A Istanbul l’unità dei cristiani è più vicina
Chryssavgis (Patriarcato Costantinopoli): "l’immagine dei due leader che pregano insieme ricorda al mondo che lavorare per la pace e la giustizia è un obbligo"
di CHIARA SANTOMIERO (www.aleteia.org, 30.11.2014)
Un evento storico, ha definito lo stesso patriarca ecumenico Bartolomeo I, la visita di papa Francesco in Turchia per la ricorrenza della solennità di S. Andrea, che costituisce la prosecuzione del cammino di amichevoli rapporti tra le due chiese e un buon auspicio per il futuro del completo ristabilimento dell’unità. Un futuro che sembra ancora più a portata di mano grazie all’amicizia personale tra le due autorità religiose, come conferma l’arcidiacono John Chryssavgis, consulente teologico del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli che Aleteia ha incontrato durante i giorni della permanenza in Turchia del pontefice.
Quale valore assume la visita di papa Francesco al patriarca Bartolomeo I e quelle del patriarca a lui, quasi una sorta di "ecumenismo delle visite"?
Chryssavgis: La visita di papa Francesco si inserisce nella tradizione dei viaggi dei pontefici a Istanbul, subito dopo la loro elezione, come espressione dell’impegno per la sacra causa dell’unità. Papa Francesco è il terzo pontefice a seguire la tradizione, dopo papa Giovanni Paolo II nel 1979 e Benedetto XVI nel 2006. Naturalmente, sebbene ciò che ci unisce sia molto più di ciò che ci divide, restano ancora i temi critici del primato e della collegialità, che sono sul tavolo di discussione del dialogo teologico ufficiale tra le due chiese. Tuttavia papa Francesco e il patriarca Bartolomeo si incontrano in questi giorni per la quarta volta dall’elezione, oltre ogni precedente, confermando la fedeltà dei due leader alla preghiera di Cristo sui suoi discepoli "che siano una cosa sola".
L’amicizia personale tra il papa e il patriarca quale influenza ha sul dialogo tra teologi considerato che sembra difficile trovare “reali soluzioni” come è evidenziato dal lavoro della Commissione teologica mista?
Chryssavgis: In questi ultimi mesi, il papa e il patriarca hanno sigillato la loro personale amicizia e il fraterno impegno per una testimonianza di unità nel mondo contemporaneo e nella chiesa. Il significato di questi incontri è immenso. Dobbiamo ricordare che, per novecento anni, c’era scarsa o nessuna comunicazione tra le due chiese. Il fatto che, oggi, le due "chiese sorelle" si scambino visite ufficiali, organizzino eventi insieme e producano dichiarazioni comuni, è un chiaro segno di cambiamento di mentalità e comportamenti. L’obiettivo finale è ristabilire la completa unità e condividere in pienezza i sacramenti. Ma la visita di papa Francesco a Istanbul dimostra che le antiche polemiche e i sospetti del passato sono stati superati. Inoltre, anche se non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo dell’unità dei cristiani, possiamo continuare a "camminare nella carità" (Ef. 5,2), secondo il motto della visita di quest’anno del papa al Patriarcato Ecumenico.
Cosa si aspettano i cristiani di Turchia da questa visita?
Chryssavgis: In anni recenti, ci sono stati molti cambiamenti in positivo nelle relazioni tra il governo turco e i cristiani ortodossi di questo paese. Numerose proprietà sono state restituite alle minoranze non musulmane e c’è meno ingerenza nelle questioni interne della Chiesa. Tuttavia, la Scuola teologica di Halki (n.d.r il seminario è stato chiuso dalle autorità turche come conseguenza di una controversia giuridica sulla natura dell’istituzione), si pone come un potente e doloroso ricordo del proseguire delle restrizioni religiose in Turchia. La verità è che la libertà di religione non può essere separata dalla libertà di insegnare religione. Del resto, il governo turco avrebbe molto da guadagnare da un Halki aperto, da un seminario che storicamente ha formato il clero con la maggiore apertura mentale del mondo, tra cui l’attuale patriarca ecumenico Bartolomeo.
Quali argomenti potrebbero entrare nella dichiarazione congiunta finale?
Chryssavgis: Nella dichiarazione congiunta, oltre all’accento sul rafforzamento delle relazioni tra cristiani, in particolare tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, sono certo che i due profetici leader si concentreranno su come annunciare il Vangelo nel mondo contemporaneo, soprattutto alla luce delle sfide che il mondo sta affrontando. Di certo essi esprimeranno la loro preoccupazione e lo sgomento per la brutale persecuzione dei cristiani nella regione in cui il cristianesimo è nato - come l’Iraq e la Siria, ma più in generale il Medio Oriente - e dove la popolazione cristiana è drasticamente diminuita. Si deve ricordare che, insieme, le due chiese rappresentano circa due miliardi di fedeli. E in un’epoca di così grande fermento e divisione, l’immagine di loro due in piedi mentre pregano insieme servirà per ricordare al mondo che siamo chiamati - anzi è un obbligo - a lavorare insieme per la pace e la giustizia nel nostro mondo.
Il rapporto con la Chiesa cattolica entrerà nella riflessione del Sinodo pan-ortodosso del 2016?
Chryssavgis: Il Grande Concilio del 2016 radunerà per la prima volta i rappresentanti di tutte le quattordici chiese autocefale ortodosse. La convocazione stessa di un grande concilio generale è di fatto senza precedenti, perché l’incontro sarà molto più rappresentativo di qualsiasi altro concilio mai convocato in passato. Uno degli argomenti più importanti che verrà affrontato nel Grande Sinodo sarà il rapporto tra la cristianità ortodossa e le altre confessioni cristiane, così come con le altre comunità religiose. Tra queste relazioni, il dialogo di amore e verità con la Chiesa cattolica di Roma occupa un posto speciale nel cuore del Patriarcato ecumenico. Sono sicuro che il Grande Concilio capirà quanto sia cruciale conservare una linea comune positiva nella relazione con la Chiesa di Roma e formare in modo collettivo i fedeli sull’importanza di lavorare per il ristabilimento dell’unità nella fede e nei sacramenti.
E’ in programma di celebrare insieme i 1700 anni del primo Concilio ecumenico di Nicea, celebrato quando le chiese erano ancora unite?
Chryssavgis: La possibilità di un evento comune nel 2025, per commemorare e celebrare l’anniversario del Concilio di Nicea è stata presa in considerazione; tuttavia non ci sono programmi concreti o nell’immediato in proposito. Sarebbe chiaramente, però, un’occasione importante per segnare una tappa fondamentale nella storia della Chiesa cristiana.
ECUMENISMO RINASCIMENTALE. L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò - SI CFR. LE NOTE.
Se con il duello tra Russia e Ucraina torna (anche) la guerra di religione
Nel mondo della tecnologia le passioni religiose e gli interessi politici restano pericolosamente intrecciati
di Sergio Romano (Corriere della Sera, 13.01.2019)
Può una cerimonia religiosa rendere ancora più tese e bellicose, dopo l’«incidente» del Mar di Azov, le relazioni fra Russia e Ucraina? È accaduto negli scorsi giorni a Istanbul quando l’ultimo erede dei patriarchi di Costantinopoli, alla presenza del presidente ucraino, ha solennemente firmato un documento (in greco tomos) che sottrae la Chiesa ortodossa di Kiev al magistero del Patriarcato di Mosca e ne certifica l’indipendenza. Il governo russo ha protestato e, insieme a Mosca, quella parte della società ucraina che non vuole rompere i propri secolari legami con la Grande Madre Russia.
Credevamo che le guerre di religione appartenessero al passato e pensavamo che i rapporti fra gli Stati, nel ventunesimo secolo, subissero l’influenza di più concrete motivazioni. Ma siamo costretti a constatare che nel mondo dei droni e dell’intelligenza artificiale vi sono ancora situazioni in cui le passioni religiose e gli interessi politici sono pericolosamente intrecciati.
