corriere della Sera, 27 marzo 2024)
In uno di quei minuscoli libretti, che hanno fatto la storia dell’editore Colonnese, può essere racchiuso un intero universo, una civiltà, il mondo di segni di un’epoca. José Vicente Quirante Rives, con “Dodici araldi grinzosi. I profeti di Ribera nella certosa di San Martino” (Colonnese ed.), dedicato alla memoria di Giuseppe Galasso, accompagna il lettore fra terra e cielo, fra l’umano e il divino, fra passione e luce: “perché non vi sarà più notte”.
Nei dodici profeti di Ribera c’è la realtà quotidiana e precaria, c’è la vita dei vecchi, c’è Caravaggio, c’è la solitudine del profeta, la certosa come imitazione del deserto. I profeti, messaggeri che portano sulla superficie dei loro volti le profonde rughe, sedimenti di vita e di sapienza, ricevono la visione da Dio, la traducono in parole. Quirante fantastica sui certosini che entrano nell’ampia navata, fanno l’esegesi delle immagini, osservano le profezie realizzate, le inseriscono in una fittissima rete di relazioni, distendono il tempo tra passato, presente e futuro. Sopra i dodici profeti di Ribera i dodici apostoli di Lanfranco con i loro nomi. Dodici più dodici ventiquattro come gli anziani dell’Apocalisse, come la somma dell’Antico e Nuovo Testamento.
“Solo chi si reca a Napoli e visita nel Duomo la cappella di San Gennaro, con lo splendido dipinto di Ribera vicino a opere del Domenichino e del Lanfranco, e poi sale alla Certosa, contempla nella cappella del Tesoro la profonda e monumentale Pietà, e vede nella chiesa la Comunione degli Apostoli e i profeti nella navata centrale, è in grado di percepire tutta la sapienza pittorica, la profondità emotiva, la solidità compositiva e la monumentalità di Ribera, che si presenta come uno dei grandi del suo tempo” (p. 23).
Lo spagnolo autore di questo aureo libretto è un vero innamorato di Napoli, della sua civiltà artistica, della sua anima aristocratica. E’ capace di scoprirne tesori nascosti e illuminare ulteriormente aspetti e personaggi noti o meno noti della sua ricchissima storia: anche per questi motivi Quirante, ex direttore del “Cervantes”, si è guadagnato la cittadinanza onoraria di Napoli.
Quirante scrive un capitolo su Gustaw Herling, “che passerà più della metà della sua vita a Napoli come José de Ribera. Entrambi si sposeranno e fonderanno una famiglia, entrambi intrappolati nella città feroce e seducente come la formica nell’ambra” (p. 47).
Ribera arriva a Napoli nel 1616. Insieme col Lanfranco opera alla Corte del viceré Monterey. Firma le sue opere come “español”, ma non vorrebbe tornare in patria. Ribera e Quirante: l’autore e, forse, il suo consapevole o inconsapevole doppio.
COSMOLOGIA #ARTE #ANTROPOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: MEMORIA DELLO "SPOSALIZIO DI GIUSEPPE E MARIA" (#23GENNAIO) E UN "VECCHIO" INVITO AD ACCOGLIERE IL "MORMORIO SOTTILE" DELL’OPERA DI DANTE ALIGHIERI.
STORIA E LETTERATURA: #RICAPITOLAZIONE E #POESIA. Dopo le sollecitazioni "#cosmicomiche" (#ItaloCalvino) di #DanteAlighieri a uscire dal "#letargo" (Par. XXXIII, 94), forse, è proprio il tempo di riaprire la #Commedia e non rinchiuderla per sempre nell’orizzonte del "#Boccaccio" e del "#Petrarca"; e, togliendo le virgolette al "Perché non possiamo non dirci «cristiani»"(Benedetto Croce, 1942), comprendere antropologicamente, che, come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO": e, riprendere proprio quel filo perduto (quel "#paradigma perduto") che collega benevolmente e cosmologicamente il passato e il presente, l’alto e il basso, il sopra e il sotto, e #cielo e la #terra: in principio era il #Logos...
#FILOLOGIA E #AMORE (#CHARITAS), NON #MAMMONA (#CARITAS)! Dante non "cantò i #mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore "che muove il Sole e le altre stelle".
NOTE:
FACOLTÀ DI GIUDIZIO, FILOLOGIA (LOGOS), E MESSAGGIO EVANGELICO.
ALCUNE NOTE SUL "SÀPERE AUDE" ("RISOLVITI AD ASSAGGIARE") E SUL SONNODOGMATICO...
a) NOTIZIA DELL’APOSTOLO #TOMMASO DALL’#EVANGELO DI GIOVANNI: " Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò»" (Gv. 24-25).
b) NOTIZIA BIOGRAFICA DI TOMMASO D’AQUINO: " [...] La famiglia d’Aquino era in rapporti con #FedericoII di Svevia che aveva istituzionalizzato la #ScuolaMedicaSalernitana, primo centro di fruizione culturale degli scritti medici e filosofici di #Avicenna e #Averroè, noti al Dottore Angelico.
Stabilendosi presso la sorella Teodora al castello dei Sanseverino, tenne una serie di lezioni straordinarie nella celebre Scuola Medica che aveva sollecitato l’onore ed il decoro della parola dell’Aquinate. A memoria del suo soggiorno, nella chiesa di San Domenico si conservano la reliquia del suo braccio e le spoglie delle sorelle.
Il 29 settembre 1273 egli partecipò al capitolo della sua provincia a Roma in qualità di definitore. Ma alcune settimane più tardi, mentre celebrava la messa nella cappella di San Nicola, Tommaso ebbe una sorprendente visione tanto che dopo la messa non scrisse, non dettò più nulla e anzi si sbarazzò persino degli strumenti per scrivere. A Reginaldo da Piperno, che non comprendeva ciò che accadeva, Tommaso rispose dicendo: «Non posso più. Tutto ciò che ho scritto mi sembra #paglia in confronto con quanto ho #visto» [...]".
c) "RISPOSTA ALLA DOMANDA: CHE COS’E’ L’ILLUMINISMO?" (I. Kant, 1784): «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.».
DALL’EVANGELO AL "VANGELO"...
"Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù" ... Tenendo presente che #DIDIMO= #GEMELLO, il #messaggio evangelico (dell’apostolo Giovanni) è più che chiaro e senza equivoci, e, la sottolineatura interpretativa del "fratello-gemello" è stata fornita ed è stata "salvata": chi ha orecchie per intendere, intenda. A non cogliere queste apparenti (e non illusorie, kantianamente) "sfumature" filologiche, si rischia di restare e permanere nel "VAN-#GELO" del "giocastolaio" (l’erede paolino-romano della "caduta" biblica e della "tragedia" greca), e dell’EVANGELO, dell’EV-ANGELO (#EU-ANGELO - "#BUONA-NOVELLA"), e, infine, perdere per sempre la "E" ("la via, la vita, la verità"). In principio era il Logos, non il logo...
CINEMA, FILOLOGIA, TEATRO, METATEATRO, E PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA.
A CARMELO BENE, IN MEMORIA...
Ricordando il film "Salomé" (1972), sollecitato da uno "strano" omaggio di uno studioso di #filosofia, appassionato di cinema, che voleva rendere onore alla tradizione culturale del Sud: " Come disse Carmelo Bene, solo i meridionali pensano", ho pensato che, probabilmente non è stata ancora aggiornata la #storiografia antropologica e cinematografica sulla qualità dell’opera teatrale e della cinematografia dello stesso Carmelo Bene , e, non si è ancora ben riflettuto sulla memoria semantica delle parole "CARMELO" e "BENE".
CUM GRANO SALIS. Cosa significa "carmelo", cosa "bene"?! Forse è non è bene interrogarsi ANCORA (di nuovo e meglio) sul "#sàpere aude" di Quinto #Orazio Flacco e di Immanuel Kant: provare per credere, per non "perdere la testa" (la vita stessa nelle illusioni della #propaganda).
(#8gennaio2024).
"SAPERE AUDE!" (KANT). #TEATRO, #FILOLOGIA E #PSICOANALISI. ALLA #LUCE DELLA EPIFANIA 2024 E DELLE APPARENZE DEL PRESENTE, utile #ricordarsi di Chi ("X") associava nel suo #Nome, #Carmelo e #Bene, e #cercare di #sapere dell’#Uno e dell’#Altro ("provare per credere").
MEMORIA E STORIA DEL CAMMINO DELL’UNITÀ LINGUISTICA E POLITICA ITALIANA:
"SÀPEREAUDE!" (ORAZIO-#KANT). UN APPUNTO IN RICORDO DI DUE CITTADINI DI #CERIGNOLA, UNITI DALLA PASSIONE DELLA #PAROLA E DALLA #POLITICA, E , SOPRATTUTTO DAL VOCABOLARIO: *
NICOLA ZINGARELLI (Cerignola 28 Agosto 1860 - †Milano 7 Giugno 1935) filologo e linguista italiano, autore dell’omonimo "Vocabolario della lingua italiana".
E
GIUSEPPE DI VITTORIO (Cerignola, 11 agosto 1892 - Lecco, 3 novembre 1957), sindacalista, politico e antifascista italiano. (Fondatore e segretario generale della CGIL fino alla morte e presidente della federazione sindacale mondiale.
*
LA SCOPERTA DEL VOCABOLARIO: "[...] Peppino diventa grande da molti punti di vista, dirige decine di migliaia di operai e braccianti, scrive lettere e corrispondenze per i giornali e ancora non sa dell’esistenza del vocabolario.
Come egli stesso raccontava, l’ignoranza gli costa tanta fatica, lo costringe a sfogliare giornali e libri per ore nella speranza di trovare la parola che intende scrivere per poterla usare senza commettere errori.
La scoperta, come racconta Felice Chilanti nella biografia pubblicata a puntate nel 1953 su Lavoro, settimanale della CGIL e ripubblicata su Rassegna.it in occasione del centenario della confederazione, avviene un giorno a #Barletta, lungo il bel viale della stazione. "Di Vittorio vide una bancarella di libri e cominciò a chiedere i prezzi, a scorrere gli indici, a calcolare le sue possibilità. In un angolo del banchetto vi era un grosso volume che Di Vittorio cominciò a sfogliare: era un libro vecchio, molto usato e anche sudicio. Scorrendo le pagine scoprì che conteneva lungi elenchi di parole e che accanto ad ogni parola era indicato il significato. [...] Era il libro che da tanto tempo cercava, lesse sulla copertina la nuova parola: vocabolario. Chiese al venditore il prezzo [...]: lire 3,75. Fu un grave colpo per lui: non aveva in tasca che una lira e settantacinque centesimi, e con estrema amarezza confidò la cosa al libraio. «Datemi almeno due lire e cinquanta» disse questi. Ma Di Vittorio non possedeva neppure un soldo di più. E già se ne stava andando amareggiato quando il libraio lo richiamò: «Nemmeno due lire volete darmi?». «Se volete vi dò la giacca, ma in tasca ho soltanto una lira e settantacinque».
Come avrete già immaginato, il libraio diede il vocabolario a Peppino, che passò la notte a sfogliarlo pagina dopo pagina. Ma la storia non finisce qui. Perché Di Vittorio il giorno dopo cominciò a segnare su un block notes tutte le parole sconosciute, udite negli incontri casuali, in treno, lette in un giornale o in un libro. «Ricordo ancora alcune di quelle parole - racconta egli stesso a Chilanti - come ad esempio idraulica, bigamia. Quando tornavo a casa ne apprendevo il significato sul vocabolario e lo trascrivevo con parole mie sul notes. Questo metodo mi aiutava molto. Con un metodo di poco diverso, molti anni dopo ho imparato il francese». (cfr. Vincenzo Moretti, "Il vocabolario di Peppino. Giuseppe Di Vittorio e il valore della conoscenza", La Stampa/Scuola, 19/6/2007).
#PROFETI, #SIBILLE, #QUESTIONEANTROPOLOGICA (#KANT,1800), E #FILOLOGIA:
ANTONIO #ROSMINI, LA "PRISCA THEOLOGIA", E LA "#CHARITAS".
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (#PatriciaSalomoni, "#RosminiStudies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della #Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva [...] E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della #CappellaSistina è ancora un grosso problema! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3...).
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"AD THEOLOGIAM PROMOVENDA" (L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023). Per promuovere la teologia, nel paragrafo 7, è scritto che Rosmini considerava la #teologia una espressione sublime di “carità intellettuale” ... chiedeva che la ragione critica di tutti i saperi si orientasse all’Idea di #Sapienza e [sapesse stringere] interiormente in un “circolo solido” la Verità e la Carità insieme [...] (https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-11/quo-252/ad-theologiam-promovenda.html ).
DANTEDI’, STORIA E LETTERATURA, E #FRANCOSTORIE:
LA "STORIA POSTALE", I #MESSAGGI DELLE #SIBILLE (#MICHELANGELO, "VOLTA DELLA #CAPPELLA SISTINA",1512), IL SERVIZIO POSTALE DELLA FAMIGLIA DI BERNARDO TASSO (1493-1569) E TORQUATO TASSO (1544-1595), E LA MEMORIA DI #ANTONIO ROSMINI ( #24MARZO 1797 - 1 LUGLIO 1855).
ACCOGLIENDO LA SOLLECITAZIONE A RICORDARE ANTONIO ROSMINI SERBATI "(#Rovereto 1797 - #Stresa 1855), sacerdote e filosofo vissuto nella prima metà dell’Ottocento", forse, è possibile far emergere e mettere in evidenza un legame stretto con la cultura dell’#Europa del #Cinquecento, la "storia postale" e gli avvii dell’impresa dei #Tasso: degno di nota è il fatto che la tesi di laurea di Rosmini è una breve dissertazione sulle Sibille->https://media.agiati.org/page/attachments/01-pag-09-patricia-salomoni-antonio-rosmini-lettore-e-traduttore-dei-classici.pdf] (1822).
#Dantedi #25marzo 2024: vista e considerata la presenza nella "Casa natale di Antonio Rosmini" della #SibillaCumana, è bene riannodare il filo tra Dante e Rosmini e non far disperdere "al vento ne le foglie levi [...] la sentenza di #Sibilla." (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, vv. 65-66).
STORIA ARTE MEMORIA E STORIOGRAFIA:
ROCCO SCOTELLARO E CARLO LEVI IN VISITA ALLA CAPPELLA DEL CARMINE DI TRICARICO, AD AMMIRARE LE OPERE D’ARTE DEL TARDO RINASCIMENTO MERIDIONALE (AGLI INIZI DEL SEICENTO, COLLEGATE ALLA PRESENZA DEI CARMELITANI SCALZI DI TERESA D’AVILA): *
"Rocco Scotellaro e 45 artisti d’oggi": "[...] nel 1945, Carlo Levi ha pubblicato “Cristo si è fermato ad Eboli” e del maggio 1946, in occasione delle elezioni politiche per la Costituente, è il primo incontro con Scotellaro. Un incontro nel nome dell’arte, visto che Rocco, a Tricarico, “per il sentiero in fondo al vallone, sotto la Rabata”, insieme a Rocco Mazzarone, accompagna Levi alla Cappella del Carmine per vedere gli affreschi seicenteschi di Pietro Antonio Ferro che si avvale della collaborazione dei figli Carlo e Giovanbattista con rimandi evidenti agli Zuccari e a Raffaello, Carracci, Barocci e Salimbeni.[...]
La morte prematura del “giovane uomo dai capelli ricci di un biondo slavato cattivante che con le sue lentiggini intonava una festa di gloria” (così lo descrive Amelia Rosselli che con Rocco andrà a Tricarico per una settimana e poi a Napoli, a Portici, a Firenze per conoscere nonna Amelia Pincherle Rosselli), capace di risvegliare la curiosità di Bobi Bazlen, attento alle opinioni “adulte e sicure” del meridionalista convinto ma anche alla condizione ultima della fragilità e vulnerabilità dell’essere umano, interrompe un rapporto vivo in tutta la cultura del nostro Novecento che ha in Ungaretti la sua molla iniziale. Così intenso da sollecitare Levi a ordinare e dedicargli la sala alla XXVII Biennale di Venezia (1954), ricca di cinquanta opere con al centro quel ritratto di eterno fanciullo dagli occhi spalancati sul mondo-paese. [...]" (cfr. Giuseppe Appella, "Rocco Scotellaro e 45 artisti d’oggi", "insula europea", 7 Ottobre 2023).
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Tricarico - Convento del Carmelo:
"[...] I Carmelitani si insediano a Tricarico nel 1605 su sollecitazione del nobile Giovanni Antonio Russo, il quale, morendo, destina all’Ordine monastico un considerevole lascito utile sia all’edificazione del convento sia della chiesa annessa. Entrambi sono di dimensioni modeste ma interessanti per le opere pittoriche che vi contengono.
Nel chiostro hanno lavorato Carlo e Giovanni Ferro, figli del prestigioso Pietro Antonio, originari di Tricarico, dipingendo nelle lunette Scene bibliche relative ad Elia ed Eliseo, Storie dell’ordine carmelitano, e nei tondi santi e vescovi dell’Ordine. [...]" (cfr. https://www.basileusonline.it/convento-del-carmelo).
L’ONDA LUNGA DEL RINASCIMENTO.
Una nota a margine della mostra al Museo e Real Bosco di Capodimonte sul tema “Gli Spagnoli a Napoli. Il Rinascimento meridionale” *
MEMORIA E STORIA: BASILICA DI SAN DOMENICO MAGGIORE (NAPOLI). NELLA CAPPELLA CON L’ALTARE dove c’è la “Madonna della Neve tra il Battista e S. Matteo”, a destra, c’è il cenotafio di Giambattista Marino (m. 1625), il famoso poeta secentista, con busto in bronzo, di Bartolomeo Viscontini (1682) e, a sinistra, il monumento sepolcrale di Bartolomeo e Girolamo #Pepi (1580), illustri giureconsulti “da #Contursi”, con una lapide su cui è scritto: “Bartholomaeo Pepi Iurisconsulto, qui claros gessit summa continentiae et æquitatis laude Magistratus, Parenti optvmo Hieronymoque germano fratri et nomini in omnibus vitæ partibus integerrimo. Marcus Antonius Pepi Dominus Contursii, Sancti Angeli Fasanellæ, Optati, Optatelli, et aliorum Benemerentibus. Anno Domini M.D.LXXX»”.
12 SIBILLE CON I CARMELITANI SCALZI NELLA TERRA (DEL PRINCIPE DI EBOLI E) DELLA FAMIGLIA PEPI. A CONTURSI, nell’ attuale Città di CONTURSI TERME (SA), una grande pala d’altare, collocata sull’altare della Chiesa della Madonna del Carmine, con pareti affrescate con le figure di 12 Sibille, fu commissionata e dedicata dal giureconsulto Paolo Pepi, alla memoria dello zio Paolo Antonio Pepi: «AD HONOREM SACRATISS. VIRGI DE MO/TE CARMELO, ET IN MEMORIA CELE/BERRI IUREC: D. PAULI ANTO. PEPI/... PAULUS PEPI IUREC: PRONEPOS/ / F/EC. ANNO DOMINI 1608/IACOBUS DE ANTORA NEAP. PNGB».
Per approfondimenti, mi sia lecito, si cfr.: A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE).
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Santa Teresa d’Avila e le lacrime di Gesù Bambino
Da Rosalia Gigliano -15/10/2019 *
La devozione verso il Bambino Gesù da parte di Santa Teresa d’Avila è storia nota. Un esempio è la presenza di un’immagine o una statua di Gesù in ogni Convento delle Carmelitane. Ma pochi sanno e conoscono il volto rigato dalle lacrime del Bambino Gesù poco prima di un viaggio della mistica.
Santa Teresa e la storia del Lloroncito
Molti definiscono la storia “uno dei tesori spirituali lasciati dalla Santa”, altri invece la affiancano all’immagine del Bambino Gesù (noto come “Lloroncito”) che ricorda molto l’immagine sacra del Bambino di Praga.
La storia racconta che questa piccola immagine sacra, alta solo 20 centimetri, pianse quando Santa Teresa si apprestava a lasciare il Convento di Toledo, da lei appena fondato, per andare in missione in un’altra città. Questa piccola immagine, siamo nel 1580, iniziò a lacrimare. Questo fece scalpore ma, al tempo stesso, colpì l’immaginario comune, a segno della forte devozione che Teresa aveva per Gesù.
Questa l’epigrafe che ricorda il miracolo, posta nel convento: “Il giorno 8 giugno 1580, Santa Teresa si congedava dalle sue religiose di Toledo. Il cuore affettuoso della Santa soffriva molto in questi congedi [...] Quella volta né lei né le sue amate religiose si sbagliavano. Secondo una pia tradizione, perfino l’immagine del Bambino Gesù si associò al dolore delle monache, quando la santa abbandonò il convento”.
La piccola immagine del Lloroncito
Oggi, questa piccola immagine si trova ancora nel Convento di San Josè di Toledo: questo Convento rappresenta il quinto, in ordine cronologico, che la Santa fondò, ponendovi al suo interno le suore Carmelitane, ordine di cui lei stessa faceva parte.
La similitudine con il Bambino di Praga
Una curiosità: osservando bene l’immagine del Lloroncito, si notano delle evidenti similitudini con il piccolo Bambinello di Praga, immagine del piccolo Gesù venerata nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria in Repubblica Ceca. Una leggenda, infatti, afferma che anche l’immagine del Bambino di Praga appartenesse a Santa Teresa d’Avila.
Ancora oggi, il piccolo Lloroncito è portato in processione per le vie della città di Toledo l’8 giugno di ogni anno, a ricordo del miracoloso evento delle lacrime di Gesù Bambino.
ROSALIA GIGLIANO
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Fonte: aleteia.org
FILOLOGIA STORIA E TEOLOGIA-POLITICA: QUALE PROSPETTIVA PER LA CRISTOLOGIA DEL CRISTIANESIMO STORICO?
Quale ricapitolazione, quella antropologica ("ECCE HOMO") o, ancora, quella andrologica ("ECCE VIR")!?
DAI TEMPI DI ENRICO VIII, TOMMASO MORO, E CARLO V, RIPRESA DI UN FILO PER L’INCORONAZIONE DI CARLO III. L’arcivescovo di Westminster pregherà, per la prima volta dopo l’Act of Supremacy del 1534.
"INCORONAZIONE RE CARLO III. SARÀ PRESENTE ANCHE IL CARDINALE NICHOLS:
Il 06 maggio 2023 il Re Carlo III d’Inghilterra sarà incoronato. La cerimonia sarà presieduta da Sua Grazia Justin Welby, Arcivescovo di Canterbury. Come noto, il Re d’Inghilterra è anche il Capo della Chiesa Anglicana. [...]. Al rito di incoronazione prenderanno parte anche S.E.R. il Sig. Cardinale Arcivescovo di Westminster, l’arcivescovo greco-ortodosso di Thyateira e della Gran Bretagna, il moderatore della The Free Churches e il Segretario generale dell’organizzazione ecumenica “Churches Together in England”. Questi, insieme a Justin Welby e a Stephen Cottrell reciteranno anche una preghiera di benedizione.
L’arcivescovo di Westminster, pregherà, per la prima volta dopo l’Act of Supremacy del 3 novembre 1534, sul Re dicendo:
“Dio riversi su di voi le ricchezze della sua grazia, vi custodisca nel suo santo timore, prepararvi a un’eternità felice e vi accolga all’ultimo nella gloria immortale”.
A presiedere la cerimonia, però, sarà Sua Grazia Justin Welby, massima autorità spirituale della Anglicana Ecclesia (...)" ("Silere non possum", 30 aprile 2023 ).
ATTO DI SUPREMAZIA: La legge del Parlamento inglese (1534) con la quale il re Enrico VIII fu proclamato #capo #supremo della #Chiesa d’#Inghilterra, e assunse quindi tutti i poteri giuridici del #papa." (Treccani)
STORIOGRAFIA ED EDITORIA:
STORIA DELLE IDEE NEL REGNO DI NAPOLI, ALL’EPOCA Di CARLO V E DEL VICERE’ DON PEDRO DE TOLEDO (Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga, 1532-1553):
SULLE ORME DI CICERONE (E DEL SUO "DE OFFICIIS"), UN’ETICA DEDICATA AI FIGLI ("E ANCHE AGLI ALTRI CHE ASPIRANO ALL’ADOZIONE DIVINA").
Una piccola importante novità editoriale di ieri e di oggi...
Nel 1534, a Napoli, viene stampato il libro di un "giureconsulto, lucano", Giovanni Antonio Pepi (noto come Piperone), originario di Contursi, dal titolo "Piperonis De omni vero officio libri septem. Omnibus aeque ac aer ad vitam quo sine spirat nemo ad bene beateque viuendum necessarii. Authoris iniussu quisquam ne imprimito neue uspiam uendito", "per Ioannem Sulzbacchium Hagenouensem Germanum".
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NEL 2023, L’OPERA DI PIPERONE, "TUTTO IL VERO DOVERE. A TUTTI, COSI’ COME PER LA VITA L’ARIA, SENZA LA QUALE NESSUNO RESPIRA, PER VIVERE BENE E BEATAMENTE DEL NECESSARIO", E’ ORA DISPONIBILE IN TRADUZIONE, GRAZIE AL LAVORO DI SALVATORE BINI, UN CORAGGIOSO STUDIOSO DI CONTURSI TERME (SALERNO):
"De Omni Vero Officio"
Piperone
Edizioni Arci Postiglione
A cura di Salvatore Bini.
Salerno, 2023; 2 voll., br., pp. 1214
UNA QUESTIONE DI LOGOS (NON DI LOGO) E DI ANTROPOLOGIA (NON DI ANDROLOGIA).
APPUNTI:
A)
"IL PROFETA GIUSEPPE" è L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI "TRE" MONOTEISMI.
«Josephologie»: pochi anni fa (2007) è stato pubblicato un importante studio di Massimo Campanini sul patriarca di Israele e sul profeta del Corano, forse, è opportuno ri-leggerlo. A quando la ri-considerazione e il riconoscimento da parte della hChiesacattolica dell’altro Giuseppe, quello del cristianesimo, che dà il nome "Gesù" a suo figlio?!
B) IL PROBLEMA DEI "TRE ANELLI" E L’ANELLO DELLE "RECINZIONI" (ENCLOSURES): L’AMORE EVANGELICO (CHARITAS, gr. XAPITAS) E "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929).
La "question" (Shakespeare, "Amleto"), nella sua semplicità, richiama la questione antropologica (della buona madre e del buon padre) e la questione teologica: "In principio era il Logos" (non il logo dell’alleanza edipica del furbo e della furba di turno).
C) L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO, LA FILOLOGIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO"), OGGI:
RESTITUIRE A SAN GIUSEPPE ONORE E GLORIA. UNA INDICAZIONE E UNA EREDITÀ DI TERESA D’AVILA:
D) Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo #Buonarroti e al suo "Tondo Doni" e al suo "Mosè", forse, è bene ed è tempo di riproblematizzare la questione antropologica ("Ecce Homo", non "Ecce Vir") e portarsi oltre la cosmoteandria del cattolicesimo costantiniano (Nicea 325 - 2025). Uscire dall’inferno epistemologico. Se non ora, quando?!
E) B) STORIA STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: L’EUROPA E COSTANTINOPOLI. Riprendendo il filo dalla Dotta Ignoranza (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dall’assedio e caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di correre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica?!
PSICOANALISI, ESTASI, E RINASCIMENTO, OGGI: TRACCE PER UNA SVOLTA ANTROPOLOGICA.
CULTURA E SOCIETA’. La vita e l’opera di Teresa d’Avila è ancora una sfida per la psicoanalisi freudiana, per la psicanalisi lacaniana, per la stessa chiesa cattolica, e per l’intera cultura laica e devota (oggi, 2023). Nonostante le sollecitazioni generali a portarsi oltre l’orizzonte androcentrico platonico-hegeliano e, in particolare, edipico da parte di psicoanalisiti e psicoanaliste, come Elvio Fachinelli ("La mente estatica", Adelphi,1989) e Julia Kristeva ("Teresa, mon amour. Santa Teresa d’Ávila: l’estasi come un romanzo, Donzelli 2008), il problema del "roveto ardente" di Lacan, "la Cosa di Mosè", resta sempre e "encore" un enigma, quello stesso della Sfinge di Edipo: "L’esperienza mistica - scriveva Fachinelli nel 1988 - è al di là della barriera dell’incesto e in essa si manifesta un aspetto antropologico sinora rifiutato, o temuto, o assimilato tout cort all’impostazione religiosa. E così la gioia eccessiva, che è al cuore dell’esperienza estatica, viene trascurata".
Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" e al suo Mosè, sollecita a riproblematizzare non solo il rapporto tra #Freud e Lacan, ma anche, e soprattutto, a portarsi oltre la logica cosmoteandrica del "superuomo" del cattolicesimo europeo-costantiniano. Se non ora, quando?!
*http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195
MEMORIA E STORIA DI LUNGA DURATA. APPUNTI SU PROBLEMI DI PATRIMONIO CULTURALE, ARTE, E ANTROPOLOGIA
A) SPAGNA: A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE L’OPERA DI "EL GRECO" ("LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ", TOLEDO 1586 -1588) ... E PER RIMEDITARE LO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE (CARICO DI TEORIA E DI FUTURO) DI TERESA D’AVILA (1515-1582).
B) TERESA D’AVILA (Avila 1515 - Alba de Tormes 1582): "[...] Teresa (Teresa Sánchez de Cepeda Ávila y Ahumada) nasce in una famiglia ricca; il padre era figlio di un ebreo convertito - dunque tTeresa fu di origini ebree. La madre trasmette alla figlia l’amore per i romanzi cavallereschi, ma muore quando Teresa ha solo 13 anni.
Diventa una donna determinata, affascinante e trascinatrice, estrema nelle sue scelte e insieme capace di amministrare i monasteri e di trattare con diplomazia coi grandi dell’epoca. Da ragazza convince il fratello a fuggire per andare a combattere contro gli infedeli. Sempre col fratello scrive un romanzo cavalleresco; manifesta, insomma, subito due grandi amori della sua vita: la fede e la scrittura.
È l’epoca della grande crisi della Chiesa, che all’apice della propria magnificenza è percorsa da profonde inquietudini, divisa dalla predicazione di #Lutero e Juan de Valdés, una ferita profonda e interna. Teresa ha trent’anni all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), tappa di quella “rifondazione” della chiesa cattolica, che si impegna tanto nella guida delle anime, con la fondazione di nuovi ordini religiosi e la promozione di una rinnovata austerità e spiritualità, quanto nel controllo delle stesse, imponendo nuove e più severe regole monastiche e potenziando i tribunali dell’#Inquisizione. In in Spagna in particolare, dopo il culmine della potenza raggiunto sotto il regno di Carlo V (1500-1558), suo figlio Filippo II (1527-1598) si fa paladino della ortodossia cattolica. [...]" (Cfr. Maria Rosa Panté, "Teresa d’Avila", Enciclopedia delle donne)
C) CARMELITANI SCALZI: L’ULTIMA LEZIONE DI TERESA D’AVILA. A CONTURSI TERME, IN PROVINCIA DI SALERNO, NELLA TERRA DEL "PRINCIPE DI EBOLI" (Rui Gomes da Silva), L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (IN STATO DI PROGRESSIVO DEGRADO).
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI: LA STORIA NON LA FANNO SOLO I PROFETI, MA ANCHE LE SIBILLE. Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" (e al suo Mosè), sollecita anche a riproblematizzare (Julia Kristeva, "Teresa, mon amour", 2009) il rapporto tra Freud e Lacan ("Encore", 1972-1973) ) e, infine, a portarsi oltre la logica del "superuomo" del cattolicesimo costantiniano!
ARTE STORIA E STORIOGRAFIA:
NELL’EUROPA DEL XVI SECOLO, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517), IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) E LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1571), UNA ALLEANZA "CATTOLICISSIMA" TRA ALTARE E TRONO:
a) FILIPPO II, ALLA VIGILIA DELL’ATTACCO ALL’INGHILTERRA, VIENE "IMMORTALATO" NELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA ARTISTICA CELEBRAZIONE DELLA "SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" DA EL GRECO (TOLEDO 1586-1588).
b) QUADRO INGLESE DELLA CELEBRAZIONE DELLA DISFATTA DELLA FLOTTA SPAGNOLA NEL1588. "Il cosiddetto Ritratto dell’Armada, dipinto dopo il 1588 per commemorare la disfatta dell’Invincibile Armata. Elisabetta tiene la mano sul globo, simbolo di autorità, mentre sullo sfondo è raffigurato l’evento."
EUROPA2023: ARTE, STORIA, ANTROPOLOGIA.
A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE E RI-PENSARE L’OPERA DI "EL GRECO": "LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" (1586-1588)... E ANCHE IL NASCERE (IN TERRA) E IL RINASCERE (IN TERRA E IN CIELO) -OGGI
NELLA SPAGNA DI FILIPPO II, IN UNA EUROPA, SEGNATA GIA’ DALLA RIFORMA PROTESTANTE (WITTENBERG, 1517), DALLA RIVOLUZIONE DEI "CORPI TERRESTRI" IN ANATOMIA (Realdo Colombo, amico di Michelangelo Buonarroti e professore alla Sapienza, 1448; Andrea Vesalio, medico di Carlo V prima e di Filippo II poi, 1553; e Juan Valverde de Hamusco, medico del cardinale Giovanni di Toledo, 1556/1560) E DEI "CORPI CELESTI" IN ASTRONOMIA (Niccolò Copernico, "De revolutionibus orbium coelestium,1543), E, DOPO I LAVORI DEL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563), E DOPO GLI ANNI DELLO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE DI #TERESADAVILA (1515-1582), A TOLEDO, NEGLI ANNI 1586-1588, L’ARTISTA DOMENICO THEOTOKOPULOS, DETTO "EL GRECO", PORTA A COMPIMENTO IL SUO CAPOLAVORO.
EVENTO
1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione
Nei giorni 30 novembre, 1 e 2 dicembre 2022 si terrà a Roma il Convegno Internazionale di Studi «1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione», promosso dall’Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma-CSIC (EEHAR-CSIC), dall’Istituto di storia dell’Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Isem), dall’Istituto Nazionale di Studi Romani (INSR), dalla Pontificia Università Lateranense, dalla Red Columnaria/COREDEX e dall’Università Roma Tre, Dipartimenti DSU e FILCOSPE, con il patrocinio dell’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede.
L’anno 2022 commemora la ricorrenza di due eventi particolarmente significativi per la storia della Chiesa e più specificatamente per la storia delle missioni e delle relazioni tra Roma e la Monarchia Cattolica: le canonizzazioni di Ignazio di Loyola, del suo confratello Francesco Saverio, di Teresa d’Avila, di Filippo Neri e di Isidro Labrador (12 marzo), figure molto diverse, ma divenute emblematiche dello sforzo di promozione e diffusione della fede da parte della Chiesa post-tridentina; la costituzione, con la bolla Inscrutabili divinae, della Sacra Congregatio de Propaganda Fide (22 giugno), con lo scopo di promuovere le attività missionarie e al contempo ridimensionare l’egemonia esercitata dalle monarchie iberiche sui territori oggetto di tali attività, ad Oriente come ad Occidente, attraverso l’esercizio del diritto di patroado / patronato.
Le canonizzazioni del 1622 avviarono con forza una riconquista della centralità di Roma, della sua curia e delle partite politiche che vi si giocavano. Veniva così presentato al mondo e, dunque, legittimato uno scenario privilegiato in cui la Monarchia spagnola acquisiva il ruolo di braccio secolare e di punta di diamante culturale della cattolicità, ma tale legittimazione poteva derivare solo da una concessione della Santa Sede, che, reclamando in via esclusiva la prerogativa di proclamare la santità, si riaffermava quale suprema guida dei fedeli verso il traguardo di una Chiesa universale. L’anno 1622 è quindi un momento cruciale nello scontro tra Roma - che, attraverso le canonizzazioni e la fondazione di Propaganda Fide, puntava a riaffermare e consolidare il proprio monopolio sul sacro - e le monarchie iberiche, che al contrario miravano a insidiare questo primato, utilizzando la carica messianica di sovrani chiamati a guidare, governare e cristianizzare territori diversi e lontani.
Il Convegno Internazionale di Studi «1622. Essere universali nel mondo cattolico. Monarchie iberiche e Papato tra gestione del sacro, santità, pratiche missionarie ed evangelizzazione», inserito in un percorso di studi di largo respiro volto a storicizzare la proiezione globale dei regni iberici, intende esaminare questi temi e in particolare tre elementi che mutarono e interagirono tra di loro nel corso del tempo: l’instabile gerarchia degli agenti che guidarono i destini della Monarchia Cattolica, gli spazi in cui essi si mossero e le forme della rappresentazione e dell’autorappresentazione del potere sovrano e delle sue istituzioni di vertice.
Le tre giornate si terranno esclusivamente in presenza, rispettivamente, presso la Biblioteca Casanatense (via di S. Ignazio, 52), presso la Pontificia Università Lateranense (piazza San Giovanni in Laterano, 4) e presso l’Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma (via di Santa Eufemia, 13). [...]
Fonte: CNR (ripresa parziale).
FILOLOGIA DENDROLOGIA E STORIA: "PER UN’ ANTROPOLOGIA OLTRE L’ UMANO". *
Come pensano le foreste. Un nuovo approccio all’essere umani
di Dafne Crocella **
«Dormi a faccia in su. Se arriva un giaguaro vedrà che anche tu puoi guardarlo e non ti disturberà». È da questo consiglio, dato all’antropologo Eduardo Kohn da un uomo del villaggio runa di Avila nell’Amazzonia equadoregna, che si apre la riflessione sul modo in cui gli altri generi di esseri viventi ci percepiscono, ci guardano, ed effettivamente e più generalmente pensano. Eduardo Kohn è professore associato di antropologia alla McGill University di Montreal ed ha incentrato buona parte della sua ricerca etnografica sulla popolazione runa dell’Alta Amazzonia. Questo libro nasce da una profonda e prolungata conoscenza del villaggio di Avila, immerso nella Foresta Amazzonica. La prima visita di Kohn risale al 1992, a questa sono seguiti 4 anni, dal 1996 al 2000, di ripetuti ritorni. Il libro How Forests Think nasce dopo una permanenza nel 2010 ed è stato pubblicato per la prima volta nel 2013. L’opera, dopo aver vinto nel 2014 il Gregory Bateson Prize, è stata tradotta in oltre 10 lingue e dal 24 giugno è disponibile anche in Italia con il titolo Come pensano le foreste, edita dalla casa editrice Nottetempo e tradotta da Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri.
Un libro che è una rivoluzione di cui abbiamo effettivo bisogno. Un nuovo approccio copernicano pronto a mettere in discussione la centralità dell’antropos rispetto agli altri abitanti del Pianeta.
Il pensiero non è più appannaggio esclusivo del genere umano, non è il tratto che ci contraddistingue dagli altri esseri viventi, siano essi piante, animali o interi ecosistemi. Per spiegarci tutto questo e mettere in discussione i nostri parametri di approccio logico razionale, Kohn utilizza proprio i principi cardine del pensiero occidentale rifacendosi alla mitologia greca, alla filosofia classica, alla letteratura, all’ambito delle scienze e ovviamente all’antropologia culturale.
Impossibile dunque liquidare questo lavoro come una sorta di decostruzione psico-metafisica più vicina ai testi di carattere spirituale che a quelli scientifici. Ci troviamo di fronte a un pensiero logico razionale occidentale in grado di interrogarsi davanti a una foresta, mettersi in discussione e riscoprirsi. «Questo libro è un tentativo di meditare sull’enigma della Sfinge (quella che nel mito greco Edipo incontra sulla strada per Tebe), attraverso un approccio etnografico a una serie di incontri amazzonici altro-che-umani. Indagare le nostre relazioni con questi esseri che esistono in qualche modo oltre l’umano ci spinge a mettere in discussione le nostre abituali risposte sull’umano. L’obiettivo qui non è né sbarazzarsi dell’umano né conferirgli una nuova posizione, ma aprirlo». Kohn definisce tale approccio “antropologia oltre l’umano”.
Apre il primo capitolo introduttivo l’esergo dantesco a noi italiani particolarmente noto: «Ahi quanto a dir qual’era è cosa dura, esta selva selvaggia e aspra e forte»: ci stiamo inoltrando in un percorso di autoconoscenza che avrà come controparte il mondo selvaggio. E per farlo dobbiamo inevitabilmente, proprio come fece il padre della nostra lingua, tener presente la semiotica, la creazione e l’interpretazione di segni per comunicare. Kohn a questo riguardo chiarisce subito che «Il primo passo per capire come pensano le foreste è abbandonare i nostri preconcetti su cosa significhi avere una rappresentazione di qualcosa». Siamo abituati a considerare le rappresentazioni come linguaggi in quanto la nostra rappresentazione linguistica si basa su segni convenzionali collegati agli oggetti a cui si riferiscono. Ma non tutti i processi semiotici hanno queste proprietà. Dobbiamo superare l’approccio dualistico «in cui gli umani vengono descritti come separati dai mondi che rappresentano, per andare verso un approccio monista, nel quale i modi in cui gli umani si rappresentano i giaguari e i modi in cui i giaguari si rappresentano gli umani possano essere intesi come parti integranti, sebbene non interscambiabili, di un’unica storia senza fine. Date le sfide poste dalla necessità di imparare a vivere con una varietà sempre più grande di forme di vita - siano esse animali domestici, erbe infestanti, parassiti, organismi commensali, nuovi agenti patogeni, animali ‘selvatici’ o ‘mutanti’ tecno-scientifici - non solo è di cruciale importanza, ma è anche urgente sviluppare una precisa maniera di analizzare quanto l’umano sia distinto da, e allo stesso tempo in continuità con, tutto ciò che si trova al di là di esso».
In kichwa, la lingua dei runa, esiste il termine “sumak kawsay” ed esprime un concetto legato all’importanza del vivere in equilibrio con la foresta. Si tratta di un modo di prestare attenzione alle proprietà della vita nelle sue varie forme. È un orientamento etico che proviene dall’osservazione e l’interrelazione con il mondo naturale e prende forma quando l’essere umano riesce a pensare con la foresta. Kohn, attraverso diversi esempi e approfondimenti, giunge alla deduzione che una foresta pensi attraverso immagini che possiedono la qualità ontologica delle totalità semplici, ossia sono autosufficienti e complete, iconiche. Per connettersi a questi pensieri silvestri anche l’essere umano deve pensare attraverso immagini, per questo motivo i runa prestano particolare attenzione alle suggestioni che arrivano dal mondo onirico.
** Fonte: "Sapere Ambiente", 6 Luglio 2021 (ripresa parziale).
Nota
FILOLOGIA #DENDROLOGIA #STORIA:
"COME PENSANO LE FORESTE. PER UN’#ANTROPOLOGIA OLTRE L’UMANO.
Eduardo #Khon: "Se avessi scritto questo libro per i #Runa di #Ávila... non gli avrei dato lo stesso titolo"
Federico La Sala
“Virgo et Sacerdos. Idee femminili di sacerdozio tra Ottocento e Novecento” di Liviana Gazzetta *
È noto che la questione del diaconato e del sacerdozio femminile si affaccia con chiarezza nella Chiesa della fase conciliare e, ancor più, postconciliare, a partire quindi dagli anni ’60 del XX secolo. Ciò che però emerge da questa ricerca è che anche prima della fase conciliare si è espresso un desiderio, o meglio, un’aspirazione femminile al sacerdozio: è nella devozione alla Vergine Sacerdote (Virgo sacerdos), che si sviluppò in particolare tra le figlie del Cuore di Gesù a cavallo tra ‘800 e ‘900, che si può mostrare l’esistenza di una domanda latente di sacerdozio. Si tratta di una via che definirei di natura cultuale e mariologica al sacerdozio femminile, dove l’aspirazione era espressa sotto il segno della vocazione, e non della rivendicazione, della dedizione e non della pretesa di spazi. E fu questa via a preoccupare la Chiesa ben prima che negli anni ’60 venisse ad essere ufficialmente sollevata la questione dell’ordinazione femminile.
La devozione alla «Vierge Prêtre» o «Virgo sacerdos» si sviluppò in special modo (ma non solo) nella congregazione delle figlie del Cuore di Gesù, fondata nel 1872 da Marie Deluil-Martiny e approvata nel 1902 da Leone XIII: un ordine contemplativo, nato all’incontro di complesse matrici spirituali, centrate sull’oblazione eucaristica, la riparazione dei peccati e l’imitazione di Maria al Calvario o -per usare le parole della stessa fondatrice- sullo spirito eucaristico, lo spirito di vittima, lo spirito sacerdotale.
Il titolo di «Virgo Sacerdos» era entrato apertamente nella liturgia cattolica a partire dal 1709, quando presso il seminario di Saint Sulpice si era cominciato ad utilizzare con regolarità, per la festa della Presentazione al tempio, un inno dei Vespri che lo conteneva. Tale festa era qui diventata la celebrazione per eccellenza della spiritualità sacerdotale e della devozione a Maria, costituendo anche il momento della rinnovazione pubblica della professione per i membri della congregazione di San Sulpizio, oltre che festa del seminario. Se nei secoli precedenti Maria era stata al centro soprattutto di una riflessione teologica e filosofica, ora la via al sacerdozio mariano era tutta spirituale e in alcuni casi misticheggiante: Maria era il modello del prete concepito come culmine delle virtù religiose, sempre più interpretata come riferimento contro ogni forma di degenerazione nella vita del clero.
La spiritualità e la devozione alla «Virgo Sacerdos» o «Vierge Prêtre» fu dunque ereditata dalla scuola francese del ‘700. All’interno di una più complessa elaborazione spirituale, l’aspettativa della madre Maria di Gesù (questo il nome assunto in religione dalla Deluil Martiny) era che si realizzasse il tempo in cui i preti avrebbero adempiuto pienamente il loro ministero, nella purezza e nella perfezione di vita che le sembrava mancare attorno a sé; le sue ‘figlie’ dovevano essere come delle vittime che, in analogia a Maria ai piedi della croce e accanto al ‘discepolo amato’, sostenessero i sacerdoti nella loro missione e si immolassero per riparare l’indegnità dei membri del clero.
Nel 1906 le religiose chiesero di poter usare l’appellativo di «Vierge Prêtre» nei riti del proprio istituto e Pio X accolse la richiesta, facendo stendere una preghiera che fu poi arricchita di indulgenze; lo stesso papa concesse nel 1910 che nelle cappelle dell’istituto si potesse aggiungere alle litanie mariane l’invocazione «Virgo Sacerdos, ora pro nobis». Le religiose fecero allora produrre anche delle immagini collegate alla devozione: immagini che raffiguravano la Vergine, abbigliata in vesti sacerdotali, che al di sopra del globo terrestre schiacciava il serpente con le braccia alzate verso il cielo.
Il tema del sacerdozio di Maria percorre un po’ tutta la storia della cristianità. In origine il titolo di «sacerdos» attribuito alla Vergine è attestato nell’ambito della tradizione omiletica: nel contesto, cioè, di un genere letterario, sviluppatosi nella cultura greca tra VII e IX secolo, in cui si usavano metafore e immagini che stabilivano un rapporto tra Maria e l’Eucarestia, o che riconoscevano un ruolo attivo della Madonna nel donare il pane di vita grazie al suo ruolo materno, anche se va detto che gli omelisti usavano idee e suggestioni che difficilmente possono essere ricondotte a concetti: alla base di questa tradizione, ad esempio, stava l’autorità dello Pseudo Epifanio, che attribuiva a Maria il valore di tavola, di altare e di prete.
Nel Medioevo l’idea del sacerdozio della Vergine conosce un significativo sviluppo sul piano teorico. Una delle vie filosofico-teologiche attraverso cui tra Alto e Basso Medioevo è possibile parlare di sacerdozio mariano è costituita dalla diffusione delle idee dello Pseudo Dionigi. Poiché nella prospettiva sincretistico-neoplatonica di questo autore (e dei molti suoi seguaci) la relazione tra i diversi ordini di realtà si pone in chiave gerarchica, ciò induce inevitabilmente a collocare la Vergine in una posizione di primato nei confronti delle gerarchie della Chiesa (e non di rado anche di quelle angeliche). Chi contribuisce in modo determinante in questa direzione è l’autore come lo Pseudo Alberto Magno: il suo Mariale super missus est in più punti sostiene che la pienezza conferita nell’ordinazione sacerdotale appartiene anche a Maria, anche se non la riceve con apposito sacramento, e lascia intendere che non esiste nessuna motivazione -neppure l’inferiorità indiscussa del sesso femminile- per fondare la sua esclusione dal sacerdozio.
In età moderna, oltre e più che la via dottrinale, si è profilata una ‘via al sacerdozio’ della Vergine di natura più propriamente devozionale e spirituale. Questa declinazione si manifesta in un sentimento del legame speciale tra il prete e la Vergine, in un ricorso particolare del sacerdote alla mediazione di Maria nelle funzioni sacramentali: quasi una somiglianza, un’imitazione particolare della Madonna ad opera del prete, che avvia la tradizione delle messe offerte secondo le intenzioni di Maria e la pratica della rinnovazione delle promesse sacerdotali in concomitanza con le feste mariane. Soprattutto all’interno della scuola francese (in primis il seminario di san Sulpizio) si sostiene che Maria ha una sovranità sugli apostoli che non le deriva tanto da una precisa giurisdizione, sempre ritenuta sconveniente al sesso femminile, ma dalla pienezza dello spirito e della grazia: ciò che la rende, dopo l’Ascensione, non il capo dotato di autorità sulla Chiesa, ma il cuore della comunità dei credenti.
Dimostrando di temere soprattutto le conseguenze della devozione sul piano pastorale, per l’associazione tra figura femminile e titolo di sacerdote che essa comportava, il Sant’Uffizio impose una drastica censura alle figlie del Cuore di Gesù e alle loro iniziative. A partire dal 1912 l’ordine venne sottoposto a più riprese all’esame del Sant’Uffizio, che con tre interventi successivi nel 1913, 1916 e 1927 vietò dapprima le immagini, quindi le forme devozionali alla Vergine sacerdotale che vi erano state sviluppate; nel 1927 una lettera del cardinal Merry Del Val, segretario della Suprema, precisò che tale devozione non era approvata e non poteva essere propagata in nessuna forma. Nonostante non riguardassero la dottrina della partecipazione di Maria al sacerdozio in sé, tali interventi hanno quasi oscurato un’intera tradizione teologico-spirituale sul tema del sacerdozio della Vergine, che per secoli ha attraversato cristianesimo e il cattolicesimo occidentali.
Il Sant’Uffizio affermò che, se da un punto di vista dottrinale non si poteva non attribuire a Maria il titolo di mediatrice nella salvezza, e quindi di sacerdote, non era però conveniente farne uso, soprattutto se a farlo erano delle donne. Le conseguenze della devozione considerate più riprovevoli erano quelle che stabilivano un’associazione tra figura femminile e sacerdozio: perché cioè con il culto alla «Vierge Prêtre» le religiose potevano, da una parte, prefigurarsi quasi come delle sacerdotesse (e magari accreditare queste convinzioni presso i fedeli); dall’altra, proporsi come riparatrici degli errori del clero.
Dopo la bufera d’inizio secolo, nel 1989 la famiglia religiosa ha visto concludersi il processo di canonizzazione della fondatrice, proclamata beata da papa Giovanni Paolo II.
Sul piano spirituale emerge il circuito virtuoso che già tra ‘800 e ‘900 poteva crearsi, in determinati settori del cattolicesimo femminile, tra una soggettività consapevole di sé e il modello della Vergine corredentrice: un circuito che può ‘ispirare’ ancor più oggi, a fronte di una crescita esponenziale dell’autonomia e dell’autorevolezza femminile nella vita ecclesiale.
Sul piano storico la vicenda mostra un protagonismo femminile fin qui insospettato, connesso sia all’esigenza di un maggior ruolo nell’accesso al sacro, sia alla richiesta di una profonda riforma ecclesiale. In essa emerge quanto diffusa e radicata fosse la preoccupazione per l’inadeguatezza del clero maschile tra le nuove fondazioni femminili nel primo ‘900, mentre nei procedimenti inquisitoriali emerge un altrettanto diffuso fastidio nei loro confronti. Sul piano storiografico la ricerca indica che la cosiddetta femminilizzazione del cattolicesimo, che interessa l’età contemporanea, porta con sé un’ambivalenza e una conflittualità strutturali. Se dalle spinte per un maggiore coinvolgimento femminile contro i ‘nemici’ della Chiesa si passava all’idea di una comunanza d’azione delle religiose col clero, si usciva dai confini prescritti alle donne e si poteva incorrere nell’interdizione; ed evidentemente lo sconfinamento risultava tanto più grave in quanto veicolato attraverso l’identificazione con Maria corredentrice. In sostanza si evidenzia come all’interno della Chiesa i rapporti tra i sessi non siano meno conflittuali che negli altri ambiti della società, e ciò nonostante la Chiesa si appelli ricorrentemente al contributo o al ‘genio’ femminile.
Nei fenomeni qui ricostruiti, infine, si comprende come la domanda femminile di sacerdozio possa espressa sotto il segno della vocazione e non della rivendicazione di un diritto, della dedizione di sé e non della protesta: un’offerta cui la Chiesa non riesce ancora a rispondere anche perché (si pensi che alla dichiarazione Inter insigniores) si confondono di fatto questi due piani.
* Fonte: Letture.org
“Capatrici di pace”
Un’analisi dei teologi Scarafoni e Rizzo: «Recuperare l’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo»
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo*
Sta per finire l’anno accademico e rimettendo in ordine la nostra biblioteca di casa, ci è capitato fra le mani il bel libro del 2017 «Le donne nel cantiere di San Pietro in Vaticano» curato da Assunta Di Sante e Simona Turriziani. Tratta delle artiste, artigiane e imprenditrici che lavorarono «all’ombra del Cupolone contribuendo ad accrescere la bellezza della Basilica Vaticana», svolgendo un ruolo importante nella Fabbrica di San Pietro.
Scrive Paola Torniai: «Nel 1673 Clemente X Altieri commissiona al mosaicista Orazio Manenti il restauro della Navicella, raffigurante Gesù che salva dalla tempesta la nave degli apostoli, realizzata da Giotto per il Cardinale Jacopo Stefaneschi, in occasione del primo giubileo indetto da Bonifacio VIII. Manenti deve risarcire l’opera, originariamente collocata nell’atrio della primitiva San Pietro e danneggiata durante i lavori di ampliamento sotto Paolo V Borghese. ... Manenti recupera ogni più minuta pietruccola, avvalendosi di maestranze femminili». Le «capatrici dell’immondezze de smalti». Esse a mani nude frugavano a terra tra i calcinacci per recuperare smalti vecchi che sarebbero stati rifusi in smalti nuovi. Lavoravano tra «la polvere che inaridisce la pelle e soffoca il respiro, il disagio di prostrarsi per ore alla ricerca di tessere musive, la difficoltà di scavare a mani nude, abrase e ferite, tra calcinacci e materiali ammassati. ... Le capatrici della Navicella ... sono state mani provvidenziali».
Questa storia suggestiva di donne, ci ha fatto riflettere sulle devastazioni che stiamo vivendo in questo momento, e che confermano i moniti di Papa Francesco che da tempo metteva in guardia contro i «venti di guerra». Anche la Chiesa di Cristo, specialmente nelle relazioni ecumeniche e nella riflessione teologica, ha subito forti scossoni come la Navicella di Giotto. Sono cadute tante tessere: fino a pochi mesi fa l’auspicio di molte chiese era che i cristiani tutti insieme fossero parte viva e coraggiosa della società civile, promotori di giustizia, di pace e misericordia per l’umanità. Quell’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo sembra essere crollato in un attimo tra le macerie che le bombe e i missili producono nei territori di guerra.
C’è bisogno di «capatrici di pace». Un lavoro paziente di recupero, in mezzo a quelle rovine, che può essere fatto bene dalle donne, ancora troppo poche nei dialoghi e nelle trattative fra le parti, di fatto assenti ai tavoli dove si decide la guerra. La pace si costruisce recuperando proprio quegli intenti così belli ispirati dallo Spirito santo, come lo scintillio delle tessere musive «capate» che allude «allo splendore della sostanza divina e all’incorrotta chiesa primitiva».
Anche nella riflessione teologica è essenziale valorizzare il contributo delle donne. Abbiamo avuto modo di scrivere già da vari anni che è necessario sviluppare studi sugli «attributi di Dio», specialmente sull’onnipotenza divina, con una maggiore sensibilità nei confronti dei risvolti antropologici. «Lo sforzo della teologia attuale deve essere quello di vincere ogni riferimento individualistico ed egoistico nella presentazione di Dio di fronte alle creature, che possa giustificare una persistenza dell’egoismo e dell’individualismo nelle creature stesse». Dio non è potente al modo umano: «il concetto di potenza è ambiguo perché spesso ha un forte legame con l’egoismo». Nel Vangelo «l’onnipotente che opera con il suo braccio pieno di misericordia e bontà è contrapposto ai potenti, ai ricchi e ai superbi che opprimono i deboli, i poveri e gli umili».
Le bombe mettono in evidenza un Dio egoista e prepotente invocato dai duri di cuore, dai superegoisti privilegiati, per «occupare spazi» e legittimare «strutture di peccato» che fanno sembrare normale ed inevitabile il male inflitto agli ultimi e ai poveri. Disprezzano un Dio debole incapace di difendere le «vittime innocenti».
I teologi devono essere coraggiosi proprio per negare esplicitamente l’egoismo in Dio. «Dire che Dio è buono, benché sia tutt’altro che scontato, non è lo stesso che dire che Dio non è cattivo. Dire che Dio è amore, benché ripete il cuore stesso della rivelazione (cfr. 1Gv 4,8; Gv 3,16), non è lo stesso che negare in Dio l’egoismo». I battezzati che si consacrano a Dio e rinunciano al diavolo, in realtà «come un fiume carsico» nelle difficoltà e nelle prove o per giustificare interessi politici ed economici, sono tentati di affidarsi ad un Dio immaginato come un guerriero, che a suo piacimento riprende l’arco deposto nel cielo, quando ha stabilito l’alleanza della pace.
Se l’uomo non cambia idea su Dio è perché forse non vuole cambiare lui, rimanendo chiuso nel suo egoismo, che giustifica con il meccanismo di proiezione; un gioco sottile e menzognero (al quale si presta talvolta la teologia) di un uomo che sostituisce il Dio vero dell’amore e della libertà con il Dio della guerra. In tal modo rivela come il suo cuore sia chiuso in una autoreferenzialità così insuperabile da crearsi e raccontare per vero un Dio «a sua immagine».
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia.
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
#ANTROPOLOGIA E #ARTE. #Michelangelo insegna: la #storia non la fanno solo i #profeti, ma anche le #sibille. #Apriregliocchi sulla #cornice del quadro #TondoDoni (https://uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni ) e la #CappellaSistina
Un esercizio audace e creativo per ispirare uno stile sinodale «dal basso».
Le Sibille e la narrazione sinodale.
di Paolo Scarafoni - Filomena Rizzo *
Il popolo di Dio torni a parlare nella Chiesa! Sembra che balbetti con problemi che vanno dalla afasia, potrebbe parlare ma non sa; alla disartria, saprebbe parlare ma non può. Lo sforzo iniziale del sinodo per recuperare il popolo di Dio sarebbe quello di una rieducazione alla comunicazione, magari con dei mediatori?
Papa Francesco raccomanda di non perdere il «filo rosso» del Convegno ecclesiale di Firenze, dove invitava a ricominciare «dal basso», «dalle piccole comunità, dalle piccole parrocchie» affinché «esca la saggezza del popolo di Dio». Si tratta di «porsi al servizio di questa grande opera di raccolta delle narrazioni delle persone: di tutte le persone, perché in ciascuno opera in qualche misura lo Spirito; anche in coloro che noi riterremmo lontani e distratti, indifferenti e persino ostili» (CEI 12.10.2021). La rieducazione è al contrario. È il nostro ascolto che si deve aprire a comprendere parole nuove. Il percorso sinodale di questo biennio nella dimensione della narrazione «è per sua natura alla portata di tutti, anche di coloro che non si sentono a loro agio con i concetti teologici» (CEI 29.09.2021).
È a noi cara la cittadina di Contursi Terme, in provincia di Salerno, dove trascorriamo parte dell’estate. La sua suggestiva chiesetta del Carmine ci ha stimolato a riconoscere alcuni percorsi di fede propri di quella comunità. È il nostro «caso serio», di Balthasariana memoria. È un esercizio audace di creatività che non vuole dettare un programma, ma ispirare uno stile sinodale «dal basso» per l’evangelizzazione (Evangelii gaudium 33).
Di fronte agli accomodamenti e alle storture che iniziavano ad attenuare la fiamma cristocentrica accesa dal Concilio, Von Balthasar scriveva della vergine e martire Cordula, modello della accoglienza della novità irrinunciabile di Cristo. Noi facciamo riferimento alle dodici vergini Sibille dipinte a tempera sulle pareti della «piccola cappella sistina» del Carmine, che sono patrimonio della vita di fede dei contursani. Sono percorsi meno ufficiali e linguaggi creativi, nei quali molti potrebbero riconoscersi come persone che si appartengono in ragione della chiamata di Dio e riscoprire l’identità della Chiesa particolare per aprire nuove prospettive e orizzonti, non soltanto in vista del contributo da inviare alla segreteria del sinodo.
I Padri della Chiesa hanno trovato alleate preziose nelle Sibille, grazie alle loro profezie, come lampade che illuminano il cammino dell’umanità pagana verso il cristianesimo. I profeti annunciavano il Messia al popolo d’Israele, le Sibille il Salvatore ai pagani.
Varrone e Lattanzio enumerarono dieci Sibille, per lo più collocate in oriente. Nel 1481 il domenicano Filippo Barbieri all’elenco ne aggiunge due, con il proposito di riequilibrare geograficamente la loro presenza nel mondo occidentale e raggiungere il numero simbolico di 12, segno di pienezza sacra nell’ebraismo e nel cristianesimo.
Nel 1608 un ignoto frate carmelitano, con l’aiuto di modesti artisti, «scrisse» pittoricamente un poema sulla «nascita della fede». Rappresentando le Sibille ha saputo raccogliere le istanze pietistico devozionali di quel tempo del popolo contursano, sensibile ai doni divini, circondato da bellezze naturali, con numerose e abbondanti sorgenti di acque benefiche e terapeutiche. Esse sono un patrimonio che attraversa le generazioni, in quella pietà popolare sana, nella consuetudine di stare con Dio.
Il popolo di Contursi Terme, molto attento e attivo riguardo alle problematiche civili, può attingere anche a questa ricchezza per cementare il senso di comunità. Le Sibille aiutano a pensare modelli ecclesiali più liberi, per riattivare la circolarità delle relazioni come nella Chiesa nascente, rispetto alla visione di un’armata, o di una istituzione ingessata d’altri tempi.
Le Sibille erano donne del Mediterraneo, libere, voci profetiche del paganesimo greco, del monoteismo giudaico, della religione politeista romana e del cristianesimo, in diretto collegamento con lo Spirito divino. Un importante esercizio narrativo, quando si partecipa «alle celebrazioni, alla preghiera, ai dialoghi, ai confronti, agli scambi di esperienze e ai dibattiti», sarebbe quello di ricordare le donne della comunità, non soltanto le più prestigiose, ma tutte quelle significative nelle singole famiglie e a livello di paese. Si tratta della memoria che penetra nel quotidiano e nei piccoli gesti, che costruiscono la vera santità comunitaria (Gaudete et exultate 16); ma non solo, sarebbe un esercizio che serve a tutti per superare una mentalità patriarcale, dare il giusto valore alle donne, costruttrici di quella comunità, ed educare a relazioni positive e paritarie, che non si prestino alla violenza di genere.
I nomi delle Sibille ricordano la fratellanza dei popoli perché sono derivati dal luogo che la tradizione assegna loro come patria, e rivelano il ruolo della loro missione nelle nazioni. La comunità potrebbe riflettere sull’accoglienza delle numerose famiglie di stranieri che ormai ne fanno parte e dei tanti turisti che ogni anno visitano le terme, per purificare stereotipi e pregiudizi. Aiuterebbe fare riferimento all’alleanza di Noè o dei popoli, alla quale è legata la Sibilla, spesso identificata con quella Cumana, che sarebbe salita sull’arca per essere salvata, quale moglie di uno dei figli del patriarca (Oracoli sibillini I, 211; III, 827).
Nella fratellanza e nell’accoglienza c’è sempre lo spezzare il pane insieme. La Sibilla Persica vaticinava che Cristo avrebbe moltiplicato il pane e i pesci per sfamare il popolo (Oracoli sibillini I,357; VI,15), a sostegno anche oggi della moltiplicazione di esperienze solidali, della cura per gli altri, che «viene dal basso e in piena gratuità».
Il territorio di Contursi è in prevalenza a vocazione agricola. Fa parte di quelle «aree interne» del Meridione d’Italia. Ora è seriamente minacciato dal dislocamento di industrie inquinanti. Le comunità della valle dei fiumi Sele e Tanagro sono chiamate ad intervenire con spirito libero e amore per il creato sul proprio futuro. La comunità sta reagendo con tante iniziative per diventare protagonista di una nuova stagione di sviluppo sostenibile.
Le Sibille superano la cultura maschilista del conflitto e del profitto perché hanno un aspetto cosmico messo in evidenza già da Plutarco: come donne sono legate alla vita, alla fertilità, la loro morte è una non morte. Il loro corpo insepolto valica i confini spazio-temporali, con «una sorta di metamorfosi del corpo, che si assimila alla terra, alle erbe, agli animali, anch’essi portatori dello pneuma profetico», ai quali dona capacità mantiche.
Ecco perché da sempre sono simbolo della «cura del creato» e della «forza dello Spirito». La loro presenza nelle nostre chiese, accolta nel tempo, avrebbe dovuto agevolare il processo di recezione dei contenuti del Sinodo sull’Amazzonia e degli appelli di Querida Amazonía, ed evitare polemiche sterili e pretestuose. Profondo è il collegamento con le culture amazzoniche, che presentano la Madre Terra, che mai potrebbe essere confusa con la Madre di Dio, alla quale proprio le Sibille dedicano tanti versi. Il più bello è forse quello della Libica o italica: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia dell’umanità».
Il magistero sul creato di Papa Francesco potrebbe rafforzare la consapevolezza della comunità locale per giungere a decisioni di bene comune per il proprio futuro. L’esercizio del «discernere insieme» proposto dalla Chiesa, potrebbe essere di aiuto e di ispirazione, senza invadere gli spazi e le competenze, in un reciproco scambio di doni eliminando definitivamente i vecchi schemi di contrapposizione ideologica. A sua volta il cammino sinodale locale si arricchirebbe di contributi a contatto con le problematiche reali che vive la comunità.
La Chiesa non rinunci ad essere un presidio, un «ospedale da campo». Il coinvolgimento civile, rispettoso e libero, da parte dei cristiani, che si sforzano di essere testimoni credibili, potrebbe risvegliare in molti il desiderio di conoscere Gesù e il ritorno ad una più autentica vita sacramentale: anche la tradizione liturgica è ricca di riferimenti alle Sibille. In pieno Medioevo, nella celebrazione della Vigilia di Natale, nell’elenco dei «Profeti di Cristo» (Ordo Prophetarum) era compresa anche la Sibilla Eritrea, chiamata ad annunciare con il canto il ritorno del Signore nel Giorno del Giudizio. Come non ricordare la devozione popolare che è confluita nella liturgia romana funebre con la sequenza Dies irae: «Dies irae, dies illa, Solvet seclum in favilla, Teste David cum Sibylla».
Le Sibille possiedono in germe i tre tratti dell’umanesimo cristiano «umiltà, disinteresse, beatitudine», che stentiamo ancora a riconoscere nella società e perfino nella Chiesa. Sono fortemente auspicati dal Concilio Vaticano II, e possiamo augurarci di ritrovarli seminati in mezzo al popolo. Quelle vergini non sono ossessionate dal «potere» e dalla ricchezza, hanno uno stile di vita sobrio. Non sono sacerdotesse, non vivono in templi ma in grotte e presso corsi d’acqua accessibili a chiunque. I loro vaticini non si rivolgono all’interesse dei singoli, dei potenti, ma riguardano tutti, l’intera comunità, non sono astratti né ideologici. Indicano un cammino che porta a Cristo, cambiamenti profondi nell’umanità, e mettono in guardia contro il male. Papa Francesco invita a ritrovare la gioia di «annunciare il Vangelo in un tempo di rigenerazione» partendo dalle realtà locali. È il momento favorevole per questo esercizio, possibile in tante piccole comunità cristiane in Italia, che de vono riscoprire il loro «caso serio», e trovare elementi di ispirazione per incarnare il Vangelo.
Per un’unica storia di salvezza.
«Gerarchia delle verità» e principio di Lund.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 2 aprile 2022).
Lo scorso anno molti si chiedevano il senso di proseguire la preparazione della prima Assemblea ecclesiale per l’America Latina e i Caraibi, mentre il mondo affrontava la crisi del Covid-19. L’impegno profuso per realizzarla è stato un esempio di chiesa viva e vicina al suo popolo in un tempo di grande dolore. In questi giorni tragici segnati dalla guerra in Ucraina, i riflettori sul sinodo sembrano perdere luminosità.
Quelli che vorrebbero in Europa declassarlo a causa della guerra, sono gli stessi che lo subiscono e lo concepiscono come un evento passeggero e non come processo calato nella realtà.
Il lavoro sinodale che si sta portando avanti nelle parrocchie e nelle diocesi, per non rimanere astratto, e troppo concentrato su se stesso, si deve aprire all’impegno assunto: comunione, partecipazione e missione. La comunione e la missione hanno bisogno della partecipazione per diventare concrete.
La gente comune è immediatamente disponibile a gesti di solidarietà nei confronti dei profughi e delle vittime. Tante persone influenti nell’ambito della cultura, arte, economia, finanza, sport, politica, prendono posizioni chiare ed inequivocabili contro l’invasione russa. Diviene importante per i cristiani una riflessione teologica su quanto accade.
Il processo sinodale iniziato da poco è una risorsa in tal senso, se intercetta, soprattutto in Europa, le istanze di ascolto del popolo di Dio, di fronte al dolore della guerra, e per riuscire a comprendere meglio la nostra identità cristiana, una Chiesa che non separa dalla vita.
C’è un’unica storia. «Unico diventa il destino della umana società e senza diversificarsi più in tante storie separate» (Gaudium et spes 5). Oggi non è più possibile pensare a una «storia sacra» della Chiesa, «una storia di salvezza» che riguardi soltanto le Chiese, ma esiste un’unica storia dell’umanità, nella quale il cammino dei cristiani si intreccia con tanti altri cammini. La «storia della salvezza» si realizza nella «storia universale».
Teilhard de Chardin metteva in evidenza per noi cattolici nel secolo scorso: «il sospetto che la nostra religione renda i propri fedeli inumani. [...] Li isola, invece di fonderli con la massa. Li disinteressa, invece di legarli al compito comune. [...] Il mondo dice del cristiano: “a causa della sua religione, non crede allo sforzo umano. Il suo cuore non è più con noi. Il Cristianesimo genera disertori e traditori”» (L’ambiente divino). «Disertori e traditori» della umanità in Cristo, dell’amore e della libertà nella pace.
Il cammino tormentato per comprenderci seguaci di Cristo contro ogni guerra e violenza, è stato anche il nostro. Tuttora abbiamo il compito di confermare queste decisioni per offrire una testimonianza sempre più chiara. Anche negli atteggiamenti di vita dobbiamo esprimere l’essenziale del cristianesimo.
Il decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio afferma un principio teologico fondamentale per il dialogo ecumenico, di rilevanza tale da diventare un cardine per la teologia in generale: la «gerarchia delle verità». Ordine e gerarchia non significano diversa importanza fra le verità di fede, non una piramide, ma semplicemente il legame più o meno prossimo con il fulcro della fede, costituito dalla Trinità e dal mistero di Cristo, incarnazione, morte, risurrezione, redenzione, chiesa e giudizio finale, cioè dalle verità centrali o kerygma.
Le altre Chiese avevano colto in modo diverso la «gerarchia delle verità», formulando nel 1952 il principio di Lund che è un principio operativo.
Esso si può riassumere in questa espressione, per offrire al mondo una testimonianza comune: il desiderio di unione è maggiore delle divisioni, e pertanto si è «convinti che dovremmo fare insieme tutto ciò che può essere fatto insieme e fare separatamente solo ciò che deve essere fatto separatamente». Manifestare insieme i valori del Regno: pace, solidarietà e giustizia, senza lasciarsi prendere da lentezza, incertezza ed indifferenza. Così si mette in evidenza che quando il popolo di Dio agisce insieme affiora l’autenticità dell’essere cristiani.
Se tutto questo ha valore nell’urgenza della guerra, deve però diventare un modo di vivere abituale di tutti i cristiani. Il principio di Lund è importante perché traduce in criterio operativo la comunanza di fede esistente fra le chiese, e invita fattivamente ad esprimere i caratteri di koinonia reale; inoltre, l’esperienza mostra che spesso alcune difficoltà, che alle menti sembrano insormontabili, si appianano nella comune azione, come afferma l’ecumenista Geoffrey Wainwright: «Solvitur ambulando», ossia talvolta procedendo insieme si trova la via di soluzione.
La sinodalità è anche questo: camminare insieme ed «essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza» (Gaudete et exultate 89).
Papa Francesco sostiene che «l’unità è superiore al conflitto». «E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba fare, “cerchiamo ciò che porta alla pace” (Rm 14,19)» (Gaudete et exultate 88).
Il discernimento sinodale sta dando prova che non è «dall’alto», si muove liberamente, e mostra che «lo Spirito soffia dove vuole», e in poche settimane ha preso una nuova via dall’ascolto della gente che pone al centro la pace e la solidarietà.
«Non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi. È duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore, poiché non si tratta di “un consenso a tavolino o [di] un’effimera pace per una minoranza felice”, né di un progetto “di pochi indirizzato a pochi”. Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di “accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo”. Seminare pace intorno a noi, questo è santità». (Gaudete et exultate 89).
Offerti all’attenzione del popolo di Dio e letti nella loro completezza, il principio della gerarchia delle verità e quello di Lund possono richiamare, in chiave contemporanea, la sentenza patristica: «lex orandi - lex credendi - lex agendi o lex vivendi». L’antichissima provenienza di questo apoftegma ci aiuta a valorizzare la bontà del processo sinodale. Pregare insieme, credere insieme e vivere insieme: operatori di pace sempre, nella vita di tutti i giorni da oriente ad occidente.
ANTROPOLOGIA E CIVILTA’: "HOMO HOMINI DEUS (CHARITAS) EST".
EPIFANIA DEL "DEUS #CHARITAS".#Edith Stein, una #Ein-#Stein #angolare: appresa a #scuola di #TeresadAvila (@ocdcuria) la #sapienza per sviluppare "il senso della #paterntà e della #maternità"(@Pontifex_it) dell’#essereumano, è diventata #figlia di Dio.
IL MISTERO DEL NATALE SECONDO EDITH STEIN [6 gennaio 2008]
di La Civiltà Cattolica*
Nel 1958, prima di morire, Reinhold Schneider, scrittore tedesco di alto livello, scrisse: «In Edith Stein è riposta una grande speranza, una promessa per il suo popolo, e per il nostro popolo: che questa figura impareggiabile entri veramente nella nostra vita, ci renda chiaro ciò che lei aveva compreso». Che cosa aveva compreso questa donna impareggiabile, nata a Breslavia nel 1891, in una famiglia di ebrei ortodossi, allieva preferita di Husserl, e poi sua assistente, convertita al cattolicesimo nel 1922, religiosa carmelitana nel 1933, col nome di Teresa Benedetta della Croce, morta nelle camere a gas di Auschwitz nel 1942, e canonizzata nel 1998? Che cosa aveva compreso ce lo rivela la sua opera, soprattutto Scientia Crucis. Studio su san Giovanni della Croce, ma anche, e in termini più semplici e sintetici, il testo di una sua conferenza, elaborata nell’abbazia benedettina di Beuron, durante le vacanze natalizie del 1931: Il mistero del Natale (Brescia, Queriniana, 1989). Comprende una ventina di pagine, dal ritmo meditativo e contemplativo, intrise d’incanto dinanzi al Verbo fatto bambino e sorrette da un amoroso impegno a vivere in pienezza la sequela Christi. Nessuna concessione alla retorica o al sentimentalismo, ma intensa immersione in un mistero che sgomenta e commuove.
