(Per leggere il saggio in pdf, cliccare sul rosso)
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
NewsMedia4Good. De Kerckhove: «Nell’era dell’algoritmo i media salvino l’umano»
De Kerckhove a “Nostalgia di futuro”: «L’informazione può generare nuova coesione sociale, ma deve capire come il mondo è cambiato»
di Alessandro Beltrami (Avvenire, martedì 30 novembre 2021)
«Oggi quando sono uscito dalla Stazione Termini ho sentito il clamore dei no vax: era la perfetta rappresentazione dell’attuale caos informazionale che nega scienza, autorità e le strutture protettrici del significato. Il linguaggio non serve più a creare coesione sociale. Si deve fare qualcosa». Questo “qualcosa” è NewsMedia4Good, movimento fondato dall’Osservatorio Tutti-Media che verrà presentato domani a Roma nella 13ª edizione di Nostalgia di Futuro. «Siamo passati dalle speranza della disintermediazione al caos dovuto alla mediazione delle macchine» si legge nel manifesto del progetto. «La cultura alfabetica, aumentata dalla stampa, è stata l’architettura di carattere gerarchico della comunicazione, o almeno di quella occidentale - spiega De Kerckhove, sociologo, tra i massimi esperti di nuovi media e direttore scientifico di Osservatorio TuttiMedia e di Media Duemila -. Oggi siamo in un sistema fondato sull’algoritmo, che elimina l’uomo. L’algoritmo fa scelte, indirizza gusti, dice come votare... Ma il codice binario non ha bisogno di senso, solo di ordine. Dalla scomparsa del valore del significato deriva il caos attuale. Serve allora un movimento per riformare le strutture di coesione sociale e rovesciare l’attuale crisi epistemologica per ritrovare una comunicazione basata su qualcosa di completamente nuovo».
NewsMedia4Good intende far capire che “abbiamo bisogno di una nuova etica comprensiva della dimensione algoritmica” in cui “l’intero sistema dei media sia una priorità”. Su quali basi costruirla?
La struttura culturale occidentale si basava sui principi della fisica classica. Io invece propongo come base la fisica quantistica, i cui principi sono incertezza, dubbio, l’entanglement, ossia l’incrocio, la sovrapposizione. La fisica classica ha creato categorie e dato il permesso di sfruttare la natura. Noi abbiamo bisogno di essere congiunti, incrociati con il tutto. Occorre rifondare totalmente il nostro modo di comportarci. Chi può orientare a questa rifondazione? I media, che sono ancora i depositari della fiducia pubblica. Dobbiamo chiedere ai media di ripensare il proprio ruolo, rinunciando a moralismo e sensazionalismo, e produrre coesione sociale.
Questo non dovrebbe essere già il loro compito?
Il problema non è solo che non viene applicato, ma soprattutto il sistema non è sostenuto su una visione più profonda della situazione attuale. La mediasfera ora è una tormenta di migliaia di risposte che non hanno più nulla a che fare le une con le altre. Serve quello che io chiamo entangled journalism, il “giornalismo incrociato”: una nuova narrazione del globale, dell’ambiente totale.
Ormai sono molto diffuse le notizie scritte direttamente da bot. Questo fatto come investe la dimensione deontologica del giornalismo, nella quale la responsabilità è centrale?
La macchina non ha coscienza, non conosce il senso di quello che produce. Pensiamo ai traduttori automatici disponibili online: la macchina non conosce la lingua ma si basa sulla comparazione di vari modelli. Il prodotto sono sequenze di segni privi di significato per la macchina. Non possiamo chiedere alla macchina una coscienza politica e deontologica. Può averla solo l’uomo che verifica la notizia. È il compito del giornalista. Il grande problema è che l’algoritmo è più informato del giornalista, del medico, del consulente finanziario, del militare, del pubblico amministratore... Sembra che superi le competenze umane. Dobbiamo negoziare un accordo, una riconciliazione tra macchina e uomo.
Sembra che si confidi nell’intelligenza artificiale come in un oracolo.
Qualche giorno fa ho posto tre domande circa problemi etici sul gemello digitale a GPT-3, un superalgoritmo. Ho ricevuto tre risposte di una intelligenza fenomenale. GPT-3 dispone di 175 miliardi di parametri di machine learning e una mole sconfinata di informazioni su cui lavorare. Andiamo verso una situazione in cui potremo chiedere qualunque cosa. Gli oracoli antichi si fondavano su una conoscenza intuitiva del mondo. Le risposte dei nuovi oracoli si basano scientificamente e sono capaci di dire con precisione cosa accadrà nei prossimi tre anni. Nella rete c’è tutta l’informazione del mondo. Ecco perché è necessario sapere come gestire questa conoscenza. Abbiamo data analytics che possono prendere il posto dell’intelligenza. Siamo in un rapporto intimissimo tra persona e macchina. Dobbiamo chiederci quale mondo può sostenere questa ibridazione.
Oggi si parla di antropocene. Non siamo piuttosto in un “digitocene”?
Siamo oltre il digitale. Seguo il tema da tempi pionieristici e posso dire senza ombra di dubbio che oggi è per la meccanica quantistica ciò che è stato per il digitale tra 1990 e 1995. Avremo un quantum computing sempre più evoluto. Dobbiamo prepararci, a partire da una attenzione dei mezzi di informazione completamente nuova. Ripensare la notizia, ripensare il ruolo del giornalista, le strutture della coesione sociale. È cio che intende fare NewsMedia4Good, che raccoglie tutti i gli ambienti, dalla stampa a Google.
Un linguaggio che ignora il significato e riduce il mondo a funzione produce un mondo privo di etica?
L’etica oggi è debolissima. Sono venute meno le scansioni classiche di etica della vergogna e della colpevolezza. La prima è l’orientamento della responsabilità verso l’altro: è l’etica confuciana, il cui referente è la comunità più che l’individuo. L’etica della colpevolezza, individuale, è l’etica cristiana. Questa, incontrando il mondo greco, ha creato un’eccezione, perché la scrittura greca diversamente da quella ebraica, che è una scrittura condivisa, ha favorito l’appropriazione a livello personale del linguaggio. Il cristianesimo ha spostato il senso di responsabilità verso il sé, la scrittura e la lettura personale nel silenzio hanno creato l’individuo. Oggi con l’educazione debole si perde l’abitudine alla lettura su carta, interagiamo mediante schermi, perdiamo il controllo del contenuto personale. Siamo costantemente tracciati, e la privacy è un dono della lettura e della cultura. Tutto oggi invece è portato all’esterno: la nostra memoria è sul telefonino. Siamo usciti dal binomio vergogna e colpevolezza: abbiamo l’ansia. Un’ansia gigantesca. Il fenomeno no vax è una rivolta istintiva contro l’ansia.
In che modo ansia e algoritmo si incontrano?
In questo contesto di transizione ci sono figure come Orbán, Trump, Johnson e gli altri populisti che approfittano dell’efficacia sociale di dichiarazioni prive di referenti: e la perdita del referente fa parte del caos. Dicono ciò che la gente vuole sentire. L’algoritmo individua in quali echo chamber disseminare. Nella tua “camera d’eco” hai deciso, emozionalmente e intellettualmente, quale sia la verità e accogli solo ciò che conferma ciò che pensi già. Tutti abbiamo una echo chamber, dobbiamo esserne coscienti: ma possiamo almeno allargarla. Il ruolo del giornalista e della parola pubblica è sempre più importante per resistere a questa erosione. Il mondo oggi è molto più misterioso, la nostra realtà più fragile e incerta. Ma anche più articolata. Una guerra inizia quando la struttura del mondo si semplifica. Se resta complessa, resiste di più.
LINGUA GRECA E CRISTIANESIMO: LO STRUMENTO ELETTO E L’EU-CARESTIA... *
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA
ΣΚΕΥΟΣ ΕΚΛΟΓΗΣ • VAS ELECTIONIS
Il ruolo della lingua greca nella diffusione del pensiero cristiano
Sabato 8 febbraio 2020, ore 10
Sala conferenze - Palazzo Reale, Piazza Duomo 14, Milano
Interventi
Sua Eminenza Gennadios - Arcivescovo d’Italia e Malta
L’educazione e la cultura sono la via per la pace
Stefano Martinelli Tempesta - Università degli Studi, Milano
Fede cristiana e tradizione classica nei codici della Biblioteca Ambrosiana
Alberto Barzanò - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
La lingua greca: strumento e veicolo di comunicazione tra primo cristianesimo e Impero romano
Emanuela Fogliadini - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano
Eikōn, “icona”: somiglianza, rappresentazione, rivelazione del prototipo
Gilda Tentorio - Università degli Studi, Milano L’anima senza tempo dell’Athos: scrittori e impressioni di viaggio
Marco Roncalli - Saggista e scrittore
Patristica greca, ortodossia orientale ed ecumenismo in san Giovanni XXIII
Massimo Cazzulo - Presidente Società Filellenica Lombarda
Il lessico liturgico della poesia neogreca del Novecento: l’esempio di To ʼΆξιoν ἐστί di Odisseas Elitis
L’inizio dei lavori sarà preceduto dai saluti delle Autorità di
Filippo Del Corno Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Nikolaos Sakkaris Console onorario della Repubblica di Grecia a Milano,
Dimitri Fessas Presidente della Federazione delle comunità e delle confraternite greche di Italia, Sofia Zafiropoulou Presidente della Comunità ellenica di Milano
* FONTE: LICEO CLASSICO STATALE "TITO LIVIO" - MILANO (27 gennaio 2020)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO"
EU-ANGELO, EU-ROPA .... E "SCRITTURA ED EU-CARESTIA"?! LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
Federico La Sala
FILOSOFIA E FILOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: CHARITAS....
Tesi di Laurea
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................
1 Sezione 1: il versante ermeneutico ....................................................................... 5
1.1 La genesi agostiniana del principio .................................................................... 7
1.2 L’illuminismo tedesco e il nesso linguaggio-mondo ................................. 23
1.2.1 Wilhelm von Humboldt: “Sprachansicht als Weltansicht” ................................................................... 27 -APPENDICE Georg Friedrich Meier e il “Versuch einer allgemeinen Auslegungkunst” .................................. 43
1.3 La linea ontologica dell’ermeneutica contemporanea .............................. 53
1.3.1 Martin Heidegger e l’analitica esistenziale di “Sein und Zeit” ................................................ 55
1.3.2 Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica ontologica di “Warheit und Methode“ ........................ 69
Sezione 2: la riflessione logica .............................................................................. 85
2.1 Fondamenti teorici della carità in logica ....................................................... 87
α ) La riflessione filosofica di Ludwig Wittgenstein ......................................... 89
β) L’ipotesi della relatività linguistica............................................................ 100
2.2 Willard van Orman Quine e l’argomento di “traduzione radicale” ............................................................... 113
2.3 Donald Davidson e l’interpretazione radicale ..................................................................................... 137
Conclusione .............................................................................................................. 157
Bibliografia ............................................................................................................... 161 -Sitografia................................................................................................................... 163
***
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da
carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione.
Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus
dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovverocareo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάριςe dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello»,kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino”1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA. Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo, Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco, Laureando: GANDELLINI Francesco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
LA “CROCE” (“X”) DELL’APOSTOLO ANDREA E LA “BIBLIA PAUPERUM”. A GLORIA DI PRESICCE E IN MEMORIA DEL SUO PATRONO.... *
RICORDANDO CHE “lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre” (cfr. : Sant’ Andrea Apostolo), solleciterei storici e storiche, filologi e filologhe, filosofi e filosofe, a riflettere - visto che Gesù Cristo (dal greco Χριστός, Christós) è morto sulla “croce” - sulla differenza tra la “croce” (“X”) dell’apostolo Andrea e, unitariamente, la “croce” latina dell’apostolo Pietro (“Crocifissione di San Pietro” di Michelangelo Merisi), sia sul piano del significato del simbolismo della figura sia sul significato della lettera dell’alfabeto greco e dell’alfabeto latino.
Al buon-intenditore (del “buon-messaggio” - dell’ “ev-angelo”) poche parole....
Complimenti e buon lavoro
Federico La Sala
* Cfr.: Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano di Andrea Erroi, Fondazione Terra d’Otranto, 30.12.2018.
RITO GRECO E RITO LATINO: CONTRORIFORMA NEL SALENTO! PRESICCE, GALLIPOLI, E GALATONE...*
SE SI CONSIDERA CHE “Catalano stilò la data e la firma «IO: DOM.CO CAT.NO GALLIP.NO ME PINGEBAT 1601»” E CHE, IN QUEL TEMPO, NEL REGNO DI NAPOLI, VICEREAME DI SPAGNA, la macchina della Chiesa cattolica si era già messa in movimento per portare avanti il programma “controriformistico” del Concilio di Trento e, nella Terra d’Otranto, per eliminare la presenza del rito greco e realizzare una generale accettazione del rito latino, forse, è possibile COMPRENDERE meglio l’atmosfera politico-culturale, a Presicce (come a Gallipoli), e il senso dell’operazione affidata al pittore gallipolino Gian Domenico Catalano.
LA “MADONNA DALL’OCCHIO NERO” DI GALATONE NE SA già QUALCOSA (cfr. Commenti a “Galatone e le sue tradizioni, tra antropologia e fede”)!
Federico La Sala
* Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano (Fondazione Terra d’Otranto).
Il santo del giorno
Andrea.
Pescatore, portò a Gesù il fratello Pietro. È un modello per gli evangelizzatori
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 30 novembre 2019)
Abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci faccia conoscere Gesù e che ci porti all’incontro con lui: sant’Andrea è il modello per tutti coloro che "accompagnano alla fede" proprio perché fu il fautore del primo fondamentale incontro nella storia della Chiesa, quello tra Gesù e Pietro.
Il Vangelo di Giovanni ci presenta Andrea - che era nato a Betsaida sulle rive dell’omonimo lago in Galilea - intento ad ascoltare il Battista quando egli indicò il Messia. Andrea chiese allora a Gesù dove stava di casa e la risposta è un invito che vale ancora oggi per tutti gli esseri umani: "venite e vedrete".
Il primo pensiero di Andrea fu quello di andare a raccontare al fratello Pietro, anche lui pescatore, quell’incontro straordinario.
Secondo la tradizione Andrea, dopo la Risurrezione e la Pentecoste, fu evangelizzatore in Asia Minore, arrivando in seguito a Patrasso, dove sarebbe morto martire, su una croce a forma di "x" e a testa in giù attorno al 60.
Altri santi. San Tutwal, abate e vescovo (VI sec.); san Taddeo Liu Ruiting, martire (1773-1823).
Letture. Rm 10,9-18; Sal 18; Mt 4,18-22.
Ambrosiano. 1Re 19,19b-21; Sal 18; Gal 1,8-12; Mt 4,18-22.
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986)
IN MEMORIA DI MICHEL SERRES *. UNA CONFESSIONE (DA "IL MANCINO ZOPPO"):
PER LA FILOSOFIA DI UN ALTRO SOCRATE. AL DI LA’ DI EDIPO...:
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
a) IL PUNTO DI SVOLTA. L’INDICAZIONE DI FACHINELLI E LA SUA IMPORTANZA.
b) LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
c) CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
d) CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
*
Morto Michel Serres, il filosofo della scienza che amava l’Italia
Grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, aveva 88 anni. «I miei miglior amici sono italiani»
di Daniele Zappalà (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Parigi. Era uno dei pensatori più ammirati a livello internazionale, oltre a rappresentare una figura centrale del mondo intellettuale francese. Il filosofo Michel Serres, grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, si è spento ieri a 88 anni. Accademico di Francia fin dal 1990, aveva insegnato a lungo negli Stati Uniti, all’Università di Stanford, oltre che in vari atenei transalpini. Autore di una cinquantina di volumi e di opere fondamentali sull’origine del pensiero scientifico, come Le origini della geometria (Feltrinelli) o Lucrezio e l’origine della fisica (Sellerio), aveva pure interpretato, nella lontana scia di Leibniz, la pregnanza della comunicazione nel mondo contemporaneo, come nei 5 volumi della serie Hermès (1969-1980).
Figura estremamente originale, aveva scelto come proprio motto «pensare significa anticipare», prevedendo e interpretando nei propri libri diverse rivoluzioni del nostro tempo. Una costante della sua riflessione è stata pure la grande attenzione alla tradizione culturale cristiana, come in La ricerca delle parole. Corpo, scrittura e messaggio evangelico (EDB), o in Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia (Bollati Boringhieri).