La cerimonia di Istanbul, in particolare, ha un lungo antefatto. Comincia nel XVI secolo, quando un monaco di cui conosciamo soltanto il nome (Filofeo), scrisse al Gran Duca di Moscovia: «Sappi e riconosci, pio zar, che tutti i regni cristiani si sono compendiati nel tuo; che la Prima e la Seconda Roma sono cadute; e che ora si erge una Terza Roma, a cui non succederà mai una quarta; il tuo regno cristiano non cadrà in potere di nessun altro».
La profezia piacque ai russi, ne riscaldò i cuori e divenne, anche in epoche meno religiose, titolo di orgoglio per un popolo che si considerava votato, in nome di Dio, a un futuro imperiale. La Russia se ne servì per conferire nobiltà religiosa alla dinastia dei Romanov, rafforzare il proprio prestigio nella grande famiglia dei popoli slavi, accendere una ipoteca sui luoghi santi e sulle terre che erano appartenute all’Impero cristiano di Oriente.
Lenin vide nella Chiesa russa un potenziale nemico e ne perseguitò ferocemente il clero; ma anche nei primi anni dello Stato comunista vi fu un nazional-bolscevismo che non ignorava l’importanza del fattore religioso nel patriottismo russo. Ne fu consapevole anche Stalin quando comprese che «patria e fede», contro la Germania di Hitler, sarebbero state più efficaci di «falce e martello». Dopo la fine della guerra Stalin pagò il suo debito verso la Chiesa restituendo al culto qualche monastero e regalando al clero ortodosso ucraino i beni che erano appartenuti agli uniati (cattolici romani di rito greco).
Vladimir Putin è andato oltre. È credente, osserva con grande zelo le festività religiose, si immerge a torso nudo nella gelida acqua di un lago il 19 gennaio (giorno dell’Epifania ortodossa) ed è, a quanto pare, fraterno amico di Cirillo, Patriarca di Mosca. Attraversa una fase di declinante popolarità, ma l’ultima mossa ucraina gli garantisce un utile sostegno.
Scisma ortodosso, l’Ucraina si fa una chiesa «in casa»
Geopolitica della fede. Con una cerimonia a Istanbul dichiarato ufficialmente «autocefalo» il patriarcato di Kiev. Già tra il 1917 e il 1922, con il sostegno delle forze bianche e antibolsceviche, si assistette a un primo tentativo di staccare il capitolo ucraino da quello di Mosca
di Yurii Colombo (il manifesto, 06.01.2019)
MOSCA La scissione nella Chiesa Ortodossa, già preannunciata da qualche mese, è da ieri ufficiale. Con una cerimonia a Istanbul a cui hanno partecipato il patriarca ecumenico Bartolomeo e il presidente ucraino Petr Poroshenko è stato firmato il «tomos» (decreto) con cui viene dichiarato «autocefalo» il patriarcato ucraino. L’indipendenza della chiesa di Kiev da quella di Mosca, sin dalla data, ha un evidente significato simbolico visto che proprio oggi in ossequio al calendario giuliano, si celebrerà il Natale in tutto il mondo ortodosso. La disputa teologica e religiosa che ha condotto alla decisione di Istanbul affonda in un passato lungo oltre 300 anni ma le sue ricadute politiche hanno già iniziato a manifestarsi e aprono un nuovo capitolo nello scontro che oppone i due paesi slavi da ormai 5 anni.
GIÀ TRA IL 1917 E IL 1922, durante la rivoluzione russa, con il sostegno delle forze bianche e antibolsceviche, si assistette a un primo tentativo di staccare il capitolo ucraino dal patriarcato di Mosca. In seguito, nel 1991, con l’indipendenza dell’Ucraina dall’Urss, il primo presidente ucraino Leonid Kuchma si adoperò per giungere alla formazione di una chiesa ucraina indipendente, ma solo il tentativo dell’attuale presidente, intrapreso nella primavera di quest’anno è riuscito nell’impresa.
L’11 ottobre scorso, il Sinodo della chiesa di Costantinopoli dichiarò la cancellazione della decisione del 1686 di trasferire la metropoli di Kiev alla giurisdizione della Chiesa russa e annunciò anche la rimozione dell’anatema precedentemente imposto al patriarcato di Kiev. Poroshenko, che ha definito la decisione di Istambul «storica per il nostro popolo e per tutta la cristianità», ora cercherà di capitalizzare questo suo successo nella battaglia elettorale delle presidenziali, indette per il 31 marzo. I sondaggi però lo danno staccato di ben 8 punti dalla favorita Yulia Timoshenko ma soprattutto solo al quinto posto nelle preferenze tra i candidati in corsa.
Il «tomos» ha inevitabilmente suscitato l’ira del patriarca di Mosca Kirill. Il patriarca ha definito non solo «avventurista e illegale la decisione» ma anche un tentativo per «peggiorare i rapporti tra ucraini e russi preparando le condizioni per la guerra».
NELLE SCORSE SETTIMANE alcuni segnali ci sono già stati in questo senso. Il governo ucraino ha fatto sequestrare alla frontiera la tiratura degli opuscoli ai fedeli per il Natale di Kirill e ha dato lo sfratto ai seguaci di Mosca dal monastero di Pecerska Lavra di Kiev, il più celebre e antico di tutta la Russia. Decisioni che hanno provocato un netta condanna del Ministero degi Esteri russo che ha accusato Poroshenko di «voler accendere il fuoco della guerra civile».
Al Cremlino si resta convinti che tutta la vicenda sia stata montata ad arte prima che a Istanbul o a Kiev, a Washington, dove secondo Sergey Lavrov «si è tramato a lungo perché andasse a buon fine». Ora la chiesa di rito moscovita si appresta a contendere a quella «autocefala» fedele dopo fedele e parrocchia dopo parrocchia ricordando che ogni credente «ora deve decidere da che parte stare». Ma guarda anche avanti. La decisione di Istanbul decreta di fatto anche lo scisma all’interno dell’ortodossia, visto che la chiesa russa, quella con maggiori fedeli a livello internazionale, ha già rotto da mesi i rapporti con Costantinopoli. «Il patriarca Bartolomeo oggi si è definitivamente separato dall’ortodossia mondiale unendosi allo scisma». ha dichiarato padre Georgy, portavoce di Kirill.
«ORA PER NOI si apre il mondo anche in termini di proselitismo su scala mondiale», ha concluso Georgy, ricordando che le chiese nazionali ortodosse sono quasi tutte indipendenti, e il Patriarca Bartolomeo è sempre stato solo considerato solo un primus inter pares, un titolo che avrebbe però definitivamente perso dopo questa vigilia di Natale che gli ortodossi sicuramente ricorderanno a lungo.
Ortodossi.
Mosca e Costantinopoli divisi su Kiev. E cresce la tensione
La questione dell’autocefalia della Chiesa ucraina tocca di riflesso tutto il cristianesimo orientale. Parlano la teologa greca Despo Lialiou e il filosofo russo Arkadij Maler
di Andrea Galli (Avvenire, sabato 17 novembre 2018)
Era il 2016 quando il mondo ortodosso sembrava a un passo dal riunirsi nella forma più solenne da un millennio a questa parte, con un Concilio appunto pan-ortodosso programmato per l’estate di quell’anno a Creta. Solo due anni dopo l’ortodossia si ritrova invece alle prese con la più grave crisi di comunione forse degli ultimi secoli. I fatti sono noti: l’11 ottobre il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo ha annunciato la decisione di conferire l’autocefalia, cioè l’indipendenza, alla Chiesa ucraina. In un Paese in cui esiste una Chiesa ortodossa ucraina, guidata dal metropolita Onufrij (Berezovskij), sotto la giurisdizione del patriarcato di Mosca e due Chiese scismatiche, fino a ieri non riconosciute da nessun’altra Chiesa ortodossa: il cosiddetto patriarcato di Kiev, fondato nel 1995 dall’autoproclamatosi patriarca Filaret (Denisenko), e una Chiesa ortodossa ucraina autocefala, fondata nel 1991 dal vescovo Makarij (Maletic), entrambi i presuli anatemizzati o scomunicati da Mosca. Bartolomeo ha rimesso gli anatemi, “sanando” gli scismi, ha inoltre dichiarato decaduta la decisione del 1686 con cui l’allora patriarca ecumenico Dionisio IV poneva la metropolia di Kiev sotto la giursdizione di Mosca. E ha inviato due esarchi provenienti da Stati Uniti e Canada per avviare il processo che dovrà condurre alla nascita di una Chiesa ortodossa ucraina autocefala.