Ne esporremo l’idea di fondo nella prospettiva di aiutare i nostri lettori a vivere più consapevolmente il mistero natalizio.
* * *
Edith Stein, per la sua conferenza, prende le mosse da una constatazione generale: «Quando i giorni diventano via via più corti, quando, nel corso di un inverno normale, cadono i primi fiocchi di neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi. Anche coloro che professano un’altra fede e i non credenti, cui l’antico racconto del Bambino di Betlemme non dice alcunché, preparano la festa e cercano di irradiare qua e là un raggio di gioia. Già settimane e mesi prima un caldo flusso di amore inonda tutta la terra. Una festa dell’amore e della gioia, questa è la stella verso cui tutti accorrono nei primi mesi invernali» (p. 23).
Ma per il cristiano - nota subito la Stein - la festa natalizia ha un altro spessore; lo indicano i canti e i testi liturgici dell’Avvento: «Stillate, cieli, dall’alto, e le nubi piovano il Giusto! Il Signore è vicino! Adoriamolo! Vieni Signore, e non tardare! Esulta, Gerusalemme, sfavilla di gioia, perché viene a te il tuo Salvatore!». Poi le grandi antifone del Magnificat (O sapienza, O Adonai, O radice di Jesse, O chiave della città di Davide, O Oriente, O re della nazioni) che gridano il loro nostalgico e ardente «Vieni a salvarci!», e infine il gioioso annuncio: «Oggi saprete che il Signore viene e domani contemplerete la sua gloria». E. Stein commenta: «Sì, quando la sera gli alberi di Natale luccicano e ci scambiamo i doni, una nostalgia inappagata continua a tormentarci e a spingerci verso un’altra luce splendente, fintanto che le campane della messa di mezzanotte suonano e il miracolo della notte santa si rinnova su altari inondati di luci e di fiori. “E il Verbo si fece carne”. Allora è il momento in cui la nostra speranza si sente beatamente appagata» (p. 25).
* * *
Prima di addentrarsi nel mistero del Natale, sulla scia degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio la Stein tratteggia una compositio loci: vedere il luogo e i personaggi dell’evento. Una mangiatoia e in essa un Bambino; ci mettiamo in ginocchio e ascoltiamo «il battito del suo cuore».
Accanto a lui, sua Madre e Giuseppe: con la Madre di tutte le Madri / Egli custodisce il Bambino Gesù (E. Stein, Nel castello dell’anima. Pagine spirituali, Roma, Ocd, 2003, p. 336). Poi i pastori sui quali le mani del Bambino riversano la rugiada della grazia, colmandoli di gioia. Nessun altro? Edith vede anche i santi Magi (che «si trovano alla mangiatoia quali rappresentanti di coloro che cercano da ogni terra e da ogni popolo»: ivi, 427), i santi Innocenti, i flores martirum, i teneri fiori colti prima di essere maturi per la realtà del sacrificio (ivi, 463); Stefano, «il protomartire, che seguì per primo il Signore nella morte»; Giovanni, «l’apostolo dell’amore».
«Il Bambino protende nella mangiatoia le piccole mani, e il suo sorriso sembra già dire quanto più tardi, divenuto adulto, le sue labbra diranno: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati” [...]. Di fronte ad essi sta la notte dell’indurimento e dell’accecamento incomprensibile: gli scribi, che sono in grado di dare informazioni sul tempo e sul luogo in cui il Salvatore del mondo deve nascere, ma che non deducono da qui alcun “Andiamo a Betlemme!”, e il re Erode che vuole uccidere il Signore della vita. Di fronte al Bambino nella mangiatoia gli spiriti si dividono. Egli è il Re dei re e il Signore della vita e della morte, pronuncia il suo “Seguimi!”, e chi non è per lui è contro di lui. Egli lo pronuncia anche per noi e ci pone di fronte alla decisione di scegliere tra luce e le tenebre» (p. 26 s).
* * *
La contemplazione della santa grotta sconfina nella meditazione del mistero natalizio. Edith Stein così lo sintetizza: la Parola è diventata carne e si trova nella figura di un Bambino neonato. In lui la natura divina e la natura umana sussistono in unità perfetta. «O scambio mirabile! Il Creatore del genere umano ci conferisce, assumendo un corpo, la sua divinità. Per quest’opera mirabile il Redentore è infatti venuto nel mondo. Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio. Uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva di nuovo riannodarlo e pagare per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata e imbastardita, era in grado di farlo. Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile. Uno di noi egli è divenuto, anzi di più ancora, perché è divenuto una cosa sola con noi» (p. 29 s).
La divinizzazione dell’uomo mediante l’incarnazione del Verbo schiude orizzonti esaltanti e impegnativi. «Egli venne per essere un corpo misterioso con noi: egli il nostro capo, noi le sue membra. Se mettiamo le nostre mani nelle mani del Bambino divino e rispondiamo con un “sì” al suo “Seguimi”, allora noi siamo suoi, e libera è la via perché la sua vita divina possa riversarsi in noi» (p. 30). Di questa vita divina Edith tratteggia la ricchezza, lo splendore, le esigenze. Di queste ne segnala tre, le più impellenti. La prima, «essere una cosa sola con Dio», lasciando che il Cristo viva e operi in noi. La seconda, «se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina». Ciò significa che per il cristiano non esiste «nessuna persona estranea», che l’amore di Cristo non conosce confini, non viene mai meno, non si ritrae dinanzi alla bruttezza e alla sporcizia. La terza, «camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio e non la propria, riporre nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il proprio futuro. Questa è la base della libertà e della gioia del figlio di Dio» (p. 34).
* * *
Per realizzare queste esigenze, «il Bambino divino è diventato il Maestro e ci ha detto che cosa dobbiamo fare. Per permeare tutta una vita umana di vita divina non basta inginocchiarsi una volta all’anno davanti alla mangiatoia e lasciarsi prendere dall’incanto della notte santa» (p. 38). Occorre trasformare la vita in una continua preghiera, ascoltare il Signore, nutrirsi di lui. «“Questo è il pane vivo, che è disceso dal cielo”. Chi lo fa veramente il suo pane quotidiano, in lui si compie quotidianamente il mistero del Natale, l’incarnazione del Verbo» (p. 39). Se nella nostra vita il Bambino troverà spazio e libertà, in noi si compirà un autentico cambiamento di mentalità: diventeremo sempre più sensibili nel discernere ciò che gli piace e gli dispiace, perché egli ci darà il suo Spirito «che insegna a tutti noi la verità».
* * *
Quando Edith Stein compose Il mistero del Natale, Hitler aveva riorganizzato il partito nazionalsocialista e si preparava a diventare cancelliere del Reich (lo sarebbe diventato nel 1933). Il suo furore antisemita si diffondeva paurosamente, alimentato sia dalla pubblicazione del suo libro Mein Kampf (dove definiva l’ebreo come «un parassita nel corpo degli altri popoli»), sia dal settimanale Der Stürmer, diretto da Julius Streicher, antisemita viscerale (è sua l’affermazione: «Gli ebrei sono la nostra disgrazia»).
Edith Stein comprese il tragico destino del suo popolo e suo personale, e alla fine del suo testo natalizio scrisse queste parole: «I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri. Così la via che si diparte da Betlemme procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla croce. Quando la santissima Vergine presentò il Bambino al tempio, le fu predetto che la sua anima sarebbe stata trafitta da una spada, che quel bambino era posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno di contraddizione. Era l’annuncio della passione, della lotta fra la luce e le tenebre che si era manifestata già attorno alla mangiatoia [...]. Sullo splendore luminoso che irradia dalla mangiatoia cade l’ombra della croce» (p. 43).
Edith consumò il suo olocausto, assieme alla sorella Rosa, nel 1942, ad Auschwitz. Come ieri, anche oggi sullo splendore della mangiatoia cade l’ombra della croce. In Iraq, nell’Orissa in India, in Indonesia, nel Congo e in altre parti del pianeta il martirio della Chiesa continua. Ma il Bambino della mangiatoia è il Risorto. «Il Figlio incarnato di Dio pervenne attraverso la croce e la passione alla gloria della risurrezione. Ognuno di noi, tutta l’umanità perverrà col Figlio dell’uomo, attraverso la sofferenza e la morte, alla medesima gloria». Sono le ultime parole del Mistero del Natale.
* Fonte: La Civiltà Cattolica, Quaderno 3803, pag. 425 - 429, Anno 2008, Volume IV, 6 Dicembre 2008.
Nessuno ha mai visto Dio;
se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi.
"Deus CHARITAS est" (1 Gv. 4:8):
su questa via,
ogni #essereumano può #sviluppare
"il senso della paternità e della maternità"
(Teresa d’Avila insegna)! -
e rinascere,
diventare "bambino" (Gv. 3.7).
LETTERATURA E FILOSOFIA...
DANTE 2021: "IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (diceva Aby Warburg)!
ANTROPOLOGIA E "MISTICA". All’epoca di Miguel de Cervantes (1547-1616), «Dio cammina anche tra le pentole» (Fondazioni V,8): la cavalleria è finita e comincia l’avventura di una nuova fenomenologia dello spirito (già oltre la logica del Padrone e del Servo di Hegel), quella di Teresa d’Avila (1515-1582): sulle ali di Michelangelo (1475-1564) , ella sollecita a ripensare l’incarnazione e la sacra famiglia e comincia a indicare, con sibille e profeti, un cammino antropologico inedito - al di là della tragedia!
La storia non la fanno i soliti "quattro profeti" (si cfr. la scheda sul "Tondo Doni" della Galleria degli Uffizi e si osservino bene le figure nella cornice del quadro).
Federico La Sala
#MESSAGGIO EVANGELICO
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO
A #FUTURA MEMORIA.
Per una #Cristologia
non andrologica,
lezione di #Teresa d’Avila,
ARTE, RELIGIONE, E ANTROPOLOGIA. SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO...
Quel padre nell’ombra
Il più bel dipinto su san Giuseppe rimasto per secoli ignoto
di Claudio Strinati (L’Osservatore Romano, 04 dicembre 2021)
Uomo probo e riservato, padre maturo, amorevole, sollecito. Questo è il san Giuseppe dipinto nella bellissima pala d’ altare della chiesa di Santa Maria Assunta nel piccolo remoto borgo di Serrone, oggi depositata presso il museo capitolare diocesano di Foligno. Un’ opera d’ arte tanto importante in un luogo così appartato! Un grande dipinto ad olio su tela, alto quasi tre metri per due, rimasto ignoto per secoli fino a che, una quarantina d’ anni fa, fu visto e studiato da un manipolo di esperti guidati da Bruno Toscano, uno dei maggiori storici dell’arte del nostro tempo.
Ne rimasero incantati ma si accorsero che non c’erano testimonianze o documenti antichi che parlassero dell’autore. E non c’erano firme sull’opera tranne una lettera G segnata sulla pialla dietro alla figura del tenero Bambino Gesù in piedi. Lettera che può far individuare l’autore in un artista misterioso e pressoché dimenticato, Giovanni Demostene Ensio, aristocratico pittore attivo in area romana per committenti provenzali tra fine Cinquecento e inizio Seicento, aggregato all’ Accademia di San Luca e noto solo per lusinghiere testimonianze documentarie.
Risultò, infatti, evidente, oltre alla meravigliosa bellezza, la mirabile composizione dei colori fatti di materiali preziosi di origine soprattutto minerale, di cui si sa che il maestro Giovanni Demostene Ensio fosse tra i pochissimi in quel tempo a utilizzare, confermando l’ ipotesi di Toscano che aveva immaginato un ignoto pittore di origine francese o fiamminga, operoso in Italia nei primi anni del diciassettesimo secolo.
Il quadro rappresenta la bottega di san Giuseppe che non è qui un semplice artigiano ma un tecnico di primo livello che lavora il legno anche per l’edilizia. Il pittore descrive infatti con cura scientifica, veramente fiamminga, tutti gli strumenti di lavoro, le assi e i piani su cui il maestro ebanista sta lavorando, nonché la poderosa porta di ingresso al laboratorio fabbricata da Giuseppe stesso, appena aperta per far entrare la morbida luce del mattino. Questa rischiara il sorriso sul volto del Bambino Gesù che, sotto gli occhi seri, attenti e scrupolosi del padre sta legando un pezzetto del filo bianco proveniente dal gomitolo utilizzato dalla mamma nel cucito, per fabbricare un giocattolino a forma di croce, chiara premonizione della sua Passione futura. Con amorevole evangelica umiltà, il pittore rappresenta una miriade di cose sparse per il laboratorio, dai trucioli per terra, alla scatola di lavoro della Vergine agli zoccoli abbandonati al suolo. Tutto forgiato da quell’uomo saggio e avveduto. È lui che ha progettato, costruito e attrezzato il grande ambiente compresa la magnifica finestra bifora che si vede in fondo facendolo sembrare una cattedrale piuttosto che un laboratorio. Ed è lui che ha plasmato il clima familiare e morale che genera sia la composta quiete espressa dalla giovane moglie assorta nei suoi pensieri, sia la crescente consapevolezza del divino fanciullo colto nel momento magico della prima scoperta della famiglia intorno a noi e del mondo che si aprirà di fronte.
Il volto di Giuseppe immerso nell’ombra è nitidamente percepibile. E in questo modo rifulge il padre putativo della tradizione che significa la funzione paterna svincolata dal fattore biologico primario che compete esclusivamente alla madre.
Quasi che il pittore volesse farci vedere, attraverso tale umanissima rappresentazione di san Giuseppe, come questo principio, insondabile e apparentemente discriminante, non valga solo per lui, ma valga in realtà per tutti gli esseri umani anche se i nostri figli non sono figli di Dio.
Ma il pittore ci dice che invece è proprio così. Tutti, maschi o femmine o quant’altro, siamo, in quanto embrioni, feti e persone, figli di Dio perché il corpo generato dalla madre funziona a seguito dell’esito della fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo ma la vita in sé che possiamo chiamare l’ anima scaturisce da qualcos’ altro che possiamo chiamare il divino.
di Claudio Strinati
Segretario Generale dell’ Accademia Nazionale di san Luca
NOTA:
ARTE, RELIGIONE,E ANTROPOLOGIA.
SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]" (Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 10.11.2019).
Federico La Sala
Luce e colori, torna a splendere la Cappella più amata da Bernini
Pulitura integrale svela anche materiali e tecniche del genio
di Redazione Ansa
ROMA - Ottobre 21, 2021 "Tutto è finto perché tutto sembri vero", amava ripetere il Bernini, genio insuperato dell’illusionismo barocco. E chissà se sarebbe contento oggi di veder svelati dal restauro tanti dei mirabolanti accorgimenti che hanno reso unico uno dei suoi più amati capolavori, la cappella Cornaro nella chiesa romana di Santa Maria Vittoria, celebratissima anche dai contemporanei proprio per la suggestione unica, per il fascino senza eguali di quella Santa Teresa d’Avila scolpita nel marmo di Carrara che sembra ancora viva, mentre geme e si contorce trafitta dall’amore divino.
Preceduti da una lunga fase di studi e supportati da una serie di indagini diagnostiche, i lavori di ripulitura e di consolidamento - che per la prima volta hanno riguardato l’intera cappella - si sono conclusi in poco più di sette mesi, sottolineano la vice prefetto Concetta Staltari e la soprintendente Daniela Porro, affidati alla competenza di Giuseppe Mantella e guidati dalla funzionaria Mariella Nuzzo. I risultati sono sorprendenti, con tanti particolari nascosti che tornano alla luce, dai quattro riquadri in stucco dorato che raccontano i momenti clou nella vita della santa, fino all’affresco con la raffigurazione dell’Empireo che la attende, ripulito da uno strato dal nerofumo che ne offuscava figure e colori fin dal 1833, l’anno in cui un incendio quasi distrusse l’opulenta chiesa dei carmelitani. Immagini e cromie che tornano evidenti, ma anche una messe di notizie sul modus operandi del geniale scultore e architetto, i segreti sui materiali impiegati da lui e dalla squadra di artigiani e artisti che lo supportava.
"Un lavoro complesso", sottolinea Montella, portato avanti in solida squadra con storici e scienziati e forse proprio per questo particolarmente ben riuscito. "Le indagini diagnostiche- spiega- ci hanno permesso ad esempio di capire esattamente i materiali usati per le pitture del registro superiore", che venne realizzato "in sole 17 giornate" e che Bernini affidò a Guidobaldo Abbatini, lo stesso che aveva voluto accanto a sé per la navata della basilica Vaticana e le cappelle di Sant’Agostino e San Pietro in Montorio. Uno su tutti la pietra pomice, che Bernini volle "per rendere più leggere le superfici". Tant’è, tutto l’insieme, oggi così evidente, emoziona. "Qui il Bernini chiama a concorso tutte le arti allestendo una vera e proprio scena teatrale", si appassiona la soprintendente Porro, indicando i due palchi scolpiti sui lati della cappella da dove si affacciano come spettatori incantati otto esponenti della potente famiglia del cardinale Federico Cornaro, che di questo capolavoro fu il committente. Gli occhi di tutti sono puntati sulla luce calda e ambrata che scende dall’alto ad illuminare il corpo della santa. E’ lì, spiega la direttrice dei lavori, che si è consumato un altro degli artifici del genio, costretto dalle circostanze a muoversi entro i vincoli di una chiesa già fatta e finita. Perché per illuminare bene e soprattutto nelle ore del mattino la sua Teresa, a dispetto della finestra già esistente (orientata a sud ovest) Bernini si inventa un doppio sistema di illuminazione.
"Amplia lo spazio costruendo una camera di luce con finestre, ma crea anche un’apertura alla base del frontone del tabernacolo, una sorta di bocca di lupo", dove un sistema di vetri e di specchi, oggi perduto, esaltava la luce fatta calare dall’alto, schermata da un vetro giallo che il restauro ha rivelato essere novecentesco, con tutta probabilità però riproduzione fedele dell’originale berniniano del quale proprio in questi mesi sono stati ritrovati minuscoli e preziosissimi frammenti. Una magia che incantò i contemporanei e persino l’antagonista Borromini, che avrebbe voluto riprodurla. Bernini , riportano le biografie, ne andava fiero tanto da definirla la sua opera "men cattiva", innamorato quasi della sua santa Teresa. Un’emozione e una passione che ancora oggi stordiscono.
#MESSAGGIO EVANGELICO:
#MAGISTERO A #FUTURA MEMORIA.
Dei molti conventi fondati da
#Teresa d’Avila
11 (undici) sono dedicati a #sanGiuseppe.
A #ContursiTerme, in una chiesa carmelitana 12 (dodici) #Sibille...
Un diario riflesso nella storia di due filosofe
Ales Bello scrive di sé rileggendo, commentando e dialogando con le pagine di Edith Stein. Un confronto su amicizia, fede e vita: inno alla carità
di MASSIMO DE ANGELIS (Avvenire, 19 settembre 2021).
La donna che visse molte volte si potrebbe dire di Edith Stein. Ebrea e cattolica, filosofa, femminista e monaca carmelitana, martire del nazismo e santa. Tutto racchiuso in una sola vita. Quella che viene ripercorsa in Assonanze e dissonanze di Angela Ales Bello, recentemente edito da Mimesis. Della Stein Ales Bello è tra le maggiori studiose e curatrici dell’opera in gran parte postuma e riportata alla luce con molte difficoltà nel corso del tempo.
Per l’autrice i mesi di "clausura" imposti dal Covid creano il clima adatto a un approfondimento ulteriore dell’intelletuale tedesca e danno il là alla struttura originale del volume. Ales Bello, infatti, scrive un proprio diario rileggendo, commentando e dialogando con pagine del diario del suo stesso "soggetto" di studio.
I due diari, così, s’intrecciano e alimentano "intersoggettivamente", dando vita a un confronto denso di amicizia e affetto tra due donne e filosofe distanziate da un secolo di pensiero e di storia.
Un confronto serrato su fenomenologia, fede, vita, amicizie-amori di Edith. Sullo sfondo una società e una cultura tedesche che si accartocciano, tra la prima guerra mondiale e l’ascesa del nazionalsocialismo, sino a quella "notte dei cristalli" che toglierà le bende dagli occhi di molti spalancando però già le porte dell’inferno.
Tre percorsi spiccano nel racconto. Quello della formazione e del lavoro filosofico di Stein, col suo ruolo prezioso di assistente di Edmund FIusserl, che le permette di conoscere tutte le pieghe della costruzione filosofica del maestro e persino di influirvi, consentendole poi di svolgere un ruolo equilibratore, che le è connaturato, nelle dispute tra i membri della scuola husserliana: tra chi pone l’accento sul fondamento "realista" della fenomenologia e chi invece ne sottolinea i legami con l’ "idealismo".
Per Edith la filosofia è la sua stessa vita anche se, in quanto donna, non può proporsi un chiaro percorso accademico e in quanto ebrea, a un certo punto, non potrà svolgere neppure alcun ruolo pubblico. Ma del suo esser donna e dell’unità tra pensiero e vita la sua filosofia reca il timbro, col rilievo che vengono ad assumere alcuni temi; insieme al momento dell"’intuizione", il tema dell’empatia e l’Erlebnis (l’esperienza) soprattutto, che Ales Bello invita Edith a rinominare rispettivamente "entropatia" e "vivenza".
Il secondo. percorso, profondamente legato a quello filosofico e messo bene a fuoco da Ales Bello, è proprio quello della a"femminilità ". Già da giovane Edith partecipa e anima i movimenti femministi. Ma anche in questo campo il suo contributo più che politico è filosofico.
Con grande anticipo, ella pone le basi di un pensiero della differenza sessuata, che delinea uno spartiacque ben più grande e radicale di quello aperto nella storia del pensiero dalla coppia "servo-signore". E, il suo, un contributo di straordinaria originalità.
La Stein studia il diverso modularsi del pensiero sulla base dei sessi, più unidirezionale quello maschile più portato alla completezza quello femminile (tendenze peraltro diversamente miscelate negli individui di entrambi i sessi) con grande attenzione alla psicologia e alle implirzioni pedagogiche.
Il terzo percorso, il più decisivo per la sua esistenza, è quello della fede. Dopo aver condiviso la religione ebraica del padre, così amato e prematuramente scomparso, dopo una transizione agnostica durante l’adolescenza, Edith scopre Gesù, e quindi il cristianesimo. E quello che ella stessa definisce «un passaggio, non una contrapposizione». Nel segno della continuità e del riferimento al medesimo Dio. E la dimensione personale della fede cristiana che la attrae.
Stein ama i mistici e Santa Teresa soprattutto, ma in lei anche la mistica è intessuta di filosofia e questa trova in sé luce dalla fede e dal rapporto con Dio. E il tema della sua ultima opera, Essere finito e Essere eterno ma è in fondo il sigillo di tutta la sua vita, sempre alla ricerca di continuità e relazioni: tra realismo e idealismo in filosofia e poi tra fenomenologia e tomismo, tra ebraismo e cristianesimo, tra maschile e femminile, tra filosofia e ragione.
Se, come diceva Freud, Eros unisce e Thanatos separa, ebbene il pensiero e l’esistenza della Stein sono un inno alla relazione unitiva, all’amore e alla carità, e la sua morte, subita in quanto ebrea e vissuta da cristiana, occupandosi nel campo di concentramento sino alla fine dei piccoli, è una trasfigurazione che illumina distintamente le radici (culturali, etiche e di fede) ebraico-cristiane di quell’Europa (quella che fu almeno) di cui Edith è patrona.
Il libro.
Riscoprire santa Teresa d’Avila attraverso la sua «Vita» ritradotta
L’opera portata a termine in oltre due anni dalle suore del Carmelo di Legnano. «Si avvertiva il desiderio di un’edizione che ci restituisse la nostra fondatrice nella sua freschezza originaria»
di Gianni Borsa (Avvenire, martedì 17 agosto 2021)
«Volevamo una traduzione che ci rendesse Teresa nel vivo del suo parlare, in modo che leggerla fosse un incontrarla come di persona e un ascoltarla direttamente dal suo flusso interiore». Da dietro la grata si scorgono volti sorridenti. Le monache del Carmelo di Legnano (Milano) s’illuminano parlando di Teresa d’Avila. La vivace comunità claustrale, guidata da suor Giovanna e collocata nel cuore della cittadina lombarda, oltre che essere un punto di riferimento spirituale e culturale per il territorio, è una fucina di studi, di lavoro, di musica (con un coro che fa commuovere quando accompagna le celebrazioni eucaristiche e i vespri).
Suor Edith (Cristina Migliorisi) e suor Michela (Maria Luisa Pagani) raccontano il percorso, durato oltre due anni, che ha portato a una versione rinnovata de La mia vita. Il libro delle misericordie di Dio, pubblicato dalle Edizioni Ocd. «Da tempo e soprattutto dall’anno del centenario della nascita di santa Teresa di Gesù (1515-1582) si avvertiva da più parti il desiderio e il bisogno di avere fra le mani una nuova traduzione dei testi teresiani che ci restituisse la nostra santa Madre - così è familiarmente chiamata nel Carmelo - nella sua freschezza originaria. Un’ulteriore provocazione, che è stata anche una sfida e insieme un incentivo per noi, ci è venuta dalla pubblicazione recente di una traduzione in tedesco dell’opera di Teresa, in due volumi: Teresa von Ávila. Werke und Briefe Gesamtausgabe, per le edizioni Herder. Infine, fra le nostre conoscenze e amicizie c’era quella di Massimo Fiorucci, persona che poteva essere adatta a un’impresa di questo tipo essendo esperto della lingua spagnola e della spiritualità teresiana. Con tali premesse è nata l’idea un po’ azzardata di tuffarci in questa avventura».
Dalla triangolazione Italia, Germania, Spagna emerge dunque un lavoro certosino, come spiegano le monache, il cui esito - un volume di 720 pagine - mostra l’anima affascinante e inquieta di Teresa, donna di estrema intelligenza e di fede profonda, figura centrale della mistica, proclamata santa nel 1622 e dichiarata dottore della Chiesa nel 1970. Da lei è nato il Carmelo teresiano.
«Da questa esperienza la comunità esce come rafforzata nella convinzione che l’insieme è vincente: in un momento storico in cui sembrano prevalere le logiche dell’individualismo, della competizione a volte spietata, dell’affermazione identitaria, riscopriamo - affermano le curatrici - che l’insieme delle diversità, il coinvolgimento di molti e la fermentazione reciproca sono certo un’ardua sfida, ma producono anche ottimi frutti».
Pagina dopo pagina ci si addentra nel pensiero e nel cuore della mistica spagnola vissuta al tempo dei conquistadores. «Sì, Teresa ci consegna la sua anima, la sua lotta interiore, il suo lungo e sofferto discernimento, le conquiste, i desideri... soprattutto il volto misericordioso e amante di Dio che a poco a poco impara a conoscere e che vuole far conoscere anche a noi».
Se doveste sintetizzare alcuni punti notevoli in cui Teresa può risultarci vicina e attuale? Il blocco degli appunti del giornalista si arricchisce di annotazioni...
«Anzitutto la questione del senso della vita. Ovvero: se tutto finisce e muore, se tutto è in balia di giudizi umani arbitrari e mutevoli, c’è qualcosa per cui vale la pena di vivere e soffrire, di gioire e di amare? C’è qualcosa che può saziare il desiderio umano e durare per sempre, fondato su una realtà più rocciosa che la precarietà creaturale, la mutevolezza umana e l’inganno degli onori? È quel sapore d’eterno che Teresa bambina aveva conosciuto e che le era rimasto addosso come inquietudine e ardente desiderio di verità, fino all’incontro che le ha dato una vita totalmente nuova».
Secondo elemento: «La questione della dignità umana, e in particolare della donna: per nulla scontata a quel tempo e anzi subordinata a pesanti discriminazioni d’ordine sociale, culturale, di razza e di genere». Ancora: «Il problema del male, del conflitto e della divisione, interni alla stessa Chiesa. Anche in questo caso Teresa non sta a guardare né si rassegna davanti alle soluzioni in atto, ma è tribolata dal desiderio di poter fare qualcosa. E infine dà forma all’intuizione nuova che coltiva: una risposta testimoniale di unità, un laboratorio di dinamiche di fraternità e riconciliazione. Ovvero, la piccola comunità orante da cui nasce il Carmelo teresiano».
Non manca - quarta sottolineatura dalle monache di Legnano - una sorpresa: «Lo stile sinodale». Teresa, chiariscono, «procede cauta sul cammino: fa le sue esperienze personali, ma chiede consiglio, cerca chi possa darle la certezza della bontà del cammino, chi abbia studiato e conosca la Sacra Scrittura (per lei vero e definitivo criterio di discernimento); soprattutto ritiene importante ed essenziale avere relazioni d’amicizia che ci aiutino a disingannarci reciprocamente e a capire quali sono le vie più giuste per seguire e dare spazio al Signore nella storia.
È l’esercizio del discernimento, fondato sull’esperienza personale e insieme sul confronto e sul dialogo, in una circolarità in cui l’esperienza personale è il presupposto fondamentale per non temere il confronto, e il dialogo è il necessario antidoto all’autoreferenzialità».
La “Via d’Infanzia” secondo Benedetto XV nel discorso del 14 agosto 1921. Centenario della proclamazione della virtù eroiche di Teresa di Gesù bambino
di P. Ermanno Barucco ocd (Carmelo Veneto, 13.08.2021). *
Cent’anni fa, il 14 agosto 1921, Benedetto XV riconosceva le virtù eroiche di suor Teresa di Gesù bambino del Volto Santo, una tappa importante per arrivare a proclamare Beata e poi Santa la Carmelitana Scalza di Lisieux. A partire dal 1898, un anno solo dopo la sua morte, le diverse edizioni di Storia di un’anima avevano fatto conoscere la piccola Teresa e i suoi “segreti”, così come la diffusione dal 1906 del santino con la sua preghiera al Volto Santo corredata dall’immagine del Volto Santo realizzato da Celina, sorella di Teresa anch’essa diventata Carmelitana Scalza, e ispirato dalle prime fotografie della Sindone.
Sicuramente anche la diffusione crescente di immagini e statue di Teresa, tra le quali quella della Pioggia di rose, hanno suscitato devozione verso di lei e affidamento alla sua intercessione presso Dio. Ricordiamo come i soldati francesi ma anche quelli tedeschi la invocassero nelle trincee negli anni della Grande guerra 1914-1918. La causa di beatificazione era iniziata a Lisieux col Processo ordinario diocesano nel 1907 e poi era passata a Roma dal 1914 col Processo apostolico e col processo sulle virtù eroiche dal 1919.
Proprio nel 1919 è pubblicato in francese dalle Carmelitane di Lisieux il libretto “La piccola via” che aveva come titolo ufficiale: Salita Mistica del Monte della Perfezione per la Via dell’Amore e dell’Infanzia Spirituale di Suor Teresa del Bambino Gesù. Tavole Allegoriche. Le note aggiuntive indicano Charles Jouvenot come illustratore delle 31 immagini allegoriche e come redattrice delle strofe poetiche che spiegano le immagini Madre Agnese di Gesù, cioè Paolina, una delle sorelle di Teresa e priora del Carmelo di Lisieux. Il titolo e le figure suggeriscono come la Piccola via dell’infanzia spirituale di Teresa sia, per le “piccole anime” che hanno scoperto l’Amore di Dio, una trasposizione della Salita al Monte Carmelo di San Giovanni della Croce.
Il libretto “La piccola via” ha un influsso determinante nella causa di beatificazione di Teresa, perché è chiaro alle sue sorelle, di cui tre Carmelitane Scalze a Lisieux, che la canonizzazione di suor Teresa deve essere anche la canonizzazione della sua dottrina della Piccola via dell’infanzia spirituale. Significativo il fatto che dal 14 agosto 1921, in occasione della proclamazione delle virtù eroiche di Teresa, questo libretto fu ripubblicato col titolo “Via d’Infanzia”. E il discorso tenuto da papa Benedetto XV per l’occasione ci fa capire il perché.
Nel discorso il papa, preoccupato di presentare il giusto concetto dell’Infanzia spirituale, usa l’analogia dal naturale allo spirituale, dall’infanzia umana all’infanzia evangelica, attraverso l’immagine delle «braccia della madre»: il bambino portato in braccio e stretto dalle braccia materne è qui che trova rifugio davanti al pericolo e non ha più paura di nulla. Il cuore dell’analogia sta quindi nell’atteggiamento del bambino piccolo che, scoprendo la sua incapacità e debolezza, dice: “nelle braccia della madre mia mi abbandono con piena fiducia”. Infatti, afferma il papa: «Analogamente l’infanzia spirituale è formata da confidenza di Dio e da cieco abbandono nelle mani di lui». Quindi anche a livello spirituale e della fede si richiede nell’uomo l’umiltà del bambino che sa di essere in sé piccolo e impotente, e riconosce la potenza della misericordia di Dio, non potendo nulla senza di lui e la sua grazia. Qui il papa, citando alcuni versetti di Mt 18,1-5.10 e Mc 10,13-16, introduce le parole di Gesù sul diventare piccoli e bambini per entrare nel regno dei cieli quando pose in mezzo ai discepoli un fanciullo. All’epoca quest’immagine era ritenuta quella che rappresentasse il cuore della dottrina di Teresa.
Benedetto XV aveva introdotto una citazione evangelica così: «Un altro giorno alcune mamme presentavano a Gesù dei bambini perché li toccasse». La presenza delle mamme come coloro che portano i loro figli piccoli da Gesù non è esplicitamente evangelica, ma fu ripresa in alcune scene iconografiche anche nel Santuario di Santa Teresa di Gesù bambino di Verona Tombetta (nella lunetta in alto dell’attuale Cappella dei Santi genitori di Teresa, Zelia e Luigi). L’aggiunta “mamme” fa passare l’analogia dell’infanzia naturale come fiducia nelle braccia della madre a quella dell’infanzia evangelica della fiducia nelle braccia di Gesù, che le mamme stesse fanno accadere, come Zelia e Luigi avevano fatto con la piccola Teresa: essere segno della paternità e maternità di Dio Padre. In questo essere “segno” l’analogia è però invertita e discendente: è la paternità e maternità di Dio Padre che “prende carne” e si esprime nei genitori naturali e nei loro atteggiamenti.
Papa Benedetto XV ritiene che il discorso sull’infanzia (spirituale) sia al cuore del vangelo di Gesù che per questo ha voluto proporlo ai discepoli in diverse occasioni: «seguire la via della confidenza e dell’abbandono nelle mani di Dio». Una via adatta e percorribile da tutti i cristiani e a qualsiasi età, non solo da chi è naturalmente ancora bambino, perché tutti sono chiamati da Gesù a “convertirsi e diventare bambini”, diventarlo nella grazia di Dio come suoi figli nel Figlio Gesù.
Sottolineando molto il lavoro che “tornare” bambini implica per l’adulto, il papa si sofferma forse troppo sull’aspetto ascetico e sulle virtù da acquisire piuttosto che sul dono di grazia divina che costituisce l’infanzia spirituale come ha fatto santa Teresa di Gesù bambino. E proprio il papa deve infatti subito riconoscere che a indicare la Via dell’infanzia spirituale è stata una giovane monaca di soli 24 anni, che «al divino servizio non consacrò lunghi anni né ardue imprese», entrata in un Ordine dove le donne eccellono pur senza studi e quindi i «frutti maturati nel giardino dell’infanzia spirituale» e la sua dottrina non sono imputabili ai meriti di Teresa, ma solo ai «segreti che Dio rivela ai pargoli», altro passo evangelico significativo (cf. Mt 11,25).
Percorrendo la vita di Teresa come un’ascesa nelle virtù dell’infanzia spirituale fin dai suoi primi anni di vita e nella giovinezza, il papa arriva però a dire che è il Bambino Gesù, di cui prende il nome entrando al Carmelo, a farle la grazia della totale fiducia e abbandono nelle mani di Dio: «Il Fanciullo di Betlemme appariva ai suoi occhi nelle braccia della Santissima Madre, docile e pronto a farsi portare da Betlemme in Egitto e dall’Egitto a Nazareth». E questo, possiamo aggiungere noi, già dalla Grazia di Natale del 1886, nella quale Gesù dona a Teresa la Sua infanzia divina, sempre fiducioso e abbandonato nelle mani del Padre celeste, attraverso tutti i momenti della sua infanzia umana vissuta a Nazareth obbediente a Maria e Giuseppe, e poi sempre Figlio obbediente al Padre, fino alla morte di croce.
E Teresa diventata maestra delle novizie pur in giovane età, «a Gesù Bambino faceva appello nei suoi dubbi; e da quel Fanciullo, che nell’officina di Nazareth “si era visto crescere in età ed in sapienza” (Lc 2,3), non tardava a ricevere la soluzione delle sue difficoltà». Probabilmente papa Benedetto XV si esprime con un certo altalenarsi di prospettive perché deve far metabolizzare a quanti avevano una certa visione cristiana e clericale una santità diversa che Dio stava donando alla sua Chiesa attraverso una giovane donna che non aveva studiato teologia e non aveva fatto un lungo lavoro ascetico, ma era stata santificata grazie ad una grande fiducia e un grande abbandono in Dio, come un bambino nelle braccia di Dio, come a dire che le virtù eroiche che il papa stava riconoscendo in Teresa erano “tutto qui”, ma erano così “tutto il vangelo”.
Le parole di Teresa pronunciate prima di morire riguardo al suo desiderio di passare il Paradiso “nel far del bene agli uomini”, le hanno sperimentate i soldati che, sul fronte nella Prima guerra mondiale, hanno invocato santa Teresa. È questo un altro tema che diventerà caratteristico nell’immaginario popolare e mondiale, attraverso l’immagine della pioggia di rose, tanto che il papa invoca abbondanti rose sul Carmelo perché «continui ad essere giardino in cui si educhino eletti fiori di santità». Ecco l’idea dell’Apoteosi della Santità nel Carmelo affrescata nella controfacciata della Basilica di santa Teresa a Verona, che diventa annuncio di chiamata alla santità e alla salvezza “per tutti”, anche e soprattutto per i piccoli, e “per tutte le diverse vocazioni”, che siano laici o sposati o consacrati, e perfino per gli uomini di ogni popolo e razza a cui sta per essere annunciato il vangelo attraverso la “Piccola via dell’Infanzia spirituale”. Benedetto XV disse infatti: «tutti i fedeli di qualunque nazione, età, sesso e condizione debbono mettersi animosi in quella via, per la quale suor Teresa di Gesù Bambino raggiunse l’eroismo della virtù», cioè la totale fiducia e il pieno abbandono di Gesù nelle braccia di Dio Padre, ecco «il segreto della santità» della piccola Teresa.
* Ripresa parziale, senza immagini.
Proposta.
L’inquietudine di Teresa d’Avila raccontata in una piéce musicale in Sicilia
Oggi il debutto a Modica dello spettacolo che racconta la vita della grande mistica spagnola vissuta nel XVI secolo. A curare la realizzazione della rappresentazione la carmelitana suor Chiara Zacchi
di Redazione Catholica (Avvenire, giovedì 29 luglio 2021)
La vita dall’infanzia alla maturità, la sua impronta profusa nella riforma del Carmelo, i suoi viaggi nella Spagna del XVI secolo per fondare monasteri e infine le sue vette mistiche. È in sintesi la vita della carmelitana scalza santa Teresa d’Avila, vissuta tra il 1515 e il 1582, proclamata dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970. E uno spettacolo musicale dal titolo eloquente “Inquieta. La più santa fra le donne, la donna fra le sante” ripercorre la grandezza spirituale non solo della mistica spagnola che fu anche amica e confidente del re di Spagna Filippo II d’Asburgo.
A curare e a mettere in piedi questo evento musicale con la selezioni di alcuni testi della santa di Avila sono la carmelitana suor Chiara Zacchi, la poetessa Egizia Malatesta e il compositore Roberto Martinelli. A declamare e ad intonare le parole della mistica carmelitana saranno il coro polifonico e la soprano Magdalena Gallo.
Tra le caratteristiche della piéce ci sarà la contrapposizione tra improvvisazione di note jazz, canto Gregoriano e polifonie di sapore arcaico e musiche barocche. Il debutto dello spettacolo sarà questa sera alle 21 in Sicilia a Modica presso la scalinata della chiesa di san Giovanni Evangelista. Domani lo spettacolo alle 21 verrà replicato all’anfiteatro “Le Ciminiere” di Catania (viale Africa).
E sabato-nella memoria liturgica di sant’Ignazio di Loyola e fondatore della Compagnia di Gesù - si terrà l’ultima rappresentazione di “Inquieta”, sempre alle 21, al Castello di Lombardia di Enna. «La parola di Teresa ci coinvolge nella sua esperienza, tra certezze e turbamenti, in un perdersi e ritrovarsi che sono il frutto di una vita mistica intensa, estatica, ma allo stesso tempo ricca di realismo e quotidianità. - spiega la carmelitana scalza suor Manuela Romano del monastero “Regina Carmeli” di Lucca e tra le promotrici dell’evento. Ella Fu definita dall’autorità ecclesiastica dell’epoca come “inquieta e vagabonda”. Fu veramente una monaca sui generis del suo tempo».
Che annota infine: «La rappresentazione di questo spettacolo così “teresiano” è frutto soprattutto del lavoro e della creatività di un artista come Roberto Martinelli e del contributo molto femminile apportato dalla carmelitana suor Chiara Zacchi».
Maria Maddalena, "Apostola degli Apostoli"
Fu la prima ad annunciare Cristo Risorto e per espresso desiderio di Papa Francesco, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha pubblicato un decreto, datato 3 giugno 2016, con il quale la celebrazione di Santa Maria Maddalena, viene elevata nel Calendario Romano Generale da memoria obbligatoria al grado di festa
Emanuela Campanile - Città del Vaticano *
Lo scriveva Beda il Venerabile intorno all’8 secolo d.C., riguardo ad Eva e a Maria Maddalena, l’apostola che per prima vide il Risorto e che per prima annunciò agli stessi apostoli la risurrezione del Cristo (Vedi anche la rubrica "Santo del Giorno").
Maria Maddalena, da penitente al kèrigma
Colei che fino a prima del decreto del 3 giugno 2016, era celebrata il 22 luglio come “penitente”, con la decisione di Papa Francesco viene ora restituita alla Chiesa tutta come un dono. Nell’intervista di Federico Piana, il teologo don Francesco Scalmati spiega così questa "intuizione formidabile" del Pontefice: -"L’istituzione di questa festa ci fa cambiare mentalità. Il significato è ben altro: è comprendere che un uomo. una donna, insieme - e solo insieme - possono diventare annunciatori luminosi del Risorto. Questo è il kèrigma: l’annuncio di Cristo morto e risorto, di cui Santa Maria Maddalena è la prima donna" (Ascolta l’intervista integrale)
Prima testimone della Divina Misericordia
Nell’articolo di commento al decreto, si spiega che la decisione di Papa Francesco si iscrive nel contesto ecclesiale di oggi, che domanda di riflettere più profondamente sul tema della dignità della donna, della nuova evangelizzazione e della grandezza del mistero della misericordia divina, proprio “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”. Alla Maddalena che annunciò la Vita da un luogo di morte, un sepolcro, verrà d’ora in poi riservato, conclude la nota, "il medesimo grado di festa dato alla celebrazione degli apostoli nel Calendario Romano Generale", ed è al pari giusto "che risalti la speciale missione di questa donna, che è esempio e modello per ogni donna nella Chiesa".
Il dono delle lacrime
In una delle sue prime Messe a Casa Santa Marta, Papa Francesco ricordava della Santa la grazia delle lacrime. Quelle versate sui piedi di Gesù e asciugate con i capelli. Le lacrime che le rigano il viso davanti a quel sepolcro improvvisamente vuoto. Pur vivendo fuori dal sepolcro vuoto il “momento del buio” nell’anima, il “fallimento”, Maria Maddalena, aveva osservato Papa Francesco, “non dice: ‘Ho fallito su questa strada’”, ma “semplicemente piange”. “A volte - aveva continuato il Papa - gli occhiali per vedere Gesù sono le lacrime”. “Tutti noi, nella nostra vita abbiamo sentito la gioia, la tristezza, il dolore” ma “nei momenti più oscuri - si era chiesto - abbiamo pianto? Abbiamo avuto quella bontà delle lacrime che preparano gli occhi per guardare, per vedere il Signore?”. Di fronte alla Maddalena che piange - concludeva Francesco - “possiamo anche noi domandare al Signore la grazia delle lacrime”.
* Vatican News, 22 luglio 2018
Benedetto XVI: Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, una mistica arsa di “amore vivo”
Lettera per il IV centenario della morte della Santa fiorentina
CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 28 maggio 2007 (ZENIT.org).- Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607) è un “figura emblematica di un amore vivo che rimanda all’essenziale dimensione mistica di ogni vita cristiana”, sostiene Benedetto XVI.
Così ha scritto il Santo Padre in una lettera inviata all’Arcivescovo di Firenze, il Cardinale Ennio Antonelli, in occasione delle celebrazioni per il IV centenario della morte della mistica carmelitana.
Nata a Firenze il 2 aprile 1566 da una nobile e facoltosa famiglia e battezzata con il nome di Caterina, Santa Maria Maddalena de’ Pazzi entrò per la prima volta, come educanda, nel Monastero di San Giovannino delle Cavalieresse di Malta.
Qui ricevette la prima comunione il 25 marzo 1576, ed appena qualche giorno dopo fece a Dio il voto di perpetua verginità.
“Abilmente, riusciva a non lasciarsi condizionare dalle esigenze mondane di un ambiente che, se pur cristiano, non le bastava nel suo desiderio di diventare più simile al suo Sposo crocifisso”, scrive il Papa nella lettera.
A sedici anni entrò nel Monastero di clausura di Santa Maria degli Angeli, il più antico dell’Ordine Carmelitano, dove il 30 gennaio 1583 ricevette l’abito del Carmelo e il nome di Suor Maria Maddalena. Nel marzo del 1584 si ammalò gravemente, ma riuscì ad emettere ugualmente la professione religiosa, il 27 maggio, festa della Santissima Trinità.
“Da questo momento ebbe inizio un’intensa stagione mistica dalla quale sarebbe venuta alla Santa la fama di grande estatica.”, ricorda il Papa.
I suoi confessori, allora, per determinare se l’origine di questi fenomeni fosse divina oppure no la obbligarono a riferire tutto quello che le accadeva ai Superiori, tramite le consorelle, che annotavano le sue parole fuori dell’estasi o durante le stesse esperienze mistiche.
“Una intensa esperienza che, a soli 19 anni di età, la rendeva capace di spaziare su tutto il mistero della salvezza, dall’incarnazione del Verbo nel seno di Maria alla discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste”, sostiene il Vescovo di Roma nella missiva.
Il frutto di queste esperienze raccolte dalle Carmelitane di Santa Maria degli Angeli furono cinque manoscritti: dapprima i “Quaranta Giorni” (1584); poi “I Colloqui” (1585); e quindi le “Revelationi e Intelligentie” (1585), “otto giorni di splendide estasi che vanno dalla vigilia di Pentecoste alla festa della Trinità”, scrive ancora il Papa.
“Seguirono cinque lunghi anni d’interiore purificazione - Maria Maddalena de’ Pazzi ne parla nel libro della ‘Probatione’ -, nei quali il Verbo suo Sposo le sottrasse il sentimento della grazia e la lasciò come Daniele nella fossa dei leoni, tra molte prove e grandi tentazioni”.
“E’ in questo contesto che si inserisce il suo ardente impegno per il rinnovamento della Chiesa, dopo che nell’estate del 1586 bagliori di luce dall’alto vennero a mostrarle il vero stato in cui essa si trovava nell’epoca post-tridentina”, aggiunge il Pontefice.
“Come Caterina da Siena, si sentì ‘forzata’ a scrivere alcune lettere per sollecitare, presso il Papa, i Cardinali di Curia, il suo Arcivescovo ed altre personalità ecclesiastiche, un deciso impegno per la ‘Renovatione della Chiesa’, come dice il titolo del manoscritto che le contiene”, continua la lettera.
Successivamente la tisi cominciò a manifestarsi chiaramente e Suor Maria Maddalena si vide costretta a ritrarsi pian piano dalla vita attiva della comunità.
“L’amore purificato, che pulsava nel suo cuore, la apriva al desiderio della piena conformità con Cristo, suo Sposo, fino a condividere con lui il ‘nudo patire’ della croce. Gli ultimi tre anni della sua vita furono per lei un vero calvario di sofferenze”, si legge nella lettera del Papa.
Oppressa da pene atroci, muore il 25 maggio 1604. Il suo corpo incorruttibile si trova attualmente sotto l’altare maggiore della Chiesa del Monastero di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi a Careggi (Firenze).
L’8 maggio 1626 fu proclamata beata dal Pontefice fiorentino Urbano VIII, mentre ad iscriverla nell’Albo dei Santi fu il Papa Clemente IX, il 28 aprile 1669.
“Come, mentre era in vita, attaccandosi alle campane sollecitava le sue consorelle con il grido: ‘Venite ad amare l’Amore!’, la grande Mistica, da Firenze, dal suo Seminario, dai monasteri carmelitani che a lei si ispirano, possa ancora oggi far sentire la sua voce in tutta la Chiesa, diffondendo l’annuncio dell’amore di Dio per ogni creatura umana”, auspica infine il Santo Padre.
LA MADALENA PENITENTE (1602) *
[...] Paolo Silvio è un canonico lateranense nato a Melfi nel 1564 e morto a Napoli nel 1624.21 Il poema in ottava rima La Madalena penitente costituisce la sua unica opera poetica, mentre il resto della sua non estesa produzione letteraria è composta da trattati teologici. L’edizione della Madalena penitente impressa a Milano nel 1602 non è la princeps dell’opera, nonostante tutte le fonti più recenti la indichino come tale: le prime due stampe, oggi irreperibili, sono probabilmente realizzate a Napoli attorno al 1599.22
La pubblicazione milanese, approntata per iniziativa di Camillo Roseo senza l’autorizzazione dell’autore, apporta alcune modifiche arbitrarie alle sezioni dedicatorie, ma sembra mantenere invariato il resto dell’opera.23 A questa altezza il poema, che viene rimaneggiato e ampliato da Silvio in edizioni successive, si presenta diviso in tre parti, definite Pianti per il tema penitenziale che le impregna.24 Tale denominazione avvicina la Madalena penitente alla ricchissima produzione di poesia “lacrimista” di fine Cinquecento e inizio Seicento, incentrata sulle lamentazioni di alcuni personaggi delle Scritture, tra i quali spiccano il re Davide, San Pietro e, appunto, Maria Maddalena. Sul frontespizio di tutte le edizioni del poema compare il sottotitolo «poema eroico»: il sintagma, pur privato del suo significato etimologico, segnala chiaramente l’influenza della tradizione epica e, soprattutto, del modello tassiano.
Il fondamento biblico della trama è la conversione della peccatrice senza nome di Lc 7, 36- 50, che, come da tradizione, viene sovrapposta alla figura della Maddalena: questo minimo spunto narrativo, che nel Vangelo si esaurisce in poche frasi, viene sottoposto ad un lavoro di dilatazione estremo e collocato nella terza parte del testo.
I due Pianti precedenti espongono antefatti di pura invenzione: nel primo si descrive la perdizione di Maria di Magdala prima dell’incontro con Gesù, con massiccio ricorso al lessico della poesia amorosa, petrarchesca in particolare. Tra i procedimenti retorici tipici della tradizione amorosa possiamo ricordare la sensuale descriptio personae distesa nelle ottave I, 29 e ssg.: ogni stanza descrive con minuzia una parte del corpo della bellissima peccatrice (i capelli «aurea corona», il naso «sottile alquanto, né curvo o rivolto», le labbra «vermiglie rose», le mani «d’avorio»). Nella rappresentazione delle maniere della donna l’autore si sofferma poi sulle astuzie della sua raffinatissima ars amandi, con la quale è in grado di intrappolare ogni uomo, conducendolo sulla strada della perdizione:
La bellezza della giovane è quindi un’arma formidabile nelle mani del demonio, che non si rassegna a perdere un così valido alleato nella lotta contro il disegno divino di salvezza. Il secondo Pianto si apre su un concilio infernale che ricalca con precisione - anche nel lessico - il già citato canto IV della Liberata: questo momento del poema tassiano, esemplare per icasticità e teatralità, gode di un successo eccezionale tra gli autori di poemi sacri, che lo ripropongono costantemente. Le principali fonti di ispirazione letteraria del poema si mostrano in tutta la loro evidenza nelle stanze d’esordio dei primi due Pianti: nell’ottava I, 1 risuona con chiarezza l’eco del primo sonetto del Canzoniere (basti segnalare la riproposizione di alcuni termini chiave quali suono, sospiri, vano, pianto):
L’inizio del Pianto II è invece bipartito tra l’imitazione tassiana del primo verso (con le arme pietose di Liberata I, 1) e quella ariostesca della chiusa (che ricalca con precisione «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori» di Furioso I, 1), inframezzate da un doppio ossimoro caldo/freddo di stampo petrarchesco:
La Maddalena occupa costantemente la scena con i suoi tormentati monologhi interiori e non è affiancata da personaggi di contorno, se non le due forze immense che si contendono il possesso della sua anima, Gesù e Satana. Le ottave propongono uno sterminato campionario di similitudini e metafore sulla figura della peccatrice, alla costante ricerca di immagini icastiche. L’autore prende spesso la parola per commentare le vicende ed esprimere considerazioni morali, anche non direttamente legate al testo. Dall’ottava I, 55, ad esempio, ha inizio un excursus sentenzioso sulla vera natura della nobiltà, non legata al sangue ma alle scelte virtuose operate nella vita: «Nascer d’alta progenie, o d’umil sangue, / Non è gloria, o virtù, ma pura sorte».
L’introduzione tanto massiccia di elementi estranei al dettato dei Vangeli, per di più provenienti da generi letterari assolutamente “profani”, è sentito come problematico dallo stesso autore, che sceglie di preporre al testo una interessante introduzione teorica in prosa, sotto il titolo di Proemio. In queste pagine il poeta previene le critiche a cui il testo si espone e fronteggia i principali capi d’accusa che potrebbero essergli rivolti. Ricorrendo ad abbondanti citazioni dalla stessa Scrittura e dai Padri della Chiesa, Silvio sostiene di essere autorizzato a descrivere la lascivia della Maddalena «perché tale la dipinge l’evangelista S. Luca in una sola parola dicendo Et ecce mulier qua erat in civitate peccatrix».25
L’autorità dei teologi (in particolare di Giovanni Damasceno) e dei poeti (Marco Girolamo Vida nella Christias, Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata e nella Conquistata) consente invece di descrivere gli esseri infernali come dotati di corpo e voce umana, anche se si tratta di creature soprannaturali. In ultimo, Silvio tocca il tema delle aggiunte al testo biblico, appellandosi al criterio di verosimiglianza (gli episodi nuovi non sono attestati dai Vangeli, ma sono plausibili) e alla necessità di guardare più al «gusto de’ lettori» che alle «regole particulari dell’arte»:
Il poema di Silvio, che non a caso è baciato da un notevole successo editoriale, è molto attento alle necessità del pubblico, che evidentemente apprezza le soluzioni tipiche della letteratura profana e le ricerca anche nei testi poetici religiosi.27 [...].
*
In
I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo.
Atti del XVIII congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti
(Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri,
Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon,
Roma, Adi editore, 2016 (ripresa parziale, senza note).
***
Da Sant’Elia all’Alba del Paesaggio *
La posizione geografica dei luoghi della manifestazione “Da Sant’Elia all’Alba del Paesaggio”, caratterizzata da un panorama mozzafiato sospeso tra i monti Alburni e la valle del Sele, tra cielo e mare, con il golfo di Salerno sullo sfondo, esteso tra la penisola amalfitana, la cima del Vesuvio, l’isola di Capri fino a punta Ogliastro, ha indotto l’Amministrazione comunale ad ipotizzare il “vero sviluppo” del paese attraverso la valorizzazione ed il potenziamento del settore turistico - ricettivo collegato alla montagna. Altresì tale manifestazione produce risvolti, non secondari, sull’aspetto enogastronomico e la valorizzazione delle aziende locali, che già da tempo si sono “trasformate” in aziende biologiche, commerciando prodotti locali di eccellenza a “chilometro zero”. Ragion per cui si è ipotizzato di puntare sulla conoscenza e la valorizzazione delle risorse inutilizzate o sottoutilizzate, creando la manifestazione “Da Sant’Elia all’Alba del Paesaggio”, con ricorrenza annuale, i cui eventi vanno dalla prima settimana di Maggio fino alla fine di Giugno.
Perché Sant’Elia?
Da secoli il Santo Profeta viene venerato nel borgo medievale di Postiglione, in un evento che sin dalle origini ha coniugato la devozione popolare alla tradizione agricola e pastorale attraverso un ingente bagaglio di rituali, usanze, credenze e superstizioni che si conservano e ripropongono di anno in anno, di festa in festa. Un attestato dell’importanza del culto di Sant’Elia, nel territorio tutto degli Alburni, si riscontra in un evento documentato e registrato all’interno di uno dei tomi storici (XVIII sec.) conservati presso la Chiesa Madre di San Giorgio:
“Nel mese di maggio dell’anno 1755 fu una siccità dal di 22 marzo sino al suddetto giorno, nel quale venne la processione del Rev. clero di Controne con tutto quel popolo a impetrare da Dio pe intercessione del glorioso S. Elia la tanto necessaria, e sospirata pioggia, quale popolo li 29 del scorso Aprile era anco venuto procession al m.^te al Santuario del suddetto S. Elia sopra il monte, e se bene il di 30 Aprile scorso fu una leggier pioggia s’è di nuovo portata la supplica pe la pioggia Salutare, anco dal clero di Postiglione s’è fatto ricorso al Santo pe otto giorni, e domattina 7 di maggio 1755 si farà di nuovo ricorso con processione di Penitenza, sperando nella Divina misericordia che voglia ad intercessione della B. Verg. e de Santi ottener la gratia.”
“Dopo tanti ricorsi, e suppliche mandate al Sig.^re Iddio già il giorno dieci di Maggio 1755 s’è degnato il Sig. confortare questo popolo con una pioggia salutare sperando che voglia continuare a dispensarci le gratie la divina misericordia.”
Secondo un’antica leggenda, nota ormai solo a pochi anziani, dei pastori riconobbero l’effige del Santo in un busto di pietra trovato in una grotta a mezza costa circa del versante degli Alburni che sovrasta Postiglione. Essi, devoti, lo portarono nella Chiesa di Santa Maria, come in luogo più idoneo, ma con stupore di tutti scomparve e fu ritrovato nella grotta montana. Riportandolo nella chiesa, il fatto miracolosamente si ripeté.
Allora il popolo devoto di Postiglione, lasciando il busto di pietra là dove era stato trovato, ritenne opportuno far scolpire statua simile da tenere in chiesa per la devozione dei fedeli.”
Il giorno della solennità, la statua di Sant’Elia, preceduta da quella dell’Arcangelo San Michele e seguita da quella della Madonna, viene portata in processione in montagna con il popolo e la banda. Il sentiero che conduce alla grotta si snoda in uno scenario mozzafiato fatto di profonde gole, piante secolari, panorami suggestivi. Il tutto è arricchito dallo spettacolo offerto dalle statue dei Santi che, portate sulle spalle, risalgono la montagna verso la grotta tra le preghiere dei fedeli e i brani della banda. Al termine della funzione religiosa, nel piazzale e sui vari gradini naturali, è possibile consumare la colazione a sacco unendo il piacere della scampagnata al fascino della tradizione storica e religiosa.
Il piazzale dinanzi alla grotta è uno dei balconi degli Alburni più suggestivo, da cui è possibile vedere la Piana del Sele, la Costiera Amalfitana e nei giorni più tersi Capri; ed ovviamente il sottostante borgo medievale di Postiglione, da secoli fedele al culto del Santo.
“Santu Liu re lu Pustiglionu, fa venì nu chiuppetonu senza lampi e senza truoni, senza mancu na grennena.”
SCHEDA...*
VENEZIA:
LA CHIESA DI SANTA MARIA DI NAZARETH, O DEGLI SCALZI (E LA PRESENZA DI 12 SIBILLE).
La chiesa di Santa Maria di Nazareth, o chiesa degli Scalzi, è un edificio religioso della città di Venezia dei primi del XVIII secolo. Opera di Baldassarre Longhena ma con la facciata di Giuseppe Sardi, è situata nel sestiere di Cannaregio in prossimità della stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia.
La chiesa di Santa Maria di Nazareth deve la sua origine all’insediamento dei Carmelitani scalzi nella città lagunare.
Fu edificata da Baldassarre Longhena in un’unica navata, con due cappelle laterali, ognuna a sua volta affiancata da due cappelle minori. Dopo l’arco trionfale, l’aula si immette nel presbiterio, rialzato e dotato di una cupola. Nell’abside, si nota il coro dei frati.
Venne consacrata nel 1705, ma subì un importante restauro fra il 1853 e il 1862 da parte del governo austriaco. Al suo interno l’11 febbraio 1723 venne tumulato Ferdinando II Gonzaga, quinto e ultimo principe di Castiglione[1].
Oggi è monumento nazionale. Al suo interno marmi colorati e sfarzosi corinzi danno una sensazione di opulenza e di meraviglia al visitatore.
Presbiterio
L’altare maggiore è opera di Jacopo Antonio Pozzo (ovvero fra Giuseppe Pozzo) come anche il parato ligneo della sacrestia.[4] Il presbiterio è sovrastato da un baldacchino sorretto da colonne tortili. Il fastoso tabernacolo della mensa, vede la statua della Madonna con putto e profeti, proveniente dall’isola di Santa Maria di Nazareth, poi Lazzaretto.
Le statue di dodici Sibille, opera di Giuseppe Torretto, Giovanni Marchiori, Pietro Baratta, Giuseppe e Paolo Groppelli, stanno distribuite, cinque per parte, sulle pareti laterali e due giacenti sull’arco del baldacchino[5].
* Chiesa di Santa Maria di Nazareth (Venezia) (Wikipedia).
* Sulla presenza delle 12 Sibile nel "Presbiterio", in particolare, si cfr. anche il doc. su I Carmelitani Scalzi a Venezia. La chiesa di Santa Maria di Nazareth e il brolo del convento, Biblos Edizioni, 2015, pp. 22-26).
Scheda
Chi sono le Sibille?
di Ufficio Beni Culturali *
Con il termine Sibilla si indicava nell’antichità greco-romana una donna che possedeva la capacità di prevedere il futuro. Nel dizionario dell’Arte Medievale Treccani al termine Sibilla corrisponde la seguente definizione: "Nell’antichità classica, fin dal periodo arcaico della Grecia particolare tipo di veggente femminile [...] che profetizza quando e dove è ispirata, anche senza essere interrogata; la sua ispirazione è concepita come possessione divina, e per tale ragione la profetessa si mantiene vergine. Le Sibille divennero esseri leggendari; mediatrici tra dio e l’uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe e dee esse stesse".
Pertanto le Sibille erano delle profetesse che, rivolgendosi alle comunità, alle città e ai regni, preannunciavano eventi e calamità naturali, esiti di battaglie e cantavano la storia delle città. Queste profetesse venivano anche consultate in occasioni di cerimonie, durante i periodi di carestia e al diffondersi di pestilenze, così da conoscere le cause e i rimedi ai mali che affliggevano il genere umano. Il dio che ispirava le Sibille è nella maggior parte delle attestazioni, Apollo, dio della poesia, della medicina, delle arti, della musica, della luce e della profezia. Minori sono le testimonianze che vedono Zeus, Giove o Dioniso quali ispiratori delle veggenti.
Le numerose profezie diffusesi in età classica spinsero gli studiosi antichi ad interrogarsi sul numero delle Sibille esistenti. Il primo autore che affrontò questa ricerca fu il filosofo greco Eraclide Pontico che individuò tre differenti Sibille: la Sibilla Marpessa o Ellespontica, la Sibilla Delfica e la Sibilla Eritrea. Solo in età romana, con lo studio dell’antiquario Varrone, si arrivò ad individuare dieci Sibille: la Sibilla Persica, la Libica, la Delfica, la Cimmeria, l’Eritrea, la Samia, la Cumana, l’Ellespontica, la Frigia e la Tiburtina. L’antiquario ordinò le profetesse in ordine cronologico e di ognuna fornì la fonte letteraria in cui era citata.
Con l’avvento della Religione Cristiana le Sibille non persero la loro importanza, anzi, al pari dei Profeti divennero annunciatrici della venuta di Cristo e del suo operato. Per questo motivo a partire dal Medioevo e durante tutto il Rinascimento le profetesse divennero soggetti nelle arti figurative italiane e nei testi letterari. Inizialmente le Sibille venivano rappresentate in forma singola ed accostate al ciclo dei Profeti, solo a partire dal Quattrocento vennero separate dai Profeti e costituirono un ciclo autonomo di dodici veggenti: le dieci del canone di Varrone più le due aggiunte da Filippo Barbieri nel 1481, l’Agrippea e l’Europea.
Nel contesto italiano l’apice della diffusione e considerazione delle Sibille si raggiunse con le raffigurazioni della Cappella Sistina nel 1508-1512 ad opera di Michelangelo Buonarrotti. In seguito, l’esaurirsi delle tensioni profetiche dalla metà del Cinquecento e i rigidi canoni controriformistici generarono una progressiva perdita di interesse, sia artistico che letterario, nei loro confronti. Ciò non si verificò nelle zone periferiche, dove le veggenti continuarono a rivestire un ruolo significativo sia in ambito religioso che privato.
È questo il caso della Provincia di Bergamo dove a partire dal XV secolo la presenza delle Sibille è osservabile nei contesti religiosi sottostanti alla Diocesi di Bergamo, e nell’ambito privato dell’Oratorio Suardi di Trescore Balneario.
* Ufficio diocesano dei Beni Culturali della diocesi di Bergamo
L’analisi.
E con il dolore delle donne il mercato divenne divino
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 13 marzo 2021)
L’età della Controriforma fu un tempo decisivo per la cultura economica e sociale dell’Italia e degli altri Paesi dell’Europa meridiana. Qualcosa si interruppe nell’evoluzione dell’etica della mercatura che aveva fatto di Firenze, Venezia o Avignone luoghi straordinari di ricchezza economica e civile. Tra i molti volti dell’età moderna c’è anche quello delle donne, in particolare quello della vita monastica femminile, poco noto perché nascosto e persino occultato. Il Concilio di Trento aveva reintrodotto la clausura strettissima per le monache. I vescovi e le congregazioni romane inasprirono controlli e norme sui monasteri femminili. Di fronte a una Chiesa riformata che annunciava la salvezza per sola grazia, che criticò la vita consacrata fino ad abolirla, che aveva molto ridimensionato il ruolo dei sacramenti, confutato radicalmente la teologia dei meriti e quindi delle indulgenze, e abolito il Purgatorio..., la chiesa di Roma rilanciò con forza l’importanza delle opere dell’uomo per la salvezza, moltiplicò gli istituti di vita consacrata, rafforzò la pastorale dei sacramenti incluso quello della confessione, rimise al centro il merito, le indulgenze e il Purgatorio.
In questa grande battaglia teologica le prime e più numerose vittime furono, anche qui, le donne, soprattutto quelle recluse nei monasteri e nei conventi. Un movimento enorme, se pensiamo che tra coriste, converse e terzi ordini in alcune regioni italiane le monache raggiungevano nel Seicento anche il 10-15% della popolazione femminile "adulta" (cioè, allora, con più di dodici anni). Quindi capire un po’ la vita di queste donne significa comprendere di più la storia dell’Europa e anche il nostro presente.
Ma perché esisterebbe un rapporto tra la vita dei monasteri femminili e l’economia? Il primo pensiero va all’ora et labora, ma non è quello più interessante e giusto, perché dove la logica economica è entrata pesantemente nella vita delle monache, è, paradossalmente, nella spiritualità, nell’ascetica e nella mistica. Già il Medioevo aveva prodotto una sua "religione economica". Le penitenze tariffate dei monaci, dove a ogni peccato corrispondeva una pena con relativa tariffa, dopo il XIII secolo divennero commerciabili come una sorta di merce. La penitenza venne oggettivizzata e separata dal peccatore, e così una colpa poteva essere pagata da una persona diversa dal colpevole. Da qui tutto il commercio di preghiere, pellegrinaggi, fino al famoso mercato delle indulgenze.
La Controriforma conobbe una forte ripresa della dimensione economico-retributiva del cattolicesimo, sebbene con importanti novità. Una riguarda direttamente le donne. Mentre, infatti, nel Medioevo gli attori del commercio religioso erano quasi esclusivamente maschi, nella prima età moderna sono le donne le prime operatrici di questa strana versione della religione cattolica. Le principali piazze di queste originali Borse valori erano i monasteri e i conventi, soprattutto quelli femminili. E il capitalismo latino divenne divino. Vediamo come.
Tutto ruota attorno a una particolare (e stravagante) interpretazione del significato e dell’uso del dolore umano, letto in rapporto al dolore di Cristo. Sappiamo che nel Nuovo Testamento esiste una tradizione che aveva letto la passione e la morte di Gesù come pagamento di un prezzo al Padre per lucrare il perdono dei nostri peccati. Questa idea di un Dio-Padre che per essere "soddisfatto" ebbe bisogno del sangue del suo Figlio (perché solo un prezzo dal valore infinito poteva estinguere un debito infinito), ha attraversato il primo millennio e fu sistematizzata da sant’Anselmo d’Aosta.
Ma era rimasta una faccenda per teologi, fino a quando con la Controriforma divenne nei monasteri qualcosa di spettacolare e di impensato, una colonna dell’età barocca. L’antica teologia dell’espiazione si trasformò in una vera e propria cultura dell’espiazione, che pervadeva le pratiche religiose e la pietà popolare. Il dolore umano divenne così la principale moneta per pagare i debiti/colpe propri e di altri.
Ciò che nel Medioevo era il commercio delle indulgenze e dei pellegrinaggi, nell’età della Controriforma divenne il commercio del dolore, sotto forma di penitenze, umiliazioni, mortificazioni. Un dolore principalmente femminile. Il linguaggio dei Manuali per confessori, che esplodono in questo tempo, rivela questa svolta: "opere penali", "opere soddisfattorie", "riparazione", "anime-vittime". Il confessionale divenne il principale meccanismo di trasmissione di questo commercio del dolore.
Su tutto spicca un’espressione: sofferenza vicaria. Si inizia cioè a pensare (e agire) che si potesse soffrire a vantaggio di altri, che qualcuno potesse pagare in proprio per espiare colpe altrui, ancora vivo o in Purgatorio. Sulla base di alcune citazioni della scrittura (ad esempio, della lettera deutero-paolina ai Colossesi: "completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo": Col 1,24) e un uso originale della categoria di Chiesa come "corpo mistico" (dove ciò che accade in un membro si ripercuote su tutti gli altri), si creò un immenso mercato del dolore e delle sofferenze. E così mentre l’Europa del Nord sviluppava i mercati "reali", nel Sud le categorie economiche venivano applicate alla religione e alle donne. Un ingrediente di questo originalissimo sistema di scambi era il cosiddetto "Tesoro dei meriti" di Cristo e Maria, meriti talmente grandi da superare il debito dei peccati umani; così la Chiesa poteva "vendere" la parte eccedente di quel tesoro per rimettere altri debiti di peccatori, tramite le indulgenze. Ma il colpo di genio teologico fu pensare che le penitenze e l’offerta delle sofferenze umane potessero aumentare il Tesoro e quindi la sua parte eccedente disponibile per i peccatori vivi e ancor più per quelli in Purgatorio: «Dio vuol che ’l debito si paghi» (Divina Commedia, Pg X,108). Ecco allora che i monasteri femminili si trasformarono in "centrali di produzione" di questa ricchezza spirituale: con il loro dolore dovevano incrementare il Tesoro. Come amava dire Veronica Giuliani: «Tante anime vanno all’inferno perché non c’è chi fa sacrifici per loro».
Da qui la proliferazione nei monasteri femminili di penitenze sempre più estreme, spesso ordinate dai confessori grazie al loro enorme potere sulle monache. Il sistema raggiungeva però la sua perfezione quando le monache interiorizzavano il valore del loro dolore e quindi si auto-infliggevano mortificazioni, umiliazioni, procurandosi in perfetta buona fede ogni sorta di dolore al fine di salvare se stesse e soprattutto gli altri. Un equilibrio perfetto: le monache attribuivano un senso e un valore al loro essere "vittime recluse" poiché leggevano il proprio sacrificio come offerta gradita a Dio e agli uomini; la Chiesa e la società attribuivano un valore sociale e religioso a quelle esistenze rinchiuse, ma "produttive". Impressionanti sono le biografie o auto-biografie di monache: «Il confessore convenne che due ore di sonno per notte, con un lenzuolo lacero come unica coperta, sarebbero state sufficienti. Dandole un nuovo cilicio munito di più di cinquecento aculei e una frusta con la punta di ferro, e non fece obiezione al fatto che Maria Maddalena portasse catene seghettate alle braccia e alle gambe» (Anne J. Schutte, "Orride e strane penitenze", pp. 159; 266).
In un’altra biografia: «Una simile risposta ebbe da Dio quando, durante una notte di Natale, sr. Margerita chiese di essere ammessa tra il bue e l’asinello per adorare il Bambino Gesù: Nel presepe non c’è posto per te, perché gli animali al tuo confronto hanno maggiori e più meritorie qualità» (Mariano Armellini, "Margherita Corradi monaca benedettina" (1570-1665), 1733). E nella celebre storia di suor Maria Crocifissa: «Prima di pranzo, stando le sorelle in refettorio sono andata a guisa di Bestia, cioè incatenata a quattro piedi, baciando i piedi alle sorelle» (Francesco Ramirez, 1709).
Altra fonte essenziale sono i libri spirituali per monache: «Subito che vi risvegliate figuratevi d’esser un reo incatenato, e condotto al tribunale per essere giudicato, o come un lebbroso, carico tutto di piaghe; e con questi o altri simili pensieri, andatevi vestendo» (Giovanni Pietro Pinamonti, "La religiosa in solitudine", 1697, p. 31). E in un Manuale per confessori molto diffuso, quello settecentesco di Alfonso Maria de’ Liguori, si legge: «La penitenza poi non solo deve essere medicinale per rimedio della vita futura, ma anche penale e vendicativa per la vita passata. Le penitenze generalmente utili a tutti sono l’entrare in qualche congregazione» (Alfonso M. de’ Liguori, "Il sacerdote provveduto", p. 240).
Entrare in congregazione visto dunque come forma di penitenza utile a tutti. Queste idee e pratiche sono durate secoli, in molti casi fino al Concilio Vaticano II. Ancora in un testo del secolo scorso leggiamo: «Nel convento delle Domenicane di Vercelli, v’era fra le altre una regola che vietava di bere fra un pasto e l’altro senza permesso della superiora, la quale però lo concedeva rarissimamente, eccitando le consorelle a questo piccolo sacrificio in memoria della sete che Gesù patì sul Calvario» (Luigi Carnino, "Il purgatorio nella rivelazione dei Santi", cap. 17, 1946). Non è stato per me affatto facile pensare e scrivere questo articolo. L’ho scritto con lo spirito con cui si scrive una lapide, una stele in memoria di quelle donne-vittime quasi sempre ignote. Per soffermarsi davanti ad esse, riflettere, piangere. Scrivere, poi, anche per chiedere loro scusa a distanza di secoli - scuse vicarie che faccio da uomo per conto di altri uomini del passato.
Il dolore umano può avere un senso. Forse alcune o molte di queste monache furono più grandi del loro destino e delle teologie sbagliate e violente verso il corpo delle donne. Forse. Ma prima Giobbe e poi i Vangeli ci avevano detto che solo gli idoli gradiscono il sangue dei loro fedeli. Il Dio biblico è diverso. Solo una visione sbagliata degli uomini e soprattutto delle donne può pensare di usare la loro sofferenza come moneta gradita a un qualche Dio. Un’ultima nota.
Tutto questo commercio di sangue e di dolore femminile era totalmente gratuito. La Chiesa nei suoi uomini vendeva le indulgenze e chiedeva ai laici elemosine per compensare i peccati: «La regola è: per i peccati di avarizia, limosine» (Alfonso M. de’ Liguori, cit.).
Il commercio religioso che avveniva sul corpo delle donne era invece tutto dono, e quindi gratis. La donna come icona del sacrificio gratuito, per proteggerla dal commercio mercenario. Sono passati decenni, secoli. Le monache e le suore che oggi entrano nei monasteri e nei conventi sono molto diverse, e spesso neanche conoscono queste storie.