Fra i volumi di Serres più citati, si può ricordare Il contratto naturale (Feltrinelli), all’origine di una riflessione sull’ambiente approdata poi a volumi più personali, come Biogea. Il racconto della terra (Asterios). Di recente, aveva pubblicato pure dei pamphlet con cui aveva riscosso un notevole successo, come Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, o ancora Contro i bei tempi andati, entrambi tradotti da Bollati Boringhieri.
«Tutti i miei migliori amici sono italiani», ci aveva raccontato nella sua ultima intervista ad Avvenire, da grande innamorato del Belpaese. In proposito, aveva anche dedicato un volume a Carpaccio, edito in Italia da Hopefulmonster. Fra gli altri tratti della tradizione italiana reinterpretati a livello filosofico, spicca la figura di Arlecchino, nel volume Il mantello di Arlecchino (Marsilio). Profondamente segnato dal dramma della guerra, ha lasciato anche importanti riflessioni di stampo pacifista.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN .... *
DALLA DEMOCRAZIA ALLA "DATACRAZIA"
di Derrick De Kerckhove (Media2000, 15 marzo 2019)
La democrazia fu inventata per superare la tirannia, ma è possibile che da Pericle a oggi il processo decisionale sia stato sublimato fino a scadere nel semplice quesito referendario sul modello “siete d’accordo o meno?”. Ad Atene si era riusciti a ovviare alle derive autoritarie, intrinseche allo sviluppo delle polis e ciclicamente riproposte, grazie a un complesso sistema che per primo nella storia introdusse la partecipazione di tutti alla vita pubblica, o meglio dei soli uomini liberi nativi del luogo che godevano dei diritti di cittadinanza. Seppure non si trattasse di limitazioni marginali (ma il riferimento è sempre di duemila e cinquecento anni fa), si riuscì a raggiungere un alto livello di elaborazione, separando i poteri e istituendo la figura dei politici di professione, che una volta eletti erano pagati e dovevano occuparsi di tutte le questioni rilevanti per la comunità: dalle tasse all’esercito, dalle leggi all’edilizia pubblica. Senza dubbio una delle innovazioni più significative fu l’introduzione del voto come strumento decisionale obbligatorio, non ci si poteva rifiutare di esprimersi e si doveva prendere una posizione.
Più di duemila anni dopo un sistema vagamente simile sopravvive solo in Svizzera dove i cittadini si riuniscono in assemblee che possono votare le leggi o porre quesiti sulle riforme. Nel resto dell’Occidente ci si è resi conto che più grande era il territorio da gestire, più complesso diventava l’apparato necessario, quindi la democrazia diretta si è trasformata in democrazia rappresentativa, declinata in modo particolare da stato a stato (ma, essenzialmente, simile dovunque). Ci si è spinti fino a speculare sul concetto stesso di “democrazia diretta”, che è cambiata radicalmente sia nella pratica sia nella semantica: “diretta” si è trasformato da aggettivo che indica l’assenza di intermediari e deviazioni, a participio passato di “dirigere”, vale a dire “orientata”.
Le classi dirigenti, solo in casi limitati ed eccezionali o per la propria affermazione politica (eclatante in Italia il caso del referendum del quattro dicembre duemilasedici durante il governo Renzi), scelgono di interrogare i cittadini con una domanda che non accetta altre risposte se non “sì” o “no”. Il potere stesso, filtrato dalla burocrazia e dagli apparati politico-economici, è quasi sparito dallo spazio pubblico, allontanando sempre più gli individui dal concetto di “società civile”, che è fondante per la sopravvivenza della democrazia e sembra essersi inceppato con l’avvento di internet.
Tornando alle origini, è interessante interrogarsi su come sia stato possibile per i greci reiterare un sistema dall’apparenza fragile, esposto agli attacchi esterni delle altre realtà statuali e interni dell’ambizione individuale. Fu proprio l’idea di “società civile” ad arginare la deriva. Il fatto, cioè, che una comunità di individui colti, educati secondo una cultura condivisa in uno spazio comune, si riconoscesse in dei valori e in delle pratiche ben precise.
La stessa idea di “bene comune” inteso come “bene di tutti” e non come territorio di caccia per le mire dei singoli, deriva da una costruzione intellettuale che non si trasmette nell’immediato ma si edifica con lungimiranza, all’interno di un progetto di sviluppo sociale condiviso. Per far sì che questo accada il processo è in primis epistemologico e riguarda il passaggio dalla cultura orale a quella scritta. Riuscire a separare le persone dalle convinzioni legate alla consuetudine, alla memoria personale e alle gerarchie non è stato di certo semplice: bisognava staccare il testo dal contesto e perciò la scrittura è stata fondamentale. In seguito si è dovuto provvedere a separare anche il lettore dal contesto, cioè rompere l’obbligo di ripetere le cose che sono già state formalizzate intorno all’individuo mediante l’acquisizione di una proprietà di linguaggio sufficiente.
Il linguaggio orale, infatti, appartiene a tutti ed è sempre al di fuori, il linguaggio scritto è privato e separa la persona dal popolo, oltre che dal linguaggio stesso. In altre parole l’individuo diventa più forte della comunità, acquisendo una responsabilità civile inesistente in precedenza. È proprio qui che si inserisce la “datacrazia” come pericolo per la democrazia stessa. Dal momento in cui il linguaggio torna a essere non più privato, espressione del sé, ma espressione della morale pubblica, influenzato e diretto (nel senso di “orientato”), si perde quella separazione fondamentale che in un primo momento aveva permesso lo sviluppo della politica, intesa come azione per conto di una comunità di cui si fa parte. Dov’è la comunità oggi? Ovvio, più si rimpicciolisce il campo e si scende nel particolare, più la separazione classica resiste. Tuttavia, a livello generale, la tendenza è ormai conclamata. Si pensi soltanto alla nascita di quello che alcuni definiscono “inconscio digitale” (tutto ciò che si sa su di te che tu non sai) e al fatto che deleghiamo sempre più funzioni cognitive a un sistema del quale, nella stragrande maggioranza dei casi, ignoriamo il funzionamento.
Non solo, bisogna aggiungere un altro fattore dirimente: la scomparsa del referente nel processo comunicativo. Se prendiamo come base il triangolo semiotico di Saussure, infatti, laddove abbiamo il significante e il significato che sono, indissolubilmente, tenuti insieme dall’esistenza del terzo vertice, ossia del referente, non possiamo che constatare una grave crisi di tutto il sistema dell’epistemologia. Venendo a mancare l’elemento di realtà che garantisce allo scrivente e al lettore (o al parlante e all’ascoltatore) la sicurezza che un dato suono corrisponda a un dato concetto, tutto entra in crisi. Fino alle certezze personali: non a caso gli psicologi e i sociologi iniziano a parlare di “redistribuzione del se” nella rete. Va detto che alcuni la auspicano, altri addirittura la predicano e la inseguono quasi come una forma di nuova religione, ma al di fuori della Silicon Valley è difficile immaginare degli adepti per questo culto mistico-dataistico. Anche se, senza bisogno di essere distopici, non è difficile pensare che qualche grande manager delle OTT stia già pensando a un mondo costantemente iper-connesso dove il concetto stesso di individuo sia superato.
Tuttavia, con l’avvento della Rivoluzione Digitale e, soprattutto, dell’ITT, della connettività tra dispositivi e macchine, di una dimensione spaziale inedita, parallela per alcuni aspetti, ulteriore per altri, il concetto di democrazia ritorna prepotentemente in discussione, assumendo un valore nuovo, non necessariamente peggiore.
Si considerino due esempi. Il primo, che potremmo definire “modello Singapore”, prende spunto dal sistema di controllo attuato nella metropoli asiatica. In trent’anni si è passati da una coscienza dello spazio, della convivenza sociale, dell’urbanismo stesso, totalmente rovesciata; basta confrontare delle foto aventi per soggetto alcuni quartieri della città a ridosso del centro. Ciò che pochi decenni fa era un ricettacolo di immondizia e abusivismo disordinato oggi è un’area ultra-moderna funzionale e pulitissima. Il governo cittadino ha infatti introdotto una serie di misure accompagnate dalla crescita esponenziale del controllo dello spazio pubblico mediante telecamere, rilevatori e forze di polizie. È stato così possibile introdurre un giudizio immediato seguito dalla comunicazione ed esecuzione dell’ammenda o della pensa senza possibilità di contestazione. Molto banalmente, si è totalmente sradicata la pratica di gettare rifiuti per terra nelle strade.
Dall’altro lato potremmo opporre il “modello cinese” in cui il controllo non si esercita solo sullo spazio pubblico ma anche su quello privato. A quali notizie o siti web si ha accesso, quali informazioni è possibile reperire (e in che versione) quali articoli è possibile acquistare e, senza essere cospirazionisti, come ci presenta in pubblico. Proprio dal colosso asiatico giungono i primi social network nei quali è possibile dare un “voto” alle persone, andando a costruire una “reputazione digitale” che però ha delle ricadute evidenti anche sulla vita reale. È la realizzazione finale di quel processo di controllo, operato dal sistema (inteso come somma di tutti i fattori politici, economici e sociali che ci circondano e nei quali viviamo) e, cosa più sorprendente, dai nostri simili, che porta davvero alla distopia orwelliana del “Big Brother”.
In ultima analisi ci si scontra con una dicotomia che non è semplice risolvere. Se da un lato abbiamo il controllo costante, il giudizio immediato, la pena inappellabile, una reputazione potenzialmente deleteria (anche in quei campi che normalmente non ne sarebbero ne affetti, immaginate un padrone di casa che ci nega un affitto solo perché la nostra rete di contatti ci reputa negativamente), una libertà d’informazione condizionata e l’eliminazione progressiva delle specificità; dall’altro è il funzionalismo a emergere, l’ordine, la pulizia, l’armonia sociale, la gestione “smart” delle città e delle macchine. La scelta di campo, come dicevamo, potrebbe apparire scontata sulla carta ma non si tiene conto di un ulteriore cambiamento di paradigma.
In rete si sta passando dalla “cultura della vergogna” alla “cultura della colpevolezza”: vale a dire che dalla responsabilità verso gli altri si sta passando alla responsabilità verso sé stessi. Questo processo, che non è sinonimo di consapevolezza o presa di coscienza, è foriero del ritorno a un individualismo escludente, nemico per antonomasia del concetto di comunità e, quindi, di società civile. Come al solito, le modalità per invertire questa tendenza e per sovvertire il paradigma sono nel medium stesso (cioè in internet) ma c’è bisogno, ritornando alle origini della rivoluzione democratica, di separarsi dal contesto e acquisire nuova consapevolezza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA. -- LA CONVIVIALITA’. Possono esistere delle (nuove) tecnologie conviviali?
Federico La Sala
PERDITA DELLA MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA: LA “X” (“CHI”, GRECO) DIVENTA “X” (“ICS”, LATINO; E, SEMPLICEMENTE, "C", IN ITALIANO) E GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") DIVENTA IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ...
opinioni
La dittatura della X fra affetti e affari
di Vittorio Zucconi (la Repubblica D, 25.11.2017)
Il Medioevo italiano la mise al bando, ma ora si usa ovunque, perché, evidentemente, attira l’attenzione. Che si tratti di business o di baci
ATTESO DA ALMENO cento milioni di esseri umani, molti dei quali in fila da giorni, è arrivato l’ultimo totem per il villaggio globale: l’iPhone X della Apple. Niente di misterioso in quella X, solo la celebrazione in numeri romani del decimo anniversario dell’iPhone lanciato da Steve Jobs: così dicono dalla Mela, ma mentono sapendo di mentire. Per segnalare il decennale, avrebbero potuto benissimo chiamarlo iPhone 10, come i predecessori 6, 7 o 8.
I geni del marketing hanno scelto la X per lo stesso motivo che ha spinto i concorrenti della Microsoft a chiamare la loro scatola da giochi XBox e (nell’ultima edizione diffusa negli stessi giorni dell’iPhone X, per tormentarci il Natale) addirittura XBoxOneX. Tre X al prezzo di una. Non è necessario essere geni dell’enigmistica e dei cruciverba per notare la fissazione per una lettera-simbolo che, da secoli e mai come ora, è uscita dal recinto dell’algebra per invadere i territori del commercio, dell’immaginazione, del calcio e del sesso, pardon, del sex.
La X vende, piace, intriga, nella sua invadenza. L’epidemia di questa lettera (che, nel Medioevo, l’alfabeto italiano aveva escluso, insieme con K e Y, presenti invece nell’alfabeto latino) è naturalmente partita dagli Stati Uniti ed è un indizio del dominio culturale anglofono. È ovunque e le femmine ne hanno pretese addirittura due nei propri cromosomi, XX, lasciando a noi maschi l’umiliazione di quella Y solitaria.
S’insinua nella vita di ogni paziente, che ha sicuramente inghiottito una pillola il cui nome conteneva una X o è stato esposto ai raggi X. Ci sono almeno 50 farmaci da ricetta che la esibiscono, dal tranquillante Xanax, che raddoppia per sembrare più efficace, all’antibiotico Ciprofloxacina, somministrato a milioni di persone afflitte da infezioni delle vie urinarie.
Qualche linguista Usa ha cercato di spiegare l’attrazione con il Cristianesimo, partendo dalla croce che i Romani usavano per uccidere i nemici più pericolosi e che era fatta appunto a X, e non a T come nell’iconografia ufficiale. Ma non c’è nulla di mistico in banali varietà musicali come X Factor, copiato anche in Italia. Dubbi religiosi riaffiorano in dicembre, quando gli americani, sempre impazienti, abbreviano Christmas, Natale, in XMas. Ma poi si sprofonda nel prosaico esercizio del voto, che utilizzò quel segno affinché anche gli analfabeti potessero manifestare sulle schede le scelte politiche.
Resta in esso sempre il brivido del mistero, dell’incognita, come nelle equazioni o nella fantascienza della serie X-Files. Sa di frutto proibito, nei film porno classificati come XXX o nei commerci erotici, in quei Sex Shop che, se si chiamassero "botteghe del sesso", farebbero ancora più schifo. Diventa il richiamo alla morte e alla ferocia dei pirati, con le ossa incrociate a forma - che altro? - di X sotto il teschio. È uno dei molti simboli satanici, ma anche di tenerezza, nella stenografia da chat o da sms, dove sta per "baci", insieme con O, per "abbracci": XOXO, "ti mando baci e abbracci". Tende a essere estremista nell’abbigliamento, con le taglie XS, XL o addirittura, aiuto!, XXL. Anche l’immagine che guardiamo sul televisore, sul computer o sullo schermo dello smartphone paga un tributo, essendo formata da pixel.
Non ha colpe, né meriti questa lettera prepotente, immigrata senza autorizzazione fra di noi, ma qualche segreta e scaramantica influenza negativa forse sì. Soltanto uno, fra i 45 presidenti degli Stati Uniti in 200 e più anni, ha osato avere una X nel proprio nome, Richard Nixon. Finì infatti, primo e unico dimissionario nella storia, crocefisso alla vergogna delle proprie colpe.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
Federico La Sala
L’ITALIA, IL SEDILE, LA SELLA CURULE, LA "X" DI "REX" E "DUX", HENRY W, LONGFELLOW, E IL "DVX" DEL FASCISMO.... *
AD AMPLIARE e a contribuire a rendere più comprensibili ed evidenti i nessi tra i vari livelli del brillante lavoro di Armando Polito sul SEDILE di Nardò (Lecce), è bene tenere presente e ricordare cosa era la SELLA CURULE nella società dell’antica Roma:
"La sella curule (in lat. sella curulis) era un sedile pieghevole a forma di "X" ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di giurisdizione, detti perciò "curuli".
I magistrati solevano portare con sé la sella curulis assieme agli altri simboli del loro potere (fasci, verghe e scuri) e ovunque disponessero questi simboli, lì era stabilita la sede del loro tribunale.
Durante il periodo della Repubblica, il diritto di sedere sulla sella curule era riservato a: consoli, pretori, edili curuli, sacerdoti massimi, dittatori e al magister equitum. In epoca imperiale l’uso della sedia curule fu ampliato anche all’imperatore, al praefectus urbi e ai proconsoli.