Durissima la reazione di Mosca, che ha denunciato una innumerevole serie di aspetti illegittimi nella decisione di Bartolomeo e ha interrotto la comunione eucaristica con Costantinopoli dichiarando che la “Chiesa madre” dell’ortodossia si ritrova attualmente in una situazione di scisma. Niente meno. Incerto è quello che potrà avvenire in Ucraina: la “scommessa” implicita di Costantinopoli e del presidente ucraino Petro Poroshenko - lui e Bartolomeo hanno stipulato un accordo di collaborazione lo scorso 3 novembre, il cui contenuto è rimasto riservato - è che nel tempo la gran parte del clero e del popolo che oggi si riconosce nella guida di Onufrij aderisca alla nuova Chiesa autocefala. Ma l’attuale Chiesa ortodossa ucraina, nel suo Sinodo celebrato nei giorni scorsi, ha condannato la decisione di Bartolomeo e ha difeso fermamente lo status quo canonico. E per quanto riguarda l’ortodossia nel suo insieme, se c’è chi vede un pesante indebolimento del patriarcato moscovita, che potrebbe arrivare a perdere un 40% delle sue parocchie che si trovano appunto in Ucraina, c’è chi ipotizza un prossimo Sinodo di Chiese vicine a Mosca per “accerchiare” il patriarcato ecumenico. Al Concilio di Creta furono quattro le Chiese che non si presentarono alle assise seguendo la linea russa: Antiochia, Serbia, Georgia e Bulgaria. E a schierarsi apertamente con Mosca nei giorni scorsi è stata la Chiesa ortodossa di Cechia e Slovacchia. Nel frattempo anche teologi e intellettuali dei due campi si confrontano in termini non meno netti e taglienti rispetto alle dichiarazioni degli esponenti della gerarchia. Come Despo Lialiou, teologa e già vice-rettore dell’Università Aristotele di Salonicco, e Arkadi Mahler, filosofo e fondatore e direttore del centro studi Katechon presso l’Accademia Russa delle Scienze.
Professor Maler, come è possibile che dopo tanti secoli ci sia ancora una disputa su una questione dirimente: se il patriarcato di Costantinopoli abbia o meno il potere di concedere l’autocefalia oppure no?
Di fatto questa questa disputa nacque solo nel XX secolo, perché nel 1921-1923 il patriarca di Costantinopoli Melezio IV fondò un’ideologia secondo la quale il patriarcato di Costantinopoli è la più importante fra le Chiese ortodosse e il suo potere si estende su tutti i territori dove non ci sono altre Chiese ortodosse, per esempio nell’Europa centrale e occidentale, in America, Australia, la maggior parte dell’Asia e perciò solo esso ha il diritto di stabilire lì Chiese ortodosse. Inoltre, in accordo con questa ideologia, il patriarcato di Costantinopoli può prendere l’autocefalia da altre Chiese e dare l’autocefalia a parti di altre Chiese. Nessuna Chiesa ortodossa concorda con questa ideologia, ma il patriarcato di Costantinopoli non è interessato ad alcuna argomentazione.
Quasi ogni Paese nell’Europa orientale ha una sua Chiesa ortodossa “sovrana”: non è inevitabile che ciò accada anche per l’Ucraina?
Nel cristianesimo ortodosso non c’è tale insegnamento, secondo cui ogni Paese o nazione debba avere la propria Chiesa. La Chiesa ortodossa è divisa non su base nazionale, ma su base territoriale. Se il patriarcato di Costantinopoli nel XV secolo non avesse accettato l’unione con la Chiesa cattolica di Roma, forse la Chiesa russa obbedirebbe ancora a Costantinopoli. Ed è molto importante comprendere che la Chiesa ortodossa ucraina oggi non chiede l’autocefalia, questa è richiesta solo dagli scismatici russofobi, che lo stesso patriarcato di Costantinopoli non ha riconosciuto fino a oggi.
Quanto c’è di ecclesiale e quanto di geopolitico nella decisione del patriarcato di Costantinopoli, secondo lei?
La decisione del patriarca Bartolomeo ha tre ragioni. Primo, è un ordine politico del presidente ucraino Petro Poroshenko, che vuole avere tempo prima delle elezioni presidenziali del 2019 per compiacere i nazionalisti ucraini e creare una Chiesa ucraina nazionale unificata. Secondo, è l’ambizione dello stesso patriarca di Costantinopoli, che ha lungo sognato di poter agire in tal senso per indebolire l’influenza della Chiesa russa. Terzo, è l’influenza politica degli Stati Uniti, che spinge il patriarcato di Costantinopoli a indebolire la Russia. Queste tre ragioni spiegano il conflitto in corso. Se parliamo di profonde motivazioni teologiche, sono molto serie. Il problema è che il patriarcato di Costantinopoli dal tempo del patriarca Melezio IV promuove una teologia liberale e modernista. Ricordi che la riforma del calendario del patriarca Melezio IV fu fatta solo per entrare in unione con la Chiesa angicana. Nell’agosto di quest’anno il patriarcato di Costantinopoli ha introdotto la possibilità di un secondo matrimonio per i sacerdoti, che viola i canoni della Chiesa. Ma la cosa più importante è l’eresia di un “papismo orientale”, che è impossibile nell’ortodossia. Dal momento che il patriarcato di Mosca è un polo conservatore nel mondo ortodosso, il patriarcato di Costantinopoli non ama molto la nostra Chiesa.
Quali sono gli aspetti più inaccettabili per lei e per il patriarcato di Mosca nella decisione di Bartolomeo?
La cosa più sbagliata nelle azioni del patriarca Bartolomeo è l’invio dei suoi esarchi in Ucraina, che è una violazione del territorio canonico della Chiesa russa e ancora peggio la remissione dell’anatema nei confronti dei leader dei due scismi ucraini, il “patriarca” Filaret e il “metropolita” Macario. Questi scismatici non sono stati riconosciuti dall’intero mondo ortodosso e ora, senza pentimento, le loro vengono riconosciute come Chiese canoniche. Questo è assolutamente inaccettabile.
Cosa prevede per il futuro, cosa accadrà in Ucraina e nell’ortodossia?
Se il Fanar non rifiuta di concedere l’autocefalia all’Ucraina, non ritira i suoi esarchi e non cancellerà la sua decisione di rimettere l’anatema agli scismatici ucraini, significa che il patriarcato di Costantinopoli stesso si separa dall’ortodossia e da ora in poi tutte le Chiese ortodosse dovranno decidere cosa fare: conservare la comunione sacramentale con il patriarcato di Costantinopoli oppure no. Certamente questa questione, per ogni Chiesa, non potrà essere decisa immediatamente, ma alla fine la Chiesa russa salverà la fede ortodossa dalle distorsioni liberali e le più corrette Chiese ortodosse saranno e resteranno unite. E il patriarcato di Costantinopoli creerà una Chiesa scismatica che si avvicinerà all’occidente, al cattolicesimo moderno e al protestantesimo. Se il patriarcato di Costantinopoli non si ferma, sarà inevitabile.
Professora Lialiou, perché si assiste a uno scontro sul potere o no di Costantinopoli di concedere l’autocefalia, come nel caso ucraino? Da dove origina?