Quelle antiche penitenze sono state eliminate dal Concilio Vaticano II, anche se radicata in tanti cristiani è ancora l’idea teologica che il nostro dolore possa essere una "moneta" che il Dio-creditore degli uomini accetta volentieri, che quindi Dio gradisca il dolore dei suoi figli, facendolo così diventare peggiore di noi. Ma nella vita civile ed economica le donne continuano ancora troppo a praticare espiazioni vicarie, a pagare nella loro carne per le famiglie e per la società, e il loro lavoro non riconosciuto e svalutato, e non di rado in nome del dono. Donne molto lontane e diverse, sofferenze ancora troppo simili.
INFUTURARSI CON DANTE *
di Gerardo Sano ( Centro di Cultura Popolare Unla Contursi Terme, 5 luglio 2021)
In occasione delle celebrazioni per i settecento anni dalla morte di Dante l’UNLA di Contursi Terme organizza “INFUTURARSI CON DANTE”, una manifestazione che intende rendere al “ghibellin fuggiasco” il giusto tributo. Un tributo che si vuole consumare in un contesto locale, dove la memoria dei padri, più che altrove, ha voluto lasciare il segno tangibile della propria fede e della propria devozione a “colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura”.
Con questa chiave di lettura la manifestazione “INFUTURARSI CON DANTE” intende interpretare le celebrazioni, la cui data d’inizio individuata nel 25 marzo, quale inizio del viaggio ultraterreno del sommo Poeta, pone una significativa coincidenza con il Mistero dell’incarnazione di Cristo nel seno della Vergine Maria. Un mistero che neppure l’era pagana seppe, o forse, volle negare. La testimonianza più certa è data dal cantore della IV Bucolica, con quel suo celeberrimo verso “Iam redit Virgo”. E non può essere un caso se lo stesso cantore verrà eletto guida-maestra del viaggio in ben due regni dell’oltretomba. Egli aveva preconizzato la nascita di un Puer, che avrebbe ridonato al mondo un’era di pace.
Troppe e non casuali queste assonanze, che saldano indissolubilmente il poeta fiorentino, destinato a sperimentare “ come sa di sale lo pane altrui” e il poeta mantovano, cui la sorte aveva sottratto i beni paterni. Quel “Iam redit Virgo” li unisce in una visione profetica di un’età dell’oro, auspicata dall’umanità di ogni tempo.
E’ lo stesso “iam redit Virgo” che la mano di un ignoto pittore volle dipingere a mò di didascalia in uno medaglioni, ritraenti ben dodici Sibille in quella che è la più antica e preziosa testimonianza di una “cerniera” tra riti pagani e liturgie cristiane: la Chiesa del Carmine. Ed è’ ancora alla Sibilla Cumana che viene affidato il compito di illustrare ad Augusto il mistero dell’incarnazione. Una testimonianza? Semplicemente rare e preziose stampe, il cui racconto non necessita di parole. Così in una sorta di ringkomposition si sublima la più suggestiva narrazione del Divino, la Divina Commedia.
Sono queste semplici considerazioni che portano a mettere in essere una celebrazione di portata mondiale incardinandola in un contesto localistico, una celebrazione che vuole congiungere macrocosmo e microcosmo.
L’evento avrà luogo.
ALLE ORE 20,30
CHIESA DEL CARMINE
CONTURSI TERME
"DANTE VIRGILIO E LE SIBILLE"
Parole e musiche di un viaggio divino
Fonte: Centro di Cultura Popolare Unla Contursi Terme, 5 luglio 2021
Monastero della B.V. del Carmine
e
documentazione fotografica
dello stato della Chiesa
(agosto del 2016)
di
Antonio Siani
Commemorazione di
San Simone Stock
Nacque ad Aylesford nel 1165 circa, Simone Stock scelse di entrare a far parte dell’Ordine Carmelitano. Fu proprio in quest’ordine che riuscì ad ottenere l’importante carica di priore generale ed oggi è considerato il protettore dei Carmelitani.
Secondo alcune testimonianze Simone Stock, all’età di soli dodici anni, decise di ritirarsi sotto una quercia come eremita, dopo essersi allontanato dalla casa in cui viveva con i genitori. Questo episodio fu molto importante perché spiega l’origine del nome. Stock potrebbe derivare infatti dalla lingua inglese antica e potrebbe significare tronco d’albero.
La scelta di entrare a far parte dell’Ordine Carmelitano fu presa da Simone Stock dopo un pellegrinaggio in Terra Santa. Per portare a compimento questo desiderio, egli decise di terminare i suoi studi a Roma e di diventare un sacerdote. La carica di priore generale dell’ordine gli fu assegnata nel 1247 ed a lui si deve la riforma della regola dei Carmelitani, che con lui diventò un ordine mendicante.
Il culto di San Simone Stock prese piede nel XV secolo, quando nei Paesi Bassi iniziò a diffondersi una testimonianza - ritrovata su un antico documento - di una visione della Madonna che lo stesso Simone Stock avrebbe avuto durante una serata di preghiera intensa alla Vergine Maria. Durante la visione la Madonna gli rivelò il privilegio che avrebbero avuto coloro che sarebbero morti con lo scapolare indosso: il sabato successivo alla data della loro morte non avrebbero più sofferto le pene del purgatorio.
Morì nel 1265, durante una visita al convento carmelitano di Bordeaux.
MARTIROLOGIO ROMANO. A Bordeaux nella Guascogna, in Francia, beato Simone Stock, sacerdote, che fu dapprima eremita in Inghilterra e, entrato poi nell’Ordine dei Carmelitani, ne fu in seguito mirabile guida, divenendo celebre per la sua singolare devozione verso la Vergine Maria.
IL SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO E L’ATTENZIONE DI AURELIO MUSI SU "TRE RITRATTI DI FILIPPO IV" ... *
Il sovrano e la monaca. Il malinconico re di spagna Filippo IV fu sorretto da suor Maria de Agreda
Un saggio di Aurelio Musi ricostruisce la vita di un personaggio roso dai sensi di colpa, giunto sul trono mentre il suo impero si avviava al declino. Negli ultimi anni con l’aiuto di una religiosa dimostrò notevoli doti di statista
di Paolo Mieli ( «Corriere della Sera», 30 marzo 2021)*
Filippo IV di Spagna, detto anche Filippo il Grande o il Re Pianeta, regnò tra il 1621 (quando aveva sedici anni) e il 1665. Una durata lunga, per di più in un’Europa sconvolta da un conflitto che ha lasciato un segno nella storia: la guerra dei Trent’anni (1618-1648). La stagione di suo padre, Filippo III (che regnò dal 1598 al 1621) era stata caratterizzata da una profonda crisi economica che, dopo l’epidemia di peste del 1600, aveva investito soprattutto la Castiglia. Crisi con radici lontane, quantomeno dalla bancarotta del 1596 che aveva fatto vacillare il trono di suo nonno, Filippo II (1559- 1598). Quel Filippo II già provato dalla catastrofica sconfitta dell’Invincibile Armata ad opera dell’Inghilterra (1588). Intendiamoci, la Spagna, a cavallo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, era ancora la più grande potenza europea. Un’Europa che nel 1571 aveva sconfitto i turchi a Lepanto, in un’epoca nella quale la Spagna aveva sì perso i Paesi Bassi con la proclamazione delle Sette Province Unite, ma aveva incorporato l’impero portoghese. Quella che si intravede nel libro di Aurelio Musi Filippo IV. La malinconia dell’impero (Salerno) è una Spagna che vive la fine del Siglo de Oro con una crisi di identità e si avvia a cedere alla Francia di Luigi XIV lo scettro del primato continentale.
Musi nota che il 1621 è ad un tempo l’anno dell’ascesa al trono di Filippo IV e della pubblicazione dell’opera L’anatomia della malinconia (Bompiani) dell’autore inglese Robert Burton. Un accostamento che, scrive Musi, «non deve apparire improprio». La crisi d’identità della Spagna, di cui si è detto, si poteva già individuare - come scrivono Carlos Alvar, José Carlos Mainer e Rosa Navarro nella Storia della letteratura spagnola (Einaudi) - nel capolavoro di Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia (Bompiani) dato alle stampe in dieci anni tra il 1605 e il 1615. Don Chisciotte, ha scritto John H. Elliott in Il miraggio dell’impero. Olivares e la Spagna dall’apogeo al declino (Salerno), è un libro nel quale «oltre tante parabole, c’era anche quella di un Paese lanciatosi in fiera battaglia solo per accorgersi poi di essere andato a sbattere con la testa contro dei mulini a vento». Sicché tutto era finito nel disinganno, dal momento che «l’illusione non poteva resistere troppo a lungo all’urto della realtà». La malinconia era stata l’effetto di questo disinganno.
Scrisse Robert Burton all’inizio del Seicento che, se c’è un inferno sulla Terra, esso risiede nel cuore di un uomo malinconico. Poi però anche i regni, sottolinea Musi, «possono essere un inferno perché, come corpi politici, sono soggetti alla malinconia». In che senso? Il «corpo infermo dello Stato si manifesta con turbamenti che hanno la loro causa primaria nell’assenza di buon governo». A questo punto «tutto è desolazione abbandono, inciviltà, paradiso trasformato in deserto». La malinconia non è «solo malattia dell’individuo, angoscia esistenziale della sua anima [...] essa è anche la malattia di una collettività, o di una forma di governo, quella monarchica che per Burton resta il modello di Stato migliore». Nella condizione umana di Filippo IV «si può leggere il disordine umorale che turbò il corpo sociale dell’Impero asburgico e l’affezione saturnina dell’epoca barocca».
Qualcosa che si può capire meglio da una rilettura di La vita è sogno (Adelphi) il dramma filosofico-teologico scritto nel 1635 dal drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de La Barca. «La vita è sogno», scrive Musi, «riunisce in un’espressione contratta i molteplici fili della sensibilità barocca» che, nell’età di Filippo IV, giunge alla sua massima maturazione. Nel libro di Calderón de la Barca troviamo il «labile confine tra veglia e sonno»; la «complementarità tra vita e sogno; tra «luce e ombra»; lo «spostamento della realtà nell’immateriale»; la «sospensione contemplativa»; il tempo della produzione simbolica che, per citare Fernando R. de la Flor, «si dà come oggetto un oltre di sé stessa cercando, nella sua strategia in essenza malinconica, di salvare le cose nei linguaggi formali dei caratteri allegorici». L’ingresso dei significanti in un «regime di delirio».
Per spiegare meglio questi concetti Musi fissa l’attenzione su tre ritratti di Filippo IV. Nel primo - del 1626 (attualmente esposto al Museo del Prado) - «se lo sguardo si sposta dalla sporgenza della mandibola rispetto alla mascella verso gli occhi, l’espressione di intensa malinconia non può sfuggire». Nel secondo - dei primi anni Trenta del Seicento (oggi alla National Gallery) - Filippo ha i baffi, abiti di insolito splendore, con vello e catena d’oro e vuole essere rappresentato «nella sua piena maturità». Nel terzo, una figura equestre (al Museo del Prado), «ritorna la grazia malinconica dello sguardo e la stessa espressione è colta da Velázquez nei ritratti dei figli del sovrano».
Ritratti, scrive Musi, che più di tutti gli altri ci rimandano ad un «monarca malinconico»; «l’interprete della malinconia di un impero che, nel giro di qualche decennio, oscillò tra apogeo e declino, tra luce e ombra, fra il delirio imperialistico e lo svanire della speranza di continuare ad essere il centro del mondo». Se ne può dedurre che lo «sprofondamento malinconico» del re sia stato quello dell’impero spagnolo.
Da dove si può immaginare che abbia avuto origine la malinconia del sovrano? C’è innanzitutto un dato di carattere biografico. La prima fase della vita di Filippo IV è segnata dalla perdita della madre, Margherita d’Austria, all’inizio del 1608, quando il futuro re aveva tre anni. La morte della moglie di Filippo III, sostiene Musi, condizionerà profondamente l’intera vita del figlio: «la depressione, l’ossessione della morte, provate fin da piccolo» lo accompagneranno per tutta l’esistenza. A ciò si accompagna la fragilità fisica, ereditata - secondo Voltaire - dal padre, che gli provocherà, a sette anni, una grave malattia. In seguito riceverà un’educazione «spiccatamente repressiva», nel segno dell’austera ortodossia della morale cattolica. Un’educazione che gli verrà impartita proprio nel momento in cui, nel fiore della pubertà, proverà «una sfrenata sensualità, stimoli e pulsioni sessuali assai spinte anche se necessariamente dissimulate».
Suo padre morì, quarantatreenne, dopo la drammatica cacciata dei moriscos cioè i musulmani più o meno sinceramente convertiti al cristianesimo ai tempi della Reconquista. La morte di Filippo III avviene nel pieno della crisi economica di cui si è detto, mentre è appena iniziata la guerra dei Trent’anni. Filippo IV sedicenne può contare sul conte-duca di Olivares (che abbiamo incontrato nel titolo del libro di Elliot). Questi sarà suo primo ministro dal 1621 al 1643, una lunga fase della vita (ventidue anni), nella quale, assecondato da Olivares, Filippo «supera i limiti imposti dalla repressione infantile e della prima adolescenza» e si dà alla seduzione di «donne di ogni ceto sociale, dame di Corte, attrici, cantanti, prostitute anche di basso livello».
All’inizio degli anni Quaranta alcune sconfitte militari, l’intervento francese in Catalogna, la crisi portoghese fanno vacillare la monarchia asburgica. Olivares viene messo alla porta, ma il «malessere» del Paese non si placa. Le rivolte del 1647-48 a Napoli e in Sicilia, i costi della lunga guerra con l’Olanda provocano una nuova crisi economica.
Filippo, ora senza Olivares, dà prova di una grandissima (fino a quel momento insospettabile) capacità di governo. Ma è ancora tormentato per la «dolorosa contraddizione fra le sue profonde convinzioni religiose e la coscienza di essere schiavo dei peccati della carne». E dall’ossessione della morte. Ossessione che si fa più intensa allorché al decesso della madre e del padre si aggiungono la drammatica scomparsa dei fratelli, della prima moglie (Isabella di Borbone), di dieci dei suoi tredici figli, tra i quali Baltasar Carlos, quello a lui più caro.
A questo punto è impossibile capire il «mistero» di Filippo IV senza dedicare attenzione al suo rapporto con suor Maria di Gesù. Suor Maria fu badessa del monastero di Agreda dal 1627 e Filippo la incontrò facendole visita nel 1643, l’anno dell’uscita di scena di Olivares. Filippo ne fu «folgorato», scrive Musi, «tanto da chiederle di iniziare una corrispondenza». Una corrispondenza non occasionale: 614 lettere (314 della badessa, 30o del sovrano) per uno scambio che durò oltre vent’anni dal 1643 al 1665.
Quando Filippo la incontrò, Maria era già famosa per ben cinquecento episodi di bilocazione nel corso dei quali, pur essendo rimasta nel suo monastero, avrebbe «visitato» numerose tribù del Nuovo Messico, del Texas, dell’Arizona, della California. Tribù che, quando furono raggiunte dai missionari, erano già state catechizzate da una misteriosa signora vestita d’azzurro (la dama azul) che «compariva e scompariva senza rivelare la sua identità e provenienza». Poi fu l’arcivescovo di Città del Messico a raccontare di una giovane monaca di Castiglia che, pur non essendosi mai mossa dal suo convento, in alcune sue lettere descriveva l’America come se le fosse familiare. E furono i missionari di cui si è detto ad associare il nome della dama azul a Maria de Agreda. La quale, interrogata dal padre superiore della provincia del Nuovo Messico che le fece visita nel 1631, fu in grado di rivelargli i nomi di tutti i missionari e fece riferimenti molto circostanziati alle tribù catechizzate.
Le esperienze della Agreda, scrive Musi, si inquadrano nel profetismo francescano spagnolo che predicava una conquista pacifica dei territori extraeuropei e l’espansione missionaria affidata alla «potente mano della Madonna». Le apparizioni miracolose della dama azul si comprendono meglio se inquadrate nel contesto «dell’evangelizzazione prima francescana poi gesuita che ebbero un’impronta fortemente mariana». Il personaggio di Maria de Agreda è sicuramente, secondo Musi, uno tra i più affascinanti tra quelli che affollarono la scena delle «sante vive», cioè quelle donne che andavano continuamente «soggette a fenomeni estatici e visionari durante l’età barocca».
Alla fine dell’Ottocento Antonio Silvela pubblicò e curò le Cartas de sor María de Agreda e Joaquin Sánchez de Toca dedicò a queste carte uno studio critico destinato a divenire fondamentale per comprendere appieno la personalità di Filippo. Da quell’ampio carteggio Sánchez de Toca, riassume Musi, traeva la convinzione che «la debolezza fosse il tratto determinante e il difetto principale del carattere di Filippo IV».
E in quest’ottica, sempre secondo Sánchez de Toca, andava interpretata la corrispondenza con suor Maria che, rispetto alla fragilità del suo interlocutore, rivelava «una forza straordinaria» e si accreditava come «la più affascinante figura» tra le donne che ebbero accesso al favore del sovrano. Suor Maria «riuniva in misura eccellente tutte le qualità necessarie al consigliere di un principe» ed era «la testimone della dipendenza emotiva del re dall’autorevolezza della sua guida, spirituale e non solo».
Ma il sostegno spirituale della dama azul non fu sufficiente. Gli storici sono concordi nel datare l’inizio del definitivo declino dell’impero molto più tardi ai tempi della guerra di Successione spagnola ai primi del Settecento. Ma, giustamente, Musi ne individua alcuni segni evidenti già nell’ultima fase del regno di Filippo IV dall’estromissione del conte-duca a quando l’«imperatore malinconico» morirà all’età di sessant’anni. La capacità di governo di cui diede prova in questa ultima parte della vita è fuori discussione. Anzi, è quasi sorprendente se si tiene conto del lungo periodo in cui, su spinta di Olivares, si era dato ai bagordi. Ma a dispetto del suo talento, le paci di metà secolo, di Vestfalia (1648), Pirenei (1659) e Oliva (166o) «ridimensionano fortemente il peso mondiale del re cattolico». E il sistema imperiale spagnolo, nei primi decenni della seconda metà del Seicento, appare sempre più limitato «dal complesso e multipolare sistema di Stati europeo». Con la Spagna di Filippo IV si eclissava un mondo e ne veniva alla luce uno del tutto nuovo.
* FONTE: NUOVA RIVISTA STORICA.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ... CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE - E ANDARE OLTRE.
FLS
BEATA MARIA DELL’INCARNAZIONE
BARBARA AVRILLOT (1566 - 1618)
Memoria facoltativa, 18 aprile
di P. Giovanni di Gesù Maria ocd*
Nacque a Parigi il 1° febbraio 1566 da Nicola Avrillot, signore di Champlàtreux e Maria L’Huillier. La sua maggior fonte di gloria fu l’aver più di tutti contribuito ad introdurre in patria la riforma di S. Teresa di Gesù, così da meritarsi il titolo di «madre e fondatrice del Carmelo in Francia».
Adolescente, fu affidata alle cure delle Suore Minori dell’Umiltà di Nostra Signora a Longchamp; richiamata in famiglia all’età di quattordici anni, i genitori ostacolarono la sua aspirazione allo stato religioso e la obbligarono a sposare, a sedici anni, Pietro Acarie, visconte di Villemor, signore di Montbrost e di Roncenay. Bella, ricca, benvoluta, mirò solo a corrispondere alla grazia del Signore con il perfetto adempimento dei suoi doveri verso il marito, verso i sei figli e verso i dipendenti dei quali conquistò il devoto affetto.
La sua fede risplendette nell’adesione incondizionata alla Chiesa quando l’eresia protestante cercò di estendersi anche sul suolo francese. Intanto si prodigava in opere di misericordia, specialmente in occasione dell’assedio di Parigi (1590), e di zelo per la salvezza delle anime, favorita da Dio con grazie mistiche straordinarie, non disgiunte da prove esteriori ed interiori. Al periodo della prosperità succedette quello della sventura: esiliato dal re francese Enrico IV, il marito fu allontanato da Parigi dopo la disfatta della Lega cui apparteneva. Ella conobbe allora l’ingratitudine, ma sorretta da eroica fiducia in Dio, lavorò indefessa giorno e notte per i figli e per il marito, fino ad ottenerne la completa riabilitazione. Ricompostasi così la famiglia dopo quattro anni e rientrati in possesso della casa e degli averi, la Beata s’impose di nuovo alla stima generale, compresa la famiglia reale. Il giovane Pietro de Bérulle, suo cugino e futuro cardinale, la venerava come madre; S. Francesco di Sales l’approvava e dirigeva.
Nell’autunno del 1601 ella lesse gli scritti di S. Teresa d’Àvila e si sentì spinta a introdurre in Francia la riforma religiosa. Confidando nel consiglio di teologi e santi, nel 1602, fra difficoltà di ogni genere, iniziò la preparazione delle fondazioni del Carmelo teresiano, raccogliendo le prime vocazioni, impetrando l’autorizzazione reale e la Bolla pontificia di fondazione (Bolla In supremo del 13 novembre 1603 di Clemente VIII) e costruì il primo monastero. Scelte e guidate da Pietro de Bérulle, il 29 agosto 1604, giunsero dalla Spagna sei Carmelitane Scalze, con a capo la Beata Anna di Gesù (Lobera) e come conversa, la Beata Anna di S. Bartolomeo: quindi il 17 ottobre s’inaugurò a Parigi la vita regolare. La Beata cooperò anche alle nuove fondazioni di Pontoise (1605), Digione (1605), Amiens (1606), felice di vedervi entrare tutte e tre le sue figlie, cominciando da Margherita, di quindici anni. Frattanto Maria si prodigava in continue opere di bene, quantunque gravi fossero le sue sofferenze fisiche e spirituali. Nel 1613 il marito si ammalò gravemente: ella non ne abbandonò più il capezzale, finché, nove giorni dopo, lo vide spirare. Le lacrime e le preghiere della santa vedova furono confortate dalla celeste conferma della salvezza eterna del coniuge.
Libera ormai da impegni di famiglia, ruppe ogni legame col mondo e decise di farsi carmelitana. Notissima a Parigi e desiderata dai vari Carmeli, che per suo merito cominciavano a costellare il suolo natale, scelse il monastero più remoto e più povero, quello di Amiens, chiedendo per grazia di esservi accolta come religiosa conversa. Il 7 aprile 1614 vestì l’abito teresiano, rapita in estasi, ricevendo il nome di suor Maria dell’Incarnazione. Da religiosa, edificò le ferventi consorelle con l’attendere ai più umili lavori di cucina, con piena sottomissione a tutte, con il culto della povertà e una singolare delicatezza di carità specialmente verso le ammalate. Sebbene favorita da Dio con doni eccezionali, fu estremamente cauta e preferì la semplice pratica delle solide virtù comuni. Emise la professione solenne il giorno 8 aprile 1615, durante una lunga infermità. L’avvento di una nuova priora da un altro monastero, le fu motivo di acute sofferenze. Il 7 dicembre 1616, per ragioni di salute venne inviata al Carmelo di Pontoise, dove, dopo lunga malattia, confortata ripetutamente dal S. Viatico e da estasi e visioni celesti, rese dolcemente l’anima a Dio il 18 aprile 1618.
Il processo per la beatificazione fu aperto a Roma nel 1627. Fu proclamata beata da Pio VI, il 5 giugno 1791. Il suo corpo riposa nella cappella del convento di Pontoise.
*
da Santi del Carmelo, a cura di Ludovico Saggi Ocarm, Institutum Carmelitanum, Roma, 1972.
Fonte: Carmelitani Scalzi della Provincia Veneta (ripresa parziale, senza immagini).
La lettera.
Francesco: Teresa d’Avila esempio per le donne nella Chiesa e nella società
Reso pubblico il testo scritto nel 2020 da papa Bergoglio a cinquant’anni dell’assegnazione del titolo di dottore della Chiesa, da parte di Paolo VI, nel 1970 alla mistica spagnola carmelitana
di Filippo Rizzi (Avvenire, mercoledì 14 aprile 2021)
«La fiamma che Gesù ha acceso in Teresa continua a brillare in questo mondo sempre bisognoso di testimoni coraggiosi, capaci di abbattere qualsiasi muro, sia esso fisico, esistenziale o culturale». È uno dei passaggi chiave con cui papa Francesco tratteggia la grandezza della mistica spagnola Teresa d’Avila (1515-1582).
La lettera di papa Bergoglio indirizzata all’attuale vescovo di Avila, Gil Tamayo, è stata scritta nel 2020 in occasione dei 50 anni (1970-2020) dal conferimento del dottorato a Santa Teresa d’Avila da parte di Paolo VI.
A riportare la novità di questo testo “inedito” del Pontefice dedicato alla riformatrice del Carmelo è stato il 13 aprile scorso il sito Vatican News. Il Papa nel testo sottolinea che «il suo coraggio, la sua intelligenza, la sua tenacia, a cui ha unito una sensibilità per la bellezza e una maternità spirituale verso tutti coloro che si sono avvicinati al suo lavoro, sono un esempio esemplare del ruolo straordinario che le donne hanno svolto nel corso della storia nella Chiesa e nella società».
Nella missiva Francesco ricorda l’importanza della religiosa divenuta famosa per il suo capolavoro spirituale, il libro “Castello Interiore” (1577), che è stato anche modello per la mistica degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola. «Averla come amica, compagna e guida nel nostro pellegrinaggio terreno - è l’indicazione del Papa - conferisce sicurezza e tranquillità». A questa importante figura l’Università Cattolica di Avila dedica un congresso internazionale dal titolo “Donna eccezionale”, come la definì papa Montini, in corso fino a al 15 aprile.
Lettera di Papa Francesco per il 50° di Dottorato di Santa Teresa
Al caro fratello vescovo José María GIL TAMAYO
Vescovo di Avila
Sono già passati cinquant’anni da quando, il 27 settembre 1970, il mio predecessore san Paolo VI conferì il titolo di Dottore della Chiesa a santa Teresa di Gesù. È stata la prima donna a ricevere questo titolo che riconosce il prezioso magistero che Dio ci ha dato nei suoi scritti e nella testimonianza della sua vita. Dopo di lei, altre donne hanno ricevuto questa onorificenza.
Nonostante i cinque secoli che ci separano dalla sua esistenza terrena, la fiamma che Gesù ha acceso in Teresa continua a brillare in questo mondo sempre bisognoso di testimoni coraggiosi, capaci di abbattere qualsiasi muro, sia esso fisico, esistenziale o culturale. Era "una donna eccezionale", come la definì San Paolo VI. Il suo coraggio, la sua intelligenza, la sua tenacia, a cui univa una sensibilità per la bellezza e una maternità spirituale verso tutti coloro che si avvicinavano alla sua opera, sono un esempio esimio del ruolo straordinario che le donne hanno svolto nel corso della storia nella Chiesa e nella società.
La Santa di Avila continua a parlarci oggi attraverso i suoi scritti e il suo messaggio è aperto a tutti, affinché nel conoscerlo e contemplarlo ci lasciamo sedurre dalla bellezza dello stile e dalla verità del contenuto, e facciamo nascere in noi il desiderio di avanzare sulla via della perfezione. Averla come amica, compagna e guida nel nostro pellegrinaggio terreno conferisce all’anima sicurezza e serenità. Il suo esempio non è solo per i nostri fratelli e sorelle che sentono la chiamata alla vita religiosa, ma per tutti coloro che desiderano progredire sulla via della purificazione da ogni mondanità che conduce allo sposalizio con Dio, alle alte dimore del castello interiore.
Caro fratello, desidero incoraggiare tutti i membri di questa Chiesa particolare, sacerdoti, religiosi e laici, così come tutti gli organizzatori e i partecipanti al Congresso Internazionale che si terrà presso l’Università Cattolica Santa Teresa, a continuare ad approfondire il messaggio della Santa di Avila e a diffondere il suo insegnamento. È bello ricordare che tutte le grazie mistiche che ha ricevuto l’hanno portata in cielo, ma lei ha saputo trasportare il cielo sulla terra, facendo della sua vita una dimora di Dio, dove tutti avevano un posto. Affinché la nostra società sia sempre più umana, e perché tutti viviamo nella fraternità che viene dallo stesso Padre, è un bel progetto ascoltare il suo invito ad "entrare in noi stessi" per incontrare il Signore (Castello Interiore 2,1,1), e così testimoniare che "Dio solo basta".
In questo anno giubilare che la Chiesa dedica a San Giuseppe, il beato Patrono, non posso terminare questo messaggio senza ricordare la grande devozione nei suoi confronti della Santa "vagabonda". Lo prese come maestro, avvocato e intercessore; a lui si affidò, certa che avrebbe ricevuto le grazie che chiedeva. Dalla propria esperienza ha incoraggiato altri a fare lo stesso (cfr. Libro della vita, 6, 6-8; Lettera apostolica Patris corde, 8 dicembre 2020). Tale era la sua devozione che, in occasione delle sue fondazioni, percorse le terre di Castiglia e Andalusia accompagnata dall’immagine di San Giuseppe. I santi vanno sempre tenendosi per mano e ci sostengono per la fiducia riposta nella loro intercessione. Che possano intercedere per voi.
Che il Signore vi benedica e che la Santa Vergine vegli su di voi. E per favore non dimenticate di pregare per me.
Fraternamente,
Francesco
Roma, San Giovanni in Laterano, 19 marzo 2021,
Solennità di San Giuseppe, Patrono della Chiesa Universale
(traduzione di P. Iacopo Iadarola ocd)
STORIA, STORIOGRAFIA, E ANTROPOLOGIA: SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
Giuseppe, il santo dei mistici, e cosi vicino al «Geppetto» di Biffi
L’esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori ne rievoca alcuni aspetti: fondamentale la sua figura per capire la riforma del Carmelo
di Filippo Rizzi (Avvenire, venerdì 19 marzo 2021)
Patrono della Chiesa universale, padre putativo di Gesù, certo. Ma anche una figura chiave grazie al suo proverbiale silenzio e al fatto di «rimanere in secondo piano», defilato, per capire il linguaggio dei mistici e in particolare per comprendere il senso, quasi il dna più intimo degli Ordini contemplativi. San Giuseppe ha rappresentato, in un certo senso, quasi l’«emblema narrativo» del Carmelo riformato impresso da Teresa d’Avila (1515-1582). È la lettura che offre, nella sua riflessione, lo studioso ed esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori per ripensare, in chiave attuale e per certi versi “controcorrente ”, la figura di san Giuseppe in questo Anno speciale dedicato a lui e nella solennità che si celebra oggi e rievoca, in tutti noi, la festa dei papà.
«Tra i dati più singolari c’è quello che rimane per tutta la vita un personaggio silente come ci testimoniano gli evangelisti Luca e Matteo - annota Jori, docente di letteratura italiana all’Università di Lugano -. Ma è un uomo che vive di sogni: tra questi quello premonitore della fuga in Egitto. Giuseppe è quasi in ombra, non parla nei Vangeli e non interloquisce con Gesù a differenza per esempio di uomini come Nicodemo e Pilato».
Non dimentica nel suo ragionamento lo studioso, allievo di Carlo Ossola e vicedirettore della Rivista di storia e letteratura religiosa («Uno dei prossimi numeri del nostro periodico in via di pubblicazione sarà proprio dedicato san Giuseppe») di fare emergere anche altri aspetti singolari a cui viene spesso accostata questa figura paterna, in molti quadri, nel solco del Concilio di Trento. «È stato un falegname rappresentato spesso con i ferri del mestiere o con quasi sempre in braccio Gesù bambino. Inoltre è stato raffigurato come marito ideale di Maria e padre vicario del Figlio di Dio».
Ma dietro al Giuseppe “quasi” assente dalle scene evangeliche si annida, per certi versi, molto di più. «Se si riprendono in mano le Avventure di Telemaco di Fénelon e la declinazione successiva che ne darà Collodi con il personaggio di Pinocchio - è il ragionamento - è facile avvicinare lo sposo di Maria alla figura di Geppetto, anche lui “padre putativo”, che guarda caso fa di mestiere il falegname. Anche Geppetto come Giuseppe non solo si sente il “padre” di quella creatura ma si avverte come il custode privilegiato della crescita di un bambino destinato a diventare grande (non più una marionetta) e a scegliere la libertà.
In questa prospettiva può essere ancora utile leggere l’interpretazione teologica che offre su questo tema il cardinale Giacomo Biffi nel suo famoso saggio degli anni Settanta «Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico alle avventure di Pinocchio».
Una figura dunque «poco citata nei testi della Rivelazione» che affiora seppur sottotraccia nella stessa Divina Commedia. «Se rileggiamo oggi a 700 anni dalla morte di Dante - è l’osservazione - il canto XXXIII del Paradiso proprio dove si snoda l’inno alla Vergine di san Bernardo. Nei versi iniziali delle terzine dal 19 al 39 nascondono un acrostico: in esso sono racchiuse la parole “Joseph Av” cioè Ave Joseph (“Ave Giuseppe”). È suggestivo pensare che il Divin Poeta attraverso quest’acrostico renda omaggio al falegname di Nazareth, senza nominarlo esplicitamente ma tenendolo in silenzio».
Un santo che diventa uno dei pilastri «quasi interiori» su cui poggia la riforma spirituale dei carmelitani scalzi impressa da santa Teresa d’Avila. «Non è un caso che Teresa nei suoi Diari lo scelga come suo protettore - è l’argomentazione -. E studiando il carteggio inedito della carmelitana torinese la beata Maria degli Angeli, al secolo Marianna Fontanella vissuta tra il 1661 al 1717, ho scoperto di quanto la figura di Giuseppe fosse centrale, quasi “strategica”, nella vita di un Carmelo di fine Seicento. Se oggi san Giuseppe è il co-patrono di Torino lo dobbiamo proprio all’azione apostolica e “mediatrice” di questa religiosa. Fu lei a convincere i Savoia, a chiedere alla Sede Apostolica di accostare al patrono della città, san Giovanni Battista, il padre putativo di Gesù».
Un personaggio dunque che parla all’uomo di oggi. «Penso di sì perché si tratta di un uomo umile che si fa custode dell’infanzia di Gesù. Riguardando certe istantanee del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini ciò che più colpisce di Giuseppe è che parla più con gli sguardi che con le parole. Il segreto della sua grandezza e del suo carisma risiede credo proprio in questo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PINOCCHIO E NOI, ITALIANI ED ITALIANE: IL CROCIFISSO E UN PEZZO DI LEGNO. INDIETRO NON SI TORNA. Una nota su una discussione già fatta (2003)
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
Federico La Sala
#FILOLOGIA e #ARCHEOLOGIA. L’Uomo-#Sapienza di #Ruysbroec ("nel cuore di ogni uomo un #Ecco, cioè #Vedi, guarda"), il corteo "andrologico" dei #Magi (https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_dei_Magi), e l’«uomo» di #PonzioPilato («#Eccehomo»: gr. «idou ho #anthropos»), oggi... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195 ...
in dialogo con il testo di Giorgiomaria Cornelio, Verumtamen in imagine pertransit homo, "Nazione Indiana".
FLS
Archivio Storico Ibleo
La statua di Santa Teresa d’Avila di Gian Lorenzo Bernini
di Paolo Nifosì *
La notizia di una scultura in bronzo di santa Teresa d’Avila di Gian Lorenzo Bernini è di straordinaria importanza non solo per Modica e per l’area iblea ma per la cultura figurativa siciliana ed italiana. Sorprende il fatto che di questa scultura se ne sia persa memoria nella storiografia locale ed anche nella tradizione orale della città di Modica. Si può forse spiegare che il Carrafa, lo storico del Seicento, contemporaneo al Bolle nello scrivere la sua opera su Modica non ritenne opportuno citare un’opera contemporanea per quanto - come vedremo - tesse le lodi del Bolle e che bisognerà aspettare il tardo Ottocento per una riflessione storica sulla città in un momento in cui la cultura barocca era vista in modo negativo.
Una scultura «d’opera di relevo di bronzo, fatta dal Cavalero Bernino Romano, di altizza di palmi tri in circa cm 75 centimetri), con suo piedistallo d’habbano, ottangolare, guarnito di bronzo, con l’intermedio del lapislazzaro, con otto angeletti dorati».
A volerla sono i coniugi Don Francesco Bolle Pintaflor e la moglie Eugenia, «Barona Zaprada et Padigla».
Ma chi è Don Francesco Bolle Pintaflor? Il Carrafa che è un contemporaneo del Bolle scrive che assume l’incarico di Governatore della contea nel 1649, «plenipotenziario di tutto lo Stato assai bene condusse, e con savi consigli una tal carica, che suole affidarsi per la sua grande importanza ad uomini sommi: dimostrano l’altezza di sua stirpe le insegne di cui va decorato, e quelle del di lui figlio, avendo l’uno la divisa religiosa, e militare bianca e rossa dell’ordine di San Giacomo, e l’altro la divisa di San Giovanni....a proprie spese costrusse il convento di Santa Maria delle Grazie, e quello di Santa Teresa, molti edifici ei ristorò del Castello, caduti per vecchiezza, e diede miglior forma alla città, e alle sue strade, non tralasciando di rifare molte altre fabbriche dirute... del medesimo si prestano gli alimenti ai religiosi ed agli altri dell’ordine di Sant’Agostino nel convento di San Marco, nel quale a 23 aprile 1651 venne proclamato gran maestro dell’ordine».
È Maestro razionale della Contea nel 1636 ed in quella veste da l’incarico per la realizzazione di alcuni magazzini affianco alla torre di Pozzallo. Risulta castellano del “castro di Scicli” nel 1638. Personalità ancora da studiare nel suo ruolo politico e sociale della città avrà avuto contatti significativi a Roma per poter commissionare un’opera al Bernini.
La certezza dell’esecuzione da parte del Bernini deriva oltre che dall’esplicito riferimento all’artista anche alle condizioni che il Bolle pone nel momento in ci consegna con un atto notarile la statua e cioè il fatto che non avrebbe potuto essere tolta dall’altare centrale della chiesa di Santa Maria delle Grazie per nessuna ragione e per nessuna richiesta, anche se avesse avuto l’autorizzazione del Papa, del Generale dell’Ordine carmelitano o di qualsiasi autorità civile. Un’opera che il Bolle avrà commissionato, con ogni probabilità tra il 1648 e i primi del 1649. La conferma della consegna ci è data dalla presenza della scultura negli inventari della chiesa del 1782 e del 1802. Di quella statua oggi se ne sono perse le tracce. La commissione fatta dal Bolle al Bernini di per sé stessa rilevante testimonia dell’apertura culturale che si viveva in città e per la consapevolezza del valore dell’arte contemporanea nella capitale della contea rispetto ai fermenti più vitali a Roma.
Per l’importanza della notizia trascrivo il documento di consegna dell’opera e un documento che attesta la presenza dell’opera nel 1782.
Paolo Nifosì
* Fonte: Archivio Storico Ibleo. Sito web della Società ragusana di Storia patria, 26.02.2021 (ripresa parziale).
“Virgo et Sacerdos. Idee femminili di sacerdozio tra Ottocento e Novecento” di Liviana Gazzetta
Intervista *
Dott.ssa Liviana Gazzetta, Lei è autrice del libro Virgo et Sacerdos. Idee femminili di sacerdozio tra Ottocento e Novecento pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura: in che modo, a cavallo tra ’800 e ’900, soprattutto in Francia e Italia, si pose il problema del ruolo femminile nel sacerdozio cattolico?
È noto che la questione del diaconato e del sacerdozio femminile si affaccia con chiarezza nella Chiesa della fase conciliare e, ancor più, postconciliare, a partire quindi dagli anni ’60 del XX secolo. Ciò che però emerge da questa ricerca è che anche prima della fase conciliare si è espresso un desiderio, o meglio, un’aspirazione femminile al sacerdozio: è nella devozione alla Vergine Sacerdote (Virgo sacerdos), che si sviluppò in particolare tra le figlie del Cuore di Gesù a cavallo tra ‘800 e ‘900, che si può mostrare l’esistenza di una domanda latente di sacerdozio. Si tratta di una via che definirei di natura cultuale e mariologica al sacerdozio femminile, dove l’aspirazione era espressa sotto il segno della vocazione, e non della rivendicazione, della dedizione e non della pretesa di spazi. E fu questa via a preoccupare la Chiesa ben prima che negli anni ’60 venisse ad essere ufficialmente sollevata la questione dell’ordinazione femminile.
Come si sviluppò la devozione alla «Vierge Prêtre?
La devozione alla «Vierge Prêtre» o «Virgo sacerdos» si sviluppò in special modo (ma non solo) nella congregazione delle figlie del Cuore di Gesù, fondata nel 1872 da Marie Deluil-Martiny e approvata nel 1902 da Leone XIII: un ordine contemplativo, nato all’incontro di complesse matrici spirituali, centrate sull’oblazione eucaristica, la riparazione dei peccati e l’imitazione di Maria al Calvario o -per usare le parole della stessa fondatrice- sullo spirito eucaristico, lo spirito di vittima, lo spirito sacerdotale.
Il titolo di «Virgo Sacerdos» era entrato apertamente nella liturgia cattolica a partire dal 1709, quando presso il seminario di Saint Sulpice si era cominciato ad utilizzare con regolarità, per la festa della Presentazione al tempio, un inno dei Vespri che lo conteneva. Tale festa era qui diventata la celebrazione per eccellenza della spiritualità sacerdotale e della devozione a Maria, costituendo anche il momento della rinnovazione pubblica della professione per i membri della congregazione di San Sulpizio, oltre che festa del seminario. Se nei secoli precedenti Maria era stata al centro soprattutto di una riflessione teologica e filosofica, ora la via al sacerdozio mariano era tutta spirituale e in alcuni casi misticheggiante: Maria era il modello del prete concepito come culmine delle virtù religiose, sempre più interpretata come riferimento contro ogni forma di degenerazione nella vita del clero.
La spiritualità e la devozione alla «Virgo Sacerdos» o «Vierge Prêtre» fu dunque ereditata dalla scuola francese del ‘700. All’interno di una più complessa elaborazione spirituale, l’aspettativa della madre Maria di Gesù (questo il nome assunto in religione dalla Deluil Martiny) era che si realizzasse il tempo in cui i preti avrebbero adempiuto pienamente il loro ministero, nella purezza e nella perfezione di vita che le sembrava mancare attorno a sé; le sue ‘figlie’ dovevano essere come delle vittime che, in analogia a Maria ai piedi della croce e accanto al ‘discepolo amato’, sostenessero i sacerdoti nella loro missione e si immolassero per riparare l’indegnità dei membri del clero.
Nel 1906 le religiose chiesero di poter usare l’appellativo di «Vierge Prêtre» nei riti del proprio istituto e Pio X accolse la richiesta, facendo stendere una preghiera che fu poi arricchita di indulgenze; lo stesso papa concesse nel 1910 che nelle cappelle dell’istituto si potesse aggiungere alle litanie mariane l’invocazione «Virgo Sacerdos, ora pro nobis». Le religiose fecero allora produrre anche delle immagini collegate alla devozione: immagini che raffiguravano la Vergine, abbigliata in vesti sacerdotali, che al di sopra del globo terrestre schiacciava il serpente con le braccia alzate verso il cielo.
Come si è articolata storicamente la riflessione teologica sul tema del sacerdozio di Maria?
Il tema del sacerdozio di Maria percorre un po’ tutta la storia della cristianità. In origine il titolo di «sacerdos» attribuito alla Vergine è attestato nell’ambito della tradizione omiletica: nel contesto, cioè, di un genere letterario, sviluppatosi nella cultura greca tra VII e IX secolo, in cui si usavano metafore e immagini che stabilivano un rapporto tra Maria e l’Eucarestia, o che riconoscevano un ruolo attivo della Madonna nel donare il pane di vita grazie al suo ruolo materno, anche se va detto che gli omelisti usavano idee e suggestioni che difficilmente possono essere ricondotte a concetti: alla base di questa tradizione, ad esempio, stava l’autorità dello Pseudo Epifanio, che attribuiva a Maria il valore di tavola, di altare e di prete.
Nel Medioevo l’idea del sacerdozio della Vergine conosce un significativo sviluppo sul piano teorico. Una delle vie filosofico-teologiche attraverso cui tra Alto e Basso Medioevo è possibile parlare di sacerdozio mariano è costituita dalla diffusione delle idee dello Pseudo Dionigi. Poiché nella prospettiva sincretistico-neoplatonica di questo autore (e dei molti suoi seguaci) la relazione tra i diversi ordini di realtà si pone in chiave gerarchica, ciò induce inevitabilmente a collocare la Vergine in una posizione di primato nei confronti delle gerarchie della Chiesa (e non di rado anche di quelle angeliche). Chi contribuisce in modo determinante in questa direzione è l’autore come lo Pseudo Alberto Magno: il suo Mariale super missus est in più punti sostiene che la pienezza conferita nell’ordinazione sacerdotale appartiene anche a Maria, anche se non la riceve con apposito sacramento, e lascia intendere che non esiste nessuna motivazione - neppure l’inferiorità indiscussa del sesso femminile - per fondare la sua esclusione dal sacerdozio.
In età moderna, oltre e più che la via dottrinale, si è profilata una ‘via al sacerdozio’ della Vergine di natura più propriamente devozionale e spirituale. Questa declinazione si manifesta in un sentimento del legame speciale tra il prete e la Vergine, in un ricorso particolare del sacerdote alla mediazione di Maria nelle funzioni sacramentali: quasi una somiglianza, un’imitazione particolare della Madonna ad opera del prete, che avvia la tradizione delle messe offerte secondo le intenzioni di Maria e la pratica della rinnovazione delle promesse sacerdotali in concomitanza con le feste mariane. Soprattutto all’interno della scuola francese (in primis il seminario di san Sulpizio) si sostiene che Maria ha una sovranità sugli apostoli che non le deriva tanto da una precisa giurisdizione, sempre ritenuta sconveniente al sesso femminile, ma dalla pienezza dello spirito e della grazia: ciò che la rende, dopo l’Ascensione, non il capo dotato di autorità sulla Chiesa, ma il cuore della comunità dei credenti.
Quali vicende segnarono l’indagine inquisitoriale cui fu sottoposto l’ordine delle Figlie del Cuore di Gesù della Deluil Martiny?
Dimostrando di temere soprattutto le conseguenze della devozione sul piano pastorale, per l’associazione tra figura femminile e titolo di sacerdote che essa comportava, il Sant’Uffizio impose una drastica censura alle figlie del Cuore di Gesù e alle loro iniziative. A partire dal 1912 l’ordine venne sottoposto a più riprese all’esame del Sant’Uffizio, che con tre interventi successivi nel 1913, 1916 e 1927 vietò dapprima le immagini, quindi le forme devozionali alla Vergine sacerdotale che vi erano state sviluppate; nel 1927 una lettera del cardinal Merry Del Val, segretario della Suprema, precisò che tale devozione non era approvata e non poteva essere propagata in nessuna forma. Nonostante non riguardassero la dottrina della partecipazione di Maria al sacerdozio in sé, tali interventi hanno quasi oscurato un’intera tradizione teologico-spirituale sul tema del sacerdozio della Vergine, che per secoli ha attraversato cristianesimo e il cattolicesimo occidentali.
Il Sant’Uffizio affermò che, se da un punto di vista dottrinale non si poteva non attribuire a Maria il titolo di mediatrice nella salvezza, e quindi di sacerdote, non era però conveniente farne uso, soprattutto se a farlo erano delle donne. Le conseguenze della devozione considerate più riprovevoli erano quelle che stabilivano un’associazione tra figura femminile e sacerdozio: perché cioè con il culto alla «Vierge Prêtre» le religiose potevano, da una parte, prefigurarsi quasi come delle sacerdotesse (e magari accreditare queste convinzioni presso i fedeli); dall’altra, proporsi come riparatrici degli errori del clero.
Dopo la bufera d’inizio secolo, nel 1989 la famiglia religiosa ha visto concludersi il processo di canonizzazione della fondatrice, proclamata beata da papa Giovanni Paolo II.
In che modo la vicenda del culto alla Virgo sacerdos offre spunti per il dibattito attuale intorno al divieto alle donne all’esercizio del ministero sacro?
Sul piano spirituale emerge il circuito virtuoso che già tra ‘800 e ‘900 poteva crearsi, in determinati settori del cattolicesimo femminile, tra una soggettività consapevole di sé e il modello della Vergine corredentrice: un circuito che può ‘ispirare’ ancor più oggi, a fronte di una crescita esponenziale dell’autonomia e dell’autorevolezza femminile nella vita ecclesiale.
Sul piano storico la vicenda mostra un protagonismo femminile fin qui insospettato, connesso sia all’esigenza di un maggior ruolo nell’accesso al sacro, sia alla richiesta di una profonda riforma ecclesiale. In essa emerge quanto diffusa e radicata fosse la preoccupazione per l’inadeguatezza del clero maschile tra le nuove fondazioni femminili nel primo ‘900, mentre nei procedimenti inquisitoriali emerge un altrettanto diffuso fastidio nei loro confronti. Sul piano storiografico la ricerca indica che la cosiddetta femminilizzazione del cattolicesimo, che interessa l’età contemporanea, porta con sé un’ambivalenza e una conflittualità strutturali. Se dalle spinte per un maggiore coinvolgimento femminile contro i ‘nemici’ della Chiesa si passava all’idea di una comunanza d’azione delle religiose col clero, si usciva dai confini prescritti alle donne e si poteva incorrere nell’interdizione; ed evidentemente lo sconfinamento risultava tanto più grave in quanto veicolato attraverso l’identificazione con Maria corredentrice. In sostanza si evidenzia come all’interno della Chiesa i rapporti tra i sessi non siano meno conflittuali che negli altri ambiti della società, e ciò nonostante la Chiesa si appelli ricorrentemente al contributo o al ‘genio’ femminile.
Nei fenomeni qui ricostruiti, infine, si comprende come la domanda femminile di sacerdozio possa espressa sotto il segno della vocazione e non della rivendicazione di un diritto, della dedizione di sé e non della protesta: un’offerta cui la Chiesa non riesce ancora a rispondere anche perché (si pensi che alla dichiarazione Inter insigniores) si confondono di fatto questi due piani.
Liviana Gazzetta è dottore di ricerca in Storia sociale europea (presso l’Università Cà Foscari di Venezia), socia del Coordinamento Teologhe Italiane e presidente dell’Istituto per la storia del Risorgimento di Padova. I suoi interessi di studio e la sua attività di ricerca si sono sviluppati nell’ambito della storia dei movimenti delle donne in età contemporanea; su questi temi ha pubblicato molti articoli e alcune monografie, l’ultima delle quali è Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia 1865-1925, Roma 2018.
* Fonte: Letture.org.
«Ambizioncella muliebre»: sul titolo sacerdotale mariano
di Daniele Menozzi, Storico (Il Regno, Re-blog, 2 Febbraio 2021)
La proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione nel 1854 è stata interpretata come un «evento strutturante» nella storia del cattolicesimo contemporaneo. Ha in effetti avuto diverse conseguenze di rilievo. A esse si può ascrivere anche l’avvio della discussione, non ancora conclusa all’interno della Chiesa, sul sacerdozio femminile. Claude Langlois - il noto studioso della femminilizzazione del cattolicesimo ottocentesco, che per primo ha colto il nesso tra la valorizzazione della figura di Maria derivante dalla dichiarazione del suo concepimento senza peccato e la manifestazione del desiderio femminile per il sacerdozio - ha poi mostrato come l’aspirazione al ministero, chiaramente formulata da Teresa di Lisieux nel 1896, fosse condivisa anche da altre personalità del panorama religioso di fine Ottocento. Tra queste indicava Marie Deluil-Martiny, nata nel 1841 a Marsiglia da una famiglia aristocratica, fondatrice nel 1872 della congregazione delle Figlie del Sacro Cuore a Berchem presso Anversa, uccisa nel 1884 da un anarchico che era stato suo giardiniere e beatificata nel 1989 da Giovanni Paolo II.
Avvio della discussione sul sacerdozio femminile
L’attenzione della suora francese al tema è ora analizzata da Liviana Gazzetta, autrice di diverse opere sulla storia del movimento cattolico femminile. Il volume Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento (Edizioni di storia e letteratura, Roma 2020), pur non potendo contare sull’insieme degli scritti di Deluil-Martiny, ancora inaccessibili per il processo di canonizzazione, si è potuto valere, oltre che di quanto già pubblicato, della serie documentaria «Devotiones variae» depositata presso l’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede (Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2020). L’opera si presenta, più che sotto forma di una ricostruzione organica, come una serie di affondi successivi che sviluppano e approfondiscono alcune ipotesi di lavoro. Nonostante l’apparente frammentarietà e qualche ripetizione, il libro non solo risulta di straordinario interesse per una questione, il sacerdozio femminile, di bruciante attualità ecclesiale, ma anche del tutto persuasivo nei suoi, per quanto provvisori, esiti conoscitivi.
Il titolo di Virgo sacerdos.
Filo conduttore della ricostruzione è la declinazione tra Ottocento e Novecento del richiamo a Maria col titolo di Virgo sacerdos. Il sintagma, di origine patristica, trova nel Medioevo una duratura sistemazione dottrinale sulla base della pregiudiziale premessa dell’impedimentum sexus per l’accesso al sacerdozio. L’appellativo comporta l’attribuzione alla Vergine non del carattere sacerdotale, che appartiene esclusivamente a chi ha ricevuto l’ordine e detiene quindi il potere di sacrificio; bensì dello spirito sacerdotale. Maria possiede, in grado eminente rispetto a ogni creatura, questo attributo che condivide peraltro con tutti i battezzati in quanto comporta soltanto la capacità di rendersi vittime, ostie immolate per la salvezza del mondo.
In questa chiave la locuzione entra nella liturgia fin dal XVIII secolo, ma nella seconda metà dell’Ottocento diverse opere di ecclesiastici attivi nel prorompente movimento mariano inseriscono la distinzione in una più ampia interpretazione teologica della figura della Vergine. Gli episodi centrali della sua vita - generazione di Cristo, purificazione al Tempio, presenza sotto la croce - sono letti come una compartecipazione all’offerta al Padre della vittima divina che la portano ad assumere, sia pure in grado diverso, i titoli stessi del Figlio: mediatrice, corredentrice e sacerdote. Questa letteratura alimenta la spiritualità di Deluil-Martiny e del gruppo riunito attorno a lei, in particolare di Elise Le Vassor de Sorval, che, succedendole nella direzione della congregazione, la sviluppa con notevolissime capacità organizzative e politiche.
Maria con la dalmatica
Si tratta di una ricezione creativa che si fonda sulla comune adesione all’egemone cultura intransigente. Ne è infatti punto di partenza la prospettiva di riconquista cristiana di una società moderna che si è sottratta alla direzione ecclesiastica. Di fronte alla costatazione dell’inadeguatezza del clero nella lotta in corso per la restaurazione della cristianità, si definisce un carisma specifico dell’istituto religioso: l’offerta vittimale in riparazione degli errori e dell’insufficienza dei sacerdoti. Il riferimento alla Virgo sacerdos ne è la sintesi spirituale, simbolica e devozionale. Lo mostrano i testi delle preghiere in uso nella congregazione; le immagini devozionali in cui Maria, in piedi sul globo, indossa sopra la tunica la dalmatica mentre schiaccia la testa del serpente (all’epoca generalmente identificato con la rivoluzione anticristiana); l’abito delle suore che ripropone la pianeta dei preti.
Aspirazione a un ministero sacerdotale
Nel discorso pubblico delle appartenenti alla congregazione la generale interpretazione della figura di Maria come paradigma esemplare per stabilire il ruolo femminile nella Chiesa si applica anche alla funzione sacerdotale attribuita alla Vergine. Per questa via esse esprimono l’esigenza di un protagonismo ecclesiale della donna che ne affermi la parità senza metterne in questione la diversità. Ma i loro documenti privati lasciano chiaramente trasparire qualcosa di più: l’aspirazione all’esercizio di un ministero sacerdotale che le donne saprebbero svolgere in modo più degno e più adeguato ai bisogni dei tempi. Pur senza una specifica denuncia, il Sant’Uffizio - che aveva preso in esame una prima volta tra il 1838 e il 1842 il tema della Virgo sacerdos, senza assumere in merito alcuna decisione - avverte nelle pratiche dell’istituto un pericolo per l’ortodossia.
Da Roma concessioni poi revocate
Inizialmente Roma era stata larga di concessioni. Dopo il riconoscimento di Leone XIII, nel 1906 la congregazione aveva ottenuto da Pio X di inserire una menzione alla Vierge prêtre nelle preghiere della congregazione, ben presto arricchite di indulgenze. Poi nel 1910 il pontefice aveva concesso che nelle litanie mariane le religiose aggiungessero l’invocazione Virgo sacerdos, ora pro nobis. Provvedimenti assai significativi, perché in quegli stessi anni papa Sarto taglia corto sulle istanze di emancipazione femminile presenti nella comunità ecclesiale, escludendo le donne dal canto sacro e imponendo che non prendano la parola nelle assemblee del movimento cattolico. Ma il Sant’Uffizio, nel 1913 - ma renderà pubblica la decisione tre anni dopo - revoca tutte le precedenti concessioni e vieta l’uso dell’immagine devozionale che aveva avuto anche una traduzione pittorica in un’opera di Silverio Copperoni.
Le preoccupazioni del consultore
Opportunamente Gazzetta pubblica in appendice al libro il parere del consultore, il domenicano Giovanni Lottini, che spiega le motivazioni della decisione. Pur dicendosi sicuro che le religiose non abbiano la pretesa di proclamarsi sacerdotesse, afferma che, qualora non siano per tempo fermate, «mosse da una certa ambizioncella muliebre, queste donne giungeranno a darsi detto titolo ed a chiedere e forse con le loro femminee arti a strappare anche qualche approvazione». Il riconoscimento dell’abilità di chi governa la congregazione nel promuoverne il carisma sul piano istituzionale si traduce nell’individuazione delle misure per bloccarne le iniziative. Il domenicano sostiene quindi che, per quanto storicamente fondato e dottrinalmente irreprensibile, il riferimento alla Virgo sacerdos deve essere interdetto dalle pratiche religiose. Sottolinea in particolare che negli istituti femminili l’infima cultura teologica delle donne - evidentemente ritenute incapaci di distinguere tra ordine e spirito sacerdotale - potrebbe facilmente indurre a costruire su questa devozione pretese al ministero. Suggerisce perciò che la venerazione a Maria venga promossa sotto il titolo di madre, anziché sotto il titolo di sacerdote.
Una rimozione definitiva
Nel 1927 il segretario del Sant’Uffizio, cardinal Merry del Val, in risposta a una domanda apparsa su La Palestra del clero, conferma in una pubblica lettera che attorno al titolo sacerdotale mariano occorre mantenere completo silenzio. Poco dopo una revisione della costituzione delle Figlie del Sacro Cuore ne formalizza la rimozione dalla vita interna dell’istituto. In realtà collegamenti con il tema della Virgo sacerdos riemergono in comunità religiose - in primo luogo i Figli del Cuore sacerdotale di Gesù, oggi noti come padri Venturini dal nome del fondatore - e in pii sodalizi, come le Figlie della Regina degli angeli fondata da Elena da Persico. In effetti la loro spiritualità si alimenta alle stesse fonti dell’istituto franco-belga. In questi casi il richiamo all’imitazione di Maria consente di superare la visione di un mero ruolo oblativo delle donne nella Chiesa, ma non si traduce, almeno a livello delle testimonianze a oggi accessibili, in manifestazioni di aspirazioni ad un ruolo ministeriale.
Gli interventi dei papi nel post-concilio
Nel post-concilio, al momento in cui affiora nuovamente e con più forza, sulla spinta del rinnovamento ecclesiale, la questione del sacerdozio femminile, gli interventi del papato - come mostrano l’esortazione apostolica Marialis cultus emanata da Paolo VI nel 1974 e la lettera apostolica Mulieris dignitatem pubblicata da Giovanni Paolo II nel 1988 - lo hanno nuovamente collegato al ruolo idealtipico di Maria per la definizione della posizione ecclesiale della donna. Il riferimento mariano è stato però utilizzato per ribadire l’impedimentum sexus al sacerdozio femminile. La vicenda della congregazione delle Figlie del Sacro Cuore, oggi restituita alla memoria ecclesiale dalla ricerca storica, per quanto ancora bisognosa di approfondimenti, fornisce un prezioso aiuto per contestualizzare, e quindi relativizzare, questi interventi papali.
Per superare i blocchi alla discussione
Non solo perché essi appaiono ancorati a una mariologia riduttiva rispetto a una tradizione più ricca e articolata, che era stata rimossa dalla vita ecclesiale all’inizio del Novecento in seguito agli evidenti condizionamenti storici che caratterizzavano la visione dei rapporti di genere dei membri del Sant’Uffizio. Soprattutto perché i documenti papali rivelano i limiti di una decisione determinata da un clima ecclesiale in cui si riteneva necessario ribadire la natura teandrica della Chiesa in contrapposizione alla rivendicazione del diritto delle donne ad accedere al ministero. Il contesto ha fatto dimenticare che l’aspirazione al sacerdozio femminile non si era storicamente espressa in termini giuridici e rivendicativi; ma, fondata sull’adeguamento alle necessità dei tempi del tradizionale richiamo al carattere mariotipico della presenza femminile nella Chiesa, si era sviluppata su un terreno vocazionale, spirituale e cultuale. Ricollocare su questa piano la discussione, può aiutarne a superarne i blocchi.
#ANTROPOLOGIA #FILOSOFIA #ARTE. IL #CANTICODEICANTICI E LE #DUEALI DELLA CELESTE #MUSICA.
#Caravaggio: #MariaeGiuseppe con il loro #figlio in un momento di "#Riposo durante la #fugainEgitto"
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#ARCHEOLOGIA #FILOSOFIA #FILOLOGIA #ARTE, #OGGI, NELL’ANNO #DANTE2021: "#AMORE è più’ FORTE DI #morte (Ct. 8.6).
FLS
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Patristica. Sant’Ambrogio e i troppi Naboth dei nostri giorni
La grande attualità del vescovo di Milano è confermata dalla ripubblicata omelia dedicata al vignaiolo biblico vessato dal re Achab. Denuncia durissima contro i ricchi, potenti e sfruttatori
di Alessandro Capone (Avvenire, giovedì 28 gennaio 2021)
«La terra è di tutti, non solo dei ricchi, ma quelli che possono utilizzare ciò che appartiene loro sono assai pochi rispetto a chi non può farlo». Queste parole, che potremmo pensare di papa Francesco, sono in realtà del vescovo di Milano Ambrogio, il quale negli ultimi anni della vita scrisse un omelia su La storia di Naboth, appena pubblicata a cura di Domenico Lassandro e Stefania Palumbo (Loescher, pagine 336, euro 45,00), all’interno della giovane, ma molto promettente, serie patristica della Corona Patrum Erasmiana, promossa dal Centro europeo di studi umanistici ’Erasmo da Rotterdam’ di Torino sotto gli auspici di Renato Uglione.
Nell’opera Ambrogio trae spunto dalla vicenda dell’israelita Naboth (1 Re 21), che aveva una vigna vicino al palazzo del re Achab, il quale, spinto dalla brama di possesso, ordinò a Naboth di cedergli la sua vigna in cambio di un’altra o di denaro. Nulla poté Naboth, che rifiutò di obbedire perché quella vigna era eredità dei suoi padri: per mezzo di un inganno ordito dalla moglie del re, egli fu accusato di bestemmia e lapidato.
La vicenda di Naboth rappresenta il filo conduttore di tutto il testo ambrosiano e consente al vescovo di Milano, il quale oltre che sull’esperienza episcopale poteva far leva anche su quella di politico, di presentare una lucida denuncia del dramma dei poveri del suo tempo, di cui ci offre qualche vivido esempio. Egli infatti si sofferma sui sacrifici di vite umane per soddisfare la fame dei ricchi: uno cade dalla sommità di un tetto per preparare granai più ampi; un altro precipita dalla cima di un albero, mentre ispeziona i tipi di uva; un altro annega in mare per procurare pesci e ostriche... Vengono in mente i sempre attuali ’incidenti sul lavoro’, come osserva Lassandro, ma ancor di più la folla di uomini sfruttati e venduti, di turoldiana memoria, sparsi in tutto il mondo e asserviti a un lavoro mortale utile solo per il godimento di una minoranza.
E ancora il padre, di cui Ambrogio si professa testimone oculare, costretto a vendere all’asta i propri figli per rinviare la pena a cui era condannato per la mancanza di vino sulla tavola del potente. Di questo padre il vescovo descrive la tempesta interiore e la disperazione infinita e denuncia la situazione innaturale a cui l’uomo è costretto: «Come potrei dunque discernere tra i sentimenti della natura, come potrei dimenticarli, come potrei spogliarmi dei sentimenti di un padre?».
È evidente che lo scopo di Ambrogio non è di proporre semplicemente un’interpretazione del sopruso sofferto da Naboth, ma principalmente di sottolineare la necessità di rendere concreta ed efficiente una giustizia sociale basata sui valori evangelici.
Il testo ambrosiano rappresenta dunque la testimonianza drammatica di una società in cui i rapporti economici hanno conseguenze devastanti su quelli umani e sociali e allo stesso tempo propone il manifesto e l’auspicio di una società più equa e solidale, in cui il bene sia realmente, secondo la legge di natura, comune e non a vantaggio di un’élite: «Per tutti è stato creato il mondo, quel mondo che invece voi pochi ricchi tentate di rivendicare solo per voi».
Le parole del vescovo rappresentano pertanto un messaggio perennemente rivoluzionario, che ha conquistato personalità come Concetto Marchesi, Ernesto Buonaiuti e David Maria Turoldo, che nel duomo milanese in una sua predica lesse, senza riferire il nome dell’autore, alcuni passaggi proprio del testo ambrosiano, suscitando profondo scandalo e vibrate proteste dell’uditorio.
Un messaggio scomodo ancora oggi e in perfetta consonanza con quanto papa Francesco ha scritto al punto 120 dell’Enciclica Fratelli tutti: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI.
FLS
Dialogo interreligioso.
Ebrei e cristiani: l’amicizia è il segno dei profeti
È dedicato a Elia e ai suoi “colleghi” il secondo volume della “Bibbia dell’amicizia”, un commento del testo comune da parte di studiosi di entrambe le fedi
di Riccardo Maccioni ( Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Le relazioni vere per crescere hanno bisogno di attenzione. E di rispetto. Non basta parlare, occorre imparare l’ascolto, il confronto con opinioni diverse, per così dire il “vocabolario” dell’incontro. Senza per questo rinunciare a quel che si è. Vale nel “privato” di ciascuno così come, fatte le debite differenze, per il dialogo tra le fedi, che spesso matura anche grazie ai rapporti personali, al tu per tu. Uno stile che è tra gli aspetti originali di La Bibbia dell’amicizia di cui è stato da poco pubblicato il secondo volume (San Paolo, pagine 384, euro 30,00) dedicato ai Neviim/Profeti.
Il progetto, avviato due anni fa, rappresenta una novità nel panorama italiano. E non solo. Si tratta di un commento alla Bibbia scritto insieme, a più mani, da ebrei e cristiani. Con lo scopo, non di arrivare a una lettura unificata, ma «di conoscersi meglio e di conoscere meglio le rispettive interpretazioni, accettando che possano essere diverse». La pubblicazione - hanno scritto i due curatori, Giulio Michelini e Marco Cassuto Morselli, (presidente della Federazione delle Amicizie ebraico-cristiane in Italia, già docente di filosofia ebraica e storia dell’ebraismo) - nasce «da due realtà: l’amore per il Davar (la parola di Dio) e l’amicizia tra ebrei e cristiani».
Per la prima volta, spiega padre Michelini ordinario di esegesi neotestamentaria e preside dell’Istituto teologico di Assisi, «si commentano insieme dei libri della tradizione ebraica e poi cristiana in modo così sistematico e rilevante. Finora avevamo pubblicazioni anche molto ricche a due voci, ma di un solo libro, mai era successo che nel complesso dei volumi (stiamo preparando il terzo) 150 tra ebrei e cristiani lavorassero insieme per commentare una tale mole di pagine». Nuovo anche lo stile. «La forma più tradizionale, quella di leggere a due voci lo stesso brano, avrebbe potuto dare un’idea di contrapposizione, abbiamo preferito una metodologia che desse spazio all’interpretazione dell’altro».
L’iniziativa è nata durante uno degli ormai tradizionali colloqui di Camaldoli. «L’idea è venuta a me, poi è andata avanti con Marco Cassuto Morselli. A darmi grande forza, a fare da volano, sono stati, oltre agli studi, in particolare un Master a Gerusalemme, gli esercizi spirituali tenuti al Santo Padre (nel 2017, ndr) che mi hanno permesso di avere credito presso i colleghi. Questo progetto infatti nasce nell’assoluta gratuità, i collaboratori non hanno chiesto e ricevuto nulla e anche grazie alla Cei che ha coperto parte delle spese».
Nessuno comunque si è tirato indietro. «Tutti quelli che abbiamo interpellato - aggiunge Michelini - hanno accettato e molti si sono offerti di collaborare anche al terzo volume. Perché hanno capito che non è solo un’operazione esegetica ma culturale, direi anche politica, da polis, nel senso di casa comune, in cui dobbiamo e possiamo vivere insieme, accettando l’interpretazione dell’altro». Il ventaglio dei commentatori è molto ampio. «Ci sono i maggiori studiosi italiani ma abbiamo voluto anche una selezione di accademici a livello internazionale. Così nel prossimo volume avremo un contributo della Notre Dame University, la più importante università cattolica degli Usa. L’operazione, ripeto, non è commerciale, chi scrive non guadagna niente, ma di servizio, per questo abbiamo avuto l’appoggio anche di diversi vescovi. Per esempio nel prossimo volume monsignor Nazzareno Marconi commenterà Qohelet, il libro al centro anche dell’odierna Giornata per il dialogo tra cattolici ed ebrei».
L’uscita del primo volume è stata salutata da un successo persino inatteso. «La considero un’opera che va al di là delle capacità mie e di Marco. Ci ha molto aiutato la prefazione al primo volume di papa Francesco, avere un contributo così significativo ci ha incoraggiati, testimonia che questo lavoro va avanti da sé».
I volumi, come detto, raccolgono pagine scelte, compongono un’antologia. In particolare in questa seconda pubblicazione cinquantadue studiosi si soffermano sui Neviim/Profeti, ossia sui libri storici e profetici. «Sì, secondo il modo degli ebrei di considerarli e di dividere la Bibbia, il che ci fa cogliere una prospettiva diversa che viene semplicemente dall’indice, si potrebbe dire». Una prospettiva che si cala perfettamente nel significato della Giornata del 17 gennaio. «“Bibbia dell’amicizia” vuol dire che per conoscersi meglio, bisogna fare cose insieme. Il progetto, se si vuole, nasce dal Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, nel 2015, quando il Papa sottolineò che solo progettando e lavorando insieme si può costruire un dialogo con chi è diverso da noi. E non è facile. Nel nostro caso ogni decisione viene presa in due, da me e Marco, e possono esserci tensioni e discussioni. Si pensi alla questione, che ci ha preso ore e ore, del nome di Dio, su come scriverlo. Lavorare insieme però ci ha permesso di creare una relazione, ed è stato importante».
Se amicizia è la parola chiave, forse il concetto che meglio l’accompagna è ascolto, ascolto dell’altro. «Esatto, che non significa perdere la propria identità, perché non è che se leggo l’interpretazione dell’altro devo considerare sbagliata la mia. In questo senso insieme a un grande rispetto e a una grande apertura mentale c’è bisogno di una forte coscienza della propria identità. Non è tutto uguale, infatti. Basta leggere quello che scrive un amico rabbino, Jack Bemporad, sul servo sofferente, che per noi cristiani è Gesù Cristo mentre lui nella sua bella trattazione spiega che per gli ebrei è Israele. Cosa fare di fronte a una posizione così diversa dalla mia? Mi chiudo? O mi domando perché gli ebrei pensano così? Se scelgo la seconda possibilità imparo qualcosa senza per questo rinunciare alla mia posizione: io continuerò a vedere in quel servo sofferente Gesù Cristo. E gli ebrei il popolo di Israele».
San Giovanni della Croce
2020
di Saverio Cannistrà, ocd *
Carissimi,
permettete che in questa celebrazione mi rivolga in modo particolare ai nostri fratelli che stanno per dire il loro sì definitivo al Signore nel Carmelo Teresiano: a Justin delle Filippine, a John del Vietnam, a Domenico Savio della Corea, a Lukhirma e Jigneshkumar dell’India e a Jean Pierre del Madagascar. Le vostre persone, la vostra vocazione, la vostra presenza qui a Roma per compiere la scelta decisiva della vostra vita parlano molto di più delle mie parole. Ci dicono che il Carmelo teresiano è vivo, che il Santo di cui oggi celebriamo la festa non è solo una grande figura del passato, ma un modello di vita cristiana e religiosa, che giovani di oggi, provenienti dalle regioni più diverse del mondo, si sentono chiamati a imitare. E ciò non può non riempirci di gioia e di speranza,ma al tempo stesso ci chiede di saper leggere questi segni per rispondere adeguatamente alla grazia e all’amore fedele di Dio. È la nostra vocazione, quella che questi nostri fratelli vogliono vivere, la nostra maniera di stare con il Signore, di essere fratelli, di testimoniare e annunciare il Vangelo.
Ciò che ci unisce è certamente molto di più e molto più profondo di ciò che ci distingue: le culture, le lingue, i contesti sociali, gli stili di vita delle diverse circoscrizioni. Del resto, in un mondo globalizzato e fittamente interconnesso, come il nostro, le tradizionali diversità - con la loro ricchezza e complessità - sembrano lasciare il posto a una condizione omogenea, che ci appiattisce su una sola dimensione, quella economica. Diventiamo tutti uguali, in quanto produttori e consumatori, ma non per questo “fratelli tutti”, per riprendere l’incipit dell’ultima enciclica di papa Francesco.
Sempre di più la fraternità non è un dato, non è una condizione acquisita, ma un traguardo verso il quale camminare, sapendo che si tratta di un cammino in salita e controcorrente, che richiede molta fermezza, una chiara e forte motivazione, capace di resistere alle tendenze e tentazioni contrarie, che ci ricacciano nell’isolamento di una mentalità che tutto trasforma in oggettida possedere e consumare.
Voi, cari fratelli, state per fare la professione solenne. Tra qualche tempo sarete ordinati diaconi, poi presbiteri, comincerete a svolgere il vostro lavoro pastorale.Tutto ciò è bello, è una ricchezza che potrà far crescere voi e tante persone che vi incontreranno.
Ma da dove prenderà luce la vostra mente? da quale tensione sarà mossa la vostra volontà? da che cosa farete dipendere la vostra gioia e da che cosa la vostra tristezza? Per chi farete tutto questo? Non so se vi siete posti queste domande. Non so neppure se ve le porrete nei primi anni del vostro ministero. Sono forse domande che ci si pone quando si è un po’ più avanti negli anni, quando non si è più preoccupati di realizzare qualcosa, ma ci si confronta seriamente con ciò che si è o si è diventati. Oppure, quando accadono nella vita eventi sconvolgenti che ci costringono a porci domande di questo tipo.
La pandemia che stiamo vivendo può essere uno di questi eventi, con le restrizioni a cui ci obbliga, con la cancellazione dei nostri programmi e l’incertezza che regna sovrana sul nostro presente e sul futuro immediato. La pandemia è un fatto eccezionale, ma esistono fatti ben più frequenti e ordinari che ci mettono a prova, che saggiano la tenuta del nostro essere ministri ordinati, religiosi, cristiani e arrivano fino alla carne.
Sapete che nella tradizione del Carmelo uno dei simboli usati è quello della freccia infuocata, l’ignea sagitta. La grazia di Dio assume a volte questa forma di una freccia che perfora scudo, corazza, maglia ferrata e giunge a toccare la carne, ed è in questo contatto con la carne che il nostro cammino conosce una svolta, inizia una nuova tappa, un procedere che va più a fondo e più in alto.
Miei cari fratelli, nel pronunciare tra poco i vostri voti definitivi, sappiate che non state concludendo un ciclo di formazione, specialmente intellettuale, dopo il quale verrà l’esercizio autonomo di un’attività professionale, dalla quale ricevere prestigio e guadagni. Voi, nel dire che vi donate con tutto il cuore a questa famiglia iniziata da santa Teresa, voi scegliete di diventare nient’altro che fratelli scalzi della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo.
Chi di noi può dire di sapere oggi a che cosa esattamente assomiglia la vita di un fratello scalzo di Maria, qui a Roma o in India o in Vietnam o in Madagascar onei tanti altri luoghi in cui il Carmelo teresiano è presente? Esternamente, non c’è dubbio che vi troverete di fronte a situazioni molto diverse. Ma interiormente, credo proprio che i pericoli e le opportunità non saranno poi così differenti.