Il simbolo di potere rappresentato dalla sedia curule affonda le sue radici nell’antica Etruria; infatti già gli Etruschi consideravano lo scranno pieghevole a forma di sella una prerogativa di chi poteva esercitare il potere (giudiziario ed esecutivo) sul popolo. Fu portato a Roma dal quinto re, Tarquinio Prisco.[1]
RICORDARE CHI ERA HENRY W. LONGFELLOW:
"Henry Wadsworth Longfellow (Portland, 27 febbraio 1807 - Cambridge, 24 marzo 1882) è stato uno scrittore e poeta statunitense, tra i primi letterati americani ad assurgere alla fama mondiale.
Longfellow fu il più famoso poeta della scena del New England nell’’800 e scrisse numerose opere tra cui Evangeline e Il faro.
Fu un acceso promotore dell’abolizione della schiavitù negli anni prima e durante la Guerra Civile Americana insieme ad altri intellettuali che gravitavano nell’orbita di Harvard e soprattutto insieme all’allora Governatore del Massachusetts John Andrew.
Intorno al 1862 insieme ai letterati James Russell Lowell, Oliver W. Holmes e George Washington Greene diede vita al cosiddetto "Circolo Dante", atto a promuovere la conoscenza della Divina Commedia di Dante Alighieri negli Stati Uniti. Insieme ai suoi colleghi del circolo, Longfellow ne portò a termine la prima traduzione statunitense in inglese nel 1867.
Da allora il successo dell’opera di Dante in America fu costante ed in seguito il Circolo diventò la "Dante Society", una delle più famose associazioni di dantisti nel mondo [...]" (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Henry_Wadsworth_Longfellow).
LE PAROLE ("DVX-LVX, REX-LEX") SCRITTE SULLA "CROCE" INSCRITTA NEL "CERCHIO" SULLA TOMBA DI LONGFELLOW sicuramente - via Dante Alighieri (e probabilmente anche via Dante Gabriele Rossetti) - si ricollegano al filo della tradizione religiosa cristiana, e sono riferite a CRISTO, concepito come LUCE, LEGGE, RE, DUCE.
E, ANCORA, per capire come e perché siano apparse le scritte "REX" e "DVX" sulla parete del SEDILE di Nardò (Lecce), bisogna RICORDARE chi era MARGHERITA GRASSINI SARFATTI e rileggere il suo "DVX" (sul tema, mi sia consento, cfr IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE).
E, INFINE, PER CAPIRE MEGLIO, E ALLA LUCE DEL SOLE ("INVICTUS"), IL SENSO DELLE "QUATTRO PAROLE" (LVX, LEX, REX, DVX), LEGGERE E RILEGGERE E ANCORA RILEGGERE LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA ....
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.....
"CHI" SIAMO NOI IN REALTA’. Relazioni chiasmatiche e civiltà...
Possono esistere delle (nuove) tecnologie conviviali?
di Tiziano Bonini *
Stavo ascoltando la radio. Era un mese fa, il 7 giugno. Su Radio3 sento la voce di Derrick De Kerckove che parla di datacrazia, della supremazia dei dati. Mi fermo all’ascolto, poi interviene Belpoliti. Capisco che è un dibattito sulla memoria e sugli strumenti per preservarla, ma che verso la fine ha preso altre strade. La discussione è molto interessante, e come al solito, lascia più domande che risposte. La potete riascoltare per intero qui.
La discussione parte da un articolo di De Kerckhove pubblicato da La Stampa, in cui afferma che
Come ritrovare un equilibrio tra oblio e memoria, si chiede il terzo ospite al telefono, Maurizio Bettini? Belpoliti prova a rispondere che è collettivamente difficile, ma individualmente più facile.
Dovremmo darci più tempo, ridare valore agli intervalli di tempo che De Kerchove afferma essere stati azzerati dal digitale. È vero, abbiamo bisogno di più tempo per poter ricordare le cose, fissarle nella memoria, rielaborarle. Ma davvero basta imporsi una nuova “morale digitale”? o anche solo una personale, e difficilissima, autodisciplina? Belpoliti suggerisce che dovremmo passare più tempo da soli, annoiarci, passare qualche tempo in silenzio, riscoprire il valore dell’intervallo. Ricorda da vicino alcuni dei consigli contenuti nel felice libro di Sherry Turkle (di cui abbiamo parlato qui), anche lei suggeriva una nuova disciplina del rapporto tra individui e tecnologie di comunicazione mobile, basata su una maggiore consapevolezza individuale dei momenti in cui essere presenti insieme agli altri e dei momenti in cui ci si può assentare in comunicazioni con persone distanti da noi. Anche lei suggeriva la riscoperta del silenzio, della solitudine, dell’importanza di spazi di vita non mediati da tecnologie.
Tutti consigli sani, condivisibili, ragionevoli. Ognuno di noi prova a darsi delle regole, a disciplinare il proprio comportamento nei confronti di applicazioni che ci inondano di messaggi e notifiche (email, tweet, facebook, whatsapp, instagram). Da una parte non possiamo più farne a meno per gestire i diversi flussi di comunicazione che ci uniscono alle diverse reti sociali alle quali apparteniamo, dall’altra rischiamo di esserne troppo dipendenti e perdere tempo prezioso.
Belpoliti suggeriva la possibilità di una risposta individuale, ma credo che tutte queste forme di resistenza individuali assomiglino al vano tentativo di svuotare il mare con un bicchiere.
Forse, sul piano individuale, alcuni di noi possono anche trovare un equilibrio tra spazi di vita non mediati e spazi di immersione nei flussi comunicativi in mobilità, ma sul piano collettivo, l’onda provocata dalla diffusione di queste tecnologie è destinata a spazzare via vecchie abitudini e riconfigurare il nostro rapporto col tempo, con gli altri e con la memoria.
A meno che.
A meno che.
E qui vengo al mio timido argomento.
Le risposte individuali sono sicuramente utili, ma solo a noi stessi. Come coloro che provano a rispondere al cambiamento climatico attraverso un consumo consapevole delle risorse, a prendere di meno l’automobile e usare di più la bici, anche coloro che provano a sperimentare un consumo più consapevole dei media digitali, stanno cercando un complicato equilibrio che, se mai fosse possibile, serve soprattutto a chi lo ha trovato, ma non alla collettività. Cambiare abitudini di consumo può servire come esempio per gli altri, può essere il sintomo di un cambiamento collettivo, certamente, ma da solo questo cambiamento fa star bene solo noi stessi (è già qualcosa), rafforzando la nostra identità.
Servono risposte collettive. Provo qui ad abbozzare una risposta, che potrebbe diventare collettiva. Ma non è una proposta originale, perché non farò altro che recuperare e reinterpretare le parole di un vecchio pensatore scomparso, molto famoso negli anni settanta-ottanta ma ora un po’ dimenticato: Ivan Illich. In particolare, mi servirò del suo pensiero espresso in Tools for Conviviality (1973).
In questo libro Illich affermava che per rendere gli uomini più autonomi, più liberi, più capaci di realizzare i propri desideri, bisognava innanzitutto progettare strumenti (tecnologie, istituzioni, relazioni) al servizio dell’uomo, strumenti in grado di liberare le potenzialità e la creatività umana, strumenti che non dividessero gli uomini in master e slaves, in padroni e schiavi. Questi strumenti, Illich li chiamava “conviviali”, in opposizione al modo di produzione industriale (fosse esso capitalista o socialista).
Una società conviviale, proseguiva Illich, è una società che garantisce ad ogni suo membro il più ampio e libero accesso possibile agli strumenti in possesso della sua comunità.
Gli strumenti sono conviviali nella misura in cui possono essere facilmente usati da tutti per raggiungere obiettivi direttamente scelti dagli utenti stessi. Non richiedono una certificazione preventiva (un diploma, una laurea, un attestato) per essere utilizzati.
Illich fa alcuni esempi di strumenti conviviali. A noi interessano di più quelli legati ai media: il telefono per esempio, sarebbe uno strumento conviviale, perché permette a chiunque di dire ciò che si vuole a chi si vuole, senza che i burocrati possano restringere questa possibilità o si debba passare da un centro, un gatekeeper, per poter parlare con qualcuno. La televisione invece sarebbe uno strumento non conviviale. Seguendo il suo ragionamento, uno strumento sarebbe conviviale quando può essere liberamente manipolato e adattato ai bisogni di chi lo usa, non è sottoposto a un controllo centralizzato, può essere usato da tutti e amplifica la creatività di ognuno.
Teniamoci per ora questa definizione, poi ci servirà più avanti.
C’è una frase chiave nel libro di Illich che per me rappresenta la possibile risposta collettiva al bisogno individuato da Belpoliti, De Kerckhove e Bettini durante la loro discussione radiofonica: “Invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo” (p. 10).
Tradotto: non basta provare a darci delle regole individuali nella gestione delle tecnologie mobili che utilizziamo ogni giorno, perché quelle tecnologie sono progettate, a monte, per massimizzarne il consumo da parte nostra, come ha notato un noto interaction designer della Silicon Valley, Tristan Harris. Harris ha pubblicato su Medium un articolo dal titolo “How Technology Hijacks People’s Minds - from a Magician and Google’s Design Ethicist” in cui sostiene che i social media replicano il meccanismo delle slot machine. Il meccanismo psicologico che sta dietro le slot machine, prosegue Harris, è quello delle “intermittent variable rewards”, cioè delle ricompense intermittenti di natura variabile. Quando tiro la leva non so che tipo di ricompensa riceverò. Se i designer di tecnologia vogliono massimizzare la dipendenza, quello che devono fare è collegare l’azione di un utente (come tirare la leva della slot) con una ricompensa variabile. Tu tiri una leva e immediatamente ricevi in cambio un bel premio o anche niente.
La dipendenza è massimizzata quando la ricompensa è la più varia possibile: “diversi miliardi di persone hanno una slot machine nelle loro tasche: quando tiriamo fuori i nostri cellulari per controllare le notifiche stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando clicchiamo “refresh” per aggiornare le nostre email, stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando facciamo scivolare il nostro indice lungo lo schermo del telefono per aggiornare la bacheca di Instagram, stiamo giocando con una slot machine. Quando scorriamo i profili di potenziali partner su Tinder stiamo giocando con una slot machine.”
Se le tecnologie attorno a noi sono progettate per incanalare le nostre azioni entro determinati comportamenti di numero limitato, che possono essere misurati e quindi analizzati, gestiti e trasformati in previsioni di consumo futuro, ecco che il nostro potere contrattuale nei confronti di queste tecnologie è molto basso, e i nostri sforzi, la nostra “risposta individuale”, il tentativo di resistere alle affordances previste dalle tecnologie risulta debole, o irrilevante.
Qualcuno di noi potrà anche riuscire a trovare un giusto equilibrio personale tra i benefici delle tecnologie digitali e il tempo che succhiano e rubano ad altre attività più socievoli, ma questi tentativi non saranno che eccezioni.
La risposta collettiva, per me centrale, è invece quella di “invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo”, riappropriarci di questi strumenti, reclamarne il controllo, la possibilità di manipolarli, di deciderne le sorti, hackerarne non solo i contenuti, ma anche l’architettura con i quali sono stati progettati.
Un autista di Uber o un rider di Deliveroo non hanno alcuna voce in capitolo sulla piattaforma digitale che gli assegna il prossimo cliente. Non possono nemmeno reclamare se la piattaforma li blocca perché sono scesi sotto un certo livello reputazionale. Queste piattaforme digitali, di proprietà di un’unica corporation che ne controlla ogni minimo dettaglio, imponendone il funzionamento a tutti i suoi utenti, sono piattaforme anti-conviviali, direbbe Illich.
Dove gli utenti non hanno voce (tradotto: potere) nella progettazione di piattaforme e nei processi decisionali si creano i presupposti per la creazione di beni, flussi e servizi di tipo autoritario, top-down. E questo è ancora più pericoloso perché in molti settori e mercati, da quello del trasporto urbano (Uber), dell’ospitalità (Airbnb), della comunicazione interpersonale (Facebook), della logistica (Amazon), questo tipo di piattaforme autoritarie e anti-conviviali stanno guadagnando posizioni di monopolio (come spiega questo articolo del New York Times), all’interno delle quali gli utenti non avranno alternative. Per la comunicazione interpersonale dovremo sottostare al recinto di regole di Facebook, per il trasporto urbano a quelle di Uber e così via.
Nessuna di queste piattaforme ci permette di modificare gli algoritmi sui quali sono fondate o di fissare liberamente il prezzo del mio servizio di tassista o della mia casa in affitto.
La risposta collettiva è una risposta che ha a che fare con il design delle cose che usiamo, con un cambio di paradigma dei modi di progettazione delle tecnologie che usiamo e deve passare per una maggiore apertura della cultura del design, in parte già avvenuta, verso processi di progettazione più partecipativi. Dalla politica all’agricoltura, passando per la progettazione di piattaforme digitali, per realizzare una società più conviviale, bisogna aprire alla co-progettazione. In politica tramite la sperimentazione di processi di democrazia diretta (civic crowdfunding, per esempio?), in agricoltura seguendo le sperimentazioni d’avanguardia di un genetista italiano, Salvatore Ceccarelli, che propone il miglioramento genetico partecipativo dei semi, nelle piattaforme digitali lo sviluppo del platform cooperativism, che prevede lo sviluppo di piattaforme aperte e gestite in forma cooperativa.
Anche nella produzione e distribuzione dei contenuti, per esempio, si potrebbe applicare il concetto di convivialità. Può esistere un servizio pubblico dei media “conviviale”? Con Ivana Pais avevamo provato ad immaginarlo in questo articolo. Possono esistere algoritmi conviviali, co-progettati dagli utenti insieme ai designers e manipolabili ogni giorno? Pensate di aprire un servizio come Netflix e avere la possibilità di riprogrammare autonomamente l’algoritmo di Netflix perché quella sera avete voglia solo di film di registi brasiliani della new wave anni settanta, magari tramite un controllo vocale, o restringere l’offerta musicale di Spotify soltanto alla musica degli anni Novanta, e “mi raccomando, escludi per favore tutti i cantanti italiani”.
Se invertiamo la struttura profonda degli strumenti, forse possiamo esserne meno schiavi e ricavarne maggiori benefici. Ma questo significa invertire la struttura profonda del sistema di produzione di questi strumenti, ovvero, marxianamente, invertire l’economia politica che governa la produzione di questi argomenti e sostenere la creazione di tecnologie no profit, co-gestite, in varie forme tutte da sperimentare, dagli utenti stessi (come l’idea di trasformare Twitter in una cooperativa di proprietà degli utenti). Se il capitalismo di piattaforma conquisterà il monopolio delle piattaforme digitali disponibili sul mercato, la struttura profonda di questi strumenti risponderà a un solo imperativo, e sarà molto, molto lontano da quell’idea di società conviviale, attiva, socievole, “gracefully playful” che immaginava Ivan Illich.
p.s. Mi sono appassionato solo da qualche anno alla lettura di Ivan Illich. Sono nato nel 1977, quando già Illich aveva 51 anni e non l’ho mai conosciuto. La sua figura è molto controversa e discutibile (ho apprezzato molto il racconto di Franco La Cecla in Ivan Illich e la sua eredità, Medusa, 2013) e ci sono molte persone che conoscono il suo pensiero meglio di quanto possa averlo capito io, che mi sono avvicinato a lui dopo aver tradotto Making is connecting di David Gauntlett, un sociologo inglese che ha ripreso Illich per interpretare la nuova ondata di creatività supportata dalle tecnologie digitali. Credo però che tutti dovremmo rileggere La convivialità per trovare una risposta collettiva, più complessa e sistemica, alle domande che ci pongono le tecnologie digitali, sia come consumatori che come lavoratori. Invece di resistere loro, imponendoci un’ora di “disconnessione” o un mese di “detox” digitale, dovremmo lavorare di più con i designers, e progettarne altre, con altre regole, non fisse, discutibili e flessibili, ritagliabili sui nostri bisogni personali. Dovremmo poter essere proprietari dei nostri dati e decidere cosa farne e con chi condividerli. Dovremmo essere più liberi di quanto già adesso le tecnologie non ci fanno sentire.
È un discorso lungo e discutibile. Vorrei poterne parlare con designers, progettisti, sviluppatori, utenti. To be continued. O come scriveva Luther Blissett nell’ultima pagina di Q, “non si prosegua l’azione secondo un piano”.
* DoppioZero, 22.07.2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera (La Stampa, 07.07.2017)
«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.07.2017)
L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.