Per capire che cosa significa autocefalia bisognerebbe capire meglio il suo significato e la relazione che ha con la struttura della Chiesa ortodossa, che è un organismo di 14 Chiese locali. Cinque di loro (patriarcato ecumenico di Costantinopoli, patriarcato di Alessandria, patriarcato di Gerusalemme, patriarcato di Antiochia e la Chiesa di Cipro, come arcidiocesi) sono le Chiese locali, i cui confini sono determinati dai canoni dei concili ecumenici. La Chiesa ortodossa accetta come ecumenici solo i sette concili ecumenici, che sono comuni con la Chiesa cattolica romana. Il patriarca ecumenico, fin dai tempi di san Fozio (patriarca tra l’858-867 e l’877-886) ha una responsabilità amministrativa e spirituale nei confronti dei popoli cristiani al di fuori dei territori degli altri patriarcati, e il potere di convocare sinodi generali, normalmente una prerogativa dell’imperatore. -Questo è avvenuto in particolare perché i patriarcati dell’Oriente erano occupati dagli arabi, e quindi un decreto (editto) dell’imperatore non aveva vigore in territorio straniero. A parte il fatto che il patriarca ecumenico era il patriarca della capitale dell’impero bizantino, due canoni di concili ecumenici, il 3° del II concilio ecumenico (381) e il 28° del IV concilio ecumenico assegnano al patriarca ecumenico un ruolo di coordinamento nella Chiesa, soprattutto dopo lo sviluppo parallelo del cristianesimo in Oriente e in Occidente, dai tempi di san Fozio in poi, cosa mai messa in doppio in Oriente.
Nel IX secolo ebbe luogo la cristianizzazione degli slavi da parte dei Santi Cirillo e Metodio, e nel 988 avvenne a Kiev la cristianizzazione dei rus’ - russi da parte del patriarcato ecumenico, dando inizio alle nuove Chiese ortodosse locali, che naturalmente dipendevano dal punto di vista amministrativo e spirituale dal patriarcato ecumenico, essendo sue metropolie. -Dopo la caduta di Costantinopoli e la conquista da parte degli ottomani dei territori degli altri antichi patriarchi d’Oriente, il patriarca ecumenico diventa responsabile per tutti gli ortodossi soggiogati e li rappresenta davanti al sultano. Alcuni patriarchi dei patriarcati orientali vengono eletti dal sinodo del patriarcato ecumenico e restano a Costantinopoli e non alle loro sedi. Nel 1589 il patriarca Geremia II, che si trovava per due anni in visita pastorale in Russia, sotto pressione dello zar Teodoro, conferisce l’onore patriarcale al metropolita Job di Mosca, a condizione che egli riconosca il patriarcato ecumenico come capo dell’ortodossia, così come lo riconoscevano gli antichi patriarcati.
Di fatto, dal 1589 inizia la storia delle nuove Chiese ortodosse locali, provenienti dal corpo del patriarcato ecumenico. Il 12 febbraio 1593 il patriarcato di Mosca si classificò al quinto posto nei dittici della Chiesa ortodossa. Geremia era un patriarca colto, e in Occidente è conosciuto per il dialogo che ha realizzato con i teologi luterani di Tubinga. Cento anni più tardi, nel 1686, durante il pontificato del patriarca Dionisio IV, che dal 1671 al 1694 fu eletto cinque volte al patriarcato, in un periodo estremamente difficile, viene assegnata al patriarca di Mosca l’ordinazione del metropolita di Kiev, a condizione che durante la Divina Liturgia fosse commemorato come capo il patriarca ecumenico. Sino ad allora il metropolita di Kiev era stato eletto dal clero e dal popolo della metropolia di Kiev, non dal patriarcato di Mosca.
Nel corso dei cento anni seguenti la Russia come Stato e come Chiesa cercò di presentarsi come la rappresentante degli ortodossi, da Mosca fino al Mediterraneo, cosa che riuscì a realizzare dopo la prima grande guerra russo-turca (1768-1774). Durante questo conflitto la Russia raggiunse la Bulgaria, dove nel villaggio Kaynardzha firmò il trattato di Küçük Kaynarca (1774) con 28 articoli più due segreti. Con questo trattato, i russi acquisirono il diritto di costruire la propria chiesa nel quartiere di Galata a Costantinopoli, iniziando così a soppiantare la posizione di primo trono nell’ortodossia del patriarcato ecumenico, allo scopo di prevalere politicamente su tutti i popoli ortodossi. In sostanza, i popoli ortodossi più recenti, derivati dal patriarcato ecumenico, subirono una doppia oppressione, russa e ottomana. A questo periodo risale l’inizio della formazione della loro doppia resistenza. Nel periodo seguente Napoleone Bonaparte sale al potere e prendono piede i vari processi che in Europa condurranno alla formazione degli Stati nazionali più recenti. Nella Chiesa ortodossa avvengono dei processi che dal 1839 - a partire dei Greci, i quali nel 1850 ricevono il tomos patriarcale di autocefalia - porteranno il patriarcato ecumenico a concedere una serie di autocefalie: nel 1879 alla Chiesa Serba, che nel 1920 viene riconosciuta come patriarcato; nel 1885 alla Chiesa di Romania, riconosciuta come patriarcato nel 1925; nel 1945 alla Chiesa di Bulgaria, riconosciuta come patriarcato nel 1961. Nel 1990 viene concesso l’onore patriarcale anche all’antica Chiesa della Georgia, che aveva sofferto molto sotto la Russia zarista, perché per cento anni, dal 1811 al 1917, aveva perso la propria autonomia ecclesiastica. Alla Chiesa di Polonia viene concessa l’autocefalia dal patriarcato ecumenico nel 1924; l’anno 1937 viene concessa alla Chiesa di Albania, e nel 1998 alla Chiesa ceca e slovacca. Dal patriarcato ecumenico dipendono l’arcidiocesi autonoma di Finlandia dal 1923 e la Chiesa Ortodossa di Estonia con atto sinodale del 1996.
Come può il patriarca Bartolomeo invalidare l’atto del 1686 con cui Costantinopoli poneva la metropolia di Kiev sottola giurisdizione di Mosca? Se possono essere revocate decisioni di 300 anni, cosa resta di sicuro per quanto riguarda il passato?
Ho risposto in modo così esteso all’ultima domanda per rendere il discorso più comprensibile a un pubblico che ha una percezione diversa di ciò che è l’unità ecclesiastica, anche se ovunque il cristianesimo ha i suoi problemi interni e le sue divisioni. In primis, deve essere chiaro che il patriarcato ecumenico non ha mai concesso la metropolia di Kiev al patriarcato di Mosca. La rimozione dell’atto di commissionare l’ordinazione del metropolita di Kiev da parte del patriarca di Mosca riguarda solo i cristiani ucraini e il patriarcato ecumenico e nessun’altra Chiesa locale. Per di più, se teniamo conto dei disagi dei popoli ortodossi dal Mediterraneo alla Finlandia, i ricatti politici del trattato di Küçük Kaynarca (1774), la rivoluzione russa del 1917, la seconda guerra mondiale e le sue conseguenze, il tempo si indurisce dinanzi alle ansie di ogni popolo ortodosso, e posso solo considerare come un miracolo il suo mantenimento della fede e la sua perseveranza nel riscoprire le radice della propria ecumenicità. Il patriarcato ecumenico non vive nel passato, ma è la Chiesa che ha conservato una continuità sia con gli antichi patriarcati d’Oriente che con le Chiese ortodosse locali, e tutto questo non solo come struttura ecclesiastica, ma come prassi e tradizione patristica, liturgica, teologica, e sinodale.
Quanto è diverso il caso della Chiesa ortodossa macedone - che vive in una sorta di “isolamento” da 50 anni, da quando i suoi metropoliti decisero di staccarsi da Belgrado - da quello dell’Ucraina: anche per gli ortodossi di Maceodnia c’è da aspettarsi un riconoscimento canonico e magari un’autocefalia?