Un padre di questa comunità del Teresianum qualche giorno fa, parlando di San Giovanni della Croce, usava una bella immagine: colorare le pareti della propria mente. Tutto dipende da questo: di quali colori dipingerete le pareti non della vostra stanza o del vostro ufficio, ma della vostra mente, della vostra anima? E aggiungerei che per scegliere i colori giusti, quelli di una vita teologale, i colori della fede, speranza e carità, bisogna combattere e resistere ai colori che quasi automaticamente si stendono sulle nostre pareti più interiori, i colori, come direbbe Giovanni della Croce, del mondo, della carne, del diavolo.
Se non ci sarà un discernimento acuto e costante, un confronto aperto e sincero con le persone che il Signore ci ha messo accanto, come fratelli e come padri, se non ci sarà tempo e spazio per il silenzio e l’ascolto del Dio vivo nella propria interiorità, siate pur certi che le vostre menti saranno colorate e arredate secondo i desideri e le aspettative del mondo, anche se di un mondo rivestito di paramenti liturgici e risuonante di discorsi ecclesiastici.
Essere religiosi non è mai stato scontato, tanto meno oggi. Non lo si apprende né in cinque, né in nove anni di formazione iniziale. È il lavoro di una vita. A questo lavoro voi scegliete di dedicarvi facendo la professione solenne questa sera, in questo giorno in cui la Chiesa venera un nostro fratello, riconosciuto dottore universale, ma da noi in modo particolare venerato e amato come padre e maestro di vita carmelitana. Il mio augurio è che torniate spesso ad aprire il libro delle sue opere, a bere alla sua fonte, che è anche la nostra, per bagnare le vostre menti nella luce della sua sapienza celestiale e divina.
IL TERREMOTO DELL’AQUILA (2009) E “LA QUIETE DI APOLLONIA”. Una sollecitazione a svegliarsi dal “sonno dogmatico” storiografico.... *
A MIO PARERE, questo lavoro di Silvia Mantini (“La quiete di Apollonia. Religiosità femminile e spazi di devozione nell’Italia del Seicento”, Milano, Educatt, 2020), su «quel documento inventariato come “S. Maddalena Ventiquattro terziaria filippina di Aquila”», già solo dalle indicazioni del “SOMMARIO”
SOLLECITA AD ALLARGARE LA COSCIENZA storiografica e ad allertare l’attenzione - come invita a fare Aurelio Musi nella sua nota («non è facile in questa “autobiografia estorta” riconoscere, come pure pensa la Mantini, “l’immagine di una donna fedele ai suoi sentimenti e alle sue intenzioni”») - E, AL CONTEMPO, AD ACCOGLIERE LA PRECISAZIONE della stessa Autrice che proprio «il manoscritto, invece, è molto di più del racconto della vita di una nobile aquilana del XVII secolo. È una storia che, a partire dalla biografia di una donna del Seicento, permette di portare alla luce figure del “movimento quietista” e reti della cultura religiosa di quegli anni, in cui emergono tensioni tra “nuovi mistici” e Inquisizione». E non solo!
SE NON SI TIENE PRESENTE che Teresa d’Avila (Avila, 28 marzo 1515 - Alba de Tormes, 15 ottobre 1582) è “beatificata il 24 aprile 1614 da Papa Paolo V, fu canonizzata quarant’anni dopo la morte, il 12 marzo 1622, da papa Gregorio XV, insieme ad altre grandi figure del periodo della Controriforma quali Ignazio di Loyola, Francesco Saverio e Filippo Neri” e che “Maria Maddalena de’ Pazzi, al secolo Caterina (Firenze, 2 aprile 1566 - Firenze, 25 maggio 1607), è stata una religiosa carmelitana, proclamata santa da papa Clemente IX il 22 aprile 1669”, E, ANCORA, CHE SU QUESTE FIGURE, e sulla figura di APOLLONIA-MADDALENA, lavorano a “definirle” attentissimi poteri politici e religiosi, come la Inquisizione spagnola da una parte e l’Inquisizione romana dall’altra, come è possibile arrivare a comprendere al meglio la dinamica del “sistema imperiale spagnolo”, e della stessa storia dell’ Europa moderna e contemporanea?!
NOTE:
B) STORIA DELL’ARTE: Benedetto Gennari (Cento, 1633 - Bologna, 1715), “Le Sante Teresa d’Avila e Apollonia”, 1662 ca., Olio su tela, cm 190×280.
C) PRINCIPE DI EBOLI, TERESA D’AVILA, E CARMELITANI SCALZI. Dopo il terremoto del 1980 in Campania e dopo un lavoro di restauro completato nel 1989, «ritrovato nel salernitano “file” perduto del tardo Rinascimento».
IL «SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO» E L’ «UNIVERSALISMO» DI CARLO V...*
SE E’ VERO CHE, "Fin dal titolo, «Capitali senza re nella Monarchia spagnola. Identità, relazioni, immagini (secc. XVI-XVIII)» - i due tomi, curati mirabilmente da Rossella Cancila, editi da «Quaderni di Mediterranea Ricerche Storiche» - appaiono intriganti e utili per un avanzamento degli studi storici sul sistema imperiale spagnolo" (A. Musi, qui), FORSE, è opportuno tenere presente che l’organizzazione stessa del sistema imperiale ha una sua "storia" e, più propriamente che, sì, "La Castiglia gioca sicuramente - come sostiene nell’Introduzione Rossella Cancila (p. VIII) - un ruolo preponderante all’interno dell’insieme" all’epoca di Filippo II, ma - è da precisare, per non perdere la differenza - non nella fase di Carlo V.
Dimenticare il legame di Carlo V con le sue "radici" (i Paesi Bassi e la Borgogna) porta, a mio parere, a distorsioni e a fraintendimenti non solo delle stesse relazioni all’interno del sistema imperiale ma a "dimenticare" anche il ruolo importante (ancora non ben messo a fuoco) del portoghese Ruy Gomez, Principe di Eboli, grande collaboratore dello stesso Filippo II: "La proposta di polycentric monarchies è applicabile anche al caso portoghese e non solamente in relazione agli anni di unione delle due corone (1580-1640), ma anche in riferimento all’eredità che gli Asburgo lasciarono alla monarchia lusitana negli anni successivi" (p. IX); e, ancora e non ultimo, a non comprendere la grande portata ideologica e strutturale dell’Ordine del Toson d’Oro, creato da Filippo di Borgogna.
* Nota a margine della rec. di Aurelio Musi, "Alla scoperta della monarchia spagnola dei secoli XVI-XVIII, nei volumi curati da Rossella Cancila" (L’Identità di Clio, 16 novembre 2020)
Federico La Sala
LA VIA DELLA “SETA”: RIPARTIRE DA “GRANADA”. Una “fruttosa” sollecitazione storiografica... *
VISTA la ricca documentazione storica e artistica sul “viaggio” della «”seta”(il melograno/la melagrana)» nell’area mediterranea e, al contempo,l’ammissione preziosa da parte dell’ Autore della ricerca (Armando Polito, "La “seta” (il melograno/la melagrana) 5/5", Fondazione Terra d’Otranto, 04.10.2013) che “In Europa l’unica forma, per così dire, di istituzionalizzazione della melagrana che io conosca è lo stemma della città di Granada”), forse, è il caso di ripartire proprio da Granada e rimettere in moto l’indagine sulla presenza della «”seta”» in tutta l’Europa.
A ben guardare, infatti, la conquista di Granada da parte di Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona avviene nel 1492 e la melagrana, nello stemma araldico di Ferdinando II d’Aragona, compare proprio dal 1492 e, poi, ricompare - definitivamente “istituzionalizzata” - nella mano dell’imperatore del Sacro Romano Impero, Massimiliano I d’Asburgo, ritratto da Albrecht Durer nel 1519. **
A partire dalla “melagrana”, e ripartendo da Granada, l’orizzonte si apre sulla nascita del “sistema imperiale spagnolo” e, all’indietro, sui passi accidentati di una “storia del mondo”, iniziata almeno nel IX sec. a.C (riguardare la documentazione “archeologica”: “il frammento di un bassorilievo ittita del IX secolo a. C. raffigurante la dea Kubaba ... La dea stringe nella destra una melagrana”).
*
LA MONARCHIA SPAGNOLA DEL XVI SECOLO:
FILIPPO II, LA QUESTIONE DELLE FIANDRE, E LA FIGURA DI CARLO ARAGONA TAGLIAVIA.... *
A MEGLIO INTENDERE L’IMPORTANZA del lavoro di Lina Scalisi, "Da Palermo a Colonia. Carlo Aragona Tagliavia e la questione delle Fiandre (1577-1580)", e delle sollecitazioni critiche di Aurelio Musi (qui - espresse), forse, potrebbe essere utile “capovolgere” il titolo del libro e “rileggerlo” all’incontrario:”La questione delle Fiandre (1577-1580) e Carlo Aragona Tagliavia. Da Colonia a Palermo”; e, alla luce del pertinente e giusto “riferimento alla categoria di sistema imperiale spagnolo”, riprendere il filo del discorso proprio dal “periodo critico della rivolta delle Fiandre, quando la questione religiosa si innesta sul conflitto politico” e, al contempo, dal tener presente che dall’Escorial - a partire da questi anni - non è tutto oro quello che si vede luccicare all’orizzonte.
Filippo II comincia a perdere la sua “prudenza”, già nel 1577: la sua “bilancia dei poteri” (il partito “albistas” e il partito “ebolistas”) inizia a rompersi e l’equilibrio della erasmiana “follia” (“Fatemi un edificio - sembra che abbia detto agli architetti incaricati di costruire il Palazzo Reale e l’Escorial - che faccia dire ai posteri che eravamo pazzi”) diventa sempre più instabile.
Nel 1567/1568, “el Rey Prudente” ha già dato carta bianca al III Duca d’Alba di reprimere la rivolta olandese (“Tribunale dei tumulti”) e persino fatto giustiziare figure di primissimo piano come i conti di Egmont e di Horn (cavalieri dell’Ordine del Toson d’Oro) e, nel 1573, ha perso il suo consigliere e amico portoghese più fidato, Ruy Gomez, il principe di Eboli.
Al “massimo livello del suo sviluppo”, la “testa” del corpo mistico del regno (il “sistema imperiale spagnolo”) comincia a riscaldarsi, a fare “sogni di gloria” (annessione del Portogallo, 1580), a invadere l’Inghilterra e ad allestire l’Armada (1885). E’ troppo pensare che sull’impero, su cui non tramontava mai il sole, proprio ora (con “la linea politica del valimiento” e la figura di Carlo Aragona Tagliavia) cominci a scendere la sera?
Federico La Sala
Jack Kerouac sotto le rose di S. Teresina
di Iacopo Iadarola (Carmelitani Scalzi della Provincia Veneta, 06 Gennaio 2015)
E’ veramente incredibile constatare quanto la nostra S. Teresina sia stata in grado di addentrarsi nella terra desolata del nostro secolo alienato da Dio. A partire dal caso di Pranzini, l’assassino convertito sul patibolo dalle sue preghiere, S. Teresa di Gesù Bambino del Volto Santo non ha smesso di pregare per i fratelli più lontani e più impaludati nel peccato, secondo la commovente preghiera consegnataci nel Manoscritto C di Storia di un’anima:
Bene, fra questi poveri peccatori tra i quali la nostra santa ebbe l’umiltà di porsi, possiamo annoverare sicuramente Jean-Louis (Jack) Kerouac, il geniale e tormentato padre della beat generation, l’autore del libro di culto On the road (“Sulla strada”).
Anzitutto ricordiamo che Jack non fu mai quell’hippy tutto Buddha, droga & jazz che ci è stato consegnato dai suoi epigoni nonché da una certa lettura ideologica della beat generation. Nessuno meglio di lui può spiegarci, infatti, quale fosse il nocciolo mistico-religioso, e non politico-contestatario, del termine “beat”:
E a distanza di poche pagine aggiunge:
Vero è, d’altro canto, che molto dell’immaginario e della terminologia kerouachiana è intriso di spiritualità buddista, ma è lo stesso autore a sconfessare l’appartenenza a questa confessione religiosa che per lui fu, al massimo, tecnica ascetica e ricerca intellettuale. Così rispondeva infatti al suo amico e poeta buddista Gary Snyder: “«Ah, bene. È fantastico, ma io in realtà credo nel dolce bambin Gesù», oppure nell’«Agnello di Dio»”[4]. Ancora più esplicitamente, lo stesso Kerouac non lascerà più dubbi scrivendo a Parigi nel 1966: “Ma io non sono un buddista, sono un cattolico che rivisita la terra ancestrale che ha lottato per difendere il cattolicesimo contro difficoltà insormontabili, e che eppure alla fine ha vinto”[5].
Non è questa ora la sede per rintracciare le numerose radici del genio cattolico nella vulcanica e poliedrica opera di Kerouac; ci limiteremo pertanto a rilevare come i punti salienti di queste sotterranee radici cattoliche, nei suoi scritti, fioriscono palesi nei Vagabondi del Dharma[6], la sua opera più “religiosa”, che comincia con un cammeo a bruciapelo della nostra S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo. Siamo nell’incipit del romanzo, laddove il protagonista-autore parte per l’ennesima epopea “sulla strada” saltando su un vagone di un treno merci.
E’ facile notare come la dichiarazione d’essere un monaco buddista sia poco più di un cliché letterario (che come abbiamo visto lo stesso autore sconfesserà più tardi); e come di fronte a questa facile evasione in esotiche figure mistiche, il misterioso passeggero, concretamente reale, lo rinchiodi alla realtà non confutando le sue confuse idee religiose, ma semplicemente tirando fuori dal taschino il sorriso della Santina.
Questo semplice modo di fare lasciò il segno nell’animo del protagonista, se qualche chilometro dopo, sceso dal treno merci e steso sulla riva dell’oceano a fantasticare sul numero delle stelle in cielo, si sarebbe detto:
...per concludere poi così all’inizio del secondo capitolo:
In questo episodio possiamo vedere come, anche nel periodo spiritualmente più equivoco di Kerouac, il suo ancoraggio al cristianesimo è sempre rimasto vivo: e ciò grazie al calore e alla presenza di una santa, che qui come in molti altri casi, ha saputo essere vicina per ricordare alle anime spaesate di questo mondo l’unico Amore, l’unico Amato, Gesù Cristo. Kerouac non lo avrebbe dimenticato mai.
Inoltre, come ci ricorda una sua famosa biografia:
Ancora una volta, la piccola Santa è indicata come cruciale punto di contatto fra lui e Gesù. Sempre dai suoi biografi sappiamo che questa devozione doveva venirgli dal suo contesto familiare, una famiglia francofona canadese fermamente cattolica: fa la madre Gabrielle a insegnare al piccolo Jean Louis a rivolgersi alla Santina, rendendola addirittura presente nella casa materna con una statua. Questa devozione sarebbe stata corroborata anche nel luogo della sua formazione, presso le suore della scuola parrocchiale del suo paese, Centralville (Massachusetts); e lungi dall’essere rigettata, sarebbe rimasta viva nel suo cuore anche quando il giovane Kerouac, come tanti della sua generazione, avrebbe smesso di frequentare regolarmente la Chiesa per bivaccare a quella “mensa dei peccatori” che per lui assunse le dimensioni dell’intero continente americano, squadrata dai binari delle ferrovie e dalle interminabili highways dove i suoi misticheggianti autostop sarebbero entrati nella storia.
Ma per quanto lontano sarebbe potuto andare, per quanto moralmente sarebbe potuto cadere in basso, avrebbe sempre trovato al suo fianco la sua amica d’infanzia, che dalla cella della sua clausura aveva saputo andare molto più lontano di qualsiasi girovago beatnik[11], pur di riaccompagnarne i passi per il ritorno alla casa del Padre. Non più Sulla strada, ma sulla Via (Gv 14,6). O “la piccola via” di cui parlò la piccola Teresa nei suoi ultimi colloqui (Quaderno Giallo, 17 luglio):
Solo ora comprendiamo quanto sia pregnante l’immagine della pioggia di rose “sfioccate e irreligiose” menzionata da Kerouac: rose che traggono il loro colore non da vezzosi libricini devozionali o da oleografie stantie di sacrestia[12], ma da questo sangue sputato, che è comunione al sangue versato dal Crocifisso maledetto (Gal 3,13), l’autentico vagabondo che non ebbe mai dove posare il capo (Mt 8,20; Lc 9,58) per venire a salvarci.
[1] Cf. 5v°-6r°. Questo e gli altri testi che citeremo sono tratti da le Opere complete di S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, II edizione migliorata, Libreria Editrice Vaticana - OCD, 2009.
[2] L’autore conferma quest’esperienza, dandone maggiori dettagli, in una sua famosa intervista rilasciata a Al Aronowitz: “Then I went to Lowell, Massachusetts, in 1954. Got a room in Skid Row near the depot. Walked twenty miles around Lowell every day. Went to my old church where I got my first confirmation. Knelt, all alone, all alone in the church, in the great silence of the church. . . And I suddenly realized, beat means beatitude! Beatific! I was beatific in the church. See? It doesn’t apply to anybody else, I don’t think, the remembrance of your first vow."
[3] In J. Kerouac, «Beati: le origini della Beat Generation», in Scrivere bop. Lezioni di scrittura creativa, Milano, Mondadori, 1996, p. 68.
[4] B. Gifford - L. Lee, Jack’s Book. Una biografia narrata di Jack Kerouac, Roma, Fandango, 2001, 225s.
[5] Satori in Paris and Pic. Two Novels, New York, Grove Press, 1985, p.69.
[6] The Dharma Bums, New York, Vanguard, 1958. Traduzione italiana che citeremo più in basso: I Vagabondi del Dharma, Milano, Mondadori 1999.
[7] Il riferimento più letterale di questa preghiera alle parole lasciateci dalla Santa è rintracciabile nel Quaderno Giallo, 9 giugno: “A suor Maria del Sacro Cuore che le diceva: “Che dolore che proveremo, quando ci lascerà!” Oh, no, vedrete, sarà come una pioggia di rose.” Mentre il significato profondo di questa “pioggia di rose” è svelato nel Manoscritto A, 45v°:
“Una domenica, guardando una fotografia di Nostro Signore in Croce, fui colpita dal sangue che cadeva da una delle sue mani Divine: provai un dolore grande pensando che quel sangue cadeva a terra senza che nessuno si desse premura di raccoglierlo; e decisi di tenermi in spirito ai piedi della Croce per ricevere la rugiada Divina che ne sgorgava, comprendendo che avrei dovuto, in seguito, spargerla sulle anime... Anche il grido di Gesù sulla Croce mi riecheggiava continuamente nel cuore: «Ho sete!». Queste parole accendevano in me un ardore sconosciuto e vivissimo. Volevo dare da bere al mio Amato, e io stessa mi sentivo divorata dalla sete delle anime. Non erano ancora le anime dei sacerdoti che mi attiravano, ma quelle dei grandi peccatori, bruciavo dal desiderio di strapparli alle fiamme eterne...”
[8] Ritraduciamo così l’originale termine inventato dall’autore “infideled”, reso con un improbabile “eretizzate” dalla traduttrice.
[9] J. Kerouac, Un mondo battuto dal vento. I diari di Jack Kerouack: 1947-1954, Milano, Mondadori, 2006, pp. 71.197.
[10] B. Gifford - L. Lee, Jack’s Book. Una biografia narrata di Jack Kerouac, cit., p.225.
[11] Riportiamo le lapidarie parole consegnateci in un’intervista rilasciata poco prima della sua morte: “I’m not a beatnik. I’m a Catholic.” CF. J. Lelyveld, «Jack Kerouac, Novelist, Dead; Father of the Beat Generation», in The New York Times, 22 ottobre 1969.
[12] A questo proposito ci vengono in mente le parole di Giovanni Paolo I rivolte alla Santa in occasione del centenario della sua nascita (1973): “Cara piccola Teresa, avevo diciassette anni, quando lessi la vostra autobiografia. Fu per me un colpo di fulmine. "Storia di un fiorellino di maggio" l’avevate definita. A me parve la storia di una "spranga d’acciaio".
* Testo ripreso il 20.10.2020, con il titolo "Santa Teresina, Jack Kerouac e la promessa mantenuta", dal Carmelo Veneto e "Aleteia".
Teresa dAvila.
Il «Castello interiore» come porta del paradiso
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 15 ottobre 2020)
Sarebbe “follia” cercare di entrare in Cielo senza prima entrare in noi stessi: è lì che possiamo cogliere i doni che Dio ci ha dato e renderci conto del nostro bisogno della sua misericordia. In questo cammino abbiamo testimoni autorevoli che ci aiutano e ci guidano, come santa Teresa d’Avila, la cui eredità più preziosa si trova nel suo “Castello interiore” e nella sua opera riformatrice del Carmelo.
Nata nel 1515 ad Avila, era entrata nel Carmelo nel 1535 prendendo il nome di Teresa di Gesù. All’età di 39 anni, dopo un travagliato percorso interiore, visse quella che lei chiamò la sua “conversione”, dedicandosi poi alla riforma dei monasteri carmelitani sia femminili che maschili. Morì ad Alba de Tormes (Salamanca) nel 1582; santa dal 1622, nel 1970 è stata proclamata dottore della Chiesa. [...].
FRANZ KAFKA
[NOTE SU]
IL CASTELLO *
Il castello (titolo originale tedesco: Das Schloß) di Franz Kafka (1883-1924), scritto intorno al 1922[1] e pubblicato postumo nel 1926, è l’ultimo dei tre romanzi dello scrittore praghese. Rimasto incompiuto, Il castello, spesso oscuro e a volte surreale, è centrato sui temi della burocrazia, della legge come ordine globale, e quindi dell’alienazione e della frustrazione continua dell’uomo che tenta di integrarsi in un sistema che mentre lo invita, contemporaneamente lo allontana emarginandolo.[1] [...].
Genesi e struttura
Kafka comincia a lavorare al romanzo presumibilmente intorno al 1921, ma lo completa in gran parte nell’anno successivo. Il 15 marzo di quest’anno ne legge all’amico Max Brod la parte iniziale. In una lettera giunta l’11 settembre, sempre a Max Brod, Kafka si lamenta di non essere in grado di tradurre in parole il «carattere demoniaco delle figure del romanzo»[1] e conclude di aver interrotto «per sempre la storia del Castello».[1] Sono questi gli anni in cui la tubercolosi si aggrava e i ricoveri si fanno più frequenti, ma anche gli anni nei quali la difficile relazione con Milena, probabile ispiratrice della figura di Frieda, può essere considerata conclusa. Kafka morirà due anni più tardi, ricoverato nel sanatorio di Kierling.[1]
Il manoscritto, che secondo le istruzioni di Kafka stesso doveva essere bruciato alla sua morte, presenta soltanto una suddivisione ed è privo di titolo. Sarà sempre l’inseparabile Max Brod che ne curerà la prima edizione nel 1926 suddividendo l’opera in venti capitoli e intitolandolo Das Schloß (Il castello), essendosi Kafka così sempre riferito al romanzo.[1]
I significati
Il romanzo di Kafka ha dato vita a numerose interpretazioni critiche nel corso del Novecento. Il romanzo fu pubblicato postumo nel 1926 a cura dell’amico Max Brod, il quale aggiunse una postfazione nella quale avanzava un’interpretazione teologica dell’opera. Secondo Brod il Castello rappresenterebbe la Grazia divina, mentre Il processo, il secondo romanzo di Kafka, sarebbe centrato sul tema della Giustizia di Dio. Il protagonista è dunque l’uomo che si barcamena fra le vicende del quotidiano cercando di comprendere il misterioso disegno del deus absconditus, quella legge che stabilisce il bene, il male e il destino stesso, alla quale legge è impossibile accedere ma alla quale l’uomo aspira fidando nella benevolenza di Dio, nella sua grazia. L’interpretazione di Brod condizionò pesantemente tutti i primi commentatori.[1]
Negli anni quaranta, a opera di Erich Fromm, Angel Flores, Charles Neider e altri, si diffuse l’interpretazione psicoanalitica del romanzo. Facendo riferimento alla celeberrima Lettera al padre, si è così visto ne Il castello l’espressione della persecuzione, della colpa e della solitudine dell’uomo al cospetto dell’autorità. Il villaggio in cui K. giunge è un ambiente estraneo, misterioso e avverso, sul quale la figura del Castello si erge come minacciosa e ostile.[1]
Successivamente la critica sociologica cercò di liberarsi da interpretazioni religiose e psicoanalitiche per mettere in luce la concretezza dei nessi che Kafka evidenzia nel rapporto fra l’uomo e la società. Walter Benjamin, Theodor W. Adorno, György Lukács sono i nomi più noti di un’analisi condotta in tal senso.[1]
Le vicende dell’agrimensore K. rappresentano la proiezione dell’impotenza e delle frustrazioni dell’uomo moderno, il quale si trova schiacciato da una realtà che sfugge ai suoi criteri di valutazione. Il protagonista si sente ovunque solo e alienato, il suo rapporto con il mondo esterno è ormai completamente compromesso, e la presenza cupa e minacciosa del Castello rappresenta un’entità superiore negativa che finisce per determinare e opprimere l’esistenza dell’uomo. In questa prospettiva, si è perduto il senso di ogni cosa. Per Kafka la ragione diventa così inutile: l’essere viene destrutturato fino a perdere la propria identità, come dimostra il nome stesso dell’agrimensore ridotto alla sola lettera K. (l’uso di questa iniziale richiama inevitabilmente il nome dell’autore). [...].
CARMELITANI SCALZI IN VISITA PRIVATA A CONTURSI TERME (SALERNO), PRIMA DEL TERREMOTO DEL 1980: IL CARDINALE BALLESTRERO (ARCIVESCOVO DI BARI) E IL SUO SEGRETARIO, PADRE GIUSEPPE CAVIGLIA:
Anniversario.
La « lezione » del cardinale Ballestrero a 20 anni dalla morte [1998]
Guidò le Chiese di Bari e Torino. Presidente della Cei nei primi anni Ottanta, è stato un fine tessitore di riconciliazione. Padre conciliare, a lui si deve il titolo della Gaudium et Spes.
di Marco Bonatti (Avvenire, venerdì 22 giugno 2018)
Padre Giuseppe Caviglia, suo segretario per 25 anni, se n’è andato a gennaio dello scorso anno, ma con la certezza di aver compiuto anche l’ultimo lavoro: infatti la causa di beatificazione del suo confratello il carmelitano Anastasio Alberto Ballestrero era stata avviata solennemente il 2 ottobre 2014.
A vent’anni dalla morte la figura del cardinale che fu arcivescovo di Bari (1973-1977) e di Torino (1977-1989) emerge con forza ed è sempre ricordata con grande stima e affetto. Fu lui a volere la grande ostensione della Sindone nel 1978: tre milioni di persone coinvolte in un pellegrinaggio popolare di preghiera, di penitenza e di contemplazione verso quel “Volto” che richiama la Passione del Cristo ma anche rilancia la domanda sulla sofferenza degli uomini di ogni tempo. E Ballestrero con la Sindone prese intera la sua “croce” quando si trattò di gestire le ricerche sulla datazione col Carbonio 14.
Ancora oggi i risultati di quelle ricerche, e il metodo con cui furono condotte, sono molto discussi e tutt’altro che acquisiti. Di Ballestrero rimane attuale l’ispirazione che egli seppe dare non solo al suo episcopato ma all’intera vita sacerdotale e religiosa : quella di un primato di Dio che significava, molto concretamente, non fondare su forze e circostanze umane il cammino della Chiesa, ma andare in cerca ogni volta del «coraggio della fede», anche a costo di trovarsi soli, controcorrente, criticati. Al primato di Dio il cardinale seppe unire sempre una conoscenza profonda, disincantata e però rispettosa del mondo.
A oltre 35 anni di distanza stupisce ancora l’attualità di un documento come La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, firmato dal Consiglio permanente della Cei nel pieno della presidenza Ballestrero (ottobre 1981). Vi si legge: «La crisi in corso non si risolverà a brevi scadenze né possiamo attendere soluzioni miracolistiche. Conosceremo ancora per molto tempo le contraddizioni di carattere socio-economico, le minacce della violenza e del terrorismo, la precarietà delle strutture pubbliche, la fatica di costruire l’Europa, i rischi per la pace internazionale, il dramma della fame nel mondo».
Nato a Genova il 3 ottobre 1913, entrò nell’Ordine dei Carmelitani Scalzi e nel 1936 venne ordinato sacerdote. Dal 1955 al 1967 è stato alla guida dei carmelitani scalzi di tutto il mondo come preposito generale. Nominato arcivescovo di Bari, ricevette la consacrazione episcopale il 2 febbraio 1974 e l’anno successivo predicò gli Esercizi spirituali a Paolo VI e alla Curia Romana. Il 1º agosto 1977 fu chiamato a succedere al cardinale Michele Pellegrino e divenne arcivescovo di Torino. Giovanni Paolo II lo creò cardinale nel 1979. E dallo stesso anno al 1985 è stato presidente della Cei.
Morì il 21 giugno 1998 a Bocca di Magra, in Liguria, nella casa di spiritualità carmelitana dove si era ritirato. Aveva 84 anni. È sepolto nell’eremo carmelitano del Deserto di Varazze. Il ricordo di molti è legato al Convegno ecclesiale nazionale di Loreto nel 1985 (il secondo promosso dalla Cei), quando Ballestrero, insieme con il cardinale Carlo Maria Martini, seppe ribaltare il clima di confronto aspro tra le varie anime della Chiesa italiana rilanciando con forza il valore della riconciliazione. Come presidente della Cei il porporato si trovò anche a gestire una situazione completamente nuova: quella di un vescovo di Roma e primate d’Italia che, per la prima volta da 450 anni, non era italiano, il Papa polacco Karol Wojtyla. Ma la figura del cardinale va anche oltre: è l’uomo che partecipò a tutti i lavori - nella veste di superiore generale dei carmelitani - del Concilio Vaticano II, dalla sessione antepreparatoria alla conclusione dell’8 dicembre 1965.
Lui stesso ricordava come intervenne, all’ultimo minuto, sulla Costituzione pastorale dedicata al mondo contemporaneo, che il 7 dicembre doveva ancora essere approvata. Ballestrero fece invertire le prime parole, che danno il titolo al documento : non Angor et luctus, come risultava fino ad allora nella bozza, ma appunto Gaudium et spes.
Teresa d’Avila e il Rosario
Uno dei ricordi dell’infanzia di Teresa è la recita del rosario. È anche uno dei tratti della pietà mariana di sua madre, donna Beatrice: «Cercavo la solitudine per recitare le mie preghiere, che erano molte, specialmente il rosario di cui mia madre era molto devota, e procurava che lo fossimo pure noi» (V 1,6). Pratica che perdurerà per tutta la vita di Teresa, anche nel suo periodo mistico. Nel nuovo Carmelo di San Giuseppe, sarà uno degli esercizi dell’orazione vocale, analogo alla recita delle Ore liturgiche, affinché aiuti ad allenare nell’orazione mentale le giovani novizie. Nel capitolo del Cammino dedicato a «dichiarare che cosasia l’orazione mentale», inculca alle lettrici: «Chi potrebbe dire che fate male, quando al momento di cominciare le Ore o il rosario, vi domandate con chi state per parlare, chi siete voi che parlate, per meglio conoscere come comportarvi? Vi dico, sorelle, che se metteste ogni cura per ben comprendere questi due punti, prima di cominciare la preghiera vocale, avreste già occupato molto tempo in quella mentale» (C 22,3: il tono polemico del passo è diretto contro i teologi contemporanei che difendevano il valore dell’orazione soltanto vocale).
Nella vita mistica della Santa ci sono almeno due episodi associati al rosario: uno dei quali presenta Teresa che ripara in questa recita mariana, nei momenti di stanchezza o malattia: «Una sera mi sentivo così male che volevo dispensarmi dall’orazione... presi il rosario per pregare vocalmente, procurando di non sforzarmi troppo per raccogliermi...Dopo alcuni istanti fui presa da un rapimento di spirito così impetuoso che mi fu impossibile resistere» (V 38,1). L’altro episodio si riferisce al rosario concreto che la Santa tiene in mano. Avviene nel periodo delle grandi inquietudini, per paura delle ingerenze del demonio nellasua vita mistica: «Una volta, mentre tenevo in mano la croce del rosario, il Signore me laprese, e quando me la restituì era formata di quattro grandi pietre, assai più preziose del diamante, anzi senza confronto, perché non ve n’è fra le cose della terra e quelle viste spiritualmente... Vi erano scolpite le cinque piaghe del Signore in modo meraviglioso. E mi disse che d’allora in poi l’avrei sempre vista così. Infatti non vedevo più il legno di cui era composto, ma solo le pietre. Però, non lo vedevo che io» (V 29,7). Riportando questo episodio, il suo primo biografo, Francesco de Ribera, commenta: «Così accadde a santa Caterina da Siena... alla qualeil Signore mise al dito un anello d’oro con perle, dove le rimase, ma lo vedeva solo lei e non le altre» (Vida de la Madre Teresa...,parte I, cap. 13, p. 86). Sul margine di questo passo di Ribera, Gracián annotò: «Questa croce venne in mio possesso in un rosario che avevo, e poi la diedi alle monache»
Bibliografia: Plácido de Santa Teresa, Una faceta de Santa Teresa, in MontCarm 24 (1920), pp. 433-435; Fabián de San José, Santa Teresa y el Rosario, in Carmelo Teresiano, Madrid 1 (1945), pp. 124-127, 154.
Teresa di Lisieux.
Quella «piccola via» verso la grandezza di Dio
di Matteo Liut ( Avvenire, giovedì 1 ottobre 2020)
Dio scava nell’anima, entra nel profondo della nostra vita, incide con il suo amore le fondamenta del nostro esistere, ma non sempre è facile seguire le sue tracce. Capitò anche a santa Teresa di Lisieux di "perdersi", di chiedersi dove fosse Dio e il suo smarrimento è narrato in "Storia di un’anima". Dal senso del limite e dell’imperfezione, però, per santa Teresa passò la scoperta della sua "piccola via" verso Dio: è nelle imperfezioni della vita che è possibile cogliere con più forza l’amore del Signore. Nata nel 1873 ad Alençon in Francia, Teresa era cresciuta in una famiglia "santa" (anche i genitori sono stati canonizzati) e, giovanissima, era entrata nel Carmelo di Lisieux. Il suo intenso cammino spirituale alla ricerca della santità venne interrotto dalla tubercolosi: morì nel 1897 all’età di 24 anni. Nel 1997 è stata proclamata dottore della Chiesa. [...].
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MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di santa Teresa di Gesù Bambino, vergine e dottore della Chiesa: entrata ancora adolescente nel Carmelo di Lisieux in Francia, divenne per purezza e semplicità di vita maestra di santità in Cristo, insegnando la via dell’infanzia spirituale per giungere alla perfezione cristiana e ponendo ogni mistica sollecitudine al servizio della salvezza delle anime e della crescita della Chiesa. Concluse la sua vita il 30 settembre, all’età di venticinque anni.
SEGNI DEI TEMPI. Dopo la lettera a Pera di Papa Ratzinger ....
IN VATICANO NON NE POSSONO PIU’ !!! "SANTO" GRAMSCI AIUTACI TU. DE MAGISTRIS RICORDA E SOLLECITA A RIPARTIRE NON DALLA "DOMINUS JESUS" MA DAL BAMBIN GESU’ !!! Gramsci aveva nella sua stanza l’immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù !!! [2008]
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede.
Federico La Sala
La storia del “Lloroncito”, il Bambino Gesù di Santa Teresa d’Avila
Racconta la tradizione che quando la santa partì per un viaggio il volto del Bambino Gesù iniziò a lacrimare
di Gaudium Press*
Teresa di Gesù, la santa, mistica e Dottore della Chiesa, era molto devota all’infanzia di Gesù. Ne è prova la presenza dell’immagine del Bambino Gesù in ciascuna delle sue fondazioni carmelitane. Esiste anche una leggenda che afferma che la splendida immagine del Bambino Gesù oggi venerata nella chiesa di Santa Maria della Vittoria di Praga (Repubblica Ceca) apparteneva alla religiosa riformatrice dell’Ordine del Carmelo.
Per questo, non stupisce che tra i tesori di valore spirituale lasciati dalla santa ci siano varie immagini del Bambino Gesù. Una di queste, quella nota come “El Lloroncito”, richiama l’attenzione in modo particolare.
La bella immagine - che ricorda proprio il Bambino Gesù di Praga, perché con la mano destra benedice e con la sinistra sostiene un globo che rappresenta l’universo - si trova nel convento San José di Toledo (Spagna), una delle fondazioni di Santa Teresa di Gesù.
L’immagine, alta appena 20 centimetri, intagliata nel legno e risalente al XVI secolo, venne portata dalla santa a Toledo quando nel 1569 vi fondò il convento, la sua quinta fondazione.
Secondo la tradizione carmelitana, la piccola immagine è chiamata “El Lloroncito” perché quando Santa Teresa d’Avila doveva partire e lasciare il convento di Toledo il volto del Bambino Gesù iniziò a lacrimare.
Così è scritto nel museo del convento che custodisce questo tesoro: “Il giorno 8 giugno 1580, Santa Teresa si congedava dalle sue religiose di Toledo per recarsi a Segovia. Il cuore naturalmente affettuoso della santa soffriva molto in questi congedi, soprattutto quando pensava che non avrebbe rivisto le sue figlie. Quella volta né lei né le sue amate religiose si sbagliavano, perché tutte presentivano che la Madre era giunta al termine del suo viaggio terreno. Secondo una pia tradizione, perfino un’immagine del Bambino Gesù si associò al dolore delle monache, versando lacrime quando la santa abbandonò il suo amato convento di Toledo. Da allora questa immagine viene chiamata con il soprannome affettuoso ‘Niño Lloroncito’”.
L’immagine del Bambino Gesù ha un ricco corredo composto da vari abiti ricamati, pezzi di oreficeria, scarpe e sonagli, oggetti abituali della dote delle religiose.
“Io sono Gesù di Teresa”
Un’altra tradizione parla dell’incontro personale che Santa Teresa ebbe con il Bambino Gesù.
Si dice che il fatto avvenne nel monastero dell’Incarnazione di Avila un giorno in cui la Madre stava scendendo le scale e inciampò in un bel bambino che le sorrideva. Suor Teresa, sorpresa nel vedere un bambino all’interno del convento, gli si rivolse chiedendogli: “E tu chi sei?”, al che il bambino rispose con un’altra domanda: “E chi sei tu?”. La Madre disse: “Io sono Teresa di Gesù”. Il bambino, con un sorriso ampio e luminoso, le disse; “Io sono Gesù di Teresa”.
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[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicott i]
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Gaudium Press | Fri Sep 02 2016 - QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE
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Fonte: Aleteia (ripresa parziale).
IL MONTE CARMELO, IL MONASTERO "STELLA MARIS", E L’ARCANGELO MICHELE ...
Monastero di Stella Maris *
Il monastero carmelitano di Stella Maris è un convento cattolico situato sul Monte Carmelo ad Haifa, in Israele. Secondo la tradizione sarebbe fondato su una grotta che fu dimora del profeta Elia.
Cenni storici
Il monastero sorge sul monte Carmelo, sulle alture della città di Haifa, nell’alta Galilea. Venerato sin dall’antichità e già citato in documenti egizi del XIV secolo a.C. come una delle conquiste del faraone Thutmose III, è nominato anche nella Bibbia come cima da cui il profeta Elia sfidò i profeti di Baal.
La prima fondazione del monastero omonimo risale all’epoca bizantina, quando esso divenne luogo di culto dell’Arcangelo Michele, già incluso nella liturgia Cristiano Ortodossa e venerato dai Longobardi in seguito alla loro conversione al Cattolicesimo avvenuta intorno al VII secolo.
Nel XII secolo la struttura venne fortificata dai crociati per ospitare l’Ordine Carmelitano, qui fondato da un gruppo di eremiti guidati da San Broccardo e la cui regola fu approvata agli inizi del XIII secolo. Nel 1230 il superiore dei carmelitani, san Simone Stock, testimoniò di aver avuto una visione della Madonna che dette origine alla devozione dello Scapolare del Carmelo.
Nel 1631, secoli dopo la sconfitta crociata del 1291, i Carmelitani fecero ritorno nel luogo in cui era nato l’ordine e costruirono un nuovo monastero nelle vicinanze ma nel 1768 si trasferirono nell’attuale collocazione. Tuttavia, a seguito della fallita campagna napoleonica del 1799 il monastero, che ospitava anche alcuni soldati francesi rifugiati, fu teatro di violenti scontri in cui venne distrutto e i suoi occupanti uccisi.
L’edificio dell’attuale monastero fu ricostruito fra il 1823 e il 1828 da monaci italiani ed è caratterizzato da una vistosa cupola.
* Da Wikipedia, l’enciclopedia libera (ripresa parziale).
La linea micaelica...
DALL’IRLANDA A ISRAELE, 7 SANTUARI UNITI DA UNA LINEA RETTA
Sette santuari allineati dedicati a San Michele Arcangelo. Con al centro la Sacra di San Michele
Un po’ di Storia | 21 Oct | .
di Norma Raimondo *
La definizione di retta, in geometria, è "un insieme di punti allineati, che non ha un inizio e nemmeno una fine". Nel caso del culto di San Michele Arcangelo, invece, il tracciato rettilineo in questione ha un inizio ben preciso, in Irlanda, e va a concludersi in Israele, coprendo una distanza di oltre 4 mila chilometri. E su questa linea sono disposti ben 7 santuari a lui dedicati, di cui la “nostra” Sacra di San Michele, sulla cima del Pirchiriano, rappresenta il centro.
Meta ogni anno di migliaia di visitatori, affascinati dalla sua maestosità, dalla sacralità del luogo, dalla splendida vista su Torino e sul fondovalle, la Sacra è un luogo di pace e meditazione, che si trova a 1000 km dall’abbazia normanna di Mont Saint-Michel e ad altrettanti dalla chiesa pugliese di Monte Sant’Angelo. Insomma, a metà strada tra le due abbazie che con lei rappresentano i pilastri del culto micaelico. Ma la linea parte da ben prima, dalle selvagge scogliere irlandesi, e termina ben oltre, in terra di Israele, non lontano da Gerusalemme. Proviamo a ripercorrerla ed a scoprire i santuari dedicati all’arcangelo.
Skellig Island (Irlanda)
Il monastero di Skellig, una delle prime testimonianze cristiane in Irlanda, è probabilmente il meno accessibile dei sette. Molto spartano e di non agevole accesso, posto sull’omonimo isolotto, è stato realizzato verso il 588. Si narra che lì San Michele apparve a San Patrizio per aiutarlo a sconfiggere il demonio. Dal 1996 è divenuto patrimonio Unesco (anche la Sacra di San Michele è candidata per entrarne a far parte).
Nel 2014 l’isola di Skellig Michael, l’isolotto più grande delle due isole Skellig, quello su cui sorge il monastero, venne usata come set cinematografico per le scene finali di Star Wars: Il risveglio della Forza. L’isola appare anche nel sequel del film, Star Wars: Gli ultimi Jedi, uscito nel 2017.
St Michael’s Mount (Inghilterra)
Sempre su un’isola sorge il monastero di St. Michael’s Mount, di fronte alla cittadina di Marazion, cui è collegato con un servizio di traghetti e, durante la bassa marea, tramite una strada (così come avviene al santuario di Mont Saint-Michel in Normandia).
Qui il Santo apparve nel 495 ad un gruppo di pescatori, e i benedettini provenienti dall’abbazia normanna decisero di erigere un altro santuario in suo onore. Dell’originale edificio resta ben poco: nel XVI secolo, su suoi resti venne eretta una fortezza.
Mont Saint-Michel (Francia)
Decisamente più conosciuto il santuario di Mont Saint-Michel, patrimonio dell’Unesco fin dal 1979 e principale sito turistico della Normandia. Qui San Michele apparve al vescovo nel 709, intimandogli di costruire una chiesa nella roccia. I lavori furono avviati, ma vennero completati solo dopo il ‘900, con l’avvento dei monaci benedettini. La roccia, un isolotto di circa 960 m di circonferenza e con una superficie di circa 7 ettari, si eleva ad un’altezza di 92 m sul livello del mare, ma con la statua di San Michele collocata in cima alla guglia della chiesa abbaziale, raggiunge l’altitudine di 170 metri.
Un tempo raggiungibile tramite una diga di accesso costruita nel 1880, poi smantellata per evitare l’insabbiamento della baia, dal 2015 Mont Saint-Michel è collegato alla terraferma con passerelle sospese, ed in occasione di maree particolari si trasforma nuovamente in un’isola.
Sacra di San Michele (Valle di Susa)
Pochi metri dopo aver varcato l’ingresso dell’abbazia è impossibile non notare, alzando gli occhi, la statua dedicata all’Arcangelo San Michele, realizzata dallo scultore altoatesino Paul dë Doss-Moroder. Ma l’opera ha una datazione recente, mentre ben più antica è la devozione all’arcangelo: nel 313 d.C. l’imperatore Costantino gli conferì grande rilevanza, ulteriormente arricchita dalle numerose apparizioni agli occhi dei vescovi governanti.
Monumento simbolo del Piemonte, l’abbazia di San Michele della Chiusa venne fondata tra il 983 e il 987 attorno ad una chiesetta preesistente dal conte Ugo (Ugone) di Montboissier, ricco e nobile signore dell’Alvernia, recatosi a Roma per chiedere indulgenza al Papa. Questi, a titolo di penitenza, gli concesse di scegliere fra un esilio di 7 anni e l’impresa di costruire un’abbazia.
Essa è stata una delle più celebri abbazie benedettine dell’Italia settentrionale, ed è tra i più grandi complessi architettonici di epoca romanica in Europa. La sua attuale imponente costruzione, edificata tra l’XI e il XIV secolo, presenta elementi artistici ed architettonici unici, quali il portale dello zodiaco e lo scalone dei morti (XII sec.), mentre l’interno della chiesa abbaziale è impreziosito dalle sculture romaniche nell’area absidale e da numerosi affreschi del XV-XVI secolo.
Monte Sant’Angelo (Foggia)
Il santuario pugliese di San Michele Arcangelo, nel foggiano, prese avvio nel 490, quando il Santo si manifestò a San Lorenzo Maiorano, e divenne ben presto il principale centro di culto dell’arcangelo dell’intero Occidente. Fu ampliato ed arricchito sia dai duchi di Benevento, sia dai re Longobardi installati a Pavia, che promossero numerosi interventi di ristrutturazione per facilitare l’accesso alla grotta della prima apparizione e per alloggiare i pellegrini. Anch’esso è patrimonio Unesco.
Monastero di San Michele Arcangelo (Grecia)
Il monastero greco di Panormitis sorge nuovamente su un’isola (Simi, nell’arcipelago greco del Dodecanneso), e custodisce una delle maggiori effigi dell’Arcangelo, alta tre metri. Costituisce il più importante luogo di culto della Grecia dedicato all’Arcangelo Michele, e fu costruito nel 1783 sui resti di un preesistente monastero del XV secolo.
Nell’isola, già ricca di svariati luoghi di culto, ci sono ben nove monasteri dedicati all’Arcangelo Michele, uno per ogni Ordine Angelico.
Monastero Stella Maris (Israele)
Pressapoco della stessa epoca è il Monastero Stella Maris. Anch’esso testimonianza di grande venerazione, è edificato sul Monte Carmelo, ad Haifa, in terra d’Israele, che rappresenta l’ultima tappa della linea Sacra. Convento cattolico, secondo la tradizione sarebbe fondato su una grotta che fu dimora del profeta Elia. La prima fondazione del monastero risale all’epoca bizantina, quando divenne luogo di culto dell’Arcangelo Michele, venerato dai Longobardi in seguito alla loro conversione al Cattolicesimo avvenuta intorno al VII secolo.
Secondo la leggenda, a definire questa linea fu un colpo di spada di San Michele Arcangelo, durante la battaglia tra angeli del bene, a lui legati, e angeli del male, guidati da Lucifero, che aveva assunto le sembianze di un dragone e che, dopo il fendente, precipitò sulla terra insieme ai suoi seguaci.
La retta in realtà è piuttosto approssimativa: quello che abbiamo riportato, riprendendolo da una vasta letteratura fatta di leggende e di suggestioni esoteriche, evidentemente è solo un gioco.
Ci piace pensare però che possa essere utile per invogliare alla visita di questi sette magnifici monumenti, a partire dalla nostra meravigliosa Sacra di San Michele, candidata ad entrare a far parte del patrimonio Unesco assieme ad altri 7 insediamenti benedettini dell’Italia medievale.
*Fonte: Laboratorio Val Susa (ripresa parziale - senza immagini).
Linea di San Michele: Haifa, il Monastero ’Stella maris’ del Monte Carmelo
di Antonio Tarallo *
Siamo in direzione di Haifa, nell’alta Galilea. Quella stessa città, Haifa, che viene citata nel Talmud, come una piccola città contadina. Stiamo continuando il viaggio tra le località della “Linea di San Michele”. Dopo l’Irlanda, la prima tappa, e quella successiva dei due siti italiani in Val di Susa e sul Gargano, ci richiama l’attenzione - in quest’ultima puntata - il famoso Monte Carmelo. Chi di noi non conosce, almeno per “sentito dire”, questo sacro monte? Possiamo ben affermare, in fondo, che proprio in merito a questo luogo, sono tanti i riferimenti che si rifanno a quella che potremmo quasi definire “memoria religiosa collettiva”.
Il Carmelo - che significa “giardino di Dio” - s’innalza in Samaria, a trenta chilometri da Nazareth ed è uno dei luoghi più affascinanti della Palestina. Ad esempio, quando lo sposo del Cantico dei Cantici vuole esprimere la bellezza della sua sposa, le parla in questo modo: “Caput tuum ut Carmelus”, “la tua testa è bella come il Carmelo”. E per approfondire questo sito, prendiamo spunto dalla Parola. Già nel libro dei Re, nel Vecchio Testamento, capiamo subito che ci troviamo di fronte a un luogo sicuramente assai “particolare”. E’ proprio qui, assieme ad altri importanti nomi di siti religiosi, che la storia dell’Uomo si è da sempre intrecciata con quella di Dio, in maniera tangibile.
Ma non possiamo citare solo questo episodio. Sempre al profeta Elia, è legato questo monte. Primo profeta d’Israele, proprio dimorando qui, e più precisamente in una grotta, ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. Tutti i mistici cristiani e gli esegeti, hanno visto in questa “poetica” immagine, la Vergine Maria, recante in sé il Verbo divino. Su questa montagna, ci “parla” Maria. E ci “parla” anche quel segno legato a lei, “metafora” di fiorente fecondità per il mondo. Ed è sulla grotta del profeta Elia che si erge il “Monastero carmelitano della Stella Maris”.
La prima fondazione del monastero risale all’epoca bizantina, quando divenne luogo di culto per l’Arcangelo Michele da parte di alcuni eremiti che avevano trovato dimora su questa imponente altura. Col trascorrere del tempo, quegli, assunsero il nome di “Frati della Beata Vergine del Monte Carmelo”. Da questo momento in poi, la storia di questo luogo, s’intreccerà con la storia di quello che diverrà ufficialmente l’“Ordine carmelitano”. Infatti, tra il 1206 e il 1214, il priore, di cui si conosce solo l’iniziale del nome, chiede ad Alberto, il patriarca latino di Gerusalemme, di approvare per gli eremiti, una regola di vita. Sarà proprio grazie a lui, che otterranno di essere accolti ufficialmente come comunità nell’ambito della chiesa locale.
Sarà il preludio al riconoscimento come ordine religioso, che avverrà solo nel XIII secolo. Un libro di pellegrini, scritto verso sempre il 1220, testimonia così la loro presenza: “Sul monte Carmelo vi è un luogo delizioso, in cui vivono eremiti latini, che si chiamano frati del Carmelo. Vi è una piccola chiesa dedicata alla Beata Vergine”. Era il 1220 circa. Dieci anni dopo, nel 1230, il superiore dei carmelitani, San Simone Stock, testimoniò di aver avuto una visione della Madonna con il famoso Scapolare del Carmelo.
Un posto che, certamente, abbiamo compreso, non passa - certo - inosservato. Ed è davvero significativo che questo luogo così “mariano”, per i diversi motivi che abbiamo sopracitato, sia lo stesso che chiude la sequela di luoghi legati alla figura dell’Arcangelo Michele. Quasi come fosse a conferma dello stretto legame fra le due “importanti figure”. Unite, loro, da sempre - a partire da quella stessa immagine dell’Apocalisse da cui questo “immaginario viaggio” ha preso vita - per la lotta contro il male.
* Fonte: "San Francesco" (https://www.sanfrancescopatronoditalia.it/notizie/fede/Haifa-il-Monastero-Stella-maris-del-Monte-Carmelo-44281).
LA SPAGNA DI CARLO V, FILIPPO II E TERESA ’AVILA, E LA "STORIA" DI CONTURSI - IERI E OGGI...
A.
UNA "TESTIMONIANZA" DELLA "CRONISTA CONZANA" [1691] SULL’AMICIZIA DELLA CITTA’ DI CONTURSI CON L’IMPERATORE CARLO V:
"Fù onorata questa Terra dall’imperatore Carlo V, il quale passò per Contursi e l’Auletta, ed in Contursi nobilitò quei cittadini dicendo “nobilitamus omnes cives contursinos” e perciò li cittadini di detta Terra sin’al presente giorno si vanno vantando essere nobili e tengono un certo libro de’ loro privilegi e capitolazioni, volgarmente detto il livro rosso, ove sono tutte le raggioni e decreti fatti nel S. C. [Sacro Consiglio] e R. C. [Regia Camera] à pro dell’Università e vi è in detto libro una cosa curiosa ed è che L’arciprete di Contursi antichissimo haveva non so che teneva col padrone di detta Terra ed il detto se n’andò à ritrovare Carlo V sino à Spagna e detto Imperatore ordinò al padrone di detta Terra, sotto rigorose pene, che non molestasse il detto Arciprete, mà perché detto padrone di Contursi prese à malo tal fatto, perciò ritornò un’altra volta il detto Arciprete à Spagna ed otten’ordine dal detto Imperatore diretto al detto padrone di Conturso che in ogni mese mandasse fede di quale verità della salute che godeva detto Arciprete e ciò à proprie spese dal detto Barone e sin’hora in detto libro se ne conservano le lettere originali" (Cfr. “La Cronista Conzana del Castellani", a cura di don Franco Celetta, Circolo Culturale Cristiano “Santa croce”, Montella [...]: cfr. il Libro rosso dell’Università della Terra di Conturso, A cura di Salvatore Bini, Arci Postiglione 2018, vol. I, pp. 21-22).
B.
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
C.
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento (24 GIUGNO 2012).
Federico La Sala
Un messaggio dell’imperatore [1917]
di Franz Kafka *
L’imperatore - così si racconta - ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero.
Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta - ma questo mai e poi mai potrà avvenire - c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.
Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera
* Cfr. Franz Kafka, Tutti i racconti, trad. di E. Pocar, Mondadori, Milano, 1990, pp. 235-236.
ARTE, RELIGIONE,E ANTROPOLOGIA.
SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]" (Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 10.11.2019).
Il policromato del profeta Elia
A Postiglione il busto in legno di Colombo
di Gerardo Pecci (la Città di Salerno, 09 ottobre 2017)
A Postiglione, la prima domenica di maggio è dedicata al culto del profeta Elia. In suo onore si svolge la festa di Sant’Elia Profeta. In tale festività si svolge un’interessante processione che partendo dalla chiesa di San Giorgio e attraversando stretti e contorti sentieri di montagna conduce alla grotta di Sant’Elia. Nelle adiacenze della grotta dedicata al profeta, vi si celebra la santa messa. Poi vi è un momento di pausa dove si consumano panini con frittate di asparagi. Infine, la processione fa ritorno in paese. Nella processione si porta a spalla, su una base processionale lignea, il busto in legno policromato di “Sant’Elia Profeta”. L’opera attualmente è conservata nella chiesa parrocchiale di San Giorgio, laddove l’ho potuta fotografare, e in una scheda di catalogazione della Soprintendenza ABAP di Salerno e Avellino l’opera d’arte è stata attribuita al grande scultore Giacomo Colombo.
Stilisticamente, il busto ligneo del profeta Elia effettivamente rivela tratti e modi scultorei propri del grande artista di Este, trasferitosi a Napoli fin dagli anni giovanili. Non si dimentichi che nella medesima chiesa è conservato anche il manichino processionale della “Madonna del Rosario” opera firmata dallo stesso Colombo e datata alla fine del XVII secolo.
Il profeta Elia, originario di Galaad visse in Israele nel regno del re Acab e morì intorno al 854-853 a.C. Egli lottò vittoriosamente contro la diffusione del culto pagano di Baal. Sul Monte Carmelo sfidò i sacerdoti di Baal e convinse il popolo d’Israele a uccidere i sacerdoti di Baal. Dovette quindi fuggire nel deserto dopo tale avvenimento. Lì un angelo gli portò da mangiare e lo incitò a proseguire il cammino fino al monte Oreb. La tradizione ci narra che Elia ascese al cielo su un carro di fuoco. In ciò è stata vista anche la prefigurazione della futura resurrezione di Cristo.
Nel busto in legno policromato di Postiglione, il profeta regge nel pugno della mano destra una torcia infuocata, simbolo della propria ascesa al cielo. La mano sinistra, invece, regge un libro sacro. L’impostazione iconografica e la solennità del personaggio ricordano altre statue colombiane in cui diversi santi, e santi vescovi in particolare, sorreggono con la mano sinistra libri sacri. Il volto barbuto del profeta Elia è vicino a quelli di “Sant’Arsenio abate” e di “Sant’Andrea apostolo”, opere colombiane che sono conservate rispettivamente a Sant’Arsenio, nel Vallo di Diano, e a Gricignano di Aversa.
Ma in quest’opera conservata a Postiglione vi sono elementi che non solo mettono in evidenza un marcato realismo fisiognomico dell’anziano profeta, ma sembra potersi riconoscere una vena stilistica che rimanda al ricordo dei volti michelangioleschi della figura di Dio Padre nella “Creazione di Adamo” nella volta della Cappella Sistina e in quello di “Mosè” in San Pietro in Vincoli a Roma. Come pure sono evidenti il realismo tipico delle figure presepiali napoletane e l’aria severa e accigliata del profeta, dalla lunga e fluente barba bianca. Anche il profeta Elia evidenzia la bocca semiaperta, che lascia intravvedere l’arcata dentale superiore, tipica delle opere colombiane e in genere della statuaria napoletana in legno dipinto tra il XVII e il XVIII secolo. In generale, la figura del profeta dell’Antico Testamento stilisticamente presenta, anche qui, una vena creativa equilibrata che, a dir la verità, è sempre stata una caratteristica delle opere colombiane, priva del linguaggio mosso, arioso e colorato, del rococò e priva degli sbuffi di stoffa svolazzanti nel vento.
L’opera si presenta con un’aura di grande compostezza e solennità, in linea con l’autorevolezza del personaggio biblico rappresentato. Anche in questo busto in legno dipinto di Postiglione si riconosce l’importanza della cultura scultorea napoletana, troppo spesso dimenticata.
Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli Pubblicato il
di Antonio Faita *
Nell’ambito delle arti figurative e, in particolare, di quelle che si svilupparono meravigliosamente fra il XVII ed il XVIII secolo nel Regno di Napoli, la scultura lignea è sempre stata considerata a torto come arte minore[1]. A lungo trascurata rispetto alla pittura e alla scultura su marmo, in questi ultimi anni è divenuta oggetto di maggiore attenzione da parte degli studiosi, sviluppando, in maniera esponenziale, un nuovo filone di ricerca rivolto allo studio della scultura lignea napoletana[2] nell’acquisita consapevolezza che si tratti di uno dei principali fenomeni storico-artistici dell’intero Meridione in Età Moderna.
A seguito della mia pubblicazione dedicata agli scultori Francesco e Giuseppe Verzella e alla loro bottega[3], è mio intento fornire un piccolo contributo in argomento, segnalando nelle pagine che seguono, un’opera inedita di un poco noto scultore napoletano, Giuseppe Sarno.
Meno nota, o quantomeno poco conosciuta dagli storici d’arte, è la statua di san Giuseppe con Gesù Bambino ubicata nella sacrestia della chiesa di santa Teresa in Gallipoli e per questo, poco visibile dalla gente. Sul lato corto della base pentagonale, cui poggia il simulacro, vi è apposta la firma e la data «Giuseppe Sarno Scultore Napoli 1797».
L’accento plastico delle figure è caratterizzato dall’incedere del santo e dalla distribuzione dei drappi, ricordando soluzioni adottate nel linguaggio pittorico di Francesco De Mura, tra dolcezza rococò e splendore neoclassico[4].
Proprio in questo linguaggio sono ispirate le sculture di Giuseppe Sarno, realizzandone diverse per le chiese di Napoli e nel Regno di Napoli, e qui egli fu attivo dal 1764 ai primi dell’Ottocento (1820, santa Sofia, Santuario omonimo ubicato in Poderia, frazione di Celle di Bulgheria, SA).
Le fonti ottocentesche, dal Filangieri al Perrone, lo menzionano come modellatore di animali e pastori in terracotta, di cui alcuni firmati[5], per la produzione presepiale che con l’avvento di Carlo di Borbone, a Napoli trovò terreno fertile, vedendo impegnati una numerosa schiera di artisti[6] delle varie arti. L’esiguo numero di opere datate non consente di stabilire con molta precisione quando iniziò a plasmare figure in terracotta, ma è certo che tale interesse ebbe a seguire quello per le sculture lignee[7].
E proprio in una fonte ottocentesca il Sarno viene citato per la prima volta a Gallipoli. Pietro Muisen (1811-1880), valtellinese di origine, e trasferitosi a Gallipoli, per motivi di lavoro, fu autore del libro “Gallipoli e i suoi dintorni”, pubblicato nel 1870. Il Muisen, nel descrivere la ‘Congregazione del SS. Crocifisso’, così scrive: «In questa chiesa si ammirano pure due eccellenti scolture in legno, nelle statue di S. Michele Arcangelo e della Vergine Addolorata, lavoro dello scultore mastro Sarno Napoletano»[8]. Il Muisen non riporta il nome, come neanche l’anno della loro realizzazione.
Consultando l’archivio storico della confraternita del SS. Crocifisso, e precisamente il ‘Domenicale 1794-1826’, si evince che nel 1796, in occasione della festività di san Michele Arcangelo, loro protettore, viene portata in processione per le vie della città la statua di san Michele[9]; il Venerdì Santo, del successivo anno, si fece la processione penitenziale per i Sepolcri, portando ‘La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli’[10]. Come si può notare il nome del Sarno non compare sulle pagine del ‘Domenicale’. Si può ipotizzare che sia stata una dimenticanza del segretario verbalizzante oppure il passare del tempo abbia fatto affievolire la firma sulle basi dei rispettivi simulacri, fino a scomparire del tutto o, ancora, il nome dell’artista sia stato riferito da qualche anziano confratello al Muisen, durante la sua visita all’oratorio confraternale.
Fatto sta, che dagli interventi di restauro, eseguiti in questi ultimi anni, non è emersa nessuna scritta dai vari strati pittorici rimossi. Se così fosse, perché il Muisen si limita a riportare solo il cognome? In ambito storiografico, emergono alcuni nomi, come: Ignazio Sarno, allievo dello scultore Pietro Patalano, che a dire, da Borrelli, forse padre del nostro Giuseppe[11]; Luigi Sarno, il cui nome si evince, attraverso la firma segnata a tergo della pettiglia di un ritratto di uomo[12]; Giovanni Sarno, citato dal Mancini[13].
Tornando al simulacro di san Giuseppe e alla sua venerazione presso la chiesa delle suore teresiane, è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo[14].
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe. Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe.
Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva. È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe”.
Quarto, in Puglia, dopo quello di Lecce (1620), Bari (1630) e Brindisi (1672)[15], il monastero di Gallipoli, sotto il titolo dei SS. Nomi di Gesù, Maria e Giuseppe, fu terminato il 23 aprile 1690, contestualmente alla chiesa intitolata alla santa di Avila, per devozione e volontà di mons. Antonio Perez de la Lastra,[16] vescovo di Gallipoli. Secondo quanto si può presumere, il culto di san Giuseppe fu introdotto nel monastero gallipolino, seguendo l’esempio e la dottrina della santa Madre Teresa, che lo venerava con affetto speciale. Alcune sorelle scelsero, da religiose professe, il nome del santo[17] e tutte si affidarono, con la preghiera, alla sua intercessione invocandolo quale provvido protettore della chiesa e dell’Ordine. Introdussero la celebrazione del «Patrocinio di san Giuseppe», una particolare festa concessa ai Carmelitani da Papa Innocenzo XI, il 6 aprile 1680.
Presso l’Archivio Storico della Curia Vescovile di Gallipoli, in alcuni registri degli introiti ed esiti a partire dal 1798, vi è traccia delle spese sostenute dalle sorelle per la festività del «Patrocinio di san Giuseppe»[18]. In particolar modo, nella minuta degli esiti del 1799 si rileva una cospicua spesa di ducati 29 e 55 carlini per la buona riuscita della festa[19]. Nell’anno successivo si aggiunse alla spesa del Patrocinio anche quella per l’acquisto di «Due aste nuove alla Bara di S. Giuseppe», corrispondente alla cifra di carlini 30[20]. Questo dato importante ci fa dedurre che la statua di san Giuseppe, dopo qualche anno del suo arrivo da Napoli, veniva portata in processione.
Tale festività è attestata in tutte le annate dei libri dei conti fino al biennio 1811/12, a parte un vuoto dal 1808/09 al 1810/11, in quanto mancanti[21].
Nel 1836 ne fa cenno anche Bartolomeo Ravenna: «Vi si celebrano annualmente le festività di Santa Teresa, del Carmine, e del Patrocinio di San Giuseppe»[22].
Custodito in una teca di legno e vetro, il simulacro è intagliato a tutto tondo con grande perizia e tecnica. Il Sarno, nel rispetto della tradizione iconografica, lo rappresenta in una postura classica, di mezza età, con un folto casco di capelli, la barba ricciuta e la fronte corrugata. Il santo indossa una tunica con bavero di colore marrone; è avvolto in un manto ocra e denso di pieghe che avvolge il corpo per poi girare dietro, cadendo sulla base, come sostegno del simulacro stesso. Giuseppe tiene fortemente tra le braccia il bambino Gesù, parzialmente coperto da un panno decorato a racemi vegetali su una pellicola pittorica di colore verde chiaro. Il Bambinello protende il braccio destro con la manina aperta delicatamente verso il mento del santo, invece il sinistro, sospeso, crea una perfetta simmetria con gli arti inferiori.
La tensione naturalistica del Sarno si è concentrata sui gesti e sull’espressione, in particolare nello sguardo intenso del Santo che non osserva il Bambinello ma, perso nel vuoto e con la bocca semiaperta, è in procinto di parlare. Nel complesso la scultura è caratterizzata da un vigoroso plasticismo ed evidente gusto per le ricche forme corpose. L’inedito san Giuseppe (firmato e datato), fino a pochi anni fa completamente ignorato dalla storiografia, dipende da uno schema d’imitazione intimamente assimilato dalle opere di Giuseppe Picano, al quale il Sarno si ispirava, attingendo dal repertorio tradizionale innervando quelle che erano le antiche forme.
Le conformità stilistiche di san Giuseppe con le altre opere note dell’artista in vari centri della Campania, Puglia, Calabria e oltre, fino alla Spagna (soltanto recentemente si è venuti a conoscenza dell’esistenza di un bellissimo san Michele Arcangelo firmato e datato 1775, presso il monastero di santa Clara di Hellín (Murcia), la cui scoperta si deve alla studiosa Isabella Di Liddo [23]), appaiono evidenti, specie nella resa del panneggio, nello studio dell’anatomia e nel movimento delle figure.
Il poco conosciuto Giuseppe Sarno doveva risultare, nel suo tempo, un maestro molto celebre, come risulta dalle numerose commissioni documentate e dalle tante opere a lui attribuite[24]. Ancora scarne sono le notizie e le citazioni biografiche per delineare un profilo e inquadrare la sua formazione e lo sviluppo della sua bottega[25]. Sulla scorta, di queste osservazioni e del san Giuseppe, opera ‘certa’, di Giuseppe Sarno, credo si debba ora procedere a un esame delle due statue del san Michele Arcangelo e della Madonna Addolorata, argomento di discussione per gli studiosi di storia locale, riguardo la loro autenticità: il raffinato intaglio del san Michele e la dolcezza della Vergine; lo studio meticoloso delle forme; l’attenzione scrupolosa alle giuste proporzioni fra le diverse parti del corpo; il vario atteggiarsi degli aspetti esteriori che assecondano l’espressione dei sentimenti rappresentati; la posizione delle mani; lo studio delle dita affusolate e bene intonate alla figura nell’insieme, per la similitudine con le altre opere, datate e documentate, si può determinare l’autenticità prima e la paternità poi, al ‘nostro’ Giuseppe Sarno.
La presenza di queste opere dell’artista a Gallipoli, considerato uno dei più sensibili interpreti delle moderne istanze rococò alla fine del XVIII secolo, stanno a testimoniare rapporti intensi tra lo scultore e la committenza gallipolina. A rendere ancora più significativa la circostanza è la restituzione al pubblico del san Giuseppe, opera importante, riemersa dall’oblio, che va ad arricchire quell’immenso patrimonio artistico di Gallipoli e ad aggiungersi, insieme al san Michele Arcangelo e alla Madonna Addolorata, a quelle opere del Sarno finora sconosciute dalla bibliografia.
Note
[1] U. Di Furia, Il “San Francesco Saverio” di Bernardo Valentinoa Calvello: Opera inedita di un poco noto scultore napoletano, in Basilicata Regione Notizie, n. 119-120, Anno 2008, p. 217.
[2] G. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli, Ed. Paparo, 2005; Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra, a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma, Ed. De Luca, 2007; I. Di Liddo, La circolazione della scultura lignea barocca nel Mediterraneo. Napoli, la Puglia e la Spagna. Una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, Roma, Ed. De Luca, 2008; Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra, a cura di P. Leone de Castris, Napoli, Ed. Paparo, 2009.
[3] A. Faita, Gli scultori Verzella tra Puglia e Campania. Committenza e devozione, Galatina. Ed. Congedo, 2015.
[4] Cfr. G. Filangieri, Indice degli artefici delle arti maggiori e minori, la più parte ignoti o poco noti, sì napoletani e siciliani, sì delle altre regioni d’Italia o starnieri, che operano tra noi, con notizia delle loro opere e del tempo del loro esercizio da studi e nuovi documenti, vol.II, Napoli, p.426.
[5] G Borrelli, Il presepe napoletano, Napoli, Ed. De Luca-D’Agostino, 1970, p. 236.
[6] F. Mancini, Il Presepe napoletano nella collezione Eugenio Catello, Napoli, Ed. Sadea/Sansoni, 1967, s.n.
[7] G. Borrelli, op. cit., p. 107.
[8] bcg, p.muisen, Gallipoli e i suoi dintorni, Gallipoli, Tipografia municipale, 1870, p. 108; il nome del Sarno è citato da mons. Gaetano Muller nella visita pastorale effettuata all’oratorio confraternale il 7 luglio 1905, in adg, Visita pastorale di Mons. . Muller, Gen. 1903 - Lugl. 1907, p.319.
[9] acssg, Domenicale 1794-1826, Anno 1796 «8 detto [Maggio] giorno di Domenica dedicato alla festività del Glorioso S. Michele Arcangelo nostro Protettore si celebrò in detta nostra Congregazione la sua festa con pompa si celebrarono varie messe, e col Padre si cantò la messa con assistenza de ministri, e dopo si portò processionalmente alla Città la Statua di S. Michele. La tassa là fatta il Primo assistente Nicola Fontana ed il 2° assistente Domenico Pisanello», s.n.
[10] Ibdem, Anno 1797 «14 detto [Aprile] Venerdì Santo Radunati la matina li fratelli si fece la processione di penitenza per li Sepolcri, a Cappuccini portando La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli e dopo sene andarono in santa Pace», s.n.; g. f. mosco, Gallipoli - Venerdì Santo. Moviola per una processione, Tuglie, Tip. 5EMME, 2003, p. 14.
[11] G Borrelli, op. cit., p. 56.
[12] Ibidem, p.100; a. di lustro, Gli scultori Gaetano e Pietro Patalano, in La Rassegna d’Ischia, n. 9/1987, s.n.
[13] F. Mancini, op. cit., s.n.; m. liaci, Simulacri sacri. Statue in legno e cartapestadel territorio C.R.S.E.C. di Ugento, a cura di Regina Poso, Taviano, GRAFEMA, 2000, pp.198-201.
[14] l. di San Gioacchino, Il culto di San Giuseppe e l’Ordine del Carmelo, Barcellona, 1905, c. 2, p. 48.
[15] C. Casole, Il Monastero delle Carmelitane scalze di Gallipoli, Manduria (TA), Tip. Tiemme, 1992, p. 63.
[16] Ibidem, p. 66.
[17] La prima fu proprio la cofondatrice e prima Maestra delle novizie, suor Maria di san Giuseppe, al secolo, Anna Maria Chirlingort, professata nel 1693.
[18] Acvg, Documentazione recuperata dal Nucleo Polizia Tributaria di Lecce, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1798-1799. Purtroppo non si dispone di altri documenti di introito ed esito antecedenti al 1798. Come ne anche presso l’archivio del monastero delle carmelitane.
[19] Ibidem, Patrocinio di S. Giuseppe: «Al Sigr. Chiriatti per la musica d.6; Panegirico d.2:50; Al Capitolo per l’assistenza d.7:50; Ai chierici, e Ministro della messa cantata c.80; facchino per i mantici, e sedie c.35; Al Fochista per mortaretti e Batterie d.9:50; Trombetta e due tamburri d. 1:90; Apparatura di chiesa d.1» tot. d.29:55
[20] Adg, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1799-1800. Minuta di spese.
[21] Ibidem, 1800/01, 1801/02, 1802/03, 1803/04, 1804/05, 1805/06, 1806/07, 1807/08, 1811/12.
[22] Cfr., B. Ravenna, Memorie istoriche della fedelissima città di Gallipoli, presso Raffaele Miranda, Napoli 1836, p. 385.
[23] I. Di Liddo, op. cit., p. 240.
[24] Cfr., E. Valcaccia, i Tesori Sacri di Castellammare di Stabia. La scultura del Settecento e dell’Ottocento, Castellammare di Stabia (NA), Ed. Longobardi, 2016, p. 48.
[25] Ibidem, p. 49.
* Fonte: Fondazione Terra d’Otranto, 19/03/2020 (ripresa parziale, senza immagini).
BENI CULTURALI, TERRITORIO, SCUOLA... SCUOLA, TERRITORIO, BENI CULTURALI.
CONTURSI TERME, PRINCIPESSA DI EBOLI, E TERESA D’AVILA.
Una "Cappella Sistina" in rovina ...
LETTERA APERTA AL DIRIGENTE dell’ IIS “Perito-Levi-Daniele” di Eboli
Ch.mo Prof.
Giovanni Giordano
Essendo stato nei lontani anni Sessanta allievo del Liceo Classico "E. Perito" (Preside, prof. Emilio Di Leo, e Vice-Preside, prof. ssa Pansa-Gammino) e, al contempo, sapendola anche Dirigente dell’Istituto Comprensivo di Contursi Terme, Le ho qui inviato per conoscenza alcuni "appunti" relativi a un "monumento" di grande interesse storico-culturale sia per Eboli (e la "Principessa di Eboli") sia per Contursi (Teresa d’Avila): la Chiesa della Madonna del Carmine di Contursi Terme.
Sull’argomento, e per un primo orientamento, mi permetta di sollecitarLa a prendere in prestito dalla biblioteca del suo Liceo, il seguente volume (circa 10 copie presenti): Federico La Sala, "Della Terra, il brillante colore"; -***consultare questo "doc." in rete (Lettera aperta al Soprintendente di Salerno, sullo stato della Chiesa "Maria SS. del Carmine" di Contursi Terme),
LETTERA APERTA, AL VENTO...
All’Assessore alla cultura del Comune di Contursi Terme
CARA GERARDA FORLENZA....
Ti scrivo in merito all’immane degrado (oggi, 11.02.2020) in cui versa la Chiesa della Madonna del Carmine....