Scienza e Filosofia
La particella dal doppio «charm»
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, 24 luglio 2017)
«Three quarks for Muster Mark!». Nel 1964 il fisico statunitense Murray Gell-Mann si ispirò a questa misteriosa frase tratta da Finnegans Wake di James Joyce per battezzare i mattoni fondamentali della materia, i quark. La parola cruciale nella frase è la prima, three: tre erano infatti i quark (denominati u, d, s) che, sulla base di una precisa simmetria matematica, riuscivano a spiegare le particelle note all’epoca (a partire da quelle più familiari, come il protone, costituito da due u e un d). Nel giro di qualche anno il quadro si arricchì di nuovi elementi. Nel 1970 Sheldon Glashow, John Iliopoulos e Luciano Maiani - con quella mossa tipica dei fisici teorici che inventano cose che si rivelano poi reali - proposero l’esistenza di un quarto quark, il quark c, caratterizzato da una proprietà quantistica chiamata, con una certa dose di fantasia e di ironia, charm («fascino»).
La verifica della teoria GIM (come è comunemente nota dalle iniziali degli autori) giunse quattro anni dopo, nel corso della cosiddetta «Rivoluzione di Novembre» del 1974, quando due collaborazioni sperimentali scoprirono - cioè produssero alle macchine acceleratrici - la prima particella dotata di «fascino», la J/psi, contenente il quarkc (gli scopritori, Samuel Ting e Burton Richter, furono premiati con il Nobel nel 1976). -La peculiarità del c è di essere un oggetto elementare piuttosto pesante, centinaia di volte più degli altri quark, e persino più pesante di un oggetto composto come il protone. In seguito i quark sono diventati definitivamente sei - ai tre di Gell-Mann e al c si sono aggiunti il b (beauty, o bottom) e il t (top), anch’essi di grande massa (quella del top è addirittura mostruosa) - e lo studio dei quark pesanti è diventato uno dei rami più fecondi della fisica delle particelle (chi volesse approfondire questi argomenti può farlo su un ottimo libro di Antonio Ereditato, appena uscito per il Saggiatore).
Di particelle contenenti il quark c ne sono state scoperte nel frattempo molte altre, ma l’ultima, annunciata qualche giorno fa da LHCb, un grande esperimento del CERN di Ginevra di cui è responsabile Giovanni Passaleva, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, è degna di nota, oltre che lungamente attesa. -Si tratta infatti di una particella che contiene due quarkc, oltre a un quarku. Una particella dal «fascino» doppio, insomma, con una carica elettrica anch’essa doppia e una massa che è circa quattro volte quella del protone.
Il suo nome, già pronto prima che venisse scoperta, è Xi (più precisamente «Xi-cc», perché le Xi sono una dozzina): la peculiarità della sua struttura è che il piccolo u si muove nel campo dei due grossi c come un pianeta attorno a una stella binaria, a differenza di quel che accade nelle altre particelle pesanti conosciute, in cui i «pianeti» sono due e la «stella» una.
L’utilità della Xi e delle altre particelle dotate di «fascino» e di «bellezza» che ancora mancano all’appello sta nelle preziose informazioni che esse forniscono su una delle quattro forze fondamentali della natura, la forza forte, quella che tiene assieme i nuclei e i loro costituenti (protoni e neutroni), e che in definitiva ci dà sostanza e massa. Non bisogna dimenticare infatti che, mentre il famoso bosone di Higgs è responsabile delle masse dei quark, queste rappresentano solo una piccolissima frazione della massa dei corpi ordinari (compresa la nostra). Il 99% di ciò che misuriamo con la bilancia è in realtà energia: l’energia di interazione dei quark, dovuta alla forza forte. Capire come funziona questa forza significa dunque, in ultima analisi, capire un aspetto di noi stessi. La teoria della forza forte, la cromodinamica quantistica (QCD), è potente ed elegante, ma in molti casi non è facile risolvere le sue equazioni. Per ricostruire il protone a partire dai quark, per esempio, bisogna ricorrere a modelli fenomenologici o a stratagemmi di calcolo. Lo studio delle particelle contenenti i quark c e b permette allora di affinare questi metodi e di estendere l’applicabilità della QCD.
La scoperta della Xi non è eclatante come quella di altre celebri particelle del passato (la stessa J/psi, i bosoni W e Z di Rubbia, il bosone di Higgs), ma non si deve pensare che la fisica proceda saltando da un colpo sensazionale a un altro. C’è una fisica normale e paziente, che verifica nei minimi dettagli anche le teorie consolidate, che effettua misure di precisione, che va alla ricerca di eventi rari e proibiti (come fa LHCb, per comprendere l’asimmetria tra materia e antimateria nell’universo). La storia, d’altronde, insegna che le novità nascono spesso da piccole crepe nei vecchi edifici. All’inizio del Novecento nessuno poteva immaginare che da misure della radiazione in una fornace, condotte con teutonico rigore per verificare la vecchia termodinamica e la vecchia teoria elettromagnetica, sarebbe scaturita la meccanica quantistica.
Il modo migliore per rendere omaggio ai moderni cacciatori di particelle è ricordare quanto è complicato scoprire una nuova particella. Non è come frugare in una scatola piena di oggetti cercandone uno dalla forma particolare. Particelle come la Xi vivono per un tempo molto breve, disintegrandosi in tanti frammenti - altre particelle più piccole che vengono catturate dai rivelatori. La scatola è piena di cocci, quindi, e i fisici sperimentali devono farne combaciare alcuni ricostruendo l’oggetto frantumato. Ma dato che i cocci possono combaciare anche fortuitamente, per essere sicuri dell’esistenza dell’oggetto in questione bisogna raccogliere tanti mucchietti di pezzi che collimano. Osservando trilioni di urti di protoni, LHCb ha trovato un eccesso di eventi (qualche centinaio) che corrispondono alla disintegrazione della Xi: il picco è bellissimo, da manuale, e la particella con doppio charm è inequivocabilmente là. O meglio, era là, perché è vissuta meno di un milionesimo di milionesimo di secondo: il fascino, si sa, non può durare a lungo.
Scoperta al Cern la particella Xi, inseguita da anni
Mai vista una simile, aiuta a capire colla che unisce la materia
di Redazione ANSA 06 luglio 2017
Scoperta al Cern la particella Xi: inseguita da decenni, potrà aiutare a studiare la ’colla’ che tiene unita la materia, ossia per capire una delle quattro forze fondamentali della natura: la forza forte. La scoperta, annunciata nella conferenza della Società Europea di Fisica in corso a Venezia e in via di pubblicazione sulla rivista Physical Review Letters, è avvenuta grazie all’acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc).
Vista dall’esperimento chiamato Lhcb, la particella appartiene alla famiglia dei barioni, la stessa di cui fanno parte protoni e neutroni che costituiscono la materia visibile, e come tutti i barioni è composta da tre quark, come prevede la teoria di riferimento della fisica chiamata Modello Standard. Tuttavia nei barioni finora noti si trova al massimo un solo quark pesante, mentre la particella Xi ha due quark pesanti.
"E’ la prima volta che si osserva una particella simile: un barione con due quark pesanti", ha detto Donatella Lucchesi, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e dell’università di Padova e membro della collaborazione Lhcb. "Osservare una particella del genere - ha detto ancora Donatella Lucchesi - è stato possibile grazie alla grandissima quantità di dati che sta producendo l’acceleratore Lhc. Questo - ha rilevato - permette di raggiungere un obiettivo non facile, come è riuscire a riprodurre la materia in tutti i suoi stati possibili".
Nella particella Xi un sistema planetario in miniatura
La particella Xi appena scoperta al Cern è già generosa di sorprese, al punto che i mattoni della materia che la costituiscono, i quark, potrebbero comportarsi come un sistema planetario in miniatura. I due quark pesanti, che sono l’elemento distintivo della nuova particella avrebbero infatti movimenti più lenti e solenni rispetto a quelli dei quark leggeri presenti in protoni e neutroni, che ricordano una danza. Lo ha rilevato il britannico Guy Wilkinson, che ha coordinato la collaborazione Lhcb fino al 30 giugno, giusto in tempo per assistere alla scoperta. "In contrasto con gli altri barioni finora noti, in cui i tre quark eseguono una elaborata danza l’uno attorno all’altro, ci aspettiamo che il barione con due quark pesanti agisca come un sistema planetario", ha osservato Wilkinson. In questo sistema planetario in miniatura, ha aggiunto "i due quark pesanti giocano il ruolo di stelle che orbitano l’una attorno all’altra, mentre il quark più leggero orbita intorno al sistema binario".
Dalla particella Xi la chiave per capire la ’colla’ della materia
La particella Xi promette di essere una chiave senza precedenti per scoprire i segreti della ’colla’ della materia, ossia il comportamento delle forze che agiscono nel mondo dell’infinitamente piccolo. Per il nuovo coordinatore della collaborazione Lhcb, l’italiano Giovanni Passaleva, c’è grande speranza nelle nuove conoscenze che la particella Xi potrà rendere possibili. "Trovare un barione con due quark pesanti - ha rilevato - è di grande interesse perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica", ossia il campo di ricerca che studia come l’intensità delle forze si riduce quando le distanze tra le particelle diventano molto piccole e che si chiama così in riferimento alle otto cariche che prendono il nome dai tre colori che descrivono i quark: rossi, gialli e blu.
E’ un campo di ricerca molto importante, nato grazie alle ricerche inaugurate 1963 fa dal fisico Nicola Cabibbo con il teorema che porta il suo nome, l’Angolo di Cabibbo, e che ha gettato le basi per comprendere come i mattoni della materia, i quark, si mescolano dando origine alle particelle elementari.
*
Cern, scoperta la particella Xi: "Inseguita da anni, ci aiuterà a capire cosa tiene insieme la materia"
La scoperta, annunciata nella conferenza della Società Europea di Fisica in corso a Venezia è avvenuta grazie all’acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc)
di ELENA DUSI *
VENEZIA - Scoperta al Cern la particella Xi: inseguita da decenni, potrà aiutare a studiare la ’colla’ che tiene unita la materia e capire una delle quattro forze fondamentali della natura: la forza forte, la più intensa ma anche quella con il raggio di azione più piccolo, che agisce solo a livello delle particelle subatomiche. La scoperta, annunciata nella conferenza della Società Europea di Fisica in corso a Venezia e in via di pubblicazione sulla rivista Physical Review Letters, è avvenuta grazie all’acceleratore più potente del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc), in particolare a uno dei suoi quattro rivelatori: LHCb, coordinato dall’italiano Giovanni Passaleva dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
La particolarità di "mister Xi" è di avere al suo interno due quark pesanti. Pur essendo prevista dalla teoria, la presenza di due "pesi massimi" all’interno della stessa particella è stata osservata solo oggi per la prima volta. La sua massa, di conseguenza, è particolarmente grande: oltre 3.600 Mev, quasi quattro volte quella del protone. Anche la carica elettrica positiva è doppia rispetto al protone. Quindici anni fa il laboratorio americano Fermilab annunciò un’osservazione simile (ma con margini di incertezza molto più alti rispetto a oggi), ma con una massa molto diversa rispetto a quanto teorizzato. L’osservazione del Cern invece rispetta esattamente le previsioni, e dissipa le ansie che il precedente americano poteva aver sollevato.
"Trovare una particella con due quark pesanti è di grande interesse perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali", spiega Passaleva. "Queste particelle contribuiranno così a migliorare il potere predittivo delle nostre teorie". La "nuova arrivata" non esiste normalmente in natura. "E’ molto instabile" conferma Passaleva. "Viene prodotta negli acceleratori o quando i raggi cosmici, ad esempio protoni prodotti da una supernova che viaggiano nello spazio, raggiungono l’atmosfera e la colpiscono con tutta la loro energia". La vita di questa particella è molto breve: circa un millesimo di miliardesimo di secondo. Poi "mister Xi" decade in particelle più leggere.
La maggior parte della materia che vediamo intorno a noi è composta da barioni, particelle comuni composte da tre quark. I più noti sono protoni e neutroni, ma poiché in natura esistono sei tipi di quark diversi, teoricamente le combinazioni di barioni possibili sono molto numerose. Non tutte, però, sono state osservate nella realtà. All’appello mancavano proprio le particelle composte da più di un quark pesante (detto quark charm). Il terzo componente della nuova particella (il cui nome completo è Xicc++) è un quark up. "Trovata questa particella, ora cercheremo di osservare anche le sue due sorelle" aggiunge il fisico fiorentino che guida LHCb. "Quella con il terzo quark di tipo down oppure di tipo strange".
"In contrasto con le altre particelle finora note, in cui i tre quark eseguono una elaborata danza l’uno attorno all’altro, ci aspettiamo che il barione con due quark pesanti agisca come un sistema planetario, dove i due quark pesanti giocano il ruolo di stelle che orbitano l’una attorno all’altra, mentre il quark più leggero orbita intorno a questo sistema binario", ha aggiunto Guy Wilkinson, ex-coordinatore della collaborazione. Proprio ieri, il 4 luglio, cadeva il quinto anniversario dell’annuncio della scoperta del bosone di Higgs, sempre grazie all’acceleratore di particelle Lhc del Cern di Ginevra.
* la Repubblica, 06 luglio 2017 (ripresa parziale - senza note).
Lettere
SEI TU A DIRMI CHI SONO IO
Nessuno di noi nasce con un’identità, perché l’identità è frutto del riconoscimento che ci proviene da chi ci è accanto, quindi è un fatto sociale
RISPONDE Umberto Galimberti (la Repubblica - D, 12 settembre 2015)
Perché le si raggela il sangue per un’ovvietà così evidente? Teme la responsabilità di non avere consegnato a sua figlia un’identità adeguata? Non si preoccupi. Non c’è solo lei nel mondo della sua bambina, e tanti concorrono a formarle l’identità. Perché l’identità è un dono che ci fanno gli altri. Noi non nasciamo con un’identità, ma la acquisiamo dalle relazioni con gli altri che ci approvano e ci confermano nel nostro modo di vivere, oppure ci disapprovano insinuandoci dubbi circa il nostro modo di essere, inducendoci a modificarlo.
Ma per comprendere queste cose è necessario capire e soprattutto interiorizzare che il due viene prima dell’uno, perché a generare l’uno è il due. Lo sanno benissimo le donne, più dei maschi, perché il loro corpo, sia che generino sia che non generino, è ordinato biologicamente e psicologicamente anche per l’altro da sé, per cui la relazione viene tendenzialmente prima della loro identità che, in generale, trovano nella relazione. Questo spiega perché le donne tendenzialmente desiderano generare e sono propense, più dei maschi, ad accudire. Ma questo spiega anche perché le donne solitamente esprimono la loro sessualità a partire dalla relazione, mentre i maschi non disdegnano di esprimerla anche a prescindere.
Entrando più specificatamente nel tema che la sua lettera propone: se quando i bambini in età prescolare esprimono la loro visione del mondo con i disegni che mostrano ai genitori, o con le domande che pongono loro, noi prestiamo interesse e attenzione, questi bambini si sentono riconosciuti e il riconoscimento è alla base della costruzione di un’identità positiva; se invece trascuriamo le loro domande o non valutiamo i loro tentativi di descrivere come avvertono il mondo intorno a loro, il messaggio che mandiamo è che quello che fanno non è per noi di alcun interesse. E loro concludono che non contano niente ai nostri occhi e quindi che non valgono niente. Premessa, questa, che porta all’autosvalutazione, per compensare la quale costruiscono un’identità negativa.
Abbiamo dimenticato infatti che, come dicevano a più riprese gli antichi Greci: «L’uomo è un animale sociale», e perciò non trova una propria identità se non nella relazione con l’altro, che può essere positiva e quindi costruttiva o negativa e di conseguenza distruttiva. Del resto lo diceva con chiarezza Aristotele: «Siccome l’uomo non è autosufficiente, la comunità e quindi la città (pólis) viene per natura prima dell’individuo, e chi non è in grado di entrare in relazione con gli altri, o per la sua presunta autosufficienza non ne sente il bisogno, o è bestia o dio» (Politica, 1295 b).
Con l’introduzione del concetto di "anima", il cristianesimo ha affermato il primato dell’individuo rispetto alla comunità, facendoci scordare che la relazione con l’altro e il riconoscimento che dall’altro otteniamo sono il fondamento della nostra identità. E questo anche quando con le guerre uccidiamo i nostri simili, perché, come ci ricorda Hegel: «Mentre gli animali uccidono per nutrirsi, gli uomini sottomettono e uccidono i propri simili per avere dai vinti il riconoscimento del loro superiorità».