C’è una differenza, perché nel 1923 il patriarcato ecumenico ha concesso l’arcidiocesi di Ocrida al patriarcato di Belgrado, come nel 1928 le metropolie dei cosiddetti nuovi territori alla Chiesa di Grecia del 1850. Le metropolie di Macedonia di Paolo Apostolo e di san Demetrio, come quelle di Epiro e Tracia, o il Monte Athos, appartengono spiritualmente al patriarcato ecumenico. In Macedonia si è spiritualmente orientati verso il patriarcato ecumenico, ci sono ricordi di famiglia che collegano al patriarcato ecumenico e simili memorie le hanno pure gli ortodossi di lingua slava di Skopje. Chi può privarli del loro ricollegamento con la propria Chiesa madre? Io credo che vi sia un interesse affinché gli ortodossi della FYROM acquisiscano canonicità e prendano il loro posto tra gli ortodossi. Noi ortodossi dei Balcani abbiamo tutti la stessa tradizione ecclesiale, sia quelli di lingua slava che quelli di lingua greca, ed è scandaloso ignorarli con il pretesto che sono scismatici. Credo che il patriarcato ecumenico, dopo la soluzione politica del nome dello Stato, cercherà la soluzione più appropriata.
Quali sono gli aspetti che ritiene più inaccettabili della reazione del patriarcato di Mosca?
Considero inaccettabili le espressioni del metropolita Hilarion contro il patriarca ecumenico. Raggiungono il livello di dispute da strada. Capisco che i cristiani russi abbiano poca esperienza con l’ordine ecclesiastico, nonostante il loro potere secolare, perché hanno trascorso quasi cento anni isolati a causa del loro sistema politico, che nemmeno adesso riescono a lasciare alle spalle. Quando avranno studiato e acquisito un maggiore equilibrio politico, comprenderanno i mali che hanno causato ai loro fratelli di fede. Il popolo russo non deve essere assente dalla famiglia dei popoli ortodossi, né dall’Europa, e le loro azioni unilaterali non sono giustificate, così come non lo sono gli ordini di togliere la comunione persino ai semplici chierici e dei laici. Questo fatto non trova riscontri nella storia della Chiesa ortodossa, nemmeno negli anni di Severo di Antiochia. Mi ricorda il protestantesimo di Calvino a Strasburgo.
Cosa prevede per il futuro, in Ucraina e di riflesso nel mondo ortodosso?
Verrà dato il tomos di autocefalia agli ucraini, che costituiranno la loro Chiesa locale. Spero che tutte le parti mostrino la maturità richiesta per guarire le loro ferite, ma anche per rivendicare le lotte dei loro antenati. Il mondo ortodosso, con la sua struttura gerarchica e i suoi antichi patriarcati, che da secoli vive in un ambiente eterogeneo, porta i segni dei chiodi del martirio e un’eredità di una tradizione ecclesiastica secolare e manterrà i suoi principi, come finora ha fatto seguendo la stessa strada, accondiscendendo ai bisogni degli uomini e alle debolezze dei fratelli.
La Chiesa russa dà l’addio a Costantinopoli
di Fabrizio Dragosei (Corriere della Sera, 16.10.2018)
È senza dubbio la rottura più importante di questi ultimi anni, paragonata addirittura al grande scisma che nel 1054 divise la chiesa d’Occidente e quella d’Oriente. Non solo: la separazione da Costantinopoli decisa ieri dal patriarcato di Mosca dopo un rapido sinodo tenuto a Minsk in Bielorussia, rischia di avere ripercussioni gravissime in Ucraina dove si temono frizioni e scontri tra fedeli. Il pomo della discordia tra i due grandi patriarcati dell’ortodossia è costituito infatti proprio dall’autonomia della chiesa ucraina, posta sotto la giurisdizione di Mosca dalla fine del Seicento.
È dallo scioglimento dell’Urss del 1991 che Kiev preme perché la sua struttura venga riconosciuta indipendente, «autocefala», come si dice. La guerra nel Donbass e l’annessione russa della Crimea hanno fatto precipitare le cose in questi ultimi anni. Così nei giorni scorsi il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, che è la guida spirituale dell’intera ortodossia («primus inter pares», primo fra uguali) ha accolto le richieste ucraine, suscitando l’ira di tutta la Russia. Il patriarca Kirill ha protestato e poi ha parlato con i suoi vescovi e metropoliti a Minsk per arrivare all’annuncio della rottura. Sarebbero vicine alla posizione di Mosca undici delle quindici chiese ortodosse nel mondo, compresi gli antichissimi patriarcati di Gerusalemme, Alessandria e Antiochia.
Il Cremlino, naturalmente, si è subito schierato con il suo clero e questo preoccupa non poco Kiev. Le due chiese di Ucraina (quella autonoma e quella che era invece rimasta sotto Mosca) dovrebbero ora unificarsi, ma già si sa che molti, soprattutto nel Donbass, non vorranno cedere. Cosa succederà alle tante proprietà delle due chiese? Il presidente ucraino Poroshenko ha già messo le mani avanti, assicurando che tutto verrà risolto pacificamente. Ma se così non sarà (e molti ne dubitano), allora il Cremlino potrebbe anche cogliere l’occasione per intervenire. Vladimir Putin ha sempre detto che tra i suoi compiti c’è anche quello di difendere i russi ovunque essi siano sottoposti ad angherie, maltrattamenti o altro. La motivazione che ha giustificato il «sostegno» agli abitanti della Crimea che si sono dichiarati indipendenti e poi hanno chiesto di entrare nella Federazione Russa.
La Chiesa ortodossa verso lo scisma sull’Ucraina
di Giuseppe Agliastro (La Stampa, 15.09.2018)
Uno scisma rischia di spezzare in due la comunità ortodossa mondiale e dividere i suoi 300 milioni di fedeli. L’aspro duello politico-religioso sull’Ucraina potrebbe provocare una frattura insanabile tra il patriarcato di Mosca e quello ecumenico di Costantinopoli. Uno storico passo verso il divorzio lo ha compiuto ieri la Chiesa russa che, di fronte alla minaccia di una Chiesa ucraina indipendente e non più a lei sottoposta, ha deciso di «sospendere temporaneamente ogni contatto» con Costantinopoli, che invece caldeggia l’autonomia. Si tratta di un segnale molto forte.
«Equivale alla rottura dei rapporti diplomatici», ha spiegato il metropolita Ilarion, «ministro degli Esteri» della Chiesa russa. Tanto per cominciare, d’ora in poi il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, non sarà più nominato nelle preghiere in Russia e la Chiesa di Mosca non parteciperà più a concili e incontri presieduti da pastori «rivali». Dietro lo scontro ecclesiastico si cela la politica internazionale. Russia e Ucraina sono ai ferri corti per l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass. Per questo, il governo di Kiev preme da tempo per il riconoscimento di una Chiesa ucraina autonoma da quella di Mosca, che è invece legata a doppio filo al Cremlino e il cui patriarca, Kirill, è un fedelissimo di Putin. In Ucraina ci sono ben tre Chiese ortodosse: una sottoposta a Mosca, un’altra con a capo il patriarca Filarete, che contesta Mosca e si dichiara autonoma, e una terza, la piccola Chiesa autocefala ucraina, su posizioni proprie. Le distinzioni si riflettono in ambito politico. La chiesa subordinata a Mosca auspica forti legami con la Russia. Le altre due guardano invece verso Occidente, ma non sono riconosciute dalla comunità ortodossa internazionale.
La resa alle pressioni di Kiev
Alla fine, il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo ha ceduto alle pressioni di Kiev e, in qualità di primus inter pares tra i capi della Chiese ortodosse di tutto il mondo, ha avviato l’iter per concedere all’Ucraina il «tomos», cioè la tanto agognata autonomia. Lui sostiene che l’unione che nel 1686 assegnò quelle terre all’autorità ecclesiastica di Mosca avesse un carattere «provvisorio».