DAL MOMENTO CHE, purtroppo, piano piano, giorno per giorno, e anno dopo anno, hai perso la memoria,
rivedi questo documento dello stesso Comune di Contursi Terme, del 12 agosto 2013:
http://62.77.55.6/contursiterme/index.php?action=index&p=976
e poi confronta il tutto con queste foto del 10 febbraio 2020:
https://www.google.it/maps/place/Monastero+della+B.V.+del+Carmine/@40.64925,15.2387409,3a,75y,90t/data=!3m8!1e2!3m6!1sAF1QipMLZKPe_jYUZ5lAqS1IbMPMXJ44INamlN0byIab!2e10!3e12!6shttps:%2F%2Flh5.googleusercontent.com%2Fp%2FAF1QipMLZKPe_jYUZ5lAqS1IbMPMXJ44INamlN0byIab%3Dw203-h135-k-no!7i2738!8i1825!4m5!3m4!1s0x133968beb81f6093:0xd3d3b406944f60e3!8m2!3d40.6492709!4d15.2384059
MI AUGURO E SPERO CHE, con le indicazioni di B.B.:
... e con l’aiuto spirituale di Mariano Arciero, in occasione della festa a Lui dedicata (il 16 febbraio), TU POSSA RICORDARE al nuovo arcivescovo, Andrea Bellandi, il legame del Beato Mariano Arciero con la Madonna del Carmelo e la Chiesa della Madonna del Carmine (quando era piccolo, chissà, quante e quante volte l’ha visitata - sarà stata sicuramente quasi già la sua "casa"!!!), e, con l’Arcivescovo Bellandi, RICORDARE la "brillante" manifestazione (di cui anche tu sei stata grande protagonista) del 12 agosto 2013, avvenuta all’interno della Chiesa della Madonna del Carmine!!!
PERMETTIMELO. Sveglia! E non sciupare il percorso e il lavoro già fatto!!! Raccorda la tua memoria e la nostra (di tutti i contursani e di tutte le contursane) storia e, portandola fuori dal *pantano* e dal *burrone* in cui sembra che stia "affondando", ri-aggangiati (ri-aggangiamoci) alla memoria dei "nostri" Giovanni e Giambattista Rossi (legatissimi anche loro a Teresa d’Avila e all’ordine carmelitano), e, con loro, ... cerchiamo di approdare a *Ripacandida* (Potenza). E tornati da lì, recuperate aria e respiro, potremo certamente riportare in sicurezza e bellezza la Chiesa della Madonna del Carmine di Contursi Terme!!! O no?!
Buona giornata e buon lavoro,
Federico La Sala
***
CH. MO PROF GIORDANO,
Sia gentile, SUL TEMA E SUL PROBLEMA, voglia accogliere ANCORA la Testimonianza e la documentazione del sig. Alfonso Apostolico (anch’egli già allievo del suo Liceo - e mio compagno di classe): *
Domenica 9 Febbraio [2020]sono ritornato a Contursi Terme per rivedere l’interno della Chiesa del Carmine, essendo stato informato che, nella mattinata, sarebbe stata aperta. C’ero già stato tre volte, nel corso degli anni passati, ma ho sempre trovato cielo nuvoloso. Questa volta ho approfittato di una giornata bellissima, sole pieno e temperatura fresca. Situazione ideale per scattare foto con l’esaltazione dei colori degli affreschi.
Già dall’ingresso era visibile l’affresco sotto la cupola, nella sua pienezza di colori e nella potenza espressiva (non a caso è stata denominata "la piccola Cappella Sistina"). Purtroppo il pavimento era cosparso di detriti derivanti dallo sfaldarsi dell’intonaco, caduti dall’alto. Sulle panche erano presenti anche detriti più consistenti, segno che ha iniziato a cedere anche la struttura dell’intonaco.
E’ in corso lo sfacelo della Chiesa, già recuperata dopo il terremoto con l’impiego di risorse pubbliche a cura della Soprintendenza e consegnata alla comunità contursana con la scoperta e recupero degli affreschi di 12 Sibille scoperte sulle pareti laterali. I lavori terminarono nel 1989.
Già nel 12 Marzo del 2012 partì una richiesta di intervento inviata al Soprintendente, per segnalare che "purtroppo, dopo molti anni di totale incuria, la sua (=della Chiesa) situazione ora sta precipitando paurosamente.
Solo per darle un’idea, Le ho qui allegato una foto relativa allo stato attuale del tetto ... uno scenario orribile ....". I tecnici della Soprintendenza giunsero a Contursi, fecero un sopralluogo e redassero una relazione tecnica, che consegnarono all’allora Sindaco.
Una costante assenza di iniziative ha portato ad un lento, costante ed inesorabile peggioramento dello stato delle strutture, Fino ad arrivare ad oggi. Piange il cuore nel vedere come una comunità assiste muta alla scomparsa di proprie radici.
Le foto allegate intendono rappresentare il dramma in atto in questo luogo, che oltre ad avere valenza storico-culturale, è anche un luogo di culto, officiato. Ma non demordo.
RINGRANZIANDOLA PER L’ATTENZIONE che vorrà porgere a questo "appello", a tutti i livelli,
La saluto.
Buona giornata e buon lavoro!
Con stima,
Federico La Sala
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI. UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA.... *
Testimonianza e documentazione
di Alfonso Apostolico *
Domenica 9 Febbraio sono ritornato a Contursi Terme per rivedere l’interno della Chiesa del Carmine, essendo stato informato che, nella mattinata, sarebbe stata aperta. C’ero già stato tre volte, nel corso degli anni passati, ma ho sempre trovato cielo nuvoloso. Questa volta ho approfittato di una giornata bellissima, sole pieno e temperatura fresca. Situazione ideale per scattare foto con l’esaltazione dei colori degli affreschi.
Già dall’ingresso era visibile l’affresco sotto la cupola, nella sua pienezza di colori e nella potenza espressiva (non a caso è stata denominata "la piccola Cappella Sistina"). Purtroppo il pavimento era cosparso di detriti derivanti dallo sfaldarsi dell’intonaco, caduti dall’alto. Sulle panche erano presenti anche detriti più consistenti, segno che ha iniziato a cedere anche la struttura dell’intonaco.
E’ in corso lo sfacelo della Chiesa, già recuperata dopo il terremoto con l’impiego di risorse pubbliche a cura della Soprintendenza e consegnata alla comunità contursana con la scoperta e recupero degli affreschi di 12 Sibille scoperte sulle pareti laterali. I lavori terminarono nel 1989.
Già nel 12 Marzo del 2012 partì una richiesta di intervento inviata al Soprintendente, per segnalare che "purtroppo, dopo molti anni di totale incuria, la sua (=della Chiesa) situazione ora sta precipitando paurosamente.
Solo per darle un’idea, Le ho qui allegato una foto relativa allo stato attuale del tetto ... uno scenario orribile ....". I tecnici della Soprintendenza giunsero a Contursi, fecero un sopralluogo e redassero una relazione tecnica, che consegnarono all’allora Sindaco.
Una costante assenza di iniziative ha portato ad un lento, costante ed inesorabile peggioramento dello stato delle strutture, Fino ad arrivare ad oggi. Piange il cuore nel vedere come una comunità assiste muta alla scomparsa di proprie radici.
Le foto allegate intendono rappresentare il dramma in atto in questo luogo, che oltre ad avere valenza storico-culturale, è anche un luogo di culto, officiato. Ma non demordo.
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Fonte: Profilo Facebook (vedi: documentazione fotografica).
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI.... "Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale" (Fulvio Papi).
Federico La Sala
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! ... *
Cantico dei Cantici.
Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)
di Luigino Bruni (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi.
Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio.
Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza ’bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni.
Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova:
Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica:
La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ’nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare e a Giovanni Garbini.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
LETTERA APERTA, AL VENTO...
All’Assessore alla Cultura del Comune di Contursi Terme
CARA GERARDA FORLENZA....
Ti scrivo in merito all’immane degrado (oggi, 11.02.2020) in cui versa la Chiesa della Madonna del Carmine....
DAL MOMENTO CHE, purtroppo, piano piano, giorno per giorno, e anno dopo anno, hai perso la memoria,
TI SOLLECITO a rivedere questo documento dello stesso Comune di Contursi Terme, del 12 agosto 2013: http://62.77.55.6/contursiterme/index.php?action=index&p=976
e poi confronta il tutto con queste foto del 10 febbraio 2020: https://www.google.it/maps/place/Monastero+della+B.V.+del+Carmine/@40.64925,15.2387409,3a,75y,90t/data=!3m8!1e2!3m6!1sAF1QipMLZKPe_jYUZ5lAqS1IbMPMXJ44INamlN0byIab!2e10!3e12!6shttps:%2F%2Flh5.googleusercontent.com%2Fp%2FAF1QipMLZKPe_jYUZ5lAqS1IbMPMXJ44INamlN0byIab%3Dw203-h135-k-no!7i2738!8i1825!4m5!3m4!1s0x133968beb81f6093:0xd3d3b406944f60e3!8m2!3d40.6492709!4d15.2384059
MI AUGURO E SPERO CHE, con le indicazioni di B.B.:
... e con l’aiuto spirituale di don Mariano Arciero, in occasione della festa a Lui dedicata (il 16 febbraio), TU POSSA RICORDARE al nuovo arcivescovo, Andrea Bellandi, il legame del Beato Mariano Arciero con la Madonna del Carmelo e la Chiesa della Madonna del Carmine (quando era piccolo, chissà, quante e quante volte l’ha visitata - sarà stata sicuramente quasi già la sua "casa"!!!), e, con l’Arcivescovo Bellandi, RICORDARE la "brillante" manifestazione (di cui anche tu sei stata grande protagonista) del 12 agosto 2013, avvenuta all’interno della Chiesa della Madonna del Carmine!!!
PERMETTIMELO. Sveglia! E non sciupare il percorso e il lavoro già fatto!!! Raccorda la tua memoria e la nostra (di tutti i contursani e di tutte le contursane) storia e, portandola fuori dal *pantano* e dal *burrone* in cui sembra che stia "affondando", ri-aggangiati (ri-aggangiamoci) alla memoria dei "nostri" Giovanni e Giambattista Rossi (legatissimi anche loro a Teresa d’Avila e all’ordine carmelitano), e, con loro, ... cerchiamo di approdare a *Ripacandida* (Potenza). E tornati da lì, recuperate aria e respiro, potremo certamente riportare in sicurezza e bellezza la Chiesa della Madonna del Carmine di Contursi Terme!!! O no?!
Buona giornata e buon lavoro,
Federico La Sala
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Giovanni della Croce.
Ogni vita è purificazione attraverso le prove: la lezione di un grande maestro di spiritualità
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 14 dicembre 2019)
Il cammino della vita è un percorso di purificazione: con l’avanzare dell’età le prove, le ferite, gli ostacoli ci insegnano a prendere le distanze da ciò che possediamo per concentrarci su chi siamo. Questo itinerario dell’anima è ciò che caratterizza l’eredità di san Giovanni della Croce, un maestro di spiritualità e un riformatore della Chiesa vissuto nel XVI secolo.
Artigiano, religioso, poeta e dottore della Chiesa, era nato attorno al 1540, a Fontiveros (Avila, Spagna), nel 1563 a Medina era entrato tra i Carmelitani e nel 1567 era diventato sacerdote.
Nello stesso anno incontrò santa Teresa di Gesù, che stava per fondare due conventi di Carmelitani contemplativi (poi detti Scalzi): il 28 novembre 1568 Giovanni entrò nel primo nucleo di riformati a Duruelo. Ricoprì diversi incarichi, e dal 1572 al 1577 fu anche confessore-governatore del monastero dell’Incarnazione di Avila. Per un errore giudiziario per otto mesi fu in carcere, dove scrisse molte delle sue poesie. Morì nel 1591.
Altri santi. San Pompeo di Pavia, vescovo (IV sec.); sant’Agnello di Napoli, abate (VI sec.).
Letture. Sir 48,1-4.9-11; Sal 79; Mt 17,10-13.
Ambrosiano. Ez 35,1;36,1a.8-15; Sal 147; Eb 9,11-22; Mt 21,28-32.
Il santo del giorno *
Teresa d’Avila.
Dentro al castello dell’anima si trova il tesoro più prezioso
di Matteo Liut (Avvenire, martedì 15 ottobre 2019)
Saper entrare nel "castello" della propria anima richiede una scelta personale, un cammino da percorrere per raggiungere il cuore della vita. Passo dopo passo, stanza dopo stanza, scopriamo la verità su noi stessi e impariamo a plasmare il mondo attorno a noi. Era questa la strada indicata da santa Teresa d’Avila, che seppe affiancare la sua esperienza ascetica a un’intesa attività riformatrice. La sua eredità più nota è "Il castello interiore", ma anche la sua opera di rinnovamento del Carmelo fu un vero e proprio dono per tutta la Chiesa.
Nata nel 1515 ad Avila, era entrata nel Carmelo nel 1535 prendendo il nome di Teresa di Gesù. All’età di 39 anni visse quella che lei chiamò la sua "conversione", dedicandosi poi alla riforma dei monasteri carmelitani sia femminili che maschili. Morì ad Alba de Tormes (Salamanca) nel 1582; santa dal 1622, dal 1970 è dottore della Chiesa.
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Altri santi. San Barses di Edessa, vescovo (IV sec.); beato Narciso Basté Basté, sacerdote e martire (1866-1936).
Letture. Rm 1,16-25; Sal 18; Lc 11,37-41.
Ambrosiano. 1Tm 4,16-5,14; Sal 62 (63); Lc 22,67-70.
Storia e attualità.
Il ritorno a casa dei Sefarditi, cinque secoli dopo
Si è chiuso il procedimento avviato da una legge del 2014 che ha consentito ai discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna alla fine del XV secolo di “riacquisire” la "perduta" cittadinanza iberica
di Paola Del Vecchio (Avvenire, sabato 12 ottobre 2019)
Il colombiano Andrés Villegas spera di trascorrere «una gradevole vecchiaia » in Spagna. E per questo non gli è costato spulciare nei registri ecclesiastici e perfino negli archivi dell’Inquisizione di Cartagena, che condannava chi praticava riti ebraici, per risalire ai suoi avi. In particolare al capitano Cristobál Gómez de Castro, che nacque nel 1595 e fu perseguitato per diffondere l’ebraismo.
Andrés Villegas è uno delle decine di migliaia di ebrei sefarditi che recupereranno la nazionalità spagnola persa oltre cinque secoli fa dai propri ascendenti, cacciati in massa per effetto dell’editto di conversione al cattolicesimo o di espulsione degli ebrei (Decreto di Alhambra), firmato il 31 marzo del 1492 dai Re Cattolici. È all’origine della diaspora che pose fine a 1.500 anni di presenza degli ebrei a Sefarad, il toponimo col quale la tradizione ebraica identificava la penisola iberica, per cui i discendenti sono identificati come ebrei sefarditi.
Molti si rifugiarono nell’adiacente Portogallo, in nord Africa, nei Balcani, in Turchia, ma anche in Sardegna e Sicilia, sotto il dominio spagnolo, e poi nelle Americhe. «Alcuni di loro, come avviene nei bazar di Istanbul, ancora conservano le chiavi delle case dalle quali furono cacciati», ricorda Ibrahim Lorenz, sefardita marocchino naturalizzato spagnolo.
Per riparare quella «ingiustizia storica», il governo di Madrid varò nel 2014 un disegno di legge per riconoscere la nazionalità - senza perdere quella d’origine - a tutti coloro in grado di dimostrare, con un certificato della Federazione delle comunità ebraiche in Spagna o dell’autorità rabbinica riconosciuta nel proprio Paese, la propria condizione di sefarditi per cognome, lingua, parentela e vincoli speciali con la cultura sefardita. La normativa, approvata all’unanimità dal Parlamento, puntava a «riparare un aggravio storico».
Il primo ottobre scorso, alla scadenza del termine previsto dalla normativa, sono state 149.822 le richieste pervenute al Ministero di giustizia e al Consiglio generale del notariato, delle quali oltre 72 mila nel solo ultimo mese, in gran parte provenienti dall’America Latina: circa 20 mila dal Messico, 15 mila dal Venezuela e 10 mila dalla Colombia. «I sefarditi non sono più ’spagnoli senza patria’», ha celebrato Isaac Querub, presidente della Federazione di comunità ebraiche, promotrice dell’iniziativa con l’allora ministro di Giustizia, Alberto Ruiz-Gallardon. «La Spagna ha chiuso una ferita storica con un atto di giustizia perdurante nella memoria», ha rilevato.
Un rush finale per quello che è stato un percorso ad ostacoli, «relativamente difficile », secondo il quotidiano israeliano "Haaretz". Con la proroga di un anno della dead line, sono stati infatti semplificati alcuni dei requisiti richiesti. Non solo per la difficoltà delle comunità ebraiche di evadere le numerosissime petizioni, ma anche per la necessità di sostenere esami all’Istituto Cervantes, per accreditare la conoscenza di lingua e cultura spagnola. Più di tutto, l’esigenza di doversi recare in Spagna per registrare in atto notarile l’origine sefardita ha rappresentato un ostacolo per i circa 2 milioni di sefarditi stimati inizialmente da Madrid come eredi degli almeno 200 mila deportati e dispersi nel XV secolo.
«Nello spirito della legge c’è una sorta di risarcimento storico, per compensare la sofferenza che i sefarditi hanno manifestato nei secoli nella propria letteratura, poesia e canzoni», spiega Santiago Palacios, dottore di Storia Medievale all’Università Autonoma di Madrid. «Ma - afferma - è puramente simbolico. Colpisce che non sia stato avviato lo stesso processo con i moreschi, che soffrirono le stesse persecuzioni, per la comunità musulmana oggi radicata in prevalenza nel Magreb».
Per alcuni, come Doreen Alhadeff, statunitense di 69 anni di Seattle, che ha ottenuto la nazionalità per sé e le due nipoti, è stato più facile. In casa ascoltava parlare ladino, lo spagnolo che dal Medioevo le comunità sefardite ancora conservano. «Sentivo che era stato tolto qualcosa di importante alla mia famiglia e volevo recuperarlo», ha scritto nelle sue motivazioni.
Per altri, come lo scrittore francese Pierre Assouline, è stato più difficile. «Ho amici francesi che hanno ottenuto il passaporto spagnolo in maniera più rapida, è deludente», spiega l’autore, che nel suo dossier ha incluso una lettera al re Felipe VI.
La misura di «riconciliazione» consente di avere un passaporto europeo che, per molti latinoamericani, è il principale obiettivo. Da qui la corsa finale.
Già nel 2007 il governo socialista di Zapatero lanciò un’iniziativa di ’riparazione’ nei confronti dei discendenti di spagnoli emigrati durante la Guerra civile (1936-39) e il franchismo, naturalizzando mezzo milione di latinoamericani che riuscirono a provare la loro discendenza dagli esiliati.
La salvezza del mondo a piccoli passi
Il Papa racconta e si racconta nel discorso a braccio alle contemplative
di Andrea Monda (Osservatore Romano, 07 settembre 2019)
Nella vita di ogni uomo c’è una lotta «crudele ma bella», dice il Papa al termine di un discorso, tutto improvvisato, alla comunità delle Carmelitane Scalze di Antananarivo. Ed è bella questa lotta crudele che dura per tutta la vita di una persona perché, «quando è vera, non si perde la pace».
In quest’oasi nel centro della capitale del Madagascar, parlando alle religiose contemplative, il Papa ha evitato di leggere il discorso preparato e ha voluto parlare di pace, di lotta interiore e di discernimento (una parola che non ha pronunciato ma è il tema fondamentale del discorso) e lo ha voluto fare mettendosi a nudo, raccontando una storia, che è dell’800 ma è anche la sua, la nostra, la storia di queste suore di clausura che forse, magari senza saperlo, salvano il mondo.
La storia che il Papa ha raccontato con grande sapienza narrativa, facendo ridere e commuovendo l’uditorio, vede al centro una figura che gli è molto cara, santa Teresina di Lisieux. Non mi dilungo, il testo del discorso si ritrova in ultima pagina, ma non posso non soffermarmi su un paio dei passaggi-chiave di un racconto molto denso e ricco di spunti preziosi non solo per le suore a cui era destinato. Santa Teresina da giovane si trova a dover accudire una vecchia suora, quasi paralitica e anche un po’ nevrotica che la tormenta. «Ma la giovane» osserva il Papa, «sempre col sorriso la accompagnava» senza cedere alla tentazione di «mandarla a passeggio». Questa storia per il Papa è paradigmatica, «fa vedere lo spirito con cui si può vivere una vita comunitaria». La giovane santa non cede e anzi crede con ancora più coraggio nell’obbedienza e qui trova quella via della perfezione che le suore cercano entrando in convento. È la grande, luminosa, storia dei piccoli passi. Quei piccoli gesti, dice il Papa, che «sembrano niente ma sono piccoli passi che fanno schiavo Dio, piccoli fili che imprigionano Dio». Questo era il pensiero di Santa Teresina: le corde d’amore per legare Dio, quei «piccoli atti di carità, piccoli, piccolissimi, perché la nostra piccola anima non può fare grandi cose». A questo devono pensare le suore, al «coraggio di fare i piccoli passi, il coraggio di credere che nella mia piccolezza Dio è felice e compie la salvezza del mondo».
E questo è il primo atto del racconto che, come ogni buona storia, è strutturato in tre atti.
Il secondo atto è, canonicamente, quello del conflitto. C’è anche il diavolo in tutto questo, ma non è dove e come te lo aspetti, non è la vecchia suora nevrotica (poi vedremo chi è), non è la priora da cui andava Santa Teresina (e che non la sopportava) e da cui vanno ancora oggi tutte le giovani suore in difficoltà, non è lì il diavolo, anzi nella priora c’è Gesù dice il Papa, perché c’è la sfida dell’obbedienza, anche quando «bisogna riconoscere che non tutte le priore sono il premio Nobel della simpatia!». Insomma spunta il diavolo, e prima ci prova in modo grossolano: Santa Teresina sente la musica dei canti e dei balli che provengono dal “mondo” ed è tentata, ma resiste. Allora il diavolo si fa furbo e va «a chiedere consiglio a un altro diavolo più furbo», il quale gli fornisce consigli e strategie molto più sofisticate per vincere le resistenze della giovane suora. E qui spuntano almeno tre fonti letterarie: la prima è Le lettere di Berlicche di Lewis, ma è una fonte non proprio sicura, mentre invece è senz’altro una fonte certa quella che il Papa cita esplicitamente (il passo di Luca 11, 24-26) e forse ancora più certa è quella che il Papa non cita, cioè gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, la parte dedicata alla seconda settimana, quando lo scontro con il Maligno si fa ancora più duro e richiede un arduo discernimento.
E come si fa a combattere in questi casi? Il Papa lo dice apertamente che la salvezza può venire solo dagli altri, se ci si apre e si chiede soccorso senza pretendere di fare tutto da soli. È qui che la comunità gioca il suo formidabile ruolo di accompagnamento e di incoraggiamento. Ma bisogna parlare, aprirsi e confidarsi: «Per favore, sorella, quando tu senti qualcosa di strano, parla subito! [...] Se Eva avesse parlato in tempo, se fosse andata dal Signore a dirgli: “Questo serpente mi dice queste cose, tu cosa ne pensi?”».
Alla carità dei piccoli passi, primo atto, deve seguire la carità del chiedere consiglio, della trasparenza del cuore. Questo permette di vincere la sfida del Maligno sapendo che tornerà fino alla fine, come ha fatto con santa Teresina. Non si va “in pensione” dice il Papa, «fino alla fine, tu dovrai lottare». C’è qualcosa di autobiografico in questo passaggio, forse di profetico, senza dubbio il Papa “sente” particolarmente questa storia e l’ascoltatore “sente il sentimento” del Papa.
Dunque fine della storia? No, perché c’è il terzo atto. Con il colpo di scena che rivela chi è, oggi, la vecchia suora nevrotica. Lo lascio dire alle parole, toccanti, del Papa: «Vorrei finire la storia della Teresa con la vecchietta: questa Teresa, adesso, accompagna un vecchio. E voglio dare testimonianza di questo, voglio dare testimonianza perché lei mi ha accompagnato, in ogni passo mi accompagna [...] A volte sono un po’ nevrotico e la mando via. A volte l’ascolto; a volte i dolori non me la fanno ascoltare bene. Ma è un’amica fedele. Per questo non ho voluto parlarvi di teorie: ho voluto parlarvi della mia esperienza con una santa e dirvi cosa è capace di fare una santa e qual è la strada per diventare sante». In questa frase si trova, concentrato, uno dei segreti di questo pontificato, del suo stile “narrativo”: non teorie ma esperienze.
Per finire non servono allora parole di commento, se non quelle che il Papa stesso ha detto come a voler spiegare la sua improvvisazione: «Questo Papa è un po’ “folklorico”, perché invece di parlarci di cose teologiche, ci ha parlato come a delle bambine. Bambine. Magari foste tutte bambine nello spirito, magari! Con quella dimensione di fanciullezza che il Signore ama tanto». Dunque non è vero che solo ai bambini si raccontano le storie, le si raccontano anche agli adulti perché possano diventare bambini.
Giovanni Battista Rossi (1507-1578)
Muore a Roma il Priore Generale dell’Ordine Carmelitano Giovanni Battista Rossi (detto in spagnolo Rubeo), al quale il Carmelo Teresiano deve gratitudine e riconoscenza per aver assecondato la nostra Madre Teresa di Gesù nell’opera di Riforma.
Nato il 4 ottobre 1507, vestiva l’abito carmelitano a 17 anni di età, e nel 1562 prendeva il governo dell’Ordine. Fu il primo che sia andato in Spagna in visita canonica. In quell’occasione incontrò la Madre Teresa di Gesù, la quale aveva già iniziata la Riforma tra le monache, ottenne il suo consenso per fare altrettanto fra i frati. Nonostante divergenze e disinformazioni che turbarono una po’ la stima e l’amicizia reciproca, il padre Rossi nei confronti di Teresa continuò a chiamarla: «La mia figlia». È sepolto in Roma nel chiostro di San Martino ai Monti.
Quando santa Teresa faceva i regali
di Girolamo Rossi (Ravenna e dintorni, 6 marzo 2018)
Tra le figure di ravennati illustri va certamente ricordata quella di Giovanni Battista Rossi, carmelitano, zio di Girolamo Rossi autore delle Storie ravennati. Tra i numerosi incarichi ricoprì quello di generale dell’Ordine carmelitano e fu in questa veste che incontrò santa Teresa d’Avila e la incoraggiò nella sua opera riconoscendone la bontà.
Nel libro delle Fondazioni la santa ne traccia un ricordo sincero e colmo di gratitudine:
A Ravenna è custodita una piccola croce lignea che tradizione vuole sia stata donata proprio da santa Teresa a Giovanni Battista Rossi, in memoria della loro amicizia spirituale.
GIAMBATTISTA ROSSI E IL FILO "DELLE SIBILLE" - "DELLE MONACHE" TERESIANE - DA CONTURSI TERME (SALERNO) A RIPACANDIDA (POTENZA). Note: *
[GIAMBATTISTA ROSSI: Padre Giambattista Francesco Donato Rossi (anche Giovanbattista, Johannes Baptista Rossi in latino) (Ripacandida, 10 marzo 1690 - Ripacandida, 25 ottobre 1746) è stato un presbitero italiano.
Figlio dell’avvocato Donatantonio Rossi (originario di Contursi) e di Porzia Baffari. Le sue spoglie sono custodite nel cappellone del Santissimo Sacramento, in un monumento opera di stuccatori napoletani, nella chiesa di Santa Maria del Sepolcro di Ripacandida. Lo scrittore storico Giustino Fortunato affermò che:
I suoi genitori pii e religiosissimi, ospitavano i pellegrini che giungevano nella festa solenne di San Donato d’Arezzo, patrono di Ripacandida, dividendo con loro il cibo. Fin da piccolo visse come eremita nelle stanze attigue alla cappella della Madonna del Carmine, con Tommaso da Potenza. Praticava la stessa penitenza del suo concittadino San Donatello, del quale era devotissimo.
Affetto da epilessia guarì per voto fatto a san Donato, era devoto anche di san Pietro d’Alcantara. Crebbe con la lettura delle opere di Santa Teresa d’Avila e di San Giovanni della Croce, alimentando così la sua vocazione carmelitana. Portava il cilicio sulla nuda carne; e sul petto una croce di legno con 45 chiodini premendola spesso sul petto. La sua alimentazione era di tipo quaresimale, mangiava solo olive ammuffite, malva, frutti acerbi, beveva acqua mista ad aceto ed usava per letto la nuda terra.
Nel 1703 manifestò ai genitori di voler diventare religioso dei Carmelitani. Ottenuto il consenso anche dal fratello don Giovanni, arciprete di Ripacandida, partì alla volta di Napoli ma non poté attuare il suo sogno: fu rifiutato perché miope. Richiamato in famiglia per combinare il suo matrimonio con una ragazza del luogo, rifiutò dicendo "sarò prete". Nell’aprile 1713 fu ordinato sacerdote. Celebrando la messa era spesso rapito in estasi e dopo la celebrazione Eucaristica ringraziava con il volto proteso a terra. Rimaneva a lungo nel confessionale, si dedicava alla catechesi dei ragazzi e degli adulti, si portava al tramonto nelle campagne per raggiungere chi non poteva seguirlo in paese.
Per acclamazione del popolo e dell’ordine diocesano veniva eletto arciprete e nel 1731 gli viene affidata la chiesa madre di Santa Maria del Sepolcro. Desideroso di costruire un ricovero per le ragazze esposte a gravi pericoli, con il consenso del fratello Giovanni, donò la sua casa natale per la fondazione del monastero nel 1735 delle carmelitane, nel quale accorsero ragazze dai paesi vicini. Per un intero quaresimale, si recò tutti i giorni nella vicina Rionero in Vulture, in quel momento senza confessori. Partiva a piedi, predicava, ascoltava le confessioni per tornare a Ripacandida in serata. I rioneresi, volevano ricompensarlo con elemosine, ma egli non accettò esortandoli a fare il possibile per la costruzione della nuova chiesa. Memori dell’apostolato dell’arciprete Rossi vollero l’immagine della Madonna del Carmine, da allora la patrona di Rionero. Il 25 ottobre 1746 il venerabile servo tornò alla casa del padre, l’elogio funebre fu tenuto dall’arciprete Fusco di Rionero (Wikipedia, ripresa parziale).
*
Sul tema si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE .....
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Contursi Terme
Il confessore del Papa in visita alla città
CONTURSI TERME. Il sindaco Alfonso Forlenza ha accolto nei giorni scorsi padre Rocco Rizzo, rettore dei Penitenzieri Vaticani e confessore personale di Papa Francesco e del Papa emerito, Benedetto...
di Lucia Giallorenzo *
CONTURSI TERME. Il sindaco Alfonso Forlenza ha accolto nei giorni scorsi padre Rocco Rizzo, rettore dei Penitenzieri Vaticani e confessore personale di Papa Francesco e del Papa emerito, Benedetto XVI. Una visita nel centro storico e alle chiese insieme al presidente della Pro Loco di Ripacandida, Gerardo Cripezzi, all’assessore comunale alla cultura, Gerarda Forlenza, e ad un gruppo di cittadini.
Padre Rocco per l’occasione ha donato alla città alcune copie del suo ultimo lavoro su Giambattista Rossi, “Il parroco santo di Ripacandida”. Tra Contursi e Ripacandida c’è un legame cultura ed ecclesiale, in primis lo stesso patrono, San Donato, vescovo di Arezzo ma anche per aver dato i natali ad altri santi.
Padre Rocco Rizzo è originario proprio di Ripacandida in provincia di Potenza, località che ha dato i natali ai fratelli Rossi, Giambattista e Giovanni, figli di Donantantonio Rossi da Contursi. Padre Rocco ha voluto visitare i luoghi in cui quest’ultimo ha mosso i suoi passi prima di arrivare a Ripacandida.
«Già nel 1992 - spiega l’assessore Gerarda Forlenza - fu fatto un gemellaggio con la cittadina lucana nella ricorrenza della nascita di Giambattista Rossi; ed oggi con la visita di un figlio illustre di Ripacandida si intende proseguire su questa strada per rinsaldare i rapporti che già esistono grazie alle testimonianze del passato».
Giovanni Rossi, arciprete a Contursi dal 1727 al 1751 si adoperò in particolare per alcuni lavori alle chiese, fece compilare l’inventario dei beni che appartenevano della parrocchia, in qualità di vicario generale a Troia conobbe Sant’Alfonso de’ Liguori e infine concorse anche all’apertura della Casa di Materdomini.
Una nipote dei Rossi, suor Maria di Gesù, è inoltre in odore di santità, orfana di padre, dimorò a Contursi presso lo zio materno, don Giovanni. Proprio padre Rizzo sta portando avanti la causa per la sua beatificazione.
* La Città di Salerno, 05 novembre 2018 (ripresa parziale, senza foto).
Monastero delle Carmelitane Scalze di Ripacandida *
Il monastero delle Carmelitane Scalze (al secolo Palazzo Baffari-Rossi) sorge nel comune di Ripacandida ed è attiguo alla chiesa di San Giuseppe, comunemente chiamata chiesa delle Monache.
Prima ancora di essere monastero era il Palazzo Baffari-Rossi, e i suoi ultimi residenti furono i fratelli Giambattista Rossi e Giovanni Baffari, figli del dottor Donato Antonio Rossi e di Porzia Baffari. I due fratelli, entrambi sacerdoti donarono la casa dei loro avi per la fondazione del monastero, ispirato alla regola carmelitana della grande riformatrice Santa Teresa D’Avila.
Nel 1908 il monastero fu soppresso per mancanza di novizie e le poche suore rimaste mandate a Massalulebrense e nel 1909 il sindaco Francesco Virgilio decise di utilizzarlo come municipio.
Il terremoto del 1980 danneggiò l’edificio, e la sede fu trasferita in un nuovo edificio municipale costruito apposta nel 1983, appena fuori il centro storico. Nel 2006 sono iniziati i lavori per il rifacimento e la massiccia ristrutturazione sia all’interno che all’esterno dell’edificio, cominciando a portare nel 2007 l’ufficio postale dal Palazzo delle Poste (che prese il nome proprio perché sede dell’ufficio postale), in una sala accanto a quella che era l’entrata principale del municipio. Il 31 luglio 2011 l’ex convento fu riportato alla sua funzione originale di sede municipale e il 18 agosto 2011 in quelle che erano le celle delle suore, la sala da pranzo e una cripta, un probabile magazzino, è stata inaugurata la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Ripacandida.
La priora del monastero
In quasi due secoli di attività del monastero la figura che emerge dalla clausura è suor Maria di Gesù e della Santa Trinità; conosciuta attraverso le sue lettere a San Gerardo Maiella e San Alfonso dei Liguori. Al secolo Maria Terera Araneo, nasce nel 1725 a Pescopagano da Cesare Araneo e da Camilla Rossi, sorella dell’arciprete Giambattista, morto in concetto di santità il 25-10-1746; sepolto in chiesa madre nel cappellone del SS. Sacramento.
All’età di 15 anni, la fanciulla divento’ religiosa carmelitana nel monastero fondato dagli zii; che seppero infondere nella nipote la spiritualità di Santa Teresa.
Eletta priora nel 1748, conobbe come riporta padre Tannoia, il fondatore dei redentoristi S. Alfonso de Liguori.
Il monastero delle teresiane di Ripacandida "Oasi di Grazia in mezzo al deserto, procuro’ al santo dolci consolazioni poiché la sua anima vi rimase stressimamente legata " - Il Berte’ attesta "In mezzo alle tante occupazioni San Alfonso trovò il tempo di coltivare questo giardino del Signore"
Gli storici la descrivono come punto di riferimento per il regno di Napoli; il re Carlo III inviava a lei per consiglio i suoi ministri. Morì in concetto di santità il 17 maggio 1803; il suo corpo si ritrovò durante i restauri successivi al sisma del 1980. In una semplice cassa, murata in una stanza adiacente la chiesa, si ritrovò il corpo integro con un biglietto che riportava "Qui riposa la beata Suor Maria di Gesù e della S. Trinità, che operò prodigi in vita e morte". Rivestita con abito donato dalle suore di clausura di Gravina e sistemata in una tomba donata dalla famiglia Araneo nella sagrestia nella chiesa.
La causa di beatificazione di suor Maria iniziata nel 2007, voluta da mons. Gentile, che negli anni ha fatto tanto perché la figura della priora, non cadesse nell’oblio
* Da Wikipedia, l’enciclopedia libera (ripresa parziale).
Il prigioniero di Toledo. Juan de la Cruz poeta di Dio
di P. Giuseppe Furioni ocd *
È sempre affascinante il racconto della vita di San Giovanni della Croce (1542-1591), amico di Santa Teresa d’Avila e con lei riformatore dei Carmelitani. Questo spiega il successo delle biografie pubblicate in questi ultimi cento anni. Fra di esse spiccano quelle, ormai classiche, di P. Bruno di Gesù Maria e di P. Crisogono di Gesù. Non si devono poi dimenticare i profili più recenti di José Vicente Rodríguez e di Mario Iannaccone. A questi vanno aggiunte le introduzioni alle opere e al pensiero per le quali significative sono i testi di Federico Salvador Ruiz e di Eulogio Pacho (tra cui il prestigioso Diccionario de San Juan de la Cruz, dell’Editorial Monte Carmelo di Burgos, 2009) e gli studi di Iain Matthew, di Wilfrid Stinissen e di Antonio Maria Sicari tesi a evidenziare gli aspetti letterari e poetici della produzione del Santo spagnolo oppure a collocare l’originale dottrina del Dottore Mistico all’interno del contesto storico e religioso dell’Europa del XVI secolo.
A tutto questo materiale si aggiunge ora il lavoro di P. Bruno Moriconi: Il prigioniero di Toledo. Juan de la Cruz poeta di Dio. Edizioni OCD, Roma 2018, pagine 240. Si tratta di un nuovo profilo biografico offerto da un religioso carmelitano scalzo toscano, da anni docente di cristologia e spiritualità biblica al Pontificio Istituto di Spiritualità Teresianum di Roma. Lo scopo proposto non è anzitutto quello di presentare nuove prospettive d’interpretazione del Santo spagnolo, ma semplicemente di ridire la sua parabola biografica in modo da renderla appetibile a un ampio pubblico che vada oltre gli specialisti e che si rivolga anche a chi San Giovanni della Croce lo conosce solo per la fama di maestro di spiritualità.
Il testo, arricchito dalle illustrazioni di Suor Maria Grazia, carmelitana scalza del monastero di Tolentino, e dall’introduzione del Cardinale Anders Arborelius, vescovo di Stoccolma, pure lui carmelitano scalzo, presenta in maniera piana la storia di San Giovanni, nella quale sono felicemente integrati quei rari accenni alla sua vita che traspaiono dalle opere del Santo. Si tratta di un’operazione non facile, dal momento che il Dottore mistico è così oggettivo nell’esposizione, così meticoloso nella dottrina, al punto che le sue pagine non offrono molti appigli all’elemento autobiografico.
Meritano però di essere segnalati quegli esempi che ci riportano all’infanzia del Santo. Come l’immagine del bambino che dopo essere stato allattato a lungo e a lungo portato in braccio, deve essere messo per terra e allontanato dal seno materno, anche in maniera spiccia se occorre, perché possa procedere in modo più adulto e nutrirsi di cibo solido. E dato che nel XVI secolo l’allattamento durava a lungo, essere svezzati e imparare a camminare spesso coincidevano. Di sicuro questo fu il metodo usato dalla mamma, Caterina Alvarez, per condurre il piccolo Giovanni alla conquista dell’autonomia nel cibo e nel movimento.
Un’esperienza che il Santo usa per descrivere la pedagogia divina nei confronti delle anime che, dopo essere rimaste a lungo bambine ed essere state come vezzeggiate dal buon Dio, sono introdotte in quella notte purificatrice che le priva di ogni sapore al fine di imparare a gustare soltanto Gesù Cristo.
Ma P. Bruno Moriconi vuole soprattutto rendere accattivante e vivace una figura definita nell’ultimo capitolo: un uomo catturato dall’Amore. Il titolo del libro attira di per sé: Il prigioniero di Toledo. Evoca certi testi di avventura che i ragazzi di ogni epoca hanno avuto tra le mani, oppure quei romanzi d’appendice con trame amorose e misteriose peripezie - e un titolo così avrebbe senz’altro suscitato l’attenzione della giovane Teresa d’Avila quando era appassionata di avventure cavalleresche e di nascosto del padre leggeva quei testi che invece distraevano la madre. Ma in carcere, San Giovanni della Croce effettivamente ci andò. Esattamente in quello del convento carmelitano di Toledo, in cui fu recluso dall’Avvento 1577 all’Assunta 1578, quando riuscì fortunosamente a scappare calandosi con una fune costruita con una coperta tagliata a pezzi, secondo la più classica delle evasioni. Un episodio che di sicuro lo ispirò nel descrivere le vicende dell’anima chiamata a fuggire in una notte oscura per andare incontro al suo Signore.
Quel carcere, però, non costituì soltanto la segregazione di un frate a torto considerato ribelle, ma il luogo che vide la nascita del poeta e del mistico Giovanni della Croce: «Mille anni in quel piccolo carcere non varrebbe una sola delle grazie che il Signore mi fece là dentro», confiderà il Santo carmelitano.
Nella cella di Toledo, dalla sua anima spoglia di ogni consolazione e affetto sono sgorgati i più bei canti d’Amore della letteratura spagnola e della spiritualità cristiana. Strofe che, da secoli, illuminano il cammino di fede di tanti uomini e di tante donne, ben oltre i confini del cristianesimo stesso.
Ma l’intera esistenza di Giovanni è segnata dall’avventura, soprattutto quell’avventura spirituale che, raccontata nelle sue poesie e nei commentari, non vale meno dei contemporanei racconti dei navigatori alla scoperta del Nuovo Mondo quando, ritornando in patria, parlano dei tesori delle isole straniere, forse esagerando e fantasticando più del dovuto.
In questa biografia, infine, non manca nemmeno la trama amorosa. E quella dei genitori di Giovanni - il padre, il nobile Gonzalo de Yepes, diseredato per aver voluto sposare una povera filatrice, Caterina Alvarez - è solo una parabola rispetto al dramma divino narrato da Giovanni nelle sue Romanze: il Figlio di Dio che da ricco che era si è fatto povero per arricchire l’umanità della tenerezza divina, in quel mirabile scambio che, nel presepe, testimone la Vergine Maria, vede in Dio il pianto dell’uomo e nell’uomo la gioia divina.
Questi sono solo alcuni spunti che invitano a leggere e a gustare il lavoro di P. Bruno Moriconi, con un piacevole finale: l’autore raccoglie le pagine del Don Quijote di Miguel de Cervantes (e precisamente il capitolo XIX della prima parte) che raccontano dell’incontro «con un corpo morto». Si tratta dell’allusione alla traslazione delle spoglie mortali di Juan de la Cruz da Úbeda a Segovia, la notte del 28 aprile 1593, quasi un anno e mezzo la sua morte.
* Fonte: https://www.carmeloveneto.it/joomla/s-giovanni-della-croce/689-il-prigioniero-di-toledo-juan-de-la-cruz-poeta-di-dio
Maria Maddalena de’ Pazzi.
Nella sua esperienza la via della vera riforma
di Matteo Liut (Avvenire, venerdì 25 maggio 2018)
In ogni atto, anche il più semplice, si decide la nostra eternità perché ogni azione fa strada dentro di noi al bene oppure al male. È sotto questa convinzione che visse santa Maria Maddalena de’ Pazzi, che fu un’autentica maestra di spiritualità, radicata nella preghiera e nella meditazione della Parola.
Nacque in una delle famiglie più in vista della nobiltà fiorentina nel 1566 e fu battezzata con il nome di Caterina. Nel 1582, a 16 anni, decise di entrare tra le Carmelitane, prendendo il nome di Maria Maddalena e intraprendendo un percorso fatto di totale dedizione agli elementi fondamentali della vita monastica. Il suo percorso fu segnato anche da misteriose malatte ed esperienze mistiche. Dalla sua esperienza traeva le risorse per indicare a coloro che si rivolgevano a lei la via per un’autentica riforma evangelica della Chiesa. Morì nel 1607.
“MITIDEOLOGIA”: MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA ..... *
ALL’ESCORIAL, A "UN INCONTRO DI SUMO!". CON FILIPPO II, NEL 1584
"PRINCIPI DAL SOL LEVANTE (...) A Madrid in festa per la pubblicazione delle nozze di Catalina Micaela con Carlo Emanuele di Savoia e per il giuramento del principe Filippo come prossimo sovrano di Castiglia, furono ricevuti da re Filippo che li accolse in compagnia delle infanti e li gratificò di tutti gli onori possibili senza tener conto della differenza di rango tra sé e quei piccoli (non soltanto per ragioni anagrafiche) principi che gli presentarono lettere nelle quali i daimyo loro genitori chiedevano il suo aiuto perché la religione cattolica trionfasse in Giappone" (cfr. A. Spagnoletti, "Filippo II", Salerno Editrice, Roma 2018, pp. 223-224).
Il punto esclamativo, posto alla fine della frase del secondo capoverso della nota su "Marcel Detienne: memorie felici e concetti indelebili", "Alfabeta-2", 02.04.2019) di Paolo Fabbri dallo stesso Paolo Fabbri ("[...] fino ai corsi dell’Escorial in Spagna, dove assistemmo, con Giulia Sissa, a un incontro di Sumo!") , dice di una sorpresa, che sorprende - a sua volta!
La cosa sollecita non solo a "ricordare - come scrive Spagnoletti a proposito del suo “Filippo II” - che la prima globalizzazione fu quella operata da Filippo, che il nome delle Filippine e la diffusione della lingua castigliana (spagnola?) nell’America del centro-sud e, ormai, anche in parte dell’America settentrionale sono un suo lascito culturale dal quale nessun uomo avvertito può oggi prescindere [...] e che forgiò la storia di tanta parte del Vecchio e del Nuovo Mondo [...]" (op. cit., p. 14), ma anche e ancora a rimeditare il prezioso contributo di Arnaldo Momigliano sui limiti della storiografia europea, a partire da "L’errore dei Greci" (cfr. Id., "Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture", Torino 1980, pp. 157-174).
Quaresima.
Esercizi spirituali on line: la proposta dei carmelitani
Ogni settimana, il venerdì, è possibile scaricare meditazioni e video dedicati a Edith Stein, la religiosa oggi santa morta ad Auschwitz-Birkenau nel 1942
di Filippo Rizzi (Avvenire, sabato 16 marzo 2019)
Il ritiro spirituale a portata di clic
Sperimentare il silenzio, il deserto, le consolazioni spirituali dei grandi mistici e meditare la Parola di Dio da casa propria o dalla postazione di lavoro utilizzando semplicemente un computer, uno smartphone, un tablet. Corrono su Internet gli Esercizi spirituali di Quaresima. Come già accade da anni, anche nel 2019 l’Ordine dei carmelitani scalzi d’Italia, di Parigi e di Austria (assieme alla loro la casa editrice Ocd) ha lanciato la proposta controcorrente degli “Esercizi spirituali online” per vivere questo tempo forte lontano dalle tentazioni e alla scoperta dell’essenziale. Il tutto alla portata di un semplice clic.
Ad accompagnare il ritiro via web (che viene proposto anche per il tempo di Avvento) sono quest’anno le riflessioni di santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein (1891-1942), la religiosa e filosofa tedesca di origine ebraica che scelse di entrare nel Carmelo in età adulta e morta nel 1942 nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. «Abbiamo scelto questa grande mistica - spiega nel video di presentazione il carmelitano scalzo di Vienna, padre Roberto Maria Pirastu - per il suo speciale rapporto con il mistero pasquale». Una scelta singolare quella di aver pensato a una consacrata colta «complessa e semplice» come Stein - osserva ancora il carmelitano di origini sarde - proprio per il suo passaggio da «un’esperienza di agnosticismo» a una vita all’insegna del Vangelo.
Accedendo al sito www.esercizi-online.karmel.at o scrivendo direttamente alla mail esercizi-online@karmel.at si potrà, dopo aver compilato un modulo, ricevere settimanalmente le riflessioni e degli spunti per vivere al meglio i quaranta giorni che preparano alla Pasqua.
La prima riflessione degli “Esercizi online” è stata lanciata lo scorso 6 marzo, Mercoledì delle Ceneri. «Ogni venerdì di Quaresima - si legge nella presentazione su Internet - riceverete un messaggio di posta elettronica settimanale». Un’opportunità offerta ogni fine settimana per aiutare a compiere un cammino di vero rinnovamento interiore. «Nel messaggio di posta elettronica troverete - si legge ancora nel sito www.esercizi-online.karmel.at - un commento alla prima Lettura della Messa di domenica, alcuni testi di Edith Stein con suggerimenti di riflessione, un riassunto video della settimana e il calendario della Quaresima con sei brevi meditazioni e immagini».
Gli Esercizi spirituali sul web sono stati pensati e curati da un’articolata équipe di carmelitani francesi: Philippe Hugelé, Jean-Alexandre, Dominique, Raphaëlle e Marie-Noëlle. A cadenzare l’iniziativa quaresimale sono anche parole come «conversione», «digiuno», «rinuncia». «Abbiamo voluto proporre per questo nuovo corso di Esercizi - racconta ancora nel video padre Roberto Maria Pirastu - alcuni spunti pratici rivolti alla vita di tutti i giorni. Ma soprattutto è un invito da parte nostra a leggere i testi di Edith Stein per meditarli e mettersi così in cammino con lei e ritornare a quella fonte che è Dio, il “Dio dei Padri”, il “Dio che salva” come direbbe la grande carmelitana».
Ecco il video di presentazione: Video
CHE COSA SIGNIFICA CREATIVITÀ, CREATORE, CREATRICE, CREATURA... - "un’ultima cosa: ricordiamo quanto diceva San Giovanni della Croce: «L’anima che cammina nell’amore non annoia gli altri, né stanca sé stessa» (Parole di amore e di luce, 96)....Chi ama ha la fantasia per scoprire soluzioni dove altri vedono solo problemi. Chi ama aiuta l’altro secondo le sue necessità e con creatività, non secondo idee prestabilite o luoghi comuni. È un creatore: l’amore ti porta a creare, è sempre avanti" (Papa Francesco - Sede della FAO, Roma - 14.02.2019). *
CERIMONIA DI APERTURA DELLA 42.ma SESSIONE DEL
CONSIGLIO DEI GOVERNATORI
DEL FONDO INTERNAZIONALE
PER LO SVILUPPO AGRICOLO (IFAD), AGENZIA DELLE NAZIONI UNITE
Sede della FAO, Roma
Giovedì, 14 febbraio 2019
Signor Presidente dell’Ifad,
Signori Capi di Stato,
Signor Presidente del Consiglio dei Ministri d’Italia,
Signori Ministri,
Signori Delegati e Rappresentanti Permanenti degli Stati membri,
Signore e Signori,
Ho accettato con piacere l’invito che lei, signor Presidente, mi ha rivolto a nome del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad), per la cerimonia di apertura della quarantaduesima sessione del Consiglio dei Governatori di questa Organizzazione intergovernativa.
La mia presenza desidera portare in questa Sede gli aneliti e i bisogni della moltitudine di nostri fratelli che soffrono nel mondo. Vorrei che potessimo guardare i loro volti senza arrossire, perché finalmente il loro grido è stato ascoltato e le loro preoccupazioni considerate. Essi vivono situazioni precarie: l’aria è viziata, le risorse naturali prosciugate, i fiumi inquinati, i suoli acidificati, non hanno acqua sufficiente né per loro né per le loro coltivazioni; le loro infrastrutture sanitarie sono molto carenti, le loro abitazioni misere e scadenti.
E queste realtà si protraggono nel tempo mentre, dall’altra parte, la nostra società ha ottenuto grandi risultati in altri ambiti del sapere. Ciò vuol dire che stiamo dinanzi a una società che è capace di progredire nei suoi propositi di bene; e vincerà anche la battaglia contro la fame e la miseria, se se lo prospetterà con serietà. Essere decisi in questa lotta è fondamentale affinché possiamo ascoltare - non come uno slogan ma veramente - «La fame non ha presente né futuro. Solo passato». A tal fine, è necessario l’aiuto della comunità internazionale, della società civile e di quanti possiedono risorse. Le responsabilità non si evadono, passandosele l’uno l’altro, ma vanno assunte per offrire soluzioni concrete e reali. Sono queste le soluzioni concrete e reali che dobbiamo passarci l’uno l’altro.
La Santa Sede ha sempre incoraggiato gli sforzi compiuti dalle agenzie internazionali per affrontare la povertà. Già nel dicembre del 1964 san Paolo VI chiese a Bombay (India) e poi ripropose in altre circostanze, la creazione di un Fondo mondiale per combattere la miseria e dare un impulso decisivo alla promozione integrale delle zone più impoverite dell’umanità (cfr. Discorso ai partecipanti alla Conferenza Mondiale sull’Alimentazione, 9 novembre 1974). E da allora, noi, suoi successori, non abbiamo smesso di animare e di promuovere iniziative analoghe, e uno degli esempi più evidenti di ciò è proprio l’Ifad.
La 42a sessione del Consiglio dei Governatori dell’Ifad continua in questa logica e ha dinanzi a sé un lavoro affascinante e cruciale: creare possibilità inedite, fugare ogni titubanza e mettere ciascun popolo in condizione di affrontare i bisogni che lo affliggono. La comunità internazionale, che ha elaborato l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, deve compiere ulteriori passi per il conseguimento reale dei 17 obiettivi che la compongono. A tale proposito, l’apporto dell’Ifad risulta imprescindibile per poter conseguire i primi due obiettivi dell’agenda, quelli riferiti allo sradicamento della povertà, alla lotta contro la fame e alla promozione della sovranità alimentare. E nulla di tutto ciò sarà possibile se non si otterrà lo sviluppo rurale, uno sviluppo di cui si sta parlando da tempo ma che non si è ancora concretizzato. E risulta paradossale che buona parte degli oltre 820 milioni di persone che soffrono la fame e la malnutrizione nel mondo viva in zone rurali, e questo è paradossale, e si dedichi alla produzione di alimenti e sia composta da contadini. Inoltre, l’esodo dalla campagna alla città è una tendenza globale che non possiamo ignorare nelle nostre considerazioni.
Lo sviluppo locale ha pertanto valore di per sé e non in funzione di altri obiettivi. Si tratta di far sì che ogni persona e ogni comunità possa dispiegare le proprie capacità in modo pieno, vivendo così una vita umana degna di tale nome. Aiutare a dispiegare tutto ciò, ma non dall’alto in basso, ma con loro e per loro, “pour et avec”, ha detto il Signor Presidente.
Esorto quanti hanno responsabilità nelle nazioni e negli organismi intergovernativi, come pure quanti possono contribuire dal settore pubblico e privato, a sviluppare i canali necessari affinché si possano mettere in atto le misure adeguate nelle regioni rurali della terra, perché possano essere artefici responsabili della loro produzione e del loro progresso.
Incoraggio tutti voi, qui presenti, e quanti lavorano abitualmente nel Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, affinché i vostri lavori, preoccupazioni e deliberazioni vadano a beneficio di quanti sono scartati - in questa cultura dello scarto - e a beneficio delle vittime dell’indifferenza e dell’egoismo; e che così possiamo vedere la sconfitta totale della fame e un copioso raccolto di giustizia e di prosperità. Grazie.
Stimate amiche e amici,
Ringrazio la signora Myrna Cunningham per le sue gentili parole e sono lieto di salutare quanti, in coincidenza con le sessioni del Consiglio dei Governatori, hanno celebrato la quarta riunione mondiale del Forum dei Popoli Indigeni, convocata dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad). Il tema dei vostri lavori è stato: «promuovere le conoscenze e le innovazioni dei popoli originari per creare resilienza al cambiamento climatico e sviluppo sostenibile».
La presenza di tutti voi qui dimostra che le questioni ambientali sono di estrema importanza e ci invita a volgere nuovamente lo sguardo al nostro pianeta, ferito in molte regioni dall’avidità umana, da conflitti bellici che generano una marea di mali e di disgrazie, come pure dalle catastrofi naturali che lasciano al loro passaggio penuria e devastazione. Non possiamo continuare a ignorare questi flagelli, rispondendo ad essi con indifferenza e mancanza di solidarietà, o posponendo le misure che li devono affrontare in modo efficace. Al contrario, solo un vigoroso senso di fraternità rafforzerà le nostre mani per soccorrere oggi quanti ne hanno bisogno e aprire la porta del domani alle generazioni che vengono dietro di noi.
Dio ha creato la terra a beneficio di tutti, affinché fosse uno spazio accogliente in cui nessuno si sentisse escluso e tutti noi potessimo trovare una casa. Il nostro pianeta è ricco di risorse naturali. E i popoli originari, con la loro copiosa varietà di lingue, culture, tradizioni, conoscenze e metodi ancestrali, diventano per tutti un campanello d’allarme, che mette in evidenza il fatto che l’uomo non è il proprietario della natura, ma solo colui che la gestisce, colui che ha come vocazione vegliare su di essa con cura, affinché non si perda la sua biodiversità e l’acqua possa continuare a essere sana e cristallina, l’aria pura, i boschi frondosi e il suolo fertile.
I popoli indigeni sono un grido vivente a favore della speranza. Ci ricordano che noi esseri umani abbiamo una responsabilità condivisa nella cura della “casa comune”. E se determinate decisioni prese finora l’hanno rovinata, non è mai troppo tardi per imparare la lezione e acquisire un nuovo stile di vita. Si tratta di adottare un modo di procedere che, abbandonando approcci superficiali e abitudini nocive o di sfruttamento, superi l’individualismo atroce, il consumismo convulsivo e il freddo egoismo. La terra soffre e i popoli originari sanno del dialogo con la terra, sanno che cos’è ascoltare la terra, vedere la terra, toccare la terra. Conoscono l’arte del vivere bene in armonia con la terra. E questo dobbiamo impararlo noi che forse siamo tentati in una sorta di illusione progressista a spese della terra. Non dimentichiamo mai il detto dei nostri nonni: “Dio perdona sempre, noi uomini perdoniamo a volte, la natura non perdona mai”. E lo stiamo vedendo, con il maltrattamento e lo sfruttamento. A voi, che sapete dialogare con la terra, è affidato il compito di trasmetterci questa saggezza ancestrale.
Se uniremo le forze e, con spirito costruttivo, intavoleremo un dialogo paziente e generoso, finiremo col prendere maggiore coscienza del fatto che abbiamo bisogno gli uni degli altri; che un comportamento dannoso per l’ambiente che ci circonda si ripercuote negativamente anche sulla serenità e sulla fluidità della convivenza, che a volte non è stata convivenza bensì distruzione; che gli indigeni non possono continuare a subire ingiustizie e i giovani hanno diritto a un mondo migliore del nostro e si aspettano da noi risposte convincenti.
Grazie a tutti voi per la tenacia con cui affermate che la terra non esiste solo per essere sfruttata senza alcun riguardo, anche per cantarla, custodirla, accarezzarla. Grazie perché alzate la vostra voce per asserire che il rispetto dovuto all’ambiente deve essere sempre salvaguardato al di sopra degli interessi esclusivamente economici e finanziari. L’esperienza dell’Ifad, la sua competenza tecnica, come pure i mezzi di cui dispone, prestano un prezioso servizio per spianare cammini che riconoscano che “uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso” (Lettera Enciclica Laudato si’, n. 194).
E, nel nostro immaginario collettivo, c’è anche un pericolo: noi popoli cosiddetti civilizzati “siamo di prima classe” e i popoli cosiddetti originari o indigeni “sono di seconda classe”. No. È il grande errore di un progresso sradicato, svincolato dalla terra. È necessario che i due popoli dialoghino. Oggi urge un “meticciato culturale” dove la saggezza dei popoli originari possa dialogare sullo stesso livello con la saggezza dei popoli più sviluppati, senza annullarsi. Il “meticciato culturale” sarebbe la meta verso la quale dovremmo tendere con la stessa dignità.
Mentre vi incoraggio ad andare avanti, supplico Dio di non smettere di accompagnare con le sue benedizioni le vostre comunità e quelli che nell’Ifad lavorano per tutelare quanti vivono nelle zone rurali e più povere del pianeta, ma più ricche nella saggezza di convivere con la natura.
Grazie.
Signore e Signori,
potrei parlare in spagnolo, che è una delle lingue ufficiali, ma preferisco usare l’italiano, perché è sicuramente meglio per voi tutti.
Ringrazio il Signor Presidente dell’IFAD per la sua attenzione, per la sua cortesia, e sono contento di potermi incontrare con voi, che lavorate ogni giorno per questa importante istituzione delle Nazioni Unite. Voi siete al servizio dei più poveri della terra: persone che, in maggioranza, vivono in zone rurali, in regioni lontane dalle grandi città, spesso in condizioni difficili e penose. A tutti voi qui presenti, come pure ai vostri colleghi ai quali non è stato possibile essere tra noi - siete tanti che lavorate qui! -, rivolgo un saluto cordiale.
Pensando a voi, mi vengono in mente due semplici parole. La prima, che scaturisce dal cuore, è “grazie”. Ringrazio Dio per il vostro lavoro al servizio di una causa tanto nobile quale la lotta contro la fame e la miseria nel mondo. Grazie perché andate controcorrente: la tendenza di oggi vede il rallentamento della riduzione della povertà estrema e l’aumento della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Pochi hanno troppo e troppi hanno poco. Pochi hanno troppo e troppi hanno poco, questa è la logica di oggi. Molti non hanno cibo e vanno alla deriva, mentre pochi annegano nel superfluo. Questa perversa corrente di disuguaglianza è disastrosa per il futuro dell’umanità. Grazie quindi perché voi pensate e agite controcorrente. E grazie anche per il vostro lavoro silenzioso, spesso nascosto - direi anche alcune volte noioso -: nascosto come le radici di un albero, non si vedono, ma da lì proviene la linfa che nutre tutta la pianta. Forse non ricevete molti riconoscimenti né onorificenze, ma Dio vede tutto, conosce l’abnegazione e la professionalità - sottolineo la parola professionalità -, apprezza le ore che trascorrete sollecitamente in ufficio e i sacrifici che ciò comporta. Dio, non scorda mai il bene e sa ricompensare chi è buono e generoso.
Dal vostro lavoro traggono beneficio molte persone bisognose e svantaggiate, che sopravvivono con tante sofferenze nelle periferie del mondo. Per svolgere bene questo tipo di servizio, bisogna unire alla competenza una particolare sensibilità umana. Perciò vorrei consigliarvi di coltivare sempre la vita interiore e i sentimenti che dilatano il cuore e nobilitano le persone e i popoli. Sono tesori che valgono più di ogni bene materiale. Allargare il cuore. Grazie anche al vostro apporto si possono realizzare progetti che aiutano bambini disagiati - sono tanti nel mondo, tanti! - donne, famiglie intere. Molte belle iniziative si portano avanti con il vostro sostegno. Vi ringrazio dunque per questo lavoro, e lo faccio anche a nome di tanti poveri che servite.
La seconda parola che vorrei dirvi, dopo il “grazie”, è “avanti!”. Significa proseguire con rinnovato impegno questa vostra opera, senza stancarvi, senza perdere la speranza, senza cedere alla rassegnazione pensando che sia solo una goccia nel mare. Madre Teresa diceva: “Sì, è una goccia nel mare, ma con quella goccia il mare è diverso”. Il segreto consiste nel custodire e alimentare motivazioni alte. In questo modo, si vincono i pericoli del pessimismo, della mediocrità e dell’abitudinarietà, e si riesce a mettere entusiasmo in quello che si fa giorno per giorno, anche nelle cose piccole, le cose che io non vedo come finiranno. La parola “entusiasmo” è molto bella: possiamo intenderla anche come “mettere Dio in quello che si fa” - viene da lì: en-theos, entusiasmo, mettere Dio in quello che si fa. Perché Dio non si stanca mai di fare il bene, non si stanca mai di ricominciare. Ognuno di noi ne ha esperienza: quante volte abbiamo ricominciato nella nostra vita! E questo è bello. Non si stanca mai di dare una speranza. Egli è la chiave per non stancarsi. E pregare -per chi può pregare - aiuta a ricaricare le batterie con energia pulita. Ci fa bene chiedere al Signore che lavori al nostro fianco. E la persona che non può pregare perché non è credente deve allargare il cuore e desiderare il bene. Come dicono gli adolescenti: “mandare buone onde”, desiderare il bene degli altri. È un modo di pregare per coloro che non hanno la fede e non sono credenti ma possono fare così.
Inoltre, in ogni documento che trattate, vi consiglio di cercare un volto. Questo è importante: dietro ognuna delle carte c’è un volto, dieci volti, tanti volti... Cercate un volto: i volti delle persone che stanno dietro quelle carte. Mettersi nei loro panni per capire meglio la loro situazione... È importante non rimanere in superficie, ma cercare di entrare nella realtà per intravedervi i volti e raggiungere il cuore delle persone. Sono lontanissime ma sono “trascritte” qui. Allora il lavoro diventa un prendersi a cuore gli altri, le vicende, le storie di tutti.
E un’ultima cosa: ricordiamo quanto diceva San Giovanni della Croce: «L’anima che cammina nell’amore non annoia gli altri, né stanca sé stessa» (Parole di amore e di luce, 96). Per andare avanti c’è bisogno di amare. La domanda da porsi non è “quanto mi pesano queste cose che dovrò fare?”, ma “quanto amore metto in queste cose che ora faccio”? Chi ama ha la fantasia per scoprire soluzioni dove altri vedono solo problemi. Chi ama aiuta l’altro secondo le sue necessità e con creatività, non secondo idee prestabilite o luoghi comuni. È un creatore: l’amore ti porta a creare, è sempre avanti.
Entusiasmo, cercare i volti, amare: così si può andare avanti, e così incoraggio anche voi ad andare avanti, giorno per giorno.
Dio benedica voi, i vostri cari e il lavoro che svolgete nell’IFAD a beneficio di molti, per sconfiggere la gravissima piaga che è la fame nel mondo. E anch’io chiedo qualcosa: vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me, o almeno di mandarmi dei buoni pensieri. Grazie!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
LA SPAGNA, IL REGNO DI NAPOLI, IL PRINCIPE DI EBOLI, IL PARTITO "EBOLISTA", E I CARMELITANI SCALZI. Note
A) Ruy Gómez de Silva, Grande di Spagna, Principe di Eboli. *
B) FILIPPO II E LA FAZIONE "EBOLISTA". L’uso della Cappella Reale nel periodo barocco: devozione o giustificazione politica? *
"[...] Dal 1554, Filippo II fu assente dal regno perché impegnato a raggiungere i Paesi Bassi e l’Inghilterra (dove avrebbe sposato Maria Tudor) e lasciò sua sorella Juana come reggente in Castiglia. In questa occasione, il nobile portoghese Ruy Gomez de Silva, in seguito principe di Eboli, che era stato all’ombra del governo contrastando l’influenza del duca d’Alba nella corte, accompagnò Filippo II nel suo viaggio. Questa vicinanza al re permise a Eboli di tessere la propria rete di potere nella corte spagnola fino a formare una fazione politica e cortigiana chiamata "ebolista". I membri di questo gruppo aprofittarono della fiducia della principessa reggente per consolidare il proprio potere nella corte, raggiungendo le più alte posizioni nell’amministrazione della monarchia e attuando una strategia per isolare il capo della fazione opposta, don Fernando Álvarez de Toledo, III duca d’Alba. [8] L’occasione per allontanare il duca d’Alba dalla corte fu la crisi in Italia: quando il Duca venne inviato a Milano, e poi a Napoli, per risolvere le questioni ivi sorte, gli "albistas" vennero allontanati e sostituiti dai membri della fazione "ebolista".
Nonostante ció, la Corte era ancora influenzata da un personaggio che non poteva tollerare l’influenza degli "ebolistas" nell’amministrazione della monarchia. Si trattava dell’Inquisitore Generale Fernando Valdés, caratterizzato da una rigida ortodossia ed un esacerbato formalismo religioso. Valdés cercó di formare una propria fazione all’interno della Corte, ma non fu mai così coesa come la fazione nobile "ebolista". Tra i sostenitori di Valdés c’erano teologi influenti come il domenicano Melchior Cano, professore di Salamanca, con cui Valdés inizió la persecuzione contro la Compagnia di Gesù, l’Ordine religioso protetto dagli "ebolistas". Di conseguenza in quegli anni molti gesuiti vennero accusati e processati per essere considerati illuminati o alumbrados. In realtà si è poi constatato che l’influenza di Valdés e dei suoi sostenitori nella corte spagnola si esprimeva solo al livello teorico e unicamente nel campo inquisitoriale. In pochi anni Valdés pubblicò il catalogo dei libri proibiti del 1559 (causa effettiva del processo contro Carranza), gestì la decomposizione del foco luterano di Valladolid e iniziò la persecuzione inquisitoriale contro Francisco de Borja.
Tale azione inquisitoriale influenzò in modo decisivo l’evoluzione della Cappella Reale: iniziarono i processi e si infuse il sospetto su un certo numero di predicatori e cappellani, tutti della sezione castigliana della cappella reale di Filippo II e tutti protetti dai membri della fazione "ebolista". Non è un caso che tutti gli imputati provenissero da famiglie di origine ebraica, costrette alla conversione per paura di una persecuzione inquisitoriale, e con una spiritualità più personale e intima, lontana dall’ortodossia religiosa che Valdés aveva cercato di imporre alla società. Da quel momento, Carranza venne allontanato dalla corte e l’inquisizione diede avvio alla sua prigionia e alla distruzione dei suoi libri e documenti. Un altro personaggio allontanato della cappella reale per la sua posizione, legata alla fazione degli "ebolistas", fu il cappellano e predicatore Agustín de Cazalla, che aveva servito nella Casa castigliana di Carlo V. Era figlio del contador reale Pedro de Cazalla e di Leonor di Vibero, che erano stati diffamati dall’Inquisizione di Siviglia e accusati di essere ebrei. [...]
Le persecuzioni inquisitoriali di Carranza e Cazalla servono per comprendere la rimozione dalla cappella reale dei membri che, anni prima, avevano monopolizzato l’orientamento religioso della corte e dei regni iberici. Si trattava di religiosi che sostenevano gli interessi politici del gruppo "ebolista" (e, viceversa, "ebolistas" che condividevano la spiritualità di questi religiosi), e ciò evidenzia come la persecuzione inquisitoriale contro di essi nascondesse connotazioni spirituali e politiche. La rimozione dalla cappella reale di questo gruppo di religiosi, tutti cappellani e predicatori, fu un cambiamento radicale nella concezione religiosa e spirituale che aveva, fino ad allora, dominato nella cappella reale. Dal momento in cui ereditò i regni lasciati da suo padre, il Re Prudente si trovò con il doppio compito di articolare i così vasti ed eterogenei territori della monarchia e di impiantare la confessione cattolica adottata come religione della dinastia. Senza dubbio, il processo di confesionalización di Filippo II , iniziato nel 1560, serviva per dare alla Monarchia un’unità religiosa, oltre che istituzionale. In questo processo, l’Inquisizione fu l’istituzione che controllava il grado di assimilazione del cattolicesimo nella società. Così, per ottenere un incarico di governo nella monarchia o nella Chiesa era necessario non solo la purezza del sangue in stile tradizionale (cioè, non avere ascendenza ebraica o araba), ma anche non avere antenati processati dall’Inquisizione per qualsiasi eresia. Il monarca si circondò quindi di un gruppo di letrados castigliani per dare vita a un progetto così ambizioso, che imponeva una certa interpretazione del dogma cattolico e determinate pratiche religiose, in maniera non dissimile dalle élites che, durante il XV secolo, avevano spinto i monarchi ad escludere i "nuovi cristiani" dagli incarichi di governo e ad istituire l’Inquisizione. Era il trionfo di una ortodossia intellettuale e formale, già sostenuta dalla scolastica dei domenicani, per la quale avvicinarsi alla divinità era possibile soltanto attraverso l’intelletto, la liturgia e le cerimonie esteriori. [...]"
* SI CFR.: L’uso della Cappella Reale nel periodo barocco: devozione o giustificazione politica? (di Esther Jiménez Pablo - Università di Teramo).
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE - E ANDARE OLTRE. IL MESSAGGIO DELLA "CAPPELLA SISTINA" CARMELITANA (1608) RITROVATO A CONTURSI TERME (SALERNO). Documenti e materiali sul tema.
In Puglia c’è una città blu come quelle di India e Marocco: un’architetta svela il filo che le lega
C’è una linea che collega Casamassima con le città di Jodhpur (India), Chefchaouen (Marocco) e Safed (Israele): "Tutte ospitarono comunità di ebrei in fuga"
di NATALE CASSANO (la Repubblica - Bari, 13 giugno 2019)
C’è una linea che collega le città di Casamassima con le città di Jodhpur (India), Chefchaouen (Marocco) e Safed (Israele). Ed è di colore blu, come il colore con cui sono dipinti muri e porte dei quattro borghi turistici distanti migliaia di chilometri uno dall’altro. Quattro casi unici in tutto il mondo, che ne hanno persino modificato la nomenclatura: se il comune nel Barese viene spesso definito ’Paese azzurro’, per le altre tre città nelle guide si trova il termine ’Blue city’ (città blu).
A decifrare il collegamento legato al colore blu è stata l’architetta Marilina Pagliara, che ha figurato una suggestiva ipotesi legata alla religione e che, di fatto, offre un’alternativa alla leggenda della Madonna di Costantinopoli. Già perché finora si è sempre pensato che il colore azzurro di Casamassima fosse legato al ’Maphorion’ (velo) dell’allora protettrice del borgo, come ringraziamento per aver preservato gli abitati dalla peste che aveva colpito Bari e l’entroterra a metà del 1600. Fu l’allora duca Odoardo Vaaz a ordinare di dipingere a calce viva l’attuale centro storico, aggiungendo il colore azzurro del manto della Madonna.
Anche l’ipotesi della Pagliara si lega a motivazioni religiose, ma affonda le radici nella tradizione ebraica. E parte da Chefchaouen per spiegarlo: "La città santa musulmana divenne rifugio di ebrei in fuga dalla Spagna durante l’Inquisizione, occupando le aree musulmane. La città fu dipinta con la polvere blu di tekhelel, un colorante naturale a base di frutti di mare, perché nella Bibbia viene comandato al popolo di Israele di utilizzare questo colore, tradizione portata avanti attraverso i secoli, e oggi gli abitanti, pur non ebrei, ’rinfrescano la vernice’ sulle loro case, con il pigmento blu venduto in vasi".
Anche Jodhpur e Safed ospitarono all’epoca piccole comunità di ebrei in fuga, che usarono appunto la vernice blu per colorare le loro case. Safed in Israele è anche la città natale della Cabala lurianica, uno dei principali bastioni per lo studio della Torah ed è una delle quattro città sante dell’ebraismo legate a simboli biblici, insieme a Hebron (terra), Tiberiade (acqua) e Gerusalemme (fuoco). Safed era associata all’aria, al cielo e quindi all’azzurro, divenendo anch’essa nel XV secolo rifugio per ebrei espulsi nel periodo dell’Inquisizione dai ’Cattolicissimi Reali Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona’, detti ebrei sefarditi dall’ebraico Sefarad (Spagna), che mantennero tradizioni e usanze del periodo iberico.
E anche Casamassima, ipotizza l’architetto, potrebbe quindi aver ospitato una piccola comunità ebrea, identificatasi attraverso il colore blu delle loro abitazioni.
Andando a scavare nella storia della città effettivamente un collegamento c’è, ed è legato alla figura di un ebreo sefardita: Miguel Vaaz de Andrade, considerato da molti storici uno dei maggiori mercanti di grano europei, rifugiatosi a Napoli nel 1580.
La compravendita di grano acquistato dalla Puglia lo rese ricchissimo e "nel 1609 comprò per 76.000 ducati il feudo di Casamassima devoluto al Regio Fisco dopo la scomparsa senza eredi della Baronessa D’Acquaviva e le terre di Rutigliano e Sannicandro ricche di grano - aggiunge Pagliara - Nel 1612 acquistò Mola ottenendo il titolo di conte, dove si reca qualche volta risiedendo nel suo palazzo da cui può seguire la sua flotta impegnata in scambi commerciali nell’Adriatico, diventando sempre più potente e tirannico nei confronti della popolazione". Potrebbe essere stato quindi Vaaz a insediare un comunità ebraica nel borgo barese; ipotesi che trova sostegno anche nella simbologia impressa sui muri del borgo antico. Un esempio? La casa seicentesca del rione Scesciola, dove è presente un’apertura rotonda con una stella a sei punte, che ricorda appunto la Stella di David, simbolo molto diffuso nella Cabala.