Spero che queste considerazioni non le raggelino ulteriormente il sangue, ma la persuadano che non siamo creatori di noi stessi: ci piaccia o meno, anche per la costruzione della nostra identità, quindi anche per ciò che c’è di più intimo a noi stessi, dipendiamo dagli altri. Nessuno di noi nasce con un’identità, perché l’identità è frutto del riconoscimento che ci proviene da chi ci è accanto, quindi è un fatto sociale
Singolo e società non sono due entità opposte, l’uno non esiste senza l’altra e viceversa
Così i filosofi hanno introdotto una nuova categoria, che si adatta anche alla scienza
Perché siamo diventati tutti “transindividuali”
di Roberto Esposito (la Repubblica, 14.04.2014)
POCHI concetti come quello di individualismo sono oggetto di sguardi così contrastanti. Considerato dagli uni come il portato essenziale della modernità, è visto da altri come una potenziale minaccia alla dimensione della vita associata. La stessa opposizione metodologica tra modello individualistico, che parte dal singolo, e modello olistico, che privilegia la totalità rispetto alle parti, si è rivelata poco utilizzabile quando ci si trova di fronte a fenomeni irriducibili a schemi dicotomici. Nei suoi Saggi sull’individualismo ( Adelphi) l’antropologo Louis Dumont, ad esempio, ha dimostrato come il nazionalismo non sia riducibile a nessuno di questi due modelli, ma nasca precisamente dalla loro sovrapposizione.
ESSO è l’esito dell’applicazione della concezione individualistica, non al singolo individuo, ma allo Stato rispetto agli altri Stati. La verità è che le dinamiche socio-culturali contengono al proprio interno un elemento proveniente dal loro contrario. È stato così per il liberalismo, che a un certo punto ha dovuto inglobare misure di protezione sociale.
Ma qualcosa del genere si può dire anche della globalizzazione, che si sviluppa generando al suo interno tendenze localistiche ed identitarie. La difficoltà in cui oggi si dibattono le scienze sociali dipende anche dalla sottovalutazione di questa legge fondamentale, relativa al carattere autocontraddittorio dei concetti politici moderni di popolo, sovranità, rappresentanza. E anche di individuo. Tipica di questa vera e propria miopia epistemologica è il contrasto che comunemente si pone tra esso e la società.
L’intera tradizione sociologica si divide sul primato che assegna ad uno di questi due termini a detrimento dell’altro. O si immagina che gli individui precedano la società, costituendola attraverso la loro aggregazione, o al contrario che sia soltanto questa a determinare il comportamento degli individui. Entrambi questi presupposti, evidentemente errati, sono adesso messi in discussione da una prospettiva più raffinata che fa capo alla categoria di “transindividuale”.
Originata in Francia dai pioneristici lavori di Gilbert Simondon su l’individuazione psichica e collettiva (una traduzione del suo testo principale, così intitolato, è stata curata da Paolo Virno per Deriveapprodi), è adesso ripresa e sviluppata in un volume collettaneo introdotto da Étienne Balibar e Vittorio Morfino, edito da Mimesis con il titolo Il transindividuale .
Contro tutte le interpretazioni che antepongono l’individuo alla società o viceversa, Simondon cerca di pensarli insieme, spostando lo sguardo dall’individuo già formato al processo di individuazione, di cui esso è solo l’esito provvisorio, destinato a riprodurre una nuova dinamica relazionale. In tal modo la stessa società appare, piuttosto che una entità trascendente il libero gioco degli individui, il processo, mai definitivamente compiuto, della loro costituzione momentanea.
Ma l’elemento forse più suggestivo dell’ipotesi di Simondon è la sua traducibilità all’interno di altri saperi come l’antropologia e la psicologia, la linguistica e la biologia, fino alla filosofia della mente e alla teoria della storia. In questa chiave, per esempio, Andrea Cavazzini può dimostrare come gli “individui” con cui ha a che fare la biologia - specie, organismi, geni - tutt’altro che elementi originari, non sono che il risultato di combinazioni preindividuali convergenti in una trama di rapporti complessi.
A sua volta Felice Cimatti, rifacendosi alla prospettiva dello psicologo russo Lev Vygotskij, sostiene che l’evoluzione psichica dell’individuo non solo non è collocabile al di fuori del contesto sociale, ma si origina da un vero e proprio trapianto dell’esterno nell’interno. A differenza di quanto accade per un castoro, fin dall’inizio inchiodato alla sua natura - programmato a costruire dighe - l’uomo può optare tra le dighe e i ponti, oppure attraversare il fiume a nuoto. E ciò perché quella che chiamiamo “essenza umana” si trova al di fuori della costituzione biologica del singolo individuo, facendo capo a una rete di connessioni sociali.
Né il cognitivista, che immagina la mente umana originariamente provvista di tutte le informazioni necessarie, né il comportamentista, che invece la considera vuota e perciò in balìa di stimoli esterni, colgono questo elemento transindividuale che destabilizza entrambi i modelli.
Un ultimo esempio della fungibilità di tale paradigma è fornito da Francisco Naishtat nell’ambito della teoria della storia. Alla domanda sulla responsabilità degli eventi storici - del singolo o del collettivo - egli replica con una risposta che taglia obliquamente le ipotesi contrapposte. Il verificarsi di un evento non può essere ascritto né all’individuo né al collettivo, dal momento che esso è costituito da una catena multipla, composta da una miriade di azioni individuali, ma irriducibile ad essa. Nella notte del 14 luglio 1789, giorno della presa della Bastiglia, Luigi XVI scrive sul diario «Rien» - che non è accaduto nulla.
Certo, non era uomo di particolare perspicacia. Ma la cosa dimostra che un evento, pure decisivo come quello, per stagliarsi sui microfatti insignificanti di cui è composto, va inserito all’interno di un quadro interpretativo più ampio e multipolare di quello concesso ad un singolo uomo.
Tolstoj, la fine della gioia. I racconti delle ossessioni
Depressioni e paure dopo «Guerra e pace»
«Dio è un’incognita, senza la quale nulla esiste»
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 02.07.2013)
Quali impressioni sconvolgenti destano, in chi esca dalla lettura di Guerra e pace e di Anna Karenina, i racconti tolstojani degli anni ottanta! Là, anche dove il destino si accaniva con più ferocia sulle creature di luce, avevamo l’impressione della libertà, della ricchezza, della varietà, della molteplicità di connessioni della vita; e con quale gioia ne percorrevamo i labirinti.
Le Memorie di un pazzo, la Morte di Ivan Il’ic, Il diavolo, La Sonata a Kreutzer sono invece storie di un’ossessione: ossessione di una malattia psicologica, della morte, dell’eros, dell’odio.
Come se avesse dimenticato i colori della primavera e dell’estate, ora Tolstoj vive al chiuso, prigioniero del chiuso, tetramente trionfante nella propria claustromania. Non c’è libertà ma costrizione: non respiriamo ma soffochiamo. Se là Tolstoj intrecciava tutte le dimensioni e i toni diversi, facendoli echeggiare uno nell’altro, ora egli sceglie una sola dimensione, un solo tono, in capolavori di cupa monotonia. Kafka ha molto amato alcuni di questi racconti.
Le Memorie di un pazzo, scritte nel 1884, fingono di essere l’autobiografia di un proprietario di terra: mentre, in realtà, rivelano gli acutissimi punti di crisi nella tarda esistenza di Tolstoj.
All’inizio siamo nel 1869, subito dopo il completamento di Guerra e Pace, «quest’orgia», come confessò più tardi alla cugina Aleksandra. Tolstoj si sentiva abbandonato dalla fantastica e lucidissima ebbrezza dove aveva abitato per qualche anno, e senza la quale «non è possibile vivere». Aveva vissuto immerso nella musica continua della vita: ora, all’improvviso, si sentiva gettato fuori dall’esistenza, che si arrestava davanti ai suoi occhi, fissa, immobile, sclerotica, funeraria. Se la vita si era arrestata così all’improvviso, come poteva non arrestarsi anche lui? Guardava tutte le cose come se fosse stato un morto tra i morti: non vedeva più quanto c’era da vedere: non sentiva più quanto gli altri sentivano; ogni piacere intellettuale e poetico era perduto. Non desiderava più nulla.
* * *
Il protagonista delle Memorie di un pazzo decise di lasciare la propria casa insieme al suo servo, per vedere un possedimento con un grande bosco, che desiderava acquistare. Quando scese la sera, viaggiava in carrozza, per metà assopito. All’improvviso si svegliò, perché l’aveva attraversato non so quale terrore. Gli balenò in mente che non avrebbe dovuto a nessun costo spingersi in queste contrade remote, che sarebbe morto quaggiù, lontano da casa. E gliene venne un brivido. Incominciò a provare una stanchezza, un desiderio di sosta.
Aveva l’impressione che entrare in una casa, vedere gente, bere del tè e sopratutto dormire, l’avrebbe risollevato. Decise di pernottare nella città di Arzamàs. Arrivò alla casa di posta: era bianca, e gli sembrò tremendamente triste, tanto da dargli un nuovo senso di ribrezzo. Smontò a terra adagio adagio. Entrò. C’era un corridoietto. Un uomo sonnolento, con una macchia su una guancia (quella macchia gli sembrò orribile) gli indicò una stanza con la mano.
Era una cameretta tetra, quadrata, bianca di calce, con una sola finestra dalle tende rosse. Che la cameretta fosse quadrata, gli riuscì stranamente penoso. Così, per mezzo del suo protagonista, Tolstoj penetrò per la prima volta nel mondo quadrato: proprio lui che aveva rappresentato la vita come qualcosa di sinuoso, circolare, femminile. Una volta il quadrato era per lui il segno dell’intelligenza astratta, dei programmi e dei propositi: ora, nella casa di posta di Arzamàs, diventa l’incarnazione degli orrori che germogliano tra le pareti della nostra mente.
Mentre il servo metteva su il samovàr, il protagonista si allungò sul divano. Non dormiva. Gli faceva paura alzarsi, allontanando il sonno: perfino stare seduto in quella camera gli faceva paura. Cominciò ad assopirsi. E dovette prender sonno, giacché - quando riaprì gli occhi - nessuno c’era più nella stanza, ed era buio. Riaddormentarsi (lo sentiva) non era possibile. Perché era venuto quaggiù? Dove andava portando sé stesso? Da che, e dove fuggiva? «Io fuggo - si diceva - da qualcosa di tremendo, e non posso sfuggirne. Io sto sempre con me stesso, e sono proprio io che riesco tormentoso a me stesso. Eccolo, quest’io: sono tutto qui». Avrebbe voluto addormentarsi, perdere coscienza, ma non poteva. Non poteva allontanarsi da se stesso.
Le sensazioni che il protagonista provò - il terrore indeterminato, la camera bianca e quadrata, l’unica finestra rossa, la angoscia del sonno e dell’insonnia, l’orrore di sé stesso - sono le prime, acutissime sensazioni di un accesso di mania depressiva, che viene fisicizzato, trasformato in oggetti, e proiettato all’esterno. Quando il protagonista-Tolstoj uscì nel corridoio, credette di allontanarsi da ciò che lo faceva soffrire. Ma quello gli era uscito dietro, e spandeva su tutto la sua tetraggine: sempre a un modo. «Ma insomma - disse a sé stesso - di che cosa m’angoscio, di che cosa ho paura?». «Di me - rispose senza suono la voce della morte - Io sono qui». Un brivido gli fece aggricciare il corpo. «Sì, la morte. Verrà, quella, verrà: già eccola; eppure non deve esistere». Vedeva, sentiva che la morte incombeva sopra di lui e, nello stesso tempo, sentiva che essa non doveva esistere. Questa lacerazione interiore era spaventosa. Tentò di scrollarsi di dosso quell’orrore. Trovò un candelabro di bronzo, con la candela ridotta a un mozzicone, e l’accese. Il candelabro, la fiamma rossa della candela, tutto intorno a lui gli ripeteva la stessa cosa. «Non c’è nulla nella vita: c’è la morte. Eppure essa non deve esistere».
Il protagonista provò a pensare a ciò che di solito lo interessava: l’acquisto dei terreni, sua moglie. Ma tutto era sparito sotto lo spavento di questo disfarsi della propria vita. Bisognava dormire. Appena coricatosi, balzò su dal terrore. E un’angoscia, un’angoscia - un’angoscia nell’animo, identica a quella che precede il vomito: solo spirituale. Poteva sembrare un orrore della morte, ma se rifletteva, era il morire della vita che lo spaventava. La vita e la morte confluivano in una cosa sola. Ancora una volta provò a dormire: sempre quel medesimo orrore, rosso, bianco, quadrato. Dolore straziante, e senso straziante di aridità e di rancore: non una stilla di bontà, ma solo un eguale, calmo rancore contro sé stesso e contro ciò che o chi l’aveva creato.
Quando Tolstoj tornò a casa, riprese a vivere come prima. Bisognava che la sua vita si svolgesse senza mai sosta, e, sopratutto, senza mai uscire dalle condizioni abituali. Come uno scolaro recita senza pensarci una lezione imparata a memoria, allo stesso modo lui doveva vivere la vita, per non cadere di nuovo in balia di quella angoscia, che per la prima volta l’aveva assalito ad Arzamàs. L’acutissima mania depressiva diventò abitudine.
Viveva apatico, indifferente a tutto e a tutti: triste, abbattuto, senza emozione e senza gioia, per giorni e settimane intere: ogni fiamma sembrava spenta nella sua anima: aveva voglia di piangere: temeva di essere malato; gli sembrava che tutto fosse finito per lui, e non gli restasse che morire.
* * *
Anni dopo, il protagonista di Memorie di un pazzo dovette andare a Mosca. Arrivò d’ottimo umore, e scese all’albergo. Entrò nella sua piccola camera. Il greve tanfo del corridoio gli stava nelle narici. La cameriera accese la candela. La fiamma calò, poi si ravvivò, illuminando il turchino strisciato di giallo delle pareti, il tramezzo, il tavolo logoro, il divanetto, lo specchio, la finestra e l’angustia di tutta la cameretta. E d’improvviso, il terrore di Arzamàs gli si commosse dentro: i piccoli oggetti quotidiani incarnavano l’orrore; ciò che era fisico suscitava uno spavento metafisico. «Dio mio! Come farò a pernottare qui dentro?» pensò.
Per salvarsi, decise di andare a teatro con un amico: si infilò la rigida, gelida camicia inamidata, abbottonò i polsini, indossò la redingote, calzò le scarpe nuove. A teatro, mentre vedeva il Faust, e dopo teatro, al ristorante, il tempo passò piacevolmente: l’angoscia di Arzamàs sembrava dimenticata.
Passò una nottata terribile: peggiore di quella di Arzamàs. Soltanto la mattina si addormentò; e non sul letto, dove aveva provato invano a stendersi tante volte, ma sul divano. Tutta la notte aveva sofferto in maniera intollerabile: di nuovo, tormentosamente, si dilacerava l’anima dal corpo.
«Io vivo - pensava - ho vissuto, vivrò ancora; e tutt’a un tratto, la morte, l’annientamento di ogni cosa. A che scopo, dunque, vivere? Morire? Uccidersi subito? Mi fa paura. Vivere, allora. Ma a che scopo? Per morire?». Non usciva da questo circolo. Pregava Dio: «Se tu esisti, rivelami dunque: a che scopo, cosa sono io?». Si curvava a terra, recitava quante preghiere sapeva, ne componeva di sue, e poi soggiungeva: «Rivelami dunque!». E restava in silenzio, in attesa d’una risposta. Ma risposta non c’era, come se non ci fosse, neppure, qualcuno che potesse rispondergli.
Nelle ultime pagine delle Memorie di un pazzo, qualcuno risponde al protagonista e a Tolstoj: ci sono le Scritture, le vite dei santi, il pane consacrato, i mendicanti. Finisce, o finisce per qualche tempo, l’angoscia e il timore. Da lontano, Dio invia la sua luce, e salva Tolstoj dalla disperazione e dalla morte. Così, diventa l’alfa e l’omega, il principio e la fine. Questo Dio è una X, un come se, un’incognita: «ma sebbene il significato di questa X ci sia sconosciuto - insiste Tolstoj - senza questa X non si può cercare di risolvere, ma neppure porre nessuna equazione».