La Chiesa russa però non ne vuole sapere ed è andata su tutte le furie dopo l’invio a Kiev di due vescovi di Costantinopoli per «preparare l’autocefalia». «Si tratta di un’invasione brutale del nostro territorio canonico», ha tuonato il portavoce Vladimir Legoyda. Ilarion ha invece lanciato un vero ultimatum: o Bartolomeo torna sui suoi passi o la scissione sarà inevitabile e addio status di primo tra i pari.
SCHEDA EDITORIALE *
Vasile Alexandru Barbolovici
Il Concilio di Ferrara - Firenze (1438-1439)
Storia ed ecclesiologia delle Unioni.
Presentazione di Virgil Bercea. Introduzione di Cesare Alzati
Descrizione
Il concilio aperto a Ferrara l’8 gennaio 1438 e trasferito l’anno dopo a Firenze proclama l’unione fra la Chiesa greca e quella latina, un accordo che dura sino alla presa di Costantinopoli, nel 1453, e viene rotto ufficialmente da un concilio della Chiesa greca poco meno di vent’anni dopo.
Questo volume si propone di indagare dal punto di vista storico ed ecclesiologico le unioni che si sono verificate dopo il concilio ferrarese-fiorentino. In particolare, la ricerca si sofferma sulla prima grande unione dei ruteni del 1595, conosciuta anche come Unione di Brest, e sull’unione della Chiesa romena ortodossa della Transilvania (1697-1700). Questo avvenimento ha portato alla riscoperta delle radici latine, alla comunione ecclesiastica con la Sede di Pietro e alla nascita di un movimento illuminista che ha suscitato, nel tempo, la nascita di un solo Stato per i romeni delle province di Moldova, Valacchia e Transilvania.
Dal punto di vista ecclesiologico il processo di unione della Chiesa ortodossa romena della Transilvania si compie con il Concilio Vaticano II, che con il documento sulle Chiese cattoliche orientali "Orientalium Ecclesiarium" riconosce le comunità cattoliche orientali come vere Chiese.
Sommario
Sigle e abbreviazioni. Presentazione (V. Bercea). Unio / Уния. Tra realtà storica e ideologie ecclesiastiche (C. Alzati). Premessa. Introduzione. I. L’Europa dell’est tra Roma e Bisanzio fino al concilio di Firenze (1439). II. L’Unione fiorentina del 1439 e le sue conseguenze tra i romeni. III. Le diverse unioni e le loro motivazioni. IV. Il concilio di Firenze e la sua ecclesiologia. V. Le unioni tra difficoltà e resistenze. VI. Il fondamento delle unioni: la tensione all’unità. VII. Il concilio Vaticano II e l’Oriente cattolico. La storia del decreto Orientalium Ecclesiarum del concilio Vaticano II. Conclusione. Bibliografia.
Note sull’autore
Vasile Alexandru Barbolovici, prete romeno greco-cattolico, è dottorato in Teologia con una specializzazione in Studi ecumenici. È vicario generale per la pastorale dei romeno greco-cattolici del Nord Italia e collabora con la rivista Colloquia Mediterranea.
* RECENSIONE (AVVENIRE). Scrive nella Presentazione di questo bel libro Virgil Bercea, vescovo dell’eparchia di Oradea, in Romania: Sin dai tempi apostolici sono esistite frazioni settarie che hanno generato scismi e vere ferite nel Corpo mistico di Gesù Cristo... la storia delle istituzioni ecclesiali - la storia della Chiesa - è una lunga catena dello sfaldarsi dell’unità dei cristiani, ma anche di tentativi di riconciliazione e di rifare questa unità (Maurizio Schoepfelin).
Federico La Sala
Teologia
Guido Bartolucci (Paideia) analizza l’opera di uno dei maggiori esponenti del filone umanista fiorentino
E Marsilio Ficino recuperò la spiritualità ebraica
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, 12.04.2018)
È ormai diventato un luogo comune l’affermazione secondo cui le radici della civiltà europea sarebbero, al tempo stesso, greco-latine, cristiane ed ebraiche.
È anche possibile individuare il momento preciso in cui si è costituita questa triplice eredità nella forma in cui ancora oggi la conosciamo. Essa è infatti il frutto della riscoperta, accanto a quella dei classici, della tradizione ebraica ad opera degli umanisti fiorentini del XV secolo, tra cui spicca il pensatore Marsilio Ficino. È costui, infatti, che per primo propone la conciliazione non solo tra la filosofia greca, specie quella platonica, e il cristianesimo, ma anche con il più antico strato della sapienza ebraica risalente ai patriarchi, che Ficino ritiene di ritrovare in alcuni elementi della qabbalah medievale.
L’interesse di Marsilio, osserva Guido Bartolucci nel libro Vera religio (Paideia), nasceva dal tentativo di ripensare la tradizione teologica e spirituale cristiana, di cui si avvertivano nitidamente i segni di una crisi destinata ad esplodere drammaticamente nel secolo successivo. Al momento, però, prevaleva ancora l’idea che un rinnovamento della Chiesa fosse possibile e che a questo fine la dimensione intellettuale potesse risultare decisiva.
Così, di lì a poco sarà Pico della Mirandola a sviluppare appieno l’idea di una originaria sapienza (la prisca theologia) di cui il cristianesimo rappresenta certo il culmine, ma cui a buon diritto appartengono anche ebraismo e classicità.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE. Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale (...)
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI
Federico La Sala
La storia
Bisanzio brucia nella crociata dimenticata
Nel 1204, due secoli prima di cadere in mano turca, Costantinopoli fu presa dai “fratelli” latini. Parte del suo patrimonio di arte e cultura passò a Venezia. Ora nuovi studi ricostruiscono quell’episodio drammatico
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 17.03.2018)
Il 13 aprile 1204, in una fredda giornata di primavera, una colonna di profughi dall’aspetto di fantasmi si incamminò fuori dalla grande città di Costantinopoli. Era “gente vestita di stracci, emaciata dal digiuno, trascolorata, cadaverica, con gli occhi così rossi che parevano colare sangue anziché lacrime”.
Erano stati torturati, depredati delle loro case e dei loro beni, avevano visto rapite le loro mogli, violentate le loro figlie. Non erano stati i turchi a compiere quello scempio, come sarebbe accaduto due secoli e mezzo dopo, nel 1453.
Erano stati i crociati occidentali. E non era contro gli infedeli che lo avevano portato, ma contro i loro correligionari, i bizantini.
La ferocia di quella singolare guerra santa ebbe tra i suoi testimoni oculari il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici dello Stato più prospero del medioevo: lo storico Niceta Coniata, massimo intellettuale della sua generazione, segretario del basileus fino a poco prima in trono ma anche suo indomabile critico, pensatore indipendente e non certo corifeo del potere, della cui opera è ora stata completata dalla Fondazione Lorenzo Valla l’edizione italiana (Grandezza e catastrofe di Bisanzio - Narrazione cronologica, traduzione di A. e F. Pontani, testo greco a cura di J.-L. van Dieten, introduzione di G. Cavallo, Fondazione Valla Mondadori, tre volumi).
Come ha scritto Steven Runciman, le crociate furono “le ultime invasioni barbariche”. I “barbari”, nelle frasi di Niceta, non sono gli islamici, che anzi i bizantini difesero strenuamente quando fu attaccata la locale moschea, ma quell’“accozzaglia di stirpi oscure e disperse” che erano gli eserciti latini, quei “precursori dell’Anticristo” che “portavano la croce cucita sulle spalle” e che in quei giorni di aprile del 1204 avevano devastato la culla stessa dell’impero romano cristiano, la città che ne custodiva da nove secoli l’identità religiosa oltre che l’eredità artistica, culturale, bibliografica così come la vocazione politica: un modello di Stato multietnico, meritocratico e sostanzialmente egualitario, dotato di una struttura diplomatica rivolta, come l’aquila bicipite, tanto a oriente quanto a occidente.