Memoria storia arte politica teologia...
PROBLEMA:
La Vergine dall’occhio nero *
E’ una bella storia di pietà popolare, quella che riguarda il santuario mariano di Galatone, nel Salento. Lì è custodita una icona della Madonna, davvero particolare con una storia miracolosa alle spalle, quella della Chiesa di Santa Maria della Grazia.
La cronaca risale al 1586, diversi documenti e la cronaca del canonico Francesco Antonio Core lo confermerebbero, ed in quell’anno che sarebbe avvenuto questo episodio di oltraggio all’icona mariana da parte di un personaggio locale, Antonio Ciuccoli, accanito giocatore d’azzardo, che persa l’ennesima scommessa e di umore nero trovò rifugio per la notte nella cappellina che ospitava l’immagine: Quella sera, complice qualche bicchiere di troppo, a pagare le spese di tanta miseria umana fu l’immagine della Vergine. La lampada votiva, che ardeva giorno e notte dinanzi alla Madonna, non si spegneva, nonostante i rabbiosi tentativi dell’uomo che cercava di prendere sonno.
Fu la fatidica goccia che fa traboccare il vaso. Esasperato da quel fioco bagliore e fortemente infastidito dal viso della Vergine, che sembrava rimproverarlo silenziosamente, Antonio Ciuccoli perse la pazienza. Così, tra una bestemmia e l’altra, lanciò una pietra contro la sacra immagine, colpendo la Madonna in pieno volto, all’altezza dell’orbita destra. Immediatamente, intorno all’occhio oltraggiato comparve una evidente lividura, tuttora visibile, che (con l’accezione medica moderna) si direbbe un ematoma. Confuso e spaventato, il Ciuccoli fuggì via dal luogo del misfatto e per lungo tempo vi si tenne alla larga. Intanto, la gente che frequentava la cappellina si era accorta della strana macchia sull’occhio, ma non sapeva darsene una spiegazione. Lo strano fenomeno, come spesso avviene, iniziò a richiamare l’attenzione dei fedeli e a suscitare segni di devozione e pietà popolare. A distanza di diverso tempo, Antonio Ciuccoli capitò di nuovo nei pressi della sacra edicola. Era buio e, mentre si stava allontanando dalla cappella, inciampò nel cadavere di un uomo, assassinato da chissà chi pochi istanti prima. Senza quasi rendersene conto, si ritrovò ammanettato e condotto alle carceri cittadine. Due gendarmi che si trovavano a pattugliare la zona, infatti, lo avevano acciuffato sul luogo del delitto, ritenendolo l’autore dell’omicidio. A nulla valsero le giustificazioni e l’autodifesa dell’uomo che, dopo un processo sommario, fu condotto in breve tempo al patibolo.
Il giorno fissato per l’esecuzione, giunto il macabro corteo in piazza S. Sebastiano (dove era allestita la forca), il confessore si accostò al condannato per le ultime raccomandazioni e l’assoluzione in articulo mortis. In quel momento il Ciuccoli, gridando a gran voce, informò gli spettatori di non essere colpevole dell’omicidio di cui era stato ingiustamente accusato. Al contrario, si assunse la responsabilità di un crimine, a suo dire ancor più grave, dichiarandosi pubblicamente come il sacrilego autore dell’oltraggio all’immagine della Madonna della Grazia. Il popolo, muto fino a quel momento, si sciolse in un unico rabbioso grido: “Alla forca!”. E il boia portò a termine il suo lavoro.
Autore: Lucandrea Massaro
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SANTI E BEATI. Fonte: Aleteia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento.
Antropologia culturale, Arte, Cultura salentina, Scrivere il Salento, Tradizioni
La festa della Madonna della Grazia. Pietà e folklore galatei dal ‘500 al terzo millennio
di Francesco Danieli (Cultura Salentina, 07 settembre 2011)
Mons. Fabio Fornari (1583-1596) fu uno dei massimi promotori della latinizzazione del culto in diocesi di Nardò. Nessun vescovo neritino gli fu pari nell’opera di estirpazione del sostrato greco, ancora saldamente radicato nel costume religioso salentino. Galatone fu una delle roccaforti bizantine in Terra d’Otranto fino alla fine del Seicento.
Nel suo intento di omologazione liturgica, il Fornari la colpì al cuore, favorendo la demolizione dell’antica collegiata greca dell’Assunta. Con grande abilità psicologica, il presule era deciso ad eliminare ogni traccia di grecità, nascondendosi dietro il proposito di offrire edifici sacri più ampi e adatti ai “tempi nuovi”.
Allo stesso modo, Mons. Fornari volle introdurre nuove devozioni e festività religiose che potessero sostituire quelle di chiara impronta bizantina, ancora particolarmente care al popolo.
L’evento miracoloso dell’icona dall’occhio sfregiato della Madonna della Grazia e il notevole fervore pietistico ad esso legato furono un’opportunità imperdibile per impiantare a Galatone un nuovo tipo di pietà mariana che, pian piano, si discostasse dall’ambito prettamente orientale.
Alla fine del Cinquecento, del resto, erano ancora vivi i ricordi delle feste della Deposizione della Veste (2 luglio) e della Deposizione della Cintura di Maria Santissima (31 agosto), ricorrenze mariane testimoniate dai codici greci dell’insigne collegiata galatea.
Per tali motivi, forse, il presule volle fissare i festeggiamenti in onore della Madonna della Grazia al giorno 8 settembre, dedicato alla Natività della Vergine. Questa festa, infatti, era celebrata in Occidente quanto in Oriente e per i bizantini rappresentava una sorta di capodanno liturgico.
La sua introduzione a Galatone, che fino a quel momento non l’aveva tenuta in gran conto, avrebbe evitato il trauma di un passaggio brusco e sfacciato. Un’operazione, insomma, nel più tipico stile del Fornari e dei presuli della controriforma.
La celebrazione della festa, sin dalla fine del sec. XVI, è menzionata in alcuni documenti archivistici che ne evidenziano la duplice articolazione, religiosa e civile. Già in quell’epoca, con chiaro intento penitenziale, nacque la pia consuetudine di digiunare per tutto il giorno 7 settembre, vigilia della festa della Madonna.
Dopo la visita alla miracolosa immagine della Vergine, ci si intratteneva nelle vicinanze della chiesa, tra gli ulivi secolari che un tempo inverdivano l’intero circondario. A sera inoltrata, prima di far ritorno a casa, si consumava in loco una frugale cena a base di pane, sarde e ricotta forte. Con il passare del tempo, perduto il significato originario, tale usanza prettamente familiare ha assunto una chiara connotazione folkloristica, fino ad essere istituzionalizzata nell’annuale “Festa della pagnotta e del vino”.
Molto antica risulta pure l’istituzione della fiera, caratteristico elemento di ogni festa religiosa popolare. Del mercato allestito l’8 settembre di ogni anno non si rintracciano notizie nelle fonti documentarie più antiche; la sua origine, però, risale almeno alla metà del sec. XVII. Esso è giunto sino a noi nella triplice forma di mercato dei vimini, fiera del bestiame e esercizio commerciale di venditori ambulanti.
Il tutto è racchiuso nella suggestiva cornice della festa civile, ricca di luminarie, musica e fuochi artificiali. L’evento si è andato sempre più evolvendo, superando l’iniziale dimensione campagnola, a partire dal 1980. In quell’anno, infatti, il prof. Gaetano Danieli ricevette l’incarico di coordinare il comitato per i festeggiamenti, intraprendendo una convinta opera di sensibilizzazione sul piano religioso e civile. Nel 1982, dopo ventisei anni di vuoto, veniva reintrodotta la processione per le vie del paese con il simulacro seicentesco della Madonna della Grazia.
L’evento non si ripeteva più dal 7 settembre 1956. In questo clima di generale risveglio, si andò man mano accrescendo anche la cura dei nove giorni di preparazione alla festa e la partecipazione dei fedeli. La gente ricominciava a cantare il Si quaeris caelum, il bel responsorio latino musicato il 24 agosto 1917 in Napoli da padre Serafino Marinosci e da questi inviato agli amici frati di Galatone. Le note di questo splendido inno non si udivano più dal 1967.
Oggi la festa della Madonna della Grazia ha assunto importanza cittadina e non solo, richiamando l’afflusso di pellegrini anche da numerosi paesi limitrofi. La novena, la processione del giorno 6 e i festeggiamenti dei giorni 7 e 8 di settembre sono ritornati ad essere veri eventi di fede e tradizione, in un contesto di cultura, folklore e promozione del territorio.
Napoli, riapre la Chiesa di Santa Teresa degli Scalzi *
Napoli. È stato avviato da qualche mese il percorso che porta, venerdì 14 dicembre, alle 18.30, alla riapertura al pubblico della Chiesa seicentesca di Santa Teresa degli Scalzi, nell’omonima via napoletana. La struttura, voluta dai Carmelitani Scalzi (realizzazione avviata nel 1604), lo scorso ottobre è stata affidata ai Ricostruttori nella preghiera, i quali si sono adoperati per restituire alla città uno dei luoghi più amati dalla comunità religiosa e non.
L’appuntamento prevede la partecipazione del Coro e solisti del Conservatorio San Pietro a Majella (sotto la direzione Antonio Berardo, al piano Pasquale Cardenia). Ingresso libero. Annesso alla chiesa vi è l’ex-convento, con ingresso in via Strettola Santa Teresa n. 4, dove si svolgono le attività proposte dai Ricostruttori: corsi di meditazione profonda, respiro, scultura, conferenze mediche, seminari sulla comunicazione e spiritualità, storia delle religioni, spettacoli e concerti.
* Fonte: Julie News, 11/12/2018
Le metamorfosi di Teresa
Chi era veramente colei che morì dicendo «alla fine, Signore, sono figlia della Chiesa»
di Lucetta Scaraffia (Osservatore Romano, 02 marzo 2015)
La forte personalità di Teresa emergeva con troppa libertà nella Chiesa della Controriforma: già le prime edizioni delle sue opere furono purgate dei passi ritenuti troppo arditi per una donna - e non erano pochi - in modo da garantirle una perfetta ortodossia in vista della canonizzazione. Che fu trionfale: celebrata nel 1622 - in compagnia dei grandi santi della Controriforma, il conterraneo Ignazio di Loyola e Filippo Neri - dopo che era trascorso un lasso di tempo insolitamente breve dalla sua morte, avvenuta nel 1582. Una canonizzazione esemplare perché per la prima volta la santità veniva misurata in base all’esercizio eroico delle virtù, e non più solo sulle prove di capacità miracolosa. Anche in questo Teresa fu una pioniera, la prima donna santificata per le sue virtù.
Teresa è stata la prima anche nell’unica altra forma di glorificazione che la Chiesa prevede per le donne: è stata infatti la prima donna dichiarata, nel 1970 da Paolo VI, dottore della Chiesa. Bisogna ammettere che la sua personalità è stata così forte e così ricca da aprire sempre vie nuove e da imporsi a tutti, nonostante si fosse tentato, in più modi, di soffocarla.
Chi era veramente Teresa de Jesús? La risposta a questa domanda ha una storia lunga e complessa: ha contribuito lei stessa a occultare parti della sua vita, per prudenza, dal momento che il suo operato è stato sempre guardato con sospetto dall’Inquisizione. Ha sempre detto «scrivo per obbedienza» facendone un’efficace formula di protezione esibita, quasi con ironia, all’inizio di ogni scritto.
Ma naturalmente i custodi dell’ortodossia, quanti pensavano che una donna può scrivere solo se le viene dato il permesso da un rappresentante del clero, la presero sul serio. E questa divenne una prassi abituale, nei secoli successivi, e fu seguita dai confessori di tutte le monache desiderose di narrare le proprie esperienze mistiche. Potevano scrivere solo se richieste dal confessore, per obbedienza.
L’immagine di Teresa che emerge dalla canonizzazione e dai suoi scritti opportunamente “purgati” è quindi quella di una monaca obbediente, assolutamente aderente a quella cultura controriformistica chiusa e aggressiva verso l’esterno che aveva prevalso: la santa quindi viene raffigurata come una nemica acerrima dei luterani - dei quali non sapeva quasi niente - e di qualsiasi comportamento che non fosse stabilito e accettato dalla Chiesa.
Ma la descrizione che ne ha fatto una carmelitana che l’aveva conosciuta personalmente, María de San José, ci fa cogliere la forza della sua personalità e ci fa capire che la sua libertà spirituale era visibile nel volto: «La santa era di media statura, più grande che piccola; in gioventù ebbe fama di essere molto bella e dimostrava di esserlo stata fino in vecchiaia; il suo volto non era affatto comune, ma straordinario, e non poteva dirsi né tondo né affilato».
Ma per alcuni secoli questa immagine folgorante - questa forte personalità che aveva affermato «non dirò cose che non so per esperienza», staccandosi così da tutta la letteratura devozionale precedente - è stata appannata, quasi spenta.
Tanto che si può dichiarare devoto della santa un personaggio che con la sua vera personalità certo non aveva molto a che fare: Francisco Franco, che nel 1939 riceve una sua reliquia - il braccio - dalla quale non si separa più, sino alla fine. In Teresa il caudillo vede la santa de la raza, cioè la discendente di puro sangue spagnolo, colei che in un modo inflessibile difende la Chiesa più tradizionale, e ne fa un uso politico a sostegno della sua ideologia. In sostanza, Franco costituisce l’apoteosi di un processo di normalizzazione della santa iniziato in occasione della canonizzazione.
Ma la situazione riceve una scossa definitiva nel 1946, quando il diligente erudito Narciso Alonso Cortés trova nell’archivio di Valladolid le carte che provano, fuori di ogni dubbio, l’origine ebraica della famiglia di Teresa. Emergono così il processo al nonno di Teresa, accusato di essere un marrano, la sua condanna a sfilare con il sanbenito per la città di Toledo e il successivo trasferimento ad Ávila, città meno importante, ma dove era meno conosciuto questo disonore, a cui segue l’acquisto di un certificato di limpieza de sangre per far dimenticare le origini e riscattare l’onore della famiglia. Da questo momento anche la figura di Teresa viene guardata in modo diverso e torna a illuminarsi di luce propria. E si comincia a leggere con altri occhi la risposta che la santa diede al superiore dei carmelitani che la interrogava sui suoi nobili antenati: Teresa avrebbe detto che «le pesava di più avere commesso un peccato veniale che se fosse stata discendente dei più vili e bassi villani e conversos del mondo».
Dopo questa scoperta - nonostante qualche resistenza - la biografia di Teresa viene rivista e riscritta, e si trova finalmente il posto per la sua figura di scrittrice accanto a quella della monaca mistica. Perché Teresa ha sempre accettato censure e controlli senza smettere di scrivere, di prendere appunti, di provarsi in generi letterari minori che si sottraevano a quei controlli. Non smise mai di ricorrere alla parola scritta, anche attraverso le lettere, per affrontare i problemi dell’ordine, per denunciare ingiustizie, per confidare stati d’animo.
Comincia a essere messo in luce quello che costituirà un nuovo aspetto di interesse degli studiosi: il “femminismo” di Teresa, il suo essere uno dei primi autorevoli esempi di “parola di donna”. Teresa allora - si scopre - non solo aveva affrontato con ironia e consapevolezza la sua condizione di donna, ma aveva anche anticipato quello che sarebbe stato poi uno dei cavalli di battaglia delle femministe: la presenza delle donne nel Nuovo Testamento. Di fronte all’ennesima replica dell’unica frase di condanna, quella di san Paolo che proibisce alle donne di parlare in chiesa e le riduce alla più stretta clausura, lei replica scrivendo: «Vagli a dire che non stiano solo a una parte della Scrittura, che guardino alle altre, e che si possano per caso permettere di legarmi le mani».
L’attenzione di femministe laiche era stata accesa su di lei già nel 1943, da una biografia della scrittrice inglese Vita Sackville West, ben lontana da uno scritto agiografico, che conobbe un discreto successo. In lei le femministe ritrovavano un modello di donna forte e autorevole, che sa combattere le gerarchie maschili con coraggio e con risultati positivi.
La storia di Teresa, quindi, si capovolge: da modello di obbedienza diventa modello di affermazione della propria volontà, del proprio progetto, in una società come quella contemporanea, in cui le donne cercavano modelli autorevoli e positivi nel passato. Uno dei testi più importanti fra le opere di questo filone è senza dubbio il libro di Alison Weber Teresa of Avila and the Rethoric of Feminility, pubblicato nel 1996, che investiga tutti i modi che la santa ha usato per difendersi dalle persecuzioni subite in quanto donna che scrive di teologia.
Ma sicuramente l’autrice femminista che più ha contribuito a una lettura contemporanea di Teresa è Julia Kristeva, semiologa e psicanalista, che le dedica un lunghissimo romanzo-saggio, Thérèse mon amour, uscito nel 2008. Il libro racconta un rapporto vivo, una sorta di corpo a corpo fra le due donne, la scrittrice mistica e l’autrice, un’appassionata credente, l’altra atea. Ma il fascino di Teresa sta, anche per la famosa intellettuale, nella sua fede: «L’infinito è in lei e in ogni cosa» scrive, considerandola una terapeuta delle anime, capace di connettere mente e corpo, cultura e natura, materia e rappresentazione. Kristeva riconosce in Teresa «una premonizione di Freud» in quanto esperta «dello spazio interiore del sentimento amoroso».
Ma queste recenti letture, che liberano senza dubbio la santa dal modello costrittivo in cui era stata rinchiusa, dimenticano spesso che si tratta di una donna appassionatamente legata a Dio, che muore dicendo «alla fine, Signore, sono figlia della Chiesa».
E certe volte l’impressione è quella di passare da un eccesso a un altro. A quando la vera Teresa?
di Lucetta Scaraffia
Il nonno marrano di Teresa
Juan Sánchez e la macchia del sangue
di Anna Foa (L’Ossevatore Romano, 02 marzo 2015)
Teresa Sánchez de Cepeda y Ahumada nacque ad Ávila nel 1515. La sua famiglia paterna veniva da Toledo, e suo nonno, Juan Sánchez, era un ricco mercante di lane e sete di famiglia conversa (cioè convertita dall’ebraismo alla fede cattolica) trasferitosi da Toledo ad Ávila all’inizio del Cinquecento. Ad Ávila la ricchezza della casa natale di Teresa dimostra come la famiglia avesse mantenuto appieno il suo precedente status economico e sociale. Nel 1485 Juan Sánchez era stato processato dall’Inquisizione toledana sotto l’accusa di giudaizzare e condannato a vestire in processione per sei settimane il sanbenito, la veste gialla dei condannati dall’Inquisizione. Il sanbenito era poi stato, come d’uso, appeso nella cattedrale, a segno perpetuo di infamia.
Juan Sánchez aveva però cercato di togliersi di dosso questa macchia, che segnava indelebilmente il suo lignaggio, comprando un certificato di limpieza de sangre e trasferendosi ad Ávila per far dimenticare l’episodio. E c’era riuscito, dal momento che nessuno della famiglia era più stato sottoposto a processo dall’Inquisizione, un’istituzione, quella spagnola, che non lasciava facilmente cadere la presa su quanti erano passati sotto la sua giurisdizione e sui loro discendenti.
Sia Toledo che Ávila fino al 1492, la data dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna, erano caratterizzate da una forte presenza tanto ebraica che conversa. Ad Ávila, nel corso del Trecento la percentuale di popolazione ebraica si avvicinava al trenta per cento della popolazione complessiva. Le violenze e l’ondata di conversioni della fine del Trecento e del primo Quattrocento avevano disgregato il tessuto comunitario ebraico in gran parte del territorio spagnolo, tanto in Aragona che in Castiglia, e favorito un gran numero di conversioni, più o meno forzate. L’integrazione dei convertiti nella società spagnola, molto ampia, era stata bloccata però a metà del Quattrocento dalle leggi di limpieza de sangre, norme che furono introdotte per la prima volta proprio a Toledo nel 1449 e che impedivano ai “nuovi cristiani”, cioè ai conversos e ai loro discendenti, l’accesso a università, ordini religiosi e militari, confraternite. Una vera e propria chiusura rispetto all’integrazione dei conversos, che divise la società spagnola tra “vecchi” e “nuovi cristiani” sottoponendo questi ultimi al costante controllo inquisitoriale della loro ortodossia.
Juan Sánchez, il nonno di Teresa, non era infatti solo un converso, cioè un discendente di ebrei convertiti. Era anche un marrano, cioè un converso condannato per essere ritornato alla fede dei padri. Un’accusa, questa, verosimilmente falsa, come molte altre del genere, come prova il percorso successivo di Juan Sánchez, tutto volto a recuperare credibilità come “vecchio cristiano”, ma che bastava a coprire d’infamia l’uomo e i suoi discendenti. Ecco quindi il trasferimento ad Ávila, l’acquisto dei falsi certificati di purezza di sangue, il tentativo riuscito di far dimenticare i suoi trascorsi. Suo figlio Alonso, il padre di Teresa, sposò in seconde nozze Beatrice de Ahumada, di nobile stirpe di “vecchi cristiani”. I numerosi fratelli di Teresa andarono nelle Americhe, come era abituale tra i discendenti di conversos. Suo fratello Rodrigo vi morì combattendo, tanto che Teresa lo considerava un martire della fede, mentre suo fratello Lorenzo divenne tesoriere reale a Quito, in Perù, e tornato in patria finanziò il convento fondato da Teresa a Siviglia.
La macchia del sangue fu davvero sepolta dall’oblio, se solo nel 1946 dei documenti scoperti nell’Archivio di Vallalolid, poi scomparsi misteriosamente fino agli anni Ottanta, hanno restituito le prove irrefutabili dell’origine ebraica della santa. Rimane aperta la questione di quanto la discendenza ebraica fosse nota in famiglia e conosciuta dalla stessa Teresa, anche se gli studi sulle sue opere tendono a mettere in luce, dietro il velo del silenzio più rigido su questa questione, assenze e presenze tanto tematiche che linguistiche tali da farne presupporre la consapevolezza da parte della santa. Molti studi recenti hanno sottolineato il ruolo dell’appartenenza ebraica nel suo percorso intellettuale e religioso: dal bel libro di Rosa Rossi, agli studi di Teófanes Egido López, a quelli di Cristiana Dobner. Il tema è ormai molto presente nella storiografia su Teresa.
Vorrei però far menzione di un’interpretazione più generale della forte presenza di conversos nel rinnovamento religioso del Cinquecento spagnolo avanzata da Yosef Hayim Yerushalmi, secondo cui l’afflusso di conversos nel più ampio filone del cattolicesimo spagnolo avrebbe avuto un ruolo determinante sul rinnovamento teologico e mistico, quasi i figli degli ebrei convertiti avessero voluto, divenendo interpreti di primo piano della trasformazione religiosa, introdurre nel mondo in cui entravano inusitati spessori culturali e novità rilevanti, pur entro i confini dell’ortodossia.
di Anna Foa
Il mondo è in fiamme
Risposta alle urgenze e ai pericoli del suo tempo
di Christiane Rancé (L’Osservatore Romano, 02 marzo 2015)
È difficile riassumere la spiritualità di Teresa d’Ávila, tanto è ricca e sottile. Quel che però si può dire, per presentarla, è che trova la sua forza nell’azione. Teresa di Gesù ha elaborato una mistica che rispondeva alle urgenze e ai pericoli del suo tempo e che si articola attorno a tre poli: la sua illuminata comprensione dell’Incarnazione e di ciò che comporta come risposta; la sua invenzione - come si dice della scoperta di un tesoro - del centro dell’anima come residenza di Dio; e infine, la preghiera come operazione amorevole sul mondo.
«Il mondo è in fiamme», scrive Teresa nel primo capitolo del suo Cammino di perfezione. E il mondo, aggiunge, ha bisogno di amici forti (amigos fuertes). Contro quale fuoco vuole agire Teresa d’Ávila? Quello che divora la Chiesa dall’interno, con le idee nuove della Riforma e di altre correnti di pensiero che contestano a Roma il suo dogma e la sua infallibilità. Quel che è accaduto è che la rivoluzione copernicana ha distrutto le basi del mondo antico e diffuso nelle menti di quel XVI secolo, il primo dell’era moderna, un’angoscia generale: né la Terra né Dio sono più i centri di un universo eterno e incorruttibile che girava attorno a loro.
Teresa spazza via magistralmente gli interrogativi che questa vertiginosa scoperta pone alle menti di allora. Che importa se a causa di questa teoria Dio ha perso il suo luogo di residenza? Basta cercare il divino come trascendenza pura, come esperienza interiore, risponde Teresa. Che importa poi se la terra non è più il luogo di un teocentrismo? Se Dio è tutto, se «la macchina del mondo ha, per così dire, il proprio centro dappertutto e la sua circonferenza in nessun luogo», il centro del mondo è là dove c’è l’uomo, e Dio in lui.
La citazione di Nicola Cusano ripresa da Pascal, non è un’allegoria; una sfera di raggio infinito ha effettivamente il proprio centro ovunque. Qualunque sia il punto in cui ci si trova in questa sfera, si è de facto a una distanza infinita dal bordo, e ciò in tutte le direzioni dello spazio. Così Dio, poiché risiede nel centro segreto dell’anima, è sempre e inevitabilmente al centro dell’universo.
È questa una delle fonti della spiritualità teresiana: nella scoperta del centro dell’anima. Tomás Álvarez, nel Diccionario de santa Teresa de Jesús, sottolinea l’originalità della madre su questa nozione che diverrà una linea maestra del suo capolavoro, Il castello interiore. Questo centro dell’anima è «la stanza principale, quella dove si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima». Là, nel suo centro, Dio continua a dimorare e a risplendere. È in questo centro che si celebra l’unione dell’anima con Cristo nostro Signore, precisa Teresa, perché il suo rapporto con lui sia definitivamente stabilito: «L’anima resta sempre con il suo Dio in quel centro di cui ho parlato». Questa concezione, indubbiamente singolare, attirerà su di lei le ire dell’Inquisizione. Si tratta di «errore in filosofia, sogno e fantasia in teologia» decretano i giudici. Quanto all’idea di Dio che sta in questo centro, viene definita un’eresia rivoltante.
Tale è la risposta puramente geniale di una donna che risponde intuitivamente, dalla sua anima, all’angoscia generale che la rivoluzione copernicana genera. Riesce così a mantenere la forza di un divino pacificante. Lei che ha la folle volontà di ridare a Dio il suo posto - di far sì che la sua anima, se si unisce a Dio, ridivenga il centro del mondo - ci riesce: la sua preghiera ricolloca il mondo nello sguardo divino e Dio al centro dell’universo. Pregando, Teresa rimette al suo posto Cristo che viene. Ironia della sorte! Ciò che l’ha quasi fatta definire eretica dall’Inquisizione - la nozione del centro dell’anima - è ciò che ce la rende tanto necessaria.
Teresa di Gesù è stata canonizzata per la santità della sua vita, la creazione del suo Carmelo e la sua irriducibile fedeltà alla Chiesa. Ma ciò che ne fa una nostra contemporanea è questa invenzione. Ben più dell’apertura individuale di un’anima perdutamente fedele a Dio, è colei che dona perpetuamente a Dio un futuro, non con un «penso dunque sono» ma con un «credo dunque Egli è». In tal modo forza l’avvento di un mondo di cui Gesù Cristo resterà l’inevitabile misura.
Teresa d’Ávila ha compreso l’attrazione per la materia e le teorie contemporanee dei suoi simili; da qui la sua avversione per la falsa erudizione, la pretesa al sapere e le smanie dello spirito nei suoi conventi. «L’anima non è il pensiero, e (...) la volontà non è diretta da esso, il che sarebbe una vera disdetta. Ne consegue che il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare», afferma.
Teresa si è sentita obbligata ad amare il giorno in cui la vista di un crocifisso le ha fatto capire, all’improvviso, quanto Dio l’amava per averle donato la propria vita nell’infamia e nel dolore della croce. Quanto l’amava per essersi fatto così simile alla sua creatura da incarnarsi nell’essere più debole e più umile che ci sia, non in un principe, ma nel figlio di un falegname della periferia della Palestina. Da quel momento comprende, in un lampo, che non potrà accedere a nessuno stato superiore della fede senza una piena consapevolezza e senza una piena esperienza di questo amore, attraverso la fusione in esso: si rende conto che, perché Dio le risponda, si deve impegnare in modo commisurato all’amore che la sua Passione ha dimostrato.
Così la rappresentazione dell’umanità di Cristo in ciò che ha avuto di più parossistico - la Passione - l’ha sconvolta, ed è attraverso di essa e a partire da essa che ha potuto comprendere appieno quella che costituiva la follia e lo scandalo del cristianesimo: l’incarnazione. «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Giovanni 14, 6). Gesù è il volto umano di Dio. C’era forse metafora migliore di questa verità, che Teresa assimilerà come un’ostia, ossia che la realtà di Dio, il suo essere è accessibile solo in Gesù e attraverso Gesù? Nel Libro della Vita scrive che Gesù è il vero libro dove ha scoperto tutte le verità. La vista sconvolgente del corpo sofferente di Gesù le ha inoltre rivelato, in modo folgorante, tutte le promesse del mistero di Gesù uomo-Dio e Dio-uomo. L’umanità di Cristo offre una possibilità di unione, di comunione e di unità d’amore. Per mezzo di Gesù, la reciproca attrazione tra Dio e la sua creatura si formalizza. Che pensi alla Passione o che mediti su questo mistero, l’orante si ritrova ai piedi di una scala che conduce a Dio, una scala come quella di Giacobbe, una scala di preghiera che dovrà salire per giungere all’unione divina, «dove nulla è paragonabile ai godimenti dell’anima».
Da qui l’esortazione di Teresa a pregare. La preghiera è, secondo lei, «un intimo rapporto di amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con colui dal quale sappiamo d’essere amati». Bisogna pregare perché la preghiera è il momento centrale della creazione religiosa di cui Gesù è il maestro. Pregare perché la preghiera è la lingua dell’amicizia, come il silenzio è quella di Dio. Teresa assicura così la sopravvivenza di quella formidabile rivoluzione teologica, teleologica e umana che è l’incarnazione.
Pregare e andare avanti: Ir adelante. Il suo motto ritorna ben centotrenta volte nella sua opera. Andare avanti nel mondo e allo stesso tempo penetrare nel più profondo di se stessi. Non possiamo «pretendere di entrare nel cielo senza prima entrare in noi stessi», avverte.
Che cosa c’insegna la sua spiritualità? Agendo d’amore, come si dice d’istinto, l’irradiazione infinita di ognuno dei nostri atti si diffonde nella trama infinita del mondo. Attraverso l’amore, la mistica di Teresa - la sua contemplazione beata, la sua preghiera - diventa un’azione e crea una dinamica da dove scaturisce la carità. Di fatto, cosa sarebbe l’Amore se si accontentasse di se stesso? Se non fosse partorito dalla carità? Se non s’incarnasse a sua volta nell’amore per il prossimo? Sarebbe nulla. Non sarebbe altro che una vuota speculazione, il contrario stesso della spiritualità di Teresa, che è una mistica dell’azione amorosa.
di Christiane Rancé
Santa Teresa in alta definizione
Nell’ultimo romanzo di Juan Manuel de Prada ·
di Enrique Álvarez *
Quando ho saputo che Juan Manuel de Prada stava scrivendo un romanzo su santa Teresa, ho temuto che l’autore stavolta fosse capace di offrirci solo un’ulteriore esibizione del suo personale stile narrativo, della sua prosa abbagliante e rimbombante; ebbene, certamente l’ondata di libri che il quinto centenario della santa di Ávila ha scatenato - libri di ogni tipo, benché soprattutto romanzi - rendeva molto difficile sperare che qualcuno scrivesse qualcosa di nuovo, o anche solo di letterariamente fresco.
Riconosciamolo una dannata volta per tutte: al di là delle sue imprese mistiche, la biografia di Teresa de Cepeda y Ahumada non offre tanto, intendo dire per tanto imbastire di romanzi e racconti fantastici. Ci sono moltissimi santi in Spagna, soprattutto nel XVI secolo, con vite molto più romanzesche e romanzabili di quella di Teresa d’Ávila. Ad aggravare il problema c’è la questione del suo femminismo avant la léttre, e anche del suo progressismo, quel luogo comune che sa vedere in lei solo una donna più avanti rispetto al suo tempo, come se l’unica genialità possibile di un essere umano, specialmente se di sesso femminile, consistesse nel far avanzare un po’ la società verso la modernità (verso “questa” modernità).
L’effettiva lettura del romanzo di Prada, El castillo de diamante (Barcelona, Espasa, 2015, pagine 456, 21,90 euro) dissipa questo timore. Siamo di fronte a un’opera magistrale, che non solo è degna di essere messa accanto ai suoi due ultimi successi in campo narrativo - Me hallará la muerte e Morir bajo tu cielo - ma che ci offre anche prospettive insolite e luminose sul periplo esistenziale dell’autrice di Le Mansioni.
Il romanzo s’incentra su un episodio molto concreto della vita di Teresa: quello della fondazione del convento di Pastrana e dei suoi rapporti con la signora della città, Ana de Mendoza, principessa di Eboli, che finiscono con un drammatico scontro tra le due e con la denuncia formale di cui è vittima la monaca santa dinanzi alla non tanto santa Inquisizione da parte della per nulla santa principessa vedova, della quale non diremo che fu una bella senz’anima, proprio perché una delle trovate di questo romanzo è di farci vedere che Ana de Mendoza aveva un animo profondo, ma incurabilmente ferito dal più radicale di tutti i mali: l’invidia teologica, l’invidia di Caino, che è il rifiuto della libertà di Dio in quanto datore di grazie. Perché Dio ha concesso tante grazie a una nobile di bassa lega, come se non bastasse figlia di conversi, mentre le ha negate a me, Ana de Mendoza, di sangue purissimo, che valgo il quadruplo di lei?
Innanzitutto Prada ci ha preso scegliendo questo episodio, perché forse è l’unico della vita reale di santa Teresa a offrire vere possibilità romanesques, sfruttate appieno nel suo tentativo di offrirci un romanzo che, a una vasta gamma di lettori, risulti ameno e coinvolgente.
Accanto a questa trovata, ci sono le note caratteristiche di qualità del marchio Prada: la prosa dell’autore, da una parte con il suo inesauribile repertorio di immagini e di similitudini dal costante impatto, e dall’altra la sua facilità nel costruire lo spazio. Elemento, quest’ultimo, fondamentale in ogni romanzo realistico e la cui difficoltà aumenta nel genere storico.
Ma il punto di forza di El castillo de diamante è la figura del suo personaggio protagonista: Teresa di Gesù.
La monaca scrittrice e fondatrice ci viene presentata come una donna per nulla leziosa né bigotta, ma neppure come la femminista neocattolica e ribelle che ci vuole vendere il teresianesimo attuale. Ci viene presentata come una santa integra, umile e coraggiosa al tempo stesso, e al tempo stesso spirituale e carnale, dalla forte volontà e intelligenza, protetta da Dio e da molti grandi di Spagna, ma non meno capace di lottare da sola con astuzia “celestinesca” nei momenti difficili.
* Fonte: Osservatore Romano, 15 gennaio 2016.
Un libro su Santa Teresa d’Avila, una serenata in forma di fiction
Lacan e Kristeva come godono i santi
Un’analisi dedicata alla beata spagnola e alla sua estasi. Come interpretare questa forma sublime di rapimento? Perché il sesso non spiega tutto
di NADIA FUSINI (la Repubblica, 27.01.2009) *
Teresa, mon amour è non solo il titolo dell’ultimo libro di Julia Kristeva (tradotto da Alessia Piovanello per Donzelli Editore, pagg.628, euro 35,00); è il ritornello che l’attraversa, quasi il libro tutto fosse una canzone, una lunghissima serenata che l’autrice dedica alla santa spagnola, alla sua estasi. In copertina, of course, la Transverberazione di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Subito comprendiamo che lacaniano sarà il corteggiamento, debitore al medesimo fremito barocco che scioglie perfino il marmo della famosa scultura.
E non a caso Jacques Lacan sceglieva lo stesso gruppo marmoreo a copertina del suo seminario Encore dell’anno accademico 1972-73. Dove nel capitolo sesto a chi volesse intendere l’amore divino e il godimento mistico si raccomandava di andare a Roma a contemplare la statua del Bernini. Guardatela e vedrete, affermava Lacan, vedrete che lei gode! Non c’è dubbio. E di che cosa gode? Di che cosa godono i mistici, le mistiche? Fino al secolo scorso, fino a Charcot, fino a Freud si sarebbe detto che era una faccenda puramente sessuale, energia libidica repressa, e così via.
No, dice Lacan, non è una questione di fottere, o meno. C’è di più. In quell’attacco c’è un vero e proprio passaggio all’ ex-sistenza, un passaggio in quell’"ex", in quel "fuori" che fa da prefisso alla parola ex-stasi.
In mille variazioni Julia Kristeva riprende il motivo lacaniano, intrecciando il delirio mistico alla dimensione immaginativa e alla scrittura, e in quest’ultima versione, in quanto scrittrice, fa "sua" la santa. Letteralmente se ne appropria. Si identifica. Una volta adottata questa chiave - la vera estasi è la scrittura - non ci vuole molto a stabilire una stretta affinità tra la santa e la scrittrice. Tanto più che Teresa, oltre che santa e scrittrice e fondatrice, fu interprete e analista dell’anima.
A dare più brio alla serenata, l’inno a Teresa viene affidato a un alter ego, tale Sylvia Leclercq, psicoterapeuta, ossessionata, invasata dalla santa, intorno alla quale monta la sua fiction; fiction postmoderna, più che letteratura vera e propria, perché solo nel registro di una bulimica assimilazione, che procede per scorci temporali e incroci spaziali, pare a Sylvia di riuscire ad afferrare la vita della santa. Se Sylvia legge con passione le opere di Teresa, è per comprendere se stessa, le donne di oggi che incontra in terapia. E si esalta a certe affinità che intravvede. E’ meno sensibile alle differenze.
Il termine fiction piace alla dotta dottoressa di Linguistica e Semiotica Julia Kristeva, che in questa sua opera si sforza al massimo di rendere contemporaneo il suo soggetto anche grazie a una scrittura che si vuole veloce, gergale. E si concede vezzi modaioli che per via di slang ci presentano Teresa come "un big-bang fatto donna" (p.588); mentre per descrivere la sua religiosa confidenza con Dio si ricorre all’ espressione: "fare una Tac al mistero del Signore (p.274). Abbondano allusioni all’idea della rete. Internet, default sono termini che tornano. E i corsi di Derrida e di Kristeva alla Columbia University vengono citati come occasioni uniche per i pochi privilegiati che li frequentarono per penetrare, o meglio decostruire i misteri della rete che per l’appunto connetterebbe i mistici e i kamikaze.
La nebulosa mistica si espande così in nebbia religiosa, e si aprono a ventaglio nel libro scottanti temi di attualità, tra cui sovrani i problemi del fanatismo e della fede: con Teresa sempre al centro, al crocevia di pensieri e concezioni di sé e del mondo che cambiano, che la vedono accanto a Montaigne, a Spinoza, a Cervantes. Teresa esponente sublime del Siglo de Oro. E ragazza d’oggi, runaway girl. Come Louise Bourgeois. Come Julia Kristeva. Tutte donne capaci di darsi un altro padre, un’altra patria. E di farsi un nome!
In questo senso, Teresa mon amour è una "installazione" (p.577). E forse proprio tale termine meglio descrive questo strano libro troppo lungo, interessante quando si presenta come "una avventura nel cuore del credere" (p.565). Meno, quando riduce quell’avventura a una spiegazione della vita umana tutta - sia barocca sia contemporanea sia mistica sia mondana - in chiave di parafrasi attualizzante tradotta in termini psicoanalitici della vita medesima. A proposito della scrittura teresiana Kristeva parla di "una scrittura fuori genere, perché li mescola tutti" (p.311). Così fa lei qui; trasportata non dall’estasi, ma da una specie di hybris intellettuale che di certo non le manca, si fa una e trina: autrice, narratrice, protagonista del racconto, che è insieme una biografia, una autobiografia, un saggio, una fiction; alla fine, un monumento alla diva Julia.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud)
INTERVISTA A JULIA KRISTEVA. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma, detto questo, la studiosa ri-cade nelle braccia dell’autorità paterna (della versione cattolico-romana del cristianesimo ... ancora edipica)
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
Federico La Sala
La vera Teresa d’Avila: femminile e marrana
I suoi testi spesso trascurati dagli intellettuali ora sono accessibili in un’edizione con l’originale a fronte
Peccato che il saggio introduttivo dimentichi l’origine ebrea della sua famiglia e cancelli ogni tratto identitario
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura 18.11.2018, pp. 8-9)
La mano correva veloce sui fogli, un’ora dopo l’altra, senza più il senso del tempo. Negli interminabili pomeriggi d’estate, nelle lunghe notti d’inverno, quando avrebbe potuto assalirla la malinconia, spettro funesto del monastero, lei era lì, per terra, seduta su una stuoia, appoggiata al ripiano di pietra sotto la finestra. Meditava, ricordava, scriveva. Non che il resto del giorno si sottraesse agli innumerevoli compiti - prendere l’acqua al pozzo, badare alla porta, filare, tessere, cucinare, ricamare - cui tutte le suore erano obbligate, se non volevano perdere quell’autonomia così faticosamente conquistata. Già nel municipio si mormorava che «certe donne, monache carmelitane, avevano abusivamente occupato una casa». Qualcuno aveva perfino minacciato un assalto al convento; quella novità era scandalosa.
Eppure lì, a San José, nell’autunno del 1565, dopo anni di amari tormenti e cupe inquietudini, a Teresa sembrava che la sua vita interiore procedesse come «una navigazione con un vento molto pacato». Era l’augurio che aveva espresso nella sua autobiografia, la Vida, composta «per ordine del confessore» - altrimenti si poteva immaginare che lei, una donna, scrivesse così, liberamente - e poi più volte corretta per eludere i sospetti dell’Inquisizione.
Finalmente era riuscita nel suo progetto: lasciarsi alle spalle l’esistenza confortevole e banale, che si conduceva all’ombra dei chiostri, per riprendere le regole antiche del Carmelo. Silenzio, povertà, introspezione, preghiera, vita comunitaria. Si erano scalzate; portavano sandali di tela e corda, indossavano un abito di lana grezza. Non possedevano nulla. Era una nuova forma di vita all’insegna dell’uguaglianza. Lì, tra loro, il sangue non sarebbe mai stato criterio per escludere, discriminare, colpevolizzare; la limpieza de sangre, assurta a legge razzista nella Spagna cattolica, che aveva già espulso gli ebrei, non avrebbe avuto alcun valore nello spazio del monastero. Tanto più che molte di loro, da Leonor de Cepeda a Maria de Ocampo, erano, come lei, figlie di conversos, ebrei convertiti al cristianesimo e segnati poi da una duplice non-appartenenza, non più ebrei, ma neppure ancora cristiani.
L’acqua del battesimo non era bastata a lavare l’«impuro sangue ebraico», quel fluido ineffabile in cui si condensava il «male incurabile» dell’ebraismo. No, i «nuovi cristiani» non venivano considerati fratelli. Erano bollati piuttosto come «marrani», perfidi e infidi, capaci di dissimularsi, di farsi passare per cattolici, mentre restavano segretamente ebrei.
Teresa non aveva dimenticato. Come avrebbe potuto? Certo, non ne aveva parlato nella storia della sua vita. E anche altrove fu accorta; ad esempio là dove, nelle Costituzioni, scritte per le carmelitane, aveva espunto la frase «è importante per coloro che vogliano essere figli di Dio non tener in nessun conto il lignaggio». Nella sua infanzia e nell’adolescenza il lignaggio aveva pesato in modo subdolo, atroce, ingiusto. Per sempre lei sarebbe stata afflitta dall’obbligo di sustentar la honra, di sopportare il peso di una reputazione perduta.
Oltre le alte mura di Avila si ergeva il terribile ricordo di quel che era avvenuto a Toledo, quando suo nonno Juan Sánchez, drappiere e mercader, fu costretto a passare per le vie della città, tra i lazzi e le invettive della folla, indossando il sambenito, l’infame scapolare giallo che marchiava i marrani. Con lui sfilò l’intera famiglia, anche il figlio minore Alonso. Dopo aver acquistato un certificato falso di hidalguía, che avrebbe dovuto attestare il sangue «pulito», scongiurando carcere e tortura, i Sánchez de Cepeda si rifugiarono ad Avila per ricominciare una vita al di sopra di ogni sospetto. Alonso tentò di eliminare, insieme a quell’antica disgrazia, ogni traccia di ebraismo; sposò in seconde nozze Beatriz de Ahumada, donna di grande bellezza, appartenente alla piccola nobiltà.
Il 28 marzo 1515 nacque Teresa, chiamata così in ricordo della nonna paterna Teresa Sánchez. Ma lo scomodo patronimico ebraico (appunto Sánchez) scomparve, soppiantato dai cognomi cattolici. Ma per i Cepeda y Ahumada, nonostante ogni occultamento, il passato restò incancellabile.
Dopo aver messo al mondo dieci figli, la madre morì molto presto, a trentatré anni. Con lei Teresa aveva condiviso l’amore appassionato per la lettura, conforto e sostegno per una donna timorata, chiusa nel matrimonio. Seguire quel modello? O cercarne un altro? Quando si era abbandonata all’amore per un cugino, con severità il padre era intervenuto per interrompere quella relazione. I fratelli emigravano in cerca di fortuna nel Nuovo Mondo; persino il suo prediletto Rodrigo salpò per il Río de la Plata. Via via anche la sua sorte sembrò ineluttabile. Don Alonso continuava a sperperare denaro e un buon matrimonio appariva una chimera. Teresa fuggì. Meglio il convento: la certezza di una dignità, la risorsa dello studio e della preghiera, la possibilità di restare sola, la paradossale libertà nel chiuso di quattro mura. Il padre andò a riprendersela. -Lei fu irremovibile e pronunciò i voti nel 1537. Un anno dopo fece ritorno a casa gravemente malata. Un morbo oscuro le divorava la vita. Fu un susseguirsi di palpitazioni, convulsioni, addirittura paralisi. Decisivo fu l’incontro con Pedro de Cepeda, zio paterno, che da «cristiano nuovo» aveva scelto di farsi frate. Grazie a lui Teresa scoprì l’opera di un altro converso, Francisco de Osuna, che le additava un’avventura possibile, tutta interiore, la scoperta delle Indie di Dio.
Questa fu la «conversione» di Teresa, donna tormentata e ironica, radicale e appassionata, che sfugge ai limiti della sua epoca e appare una contemporanea. Di qui l’attrazione esercitata dai suoi scritti che, spesso trascurati nel mondo intellettuale, sono adesso accessibili in una splendida edizione con testo a fronte, curata da Massimo Bettetini e pubblicata da Bompiani. Peccato solo che il saggio introduttivo dipinga sin dall’inizio Teresa come una suorina in nuce, cancellando ogni tratto femminile, rimuovendo del tutto il passato ebraico.
Non una volta si menziona Toledo! Come se non fosse mai esistito. Teologia della sostituzione che ripete - ancora adesso e, certo, non senza violenza - il gesto che fagocita, ingloba, elimina.
Ma Teresa, beata, santa, dottore della Chiesa, era una marrana. Perché negarlo? Dal 1946 le carte d’archivio non lasciano dubbi. E proprio questa sua peculiarità, che la relega al margine, si riflette nel suo originalissimo pensiero. Michel de Certeau la inserisce nella tradizione umiliata dei «nuovi cristiani», anime divise, pervase dal bisogno di un’intimità nascosta.
L’incontro fra due tradizioni religiose, una respinta in un ritiro interiore, l’altra trionfante ma «corrotta», permette agli esponenti di questa intellighenzia di entrare nel cristianesimo articolando l’esperienza di un altrove. Tra meditazione e poesia, sono i percorsi autobiografici che consentono una libertà insperata per attraversare quella «notte oscura dell’anima», secondo il titolo del celebre poema di Juan de la Cruz.
Come spiegare altrimenti il capolavoro di Teresa d’Avila Las Moradas, ossia le dimore, detto anche El castillo interior (1577). Il castello è «dimora presa a prestito», dove l’anima può lasciarsi trasportare fuori di sé. Diamante e cristallo riflettono la luce di questo spazio interiore dove l’altro parla «per me». Il dialogo dell’anima si dispiega in uno sdoppiamento: l’altro abita nel sé, il sé nell’altro. Nessuna identità integrale. Tu sei altro da te stesso. Anche nell’unione mistica la separazione del sé da sé stesso è ineluttabile. Anzi è grazie alla separazione che l’anima può ospitare, può far posto all’altro infinito. Teresa scrive seguendo il dettato di una parola che la oltrepassa, parola condivisa, che viene dalla sua cerchia, che si dispiega in un tra - tra donne - e nella sua duplice differenza, femminile e marrana, non può non infrangere e contaminare l’universo cattolico. Così indica un sé inaccessibile anche a sé stesso, abitato dall’altro, infinitamente altro, e perciò sacro, che occorre difendere e salvaguardare. Tutta la mistica marrana è una risposta alla violenza degli inquisitori di ieri e di oggi.
Spiritualità.
«Solo Dio basta». La fascinosa attualità di Teresa D’Avila
Mai come in questa società confusa e disorientata le parole della grande santa carmelitana sanno indicarci quel centro di gravità che manca alle nostre vite. Una nuova edizione di tutte le sue opere
di Simone Paliaga (Avvenire, mercoledì 5 settembre 2018)
«Siamo o non siamo su un’invisibile trottola, cui fa da sferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenire mai a destino, come se ci provasse gusto a girare così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente » scrive Luigi Pirandello in Il fu Mattia Pascal. Non si tratta di rovina ma certo di spaesamento. Le righe dello scrittore sono forse solo l’eco lontana di quanto avevano ammonito, pur con toni, diversi Montaigne e Blaise Pascal.
La rivoluzione astronomica e la cosiddetta scoperta delle Americhe privano l’uomo delle certezze fino ad allora godute. Non solo egli non vive più al centro dell’universo ma scopre popoli che per millenni ha ignorato con costumi e abitudini inimmaginabili. Oltre allo stupore per la scoperta delle nuove realtà cresce nell’essere umano un forte disorientamento.
E se i punti saldi vacillano vacilla anche il ’conosci te stesso’, il motto che sta al cuore dell’avventura umana. Tanto caro agli Antichi, l’insegnamento socratico da cui derivano le meraviglie della vita rischia di diventare causa di perdizione anziché di libertà. Esso vale in un cosmo tutto ordinato dove ogni essere dispone di un suo definito posto e riconosce i limiti che gli sono concessi. Quando invece i riferimenti caracollano conoscere se stessi rischia di precipitare l’uomo nella desolazione. -Senza un centro di gravità, porsi alla ricerca di sé, equivale a perdersi nei meandri della propria anima. Si finisce col vagolare senza ordine e guida scambiando le illusioni per conoscenza.
In un mondo senza orizzonti, il ’conosci te stesso’ riprende vigore se ancorato all’Eterno, se rinviene una stella polare che orienti la contemplazione della via maestra. Qui sta la forza della ricerca di santa Teresa d’Ávila di cui l’editore Bompiani pubblica, il prossimo 5 settembre, una nuova edizione completamente rivista a corretta di Tutte le opere (pagine 2.310, euro 65,00) con la curatela di Massimo Bettetini.
Oltre a La vita, Il Castello interiore, Le Fondazioni, Il Cammino di perfezione e le Poesie nella corposa raccolta compaiono anche le fatiche meno note ma non per questo minori. Non si deve essere indotti a leggere le pagine della Santa e dottore della Chiesa in chiave «umana troppo umana » ritenendo si tratti di una semplice ricerca di sé. Si dimenticherebbe che al cuore del suo cammino sta Dio.
«Torniamo al nostro Castello dalle molte dimore - esorta Teresa d’Ávila - non dovete pensare a queste stanze una di seguito all’altra, come in fila; concentratevi su quella centrale, l’appartamento, o dimora, abitata dal Re». Occorre certo la conoscenza di sé ribadisce la Santa spagnola ma senza perdere il centro che irradia la luce. Il cammino di quête, tanto per ricordare la predilezione giovanile di Teresa per la letteratura cavalleresca, o la subida, per non lasciare nell’ombra il suo sodale in spirito san Giovanni della Croce, non può prescindere dalla ricerca di sé benché essa si slanci verso la perfezione. Il monito «conoscetevi!» offerto dalla Santa alle sorelle del Carmelo ne è la prova evidente.
«Lascia, dunque, volare l’anima per le stanze dell’anima, in alto, in basso, ai lati: Dio le ha concesso sufficiente dignità. Non si strugga, l’anima, a restare in una sola stanza» annota la mistica spagnola nel Castello interiore, scritto tra giugno e novembre del 1577, in obbedienza a quanto richiesto dai superiori. Il Castello, «tutto fatto d’un diamante o di un limpido cristallo dove ci siano molte dimore», non è altro che l’immagine dell’anima. E in esso non si può non entrare. Epperò accade anche di indugiare all’esterno senza essere sospinti oltre il portone.
«Molte anime girano attorno al Castello - riconosce santa Teresa - mirandolo e rimirandolo, disinteressate a entrarvi, senza sapere chi e cosa ci sia all’interno di quel prezioso luogo, né quali siano le sue dimore».
Così facendo gli uomini si riducono però a delle «statue di sale» ghermiti dal loro corpo. Una volta varcata la soglia però non si può pensare di giungere subito al cuore del Castello. Occorre visitare l’anima in tutte le sue parti senza lasciarsi intimorire. Deve essere lasciata correre e spostarsi liberamente da un luogo all’altro.
«Lasciala, dunque, volare per queste stanze - consiglia alle consorelle - in alto, in basso, ai lati: Dio le ha concesso sufficiente dignità» anche perché il sole riverbera la sua luce in ogni canto del maniero. Si tratta però solo del primo passaggio e non senza difficoltà. Ma non bisogna lasciarsi scoraggiare dalle ombre che si incontreranno. Come recitano eloquentemente i suoi versi, «Nulla ti turbi, / nulla ti spaventi: / tutto passa. / Dio non muta. / Tutto ottiene / la pazienza; / a chi Dio possiede / nulla manca. / Dio solo basta».
Edith Stein. Ebrea, atea, cristiana...
Teresa Benedetta della Croce.
Dall’ateismo al Carmelo una storia europea di santità
di Matteo Liut giovedì 9 agosto 2018
Solo la ricerca di Dio conta, perché solo in lui la storia ha senso e solo lui trasforma la sofferenza in una strada verso la luce vera. Oggi la compatrona del nostro Continente, santa Teresa Benedetta della Croce (al secolo Edith Stein), offre all’Europa uno spunto per continuare a guardare al futuro. La sua storia è fatta di dolore e speranza, di ricerca e di dono: sono gli "ingredienti" dai quali può nascere una società più giusta.
Era nata nel 1891 a Breslavia in una famiglia di ebrei ma a 14 anni scelse l’ateismo. Si mise a cercare la verità nella filosofia (fu assistente di Husserl) ma nel 1921 leggendo la vita di santa Teresa d’Avila capì che il senso sta nella ricerca di Dio. Nel 1922 si fece battezzare e nel 1934 entrò tra le Carmelitane a Colonia. Arrestata dalla Gestapo in Olanda, morì nel 1942 nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Altri santi. San Romano, martire (III sec.); santa Candida Maria di Gesù Cipitria, religiosa (1845-1912).
Letture. Os 2,16.17.21-22; Sal 44; Mt 25,1-13.
Ambrosiano. Os 2,15f-16.17b.21-22; Sal 44; Eb 10,32-38; Mt 25,1-13.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
IL PROBLEMA DELLA GENESI, LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE, E LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE....
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico")
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL SANTO DEL GIORNO: GIOACCHINO E ANNA
Gioacchino e Anna.
I volti dell’umanità che sa aprirsi all’eterno
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 26 luglio 2018)
Non è solo il giorno in cui la Chiesa ricorda i nonni di Gesù, i genitori di Maria, ma l’occasione per ricordare che ogni essere umano "è" una storia, è il frutto di un cammino, l’emergere di un senso condiviso, partecipato da chi l’ha preceduto e offerto a chi verrà. I santi Gioacchino e Anna, la cui storia è narrata nei Vangeli apocrifi, rappresentano l’intimità custodita nella vicenda del Dio che si fa uomo: Gesù ha una famiglia, segnata dalle stesse difficoltà delle altre famiglie, ma capace di aprirsi all’eterno. Allo stesso tempo i due nonni santi sono il volto della maestosità dell’annuncio cristiano: nel Risorto si riconciliano le generazioni e si realizza il vero Regno dell’amore che riguarda l’universo intero.
La devozione per Gioacchino e Anna - celebrati nello stesso giorno solo dal 1584 - si è diffusa prima in Oriente per giungere in Occidente alla fine del primo millennio.
Altri santi. Sant’Austindo, vescovo (XI sec.); San Giorgio Preca, sacerdote (1880-1962).
Letture. Es 16,1-5.9-15; Sal 77; Mt 13,1-9.
Ambrosiano. Gdc 2,18-3,6; Sal 105; Lc 9,51-56.
IL SANTO DEL GIORNO: GIOACCHINO E ANNA
Gioacchino e Anna.
Mamma e papà di Maria modello per i genitori
di Matteo Liut (Avvenire, mercoledì 26 luglio 2017)
L’annuncio della nascita di Maria fu per i suoi genitori, Gioacchino e Anna, come la prima goccia che nell’arsura anticipa la pioggia benefica. E quella pioggia è diventata, anche grazie a loro, la speranza di una vita nuova per l’intera umanità. Oggi la Chiesa ricorda così i nonni di Gesù: avanti con gli anni ricevettero dal Cielo il dono di una figlia, aprendosi con saggezza e umiltà a quella novità. "Maria", ovvero "amata da Dio", è il nome che scelsero, un nome nel quale oggi milioni di fedeli si riconoscono e trovano rifugio.
L’esempio di Gioacchino (il cui nome significa "Dio solleva") e Anna (nome che vuol dire "grazia"), invece, è da sempre indicato come un modello per tutti i genitori, chiamati a guardare ai loro figli come degli autentici doni gratuiti di Dio. -La memoria liturgica dei santi Gioacchino e Anna è stata unificata nel 1584.
Altri santi. Sant’Austindo, vescovo (XI sec.); San Giorgio Preca, sacerdote (1880-1962). Letture. Es 16,1-5.9-15; Sal 77; Mt 13,1-9. Ambrosiano. Gdc 2,18-3,6; Sal 105; Lc 9,51-56.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOMENA: "Colei che è amata"... Una spia linguistica dalla revisione del "martirologio romano"!!!
Federico La Sala
Francia.
Un anno di celebrazioni per i genitori di Teresa di Lisieux
Il via nel 160° anniversario del loro matrimonio. Louis et Zélie Martin furono canonizzati insieme nel 2015
di Daniele Zappalà (Avvenire, sabato 14 luglio 2018)
Un intero anno giubilare in Normandia per proporre al mondo la testimonianza di santità di Louis et Zélie Martin, i coniugi francesi canonizzati nel 2015 da papa Francesco e tradizionalmente noti come genitori di santa Teresa di Gesù Bambino. In occasione dei 160 anni dal matrimonio della coppia, che giunse ad Alençon, fra i verdi paesaggi di Normandia, il 13 luglio 1853, nello stesso capoluogo è risuonata l’apertura del lungo ciclo di celebrazioni.
Domenica 8 luglio, in particolare, la Basilica Notre Dame ha accolto una solenne Messa presieduta dal cardinale Mauro Piacenza, penitenziere maggiore e concelebrata da monsignor Jacques Habert, vescovo di Séez e da monsignor Emmanuel Gobilliard, vescovo ausiliare di Lione. Davanti alle famiglie giunte ad Alençon per un grande pellegrinaggio di due giorni organizzato con la collaborazione del settimanale Famille Chrétienne, il cardinale Piacenza, traendo spunto dal brano evangelico giovanneo delle Nozze di Cana, ha ricordato nell’omelia che «gli sposi Martin hanno pienamente realizzato il disegno di Dio sulla loro esistenza», anche manifestando quotidianamente gesti semplici e alla portata di ogni credente: «Gli sposi Martin sono dei santi innanzitutto perché si sono sostenuti vicendevolmente, si sono aiutati e corretti, nella realizzazione della volontà divina, lasciandosi accompagnare su quest’affascinante percorso dalla Chiesa, dai sacramenti, dalla Beata Vergine Maria e dal progetto vocazionale che Dio aveva su tutta questa famiglia».
La testimonianza della famiglia Martin, capace di restare salda nella fede pur fra innumerevoli tribolazioni e drammi, mostra la realizzazione di una «Chiesa domestica che è ciò in cui consiste la famiglia cristiana ». Quest’ultima è «il luogo per eccellenza dell’accoglienza della fede», così come quello in cui ’la santità genera la santità’, poiché santa Teresa fu un «frutto della santità fiorito e maturato sulle ramificazioni generose di quest’albero robusto di un padre santo e di una madre santa». Dunque, ha sottolineato il presule, quella degli sposi Martin è un’esperienza di «reciprocità e circolarità» della fede aperta costantemente all’orizzonte più vasto della comunione dei santi. Il cardinale ha lanciato pure una vibrante esortazione sul ruolo e sulla necessità della santità nelle società di oggi, ricordando che «solo la santità può cambiare il mondo». Dunque, «la vera posta in gioco dell’umanità è di avere donne e uomini santi» come gli sposi Martin.
Fra visite per i pellegrini nella dimora dei coniugi Martin, testimonianze di famiglie la cui vita è stata profondamente trasformata dall’incontro con l’esempio della coppia di santi, conferenze e momenti di raccoglimento, l’anno giubilare si è aperto ad Alençon in un clima di profondo fervore. I più giovani hanno potuto cantare e danzare sulle note del gruppo Praise, fra le realtà emergenti della “pop laudativa” melodica transalpina. Due anni dopo l’assassinio del padre Jacques Hamel nella periferia di Rouen, la Normandia della famiglia Martin e della loro figlia divenuta patrona di Francia mostrerà nei prossimi mesi il proprio volto profondo di antico scrigno della fede. Per padre Jean-Marie Simar, rettore del santuario intitolato agli sposi Martin, è il momento «di far ascoltare il loro messaggio attraverso il mondo per aiutare le coppie e famiglie di oggi, dar loro un faro, un esempio da seguire». La «scuola» dei coniugi Martin spalanca le sue porte anche a quanti restano sospesi fra dubbi e ricerca.
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO ....
SICCOME sul piano antropologico, filosofico e teologico-politico, ancora (dopo duemila anni e più dalla nascita di Cristo) molta è la confusione - proprio per la non volontà di accogliere l’indicazione galileiana e ben distinguere il “come va il cielo” dal “come si va in cielo” - su quale sia il “modello” di “sacra” famiglia (ricordare la “vecchia” preghiera dei bambini, già citata: “Cristo lo voglio io per Padre/ la Madonna la voglio per Madre/ S. Giuseppe lo voglio per fratello,/ I Santi tutti li voglio per parenti / Affinché mi scampino da tutti i cimenti”), in occasione delle celebrazioni per i genitori (Louis et Zélie Martin) della carmelitana Teresa di Lisieux (Teresa di Gesù Bambino), canonizzati da papa Francesco nel 2015 , ricordando che nello stemma episcopale dello stesso papa c’è la STELLA e il NARDO (cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Francesco#Lo_stemma_papale) per manifestare la propria devozione a MARIA e GIUSEPPE, c’è da augurarsi che un giorno (non lontano) si arrivi a un grande “anno giubilare” per i genitori del Bambino Gesù e, finalmente, in Spirito pieno di Grazia (“Charis”) e di Grazie (“Charites”)*, si giunga a scrivere una BUONA PREGHIERA, degna della BUONA NOVELLA e di tutti i bambini e di tutte le bambine dell’Universo....
Federico La Sala
*SUL TEMA, cfr. le mie note all’art. “L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò” (Marcello Gaballo, "Fondazione Terra d’Otranto", 28.08.2017).
Spagna, suore di clausura contro la sentenza sullo stupro di Pamplona: "Difendiamo il diritto delle donne di essere libere"
Le carmelitane di Hondarribia hanno voluto far conoscere la loro totale contrarietà su Facebook: "Sorella, io ti credo" *
La sentenza per lo stupro di gruppo della festa di San Fermin a Pamplona nel 2016 ha suscitato accese polemiche e proteste in tutta la Spagna (per la decisione dei giudici di condannare i 5 giovani della ’Manada’, ’Branco’, per ’abuso’ e non ’aggressione’ sessuale). E ha superato anche i cancelli di un convento di suore di clausura.
Le carmelitane di Hondarribia, nella diocesi di San Sebastian, hanno voluto far conoscere la loro totale contrarietà via Facebook: "Noi viviamo in clausura, portiamo un abito quasi fino alle caviglie, non usciamo di notte (se non per le emergenze), non andiamo a feste, non assumiamo alcolici e abbiamo fatto voto di castità. Questa è una scelta che non ci rende migliori né peggiori di chiunque altro, anche se paradossalmente ci renderà più libere e felici di altri. E perché è una scelta libera, difenderemo con tutti i mezzi a nostra disposizione (questo è uno) il diritto di tutte le donne a fare liberamente il contrario senza che vengano giudicate, violentate, intimidite, uccise o umiliate per questo. Sorella, io ti credo".
* THE HUFFINGTON POST, 28.04.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Europa
La grande indignación contagia anche il convento
Spagna. Oltre un milione di firme in 48 ore per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso de La Manada
di Marina Turi (il manifesto, 29.04.2018)
Sole 48 ore per raccogliere più di un milione di firme per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso spagnolo de La Manada. Almeno una ventina di altre petizioni per avviare la riforma del codice penale su abusi e aggressioni sessuali.
Da giovedì scorso l’indignazione dilaga, contamina settori sociali diversi e risveglia la fantasia. Il grafico di @mariasande spiega perfettamente perché questa sentenza è perversa e patriarcale.
Se sei di fronte a 5 stupratori, hai 2 possibilità: sei terrorizzata e li lasci fare o hai molta paura, ma opponi resistenza. Nel primo caso il giudizio della società e dei media sarà che sei una facile e che te la sei cercata, mentre i giudici diranno che non è violenza, ma solo abuso sessuale. Nove anni di pena ai 5 stupratori e via. Nel secondo caso resisti e hai 2 possibilità. Sei fortunata: ti immobilizzano, ti violentano, però sei viva.
In questo caso la giustizia dirà che ti hanno rovinato la vita e ti hanno violentata, ma sarai tu a doverlo dimostrare. Se invece sei sfortunata ti violentano e ti ammazzano. In questo caso la giustizia dirà che c’è stato omicidio, ma per te sarà uguale perché sei morta. Lineare ed esaustivo.
Come le dichiarazioni delle monache di clausura dell’ordine delle Carmelitane Scalze di Hondarribia che tramite facebook esprimono solidarietà alla ragazza violentata e disappunto per la scelta dei giudici. «Noi viviamo in clausura, portiamo un abito fino alle caviglie, non usciamo di notte, non facciamo festa, non beviamo alcool, abbiamo fatto voto di castità. È una scelta che non ci rende migliori o peggiori di altre, ma è una scelta libera. Difenderemo con tutti i mezzi a disposizione il diritto di tutte le donne di fare liberamente scelte contrarie alla nostra senza essere giudicate, violentate, intimidite, assassinate o umiliate per questo».
Utilizzano lo slogan «Sorella, io ti credo» e ribadiscono, senza alcun timore, che è qualcosa che riguarda tutta la società. Anche loro, che per scelta vivono segregate, si sentono coinvolte quando avviene un’ingiustizia così. Rabbia e manifestazioni, il rifiuto della sentenza riesce ad ottenere consenso in tutto il paese, isole comprese. Giornaliste, scrittrici, politiche, studentesse lanciano l’hashtag #Cuéntalo - che ricorda l’italianissimo #quellavoltache - per raccontare le proprie storie di abusi e aggressioni sessuali.
C’è anche chi invita la regina Letizia a non tacere, a partecipare, almeno con un tweet. L’associazione delle giuriste catalane individua nella sentenza di giovedì un appoggio a l’immaginario collettivo in cui chi subisce una violenza deve scegliere tra affrontare o cedere «come male minore». In un comunicato affermano che così si crea un precedente grave contro la libertà sessuale delle donne. «Sfoca la costruzione del consenso e rafforza l’idea che questo possa essere dato in circostanze di pressione». Si dichiarano molto preoccupate del voto di uno dei giudici a favore dell’assoluzione dei cinque imputati. Forse sarebbe anche il caso di interrogarsi sull’idea di sessualità di giudici che esprimono sentenze simili.
Poi ci sono i politici e molti della destra in imbarazzo per un verdetto tanto osteggiato. Iniziano le dichiarazioni copia&incolla per ribadire che «come carica pubblica rispetterò sempre una sentenza, anche quando non mi piace. Però riconosco che come cittadino e come padre mi pesa accettarla. Tutto il mio appoggio alla vittima e alla sua famiglia» così si lava la coscienza Albert Rivera leader di Ciudadanos, il partito politico della destra liberale attualmente in testa a tutti i sondaggi. E allora via a ripetere che si rispettano le decisioni dei giudici, però ci sono proprio giorni in cui è più duro accettarle. E anche «ci sono ragioni e fondamenti giuridici che il cuore non comprende». Un po’ di ipocrisia, un po’ di convenienza.
Ma è chiaro, non solo ai movimenti femministi più radicali e insofferenti, che questa sentenza così accomodante non è un eccesso di garantismo o solo un fallo nel codice penale spagnolo rispetto alla violenza sessuale, ma è la risposta politica allo sciopero globale delle donne dell’ultimo 8 marzo. In Spagna oltre 5 milioni hanno bloccato il lavoro produttivo e riproduttivo, chi per un’ora, chi per un giorno, perché fosse chiaro che un mondo senza donne si ferma. Adesso fermare una marea di donne sarà difficile.
Giustizia spagnola amica del «branco», rabbia in piazza
Sentenza choc. Pene lievi per i cinque che stuprarono una 18enne. «Violenza» declassata ad «abuso».
Manifestazioni in tutto il paese al grido di «Sì, io ti credo». Ada Colau: «Sistema patriarcale»
di Luca Tancredi Barone, Marina Turi (il manifesto, 27.04.2018)
Al grido di «Sì, io ti credo», «No è no» e «giustizia patriarcale», ieri sera sono state convocate dai collettivi femministi una cinquantina di manifestazioni in tutta la Spagna per protestare contro la sentenza resa nota ieri ai membri del “branco” che aveva stuprato una 18enne alla festa dei Sanfermines del 2016. Il caso della manada, il “branco” (così si autodefinivano i 5 nel loro gruppo di whatsapp), ha riempito le cronache ed è stata la scintilla che ha spinto molte donne a reclamare maggiore protezione da parte delle istituzioni. E, in qualche modo, ha aiutato a catalizzare le proteste che si sono incarnate nelle enormi manifestazioni per l’8 marzo.
José Angel Prenda, Alfonso Jesús Cabezuelo, Ángel Boza, Jesús Escudero e Antonio Guerrero Escudero, cinque sivigliani con età oggi comprese fra i 26 e i 30 anni si erano recati a Pamplona, in Navarra, per partecipare alle feste dei Sanfermines, una classica occasione per ubriacature collettive. A un certo punto della notte, si avvicinano a una giovane, la insidiano e la spingono in un portale isolato, e la costringono a rapporti sessuali di gruppo (che la sentenza dettaglia con agghiacciante freddezza).
LA RAGAZZA, incapace di reagire dallo shock e dalla paura, rimane passiva tutto il tempo, quasi sempre con occhi chiusi, aspettando che finisca quell’inferno. Il dettaglio è confermato dagli immancabili video che avevano fatto col telefono (senza permesso), in cui si vantavano delle loro prodezze. Dopo di che, i cinque stupratori rubano il telefono della giovane, per impedirle di chiedere aiuto. Altro inquietante dettaglio trapelato dal lungo processo: la difesa aveva fatto spiare la giovane nei mesi successivi, utilizzando la pubblicazione su Facebook di foto sorridenti e spensierate come prova del fatto che non fosse rimasta traumatizzata.
Nnonostante tutto, due dei tre giudici (due uomini e una donna) sono convinti della colpevolezza dei cinque. Uno invece ne ha chiesto l’assoluzione. Ma l’accusa aveva chiesto dai 22 ai 24 anni per ciascuno degli imputati, ravvedendo gli estremi per il reato di «violenza sessuale». I magistrati hanno invece deciso che la mancanza di violenza esplicita, cioè l’assenza di «colpi, spinte e graffi», di colluttazioni o di minacce con oggetti contundenti, era prova sufficiente del fatto che si sia trattato solo di «abuso», assai meno grave, condannando gli stupratori in prima istanza a solo nove anni. Nel codice penale italiano questa distinzione non esiste più, dalla riforma del 1996 che classifica lo stupro come violenza contro la persona.
LA SENTENZA HA INDIGNATO il mondo politico (condanne unanimi da esponenti di sinistra, e di personalità istituzionali come la sindaca Ada Colau) proprio per questa sottovalutazione del concetto di «violenza». Riassumeva un twitero con il nome di @machistometro, se prendi a pugni un guardia civil - processo in corso nei paesi baschi, dove alcuni giovani rischiano pene gravissime per una scazzottata da bar e in cui vengono accusati di «terrorismo» - rischi 65 anni; se invece ti violenta un guardia civil, se ne becca solo 9. Altri sottolineavano il confronto con il caso dei politici catalani, considerato violento (l’accusa per Puigdemont e altri è quella di «ribellione»), mentre quello degli stupratori è solo un «abuso». L’elenco potrebbe andare avanti a lungo: la sostanza, riassumeva fra gli altri Ada Colau, è che la giustizia è ancora molto, troppo patriarcale. L’eurodeputato rossoverde Ernest Urtasun suggeriva ieri di prendere esempio dalla Svezia, che sta discutendo l’approvazione di una legge che prevede di definire stupro qualsiasi rapporto in cui una donna non abbia dato il suo esplicito consenso. La riforma svedese dovrebbe entrare in vigore il 1 luglio.
IL MOVIMENTO Yo hermana te creo («Sorella, io ti credo») che ha convocato le manifestazioni di ieri si ispira al testo che lo scrittore Roy Galán aveva dedicato alla vittima dello stupro all’epoca dei fatti, che si chiude con le parole «non sei sola». La condanna delle femministe spagnole è a una sentenza che ancora una volta mette in dubbio la denuncia di una donna. Nel 2017 è morta una donna a settimana per violenza machista, ma la violenza sulle donne - al contrario di quella contro la polizia - non è considerata né terrorismo, né questione di stato come reclamano le femministe spagnole da tempo. Tanto è così che per il famoso «patto di stato contro la violenza di genere» votato da tutti i partiti nel 2017, la finanziaria 2018 appena presentata dal Pp non è riuscita a destinare che 80 dei 200 milioni promessi.
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. AMORE, RESPONSABILITÀ, E SESSUALITÀ... *
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
PER MEGLIO CAPIRE il filo che lega l’ecumenismo umanistico-rinascimentale (Niccolò Cusano, "La pace della fede", 1453) con l’ecumenismo del presente attuale (nuovo Concilio di Nicea, 2025) e, insieme, la portata simbolica del particolare PASTORALE di sant’Agostino nell’affresco della Cattedrale di Nardò, mi sia consentito rinviare all’immagine del pastorale del Patriarca di Costantinopoli e all’intervista relativa all’ INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5791).
Federico La Sala
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger) !!! Fonti cattoliche a confronto...
MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
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SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Da Caravaggio a Bernini, a Roma il Seicento italiano caro ai re di Spagna
Alle Scuderie del Quirinale una grande mostra sulle relazioni artistiche tra le due culture nel diciassettesimo secolo. Sessanta opere in arrivo dai celebrati palazzi reali di Madrid e dintorni. Sino al 30 luglio
di NICOLETTA SPELTRA (la Repubblica, 13 aprile 2017)
E’ dedicata alle relazioni artistiche tra Spagna e Italia nel XVII secolo la mostra che apre domani, 14 aprile, alle Scuderie del Quirinale, per concludersi il prossimo 30 luglio. Relazioni che nacquero nel corso del dominio spagnolo su diversi territori della nostra penisola, durato oltre un secolo e mezzo, a partire dalla pace di Cateau Cambrésis, datata 1559. In questo lunghissimo lasso di tempo le due culture, quella iberica e quella italiana, ebbero modo di influenzarsi considerevolmente a vicenda.