Le due Sonate a Kreutzer
Della famiglia Tolstoj
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 09.04.2015)
Caro Montagna,
Sofia Tolstaja non fu soltanto la devota moglie del grande scrittore russo e la madre dei suoi tredici figli. Copiava e correggeva le opere del marito, teneva i rapporti con gli editori e i funzionari della censura, amministrava i suoi beni. Avrebbe fatto una brillante carriera letteraria se non avesse deciso di vivere nell’ombra di Lev limitandosi a due traduzioni dal tedesco e dall’inglese, a qualche poesia, alla occasionale pubblicazione di articoli su giornali e riviste.
Non è sorprendente, quindi, che questa donna sensibile e intelligente abbia letto con un certo smarrimento un romanzo breve che Tolstoj scrisse nel 1889. Nella Sonata a Kreutzer è raccontata la lunga conversazione di un uomo con il suo compagno di viaggio sul treno che attraversa da un paio di giorni le sterminate pianure russe. L’uomo (Pozdnyshev) prova l’irresistibile bisogno di confessare una pagina oscura e drammatica della sua vita. Aveva sposato la donna di cui era innamorato, una giovane pianista, ma non aveva mai cessato d’interrogarsi sulla sessualità maschile e femminile alternando propositi virtuosi a turbamenti carnali. Era convinto che ogni donna, nobile dama o prostituta, fosse dominata dal desiderio di sedurre e che tutte, quindi, fossero virtualmente impure.
Il dramma della gelosia esplose quando nella vita dei coniugi apparve un brillante violinista con cui la moglie amava esercitarsi al pianoforte. E si concluse drammaticamente quando il marito assistette a una esecuzione della Sonata a Kreutzer di Beethoven in cui il violino e il piano erano appassionatamente affiatati. Convinto di un adulterio che non era avvenuto, Pozdnyshev aveva ucciso rabbiosamente la moglie con un colpo di pugnale. Durante il suo lungo viaggio attraverso la Russia, il marito si dimostra consapevole della propria colpa, ma il racconto sembra suggerire che il potere seduttivo della donna possa giustificare la gelosia maschile.
È probabile che Sofia Tolstaja abbia visto nel romanzo alcuni tratti del carattere e della natura del marito. La Sonata a Kreutzer non era soltanto un’opera della fantasia. Era anche la confessione dell’autore, la rivelazione della sua latente misoginia e delle sue ossessioni sessuali. La risposta, quindi, doveva essere letteraria. Qualche anno dopo la pubblicazione del breve romanzo del marito, Sofia scrisse una «contro-Sonata a Kreutzer» in cui Anna, una giovane donna sensibile, attratta dall’arte e dalla natura, sposa un uomo dominato da una sessualità prorompente e da una incontrollabile gelosia. Come nella Sonata, anche nella «contro-Sonata» il marito, convinto dell’infedeltà della giovane moglie, la uccide. Ma la mano che guida il lettore attraverso questo secondo dramma della gelosia è quella di una donna che si riconosce nei sentimenti della protagonista. E il risultato è una versione rovesciata del racconto di Tolstoj.
Il manoscritto di Sofia Tolstaja, intitolato Di chi la colpa? A proposito della Sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj, è rimasto lungamente inedito. Ne esiste ora la traduzione italiana di Nadia Cicognini pubblicata da La Tartaruga Edizioni con il titolo Amore colpevole.
Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia
Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo
La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare
di Franca D’Agostini (La Stampa, 25.03.2012)
Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .
C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.
Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.
Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?
Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.
In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne - così si dice - avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.
Ma l’altra ipotesi - che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono - sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.
Trent’anni dopo «Il pensiero debole»: la lunga fedeltà all’ermeneutica, mancando i fatti
Vattimo, la libertà il nostro abisso
«Della realtà»: il nichilismo come caratteristica saliente della cultura contemporanea Un mondo che moltiplica vorticosamente le sue prospettive, venuta meno ogni ipotesi metafisica
Gianni Vattimo DELLA REALTÀ Garzanti, pp. 231, 18 di Federico Vercellone (La Stampa TuttoLibri, 03.03.2012)
Sono ormai trascorsi quasi trent’anni da quando apparve presso Feltrinelli, a cura di Gianni Vattimo e di Pier Aldo Rovatti, un volume che ha smosso gli animi e fatto epoca, Il pensiero debole. Fu subito chiaro che si era toccato un nervo scoperto. In breve la questione era la seguente: si doveva constatare che la società di massa era andata trasformandosi in una civiltà dei media dominata dall’ immagine. I grandi guru della critica della cultura, non importa se di sinistra e di destra, avevano guardato al fenomeno con un occhio implacabilmente critico. Ma, come sempre, non tardò ad arrivare il tradimento di un chierico. E non poteva che essere un transfuga di grande livello a difendere l’avversario di sempre.
L’interrogativo posto da Vattimo era se davvero il mondo immaginario dominato dai media fosse un vuoto fantasma. O se non si trattasse invece di un universo che possedeva impreviste chances di emancipazione. Se non si trattasse di una cultura - era questa l’ipotesi «debolista» - che consentiva davvero il realizzarsi del sogno liberale e illuminista di un mondo pluralista, ove tutte le individualità potevano esser contemplate e riconosciute nella loro peculiarità. E’ il sogno postmoderno.
Gianni Vattimo enunciò l’idea che la possibilità di possedere molte televisioni si configurava come un pluralismo inedito, sconosciuto ai mondi precedenti che si erano fissati sull’unicità della verità. Grazie a questo passo egli incarnò, agli occhi di una parte consistente dell’élite culturale, l’immagine di colui che ha cambiato sponda per unirsi ai vincitori. La polemica contro il pensiero debole divenne così una polemica contro la cultura dominante da parte di un settore significativo della casta dominante della cultura. E la cosa è continuata sino a tempi recentissimi anche grazie al recente dibattito sul «nuovo realismo».
E’ venuto dunque il momento di fare bilanci equilibrati di una vicenda filosofica in trasformazione e ancora in atto, che ha attraversato fasi diverse e anche autocritiche. Proprio Gianni Vattimo ci fornisce questa occasione grazie al suo libro più recente, Della realtà, pubblicato ora da Garzanti nel quale raccoglie e rielabora scritti degli ultimi quindici anni raccolti intorno a due nuclei di lezioni tenute nel 1998 a Lovanio e nel 2010 a Glasgow (le prestigiosissime «Gifford Lectures»). Com’è ben noto, il pensiero di Vattimo fa riferimento a una tesi di Nietzsche, secondo la quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni», laddove anche questa «è un’ interpretazione».
Le obiezioni principali formulate contro questa tesi sono due. La prima è di natura epistemologica: su questa via viene messa in questione la verità della scienza. La seconda è invece di ordine pratico-morale: se tutto è interpretazione, ogni cosa diviene opinabile. Così diventa lecito negare l’Olocausto ma anche, perché no?, viaggiare in controsenso sull’autostrada. Ora, per quanto mi risulta, né Gianni Vattimo né altri rappresentanti del pensiero ermeneutico hanno mai rifiutato di farsi visitare dal medico a causa di una sfiducia preconcetta nei confronti della scienza o, anche tralasciando l’Olocausto, hanno attentato in automobile, emuli di Marinetti, alla vita propria e a quella altrui. Se le cose stanno così, ci sarà qualche buon motivo per rivisitare la questione da un altro punto di vista.
Anche in questo libro Vattimo afferma che il nichilismo, che si prospetta con forza nella tradizione Nietzsche Heidegger, costituisce una caratteristica saliente della cultura contemporanea (postmoderna e oltre...). Il nichilismo comporta che l’universo abbia perduto il proprio cardine, l’idea di Dio come Essere Supremo, certezza ultima della consistenza del creato, della sua coerenza, garanzia della verità delle nostre conoscenze, sigillo di un ordine buono e giusto. Quando il fulcro di quest’ordine grandioso viene meno, quando, per dirla con Nietzsche, si scopre che «Dio è morto», si spalanca un abisso. Alla verità ultima sancita dalle salde architetture della metafisica, si sostituisce un mondo che, in assenza di un fuoco dello sguardo, moltiplica vorticosamente le proprie prospettive.
In questo ambito si diviene consapevoli della radicale storicità dell’esistenza, dei saperi, e di tutto il tessuto di concetti che li compongono. E’ il mondo totalmente tecnicizzato che ci è consueto, nel quale tuttavia si spalanca un’altra volta, grazie alla consapevolezza profonda del carattere divenuto di noi stessi e del mondo, l’abisso della libertà.
Quali criteri, per scegliere secondo verità e giustizia, vanno adottati in questo contesto nel quale non siamo confortati da alcuna oggettività stabile? Probabilmente, per cominciare a sbrogliare la matassa, dobbiamo ricordarci, come ci insegna molta biologia contemporanea, che neppure la natura è «oggettiva», ma è attraversata da moti di autorganizzazione creativa che la rendono molto prossima alla cultura.
Il DNA della morale
di Roger Scruton (la Repubblica, 26 febbraio 2012)
Gli esseri umani sono differenti tra loro e vivono in modi differenti. Dovremmo accettare che siamo diversi per natura perché abbiamo seguito tanti percorsi dell’evoluzione? O dovremmo supporre che condividiamo con gli altri l’eredità biologica, ma che lo sviluppo si diversifica per l’ambiente e la cultura? Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha rivisitato il noto dibattito "natura-cultura", che resta un elemento centrale della nostra comprensione della natura umana e dell’etica. Per buona parte del XX secolo, gli studiosi delle scienze sociali hanno sostenuto che la vita umana è un fenomeno biologico a sé stante che procede lungo i canali tracciati della cultura, acquisendo in questo modo forme distinte e spesso reciprocamente inaccessibili. Ogni società tramanda la cultura che la definisce, analogamente a come trasmette la propria lingua. I più importanti aspetti della cultura - la religione, i riti di passaggio e le leggi - hanno sia la funzione di unificare le persone che vi aderiscono sia quella di dividere costoro da tutti gli altri.
Recentemente, gli psicologi dell’evoluzione hanno iniziato a mettere in discussione questo approccio. Anche se la cultura di una tribù può essere considerata un patrimonio ereditato - argomentano - resta da spiegare come questa nasce. Che cos’è che fornisce alla cultura la sua stabilità e la sua funzione? Nel tentativo di rispondere alla domanda si è cominciato a rafforzare il punto di vista secondo cui la cultura non fornisce la spiegazione definitiva di alcuna caratteristica umana importante e nemmeno quella della diversità culturale.
E non si tratta semplicemente delle costanti straordinarie che si riscontrano nelle diverse culture - i ruoli di genere, il tabù dell’incesto, le celebrazioni, la conduzione di guerre, le religioni, gli scrupoli morali o gli interessi estetici - ma del fatto che la cultura è anche parte della natura umana: è il nostro modo di essere. Le nostre gerarchie prevedono incarichi, responsabilità, lo scambio di doni e il riconoscimento cerimoniale. Tutti questi elementi sono compresi nel concetto di cultura, che così intesa è osservabile in tutte le comunità di esseri umani e solo in queste. Perché?
La spiegazione degli psicologi dell’evoluzione è che la cultura è un adattamento. Esiste perché forniva un vantaggio nella riproduzione ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori. Secondo questo punto di vista, molte delle abitudini che il modello standard delle scienze sociali imputa alla cultura sarebbero variazioni locali di attributi acquisiti settanta o più millenni fa, nel Pleistocene, e che sono ormai profondamente "cesellati nel cervello" come altri adattamenti dell’evoluzione. In tal caso, le caratteristiche culturali potrebbero non essere tanto plastiche quanto sostengono gli studiosi delle scienze sociali.
Ci sono delle caratteristiche della condizione umana, come i ruoli di genere, che le persone ritengono essere di ordine culturale e pertanto modificabili. Se però si considera la cultura un aspetto della natura, allora non equivale più a qualcosa di "modificabile". Queste caratteristiche controverse della cultura potrebbero essere parte del patrimonio genetico del genere umano. La teoria evoluzionistica della moralità ha rafforzato questo nuovo pensiero. I fautori della cultura considerano l’etica una caratteristica acquisita, trasmessa dagli usi, dalle leggi e dalle punizioni con le quali una società riafferma i propri diritti nei confronti dei suoi membri. Lo sviluppo della genetica, però, apre nuove prospettive.
L’"altruismo" comincia ad apparire come una "strategia" genetica, che conferisce un vantaggio per la riproduzioni ai geni che lo praticano. In questo caso, si sostiene, il comportamento morale non sarebbe una caratteristica acquisita, ma ereditata. Le specie concorrenti che non sono riuscite a sviluppare sentimenti a questo punto sarebbero sparite. E ciò che vale per l’etica potrebbe valere anche per altre caratteristiche umane attribuite finora alla cultura: il linguaggio, l’arte, la musica, la religione, la belligeranza, tutte caratteristiche le cui varianti locali sono molto meno significative della loro struttura comune.
Nel suo saggio Tabula rasa, Steven Pinker riunisce le prove che lo portano a concludere che le nostre capacità fondamentali siano un risultato dell’evoluzione e quindi modificabili solo negli aspetti in cui la malleabilità conferisce un vantaggio nella riproduzione. Questo argomento è stato sviluppato meticolosamente ed è impossibile negare la consistenza delle prove scientifiche portate a sostegno. Si consideri, per esempio, la divisione dei ruoli osservabile dovunque tra uomini e donne. Le ragioni per concludere che si tratti del frutto di una selezione avvenuta nelle condizioni che minacciavano i nostri antenati di estinzione sono potenti. Tanto più se si considera l’evidente neotenia degli esseri umani, ossia la caratteristica di generare una prole dotata di un cervello grande, ma che non è in grado di prendersi cura di sé prima dei dieci anni (oggi nemmeno a questa età). La neotenia costituisce un enorme vantaggio nell’evoluzione, ma ha un costo biologico alto. Le specie i cui figli sono vulnerabili come la prole del genere umano hanno bisogno per potersi riprodurre di contare su una difesa organizzata e su una avanzata capacità di costruire rifugi. Su queste fondamenta è stato costruito il castello romantico della differenza sessuale.
I progressi delle neuroscienze cominciano a suggerire che, se da una parte il cervello è malleabile e adattabile, dall’altra esso presenta limiti e connessioni impressi senza la nostra consapevolezza. Di conseguenza alcuni meccanismi possono condizionare il nostro processo decisionale senza che noi riusciamo a contrastarli. Charles Whitman, che nel 1966 uccise 13 persone e ne ferì altre 32 sparando dall’alto della torre dell’Università ad Austin, Texas, ma che fino a quel momento era stato una persona dal carattere mite, spiegò di aver sentito che qualcosa non andava nella sua testa. Fu ucciso da un tiratore scelto della polizia e la sua autopsia rivelò un piccolo tumore che premeva sull’amigdala, una zona del cervello che le neuroscienze considerano la sede delle reazioni viscerali grazie alle quali proteggiamo il nostro spazio.
Si poteva quindi accusare Whitman per quello che aveva fatto? Partendo dal caso Whitman, David Eagleman (neuroscienziato americano della Rice University, ndr) sostiene che dovremmo rivedere la nostra concezione della responsabilità legale e morale, per arrivare ad accettare che la maggior parte di ciò che facciamo e sentiamo poggia su processi che non possiamo controllare. Il cervello si muove in incognito dietro le nostre decisioni consapevoli così come, passeggiando sulla coperta di un grande transatlantico, abbiamo la sensazione di spostarla con i nostri passi. Eagleman sostiene che la maggior parte delle cose che facciamo è più influenzata da processi inconsci che consci e che concetti quali responsabilità e libertà non sopravviveranno intatti ai progressi delle neuroscienze. Che sia stata la natura o la cultura a conformare il nostro cervello, questa conformazione non è per la maggior parte opera nostra e non è niente che vada a nostro merito o demerito.
Credo però che Eagleman non abbia descritto il problema correttamente. L’idea che lui propone di un "io" fragile che cavalca l’elefante della materia grigia pretendendo di averlo sotto controllo, non rappresenta in maniera giusta la natura dell’atto autoreferenziale. La parola "io" non si riferisce a una qualche "parte" conscia della persona, il resto della quale è un "esso" passivo e nascosto. L’"io" è uno dei termini della relazione io-tu, che è a sua volta un rapporto di responsabilità nel quale l’intera persona è coinvolta. L’uso del pronome corrispondente alla prima persona serve a sottoporre me stesso al giudizio dell’altro; serve ad assumersi la responsabilità per un gran numero di cambiamenti che avvengono nel mondo e in particolare per quelli di cui l’altro ragionevolmente mi può chiedere conto chiedendomi semplicemente "perché?". Questa domanda costituisce le fondamenta di una impresa cooperativa nella quale noi deriviamo dagli altri le ragioni, i significati e le scelte che ci rendono intelligibili.