I profughi che si incamminavano “come una colonia di formiche” stanata dal fuoco avevano assistito al “più grande saccheggio della storia del mondo”, come lo definì lo stesso cronista francese Goffredo di Villehardouin che vi aveva partecipato al seguito di Bonifacio di Monferrato. Le atrocità perpetrate dai cavalieri della quarta crociata sono testimoniate non solo dagli storici bizantini ma anche dai cronisti occidentali, nonché dal papa che l’aveva indetta, Innocenzo III, inorridito nel suo epistolario.
La Città traboccava di capolavori d’arte e di inestimabili libri. Ma ad attrarre gli incolti latini era il fatto che, secondo i loro calcoli, contenesse i due terzi delle ricchezze del mondo conosciuto. Portarono “abominio e desolazione” nel Sacro Palazzo del Boukoleon, coprirono di sterco i marmi policromi della Grande Chiesa di Santa Sofia. Si precipitavano furiosi e urlanti per le strade distruggendo ogni cosa non apparisse trasportabile, fermandosi solo per trucidare gli abitanti e per spalancare le cantine e dissetarsi con il loro vino. Non risparmiarono monasteri, né chiese, né antichi monumenti, lasciarono bruciare gli archivi e le biblioteche. Una parte dei classici greci oggi perduti sarebbe arrivata fino a noi, non fosse stato per quella vandalica insipienza. Nel viaggio degli antichi testi la presa di Costantinopoli del 1204 segnò un naufragio paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria.
Ciò che i veneziani non portarono a casa i francesi distrussero. I cavalli di bronzo dorato dell’Ippodromo sono oggi noti come Cavalli di San Marco, altre inestimabili opere d’arte formano il ricco bottino oggi conosciuto come Tesoro di San Marco. Ma le altre antiche statue bronzee dell’Ippodromo e quelle del Foro di Costantino furono fatte a pezzi e fuse. Nella stessa Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi saccheggiare le reliquie, strappare i paramenti, svellere le suppellettili, calpestare i libri sacri e le icone, dilaniare gli arazzi.
L’orrore continuò per giorni, finché la capitale dell’ortodossia fu ridotta, scrivono i testimoni, a un macello. Perfino i saraceni, annotò Niceta, sarebbero stati più misericordiosi: “Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”, lamenta alla fine della sua opera.
La presa latina di Costantinopoli del 1204 è l’esempio più notevole di quella cruda verità economica delle crociate di cui, al di là dell’ideologia o della retorica confessionale, un libro dello storico oxfordiano Christopher Tyerman, in uscita in traduzione italiana, spiega in dettaglio mentalità, pragmatismo, finalità materiale e obiettivi strategici (C. Tyerman, Come organizzare una crociata, Utet). Si parla di “deviazione” della Quarta Crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli gli alleati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica al posto di quella ortodossa e insediando sul soglio patriarcale un veneziano.
L’alleanza della Realpolitik dei papi di Roma con l’Europa dei traffici, del protocapitalismo delle repubbliche mercantili, portò, con il successivo aiuto dei turchi, alla distruzione di una realtà politica che aveva garantito per secoli benessere e pace governando i conflitti fra le diverse etnie in un immenso territorio unificato dalla lingua greca, dalla religione cristiana, dal diritto romano, dominato da un formidabile sistema di pubblica istruzione e di cooptazione nelle burocrazie che assicurava il dinamismo delle élite e il loro costante ricambio sociale.
Per cinque giorni Niceta, la moglie incinta e il loro gruppo di amici dell’intelligencija costantinopolitana rimasero nascosti. Poi anche loro dovettero sfollare strisciando per i vicoli, i bambini piccoli in spalla, il viso delle ragazze mimetizzato col fango, in direzione della Porta d’Oro. Appena superate le sue torri, Niceta si gettò a terra e inveì contro le grandi mura di Teodosio: perché si reggevano ancora dritte in piedi? non vedevano che la civiltà che custodivano era finita? Poi, “gettando lacrime come semi” lungo la loro strada, si incamminarono per ricongiungersi al resto degli esuli e al governo in esilio insediato a Nicea, in Asia Minore.
Ma quella che Niceta, partito da Costantinopoli con in mano solo il suo manoscritto, pianse come un’irrimediabile fine si rivelò un inizio. Per più di cinquant’anni l’impero di Nicea coltivò non solo la resistenza politica ma anche quella culturale, ricreando un sistema scolastico e universitario, proseguendo la produzione libraria. Quegli intellettuali avevano imparato una lezione: i barbari esistevano. Non erano i popoli che si diceva avessero fatto cadere l’impero romano d’occidente, diversamente da quello d’oriente, che era stato invece capace di assimilarli e accoglierli nella sua classe dirigente. -Erano i figli del feudalesimo, che il sistema statale di Bisanzio aveva sempre combattuto, e di quel “satanico spirito del commercio”, per citare Baudelaire, da sempre incompatibile con la mentalità bizantina, dove la diffidenza dei cittadini verso il mercato e il rifiuto delle premesse etiche della mercatura espresso dagli intellettuali si univa alla condanna teologica del profitto e del lucro.
Anche dopo la riconquista del 1261 e l’insediamento della nuova dinastia dei Paleologhi, la guerra tra banchieri - genovesi e veneziani - continuerà a devastare economicamente e militarmente Bisanzio, a scarnificare quell’istmo culturale e strategico tra oriente e occidente. Ma per quanto cieche possano essere le strategie finanziarie e belliche, gli intellettuali possono sempre, discretamente, mobilitarsi.
Sempre di più si affermerà, tra i protagonisti della cosiddetta rinascenza paleologa, la coscienza dell’insopprimibilità di un’arma incruenta: la cultura. Il duello dei governanti, il risentimento delle masse, lo scontro delle chiese saranno trascesi da una simmetrica e inversa, silenziosa e superiore solidarietà tra umanisti orientali e occidentali. Sarà l’inizio di quella sempre più fitta circolazione di maestri e libri, liberamente scambiati dall’internazionale dei dotti, che darà vita a ciò che chiamiamo “il” rinascimento.
L’antica cultura oltraggiata dai crociati conquisterà la loro stessa patria, la loro stessa curia, la stessa repubblica di Venezia, dove sorgerà, per volere di un umanista bizantino, Bessarione, la prima biblioteca pubblica della storia occidentale moderna. Da Bisanzio verranno e si metteranno all’opera, alacri, i copisti. Nascerà la stampa e non uno ma dieci, cento, mille libri sorgeranno sulle ceneri di quelli distrutti, insieme alle vite dei loro possessori, nella primavera del 1204.
Claudio Moreschini,
Rinascimento cristiano. Innovazioni e riforma religiosa nell’Italia del Quindicesimo e Sedicesimo secolo,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017 *
INDICE DEL VOLUME
Prefazione ................................................................................................ VII
Parteprima
Difesa del Cristianesimo
I. Gianfrancesco Pico della Mirandola tra Savonarola e Giovanni Pico........................3
II. Francesco Zorzi: Teologia e cosmogonia .............................................................71
III. L’autenticità del Corpus Dionysianum: contestazioni e difese........................95
Parte Seconda
Aspetti della poesia cristiana
I. La poesia ermetica e cristiana di Ludovico Lazzarelli: i Fasti Christianae Religionis.....143
II. La poesia di Gian Francesco Pico della Mirandola ........................ 163
III. La riscrittura cristiana di un testo ‘poetico’: Francesco Zorzi e il Cantico dei Cantici..... 219
Parte terza
Le tradizioni teosofiche antiche si inverano nella religione cristiana
I. Cristianesimo e tradizione ermetica .............................................................. 231
II. La tradizione caldaica ..................................................................................265
III. La tradizione (neo)platonica ..........................................................................295
Appendice
Ioannes Francisci Pici Mirandulae domini Concordiaeque Com. Hymnus ad Sanctiss. Trinitatem. Con traduzione a fronte ..... 344
Indice dei nomi .......................................................................................365
* SCHEDA EDITORIALE. - STORIA E LETTERATURA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. il sogno del "regno di dio" in un solo Paese è finito... *
Nel nuovo “Credo” la chiesa del dialogo
Al patriarca Bartholomeos verrà donata oggi una diversa traduzione della preghiera che supera le divisioni fra Occidente e Oriente
di Alberto Melloni (la Repubblica, 13.09.2017)
Mancano otto anni (sembra tanto, ma è il tempo dedicato all’attesa del grande giubileo) al centenario del concilio di Nicea del 325. Il primo detto “ecumenico”. Quello che con la sua “esposizione della fede” (“il Credo” diciamo noi) ha segnato la storia cristiana facendo della sinodalità una esperienza che certo non appartiene alla “essenza” della Chiesa, ma è lo strumento con cui essa cerca di restare fedele al Vangelo nel tempo.