Il barocco italiano era molto apprezzato da vicerè, principi, ambasciatori e dignitari di corte, che acquistavano o commissionavano opere per inviarle ai sovrani di Spagna, su loro diretta richiesta o, come dono, per riceverne in cambio appoggio e favori, considerato che gli Asburgo erano grandi appassionati d’arte. Queste acquisizioni contribuirono alla nascita, nel 1821, del Museo del Prado, mentre le opere rimaste nelle residenze reali, prima annoverate nel “Patrimonio de la Corona de España”, sono poi divenute, ufficialmente dal 1940, “Patrimonio Nacional”.
La mostra, intitolata “Da Caravaggio a Bernini - Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni Reali di Spagna” e curata da Gonzalo Redín Michaus, attinge proprio dalle importanti collezioni di questo patrimonio, con sessanta opere seicentesche di pittura e scultura che provengono dal palazzo reale di Madrid e dagli altri siti reali: per esempio, l’Escorial, El Pardo, che, dal 1940 al ’75, fu anche la residenza ufficiale di Francisco Franco, e il palazzo reale della Granja di San Ildefonso, conosciuto come la “piccola Versailles”.
In esposizione ci sono pezzi molto noti accanto a opere conservate in luoghi non aperti al pubblico e rimaste inedite fino allo scorso anno, quando furono esposte in una mostra presso la reggia madrilena che ha fatto da fondamentale prologo a quella romana.
Sono molti, infatti, i capolavori che tornano, per l’occasione, nella terra in cui furono concepiti. Tra questi, “La tunica di Giuseppe”, olio su tela di grandi dimensioni realizzato da Diego Velázquez, presumibilmente subito dopo il suo primo viaggio in Italia, tra il 1629 e il 1631, quando aveva ancora negli occhi le immagini dell’arte classica ma anche delle opere caravaggesche e dei maestri della scuola bolognese. Il dipinto, tra i più belli e interessanti della rassegna e perciò collocato in posizione centrale nell’allestimento, illustra con grande chiarezza e compostezza compositiva, come se si trattasse della scena di una rappresentazione teatrale, il momento in cui i fratelli di Giuseppe, dopo averlo venduto come schiavo, raccontano al padre Giacobbe la menzogna della sua morte, mostrandogli una tunica insaguinata. Solo il cane in primo piano, fiutandola, riconosce che il sangue è quello di un capretto e abbaia inutilmente, ignorato da tutti.
Altro capolavoro ben noto è la “Salomè con la testa del Battista” di Caravaggio, proveniente dal palazzo reale di Madrid e databile intorno al 1607, quindi un po’ anteriormente rispetto all’altro quadro caravaggesco a medesimo tema conservato presso la National Gallery di Londra.
Nel dipinto, che faceva parte della collezione di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, viceré di Napoli tra il 1653 e il 1659, da uno sfondo verde scuro, riscoperto da un recente restauro, emergono i busti della principessa giudaica che ha tra le mani il vassoio con il capo mozzo del Battista, della madre di lei, Erodiade, e del giovane giustiziere che regge la spada, rappresentati con tutto il contrasto luministico e la drammaticità caratteristici del linguaggio dell’autore.
E a Napoli hanno la loro prima origine anche molte altre opere presenti in questa mostra, dal momento che la città dette un contributo veramente significativo al Patrimonio Nacional spagnolo. Basti pensare a tutti i nomi di artisti attivissimi in terra partenopea che troviamo tra le sale dell’esposizione, quali Jusepe de Ribera, noto anche come “lo Spagnoletto” (molto intenso il suo “San Gerolamo penitente”, del 1638), Andrea Vaccaro, Massimo Stanzione e Luca Giordano. Consistente anche il contributo dalla Collezione Maratti, appartenuta alla poetessa Faustina Maratti, figlia del pittore Carlo, acquistata nel 1722 a Roma per il palazzo della Granja. Da questa raccolta provengono opere dedicate a regine ed eroiche figure femminili, come “Lucrezia si dà la morte” di Carlo Maratti (1685 circa).
Nella sezione dedicata alla scultura risaltano due opere in bronzo del Bernini: un modello della Fontana dei Quattro Fiumi e un Cristo crocifisso, inizialmente molto sottovalutato in Spagna e per motivi ancora ignoti sostituito poco dopo il suo arrivo al Pantheon reale dell’Escorial da un crocifisso di minor valore di Domenico Guidi, allievo di Alessandro Algardi, uno dei principali antagonisti di Bernini. Eppure il grande crocifisso berniniano è ritenuto dalla critica un manufatto di eccezionale qualità, anche perché, come scrive Tomaso Montanari nel catalogo della mostra, è l’unico esemplare di figura completa in metallo, autonoma e mobile, di Bernini che ci sia pervenuta, vale a dire l’unica non legata, fisicamente o anche solo concettualmente, a una architettura o a un complesso monumentale.
Interessantissima, infine, la storia di una delle due opere di Guido Reni presenti in mostra. Oltre a una “Santa Caterina”, c’è la “Conversione di Saulo”, realizzata intorno al 1620. L’episodio, tratto dagli Atti degli Apostoli, è ben noto: mentre cavalca sulla via di Damasco, Saulo, fino ad allora feroce persecutore dei cristiani, viene disarcionato dal cavallo da una luce folgorante accompagnata dal rimprovero di Cristo. Il dipinto, finora quasi sconosciuto, è stato attribuito al suo autore proprio dal curatore della mostra, Redín Michaus, che ne ha ricostruito anche la complicata, prestigiosa e a tratti sfortunata vicenda collezionistica, che ha origine tra le ricche raccolte del cardinale Ludovico Ludovisi e tra le sale della sua villa situata sulle colline del Pincio, a Roma. Guido Reni riprende un tema già affrontato per ben due volte, circa vent’anni prima, da Caravaggio. Tra i due non correva buon sangue e, anche se quando Reni dipinge la sua opera, il rivale è già morto, il linguaggio che adopera, teso alla ricerca del bello ideale, vuole rappresentare una sorta di contrapposizione e di critica al linguaggio, fortemente realistico, dell’altro, e forse un tentativo di oscurarne la fama. E’ l’emblema stesso, in questo senso, di un inquieto passaggio di consegne e del tramonto di un’epoca.
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei. E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE. Sul tema, la prefazione di Fulvio Papi e parte della premessa del lavoro di Federico La Sala
Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale (...)
La spiritualità carmelitana
L a B e a t a V e r g i n e M a r i a e i c a r m e l i t a n i *
La consapevolezza mariana della propria identità spirituale e carismatica, infatti, appare già agli arbori della storia dell’Ordine carmelitano, quando agli inizi del XIII secolo unmaria patrona dei carmelitani gruppo eterogeneo di pii cristiani decise di dimorare sul Carmelo per condurre vita eremitica a imitazione del profeta Elia, e lì intitolare la loro prima chiesetta a "Santa Maria".
Non fu un caso che quei primi eremiti, da cui proviene tutta la famiglia carmelitana, dedicassero proprio alla Vergine il loro oratorio, perché forte era percepito il suo legame col Carmelo nella prima tradizione cristiana: la bellezza di quel monte in primavera rimandava inevitabilmente alla bellezza di Maria, a lei elevavano gli affetti quando leggevano dal profeta Isaia: «Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron» (Is 35,2).
Numerose al tempo, erano anche le leggende sorte intorno alla vita di Maria, alcune delle quali volevano che Maria ancora giovinetta, si recasse più volte sul Carmelo, insieme alle altre vergini sue compagne, e lì decise di consacrarsi in perpetua verginità al Signore.
In un’epoca in cui cominciava a emergere l’interesse per l’umanità di Cristo, la spiritualità mariana tese a focalizzare l’attenzione sui misteri della natività e infanzia di Gesù, ma anche sulla sua vita pubblica e passione.
Maria veniva contemplata come Madre di Dio, mediatrice di grazie presso Dio e per favorire la sua potente intercessione i carmelitani «compresero che dovevano completamente porsi al suo servizio, come vassalli alla sua signora. Tale elemento mariologico, trova riferimento anche nell’arte iconografica del tempo, in cui la Madonna veniva raffigurata con in braccio Gesù ancora infante in atteggiamenti di tenerezza reciproca.
La tradizione vuole che sia di questo periodo l’icona della Vergine Bruna, proveniente, si dice, proprio dall’eremo sul Carmelo e ora custodita presso la Basilica del Carmine Maggiore a Napoli. A prescindere dall’attendibilità di questa fonte storica, ciò che è vero è che l’icona rispecchia un modo di raffigurare la Vergine proprio dell’epoca medioevale, è l’Eleusa, la Coccolatrice, e quegli atteggiamenti di tenerezza col figlio non sono preclusi ai suoi fedeli devoti, anzi essi stessi col loro servizio ne contraccambiano l’affetto.
Col passare del tempo, il porsi in ossequio di Maria, fece maturare in quei carmelitani, la consapevolezza della protezione di Maria, ella, allora, non era più solo per loro la Madre di Dio e Madre dei cristiani, ma anche la loro potentissima Patrona.
Col passare degli anni la relazione dei carmelitani con Maria è cresciuta in intimità, ella non è più solo la Patrona alla quale si deve il servizio di tutta una vita, ma è anche la Sorella, compagna di viaggio nel nostro peregrinaggio verso Dio; è la Maestra che ci educa lungo le vie dello spirito; il Modello da imitare.
* Fonte: La spiritualità carmelitana (ripresa parziale: senza foto).
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
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fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
Ermes Ronchi: VORREI UNA CHIESA CON GLI STESSI SOGNI DI DIO
C’è chi ormai lo chiama “il predicatore del Papa”. A tu per tu con il religioso che ha tenuto gli esercizi di Quaresima alla Curia romana. Ora un libro ne raccoglie le dieci meditazioni.
«Quando l’ho incontrato, la prima cosa che gli ho detto è stata: “Papa Francesco, posso abbracciarla?”. Mi ha risposto con un sorriso». I friulani dovrebbero essere schivi e riservati per natura, almeno così si dice. Eppure, a padre Ermes Ronchi, di Francesco è rimasto impresso l’abbraccio. «Appena potevo lo abbracciavo, ne ho proprio approfittato», dice ridendo, e aggiunge: «Papa Francesco è un uomo amico della vita, un uomo sereno e pacificato che emana benessere, è un vero piacere stargli vicino».
Sacerdote dell’ordine dei Servi di Maria, 69 anni, padre Ermes è un volto e una penna noti al grande pubblico. Per molti anni ha condotto il commento al Vangelo della domenica nella trasmissione A Sua immagine su Raiuno. Su Avvenire cura una rubrica di commento al Vangelo ogni giovedì. Lo scorso marzo, dopo una telefonata inaspettata di papa Francesco, ha guidato gli esercizi spirituali di Quaresima per la Curia romana. Le dieci meditazioni proposte in quell’occasione ora escono raccolte in un libro della San Paolo, intitolato Le nude domande del Vangelo.
LE DOMANDE DELLA VITA
«Ho scelto come filo conduttore degli incontri con il Papa dieci domande del Vangelo, che ne contiene ben 220, una messe sterminata!», spiega padre Ermes. «Era la tecnica di comunicazione preferita di Gesù, insieme alle parabole. Le sue erano le domande semplici: “Cosa cerchi?” o “Perché piangi?”. Domande della vita, che ti lasciano disarmato, perché ti costringono a tirar fuori qualcosa di nuovo dentro di te».
Da molto tempo padre Ermes è uno che ama le domande più delle risposte. Lo ha imparato innanzitutto da padre Giovanni Vannucci, anch’egli frate dei Servi di Maria, che incontrò a 18 anni mentre studiava al liceo con l’intenzione di diventare frate. «Non si nutriva di teologia cattedratica, ma ci invitava a cercare Dio nel mondo, negli altri». A padre Ermes cambiò la vita.
«Con gli anni ho capito che le risposte non vengono subito», dice a distanza di tanto tempo. «Le domande lavorano in un altro modo: bisogna lasciarle scendere dentro di sé, farle agire, hanno una gestazione dentro di noi, crescono fino a che trovano una risposta. Bisogna amarle, le domande, come dice il grande poeta Rainer Maria Rilke, custodirle, coltivarle, più tardi daranno il frutto della risposta». Oggi il luogo in cui padre Ermes scrive, vive e prega è la comunità dei Servi di Maria della basilica di San Carlo al Corso a Milano, di cui è parroco. La stessa dove visse e operò un altro famoso confratello, padre David Maria Turoldo, «poeta, profeta, disturbatore delle coscienze, uomo di fede, uomo di Dio, amico di tutti gli uomini», lo definì il cardinale Carlo Maria Martini. «Anche lui era un profeta degli ultimi, di chi è vittima dell’ingiustizia, di coloro che sono dimenticati da tutti. Con Francesco si sarebbero subito trovati, e abbracciati».
COME UN DONNA INCINTA
Per il ritiro del Papa, padre Ermes ha scelto un altro filo conduttore: la figura di Maria, partendo proprio da un’invocazione di padre Turoldo: “Vergine, se tu non riappari anche Dio sarà triste”. «Il riferimento non era alle apparizioni mariane ma alla necessità che Maria entri nell’anima, nella fede, dentro il nostro modo di vivere», spiega. «Ho parlato anche delle virtù “umane” di Maria, donna innamorata di normalità che ha sperimentato tutto lo spessore della sua femminilità, che prima di essere Regina del cielo ha mangiato la polvere di questa nostra povera terra. Siamo abituati a vedere la Madonna posta in alto, inarrivabile, irraggiungibile. Io ho voluto immaginarla in cucina, in questo luogo un po’ nascosto che è il luogo della prossimità. Santa Teresa d’Avila in una lettera alle consorelle ha lasciato scritto che “Dio va fra le pentole, in cucina”».
Alla Curia romana padre Ermes ha parlato di «un Dio domestico, famigliare, che viene a casa e a tavola». E citando Origene, grande teologo del III secolo, ha detto che l’immagine più bella del cristiano è una donna incinta che passa nel mondo gravida di una vita nuova: «Dovremmo passare nel mondo gravidi di Dio, incinti di luce».
A CONTATTO CON LA REALTÀ
Il lavoro, il contatto con la realtà è stato importante nella vita di padre Ermes Ronchi. Appena ordinato sacerdote, nel 1973, decise di lasciare il convento classico per dar vita, insieme ad altri frati, a una comunità sperimentale nella provincia di Vicenza, dove ognuno si manteneva con il proprio lavoro. «Poi sentii il bisogno di studiare», racconta, «andai a Parigi e qui mi mantenni agli studi facendo i lavori più disparati, dal bracciante agricolo, allo spazzino comunale, all’insegnante di italiano». Un percorso che potrebbe essere utile a molti sacerdoti: «Di sicuro rivedere la formazione del clero è una priorità che la Chiesa deve affrontare, insieme al ruolo delle donne», dice.
«Alla Curia ho anche lanciato qualche provocazione, citando l’episodio del Vangelo in cui Gesù è a cena a casa di Simone e arriva la donna con il profumo di nardo. Gesù chiede: “Simone, la vedi questa donna?”. Alla Curia ho detto: “Se Gesù facesse questa domanda, qui e ora, se chiedesse: La vedi questa donna?”, io dovrei dire: No Signore, io qui non vedo nessuna donna”. E ho aggiunto: “Questo vi sembra normale?”. Ho fatto una pausa, perché volevo suscitare una domanda. Non ho risposte da dare, ma di certo il “governo” della Chiesa non è rappresentativo del mondo cristiano».
La più grande novità di papa Francesco? Per Ermes Ronchi è la conversione dello sguardo: «Da una Chiesa che si mette al centro, che gira i riflettori su se stessa, dove noi pastori vogliamo tirare la gente dentro, a una Chiesa che si mette a servizio dell’avvenire del mondo, della vita, della cultura, del domani, delle nuove generazioni. È questo il grande cambiamento che ci sta facendo fare papa Francesco. Ed è bello come trasmette il Vangelo. Non avvicina le persone come vasi vuoti da riempire, ma come fuochi da accendere. La fede non si genera, si propaga attraverso questo calore. Se il caffè bolle, il profumo si sente nella stanza. Ma se non bolle, non si sente niente!».
IL LIBRO
IL PROFUMO DELLA VITA IN DIECI MEDITAZIONI
«Alle volte pensiamo che il sogno sia una fantasia, come dipingere il cielo di blu. Eh no, il sogno è un’altra cosa. Ci vuole coraggio per sognare, il coraggio che hanno avuto i santi». A dirlo è stato Francesco, alla fine degli esercizi di Quaresima predicati da padre Ronchi. Il commento e ringraziamento del Papa è in appendice a Le domande del Vangelo (San Paolo), che raccoglie le riflessioni proposte dal frate servita. Al termine degli incontri il Papa ha “azzardato” un invito: «Ma io mi domando: cosa accadrebbe in Curia se tutti noi ci permettessimo di sognare un po’ di più? Credo che dovremmo chiamare i vigili del fuoco...!».
Il libro uscirà la prossima settimana con Credere a 9,90 euro. Ordinazioni contattando il n. 02.48027575, vpc@stpauls.it, o sul sito www.edicolasanpaolo.it.
(Fonte: Credere - Testo di Emanuela Citterio )
SAN GIOVANNI DELLA CROCE
Collaboratore di Santa Teresa d’Avila nella fondazione dei Carmelitani Scalzi, Dottore della Chiesa, Giovanni della Croce risulta sempre più un affascinante maestro: le sue parole e il suo messaggio sanno di mistero, del mistero di Dio.
Nasce a Fontiveros in Castiglia (Spagna) nel 1542, da una famiglia poverissima. Orfano molto presto del padre; una madre laboriosa e intraprendente per far fronte alla fame. Il piccolo Juan viene subito colpito dalla durezza della vita. Provato nel fisico, ma temprato nello spirito, si dà da fare come infermiere per mantenersi agli studi cui si sente portato.
Emerge ben presto la sua voglia di Dio e di Assoluto. A 20 anni decide di entrare nel noviziato dei Carmelitani. Arriva al Sacerdozio a 24 anni, ma si scopre dentro una gran voglia di una vita rigorosamente consacrata nel silenzio e nella contemplazione, una voglia che neppure i brillanti studi teologici nella prestigiosa università di Salamanca riescono a sopire.
Ci pensa Santa Teresa ad offrirgli una soluzione, invitandolo a partecipare alla Riforma dell’Ordine Carmelitano.Maestro dei novizi, attira tanti giovani che desiderano condurre una vita come lui. Nello spazio di pochi anni, pieni di fatiche apostoliche sulle strade assolate o ghiacciate di Spagna, accanto a profonde sofferenze, incredibili ed esaltanti esperienze mistiche.
La sua perfezione ascetica, la sua vita d’orazione, la sua elevatezza. di spirito e d’ingegno, l’esperienza mistica personale e la conoscenza dell’ampia esperienza mistica del Carmelo Riformato, la vasta dottrina, la profonda interiorità, e soprattutto la viva fiamma d’amore che lo vivificava e lo consumava fecero di lui non solo un grande santo, ma anche un grande maestro.
Scrive poemi e trattati che sprigionano la sua sapienza mistica, quella che non viene dai libri e dagli studi, ma che si "sa per amore". Muore a Ubeda il 14 dicembre 1591, a soli 49 anni, facendo sue, in un trasporto d’amore, le parole del Cantico dei cantici: "Rompi la tela ormai al dolce incontro!". Il suo linguaggio: poetico e pieno di immagini e simboli, il linguaggio della passione e dell’amore. Con spirito nuovo, da umanista rinascimentale, offre un valido aiuto per il cammino cristiano dell’uomo moderno. Il cammino che propone è necessario e il risultato possibile anche se può sembrare una cosa ardua
Giovanni della Croce invita alla rinuncia, che non è negazione di sé o abdicazione da sé, ma promozione del meglio di sé. L’ opera di Giovanni della Croce, se non invita ad un approccio immediato, ridesta tuttavia sempre almeno curiosità e fascino. Sono molte le persone comunque che l’hanno preso sul serio, come Teresa di Gesù Bambino, Elisabetta della Trinità, Edith Stein ..., e tanti altri, ci assicurano che l’itinerario proposto da Giovanni della Croce è accessibile. La sua spiritualità non sradica e non impone un programma fisso di vita. Pur rimanendo nei nostri quotidiani impegni, ci chiede di vivere nell’attenzione amorosa, un orientamento a Dio totale e rigorosamente esclusivo.
Il suo magistero orale e scritto, illumina tutto il percorso cui l’anima è chiamata per il raggiungimento del "Monte", dei vertici della spiritualità ove si compie il mistero amoroso dell’unione con Dio. La Chiesa ha riconosciuto il valore universale della dottrina ascetica e mistica di S. Giovanni della Croce procamandolo Dottore Mistico della Chiesa Universale.
Quel che è certo è che tutti i pensieri, tutti i detti di S. Giovanni della Croce sono proprio articoli che regolano il modo di camminare sulle orme di Cristo. Un codice della strada, sì, della vera strada: l’imitazione di Cristo, di Colui che è Egli stesso via. Ed è altrettanto certo che il passaggio obbligato è quello della Croce.
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Carmelitani e gigolò scontro in Vaticano
“Alla sbarra i religiosi”
Roma, il cardinale De Paolis contro Vallini: non basta allontanare i sacerdoti, serve un processo canonico
di Lorenzo D’Albergo e Orazio La Rocca (la Repubblica, 21.10.2015)
ROMA. Prima gli incontri gay negli anfratti di Villa Borghese, poi quelli entro le mura della curia dei Carmelitani scalzi. Giorno dopo giorno lo scandalo dei rapporti omosessuali che ha sconvolto l’Ordine si arricchisce di dettagli. Tutti elencati nel dossier che inquieta il Vaticano e certificati dalle deposizioni di Sergio, un “marchettaro” che si concedeva ai preti per 50 euro, e di Sebastiano, che prima di essere allontanato dalla parrocchia di Santa Teresa d’Avila ha avuto una relazione di un anno con un alto esponenti della congregazione. Una liaison a dir poco travagliata: superalcolici, sniffate di popper (la droga che prolunga il piacere) e un misterioso pestaggio, dopo le prime denunce datate 2006.
Il report, inviato a metà luglio al cardinale vicario Agostino Vallini, al segretario di Stato Paolo Parolin e a Papa Bergoglio, rischia di stravolgere gli equilibri della curia generalizia dei Carmelitani nel cinquecentenario della fondazione. E, ne sono sicuri i fedeli, è il documento che ha spinto il Santo Padre a esporsi il 14 ottobre, all’udienza del mercoledì: «Chiedo perdono a tutti per gli scandali di Roma e del Vaticano ». Immoralità su cui il preposito generale dell’Ordine dei Carmelitani, Saverio Cannistrà, avrebbe preferito chiudere un occhio, mettendo a sopire le chiacchiere dei fedeli con il trasferimento di quattro padri della curia e tre religiosi della parrocchia. Mandando lontano da Roma “rei” e innocenti (padre Angelo, il parroco, don Alessandro, vice e favorito dai parrocchiani, e l’ausiliario Ferdinando).
Ma ora interviene il cardinale Velasio De Paolis. Presidente emerito della Prefettura per gli affari economici e, prima, segretario del Tribunale della Signatura Apostolica, la Cassazione della Santa Sede, il giurista accende il dibattito e detta la linea al Vicariato su un caso da affrontare «senza perdite di tempo.
Non basta aver inviato al preposito generale dei Carmelitani il dossier sui frati accusati di aver partecipato a incontri gay a pagamento. Non è nemmeno sufficiente che i religiosi incriminati siano stati allontanati. Se le accuse sono vere occorre sanzionare i colpevoli, anche con l’espulsione dall’Ordine e la riduzione allo stato laicale». Una possibile sentenza neanche ipotizzabile senza la mobilitazione dei parrocchiani. Quando i fedeli hanno capito che il dossier rischiava di finire nel dimenticatoio, in 110 hanno preso carta e penna e spedito una lettera a Francesco per difendere i religiosi innocenti finiti loro malgrado nel repulisti.
I primi rapporti omosessuali riportati nel dossier risalgono al 2002. È invece di pochi giorni fa una scoperta che ha fatto inorridire i parrocchiani. Indagando, i fedeli hanno individuato l’entrata secondaria di via Aniene da cui sarebbero stati fatti entrare i “marchettari” che venivano invitati nelle stanze dell’edificio sacro di corso Italia per soddisfare i preti alla ricerca di una compagnia notturna. «È una vicenda dolorosa, complicata, nonché vergognosa - commenta De Paolis - e Vallini ha fatto bene a coinvolgere subito i responsabili della Curia generalizia. Ma non basta. Se le accuse sono vere, è bene agire con tempestività per punire i colpevoli dopo un processo canonico». Un iter a cui di sicuro non sarà sottoposto il giovane parroco che quattro anni fa ha deciso di rinunciare all’Ordine e a 30 si è ritrovato a fare il gelataio. Qualcuno tra i fedeli assicura abbia subito violenze in parrocchia. Voci, mormorii. «Chi ha tradito a Roma la promessa di castità - conclude il cardinale De Paolis - potrebbe farlo altrove. Per questo serve il processo».
Domani santi i genitori di Teresa di Lisieux *
Tra le canonizzazioni previste nella solenne celebrazione eucaristica di domattina in piazza San Pietro spicca indubbiamente quella dei coniugi Luigi e Zelia Martin, genitori di Teresina di Lisieux. Intanto perché è la prima volta che due coniugi vengono contemporaneamente iscritti nell’albo dei santi e perdipiù dopo che già una loro figlia ha goduto dello stesso privilegio. E poi perché la cerimonia si inserisce in modo veramente esemplare nel contesto del Sinodo della famiglia.
Senza contare che la celebrazione si svolge anche nella domenica in cui la Chiesa universale celebra la Giornata mondiale delle missioni di cui santa Teresa di Gesù Bambino è dal 1927 celeste patrona.
Proprio questa eccezionalità della canonizzazione dei coniugi Martin giustifica quindi l’insolita presentazione ufficiale che è stata fatta ieri nella Sala Stampa vaticana, con la moderazione del vice-direttore padre Ciro Benedettini, su richiesta della Conferenza episcopale francese.
Il carmelitano Romano Gambalunga, postulatore della causa di canonizzazione, ha ricordato la storia di questi due coniugi vissuti nella Normandia francese del 19° secolo, che dopo aver sentito il desiderio di entrare in monastero, furono portati dalla vita ad essere orologiaio e merlettaia. Dalla loro unione nacquero nove figli, ma solo cinque sopravvissero. Tra loro Marie-Françoise Thérèse, poi divenuta santa Teresa di Lisieux - canonizzata nel 1925 e dottore della Chiesa dal 1927 - e Léonie, il cui processo di beatificazione è stato aperto proprio nel luglio scorso. Il religioso italiano ha inoltre sottolineato come i coniugi Martin hanno saputo vivere «prima di tutto il matrimonio come vocazione», e poi vivere «anche il rapporto tra coniugi, quindi tra uomo e donna, come un’amicizia, dove c’è stima reciproca, dove si è alleati, dove si condivide un progetto comune, dove ci si aiuta anche ad educare i figli».
E la loro canonizzazione dimostra che «la famiglia non è solo il luogo del conflitto, o dei problemi, ma il luogo dove si impara a comunicare, perché è il luogo in cui si impara a scoprire la bellezza del rapporto tra uomo e donna e tra genitori e figli». Nel corso del briefing è stato ricordato a Luigi e Zelia sono stati riconosciuti due miracoli: il primo per Pietro, bimbo italiano nato nel 2002 con una grave malformazione polmonare, e il secondo, successivo alla beatificazione, per Carmen, nata in Spagna nel 2008, prematura e con una grave emorragia cerebrale.
I due piccoli domani saranno in piazza e porteranno le reliquie in processione. E il vice-postulatore padre Antonio Sangalli ha testimoniato «la riconoscenza grande» delle famiglie di questi bimbi, che hanno potuto capire che «il miracolo più grande - oltre alla guarigione dei figli - è quello di vedere attorno a sé riprendere in mano la vita cristiana di tante persone che si erano impegnate nella preghiera, nell’accompagnare tali famiglie in questo grave, difficile momento della loro vita».
Alla conferenza stampa hanno partecipato anche padre Jean-Marie Simar, rettore del Santuario dei coniugi “Louis et Zélie Martin” di Alençon, (che ha osservato come i nuovi santi condussero «una vita molto ordinaria, una vita completamente semplice, che possiamo paragonare con la vita della Santa Famiglia di Nazareth») e padre Olivier Ruffray, rettore del Santuario di Lisieux («possiamo capire che Teresa ci ha parlato dell’amore di Dio, degli altri, quotidianamente, grazie ai suoi genitori che glielo hanno insegnato»).
Nata e cresciuta nella Spagna rinascimentale è stata una mistica capace di rimboccarsi le maniche. «Ha dimostrato che il tempo per la preghiera non è tempo perso», ha detto di lei Benedetto XVI ricordandola con affetto. Un altro Papa che l’apprezzò tanto fu Paolo VI che nel 1970 la proclamò Dottore della Chiesa
di Alberto Chiara (Famiglia Cristiana, 15.10.2015)
E’ una santa attuale. Attualissima. Anche se la sua epoca è quella - lontana, per quanto vivace - del Rinascimento. A mantenerla vicina alla sensibilità dei nostri giorni concorrono almeno tre fattori: fu una mistica dedita alla preghiera ma altresì attenta alla vita che scorreva fuori dal suo convento al punto da essere una delle artefici delle riforma della Chiesa; non ebbe una particolare formazione ma elaborò un pensiero profondo e apprezzato tanto da essere proclamata "dottore della Chiesa" (lo fece Paolo VI il 27 settembre 1970); di lei si sono occupati, scrivendo pagine appassionate, tutti i Papi degli ultimi tempi, in particolare Montini e Ratzinger.
Teresa nasce ad Avila, in Spagna, nel 1515, con il nome di Teresa de Ahumada. Nella sua autobiografia ella stessa menziona alcuni particolari della sua infanzia: la nascita da “genitori virtuosi e timorati di Dio”, all’interno di una famiglia numerosa, con nove fratelli e tre sorelle. All’età di 20 anni, entra nel monastero carmelitano dell’Incarnazione, sempre ad Avila; nella vita religiosa assume il nome di Teresa di Gesù. Tre anni dopo, si ammala gravemente, tanto da restare per quattro giorni in coma, apparentemente morta. Parallelamente alla maturazione della propria interiorità, Teresa inizia a sviluppare concretamente l’ideale di riforma dell’Ordine carmelitano: nel 1562 fonda ad Avila, con il sostegno del Vescovo della città, don Alvaro de Mendoza, il primo Carmelo riformato, e poco dopo riceve anche l’approvazione del Superiore Generale dell’Ordine, Giovanni Battista Rossi.
Negli anni successivi prosegue le fondazioni di nuovi Carmeli, in totale diciassette. Fondamentale è l’incontro con san Giovanni della Croce, col quale, nel 1568, costituisce a Duruelo, vicino ad Avila, il primo convento di Carmelitani scalzi. Nel 1580 ottiene da Roma l’erezione in Provincia autonoma per i suoi Carmeli riformati, punto di partenza dell’Ordine Religioso dei Carmelitani Scalzi. Teresa termina la sua vita terrena proprio mentre è impegnata nell’attività di fondazione. Nel 1582, infatti, dopo aver costituto il Carmelo di Burgos e mentre sta compiendo il viaggio di ritorno verso Avila, muore la notte del 15 ottobre ad Alba de Tormes, ripetendo umilmente due espressioni: “Alla fine, muoio da figlia della Chiesa” e “E’ ormai ora, mio Sposo, che ci vediamo”. Un’esistenza consumata all’interno della Spagna, ma spesa per la Chiesa intera. Beatificata dal Papa Paolo V nel 1614 e canonizzata nel 1622 da Gregorio XV, è proclamata "Dottore della Chiesa" da Paolo VI.
Il 2 febbraio 2011, in un’udienza generale del mercoledì, papa Benedetto XVI ne ricorda i tratti salienti: «In primo luogo, santa Teresa propone le virtù evangeliche come base di tutta la vita cristiana e umana: in particolare, il distacco dai beni o povertà evangelica, e questo concerne tutti noi; l’amore gli uni per gli altri come elemento essenziale della vita comunitaria e sociale; l’umiltà come amore alla verità; la determinazione come frutto dell’audacia cristiana; la speranza teologale, che descrive come sete di acqua viva. Senza dimenticare le virtù umane: affabilità, veracità, modestia, cortesia, allegria, cultura».
«In secondo luogo», prosegue Joseph Ratzinger, «santa Teresa propone una profonda sintonia con i grandi personaggi biblici e l’ascolto vivo della Parola di Dio. Ella si sente in consonanza soprattutto con la sposa del Cantico dei Cantici e con l’apostolo Paolo, oltre che con il Cristo della Passione e con il Gesù Eucaristico. La Santa sottolinea poi quanto è essenziale la preghiera; pregare, dice, “significa frequentare con amicizia, poiché frequentiamo a tu per tu Colui che sappiamo che ci ama” . L’idea di santa Teresa coincide con la definizione che san Tommaso d’Aquino dà della carità teologale, come “amicitia quaedam hominis ad Deum”, un tipo di amicizia dell’uomo con Dio, che per primo ha offerto la sua amicizia all’uomo; l’iniziativa viene da Dio. La preghiera è vita e si sviluppa gradualmente di pari passo con la crescita della vita cristiana: comincia con la preghiera vocale, passa per l’interiorizzazione attraverso la meditazione e il raccoglimento, fino a giungere all’unione d’amore con Cristo e con la Santissima Trinità».
«Un altro tema caro alla santa è la centralità dell’umanità di Cristo», puntualizza ancora Benedetto XVI. «Per Teresa, infatti, la vita cristiana è relazione personale con Gesù, che culmina nell’unione con Lui per grazia, per amore e per imitazione. Da ciò l’importanza che ella attribuisce alla meditazione della Passione e all’Eucaristia, come presenza di Cristo, nella Chiesa, per la vita di ogni credente e come cuore della liturgia. Santa Teresa vive un amore incondizionato alla Chiesa. Riforma l’Ordine carmelitano con l’intenzione di meglio servire e meglio difendere la “Santa Chiesa Cattolica Romana”, ed è disposta a dare la vita per essa».
«Un ultimo aspetto essenziale della dottrina teresiana, che vorrei sottolineare», conclude Benedetto XVI, « la perfezione, come aspirazione di tutta la vita cristiana e meta finale della stessa. La santa ha un’idea molto chiara della “pienezza” di Cristo, rivissuta dal cristiano. Alla fine del percorso del Castello interiore, nell’ultima “stanza” Teresa descrive tale pienezza, realizzata nell’unione a Cristo attraverso il mistero della sua umanità». La sua attualità, infine. «Nella nostra società, spesso carente di valori spirituali, santa Teresa ci insegna ad essere testimoni instancabili di Dio, della sua presenza e della sua azione, ci insegna a sentire realmente questa sete di Dio che esiste nella profondità del nostro cuore, questo desiderio di vedere Dio, di cercare Dio, di essere in colloquio con Lui e di essere suoi amici. Questa è l’amicizia che è necessaria per noi tutti e che dobbiamo cercare, giorno per giorno, di nuovo. L’esempio di questa santa, profondamente contemplativa ed efficacemente operosa, spinga anche noi a dedicare ogni giorno il giusto tempo alla preghiera, a questa apertura verso Dio, a questo cammino per cercare Dio, per vederlo, per trovare la sua amicizia e così la vera vita; perché realmente molti di noi dovrebbero dire: “non vivo, non vivo realmente, perché non vivo l’essenza della mia vita”. Per questo il tempo della preghiera non è tempo perso, è tempo nel quale si apre la strada della vita, si apre la strada per imparare da Dio un amore ardente a Lui, alla sua Chiesa, e una carità concreta per i nostri fratelli».
Spiando Bernini e la sua santa Teresa dietro le quinte
di Tomaso Montanari (la Repubblica, 11.06.2015)
Gian Lorenzo Bernini, probabilmente, non avrebbe apprezzato: come tutti i maghi, non svelava i suoi trucchi. Ma è impossibile star lontani dai ponteggi su cui Giuseppe Mantella e Sante Guido (tra i migliori restauratori di scultura che conti l’Italia) stanno pulendo la Cappella Cornaro, nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria: dove Teresa d’Avila geme di piacere e muore per sempre, eternamente trafitta dalla freccia infuocata dell’amor di Dio.
La Cappella è un palcoscenico gremito di attori, pietrificati all’apice dell’azione drammatica. Entrarci vuol dire toccare le “toppe” fantasmagoriche con cui il regista ha rimediato alle lacune dei già spettacolari, coloratissimi marmi antichi, rendendoli ancora più pirotecnici. Vuol dire scoprire che è stato lui in persona, Bernini, a scolpire il grande capitello della parasta di sinistra: tra le cui foglie si contorce un minuscolo alberello, spettacolarmente autografo.
Ma, soprattutto, intrufolarsi dietro le quinte permette di scoprire le tracce degli aggiustamenti dell’ultim’ora: proprio quella fatica che il regista-prestigiatore avrebbe voluto cancellare per sempre. La mano destra di Teresa è un informe grumo di marmo, ma ha tre dite spettacolarmente cesellate: chiaramente eseguite a parte, e attaccate in un secondo momento.
Stupefacente, visto che tutto il resto del gruppo (Teresa e l’angelo) è scolpito in un unico, enorme bocco. Forse il frutto di una rottura posteriore? No, la trovata di un consumato illusionista: fino a quando il gruppo non fu innalzato alla quota stabilita, Bernini non era sicuro di che cosa si sarebbe visto, di quella mano. Ma gli serviva, invece, che si vedesse: per dare un confine leggibile all’oceano di panni in tempesta che risucchia il corpo della santa. E dunque fissò le dita solo stando lassù, muovendole fino a trovare il punto da cui potevano entrare nel campo visivo dello spettatore: «tutto è finto perché tutto sembri vero», era il suo motto.
Ma se ogni cosa era predisposta con sapienza, perché - con apparente spreco di tempo e lavoro - l’angelo e Teresa sono perfettamente lavorati anche sui lati, cioè dove nessun occhio, dal basso, può vedere? Ecco la prova che il grado di rotazione delle figure rispetto alla parete fu deciso solo all’ultimo momento: non si poteva rischiare di mettere in mostra, e proprio lì, qualche dettaglio incompiuto.
Camminando sempre sul filo, però, anche il team di Bernini qualche volta cadeva. I cardinali Cornaro che si affacciano a destra di chi guarda furono scolpiti in un’unica, lunghissima lastra di marmo: un’esibizione spaccona di virtuosismo. Puntualmente punita, però: perché le misure non tornarono, e ci si dovette acconciare a rilavorarli in loco (le schegge di marmo sono ancora lì dietro: commoventi), adagiandoli poi in un’intercapedine di stucco.
Infine, sono proprio i due celeberrimi attori protagonisti ad apparire in una luce nuova. Chi avrebbe mai detto che al meraviglioso cherubino mancasse tutta la metà anteriore del piede destro? Piede che affonda nella base di marmo come, d’estate, il piede di un bambino scompare nell’acqua di mare. Ma anche Teresa ha qualche segreto da svelare: solo vedendola di fronte, si capisce che indossa anche il grande mantello bianco dei carmelitani, perfettamente riprodotto con tanto di fermaglio, che è simile a uno sbarazzino bottone da montgomery.
Una volta sui ponteggi è impossibile non pensare al primissimo palco, quello su cui salirono Bernini e i suoi. Le biografie dicono che quando Gian Lorenzo era lassù, bisognava sempre tenergli vicino un garzone: perché tendeva a estraniarsi e rischiava di cader di sotto. A chi cercava di richiamarlo alla realtà, rispondeva: «lasciatemi stare, ché sono innamorato ». Quasi quattrocento anni dopo, quell’amore rende ancora rovente l’aria della Cappella Cornaro.
Donna eccezionale
· Francesco per il quinto centenario di santa Teresa di Gesù · *
«Donna eccezionale» e «modello attraente di donazione totale a Dio»: è il ritratto con cui Papa Francesco descrive Teresa di Gesù nella lettera inviata al preposito generale dei Carmelitani scalzi per i cinquecento anni della nascita della santa di Ávila.
Dopo essersi unito all’«ora di preghiera per la pace» promossa in tutte le comunità carmelitane del mondo per la ricorrenza di sabato 28 marzo, nello stesso giorno il Pontefice ha scritto a padre Saverio Cannistrà, ricordando come l’anniversario teresiano coincida con l’Anno dedicato alla vita consacrata», nella quale Teresa è stata e resta esempio tra i più attraenti.
Nel dipinto di Juan de la Miseria l’unico ritratto eseguito quando Teresa era ancora viva (1576)
Approfondendone la figura, il Papa si è soffermato in particolare sulla dimensione orante, missionaria, ecclesiale e comunitaria della sua spiritualità. Santa Teresa è anzitutto, ha affermato in proposito, «maestra di preghiera». Infatti «nella sua esperienza è stata centrale la scoperta dell’umanità di Cristo. Mossa dal desiderio di condividere questa esperienza personale con gli altri, la descrive in maniera vivace e semplice, alla portata di tutti». Al punto che la sua «non è stata una preghiera riservata unicamente ad uno spazio o ad un momento della giornata», al contrario «sorgeva spontanea nelle occasioni più diverse».
Per questo con il suo esempio «la Santa ci chiede di essere perseveranti, fedeli, anche in mezzo all’aridità, alle difficoltà personali o alle necessità pressanti che ci chiamano».
Quanto alla dimensione missionaria ed ecclesiale, che ha da sempre contraddistinto la famiglia religiosa carmelitana, «anche oggi la Santa apre nuovi orizzonti, convoca per una grande impresa, per guardare il mondo con gli occhi di Cristo, per cercare ciò che Lui cerca e amare ciò che Lui ama».
Infine, ha concluso, «santa Teresa sapeva che né la preghiera né la missione si possono sostenere senza un’autentica vita comunitaria. Perciò, il fondamento che pose nei suoi monasteri fu la fraternità».
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Giovanni della Croce e Teresa d’Avila
Scritto da Raimon Panikkar *
lempickaAlcuni santi riflettono le perfezioni di Dio con le loro vite silenziose e nascoste; altri sono leader, altri sono eroi del sacrificio e altri ancora vittime dell’amore; alcuni hanno una natura umana piuttosto debole, e altri sono dei veri geni da un punto di vista umano. La santità è multiforme come lo è l’Uomo e la sua natura.
Ci si trova tuttavia di fronte a una non piccola difficoltà se si vogliono classificare i nostri due santi, Giovanni della Croce e Teresa d’Avila. Se li classifichiamo come contemplativi, in quanto hanno raggiunto il più alto grado di fruizione di Dio e di unione con Lui, dimentichiamo che entrambi condussero vite estremamente attive, non solo come maestri di spiritualità, ma anche come riformatori del loro ordine.
L’esempio delle loro vite
È una presunzione quasi folle cercare di riassumere il clima spirituale, i problemi politici e la crisi culturale di quel punto di svolta nella storia europea che ebbe luogo in Spagna durante il XVI secolo.[1] Il destino del mondo, non solo in senso politico o secondo un’interpretazione superficialmente culturale, ma in un significato ontologicamente vero e spirituale, era, possiamo dire, non precisamente nelle mani, ma nella vita di un relativamente piccolo numero di persone, che vivevano in uno dei più caratteristici angoli d’Europa. In quel periodo aveva luogo non solo la nascita dell’Europa «moderna» o la fine dell’epoca «medievale», ma anche il grande conflitto e uno dei pochi e più decisivi incontri fra culture, mondi, religioni. I semi erano piantati e i problemi di una cultura mondiale iniziarono a essere soppesati in modo molto consapevole e serio.
Questa crisi implicava la purificazione e la riforma della Religione, sia da dentro che da fuori, la nuova riflessione circa la relazione degli Uomini con Dio e l’Universo, la relazione del cristianesimo e della cultura cristiana con le altre religioni e culture, non solo da una prospettiva teologica, ma anche da un punto di vista vitale, esistenziale. Ogni cosa era in fermento e la Spagna era il terreno di battaglia di un tale momento storico benché, naturalmente, non tutti i fattori e le idee fossero spagnoli.
Teresa aveva ventun anni quando abbracciò gli ordini religiosi e divenne suora carmelitana ad Avila, sua città natale. Fine dell’ordine carmelitano è di portare i membri a vivere una vita di contemplazione attraverso una lunga pratica di preghiera (nel senso più profondo), di distacco e di penitenza, naturalmente centrata su una contemplazione d’amore e non di pura speculazione. Due anni dopo essere entrata nel Convento dell’Incarnazione (1538), Teresa scrive: «Cominciò dunque il Signore a favorirmi di molte grazie sino ad elevarmi all’orazione di quiete e qualche volta a quella di unione»[2]. Consapevole come ella era della sua vita interiore, possiamo fidarci della sua terminologia e affermare che ebbe inizio per lei una vita di contemplazione abituale e costante solo dodici anni dopo. Visse questa profondissima vita dello spirito per trentatré anni. Ebbe una sensibilità estrema e anche una consapevolezza intensa delle cose spirituali. Questo suo secondo periodo può essere diviso in due differenti stadi: uno di semplice preghiera di quiete, trascendendo ogni comprensione concettuale e con parziale coscienza della sua unione con Dio (dodici anni) e l’altro di unione costante con Dio in una vita di identificazione di volontà (undici anni) e di matrimonio spirituale (dieci anni).
Aveva una quarantina d’anni quando, raggiunta l’unione costante con Dio, avverti la missione apostolica di sollevare il clima spirituale e l’osservanza del suo ordine e, al posto di godere della sua perfezione spirituale, ella diede inizio alla colossale avventura di riformare il Carmelo con nessun altro mezzo che il suo grande amore e fiducia in Dio. Dovette superare ogni tipo di difficoltà e incomprensione in ogni campo. Nonostante la salute precaria e senza perdere l’intensità della sua vita contemplativa e di costante unione con Dio, ella intraprese la più sorprendente vita attiva e fondò conventi delle carmelitane scalze in tutta la Spagna.
Forse uno degli aspetti che più colpiscono fu la sua completezza, la sua pienezza. La sua santità la portò a un’unione con Dio tanto prossima come si può avere in questo mondo e tale unione divinizzò il suo essere. Ciononostante mantenne una personalità pienamente umana, sensibile alle piccole cose del mondo e con uno squisito senso di umorismo. La sua unione con Dio non la separò dai suoi simili e rimase completamente donna con tutta la complessità di uno spirito femminile. Il segreto del suo atteggiamento positivo verso la vita e la natura fu la sua spiritualità cristocentrica. La sua consapevolezza di Dio e della sua somiglianza con Dio fu grazie alla sua esperienza di Dio in e attraverso Cristo, senza esclusione della sua umanità. Caratteristica essenziale della spiritualità carmelitana è di considerare Cristo come sposo dell’anima e di trovare nell’unione viva (matrimonio spirituale) la trasformazione più perfetta in Dio.
Giovanni della Croce entrò nell’Ordine dei fratelli carmelitani «calzi» a ventun anni e a ventisei incontrò Teresa che aveva già cinquantatré anni. Invece di passare all’Ordine certosino per vivere una vita di penitenza più austera e di contemplazione come aveva in mente, si uni a Teresa nel nobile compito di riformare il Carmelo fra gli uomini, come Teresa aveva già iniziato a fare fra le donne. Per la realizzazione di quel progetto egli dovette sopportare calunnie e persecuzioni di grande crudeltà. A differenza di Teresa non divenne mai il fondatore giuridico, ma fu lo spirito ispiratore del Carmelo. Fu un teologo erudito (studente di Alcalà e di Salamanca) e divenne uno dei mistici più grandi di tutti i tempi. Scrisse diversi libri, pubblicati tutti dopo la sua morte. È anche uno dei migliori poeti di tutta la letteratura spagnola.
La dottrina mistica
Solo un mistico può insegnare una dottrina mistica e il suo insegnamento è una comunicazione vitale. Nel caso in cui i mistici scrivano qualcosa, ciò non è che un surrogato e un ricordo. Se cercassimo di riassumere ciò che hanno scritto per esteso, poiché non impiegano parole superflue, noi certamente traviseremmo la loro dottrina e ne daremmo solo una vaga idea. Come potremmo osare di proporre una sintesi del loro messaggio e mettere in evidenza gli aspetti nei quali hanno cercato di esprimere l’ineffabile? Tutto ciò che possiamo fare è, pertanto, il tentativo di esaminare le implicazioni filosofiche della loro dottrina evidenziandone la struttura metafisica.
Scopo e fine della vita umana è l’unione con Dio, è la trasformazione del nostro essere e la sua divinizzazione. La creatura in sé, però, è un nulla. O, come ripetono costantemente i nostri santi, una nonada un non nulla. Essa esiste perché, in certo qual modo, continua a esistere fuori dal nulla, «extra nihilum», sospesa sull’abisso del puro nulla dal potere creatore di Dio. La creatura, dunque, per raggiungere Dio ed essere unita a Lui, deve abbandonare e dimenticare il suo modo di essere, cioè il suo «non ancora essere», la sua negatività e negare il suo non nulla.[3] L’Essere non può essere distrutto. Tutto ciò che noi annientiamo è l’elemento negativo intrinseco alla nostra esistenza temporale.[4] In altre parole, questa unione con Dio non è mera conoscenza ma una incorporazione ontologica benché il nostro intelletto sia anche una parte del nostro essere. Non è semplicemente «conoscendo» Dio che saremo trasformati in Lui, ma solo essendo pienamente uniti a Lui. Noi raggiungiamo il nostro destino ultimo[5] quando siamo uno con Lui.
Ora, a rigore, tra la «creatura» in quanto tale e Dio in quanto tale non c’è nulla in comune. Se la prima deve essere unita a Dio, cioè divinizzata, deve essere spogliata del suo modo di essere. Non solo io non posso raggiungere Dio, ma il mio essere non può essere unito a Lui finché rimane «creatura». Non perché la «natura» è cattiva, ma perché essa non appartiene all’ordine della Divinità. Ma io non ho da parte mia nulla di questo ordine; la mia natura non possiede nulla di omogeneo con Dio che possa essere utilizzato nella mia unione con Lui.
Questo ci porta al famoso cammino del nulla assoluto dei nostri due mistici. Io non posso fidarmi dei miei sensi né dei miei sentimenti, e neppure del mio intelletto con le sue intuizioni, né della mia volontà e neppure del mio stesso essere. Non posso fidarmi di nessuna cosa creata. Se vedo Dio, se Lo sento, persino se Lo amo, dato che è il mio amore ciò che io vedo, sento, amo o sperimento, non si tratta di Lui, poiché Lui è al di là dei miei modi di comprensione e di possesso.
Io posso essere trasformato e unito a Lui, io posso essere Dio, solo se lascio assolutamente tutto ciò che sento, amo, penso e sperimento[6] e persino ciò che «immagino» di essere, ed è Lui che prende possesso di me e mi «rifà». E solo così la nostra vera personalità si realizza. Questa è l’azione della Grazia in me. L’importanza della creatura è qui rimpiazzata dal potere assoluto di Dio. La nuda via della pura fede non è né un credere cieco né uno sforzo disperato di salvarmi, ma è il dono divino e gratuito accordatomi che mi chiama e mi trasforma. Io non ripongo più la fiducia in me ma solo in Dio.[7]
«Dio ha pronunciato solo una Parola che è Suo Figlio ed Egli Lo ha pronunciato in eterno silenzio», dice san Giovanni della Croce, ripetendo una comune asserzione dei Padre della Chiesa. Per essere incorporati in Lui dobbiamo entrare in quel Silenzio, non solo annullando tutte le voci, le immagini e i pensieri su tutto e persino su Dio stesso, ma riducendo il nostro stesso essere a un silenzio ontologico. «Per avere il Tutto tu devi lasciare il tutto», compresi noi stessi.
Il cammino reale verso Dio, indicatoci da questi due grandi contemplativi, non è quello della mera contemplazione di Dio come oggetto, non è l’esperienza di Dio o lo sguardo purificato e altamente contemplativo su di Lui; il nostro sguardo deve trascendere tutte le nostre forze e le nostre facoltà e persino il nostro stesso essere. «Tale è la somiglianza tra fede e Dio da non esservi altra diversità al di fuori di quella che può intercorrere tra il vedere e il credere in Lui»[8]. In termini cristiani è la via nuda e soprannaturale della vera fede quale partecipazione della stessa conoscenza e Luce di Dio, quale introduzione alla Vita divina che, per così dire, è sostenuta in noi grazie ai Suoi doni di Fede, Speranza e Carità[9]. O ancora San Giovanni: «questa notte oscura è il fluire di Dio nell’anima».[10]
Per giungere a ciò che non sai,
devi passare per dove non sai.
Per giungere al possesso di ciò che non hai,
devi passare per dove ora niente hai.
Per giungere a ciò che non sei,
devi passare per dove ora non sei.
Così canta san Giovanni della Croce nei suoi famosi versi[11]. Il progredire dell’uomo spirituale verso Dio è piuttosto l’avanzare di Dio in lui. L’ascesa alla montagna da parte dell’uomo corrisponde alla più reale discesa di Dio nel suo essere.
Una volta santa Teresa, pregando, stava amorosamente lamentandosi con Dio delle sue prove e sofferenze. Udì Dio che le diceva: «Teresa, è così che tratto i miei amici!», facendole comprendere il carattere purificatore delle sofferenze. Ma Teresa, che già lo sapeva, sfrontatamente rispose: «È per questo che ne hai così pochi!». C’è chi ha evidenziato la difficoltà e l’impossibilità di seguire la dottrina dei nostri due santi carmelitani, ritenuta erroneamente una autoabnegazione inumana. Se pensiamo in termini di coraggio umano, è vero che la completa spogliazione del proprio io, ritenuta da loro necessaria al fine di raggiungere l’Unico, è al di là delle forze umane, così che, se questa spogliazione fosse messa in atto per una egoistica brama spirituale, sarebbe non solo impossibile ma anche innaturale. Nessuna forza umana può compiere un’opera come questa e percorrere il sentiero della negazione assoluta, per la semplice ragione che, se non c’è un Dio che ci sostiene, persino dal basso, sotto ai nostri piedi non rimane nulla. San Giovanni della Croce, inoltre, ripete a più riprese che le due notti dell’anima giungono solo quando una persona ha superato la luce della ragione e ha trasceso i sentieri dei sensi[12]. È però anche vero che nessuno può con le sole forze umane arrivare in cima al monte su cui dimora Dio. È Dio, solo Dio, che chiama e dà i doni e le grazie necessarie per una tale ascesa[13]. È l’opera di Dio in noi e anche attraverso noi «non sarebbe infatti una trasformazione vera e totale se l’anima non si trasformasse nelle tre persone della Santissima Trinità... L’anima unita e trasformata da Dio respira in Dio verso Dio lo stesso divino alito che Dio respira in se stesso verso lei trasformata in lui[14].
La santità dei due santi carmelitani
Molteplice e meraviglioso è Dio nei suoi santi. Scintille della Sua perfezione si sprigionano in questi prescelti. Semplicità, amore, obbedienza, forza spirituale, personalità e tanti, tanti altri valori si riflettono nelle vite dei santi. Quali sono le caratteristiche particolari di questi due mistici?
Oserei dire che loro caratteristica precipua, che costituisce al contempo un messaggio urgente e importante per i nostri tempi, è semplicemente quella della santità stessa. E questa è la caratteristica anche dell’altra grande santa del Carmelo dei nostri giorni, santa Teresa di Lisieux, il Piccolo Fiore.
Naturalmente, per il fatto stesso di essere santo o santa, essi riflettono la santità di Dio, ma il colore della luce divina può essere il rosso dell’amore, il verde della speranza, il violetto della penitenza o l’infrarosso di una resa genuina o l’ultravioletto del misticismo e così via.
Malgrado le ricche spiritualità e gli alti doni mistici di cui erano dotati, essi non insistono solo sulla contemplazione, il misticismo e simili; essi non vogliono che nessuno neghi il mondo né faccia dell’autonegazione la sua dottrina centrale. Essi semplicemente predicano e vivono una vita santa, vale a dire la santità, pura e semplice. Tutto il resto è in ultima analisi irrilevante, mezzo per l’«unica cosa necessaria». I loro testi furono scritti o per obbedienza, come nel caso di Teresa, o, come nel caso di san Giovanni, miravano prevalentemente ad aiutare anime speciali a raggiungere l’unione con Dio. Eppure i loro libri sono veramente universali e gli esempi delle loro vite, al di là dello scopo precipuo delle loro attività, costituiscono una lezione per ogni anima religiosa.
Ciò che in definitiva conta non sono le nostre idee o le nostre esperienze o il nostro rifiutare questo e fare quest’altro; ciò che conta non è un certo metodo di preghiera o una particolare forma di vita. La cosa veramente importante, l’unico e ultimo scopo dell’uomo, è la santità, l’unione con Dio, il trasformarsi in Dio, la divinizzazione di tutto il nostro essere[15].
Nel corso di tutto il XVI secolo (per non parlare del nostro tempo) l’Europa attraversava, sotto tutti gli aspetti, una crisi mondiale. Dovunque problemi e soluzioni erano pianificati e applicati in linea orizzontale. La risposta della monaca carmelitana e del frate carmelitano è univoca: la santità. Ma non una santità in forma di una egoistica autoriforma, non una santità per riordinare il mondo e risolverne i problemi, o per salvare se stessi, cioè quale mezzo per qualcosa d’altro o come condizione prima, ma una santità vera, quale fine a se stessa, perché il peso ontologico di una persona divinizzata è più grande di ogni altra cosa, perché il significato della vita sulla terra, questa «cattiva notte in una cattiva taverna» (santa Teresa), non è organizzare il cielo sulla terra ma portare la terra in cielo. «Un unico atto sovrannaturale d’Amore ha più valore di mille universi materiali» (san Giovanni della Croce). Ne deriva quindi che il solo vero approccio alla Vita è darle via libera. Conformemente alla sua natura profonda, la vita sulla terra sarà veramente umana, felice e bella. «Non è forse sorprendente che una povera suora del Convento di san Giuseppe possa regnare su tutta la terra e tutti gli elementi?»[16]. È l’atteggiamento meno negatore del mondo che si possa immaginare perché vede l’intera creazione come un’esplosione dell’Amore divino. Solo allora l’uomo sarà il re della creazione e trasformerà tutto nel vero eterno Regno che è ben più di un mero mondo temporale.
Solo allora l’uomo potrà cantare esultando e rendersi conto che: «I cieli sono miei, la terra è mia, i popoli sono miei! Miei sono i giusti e i peccatori! Miei sono gli angeli e la Madre di Dio è mia! Tutte le cose sono mie! Dio stesso è mio e per me, perché Cristo è mio e tutto per me!»[17]. Il motivo è chiaro: Io non sono più mio, ma è Dio che è in me ed Io in Lui. Questo è il mistero cristiano del Cristo!
Da Raimon Panikkar, Opera Omnia, vol. I, tomo I, Mistica pienezza di vita, Jaca Book, Milano 2008, pp. 130-137
[1] Cfr. il magistrale capitolo di Friederich Heer, Europaische Geistesgeschichte, Kohlhammer, Stuttgart 1953, pagg. 280-331.
[2] Vita IV, 59 in Santa Teresa di Gesù, Opere, Postulazione generale OCD, Roma 1985.
[3] Salita del Monte Carmelo II,5, in San Giovanni della Croce, Opere, Postulazione generale OCD, Roma 1985.
[4] Ibid. I,5; Notte oscura II,6.
[5] Salita del Monte Carmelo I,4,5.
[6] Ibid. I,2.
[7] Ibid. II,8,1.
[8] Ibid. II,9.
[9] Ibid. II,6.
[10] Notte oscura, II,5.
[11] Salita del Monte Carmelo, I,13.
[12] Cantico spirituale, Strofa 34.
[13] Fiamma viva d’amore, Str. III,3
[14] Cantico spirituale, Str. 39.
[15] Salita del Monte Carmelo, III,16,1
[16] Santa Teresa, Vita, VI, 104.
[17] San Giovanni della Croce, Insegnamenti spirituali, 25.
* INTERDIPENDENCE, 28.03.2015.
Giulio Cesare Vanini (Taurisano, 19 gennaio 1585 - Tolosa, 9 febbraio 1619) è stato un filosofo, medico, naturalista libero pensatore italiano, fra i primi esponenti di rilievo del libertinismo erudito. [...]
Giulio Cesare Vanini nasce nella notte tra il 19 e il 20 gennaio 1585 [1] a Taurisano, casale di Terra d’Otranto, nella famiglia che il padre Giovan Battista, uomo d’affari originario di Tresana in Toscana, ha costituito sposando una Lopez de Noguera, appartenente a una famiglia spagnola appaltatrice delle regie dogane della Terra di Bari, della Terra d’Otranto, della Capitanata e della Basilicata. Anche un successivo documento dell’agosto del 1612, scoperto nell’Archivio segreto vaticano, lo qualifica "pugliese", confermando il luogo di nascita ch’egli si attribuisce nelle sue opere.
Nel censimento ufficiale della popolazione del casale di Taurisano, nel 1596, figurano solo i nomi di Giovan Battista Vanini, del figlio legittimo Alessandro, nato nel 1582, e del figlio naturale Giovan Francesco. Nessun cenno della moglie e dell’altro figlio legittimo Giulio Cesare. Nel 1603 Giovan Battista Vanini viene segnalato per l’ultima volta a Taurisano: si ha motivo di ritenere che dopo questa data sia rientrato a Napoli. Paolo Sarpi
Sistemata ogni pendenza economica, nel 1603 [2] entra nell’ordine carmelitano assumendo il nome di fra’ Gabriele e si trasferisce a Padova per intraprendere gli studi di teologia presso quell’università. Giunge nelle terre della Repubblica di Venezia quando le polemiche provocate due anni prima dall’interdetto del papa Paolo V sono ancora vivacissime. Durante il soggiorno padovano entra in contatto con il gruppo capeggiato da Paolo Sarpi che, con l’appoggio dell’ambasciata inglese a Venezia, alimenta la polemica antipapale.
Giulio Cesare consegue a Napoli il titolo di dottore in utroque iure, superando nel giugno 1606 l’esame che gli consentiva di esercitare la professione di dottore nella legge civile e canonica. Come verrà descritto in documenti posteriori, egli ha assimilato una grande cultura, «parla assai bene il latino e con una grande facilità, è alto di taglia e un po’ magro, ha i capelli castani, il naso aquilino, gli occhi vivi e fisionomia gradevole ed ingegnosa».
Nel 1606 probabilmente il padre del filosofo muore a Napoli. Giulio Cesare Vanini, divenuto maggiorenne, si fa riconoscere da un tribunale della capitale erede di Giovan Battista e tutore del fratello Alessandro. Con una serie di rogiti e procure notarili redatte a Napoli, Giulio Cesare inizia a sistemare ogni pendenza economica conseguente alla morte del padre: vende una casa di sua proprietà sita in Ugento, a pochi chilometri dal suo paese d’origine; nel 1607 dà mandato a uno zio materno di assolvere incarichi dello stesso tipo, incarica nel 1608 l’amico Scarciglia di recuperagli una somma e gli vende alcuni beni rimasti a Taurisano e tenuti in custodia dai due fratelli.
Nel 1611 partecipa alle prediche quaresimali, attirandosi i sospetti delle autorità religiose.
La fuga in Inghilterra
Nel gennaio 1612, in conseguenza dei suoi atteggiamenti antipapali, viene allontanato dal convento di Padova e rinviato, in attesa di ulteriori sanzioni disciplinari, al Provinciale di Terra di Lavoro con sentenza del generale dell’Ordine Carmelitano, Enrico Silvio, ma l’anno dopo fugge in Inghilterra, insieme con il confratello genovese Bonaventura Genocchi. Nel viaggio, toccano Bologna, Milano, i Grigioni svizzeri e discendono il corso del Reno sino alla costa del Mare del Nord, attraversando la Germania, i Paesi Bassi, il canale della Manica e giungendo infine a Londra e a Lambeth, sede arcivescovile del Primate d’Inghilterra. Qui i due frati rimarranno per quasi due anni, nascondendo la loro reale identità perfino ai loro ospiti inglesi, poiché è provato che lo stesso arcivescovo di Canterbury, George Abbot, li conosceva sotto un nome diverso da quello reale.
Nel luglio 1612, nella Chiesa londinese detta "dei Merciai" o "degli Italiani", alla presenza di un folto auditorio e del filosofo Francesco Bacone, Vanini e il suo compagno fanno una pubblica sconfessione della loro fede cattolica, abbracciando la religione anglicana. In realtà i due frati non hanno tagliato i ponti con i loro ambienti di provenienza: infatti nel 1613 Genocchi viene raggiunto da una lettera molto amichevole di un amico e confratello genovese, Gregorio Spinola. [...] -> per continuare a leggere, clicca su QUI. (Wikipedia)
Giulio Cesare Vanini (1585-1619)
Se la natura è senza Dio
I quattrocento anni del «De admirandis» del filosofo salentino condannato a morte per le sue idee, come Giordano Bruno
di Vincenzo Barone (il Sole 24 ore, Domenica, 25.09.2016)
C’è stato un tempo in cui ragionare sull’universo poteva costare la vita. Il caso di Giordano Bruno, arso vivo nel 1600 a Campo de’ Fiori, è il più famoso ma non l’unico. «Andiamo allegramente a morire da filosofi», pare che abbia detto il 9 febbraio 1619 un altro grande visionario, il salentino Giulio Cesare Vanini, mentre veniva condotto sul luogo del supplizio, in una piazza di Tolosa. Il boia prima gli strappò la lingua e poi accese la pira, ponendo fine alla breve esistenza (34 anni) del pensatore di Taurisano. La condanna a morte per «ateismo, bestemmia, empietà e altri eccessi» non era stata emessa dall’Inquisizione, ma da un tribunale civile, perché negare l’esistenza di Dio era un delitto di lesa maestà, un attentato al fondamento divino dell’autorità del monarca.
Tre anni prima, nel settembre del 1616, era comparsa una delle opere principali di Vanini, il De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis (I meravigliosi segreti della natura, regina e dea dei mortali), stampata a Parigi da Adrien Périer e accolta con favore e interesse negli ambienti di corte e nei circoli dell’intellettualità transalpina.
L’autore, in quel momento, si trovava in Francia dopo un lungo girovagare per l’Europa, molto simile a quello di Bruno. Frate dell’ordine dei carmelitani, formatosi negli studi giuridici e teologici a Napoli e a Padova, nel 1612 Vanini era entrato improvvisamente in rotta di collisione con le gerarchie ecclesiastiche e si era rifugiato in Inghilterra, dove aveva abbracciato la fede anglicana. Il soggiorno londinese e la conversione durarono meno di due anni: nel 1614 Vanini chiese di essere riammesso nella Chiesa cattolica e fuggì rocambolescamente in Francia.
A Lione, nel 1615, pubblicò la sua prima grande opera, l’Amphitheatrum aeternae providentiae, seguita l’anno successivo dal De admirandis. Con la fama giunsero però anche le indagini delle autorità, insospettite dal successo che le opere dell’ex frate riscuotevano nei cenacoli libertini. La situazione precipitò nell’agosto 1618, quando Vanini venne improvvisamente arrestato e sottoposto a un estenuante processo, durato sei mesi. Una prova falsa, prodotta da un gesuita, condusse infine alla pena capitale.
Il De admirandis è concepito come una lunga discussione filosofica, in sessanta dialoghi, che si svolge nell’arco di una giornata estiva tra Giulio Cesare e un giovane interlocutore, Alessandro, il quale pone di volta in volta le questioni. Ciò che colpisce nell’opera non è tanto la presenza di idee scientifiche di sapore moderno (anche se, per esempio, il trasformismo biologico che vi viene affermato rappresenta una notevole intuizione), quanto piuttosto lo sguardo integralmente razionale e naturalistico che Vanini getta sul mondo.
Dio viene continuamente evocato, ma solo per essere poi, di fatto, messo ai margini, con un abile gioco di simulazione e dissimulazione che poggia, oltre che sulla forma-dialogo, su una vasta gamma di espedienti retorici, come le frequenti citazioni di autori ortodossi, estrapolate dai contesti originari e usate come materiale grezzo per costruire nuovi discorsi filosofici, o i riferimenti alle tesi dei materialisti pagani, apparentemente confutate ma in effetti esposte con attenzione e simpatia.
È un gioco che sembra funzionare, tant’è vero che i due religiosi della Sorbona incaricati di leggere il manoscritto concedono senza indugio l’approvazione alla stampa, salvo rendersi conto, subito dopo la pubblicazione, dell’imprudenza commessa. Come nota uno dei maggiori esperti del filosofo salentino, Francesco Paolo Raimondi (curatore, assieme a Mario Carparelli, dell’edizione in italiano dell’opera omnia), «per Vanini l’ordine naturale trova in se stesso la propria giustificazione con l’esclusione di ogni dimensione metafisica [...] In nessun luogo egli accenna a una presenza di Dio nel mondo e in tutte le sua analisi della realtà l’intervento divino viene escluso».
È significativo in proposito un passo del Dialogo IV: «La mole del cielo è posta in orbita dalla propria forma come accade per gli elementi», afferma Giulio Cesare. E all’obiezione di Alessandro - «Ma come possono muoversi i cieli secondo leggi certe e stabili, se non li assistono le divine menti motrici, partecipi della prima sapienza?» - risponde: «Che c’è di strano? Forse che nei vilissimi macchinari degli orologi, diligentemente predisposti da un Tedesco ubriaco, non vige una legge certa e stabile del movimento? [...] Anche il mare ad intervalli certi e definiti è mosso, secondo un ritmo di flussi e riflussi, dalla propria forma, cioè da quella che voi Peripatetici chiamate gravità. Anzi, poiché il cielo si muove sempre secondo il medesimo movimento, direi che è mosso dalla sua pura forma e non dal volere di un’Intelligenza».
Certis statisque legibus («Secondo leggi certe e stabili»): è uno dei concetti fondamentali dell’opera, la formula che esprime il lato più innovativo del pensiero di Vanini. L’universo vaniniano, meccanico e materiale, si spiega in virtù dei propri princìpi interni, senza necessità alcuna di introdurre entità sovrannaturali o cause finali. Le leggi della natura non sono l’indizio dell’esistenza di un Essere intelligente, ma semmai il contrario, perché un mondo governato da un’Intelligenza sarebbe soggetto piuttosto all’arbitrio e alla contingenza che alla regolarità. Sebbene l’attrezzatura intellettuale di Vanini rimanga sostanzialmente quella aristotelica, la sua concezione del mondo rompe decisamente col passato - con i vecchi animismi, con la separazione tra cielo e terra, con l’antropocentrismo. «L’universo - scrive ancora Raimondi - si slarga in una dimensione infinita, perde ogni connotazione teleologica, si spopola dell’ingombrante schiera di essenze demoniache e angeliche d’ogni sorta e si riafferma nella totale autonomia da ogni principio esterno e trascendente».
Come un’improvvisa esposizione alla luce, la secretior philosophia di Vanini «provoca un dolore in chi è rimasto a lungo al buio» (sono sue parole). «Che danno subiscono quelli che non ti ascoltano!», osserva Alessandro. «Al contrario - replica Giulio Cesare - lo subiscono quelli che mi ascoltano!». L’Inquisizione se ne accorgerà in ritardo: il decreto con cui il De admirandis viene dichiarato “sospetto” e se ne vieta la circolazione donec corrigatur - finché non corretto dall’autore - arriva solo nel luglio del 1620, quando il filosofo di Taurisano (all’insaputa del cardinale Bellarmino e dei suoi colleghi) è già in cenere. «Fu più facile bruciare Vanini che riuscire a confutarlo», scriverà lapidariamente Arthur Schopenhauer.
Morire allegramente da filosofi: Giulio Cesare Vanini (1619), un Giordano Bruno (1600) salentino ...*
1619-2019
Anticipò Darwin, sfidò la Chiesa: l’«aquila degli atei» che morì da filosofo
Il 9 febbraio di quattrocento anni fa finiva la straordinaria avventura intellettuale e umana di Giulio Cesare Vanini: la lingua strappata, poi strangolato, poi arso sul rogo
di Matteo Trevisani (Corriere della Sera, La Lettura, 03.02.2019) «Andiamo a morire allegramente da filosofi», disse Giulio Cesare Vanini al suo boia, il pomeriggio del 9 febbraio 1619. Poco dopo gli verrà strappata la lingua, strumento con la quale aveva offeso Dio e il re, verrà strangolato e il suo corpo bruciato sul rogo si consumerà illuminando Place du Sulin, a Tolosa. Aveva trentaquattro anni.
È con quest’atto cruento che si compie, diciannove anni dopo il più famoso rogo di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, l’ultimo tratto della parabola di Vanini, filosofo italiano, principe dei libertini, aquila ateorum.
Mi sono chiesto a lungo che cosa significasse «morire da filosofi» e in che cosa questo differisse dal morire di tutti. Se fosse solo una frase a effetto, la volontà di non mostrarsi vinti del tutto, l’arroganza ultima di chi crede di essere dalla parte della ragione. Ma per capire fino in fondo il significato della morte di Vanini bisognava partire dalla sua vita. La straordinaria storia del più ateo dei filosofi del Rinascimento è fatta di fughe repentine, di abiure, di prigionìe, di spionaggio e diplomazia, ma anche di audacia e coraggio, di una fede perduta e amore per l’essere umano.
Giulio Cesare Vanini nasce a Taurisano, in Salento, nel 1585, in una famiglia piuttosto agiata. Studia diritto a Napoli, dove nel 1603 entra nell’ordine dei carmelitani. Rimarrà nella città partenopea nove anni prima di iscriversi alla facoltà di filosofia a Padova, centro di quell’aristotelismo non allineato che ai dogmi teologici preferisce indagare i misteri della natura. Probabilmente conosceva già l’opera di quello che riterrà il suo maestro: l’aristotelico Pietro Pomponazzi, che nella sua opera più nota aveva sancito l’impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima.
A Padova si consuma il primo dei molti strappi che saranno la costante del suo peregrinare: dopo alcune prediche contro il maestro del suo ordine, gli viene imposto il ritiro in uno sperduto convento di Calabria. Vanini decide allora di fuggire in Inghilterra, dove la Chiesa anglicana offriva volentieri asilo agli apostati in funzione di propaganda anticattolica. Da quel momento cominciano anni di peregrinazioni e fughe, in cui Vanini e il suo spirito inquieto troveranno rifugio in molte città europee, aiutato dalla diplomazia internazionale e al contempo braccato dal controspionaggio. Quando alla fine il Papa lo richiama a Roma, sa che la sua vita è in pericolo. Fiuta l’inganno dell’Inquisizione e decide di fermarsi a Genova per poi riparare a Lione, dove pubblica il suo Amphitheatrum, seguito l’anno successivo dal De Admirandis, stavolta a Parigi, che gli procura un immediato successo presso i circoli libertini della capitale francese.
Lo strappo, non più ricucibile, è anche filosofico: sotto le spoglie di una forma apologetica e di un lessico platonico, il filosofo teorizza il suo personale e rivoluzionario ateismo, in cui l’uomo viene liberato da ogni dogma e il mondo da ogni vincolo metafisico. Dio non è più il vertice della scala degli esseri, ma una menzogna messa in atto dalle religioni allo scopo di suscitare timore nel popolo, la Bibbia poco più che una favola, Cristo un impostore.
Lo stile dissacratorio di Vanini abbraccia ogni ambito: la visione antropocentrica dell’uomo si dissolve, diventa un essere come gli altri in un universo meccanicistico e l’assoluta autonomia di cui gode la natura non è soggetta a nessuna provvidenza divina. All’interno di questo mondo liberato dal peccato e da ogni superstizione magica il sesso non ha connotazioni negative, perché garantisce il proseguimento della specie: l’innovazione di Vanini sta nell’affidare all’uomo stesso e a lui soltanto la responsabilità della propria condizione. L’anima è mortale, non esiste nessuna volontà organizzatrice e la vita dell’uomo è inserita soltanto nell’orizzonte della natura, niente di più. Niente è eterno, ma tutto è soggetto alle leggi naturali del divenire, e così come tutto ha avuto un inizio, ogni cosa dovrà finire.
Alla fine, sentendosi braccato, il filosofo tenta l’azzardo più grande: sotto falso nome decide di cercare riparo proprio tra le fauci della cattolicissima Tolosa, dove dopo due anni verrà scoperto, arrestato a causa del suo ateismo e condotto al rogo. Antispecista, preilluminista, predecessore di Darwin e Schopenhauer, cantato da Hölderlin, citato da Hegel, innamorato delle leggi di natura: a quattrocento anni dalla morte, anche se molto è stato detto e scritto su Vanini, la sua fortuna ha vissuto stagioni alterne, tanto che spesso è ignorato perfino dai manuali di storia della filosofia.