Siamo certamente degli esseri umani, ma siamo anche persone. Gli esseri umani costituiscono un genere biologico e sta alla scienza descriverlo. Probabilmente lo farà così come suggerito dai biologi dell’evoluzione. Le persone invece non costituiscono un genere biologico né un qualsiasi altro genere naturale. Il concetto di persona prende forma in un altro modo. Il "perché?" che mira a comprendere la persona non è il "perché?" della deduzione scientifica. E la risposta prevede una concettualizzazione del mondo dal punto di vista della libertà e della scelta. Le persone fanno quello che fanno secondo quello che succede nel loro cervello. Tuttavia, quando il cervello è normale, il loro agire risponde anche ad altre ragioni, delle quali sono consapevoli e responsabili.
Possiamo educare i bambini con intrattenimenti che assopiscano il loro rapporto con il mondo reale e riconformare le reti neuronali dalle quali dipende il loro sviluppo morale. La ricerca della gratificazione immediata può togliere lo spazio al senso di agire responsabile che ha un respiro a lungo termine. Se i bambini imparano a salvare la loro memoria nei computer e la loro vita sociale in gadget portatili, allora gradualmente la memoria e l’amicizia appassiranno per ricomparire solo fugacemente come fantasmi degli archivi digitali. Se, al contrario, si permette ai bambini di interagire con figure reali, la grammatica della responsabilità della prima persona emergerà seguendo un proprio ritmo.
Descrivere le caratteristiche degli esseri umani come adattamenti non vuol dire affermare che le
comprendiamo. Di conseguenza anche se accettiamo gli argomenti della psicologia dell’evoluzione,
il mistero della condizione umana rimane. Questo mistero è contenuto in una singola domanda:
come si può spiegare in quanto animale e comprendere in quanto persona la stessa identica cosa?
(Traduzione di Guiomar Parada)
Due saggi di Perconti e Desideri riflettono su esperienze soggettive ed estetiche
Perché la coscienza non è solo interiore
Già nel secolo scorso filosofi e psicologi hanno sostenuto che per individuare la natura di questa facoltà occorre guardare soprattutto alla realtà esterna
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 04.10.2011)
In inglese, ci racconta Schopenhauer, era solito dire «non sono abbastanza ricco da permettermi una coscienza», questa entità nobile e interiore. Ma è davvero così? Se leggiamo Coscienza di Pietro Perconti (il Mulino, pagg. 216, euro 13,50) vediamo quanto sia potentemente determinata da due esteriorità.
La prima è il corpo. Cosa ci succederebbe se di colpo ci trovassimo con una faccia diversa? Impressionante. E questo sottilmente verrebbe a toccare la nostra coscienza. Per la coscienza è essenziale quello che gli studiosi contemporanei chiamano "embodiment", "incorporazione", ma se traducessimo, come è anche del tutto legittimo, con "incarnazione", ci renderemmo conto di quanto antica sia questa intuizione. Perciò nel secolo scorso filosofi e psicologi comportamentisti hanno risolutamente sostenuto che non si tratta di scavare nell’interno, ma di guardare all’esterno, sino a dare argomenti per una famosa barzelletta da professori. Quella dei due comportamentisti che fanno l’amore e poi lui dice a lei: «A te è piaciuto moltissimo. E a me?». Sono esagerazioni, ma rappresentarsi la coscienza come qualcosa di puramente interiore è insufficiente, per quanto possa apparirci naturale. Perché ci appare altrettanto naturale cercare la coscienza nei volti degli altri, o persino (è un tema a cui Perconti dedica una lunga analisi), nello specchio, un po’ come la regina di Biancaneve. Quando - succede anche questo - ci guardiamo nello specchio dell’ascensore per cercare di capire il nostro umore, non ci comportiamo molto diversamente dai comportamentisti della barzelletta.
Quanto poco sia vero che la nostra coscienza si riduca all’interiorità lo si capisce ancor meglio se si guarda all’esperienza estetica, d’accordo con uno dei fili conduttori di un altro libro uscito di recente, La percezione riflessa (Raffaello Cortina, pagg. 230, euro 23) di Fabrizio Desideri, che getta un ponte tra estetica e filosofia della mente. Che cosa avviene quando troviamo bella una cosa o un paesaggio? Sarebbe sbagliato credere che la bellezza la mettiamo tutta noi, con la nostra coscienza o sensibilità, sarebbe troppo facile. Sicuramente l’apprezzamento viene da noi, non esiste bellezza degli oggetti se non per soggetti che li riconoscono. Però, al tempo stesso, fa parte dell’apprezzamento l’assumere che il bello, una qualità emotiva molto elevata, ha luogo lì fuori, nell’oggetto. Ora, come sottolinea Desideri, qui si crea una strana inversione di ruoli. L’oggetto diventa un quasi-soggetto, sembra rivolgersi a noi come se fosse una persona (Kant notava che in certi giorni sembra che il mondo ci rivolga un sorriso, osservazione giustissima anche se in certi altri giorni sembra invece che ce l’abbia con noi). Il soggetto, invece, diventa un quasi-oggetto, giacché è passivo rispetto all’oggetto, che gli si impone come bello, o brutto, indipendentemente dalla sua volontà.
Con esperienze di questo genere - che non si riducono al bello, si pensi alla fitta di quando si vede la multa sotto il tergicristallo - entriamo in una seconda esteriorità rispetto alla pretesa interiorità della nostra coscienza, ossia nel mondo, naturale e sociale, ciò che gli studiosi contemporanei chiamano "embedment", e che Heidegger, con un altro gergo, chiamava "Dasein", "essere nel mondo". La nostra interiorità si nutre costantemente dell’esterno, e non potrebbe esistere senza di esso. Così non l’interiorità, ma la materia e la memoria, quello che ci imparenta agli archivi e ai computer, è la condizione imprescindibile per la coscienza.
Banalmente, proprio come ci sono delle operazioni intellettuali che sono inattuabili senza supporti esterni, per esempio calcoli complicati che richiedono carta e penna, o pallottolieri, cosi anche funzioni elevatissime come la responsabilità e la decisione morale non potrebbero aver luogo senza memoria. Come si può essere responsabili senza avere a che fare con le vestigia delle nostre azioni? E il fatto che nella nostra vita morale la rimozione (ossia una specie di oblio guidato e artificiale) giochi un ruolo così centrale ci spiega che il fondo della nostra anima è fatto di qualcosa che sta fuori, nel mondo, tanto quanto sta dentro, nella mente, ossia di memoria.
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C ’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti. Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
Se la verità diventa un optional
L’uso politico della menzogna
di Francesca Rigotti (l’Unità, 8.4.2010)
La libertà - scriveva Albert Camus - consiste in primo luogo nel non mentire». Proviamo a pensarci su perché qui si tratta di cose serie, mica di canzonette. Qui sono in gioco termini/concetti come libertà e verità. E la libertà è, insieme alla giustizia, una delle grandi virtù delle istituzioni politiche, come la verità è la virtù principale dei sistemi di pensiero, e chi viola il principio di verità lede anche quello di libertà. Ora, l’uso politico della menzogna viene parzialmente accettato dalla filosofia politica, per esempio da Hannah Arendt, che la giustifica nel caso di delicate operazioni di segretezza.
A una corretta pratica democratica non è invece perdonata né la torbidezza né la menzogna e tantomeno il falsificare i fatti per ragioni di immagine, quando queste attività - sempre Arendt - vengano praticate nei confronti dei concittadini e non del nemico in guerra. Se in politica, il luogo delle scelte collettive e che interessano la collettività, si può mentire, non si deve per questo farlo, né la pratica del mentire deve essere, in politica, tollerata e perdonata, o addirittura incoraggiata.
La verità è infatti una virtù preziosa - come spiega Franca D’Agostini nel dotto quanto affascinante saggio «Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico» (Bollati Boringhieri). La verità del nostro mondo, che vive nella legge della terra e nella radicale pluralità degli uomini da tale legge contemplata, è la verità che percepiamo con le nostre facoltà logiche.
Poi c’è la «verità» riferita da una parte politica e magari accettata da un gruppo di persone che non hanno la coscienza attiva di partecipare a un inganno. Questa è una «verità» allestita a fini di opportunità ma lesiva della libertà dei cittadini, anche di quelli che si lasciano volentieri ingannare, per il semplice motivo che la menzogna distrugge la fiducia, anche questa una delle grandi e dimenticate virtù della vita sociale democratica.
Un punto in più per la tesi che sostiene che la destra italiana che ci malgoverna non partecipa dei principi del pensiero liberale - quelli socialisti, poi, non sa neanche dove stiano di casa - benché proclami gli uni e gli altri.
Questo perché un pensiero fondativo non ce l’ha e può perciò praticare la menzogna e il mendacio pensando che chi caninamente latra più forte e in numero più alto riesca a sopraffare anche la verità. Ma questo non è vero e mentire per non voler riconoscere l’errore può costare caro, molto più caro che dover ricorrere al trapianto di capelli per aver commesso l’errore di non aver mai usato la brillantina Linetti.❖
Claudio Napoleoni e la “produzione di uomini”
Autore: Ravaioli, Carla
Una relazione svolta in un seminario sul pensiero di Claudio Napoleoni, a vent’anni dalla sua morte, organizzato dalla Fondazione della Camera dei Deputati, Roma 27 ottobre 2009 *
Engels ne “L’origine della famiglia” distingueva tra “la produzione delle merci e la produzione degli uomini”, che pure vedeva strettamente contigue. In più di un secolo e mezzo di vistosissima trasformazione del mondo, anche i parametri di lettura e di analisi della realtà sociale sono andati diversificandosi, specializzandosi, separandosi. Oggi è la produzione delle merci (nella complessità delle sue problematiche specifiche, e soprattutto nella sua funzione primaria all’interno del sistema capitalistico) l’oggetto centrale della scienza economica. Mentre “la produzione degli uomini” se n’è andata via via distaccando, dando luogo alla nascita di una vasta serie di nuove discipline, sociali, antropologiche, psicologiche, comportamentali, ecc., alcune impostesi come capitoli determinanti della cultura contemporanea.
Questo non ha però impedito all’economia (proprio in quanto produzione di merci) di collocarsi al centro non solo dell’interesse politico ma dell’esistere umano nella sua totalità: da un lato come indiscusso “valore” prioritario, costante termine di riferimento e misura di giudizio dell’agire collettivo, dall’altro come formidabile produttrice di modelli, comportamenti, scelte individuali e di gruppo, di progetti di vita. In sostanza non solo determinando il netto prevalere della “produzione delle merci” sulla “produzione degli uomini”, ma tendenzialmente inducendo l’assimilazione o il divoramento e la cancellazione di questa da parte dell’altra.
Claudio Napoleoni è stato un grande economista, come tale riconosciuto e largamente apprezzato, e però nei confronti della centralità dell’economico rispetto a ogni altro momento dell’umano ha sovente espresso dissenso, mentre nel suo riflettere mai perdeva di vista quella dimensione dell’esistere che Engels appunto indicava come “produzione degli uomini”, e che la moderna sociologia definisce “riproduzione”. Anzi in qualche misura mostrava di privilegiarla, come ambito cui non solo appartiene in tutte le sue forme la continuità vitale della specie, ma in cui trovano spazio i rapporti più ricchi, le passioni più profonde, le libertà totali; in cui si esprime insomma al suo massimo, in positivo e in negativo, la qualità umana.
In questo senso va letto questo titolo un po’ criptico del mio intervento, cui sono stata cortesemente invitata, e che intendeva richiamarsi a un momento di confronto attivo tra Claudio e me, cioè a un dialogo, apparso nell’88, in appendice alla seconda edizione di un mio libro di due anni prima: titolo “Tempo da vendere - Tempo da usare”, sottotitolo “Produzione e riproduzione nella società microelettronica”. Un lavoro che nasceva come critica della storica divisione del lavoro tra uomini e donne, ancora oggi in larga misura perdurante, benché sempre più le donne siano partecipi anche del lavoro di mercato; ma si impegnava poi nell’analisi della diversa qualità del tempo impiegato nelle due distinte funzioni: tempo di lavoro, il primo, cioè pezzi di vita “venduti” a un imprenditore contro un determinato compenso; il secondo, tempo “usato” in un vastissimo arco di impegni, attività, rapporti, che travalicano l’ambito familiare, fino a coincidere di fatto con la vita. Tutto il discorso era sostanzialmente improntato a un giudizio duramente critico di una razionalità sociale, che con la produzione e il mercato sempre più tende a coincidere e identificarsi.
Il libro in questione era piaciuto molto a Claudio, che me ne aveva scritto in una lettera assai più significativa di un formale ringraziamento per l’omaggio, e nella quale già andava abbozzando un possibile approfondimento di alcuni momenti della materia affrontata. Subito infatti, quando glie lo proposi, accettò di commentare e sviluppare i contenuti del mio lavoro, in appendice a una seconda edizione. E lo fece, senza riserve usando quella sua straordinaria capacità di muoversi tra l‘osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l’azzardo di ipotesi decisamente utopiche, individuando tra le due dimensioni una stretta reciprocità di senso, e perfino di utilità fattuale: usando la prima come difesa dal rischio della speculazione astratta e la seconda come spinta al superamento di una politica sempre più pigra e casuale, priva di obiettivi capaci di oltrepassare il contingente, come quella che ormai apparteneva alle sinistre.
In questa chiave non solo approvò con entusiasmo la proposta che avanzavo nel libro, di recupero dell’idea di una riduzione forte e generalizzata degli orari di lavoro; e non solo riconobbe la possibilità di giungere a questo modo a un’equa distribuzione del lavoro, sia produttivo che riproduttivo, tra uomo e donna (ciò che giudicava come una prospettiva di grande arricchimento per ambedue), ma a lungo si soffermò a considerare un altro aspetto del problema che io proponevo: lo scarsissimo utilizzo del progresso da parte delle sinistre.
In effetti, via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo. Il quale, in piena coerenza con la propria logica, lo ha usato soltanto per aumentare il prodotto: ignorando gran parte delle possibilità insite nella rivoluzione microelettronica, avviando quel processo di produttivismo perseguito ad ogni costo, di mitizzazione del Pil, di quasi “sacralizzazione” della crescita, cui anche i ceti popolari e operai furono via via conquistati, subornati dalla pubblicità e sedotti dal consumismo. Posizioni rimaste d’altronde immutate anche quando i vantaggi di questo processo non apparvero più così scontati; e mentre il Pil poco o tanto continuava ad aumentare, l’occupazione si faceva via via più problematica, e il precariato andava affermandosi in tutto il mondo come strumento privilegiato di prosperità aziendale.
La paura della disoccupazione tecnologica è stata certo la causa prima di questi comportamenti. E però, notava Claudio, c’è anche altro. C’è “il ruolo che le sinistre hanno storicamente attribuito al lavoro, in ciò conformando la propria cultura alla cultura classica borghese in modo decisamente subalterno: indicando nel lavoro - non importa quale - il fondamento non solo della vita individuale, ma della vita associata, e quindi della società intera, e quindi della politica “. Claudio insiste su questo aspetto: “Nella tradizione teorica del movimento operaio non c’è una rottura con l’ideologia borghese del lavoro”, dice; e parla di “una sorta di complesso di inferiorità delle sinistre nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche”.
Dura e per lui dolorosa severità di giudizio, che però non gli impediva di credere alla possibilità di uno scatto capace di allargare gli orizzonti di una politica senza respiro, e intravedere i traguardi di una profonda trasformazione. Tra questi appunto un forte taglio del lavoro non automatizzabile (ad esempio una settimana di trenta ore) gli pareva non solo il primo da mettere in campo, ma quello più capace di conseguenze addirittura rivoluzionarie, su molti versanti.
Ne seguirebbe innanzitutto (conveniva con me) non solo la possibilità di un uso diverso, liberamente scelto, del proprio tempo, ma la definizione di una diversa qualità del tempo. Sottrarre cospicue porzioni del nostro tempo al mercato, all’obbligo dell’efficienza e della produttività, ai meccanismi della concorrenza, a rapporti per loro natura violenti, significherebbe la possibilità di costruire la giornata - e dunque la vita - secondo ritmi più distesi, pause cariche di senso, momenti di ricchezza psicologica e mentale altamente gratificanti, nella totale assenza di traguardi “utili” secondo la convenzione.