Giulio Cesare Vanini ha vissuto tutta la vita non accontentandosi di verità precostituite: al contrario ha visto nella sua esistenza l’opportunità di indagare la natura, liberandosi da ogni facile dogma e promesse di future ricompense. Forse allora è questo che vuol dire, morire da filosofo: sentire la pienezza della vita anche nell’ora più buia, ma senza esserne vinti. Vivere fino alla fine con coerenza e coraggio. Morire da filosofi significa morire da vivi.
GIORDANO BRUNO, LE "TRE CORONE" E IL VANGELO ARMATO. Nuccio Ordine rilegge la grande opera di Bruno (e fa intravedere impensate connessioni con Dante, Boccaccio, Lessing e noi, tutti e tutte). Intervista di Maria Mantello
CIELO PURO E LIBERO MARE....
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Federico La Sala
Il Papa a Manila: La famiglia e la Chiesa vanno protette.
di Michelangelo Nasca (Korazym.org, 18 gennaio 2015)
Con la celebrazione della Messa nel Rizal Park a Manila (stracolma di fedeli), il viaggio apostolico di Papa Francesco in Sri Lanka e Filippine volge al termine. Oggi, poi, per il popolo filippino ricorre una delle più importanti e antiche feste liturgiche: la festa del Santo Niño (Gesù Bambino). La statua del Santo Niño venerata nelle Filippine (molto simile al Bambinello di Praga) risale al XVI secolo ed è conservata presso la Basilica Minore del Santo Niño nella città di Cebu, nella Filippine. Si tratta dell’immagine religiosa più antica esistente nelle Filippine, la statua fu donata come regalo di battesimo, nel 1521, dall’esploratore Ferdinando Magellano alla Regina di Cebu all’epoca della esplorazione del navigatore portoghese in quelle terre. I fedeli ne celebrano la ricorrenza liturgica ogni terza domenica di gennaio.
E’ per me una particolare gioia celebrare la domenica del Santo Niño con voi. - dice Papa Francesco durante la sua omelia - «L’immagine del Santo Bambino Gesù ha accompagnato la diffusione del Vangelo in questo Paese fin dall’inizio. Vestito con gli abiti regali, coronato e dotato di scettro, globo e croce, Egli ci ricorda continuamente il legame tra il Regno di Dio e il mistero dell’infanzia spirituale... Il Santo Niño continua a proclamare che la luce della grazia di Dio è brillata su un mondo che abitava nelle tenebre, portando la Buona Novella della nostra liberazione dalla schiavitù, e guidandoci sul sentiero della pace, del diritto e della giustizia. Egli inoltre ci ricorda che siamo stati chiamati a diffondere il Regno di Cristo nel mondo».
“Siamo tutti figli di Dio” - afferma Papa Francesco - Questo è ciò che il Santo Niño viene a dirci. «Ci ricorda la nostra più profonda identità. Tutti noi siamo figli di Dio, membri della famiglia di Dio. Ne abbiamo visto una bellissima espressione quando i Filippini si sono stretti intorno ai fratelli e alle sorelle colpiti dal tifone». Le Filippine, ricorda il Pontefice, sono il primo Paese cattolico in Asia; si tratta di uno speciale dono di Dio, una benedizione. Ma è anche una vocazione - ricorda il Papa - «I Filippini sono chiamati ad essere eccellenti missionari della fede in Asia». Dio ha scelto tutti per essere testimoni in questo mondo della sua verità e della sua giustizia. Ha creato il mondo come uno splendido giardino e ci ha chiesto di averne cura. L’uomo però lo ha sfigurato della sua naturale bellezza e con il peccato ha distrutto l’unità e la bellezza della nostra realtà umana, creando - ricorda il Papa - «strutture sociali che hanno reso permanente la povertà, l’ignoranza e la corruzione».
Papa Francesco esorta i presenti a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà e alle ingiustizie del mondo, anche quando, talvolta, si è tentati di rinunciare e le promesse del Vangelo appaiono irrealizzabili. La grande minaccia al piano di Dio - sottolinea il Pontefice - per noi è ed è sempre stata la menzogna. «Il diavolo è il padre della menzogna. Spesso egli nasconde le sue insidie dietro l’apparenza della sofisticazione, il fascino di essere “moderni”, di essere “come tutti gli altri”. Egli ci distrae con il miraggio di piaceri effimeri e di passatempi superficiali. In tal modo noi sprechiamo i doni ricevuti da Dio, giocherellando con congegni futili; sprechiamo il nostro denaro nel gioco d’azzardo e nel bere; ci ripieghiamo su noi stessi. Trascuriamo di rimanere centrati sulle cose che realmente contano. Trascuriamo di rimanere interiormente come bambini. I bambini infatti, come ci insegna il Signore, hanno la loro propria saggezza, che non è la saggezza del mondo».
L’identità della famiglia va protetta, ricorda Papa Francesco, rilanciando e ricordando il prezioso compito di san Giuseppe, chiamato a proteggere e a custodire la vita di Gesù e di tutta la sacra Famiglia. «Egli (Gesù) ha avuto un protettore sulla terra: san Giuseppe. Ha avuto una famiglia qui sulla terra: la Santa Famiglia di Nazaret. In tal modo Egli ci ricorda l’importanza di proteggere le nostre famiglie e quella più grande famiglia che è la Chiesa, la famiglia di Dio, e il mondo, la nostra famiglia umana. Oggi purtroppo la famiglia ha bisogno di essere protetta da attacchi insidiosi e da programmi contrari a tutto quanto noi riteniamo vero e sacro, a tutto ciò che nella nostra cultura è più nobile e bello».
Nel Vangelo - ricorda infine il Papa - «Gesù accoglie i bambini, li abbraccia e li benedice. Anche noi abbiamo il compito di proteggere, guidare e incoraggiare i nostri giovani, aiutandoli a costruire una società degna del suo grande patrimonio spirituale e culturale. In modo specifico, abbiamo bisogno di vedere ogni bambino come un dono da accogliere, da amare e da proteggere. E dobbiamo prenderci cura dei giovani, non permettendo che siano derubati della speranza e condannati a vivere sulla strada».
Al termine della Celebrazione Eucaristica, dopo gli indirizzi di saluto e di ringraziamento da parte del Presidente della Conferenza Episcopale delle Filippine, S.E. Mons. Socrates B. Villegas, Arcivescovo di Lingayen-Dagupan, e dell’Arcivescovo di Manila, Card. Luis Antonio G. Tagle, vengono accese le candele e il Santo Padre invita i fedeli alla missione.
Pregare lo Spirito per «superare facili accomodamenti mondani»
di Andrea Tornielli (La Stampa, Vatican Insider, 11/01/2015)
Il Figlio di Dio «lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente». Dopo aver celebrato i battesimi nella Sistina, Francesco ha recitato l’Angelus e ha invitato i fedeli presenti in piazza San Pietro a pregare lo Spirito Santo, il «grande dimenticato» nelle orazioni dei cristiani, e a ricordare «con gioia» la data del proprio battesimo.
«Nel momento in cui Giovanni Battista conferisce il battesimo a Gesù, il cielo si apre. È così finito il tempo dei “cieli chiusi”, che stanno ad indicare la separazione tra Dio e l’uomo, conseguenza del peccato», ha detto Francesco. «Così la terra è diventata la dimora di Dio fra gli uomini e ciascuno di noi ha la possibilità di incontrare il Figlio di Dio, sperimentandone tutto l’amore e l’infinita misericordia. Lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente e immagine visibile del Dio invisibile».
Dopo aver ricordato che la discesa dello Spirito Santo, «consente a Cristo, il Consacrato del Signore, di inaugurare la sua missione salvifica per tutti noi», Papa Bergoglio ha aggiunto a braccio: «Lo Spirito Santo, il grande dimenticato nelle nostre preghiere: noi spesso preghiamo Gesù, preghiamo il Padre, nel Padre Nostro, ma non tanto frequentemente preghiamo lo Spirito Santo. È il dimenticato e abbiamo bisogno di chiedere il suo aiuto, la sua fortezza, la sua ispirazione...».
«Porre sotto l’azione dello Spirito Santo la nostra vita di cristiani e la missione, che tutti abbiamo ricevuto in virtù del Battesimo - ha continuato Francesco - significa ritrovare coraggio apostolico necessario per superare facili accomodamenti mondani. Un cristiano e una comunità “sordi” alla voce dello Spirito Santo, che spinge a portare il Vangelo agli estremi confini della terra e della società, diventano anche un cristiano e una comunità “muti” che non parlano e non evangelizzano».
«Ricordatevi questo: pregare spesso lo Spirito Santo perché ci aiuti, ci dia la forza, l’ispirazione per andare avanti», ha ribadito Francesco. Dopo l’Angelus, il Papa ha chiesto ai fedeli dello Sri Lanka e delle Filippine che sono a Roma, di pregare per lui, alla vigilia del viaggio che da domani sera compirà in Asia. E ha invitato tutti i presenti a cercare «la data del battesimo, per ricordare con gioia» quel giorno.
Spagna: Papa Francesco concede un anno giubilare teresiano
“Papa Francesco ha concesso a tutte le diocesi spagnole la grazia di un Anno giubilare teresiano per celebrare solennemente il quinto centenario della nascita di santa Teresa d’Avila”: lo annuncia la Conferenza episcopale spagnola, in un comunicato in cui si specifica che lo speciale Anno durerà dal 15 ottobre 2014 al 15 ottobre 2015.
di Redazione Toscana Oggi *
“Il Santo Padre - continua la nota - ha concesso al presidente della Conferenza episcopale e al vescovo di Avila la grazia d’impartire, durante l’Anno giubilare, la benedizione papale e l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli cristiani presenti alle celebrazioni in programma e che, pentiti e mossi dalla carità, assisteranno ai riti, secondo le condizioni canoniche”, ovvero confessione, Eucaristia e preghiera secondo le intenzioni del Papa.
Santa Teresa d’Avila, nota anche come Teresa di Gesù, al secolo Teresa Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumada, nacque il 28 marzo 1515. Entrata nell’Ordine del Carmelo a vent‘anni, dopo un travagliato percorso interiore che la condusse, a 39 anni, a quella che definì in seguito la sua “conversione”, divenne una delle figure più importanti della Riforma cattolica grazie alla sua attività di scrittrice e riformatrice delle monache e dei frati carmelitani scalzi, e grazie alla fondazione di monasteri in diversi luoghi. Morì ad Alba de Tormes il 15 ottobre 1582.
Fonte: Sir
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A Istanbul l’unità dei cristiani è più vicina
Chryssavgis (Patriarcato Costantinopoli): "l’immagine dei due leader che pregano insieme ricorda al mondo che lavorare per la pace e la giustizia è un obbligo"
di CHIARA SANTOMIERO (www.aleteia.org, 30.11.2014 - ripresa senza le foto - da vedersi, ovviamente!).)
Un evento storico, ha definito lo stesso patriarca ecumenico Bartolomeo I, la visita di papa Francesco in Turchia per la ricorrenza della solennità di S. Andrea, che costituisce la prosecuzione del cammino di amichevoli rapporti tra le due chiese e un buon auspicio per il futuro del completo ristabilimento dell’unità. Un futuro che sembra ancora più a portata di mano grazie all’amicizia personale tra le due autorità religiose, come conferma l’arcidiacono John Chryssavgis, consulente teologico del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli che Aleteia ha incontrato durante i giorni della permanenza in Turchia del pontefice.
Quale valore assume la visita di papa Francesco al patriarca Bartolomeo I e quelle del patriarca a lui, quasi una sorta di "ecumenismo delle visite"?
Chryssavgis: La visita di papa Francesco si inserisce nella tradizione dei viaggi dei pontefici a Istanbul, subito dopo la loro elezione, come espressione dell’impegno per la sacra causa dell’unità. Papa Francesco è il terzo pontefice a seguire la tradizione, dopo papa Giovanni Paolo II nel 1979 e Benedetto XVI nel 2006. Naturalmente, sebbene ciò che ci unisce sia molto più di ciò che ci divide, restano ancora i temi critici del primato e della collegialità, che sono sul tavolo di discussione del dialogo teologico ufficiale tra le due chiese. Tuttavia papa Francesco e il patriarca Bartolomeo si incontrano in questi giorni per la quarta volta dall’elezione, oltre ogni precedente, confermando la fedeltà dei due leader alla preghiera di Cristo sui suoi discepoli "che siano una cosa sola".
L’amicizia personale tra il papa e il patriarca quale influenza ha sul dialogo tra teologi considerato che sembra difficile trovare “reali soluzioni” come è evidenziato dal lavoro della Commissione teologica mista?
Chryssavgis: In questi ultimi mesi, il papa e il patriarca hanno sigillato la loro personale amicizia e il fraterno impegno per una testimonianza di unità nel mondo contemporaneo e nella chiesa. Il significato di questi incontri è immenso. Dobbiamo ricordare che, per novecento anni, c’era scarsa o nessuna comunicazione tra le due chiese. Il fatto che, oggi, le due "chiese sorelle" si scambino visite ufficiali, organizzino eventi insieme e producano dichiarazioni comuni, è un chiaro segno di cambiamento di mentalità e comportamenti. L’obiettivo finale è ristabilire la completa unità e condividere in pienezza i sacramenti. Ma la visita di papa Francesco a Istanbul dimostra che le antiche polemiche e i sospetti del passato sono stati superati. Inoltre, anche se non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo dell’unità dei cristiani, possiamo continuare a "camminare nella carità" (Ef. 5,2), secondo il motto della visita di quest’anno del papa al Patriarcato Ecumenico.
Cosa si aspettano i cristiani di Turchia da questa visita?
Chryssavgis: In anni recenti, ci sono stati molti cambiamenti in positivo nelle relazioni tra il governo turco e i cristiani ortodossi di questo paese. Numerose proprietà sono state restituite alle minoranze non musulmane e c’è meno ingerenza nelle questioni interne della Chiesa. Tuttavia, la Scuola teologica di Halki (n.d.r il seminario è stato chiuso dalle autorità turche come conseguenza di una controversia giuridica sulla natura dell’istituzione), si pone come un potente e doloroso ricordo del proseguire delle restrizioni religiose in Turchia. La verità è che la libertà di religione non può essere separata dalla libertà di insegnare religione. Del resto, il governo turco avrebbe molto da guadagnare da un Halki aperto, da un seminario che storicamente ha formato il clero con la maggiore apertura mentale del mondo, tra cui l’attuale patriarca ecumenico Bartolomeo.
Quali argomenti potrebbero entrare nella dichiarazione congiunta finale?
Chryssavgis: Nella dichiarazione congiunta, oltre all’accento sul rafforzamento delle relazioni tra cristiani, in particolare tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, sono certo che i due profetici leader si concentreranno su come annunciare il Vangelo nel mondo contemporaneo, soprattutto alla luce delle sfide che il mondo sta affrontando. Di certo essi esprimeranno la loro preoccupazione e lo sgomento per la brutale persecuzione dei cristiani nella regione in cui il cristianesimo è nato - come l’Iraq e la Siria, ma più in generale il Medio Oriente - e dove la popolazione cristiana è drasticamente diminuita. Si deve ricordare che, insieme, le due chiese rappresentano circa due miliardi di fedeli. E in un’epoca di così grande fermento e divisione, l’immagine di loro due in piedi mentre pregano insieme servirà per ricordare al mondo che siamo chiamati - anzi è un obbligo - a lavorare insieme per la pace e la giustizia nel nostro mondo.
Il rapporto con la Chiesa cattolica entrerà nella riflessione del Sinodo pan-ortodosso del 2016?
Chryssavgis: Il Grande Concilio del 2016 radunerà per la prima volta i rappresentanti di tutte le quattordici chiese autocefale ortodosse. La convocazione stessa di un grande concilio generale è di fatto senza precedenti, perché l’incontro sarà molto più rappresentativo di qualsiasi altro concilio mai convocato in passato. Uno degli argomenti più importanti che verrà affrontato nel Grande Sinodo sarà il rapporto tra la cristianità ortodossa e le altre confessioni cristiane, così come con le altre comunità religiose. Tra queste relazioni, il dialogo di amore e verità con la Chiesa cattolica di Roma occupa un posto speciale nel cuore del Patriarcato ecumenico. Sono sicuro che il Grande Concilio capirà quanto sia cruciale conservare una linea comune positiva nella relazione con la Chiesa di Roma e formare in modo collettivo i fedeli sull’importanza di lavorare per il ristabilimento dell’unità nella fede e nei sacramenti.
E’ in programma di celebrare insieme i 1700 anni del primo Concilio ecumenico di Nicea, celebrato quando le chiese erano ancora unite?
Chryssavgis: La possibilità di un evento comune nel 2025, per commemorare e celebrare l’anniversario del Concilio di Nicea è stata presa in considerazione; tuttavia non ci sono programmi concreti o nell’immediato in proposito. Sarebbe chiaramente, però, un’occasione importante per segnare una tappa fondamentale nella storia della Chiesa cristiana.
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL PRIORE GENERALE DELL’ORDINE DEI FRATELLI DELLA
BEATA VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO,
IN OCCASIONE DEL CAPITOLO GENERALE
Al Reverendissimo Padre
Fernando Millán Romeral
Priore Generale dell’Ordine dei Fratelli
della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo.
Mi rivolgo a voi, cari Fratelli dell’Ordine della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, che celebrate in questo mese di settembre il Capitolo Generale. In un momento di grazia e di rinnovamento, che vi chiama a discernere la missione del glorioso Ordine carmelitano, desidero offrirvi una parola di incoraggiamento e di speranza. L’antico carisma del Carmelo è stato per otto secoli un dono per l’intera Chiesa, e ancora oggi continua ad offrire il suo peculiare contributo per l’edificazione del Corpo di Cristo e per mostrarne al mondo il volto luminoso e santo. Le vostre origini contemplative scaturiscono dalla terra dell’epifania dell’amore eterno di Dio in Gesù Cristo, Verbo fatto carne. Mentre riflettete sulla vostra missione di Carmelitani di oggi, vi suggerisco di considerare tre elementi che possono guidarvi nella realizzazione piena della vostra vocazione che è la salita al monte della perfezione: l’ossequio a Cristo, la preghiera e la missione.
Ossequio
La Chiesa ha la missione di portare Cristo al mondo e per questo, come Madre e Maestra, invita ciascuno ad avvicinarsi a Lui.
Nella liturgia carmelitana per la festa della Madonna del Monte Carmelo contempliamo la Vergine che sta “accanto alla Croce di Cristo”. Quello è anche il posto della Chiesa: vicino a Cristo. Ed è anche il posto di ogni figlio fedele dell’Ordine carmelitano. La vostra Regola inizia con l’esortazione ai fratelli di “vivere una vita in ossequio di Gesù Cristo”, per seguirlo e servirlo con cuore puro e indiviso. La stretta relazione con Cristo si realizza nella solitudine, nell’assemblea fraterna e nella missione. “L’opzione fondamentale di una vita concretamente e radicalmente dedicata alla sequela di Cristo” (Ratio Institutionis Vitae Carmelitanae, 8) fa della vostra esistenza un pellegrinaggio di trasformazione nell’amore. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ricorda il ruolo della contemplazione nel cammino della vita: la Chiesa ha “infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina” (Sacrosanctum Concilium, 2). Gli antichi eremiti del Monte Carmelo conservarono la memoria di quel luogo santo e, anche se esuli o lontani, mantenevano lo sguardo e il cuore costantemente fissi alla gloria di Dio. Riflettendo sulle vostre origini e sulla vostra storia e contemplando l’immensa schiera di quanti hanno vissuto nei secoli il carisma carmelitano, scoprirete anche la vostra vocazione attuale di essere profeti di speranza. Ed è proprio in questa speranza che sarete rigenerati. Spesso ciò che appare nuovo è qualcosa di molto antico illuminato da nuova luce.
Nella vostra Regola c’è il cuore della missione carmelitana di allora e anche di oggi. Mentre vi apprestate a celebrare l’ottavo centenario della morte di Alberto, Patriarca di Gerusalemme, nel 1214, ricorderete che egli formulò un “percorso di vita”, uno spazio che rende capaci di vivere una spiritualità totalmente orientata a Cristo. Egli delineò elementi esterni ed interiori, un’ecologia fisica dello spazio e l’armatura spirituale necessaria per rispondere adeguatamente alla vocazione e compiere efficacemente la propria missione.
In un mondo che spesso misconosce Cristo e, di fatto, lo rifiuta, voi siete invitati ad accostarvi e ad aderire sempre più profondamente a Lui. È una continua chiamata a seguire Cristo e ad essere conformati a Lui. Questo è di vitale importanza nel nostro mondo così disorientato, “perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore” (Lumen fidei, 4). Cristo è presente nella vostra fraternità, nella liturgia comunitaria e nel ministero affidatovi: rinnovategli l’ossequio di tutta la vostra vita!
Preghiera
Il Santo Padre Benedetto XVI, prima del vostro Capitolo Generale del 2007, vi ricordò che “il pellegrinaggio interiore di fede verso Dio inizia nella preghiera”; e a Castel Gandolfo, nell’agosto 2010, vi disse: “Voi siete quelli che ci insegnano a pregare”. Voi vi definite contemplativi in mezzo al popolo. In effetti, se è vero che siete chiamati a vivere sulle altezze del Carmelo, è altrettanto vero che siete chiamati a dare testimonianza in mezzo al popolo. La preghiera è quella “strada reale” che apre alle profondità del mistero di Dio Uno e Trino, ma è anche il sentiero obbligato che si snoda in mezzo al popolo di Dio pellegrinante nel mondo verso la Terra Promessa.
Una delle vie più belle per entrare nella preghiera passa attraverso la Parola di Dio. La lectio divina introduce alla conversazione diretta con il Signore e schiude i tesori della sapienza. L’intima amicizia con Colui che ci ama ci rende capaci di vedere con gli occhi di Dio, di parlare con la sua Parola nel cuore, di conservare la bellezza di questa esperienza e di condividerla con coloro che sono affamati di eternità.
Il ritorno alla semplicità di una vita centrata sul Vangelo è la sfida per il rinnovamento della Chiesa, comunità di fede che trova sempre percorsi nuovi per evangelizzare il mondo in continua trasformazione. I Santi carmelitani sono stati grandi predicatori e maestri di preghiera. Questo è ciò che ancora una volta si richiede al Carmelo del ventunesimo secolo. Lungo tutta la vostra storia, i grandi Carmelitani sono stati un forte richiamo alle radici della contemplazione, radici sempre feconde di preghiera. Qui è il cuore della vostra testimonianza: la dimensione di “contemplatività” dell’Ordine, da vivere, da coltivare e da trasmettere. Vorrei che ciascuno si domandasse: come è la mia vita di contemplazione? Quanto tempo dedico durante la mia giornata alla preghiera e alla contemplazione? Un carmelitano senza questa vita contemplativa è un corpo morto! Oggi, forse più che nel passato, è facile lasciarsi distrarre dalle preoccupazioni e dai problemi di questo mondo e farsi affascinare da falsi idoli. Il nostro mondo è frantumato in molti modi; il contemplativo invece torna all’unità e costituisce un forte richiamo all’unità. Ora più che mai è il momento di riscoprire il sentiero interiore dell’amore attraverso la preghiera e offrire alla gente di oggi nella testimonianza della contemplazione, come pure nella predicazione e nella missione non inutili scorciatoie, ma quella sapienza che emerge dal meditare “giorno e notte nella Legge del Signore”, Parola che sempre conduce presso la Croce gloriosa di Cristo. E, unita alla contemplazione, l’austerità di vita, che non è un aspetto secondario della vostra vita e della vostra testimonianza. E’ una tentazione molto forte anche per voi quella di cadere nella mondanità spirituale. Lo spirito del mondo è nemico della vita di preghiera: non dimenticatelo mai! Vi esorto ad una vita più austera e penitente, secondo la vostra più autentica tradizione, una vita lontana da ogni mondanità, lontana dai criteri del mondo.
Missione
Cari Fratelli Carmelitani, la vostra è la stessa missione di Gesù. Ogni pianificazione, ogni confronto sarebbero poco utili, se il Capitolo non realizzasse anzitutto un cammino di vero rinnovamento. La Famiglia Carmelitana ha conosciuto una meravigliosa “primavera”, in tutto il mondo, quale frutto, donato da Dio, dell’impegno missionario del passato. Oggi la missione pone talvolta ardue sfide, perché il messaggio evangelico non è sempre accolto e talvolta viene addirittura respinto con violenza. Non dobbiamo mai dimenticare che, anche se veniamo gettati in acque torbide e sconosciute, Colui che ci chiama alla missione ci dà anche il coraggio e la forza di attuarla. Perciò, celebrate il Capitolo animati dalla speranza che non muore mai, con un forte spirito di generosità nel recuperare la vita contemplativa e la semplicità e austerità evangelica.
Rivolgendomi ai pellegrini in Piazza San Pietro ho avuto modo di dire: “Ogni cristiano e ogni comunità è missionaria nella misura in cui porta e vive il Vangelo e testimonia l’amore di Dio verso tutti, specialmente verso chi si trova in difficoltà. Siate missionari dell’amore e della tenerezza di Dio! Siate missionari della misericordia di Dio, che sempre ci perdona, sempre ci aspetta, ci ama tanto!” (Omelia 5 maggio 2013). La testimonianza del Carmelo nel passato appartiene alla profonda tradizione spirituale cresciuta in una delle grandi scuole di preghiera. Essa ha suscitato anche il coraggio di uomini e donne che hanno affrontato il pericolo e persino la morte. Ricordiamo soltanto i due grandi martiri contemporanei: Santa Teresa Benedetta della Croce e il Beato Titus Brandsma. Mi chiedo allora: oggi fra voi, si vive con la tempra, con il coraggio di questi santi?
Cari Fratelli del Carmelo, la testimonianza del vostro amore e della vostra speranza, radicate nella profonda amicizia con il Dio vivente, può giungere come una “brezza leggera” che rinnova e rinvigorisce la vostra missione ecclesiale nel mondo di oggi. A ciò siete stati chiamati. Il Rito della Professione pone sulle vostre labbra queste parole: “Con questa professione mi affido alla famiglia carmelitana per vivere al servizio di Dio e nella Chiesa e aspirare alla carità perfetta con la grazia dello Spirito Santo e l’aiuto della Beata Vergine Maria” (Rito della Professione Ord. Carm.).
La Beata Vergine Maria, Madre e Regina del Carmelo, accompagni i vostri passi e renda fecondo di frutti il quotidiano cammino verso il Monte di Dio. Invoco sull’intera Famiglia Carmelitana, e particolarmente sui Padri Capitolari, abbondanti doni del Divino Spirito, e a tutti imparto di cuore l’implorata Benedizione Apostolica.
FRANCESCO
Don Gallo, messa al Carmine
con il cardinale e il trans
Il corteo e un funerale senza precedenti per salutare il "prete di strada"
di MASSIMO CALANDRI *
Non sarà un funerale come gli altri. Perché don Andrea Gallo non era un uomo, e nemmeno un prete, come gli altri. Al funerale del sacerdote degli ultimi, gli ultimi saliranno sull’altare. E mentre il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, celebrerà la Santa Messa, una trans dell’angiporto leggerà il salmo responsoriale.
Stamani è il giorno delle esequie per don Andrea Gallo, dicono che forse pioverà ma non importa. Sarà comunque un lunghissimo corteo, quello che intorno alle dieci muoverà dalla Comunità di San Benedetto al Porto - dove il sacerdote è mancato mercoledì scorso all’età di 84 anni - fino alla chiesa del Carmine, nei carruggi del centro storico. Se non viene giù un diluvio, lo porteranno a spalla per un chilometro e mezzo i ragazzi della comunità, i "camalli" delle banchine, gli operai della Fincantieri. Un arcobaleno di musica e bandiere.
"Una multitudine di umanità", spiega Domenico Chionetti, portavoce di San Benedetto al Porto. Con gli strumenti della banda di Piazza Caricamento e le grancasse della Murga dei vicoli ad aprire la strada. Una trentina di preti concelebranti, da un militante no-global come don Vitaliano Della Sala a don Alessandro Santoro, sospeso dai sacramenti e poi riammesso per aver celebrato il matrimonio tra un transessuale e il suo compagno. Quindi gli amici, i genovesi che fino a ieri sera erano in coda per la visita alla camera ardente. Quelli che con don Gallo hanno partecipato a tante manifestazioni per "un altro mondo possibile".
Ci saranno Gino Paoli, Piero Pelù, Christiano De André e Dori Ghezzi. Qualcuno parla di Roberto Saviano e dario Fo, ma chissà se è vero. Da fuori città verranno in tanti, difficile però fare una previsione. È attesa una decina di pullman, il consiglio per chi viene in auto è di posteggiare lontano e usare i mezzi pubblici, probabile che molti arrivino in treno anche perché la chiesa è a due passi dalla stazione Principe. Ci saranno anche i giovani dei centri sociali, le rappresentanze dei NoTav e NoDalMolin.
Niente fiori, si potrà rendere omaggio con un versamento sul conto corrente della Comunità. Il corteo da via San Benedetto passerà per via Doria, quindi piazza dell’Annunziata, via Polleri e via Brignole De Ferrari. Troppo piccola, per accogliere tutti: nella chiesa del Carmine troveranno posto i parenti di don Andrea, e tra di loro un nipote - Paolo - che porterà con sé tutta la squadra "pulcini" del Genoa, è il loro allenatore.
A proposito di rossoblù: ci saranno anche Davide Ballardini, che la settimana scorsa aveva preso un caffè con il prete, Giancarlo Gasperini e una rappresentanza del club. Con i parenti, gli ultimi: i disperati, gli esclusi, i diversi, quelli cui don Andrea aveva sempre teso una mano. "Ad un certo punto sarà impossibile entrare, ma la Messa continuerà per le strade del centro storico, tra la gente in attesa. Perché le persone che resteranno fuori saranno le pietre della vera chiesa di don Gallo: la comunità".
Chionetti anticipa i momenti più importanti della cerimonia, che dovrebbe iniziare alle 11.30. "Prima della benedizione del cardinal Bagnasco ci sarà l’omelia di don Ciotti. Ad una trans sarà affidata una lettura o il salmo responsoriale". Forse Valentina, che prima si chiamava Loris ed è ancora un portuale. Tra i presenti, anche Vladimir Luxuria.
"L’omosessualità è un dono di Dio, don Andrea lo diceva sempre ". Sempre dentro la chiesa, i gonfaloni delle istituzioni genovesi e liguri. Poi quello dell’Anpi. Qualcuno intonerà "Bella Ciao", è sicuro. "Lo hanno fatto anche appena abbiamo cominciato ad allestire la camera ardente. Non possiamo certo impedirlo, vi pare? ". No, ha ragione Chionetti: "Sarà una giornata triste. E bellissima ". Il feretro sosterà qualche minuto all’uscita della chiesa, quando parleranno il sindaco Marco Doria e poi Moni Ovadia. Quindi, la salma di don Andrea Gallo sarà trasporta a Campoligure. Una funzione per i familiari più stretti nella parrocchia di piazza Vittorio Emanuele, quindi la tumulazione nel cimitero locale.
* la Repubblica, 25 maggio 2013
Di fronte al Vaticano, le religiose americane restano determinate
di Céline Hoyeau
in “La Croix” del 18 dicembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ancora una volta, fanno parlare di loro. Le Suore della Misericordia, una delle congregazioni religiose più importanti negli Stati Uniti, molto conosciute per le loro posizioni progressiste, hanno manifestato pubblicamente il loro sostengo a Roy Bourgeois, un prete che la Santa Sede ha da poco scomunicato e ridotto allo stato laicale per aver partecipato all’ordinazione di una donna prete. “Il suo impegno a favore del ruolo delle donne nella Chiesa riflette il nostro”, hanno precisato le religiose, a rischio di gettare olio sul fuoco, nel momento in cui Roma ha chiesto esplicitamente alla loro organizzazione rappresentativa, la Conferenza delle superiore delle religiose (LCWR) di rivedere le sue posizioni dottrinali “erronee”.
Altre religiose, la Federazione delle Suore di San Giuseppe, hanno invitato alcuni giorni fa a pregare e a digiunare per sostenere il processo di dialogo tra Roma e la LCWR. Un dialogo che rischia di essere lungo e complicato, poiché, se i vescovi delegati dal Vaticano non hanno lasciato filtrare nulla per ora sul dialogo in corso, le religiose americane, invece, non hanno intenzione di fare marcia indietro.
La LCWR conta al contrario su questo processo di dialogo per tentate di “far comprendere” le sue posizioni e di “far evolvere lentamente la Chiesa”, spiega la direttrice esecutiva, Suor Janet Mock: “Noi rispettiamo l’organizzazione gerarchica della Chiesa ma ci sembra impossibile tornare indietro rispetto al processo di rinnovamento intrapreso cinquant’anni fa nella nostra vita religiosa.”
Sia alla LCWR che sul campo, le religiose americane sono convinte di essere sulla strada giusta e di essere “profetiche”. “Abbiamo preso il Vaticano II molto sul serio”, assicura Suor Maureen Fiedler, che anima ogni settimana un programma radiofonico interreligioso. Personalmente, lei è entrata nella congregazione di Loreto un mese prima dell’apertura del Concilio. “Abbiamo aggiornato le nostre vite integrandovi il messaggio di giustizia e di pace del Concilio. Abbiamo anche attinto alla sorgente delle intuizioni delle nostre fondatrici per rispondere ai segni dei tempi e ai bisogni delle persone emarginate dalla nostra società”.
Come Maureen Fiedler, che vanta un dottorato in scienze politiche all’università di Georgetown, la maggior parte delle religiose americane sono brillantemente laureate, insegnano oggi all’università, dirigono scuole, amministrano i più grandi ospedali del paese... Ma provano la sensazione di essere “ignorate”, anzi “discriminate” nella Chiesa. Per suor Mary Tiernan, direttrice del noviziato internazionale delle Suore della Santa Croce, che ha passato tutta la vita in missione in America Latina e in Africa, le religiose devono essere trattate “da adulte”, e non come “povere suorine”. “Devono poter porre domande, condividere i loro talenti, essere rispettate nei loro pareri.”
Alcune di loro hanno la sensazione che loro e i loro vescovi abbiano intrapreso percorsi paralleli che col tempo si sono allontanati. “Nelle nostre comunità, spiega Suor Simone Campbell, presidente della rete per promozione della giustizia sociale Network a Washington, siamo passate da un modo di vivere gerarchizzato ad un governo fondato sul dialogo e sulla concertazione. Abbiamo imparato ad ascoltare profondamente i movimenti dello Spirito Santo per giungere ad una decisione. La nostra obbedienza religiosa non è militare! Viviamo in una democrazia, mentre Roma funziona come una monarchia.”
Femministe radicali? È uno dei principali rimproveri del rapporto della Congregazione per la dottrina della fede, che si preoccupa nel vedere alcune religiose rimettere in discussione la struttura gerarchica della Chiesa cattolica. Infatti molte religiose non nascondono una certa ostilità nei confronti della gerarchia. Denunciano più o meno apertamente la “dominazione dei maschi”, la “patriarchia”. “Molte di noi si sono impegnate nella società per difendere l’uguaglianza dei sessi, il che ci ha portate a rivendicare gli stessi diritti nella Chiesa, sostiene Suor Maureen Fiedler. Certo, alcune donne hanno alte responsabilità nelle diocesi. Ma non possono dire nulla sulle decisioni dottrinali!”
Da lì all’auspicio dell’ordinazione delle donne... Sono rare quelle che accettano di parlarne a volto scoperto, ma molte vi aspirano. “Siamo eguali nel battesimo. Sul campo, raccogliamo le confidenze e preghiamo con le persone per chiedere il perdono di Dio. La mancanza di preti provocherà dei cambiamenti, bisogna essere pazienti”, assicura una religiosa che ha passato la vita in missione in Brasile. Intanto, alcune, che si dicono a disagio nella messa in cui gli uomini sono “troppo presenti”, preferiscono partecipare discretamente a delle “eucaristie senza prete”... “Questo ci avvicina tra sorelle”, dice una di loro a giustificazione.
Preoccupato di queste derive, il rapporto della Santa Sede rimprovera anche alla LCWR di aver invitato alla sua assemblea annuale dei relatori poco in linea con il Magistero e di aver suscitato un clima in cui alcune danno meno peso alla divinità di Cristo, a favore delle teorie new age. Un rimprovero totalmente ingiustificato, ritiene Clare Nolan, Suora del Buon Pastore. “Certo, non recito più il rosario davanti al Sacro Cuore, ma amo il Sacro Cuore di Gesù, la mia preghiera è integrata nella mia vita”, assicura questa lobbista all’ONU. Suor Cecilia Canales, domenicana nominata vicario per la vita religiosa a Los Angeles, una diocesi con 1800 consacrate, è categorica: “Le conferenze della LCWR sul New Age servono semplicemente a farci scoprire le diverse correnti di pensiero attuali, per comprendere meglio perché attirano le persone presso le quali noi siamo impegnate... Ma non distorciamo l’insegnamento della Chiesa. È talmente evidente per le religiose che vado a visitare. Hanno donato la loro vita e non la riprendono indietro!”
Un lato più problematico per Roma, è il fatto che l’analisi dei documenti della LCWR ha reso evidente che se le religiose sono molto impegnate nella promozione della giustizia sociale, restano però silenziose sulla difesa della vita, in particolare sull’aborto e sull’eutanasia, e talvolta si oppongono al Magistero sulla sua concezione di sessualità. “La vita è ben più complicata delle etichette “pro life” o “pro choice”. Quando si è vicini alla gente, si condividono i conflitti interiori, e non ci si può rinchiudere in posizioni dottrinali”, argomenta Suor Pam, assistente sociale a Southbend nell’Indiana. “Lavoriamo ai margini, e le situazioni che incontriamo non sono scritte nei libri. Cerchiamo di ascoltare lo Spirito Santo, per scegliere la soluzione migliore”, riassume Suor Mary Tiernan.
In senso più ampio, alcuni rimproverano a queste religiose di essere secolarizzate e di aver abbandonato la vita comunitaria per scegliere esse stesse la loro missione, il luogo dove vivere, mentre le giovani novizie aspirano ad una vita comunitaria più radicale e scelgono istituti più tradizionali. “Piuttosto che marciare in fila indiana verso la cappella, abbiamo potuto, vivendo nei quartieri, rafforzare le nostre relazioni con le persone e incarnare la nostra spiritualità”, afferma Suor Nolan. “Ci sono modi diversi di vivere la vita religiosa nella Chiesa, e non ci deve essere conflitto tra gli ordini più tradizionali e noi, aggiunge Suor Janet Mock. Noi siamo in grado di raggiungere delle persone che loro non toccano per niente, e loro invece sono in grado di raggiungere delle persone a cui noi non parliamo. Lavoriamo tutte per costruire la stessa Chiesa."
Una religiosa difende i diritti delle donne alle Nazioni Unite
di Céline Hoyeau
in “La Croix” del 18 dicembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Camicia aperta su T-shirt ed ampi pantaloni, Clare Nolan cammina a proprio agio nei corridoi nelle Nazioni Unite.
“Le persone mi riconoscono anche senza abito religioso”, assicura questa Suora del Buon Pastore, sulla sessantina, una delle prime religiose americane lobbista all’ONU (1).
Dopo un quarto di secolo passato sul campo ad occuparsi di donne in grande difficoltà, colei che, un tempo, aveva immaginato di entrare nel carmelo, ha preso a cuore “l’appello della Chiesa a promuovere la giustizia sociale” e si è formata per difendere i diritti delle donne su scala internazionale.
“Io che venivo dal mondo delle adolescenti, ho dovuto imparare la diplomazia!”, dice sorridendo. Alle Nazioni Unite, come nel suo minuscolo ufficio in centro a New York, la sua priorità è difendere i diritti delle ragazze nell’agenda dei governi.
“Una sola volta, un ministro ha girato sui tacchi quando l’ho affrontato. In genere, veniamo ascoltate, ma abbiamo dovuto impiegare tempo per far capire che la prostituzione è uno sfruttamento della persona.”
Clare Nolan forma anche le équipe sul campo alla dimensione spirituale della giustizia. La religiosa non nasconde che la sua missione ha trasformato in profondità la sua relazione con Dio. Ad esempio, per designarlo, ha bandito dal suo vocabolario ogni forma maschile, allo scopo di “manifestare spiritualmente” il suo rifiuto di sostenere “il sistema patriarcale che opprime tante donne nel mondo e nella Chiesa”. La lobbista evita anche di condurre della campagne di promozione della donna con i rappresentanti della Santa Sede all’ONU “fintanto che non applicheranno questi principi all’interno della Chiesa”. “La mia vocazione non è trattare prioritariamente con i vescovi, ma con i giudici, con i servizi sociali, con il sistema civico”, afferma a sua giustificazione.
Alla sera, Suor Clare si ritrova con le due religiose con cui condivide un appartamento a Brooklin, ma riconosce che i loro rispettivi impieghi rendono difficile una preghiera comune. Medita spesso da sola sui salmi, legge Teilhard de Chardin e Thomas Merton, ma anche i libri di teologia cosmica o femminista.
Quando andrà in pensione, questa donna indipendente, che ha sofferto nel vedere così poche novizie americane giungere a dare il cambio, desidererebbe continuare ad essere vicina alle giovani religiose della sua congregazione, nei paesi del Sud.
(1) Oggi sono rappresentate all’ONU una trentina di congregazioni
La Volta Sistina compie 500 anni
di Antonio Paolucci (Il Sole-24 Ore, 28 ottobre 2012)
Ci sono date destinate a rimanere indimenticabili nella universale storia delle arti. Una di queste è il 1508. Quell’anno Giulio II della Rovere un vecchio papa che sembrava amare la politica, la diplomazia e la guerra più di quanto non amasse la pittura, chiama al suo cospetto due artisti. Uno è un ragazzo di appena venticinque anni, Raffaello Sanzio da Urbino, e a lui chiede di dipingergli ad affresco le pareti del suo appartamento privato, le Stanze più famose del mondo, quelle che da allora in poi tutti conosceranno come "di Raffaello".
L’altro è Michelangelo Buonarroti, giovane uomo di trentatré anni, celebre per i capolavori di scultura (la Pietà di San Pietro, il David di Piazza della Signoria) lasciati a Roma e a Firenze. A quest’ultimo affida la decorazione della volta nella "cappella magna" che quasi trent’anni prima (1481-83) il papa all’epoca regnante, lo zio Sisto IV, aveva fatto affrescare lungo le pareti dai grandi professionisti umbri e toscani di quegli anni; dal Ghirlandaio, dal Botticelli, dal Perugino, fra gli altri.
Incomincia così nel 1508 l’avventura della volta della Sistina, il duello, quasi il corpo a corpo di Michelangelo con gli oltre mille metri quadrati di intonaco da riempire di centinaia di figure. Il contratto è dell’8 Maggio 1508, l’inaugurazione della prima parte, dall’ingresso fino al centro, è del 15 agosto del 1511, del 31 ottobre 1512 la conclusione dei lavori.
Nel pomeriggio del 31 ottobre di Cinquecento anni fa, ai Vespri della vigilia di Ognissanti, il Papa (con «17 cardinali in cappa festiva» scrive il cronista) inaugurava la grande impresa. Da quei più di mille metri di pittura oggi sospesi sui cinque milioni di visitatori che ogni anno attraversano la Sistina, è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea - scriverà il Wölfflin nel 1899 con una bella metafora - qualcosa di paragonabile a un «violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione».
Di fatto, dopo la volta della Sistina, nulla sarà più come prima. Incomincia da quel 31 ottobre del 1512 la stagione che i manuali chiamano del Manierismo. Al punto che Giorgio Vasari, in un passaggio famoso delle Vite, potrà scrivere: «questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». In una trentina di parole tre volte con tre diversi vocaboli ("lucerna", "lume", "illuminare") il Vasari esalta il concetto di un’opera destinata a svelare e a guidare il destino delle arti nel tempo a venire. In un certo senso le cose sono andate proprio così, a tal punto grande è stata l’influenza che quegli affreschi hanno esercitato sugli artisti d’Italia e d’Europa.
La bibliografia sulla volta della Sistina è così vasta che basterebbe a riempire una biblioteca di medie dimensioni. Del resto l’immane sciarada teologico scritturale che Michelangelo dispiegò nel cielo della "cappella magna" offre di continuo occasioni di singolari interpretazioni e decodificazioni. Il formidabile genio mitopoietico del Buonarroti, la sua ineguagliata capacità di inventare situazioni iconografiche radicalmente nuove, spalancano praterie sterminate agli esegeti contemporanei, specie a quelli di scuola americana.
Per esempio. Di recente, qualcuno con una ipotesi certo fantasiosa e improbabile però suggestiva, ha voluto riconoscere nel gruppo di Dio Padre circondato dagli angeli che "crea" un Adamo già esistente e perfettamente formato, il profilo di un cervello umano. Quasi che quella scena fosse il manifesto di un Michelangelo creazionista precursore del "disegno intelligente".
Molte cose si sono dette e si diranno ancora sulla volta della Sistina. A me piace ricordare l’impresa della volta così come ce la racconta Michelangelo stesso in un celebre sonetto autocaricaturale il cui originale si conserva negli archivi di Casa Buonarroti a Firenze.
I’ho già fatto un gozzo in questo stento
come fa l’acqua a’ gacti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
ch’a forza ’l ventre appicco sotto l’mento
la barba al ciel, e la memoria sento
in sullo scrigno, e l’pecto fo d’arpia
e ’l pennel sopra ’l viso tuctavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento...
Il testo è grottesco, surreale, sulfureo. Parla di un uomo che il lavoro stravolge e disarticola, che non si sente adatto, da scultore, alla pratica della pittura a fresco, che prova rabbia, delusione, sconforto e che pure è capace di esaltare con due versi bellissimi («e ’l pennel sopra ’l viso tuctavia mel fa gocciando un ricco pavimento») la faticosa gloria dell’arte.
«1512. La volta di Michelangelo nella Sistina compie 500 anni» è il titolo del documentario realizzato da Nino Criscenti in onda il 31 ottobre (giorno dell’anniversario) su TV2000 alle ore 13.05 (replica 23.05) con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e cardinale Gianfranco Ravasi.
Lo stesso 31 ottobre, su Rai Storia (ore 23), va in onda il documentario «Michelangelo e la Sistina. Storia di un’opera d’arte» di Piero Badaloni e Nino Criscenti con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e Massimo Firpo.
SANTA TERESA D’AVILA
Una nota
di don Aldo Antonelli
Oggi ricorre la festa di Santa Teresa d’Avila.
A suo tempo, nella relazione al Papa sulla vita della Santa, il Nunzio Apostolico così scriveva:
"Femmina inquieta, vagabonda, disubbidiente e contumace, che sotto titolo di Divozione inventava perniciose Dottrine; che contra i divieti del Concilio di Trento usciva fuori della Clausura, e contra il dettame di S. Paolo voleva insegnare, e farla da Maestro" (Vita II, XXXI).
L’amico Alberto Maggi, che qualcuno ricorderà avemmo il piacere di avere ospite in uno degli incontri ad Antrosano, così commenta:
"La femmina inquieta e vagabonda sarà proclamata Dottore della Chiesa. Il nunzio finirà nel dimenticatoio della storia".
Pace e bene.
Aldo
"CAPPELLA SISTINA" IN PERICOLO!!! CONOSCETE LE VIE: INTERVENITE SOLLECITAMENTE.
(di Margherita Siani, Il Mattino.Salerno, 26.03.2012)
La notizia che tutti aspettavamo: Giovanni Paolo II Beato
di P. Aldino CAZZAGO *
La notizia che milioni di fedeli cattolici, ma non solo loro, aspettavano è finalmente giunta: a Roma il primo maggio prossimo Giovanni Paolo II sarà proclamato «beato» dallo stesso Benedetto XVI. Mercoledì 11 gennaio Benedetto XVI ha infatti autorizzato il cardinale Angelo Amato, Prefetto delle Congregazione delle Cause dei Santi, a promulgare il Decreto con il quale si riconosce che la guarigione dal morbo di Parkinson di suor Marie Simon Mormand, ritenuta «scientificamente inspiegabile», è dovuta all’intercessione del Servo di Dio Giovanni Paolo II.
Per speciale dispensa pontificia la Causa per la (futura) beatificazione di Giovanni Paolo II si era aperta nel giugno 2005 ad appena tre mesi dalla morte avvenuta il 2 aprile. Nel corso dei due anni successivi si era svolta l’Inchiesta diocesana romana e quella in alcune altre diocesi. L’inchiesta si era chiusa nel giugno 2009 e nel dicembre successivo il Pontefice aveva autorizzato la promulgazione del Decreto che riconosceva l’eroicità delle virtù di Giovanni Paolo II. Se molti sono i motivi per gioire di questa notizia, l’Ordine Carmelitano e tutti coloro che ad esso sono legati ne hanno di speciali: alcuni di natura storica, altri di natura spirituale e culturale.
All’ombra del Carmelo
Karol Wojtyła era nato a Wadowice nel 1920 e qui, fondato da Raffaele Kalinovski, esisteva un convento carmelitano. Come egli ha raccontato nel 1996 in Dono e mistero, il suo primo incontro con la spiritualità carmelitana e con il segno dello scapolare avvenne proprio grazie a questa presenza: «Anch’io lo ricevetti [lo scapolare], credo all’età di dieci anni, e lo porto tuttora». Quello scapolare diventerà una sorta di reliquia per Wanda Połtawska che così scriverà nel suo Diario di un’amicizia nel giorno 31 ottobre 1978, quando il suo amico e vescovo Karol Wojtyła era diventato Papa da sole due settimane: «Ieri ho fatto ordine nella tua stanza [nella curia a Cracovia], ho trovato il tuo vecchio scapolare e me lo sono preso».
I legami di Giovanni Paolo II con l’ambiente carmelitano proseguirono anche dopo il 1938, quando con il padre si trasferì a Cracovia. Nel convento di quella città fece infatti un corso di esercizi spirituali, e l’ipotesi di entrare nell’Ordine si affacciò al suo orizzonte. A Cracovia, nel 1940, grazie all’amicizia con il sarto Jan Tyranovski, iniziò a leggere gli scritti di Santa Teresa d’Avila e di San Giovanni della Croce.
Ormai Vescovo ausiliare di Cracovia, il 12 maggio 1963, nella chiesa cittadina dei Carmelitani benediceva la lapide in memoria di Raffaele Kalinovski e auspicava di poterlo un giorno invocare con il titolo di Santo. Vent’anni dopo il desiderio diventerà realtà perché nel giugno 1982 egli stesso lo proclamerà Beato e, nel novembre 1991, Santo.
Da Pontefice numerose furono le occasioni in cui non mancò di esprimere il suo legame spirituale con il Carmelo. Tra le tante ne ricordiamo due. Il 24 gennaio 1982 al termine della visita pastorale alla parrocchia di S. Teresa d’Avila volle visitare anche la Casa Generalizia dell’Ordine. Dopo una breve sosta nella cappella, durante un discorso improvvisato riandò alla sua vita passata e disse: «Se guardo al mio passato, fin da quando ero bambino, quasi dalla nascita, vedo che ho vissuto vicino ad un convento carmelitano ... e devo aggiungere che fin da bambino andavo sempre a confessarmi presso la vostra chiesa». Nel 1986, ricevendo un gruppo di Carmelitani polacchi in occasione del 40° anniversario della sua ordinazione, fece loro questa confidenza: «Mancò poco perché fossi uno dei vostri».
I Santi carmelitani nel magistero di Giovanni Paolo II
Dopo quello avvenuto a Cracovia, un confronto ben più sistematico con gli scritti di Giovanni della Croce il sacerdote Karol Wojtyła lo ebbe a Roma nel 1948 quando per la conclusione del suo ciclo di studi in teologia scelse di scrivere (in latino) la sua tesi di laurea attorno a una tematica non facile: La dottrina della fede in San Giovani della Croce. Successivamente non mancherà di tornare a riflettere con altri brevi contributi sugli scritti del grande mistico spagnolo.
Durante i quasi ventisette anni del suo pontificato, i contatti con la tradizione carmelitana non solo non si sono mai interrotti, ma anzi, se possibile, sono andati intensificandosi: dal 15 marzo 1979 (a soli cinque mesi dall’elezione), quando a Roma fece visita alle Carmelitane Scalze del monastero Regina Coeli, fino all’11 febbraio 2004 quando, a sorpresa, si presentò in visita al monastero Mater Ecclesiae del Vaticano abitato in quel tempo dalle Carmelitane Scalze.
I principali Santi carmelitani sono stati da lui ricordati con viaggi nelle loro città d’origine o dove vissero parte dello loro vita: a Segovia ed Avila nel novembre 1982 per San Giovanni della Croce e Santa Teresa di Gesù, a Lisieux nel giugno 1980 per Santa Teresa di Gesù Bambino e a Colonia nel maggio 1987 per la beatificazione di Edith Stein (Teresa Benedetta della Croce).
La dottrina dei Santi carmelitani è stata da lui ricordata con importanti documenti: nel 1990 quella di San Giovanni della Croce con la lettera apostolica Maestro nella fede, nel 1997 quella di Santa Teresa di Gesù Bambino con la lettera apostolica Divini amoris scientia, con la quale conferiva alla giovane Santa il titolo di Dottore della Chiesa e infine nel 1999 con la lettera apostolica Spes aedificandi con la quale proclamava Edith Stein, assieme a Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia, Compatrona d’Europa. Degno di nota è anche il fatto che nel marzo 1993 il poeta e Papa Karol Wojtyła abbia proclamato San Giovanni della Croce patrono dei poeti di lingua spagnola.
Numerosi sono gli scritti del suo magistero pontificio in cui compaiono diretti o indiretti rimandi a testi dei Santi carmelitani. Qui è sufficiente un solo rimando, non però a un documento ufficiale ma a Varcare la soglia della speranza, il libro intervista con Vittorio Messori del 1994: «[Giovanni della Croce] non propone soltanto il distacco dal mondo. Propone il distacco dal mondo per unirsi a Cristo che è al di fuori del mondo: e non si tratta del nirvana, ma di un Dio personale. L’unione con Lui non si realizza soltanto sulla via della purificazione, ma mediante l’amore. La mistica carmelitana inizia nel punto in cui cessano le riflessioni di Budda e le sue indicazioni per la vita spirituale. Nella purificazione attiva e passiva dell’anima umana, in quelle specifiche notti dei sensi e dello spirito, San Giovanni della Croce vede prima di tutto la preparazione necessaria affinché l’anima umana possa essere pervasa dalla fiamma viva dell’amore. E tale è anche il titolo della sua opera principale. Fiamma viva d’amore». In tempi di facile sincretismo religioso l’affermazione merita una volta di più di essere attentamente meditata.
Conclusione
Se la prossima beatificazione di Giovanni Paolo II è motivo di gioia per tutti i cristiani, per tutti coloro che, a vario titolo e in diverse forme, sono legati alla storia carmelitana il motivo è ancora maggiore. La santità di Giovanni Paolo II è anzitutto la santità del ‘cristiano’ Karol Wojtyła che la storia, la volontà degli uomini e quella di Dio hanno chiamato ad essere sacerdote, vescovo e Pontefice. La santità di Karol Wojtyła forse non è che la santità di un ‘mistico’ che è diventato tale anche in forza del suo prolungato legame con la mistica carmelitana. Forse una indiretta prova di questa santità dalle profondità mistiche sta proprio in quello che nel febbraio 1985 a Lima in Perù egli confidò a uno dei partecipanti al ricevimento in suo onore che si era complimentato con lui per la sua ottima pronuncia dello spagnolo: «Certo, hombre! Ho dovuto imparare lo spagnolo perché ho sempre avuto un grande interesse per il misticismo. Io sono un mistico. E la mia tesi di dottorato in Sacra Teologia fu basata sulle opere di Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce, i due più grandi mistici che ha avuto la Chiesa cattolica».
* http://www.mec-carmel.org/index.php/Vita-della-Chiesa/la-notizia-che-tutti-aspettavamo-giovanni-paolo-ii-beato.html
CAPPELLA PAPALE PER LA PROCLAMAZIONE A "DOTTORE DELLA CHIESA" DI SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINO E DEL SANTO VOLTO
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Piazza San Pietro - Domenica 19 ottobre 1997 *
1. "Cammineranno i popoli alla tua luce" ( Is 60, 3).
Nelle parole del profeta Isaia già risuona, come fervida attesa e luminosa speranza, l’eco dell’Epifania. Proprio il collegamento con questa solennità ci permette di meglio percepire il carattere missionario dell’odierna domenica. La profezia di Isaia, infatti, allarga all’intera umanità la prospettiva della salvezza, e in tal modo anticipa il gesto profetico dei Magi dell’Oriente che, recandosi ad adorare il Bimbo divino nato a Betlemme (cfr Mt 2, 1- 12), annunciano ed inaugurano l’adesione dei popoli al messaggio di Cristo.
Tutti gli uomini sono chiamati ad accogliere nella fede il Vangelo che salva. A tutti i popoli, a tutte le terre e le culture, la Chiesa è inviata: "Andate... e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28, 19-20). Queste parole, pronunciate da Cristo prima di salire al cielo, unitamente alla promessa fatta agli Apostoli ed ai successori di essere con loro sino alla fine del mondo (cfr Mt 28, 20), costituiscono l’essenza del mandato missionario: nella persona dei suoi ministri è Cristo stesso ad andare ad gentes, verso quanti non hanno ancora ricevuto l’annuncio della fede.
2. Teresa Martin, Carmelitana scalza di Lisieux, desiderava ardentemente di essere missionaria. E lo è stata, al punto da poter essere proclamata Patrona delle Missioni. Gesù stesso le mostrò in quale modo avrebbe potuto vivere tale vocazione: praticando in pienezza il comandamento dell’amore, si sarebbe immersa nel cuore stesso della missione della Chiesa, sostenendo con la forza misteriosa della preghiera e della comunione gli annunciatori del Vangelo. Ella realizzava così quanto è sottolineato dal Concilio Vaticano II, allorché insegna che la Chiesa è, per sua natura, missionaria (cfr Ad gentes, 2). Non solo coloro che scelgono la vita missionaria, ma tutti i battezzati, sono in qualche modo inviati ad gentes.
Per questo ho voluto scegliere l’odierna domenica missionaria per proclamare Dottore della Chiesa universale Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo: una donna, una giovane, una contemplativa.
3. A nessuno sfugge, pertanto, che oggi si sta realizzando qualcosa di sorprendente. Santa Teresa di Lisieux non ha potuto frequentare una Università e neppure studi sistematici. Morì in giovane età: e tuttavia da oggi in poi sarà onorata come Dottore della Chiesa, qualificato riconoscimento che la innalza nella considerazione dell’intera comunità cristiana ben al di là di quanto possa farlo un "titolo accademico".
Quando, infatti, il Magistero proclama qualcuno Dottore della Chiesa, intende segnalare a tutti i fedeli, e in modo speciale a quanti rendono nella Chiesa il fondamentale servizio della predicazione o svolgono il delicato compito della ricerca e dell’insegnamento teologico, che la dottrina professata e proclamata da una certa persona può essere un punto di riferimento, non solo perché conforme alla verità rivelata, ma anche perché porta nuova luce sui misteri della fede, una più profonda comprensione del mistero di Cristo. Il Concilio ci ha ricordato che, sotto l’assistenza dello Spirito Santo, cresce continuamente nella Chiesa la comprensione del "depositum fidei", e a tale processo di crescita contribuisce non solo lo studio ricco di contemplazione cui sono chiamati i teologi, né solo il Magistero dei Pastori, dotati del "carisma certo di verità", ma anche quella "profonda intelligenza delle cose spirituali" che è data per via di esperienza, con ricchezza e diversità di doni, a quanti si lasciano guidare docilmente dallo Spirito di Dio (cfr Dei Verbum, 8). La Lumen gentium, da parte sua, insegna che nei Santi "Dio stesso ci parla" (Lumen Gentium, n. 50). E’ per questo che, al fine dell’approfondimento dei divini misteri, che rimangono sempre più grandi dei nostri pensieri, va attribuito speciale valore all’esperienza spirituale dei Santi, e non a caso la Chiesa sceglie unicamente tra essi quanti intende insignire del titolo di "Dottore".
4. Tra i "Dottori della Chiesa" Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo è la più giovane, ma il suo cammino spirituale è così maturo ed ardito, le intuizioni di fede presenti nei suoi scritti sono così vaste e profonde, da meritarle un posto tra i grandi maestri dello spirito.
Nella Lettera Apostolica che ho approntato per l’occasione ho additato alcuni aspetti salienti della sua dottrina. Ma come non ricordare, in questo momento, quello che se ne può considerare il vertice, alla luce del racconto dell’emozionante scoperta che ella fece della propria particolare vocazione nella Chiesa? "La Carità - ella scrive - mi diede la chiave della mia vocazione. Capii che se la Chiesa aveva un corpo, composto da diverse membra, il più necessario, il più nobile di tutti non le mancava: capii che la Chiesa aveva un cuore e che questo cuore era acceso d’Amore. Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue . . . Capii che l’Amore racchiudeva tutte le vocazioni [. . .] Allora, nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore . . . la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore" (Teresa di Gesù Bambino, Ms B, 3v·, in Opere complete, p. 223). E’ una pagina stupenda, che basta da sola ad illustrare quanto si possa applicare a Santa Teresa la pagina evangelica che abbiamo ascoltato nella Liturgia della Parola: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt 11, 25).
5. Teresa di Lisieux non solo intuì e descrisse la profonda verità dell’Amore quale centro e cuore della Chiesa, ma la visse intensamente nella sua pur breve esistenza. Proprio questa convergenza tra dottrina ed esperienza concreta, tra verità e vita, tra insegnamento e prassi, risplende con particolare evidenza in questa Santa, rendendola un modello avvincente specialmente per i giovani e per quanti sono alla ricerca del senso autentico da dare all’esistenza.
Di fronte al vuoto di tante parole, Teresa indica come alternativa l’unica Parola di salvezza che, compresa e vissuta nel silenzio, diventa sorgente di vita rinnovata. Ad una cultura razionalistica e troppo spesso permeata di materialismo pratico, ella contrappone con semplicità disarmante la "piccola via" che, rifacendosi all’essenziale delle cose, conduce al segreto di ogni esistenza: la divina Carità che avvolge e permea ogni umana vicenda. In un’epoca, come la nostra, segnata in tanti suoi aspetti dalla cultura dell’effimero e dell’edonismo, questo nuovo Dottore della Chiesa appare dotato di singolare efficacia nell’illuminare la mente ed il cuore di chi è assetato di verità e di amore.
6. Santa Teresa è presentata come Dottore della Chiesa nel giorno in cui celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale. Ella nutrì un desiderio ardente di dedicarsi all’annuncio del Vangelo e avrebbe voluto coronare la propria testimonianza col supremo sacrificio del martirio (cfr Ms B, 3r·, in Opere complete, p. 222). E’ nota, inoltre, l’intensa partecipazione personale con cui sostenne il lavoro apostolico dei Padri Maurice Bellière ed Adolphe Roulland, missionari rispettivamente in Africa ed in Cina. In questo slancio di amore per l’evangelizzazione Teresa aveva un solo ideale, come lei stessa afferma: "Quel che gli chiediamo è di lavorare per la sua gloria, è di amarlo e di farlo amare" (Lettera 220, in Opere complete, 559).
La strada da lei percorsa per raggiungere questo ideale di vita non è quella delle grandi imprese riservate a pochi, ma è invece una via alla portata di tutti, la "piccola via", strada della confidenza e del totale affidamento alla grazia del Signore. Non è via da banalizzare, come se fosse meno impegnativa. Essa è in realtà esigente, come lo è sempre il Vangelo. Ma è via permeata di quel senso di fiducioso abbandono alla divina misericordia, che rende leggero anche il più arduo impegno dello spirito.
Per questa sua via, in cui tutto è sentito come "grazia", per la centralità che assume in lei il rapporto con Cristo e la scelta dell’amore, per lo spazio che ella dà anche agli affetti e ai sentimenti nel cammino spirituale, Teresa di Lisieux è una santa che resta giovane, nonostante il passare degli anni, e si propone come singolare modello e guida nel cammino cristiano per questo nostro tempo che si affaccia sul terzo millennio.
7. Grande è perciò la gioia della Chiesa, in questa giornata che corona le attese e le preghiere di tanti che hanno intuito, con la richiesta del Dottorato, questo speciale dono di Dio e ne hanno favorito il riconoscimento e l’accoglienza. Desideriamo renderne grazie al Signore tutti insieme, e particolarmente con i professori e gli studenti delle Università ecclesiastiche romane, che proprio in questi giorni hanno iniziato il nuovo Anno Accademico.
Sì, o Padre, ti benediciamo, insieme con Gesù (cfr Mt 11, 25), perché hai nascosto i tuoi segreti "ai sapienti e agli intelligenti", e li hai rivelati a questa "piccola", che oggi nuovamente proponi alla nostra attenzione e alla nostra imitazione.
Grazie per la sapienza che le hai donato, facendone per tutta la Chiesa una singolare testimone e maestra di vita!
Grazie per l’amore che hai riversato in lei, e che continua ad illuminare e riscaldare i cuori, spingendoli alla santità!
Il desiderio che Teresa espresse di "passare il suo Cielo a far del bene sulla terra" (Opere Complete, p. 1050), continua a compiersi in modo meraviglioso.
Grazie, o Padre, perché oggi a nuovo titolo ce la rendi vicina, a lode e gloria del tuo nome nei secoli. Amen!
Storia delle monache
Dal 1450 al 1700, un panorama grandioso tra avvelenamenti, ricatti, autoflagellazioni, ribellioni vere o sognate
Per molte donne il convento era l’unica via, pre e post Controriforma, per la costruzione di una propria identità
Le campane suonano per le “sepolte vive”
di Mirella Appiotti (La Stampa TuttoLibri, 14.04.2012)
Sassi e tegole piovono sui muratori incaricati di rinforzare le mura del convento di Santa Cristina (Bologna, 1628) e, dalla finestra, «un grosso marmoro» ha come bersaglio la testa del notaio inviato dalle autorità: è la lotta «armata» delle promesse spose di Gesù contro l’inasprirsi della clausura postridentina. Un secolo e rotti più tardi, per la povera Suzanne Simonin chiusa nel monastero delle Clarisse a Longchamp, «furono suonate le campane affinché tutti sapessero che si stava creando un’infelice», ovvero la discesa agli inferi della piccola, intramontabile Religeuse di Diderot (usurpata poi dalla Rivoluzione). Del resto Lutero è un ex agostiniano sposato alla ex suora Caterina von Bora.
A fronte di ribellioni, vere, sognate o cantate da secoli in ogni forma d’arte, nella grande «fiction», Dante e Manzoni, Boccaccio e Stendhal, Verga e Pascoli (Myricae «... queste bimbe, queste vergini... »), tra Abelardo e Eloisa e La monaca portoghese, nella splendida ricostruzione teatrale di Maricla Boggio, in realtà l’avventura della «monacazione» posa su consensi (ancor vivi, con o forse grazie a Internet), fortissimi all’epoca. Non solo nelle fughe notturne di superagiate e nobili ragazze «per cercare rifugio nel monastero» dai soprusi familiari, o nell’estremo gesto di buttarsi «nell’acqua bollente allo scopo di deturpare la propria apparenza e rendersi, così, poco appetibili sul mercato matrimoniale... » quando la fede viene contrastata o, più comunemente, lo sposo designato è vecchio e laido...
Contro la «circoncisione dell’intelletto», Jacqueline Pascal, la sorella di Blaise, combatte a fianco della Mère Angélique e consorelle per la difesa di Port Royal; il dramma delle monache costrette, a metà ’500 dai seguaci delle 95 tesi di Wittenberg, a lasciare il convento violato, è tuttora vivido nella Petite Chronique di Jeanne de Jussie, badessa a Ginevra. Un panorama grandioso, tra enormi miserie (avvelenamenti, ricatti, autoflagellazioni oltre all’uso di sesso), che Silvia Evangelisti ridisegna nella sua Storia delle monache .
La docente di Storia Moderna all’Università East Anglia prende in esame il periodo dal 1450 al 1700, in una prospettiva che indaga, con un più di passione attraverso la vita delle «sepolte vive» che non attraverso le opere largamente note delle appartenenti a comunità aperte, «la funzione sociale e politica dei conventi a partire dal tema specifico dell’espansione degli ordini religiosi e femminili dentro e fuori dell’Europa e nel nuovo mondo» (le missionarie, eroiche, da sempre): secoli cruciali per gli strumenti della religione, per l’affermarsi degli scismi, per l’influenza delle grandi mistiche.
Di questa rivoluzione sotto spoglie reazionarie, una protagonista assoluta sarà Teresa d’Avila che «sposando» la sottomissione delle monache alla clausura, sposava «una missione ben precisa, secondo la quale la Chiesa cattolica se voleva la pace e tornare a essere unita, aveva bisogno delle donne e del loro contributo». A tal punto che il mondo del silenzio (non sempre così stretto, certe recluse di Strasburgo potevano parlare tra loro «in ore prestabilite, però in latino... ») diventerà pressoché l’unica via aperta alle donne, pre e post Controriforma, per la costruzione di una propria identità. In alternativa al matrimonio, era il monastero a offrire buone se non ottime chances.
Non si contano, infatti, in quei decenni le donne scrittrici: da Teresa a Maria Alacoque, altra celebrata mistica, a Fiammetta Frescobaldi, alla prolifica Tarabotti. E così musiciste, pittrici, sponsor (la magnifica «Camera di San Paolo» del Correggio a Parma). Assecondate dalle famiglie per ragioni di immagine e di prestigio, in specie di moneta (essendo anche tre volte meno costosa la dote per una monaca di quella per una ragazza da marito: sicché a Firenze, tra ’500 e ’700, il 46% delle figlie dell’élite prende i voti) e, molto, di politica.
Le donne in Cristo sono state determinanti intermediarie con i poteri, al tempo, davvero «forti» (a Madrid le rampolle Asburgo dal convento delle Descalzes Reales «negoziavano questioni di primaria importanza»), occupandosi del pari delle faccende di casta, al di là e al di qua delle mura, entro le quali soltanto il Vaticano II riuscirà a far saltare, dopo oltre cinque secoli, la ferrea gerarchia tra monache coriste e monache converse. Al contrario, da allora, contro il maschilismo ecclesiastico, ben poco ha potuto la mai spenta «querelle des femmes»: il «contributo delle religiose a una tradizione intellettuale il cui sviluppo si collega al pensiero femminista moderno». Perché, parafrasando Luisa Muraro, «il Dio era ed è delle donne».
Armageddon, la piana della guerra eterna
L’archeologo americano Eric Cline racconta le 34 battaglie combattute in 4 mila anni a Megiddo, vicino all’odierna Haifa
di Domenico Quirico (La Stampa, 29.01.2016)
È vero dunque. La guerra possiede in sommo grado il carattere essenziale del sacro; sembra proibire che la si consideri con obiettività. Paralizza il senso critico. E’ temibile e impressionante. La si maledice, la si esalta. La guerra è, purtroppo, eterna. Chiudi l’ultima pagina di Armageddon dell’archeologo americano Eric Cline uscito per Bollati Boringhieri; le cartine degli eventi terribili che hanno, nei secoli, avuto come sfondo «la valle di tutte le battaglie» si sovrappongono indecifrabili, identiche, una all’altra. Ah! come è semplice la guerra quando la riduci a frecce e piccoli segni simbolici, cavalleria fanti carri armati, su un foglio bianco...E gli uomini, i morti, i piagati, gli assassini dove sono? Qual è il loro segno?
Pensi a quel momento che c’è in ogni battaglia, piccola o grande; tutti i soldati del mondo possono raccontarlo con le stesse parole, secolo dopo secolo. E’ il momento del silenzio in cui il tempo si comprime al punto di esplodere. Tutto subito, niente poi! Si è fermato l’urlo dei cannoni o il clamore delle lance battute contro i grandi scudi di bronzo. Solo ogni tanto qualche cigolio, un breve suono rauco di voci e quel rumore vago che fanno i soldati quando si preparano a qualcosa. È un rumore di caccia. È una sensazione insopportabile. È come essere la belva nel bosco, l’animale ferito nel bosco che ode i cacciatori avvicinarsi, e l’ansimare frettoloso dei cani, e le voci dei cacciatori.
Non è colpa dei soldati se li hanno trascinati lì non come uomini ma come povere bestie, destinati a morire per gli spauracchi della gloria, della patria, di una manciata di denaro, loro che sono poveri, della libertà, loro schiavi, dell’avvenire del mondo, loro che invece moriranno domani, loro che hanno un avvenire di un’ora di una notte di un minuto di un istante. E poi pensi a quel particolare stato di esaltazione vitale che segue la guerra: sono scampato! Adesso vivrò per moltissimo tempo, adesso voglio essere davvero felice, e invece arriva un’altra guerra... Nell’Occidente virtuoso e pacifico la guerra sembrava sempre più anacronistica. Selvaggia e incomprensibile, non era più la continuazione della politica con altri mezzi. Era in fondo una faccenda di altri che esplode sullo schermo ogni tanto, quando sfugge ai campi di battaglia afgani o africani. Eppure l’atto tipico che gli uomini compiono in guerra non è morire: è uccidere.
Oggi siamo di fronte a guerre nuove, vissute da coloro che le combattono, i jihadisti, come fonte di fascino e di terrore, ossessione che attanaglia le menti, pietra di paragone che svela ogni potenza fittizia, e criterio irrecusabile davanti a cui crolla ogni impostura e impurità. Sì, dobbiamo di nuovo studiare la guerra.
Cline racconta minuziosamente, lentamente, come un tempo davanti al fuoco, con il ritmo che era degli aedi e dei menestrelli. Racconta una unica, interminabile battaglia durata dal 2350 avanti Cristo quando un faraone annientò i cananei, fino oggi, alle guerre di Israele. Unico il luogo: la pianura di Jezreel, vicino all’antica Megiddo, una piccola valle intrisa di sangue sulla strada che portava, da tempi immemorabili, dall’Egitto all’Eufrate. Ci sono lì città e villaggi e campi ben disegnati, ma non riesci a pensarla come un luogo normale con abitanti pacifici e fuochi accesi: tutto vi sembra perennemente morto. Una terra morta, di un nero spesso e indistinguibile, giace sotto un cielo vivo e tralucente; dove tutto è al suo posto per lo spettacolo cruento, tutto conosce il proprio limite e la propria legge.
Qui si sono uccisi egizi e amaleciti, filistei e romani, bizantini, musulmani, crociati, mamelucchi, mongoli, francesi ottomani, inglesi, australiani tedeschi, arabi, israeliani. Oscuri generali e grandi condottieri, Thumose, Gedeone, Antioco, Vespasiano, il Saladino, Napoleone, Allenby, vi hanno perso la fama o hanno afferrato la gloria. Migliaia e migliaia di uomini sono morti, hanno, invano, invocato pietà, hanno maledetto e hanno pianto. Molti di coloro che vi sono sopravvissuti hanno scritto di sé. A cominciare dal faraone Thumose che ha fatto tutto incidere nella pietra eterna del suo monumento di Karnak; fino al vanitoso generale inglese Allenby che vi schiantò l’impero turco disintegrando il mondo (e gli effetti ancora proviamo).
Ma gli altri, quelli che sono sepolti sotto quella terra e quelle pietre? Quello che penarono quel giorno i condannati, guardando il cielo turchino ma estraneo, la straniera montagna e il fiume indifferente, è rimasto laggiù sepolto nelle tombe senza nome, generazione dopo generazione.
Una incandescenza infinita, trentaquattro battaglie in quattromila anni! La guerra è davvero eterna. Ma la valle di Jezreel è il luogo in cui Giovanni ha vaticinato si svolgerà la penultima battaglia tra le forze del Bene e del Male, e gli uomini ahimè! si arruoleranno con l’Anticristo.
Quale altro posto potrebbero essere più adatto? Armageddon: dall’ebraico «har Megiddo’», il monte di Megiddo. E in questa zona, in quella che fu la Siria romana, anche l’islam ha posto lo scenario di un’altra escatologica resa dei conti.
La valle di Armageddon è come una faglia. Qui si scontrano, perché la geografia li condanna, il Nord e il Sud del mondo, gli invasori e quelli che resistono loro. La guerra vi fu scritta nel paesaggio il giorno della creazione e così continua monotonamente il suo cammino. Uomini scagliano frecce, colpiscono con le lance, rispondono al fuoco di fucili e cannoni. Poi scompaiono di nuovo aggiungendo la loro piccola quota ai morti del mondo.