E in tutto ciò - insisteva - avrebbe certo un’influenza decisiva il superamento dell’attuale divisione del lavoro tra i sessi, che la riduzione degli orari grandemente aiuterebbe. Al di là della fine dell’intollerabile sfruttamento del lavoro familiare ancora interamente scaricato sulle donne, l’aumento e la maggior qualificazione della presenza femminile nel mercato del lavoro, e quindi di quella dimensione psicologica mentale temperamentale che storia e cultura hanno identificato con il “femminile”, potrebbero segnare un mutamento decisivo in un mondo nato e sviluppatosi secondo modelli della più rigida convenzione maschile. Quella cesura tra produzione e riproduzione, che certo ha radici antiche e storia assai più lunga di quella del capitale, ma che indubbiamente la società industriale capitalistica ha radicalizzato e in qualche modo istituzionalizzato, potrebbe trovare superamento in quell’approccio cui Claudio alludeva parlando della capacità di “appropriarci della realtà come di un tutto”, e che avrebbe voluto alla base della politica delle sinistre; desiderio, ahimé, dalle loro scelte sistematicamente deluso.
In perfetta coerenza con questo impianto del suo ragionamento, sempre rapportandosi all’ipotesi di riduzione del lavoro, e dunque di abbandono del produttivismo imperante, Claudio faceva riferimento anche alla crisi ecologica planetaria, di cui lucidamente già allora (cioè più di ventidue anni fa) valutava la minaccia. Merita riportare per intero le sue parole: “E’ dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse naturali, dall’altro comporterebbe crescenti costi ambientali: l’inquinamento dell’aria e delle acque, la distruzione dei suoli, il dissesto degli assetti urbani, i fenomeni di congestione e così via, già oggi pervenuti a livelli intollerabili. E’ qui infatti, nella drammaticità del problema ambientale, che i limiti sociali dello sviluppo si manifestano nel modo più evidente”. Una diagnosi dell’insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo, che dovrebbe far seriamente riflettere economisti, imprenditori e politici, che - quasi tutti - soltanto rilancio della produttività, ripresa della crescita, aumento del Pil, sanno pensare come cura del pianeta, proprio a causa dell’iperproduttivismo gravemente malato.
Utopia, era la critica spesso rivolta a Napoleoni, anche da parte di suoi grandi estimatori. Lui ne era pochissimo impressionato, e affermava convinto: “Posti a un livello minore, i problemi non hanno risposta”.
Il fenomeno dell’ "experimental philosophy"
X-Phi, filosofi del domani nella caverna del nuovo pensiero
Nata in Inghilterra considera il dato empirico non un sostegno alla teoria ma il suo stesso fondamento
Una tendenza che combina la riflessione con esperimenti sondaggi e questionari
In controtendenza rispetto all’analisi tradizionale,sceglie di esprimersi sui blog e internet
Studia attraverso le neuroscienze l’attività mentale alle prese con problemi concettuali
di Massimiliano Panarari (la Repubblica, 14.03.2009)
Suona un po’ come X Files, ma non è esattamente la stessa cosa, anche se il metodo scientifico rivendicato con forza dall’agente Dana Scully, tutto sommato, potrebbe trovarvi agevolmente il suo posto.
X-Phi è l’acronimo che designa la experimental philosophy, una tendenza filosofica molto giovane, che si è fatta largo nella cultura anglosassone e che combina la dimensione della riflessione e dell’elaborazione concettuale con una serie di esperimenti pratici e di ricerche quantitative condotte mediante sondaggi e questionari. A rilanciare il dibattito sulla X-Phi, presentata come la corrente più trendy della filosofia contemporanea, è, tra gli altri, un lungo articolo dei filosofi David Edmonds e Nigel Warburton apparso sul numero di marzo di Prospect, la prestigiosa rivista politico-culturale londinese, in cui gli autori prendono le mosse dai test di una neurobiologa tedesca, Katja Wiech, che ha dimostrato come la somministrazione di scariche elettriche a cattolici osservanti in atto di contemplare un’immagine della Madonna risulti meno dolorosa di quanto accade nel caso di un ateo o di un agnostico. Esiti sperimentali su cui la giovane scienziata si è confrontata successivamente con un gruppo di pensatori convinti che il dato empirico non fornisca un semplice sostegno alla filosofia, ma sia, in qualche modo, il fondamento stesso del fare filosofia.
La X-Phi si colloca così nettamente in controtendenza rispetto all’egemonia, sinora incontrastata, esercitata dall’analisi concettuale, e si scontra, quindi, con la tradizione di filosofia analitica dominante nel mondo anglosassone. Ragion per cui si esprime molto attraverso blog e siti (oltre che libri), e viene avversata o liquidata malamente da vari mostri sacri del pensiero angloamericano, suscitando, invece, entusiasmi tra i filosofi più giovani e alimentando una polemica culturale dove anche l’anagrafe gioca la sua parte.
Anche se, a onor del vero, pure una star del livello del filosofo del "cosmopolitismo" (e molto altro) Kwame Anthony Appiah mostra parecchio interesse, dopo avere pubblicato un libro di "esperimenti di etica", ed essendosi spinto a definirla sul New York Times come la "nuova nuova filosofia".
La filosofia sperimentale vanta una "scuola" molto dinamica che conta tra i suoi esponenti di punta Joshua Knobe, Shaun Nichols, Neill Levy, al lavoro tra Princeton e Oxford, figure, di cui si parlerà sempre più, che si muovono nei tre ambiti fondamentali, chiaramente interdisciplinari, che ne compongono lo scenario attuale. Ovvero, lo studio, mediante le tecnologie a disposizione delle neuroscienze, dell’attività mentale che si sviluppa quando gli individui si trovano alle prese con un problema di natura filosofica; l’utilizzo, uscendo dalle aule e dagli uffici universitari, di questionari per comprendere le intuizioni e le modalità di ragionamento nella vita quotidiana; e, infine, gli "esperimenti sul campo", con l’osservazione dei comportamenti e delle reazioni a specifiche situazioni da parte di un individuo, osservato a sua insaputa.
Tutto molto anglosassone, per l’appunto. E in Italia? Queste tematiche ricevono una certa attenzione da parte di Res cogitans (www.rescogitans.it), "sito di filosofia applicata" dedicato a Marco Mondadori, che annovera tra i suoi collaboratori Telmo Pievani, Maurizio Ferraris, Mario De Caro e Nicla Vassallo. A dirigerlo è Simona Morini, docente di Teoria delle decisioni razionali e dei giochi allo Iuav di Venezia (e autrice, con Pietro Perconti, di Email filosofiche, edito da Cortina), che nota come la X-Phi rappresenti «una sorta di interessante ritorno al passato, alla filosofia morale e alla tradizione del Sei-Settecento.
Basti pensare, infatti, che il famosissimo Trattato sulla natura umana di David Hume aveva come sottotitolo: Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali.
Dunque, vari sono gli aspetti positivi: da un lato, i filosofi ricominciano a fare scienza (superando lo specialismo introdotto nell’Ottocento) e, dall’altro, tornano a occuparsi di fatti reali, soprattutto in Italia dove la produzione filosofica negli ultimi tempi è stata orientata per lo più verso l’ermeneutica e la storia. Questi esperimenti, inoltre, tornano al senso comune, ma confutano anche i luoghi comuni. E sprovincializzano la disciplina, attribuendole una dimensione veramente mondiale, mostrandoci, per esempio, come la filosofia del linguaggio contemporanea risulti molto collegata alle lingue occidentali.
Naturalmente, ci sono anche i limiti: gli scienziati si rivelano oggi ancora piuttosto deboli sotto il profilo filosofico, e viceversa. Come diceva Robert Hooke: "La vera filosofia inizia dalle mani e dagli occhi, ma deve procedere con la memoria e continuare con la ragione". È così che dovrebbe accadere, tornando davvero all’idea del filosofo naturale seicentesco». E, quindi, se son rose (filosofiche), magari fioriranno anche in Italia.
Due tradizioni a confronto
Se il modello britannico batte l’Europa continentale
di Franco Volpi (la Repubblica, 14.03.2009)
Attaccata alle proprie tradizioni come una cozza al suo scoglio, la filosofia continentale ha mostrato finora scarsa propensione al rinnovamento. Sta iscritto nel suo codice genetico storicista.
Eppure, qualcosa si sta muovendo. Proprio in seno alla filosofia britannica, fermentano irregolarità e provocazioni che infrangono i canoni tradizionali. È la New British Philosophy, recita il titolo di un libro che raccoglie le voci dei «nuovi filosofi» inglesi.
Alcuni, come Ray Monk, Stephen Mulhall e Aaron Ridley, tutti del Center of Post-Analitic Philosophy di Southampton, cercano di capire quale sarà il futuro paradigma, dopo analitici e continentali. «La filosofia dovrà impegnarsi in problemi concreti», sostiene da Edinburgo la femminista Rae Langton, e si applica coerentemente alla comprensione di fenomeno di cui tutti fanno uso ma nessuno sa cos’è: la pornografia. Altri, come Simon Critchley, che da Essex è passato a dirigere la New School di New York, propone nel suo Libro dei filosofi morti una divertente versione moderna - si fa per dire - dell’antica meditatio mortis.
Intanto, nelle vecchie roccaforti continentali, francesi e tedesche, si soffre per il vuoto lasciato dalla scomparsa dei maîtres-à-penser. È ancora possibile riempirlo con un grande gesto di sintesi? Ci hanno provato Marcel Gauchet e, passando a Oriente, François Jullien. E soprattutto Peter Sloterdijk, prima con una Critica della ragione cinica, poi con la trilogia Sfere, una vera e propria filosofia della globalizzazione. Ma oggi - si chiede la più diffusa rivista tedesca di filosofia - il vero Meisterdenker non è forse il controverso e richiestissimo Giorgio Agamben? È la riprova, ha commentato un lettore, che in filosofia il metodo migliore per avanzare è girare sempre intorno allo stesso punto.
Il genetista Cavalli-Sforza racconta i meccanismi che hanno scandito il progresso
dell’Homo sapiens. L’appuntamento al Festival della Mente
L’evoluzione culturale batte quella biologica
Così la specie umana ha conquistato il pianeta
di Luigi Luca Cavalli-Sforza (Corriere della Sera, 29.8.2009)
Che l’uomo sia un animale, non vi sono dubbi. Che abbia alcune caratteristiche diverse dagli altri animali, è chiaro. Ma se ci avviciniamo al problema con il solo aiuto dell’osservazione e del ragionamento, cioè scientificamente, quali sono queste caratteristiche? Vi sono naturalmente differenze biologiche tra l’uomo e gli animali, anche quelli più vicini a noi.
Sappiamo che le differenze biologiche tra individui e tra specie stanno nel programma che serve a un individuo per costruire se stesso. Sappiamo che questo programma è scritto nel Dna e l’eredità biologica è resa possibile dalla copiatura, a ogni generazione, del Dna di ogni individuo per passare il Dna copiato a un figlio, che la usa come modello per costruire se stesso, ma anche per farne copie per i suoi discendenti e così via. Ma sappiamo che in ogni processo di copiatura possono avvenire errori e gli errori di copiatura del Dna sono trasmissibili, perché i figli costruiscono se stessi e poi copiano il modello che hanno ricevuto, per passare il programma ai loro figli (introducendo nuovi errori).
Gli errori di copiatura sono chiamati mutazioni genetiche e sono responsabili dei cambiamenti ereditari. Più spesso questi cambiamenti sono in peggio, perché gli errori di copiatura del Dna sono casuali e possono recare danno anche fatale in un organismo delicato e complesso come quello di un vivente. Ma qualcuno può essere benefico, ad esempio vi è sempre una possibilità che uno di essi porti una maggior capacità di resistere a una delle tante cause di malattie, magari molto diffuse come è, e anche da noi era, la tubercolosi.
Se il portatore della mutazione è resistente, così potranno essere i suoi figli che portano il Dna copiato e lo trasmettono e il tipo mutato aumenterà automaticamente di frequenza nelle generazioni successive. Questo è un esempio di quella che Darwin ha chiamato selezione naturale. Ma specie in organismi lenti come noi, che impieghiamo trent’anni a riprodurci, in media, e formiamo coppie che hanno solo pochi figli, possono essere necessarie migliaia di anni, magari anche molti di più perché una popolazione in cui è avvenuta una mutazione in un individuo divenga interamente del tipo mutato.
Archeologia e genetica ci hanno mostrato che la nostra separazione dalla scimmia più vicina a noi vivente oggi, lo scimpanzé, cominciò circa sei milioni di anni fa in Africa. I nostri più vecchi antenati scesero dagli alberi e svilupparono la capacità di correre sulle gambe e liberare le mani, cominciando a usarle per fabbricare strumenti: i primi oggi riconosciuti hanno tre milioni di anni. Gli strumenti furono perfezionati al punto che un po’ meno di due milioni di anni fa l’uomo cominciò a espandersi, dall’Africa all’Asia e all’Europa, probabilmente anche grazie all’aiuto dell’uso del fuoco. La testa dell’uomo e con essa il cervello cominciarono a crescere di volume molto presto e l’aumento continuò fino a portare il volume del cervello a quattro volte il valore iniziale, che invece nello scimpanzé e in altri primati rimase invariato.
Una delle cause più importanti nell’aumento del cervello fu l’acquisizione del linguaggio, cioè la capacità di articolare i suoni in modo da scambiarci facilmente idee e informazioni. Aumentò così molto la velocità di quella che chiamiamo evoluzione culturale, cioè l’accumulo di nuove conoscenze. Anche gli animali hanno evoluzione culturale, ma molto meno intensa e meno facilmente trasmessa agli altri che nella nostra specie. Le novità culturali sono nuove idee: invenzioni, scoperte, innovazioni, molte della quali hanno lo scopo di migliorare le condizioni di vita. Le novità culturali non sono cambiamenti del Dna; a differenza di essi possono trasmettersi a un largo numero di individui nel corso di una generazione e con i moderni mezzi di comunicazione in tempi brevissimi. Inoltre, mentre le novità genetiche, cioè le mutazioni sono casuali, quelle culturali sono dirette a scopi precisi, di solito benefici.
L’evoluzione biologica ha quindi perduto molta importanza nella nostra specie, perché quella culturale soddisfa le nostre necessità assai più presto. Anche per questo, troviamo che le differenze genetiche fra le popolazioni umane viventi oggi sono modeste. Oggi siamo sei miliardi; poco più di 55 mila anni fa eravamo una piccola tribù africana di forse mille o duemila individui, ma tutti i suoi membri avevano un linguaggio sviluppato come quelli esistenti oggi. Tutti vivevano di caccia, pesca, raccolta di vegetali, cioè di cibo naturale.
In un tempo breve si sparsero in tutto il mondo, comprese America e Oceania, raggiungendo circa 10 mila anni fa la saturazione demografica permessa dalle risorse locali, che furono sufficienti per arrivare a un numero di abitanti del mondo stimato fra uno e 15 milioni. Ma cominciò allora, in diverse parti del mondo, la produzione del cibo mediante la coltura di vegetali e l’addomesticamento di animali e permise una nuova crescita demografica fino ai sei miliardi di oggi, un aumento di circa mille volte negli ultimi 10 mila anni.
La selezione naturale continua a essere importante, ma è ora largamente diretta dalle novità prodotte dall’evoluzione culturale assai più che da quella biologica. Per darne un semplice esempio: quando 30 mila anni fa i nostri antenati popolarono la Siberia, non ebbero bisogno di attendere la comparsa di mutazioni che permettessero la crescita di una fitta pelosità o altri meccanismi biologici di difesa dal freddo. Quella pelosità che avevamo in comune con le scimmie, da cui siamo separati da almeno sei milioni di anni, era scomparsa da tempo, forse per i pericoli cui è esposto un animale peloso che vive vicino al fuoco (anch’essa una selezione naturale indotta da un’innovazione). Per popolare la Siberia si vestirono di pelli di animali cucite con ago e filo e costruirono case molto resistenti al freddo, tutti prodotti di invenzioni utili. In questi e molti altri modi il numero di appartenenti alla nostra specie è aumentato in modo enorme e questo è il grande successo di selezione naturale che dobbiamo largamente all’evoluzione della cultura, ma l’evoluzione biologica ha avuto poco tempo per agire e quella culturale ha sopperito largamente alle necessità di adattamento ad ambienti diversi.