Quel concilio doveva garantire a Costantino l’unità dottrinale dell’impero e sedare un conflitto teologico lacerante sul modo di pensare Dio e dunque sul modo di pensare la natura del potere. La teologia di Ario, infatti, affermava una ineguaglianza fra il Padre e il Figlio: non era una quisquilia per teologi, ma la tesi che avrebbe permesso ad ogni potere di sacralizzare il proprio sistema discendente di dominazione come specchio dell’ordine divino. Il concilio, invece, fece la scelta più difficile: e disse che al cuore del mistero di Dio vi è la relazione e fece della dottrina trinitaria il cuore della fede cristiana.
La «esposizione della fede dei 316 padri» approvata a Nicea fu ampliata nel successivo concilio di Costantinopoli ed è diventata parte della vita liturgica di tutte le chiese cristiane fino ad oggi. Essa ha assorbito una questione che ha pesato come un macigno nei rapporti fra Oriente e Occidente. Il simbolo niceno-costantinopolitano, infatti, non ammetteva ritocchi. La sua immobilità segnalava un paradosso: per dire ciò che è essenzialissimo alla fede di e in Gesù servono parole e organi (il credo e il concilio) a lui ignote.
Ciò nonostante l’Occidente introdusse nella versione latina del Credo, le parole “e dal Figlio” - il Filioque - là dove i padri costantinopolitani aveva detto che lo Spirito si avventura (l’ekporesis è il cammino di chi lascia una città) procedendo “dal Padre”. Una addizione d’origine iberica che l’Occidente difese spiegando che significava “attraverso il Figlio”, lasciando dunque intatta la fede nicena. E che invece molti Orientali considerarono o considerano intollerabile: fino a giudicare i patriarchi che hanno abbracciato il papa come troppo indulgenti verso “l’eretico di Roma”.
Fatto sta che il Filioque è stato oggetto di conflitto, ora attutito ora riacutizzato: ma è anche un’occasione per chiedersi come l’Occidente tradurrebbe oggi nelle lingue vive il testo greco del simbolo. Non certo per illudersi di aggirare l’ostacolo della divisione con una furbizia filologica, ma per chiedersi quale sia il nesso che esiste fra il male del mondo, condannato dalle chiese con giusta energia, e la loro divisione, troppo spesso derubricata a questione tecnico-teologica. Così diciotto secoli dopo, il Credo domanda alle chiese se hanno memoria o meno dell’unità di fede - premessa che decide della celebrazione comune dell’eucarestia - che quel testo enunciava.
L’Occidente infatti s’è legato a una traduzione latina, che ha il Filioque e che soprattutto organizza in strofe a cui il canto aggiunge un po’ di trionfalismo tonale. Ma non ha mai perso il testo greco, con una metrica interna tutta diversa e del quale la Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto, da ultimo con un atto del 1995 della Santa Sede, la intangibilità.
L’Occidente dunque ha conservato il diritto di recitare il Credo in greco (lo hanno fatto anche i papi) e anche quello di tradurlo: specie ora, in una liturgia fatta di lingue vive, che nascono da traduzioni sulle quali il papa ha ridato da pochi giorni alle conferenze episcopali e ai vescovi i poteri che loro competono.
Da questa constatazione deriva l’ipotesi o l’esperimento di una traduzione - che come insegna Tullio Gregory è il ponte da cultura a cultura - del Credo: una traduzione nuova, “dal basso”, e come si vedrà, desiderosa di conservare in una sola parola ciò che il greco dice in una parola, anche a costo di alterare la memorizzazione oggi più diffusa. È stata confezionata in occasione della visita che il Patriarca Ecumenico Bartholomeos farà oggi a Bologna, e alla fondazione dove Giuseppe Alberigo e Giuseppe Dossetti hanno seminato l’amore per lo studio e per i concili: non è una proposta, è un dono.
Ruminata per molto tempo fra alcuni dotti, discussa con una filologa del calibro di Silvia Ronchey, nota a pochissime ma autorevoli figure delle chiese d’Oriente e d’Occidente, questa traduzione lascia il Credo latino alla sua storia: e cerca di far rivivere le rime nascoste della fede comune e il battere di quell’“uno” che sembra un ritornello: il Dio uno, il Figlio uno, la chiesa una, il battesimo uno.
A otto anni dal centenario di Nicea si contenta di dire che scoprire l’unità della fede vissuta dalle chiese e la sinodalità che ha permesso loro di conservare la fedeltà al vangelo sono ancora lì, come un eredità, come un traguardo, come un seme di pace di cui il mondo battuto dalla violenza attende i germogli.
Crediamo in un Dio Uno Padre, Onnipotente, Fattore del cielo e della terra, dei visibili e degli invisibili
E [crediamo] in un Signore Uno, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Unigenito, il Generato dal Padre prima di tutti i secoli, [Dio da Dio], luce da luce, Dio vero da Dio vero generato non fatto, consustanziale al Padre per mezzo del quale tutto fu creato.
Lui [che] per noi, gli uomini, e per la salvezza nostra discese dai cieli e s’incarnò di Spirito Santo e da Maria Vergine s’inumanò.
Il Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, Lui [che] morì e fu sepolto e risorse il terzo giorno, secondo le Scritture e ascese nei cieli, e intronizzato alla destra del Padre e di nuovo tornerà nella gloria giudicante i vivi e i morti, Lui, il cui Regno non avrà fine.
E [ crediamo] nello Spirito Santo il Signore e il Vivificante che si diparte dal Padre e con il Padre e il Figlio il Conadorato e Conglorificato il Parlante per mezzo dei Profeti.
[Crediamo] la chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica
Confessiamo un battesimo Uno per la remissione delle colpe, attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del secolo futuro
Amen.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Francesco e Bartolomeo: che Dio ci aiuti a salvare la sua creazione
Il Papa e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli firmano insieme il messaggio in occasione della Giornata di preghiera per la Salvaguardia del creato. Ricordano che i primi a pagare le devastazioni ambientali sono «i popoli più vulnerabili» e quelli che vivono in povertà «in ogni angolo del mondo». Appello ai potenti: non ci può essere soluzione alla crisi ecologica se la risposta non è concertata e collettiva
di Gianni Valente (La Stampa, 01/09/2017)
Città del Vaticano. La terra ci è stata affidata dal Creatore come un dono mirabile. Ma lo «scenario moralmente decadente» che segna la storia del mondo si è manifestato anche nel nostro «insaziabile desiderio di manipolare e controllare le limitate risorse del pianeta», cedendo all’ingordigia per i «profitti illimitati» promessi dal mercato. Così ci siamo allontanati dal «disegno originale della creazione», e i primi a fare le spese di questo tradimento del disegno di Dio sono quelli che «vivono poveramente in ogni angolo del globo». Per questo serve pregare Dio per ringraziarlo del dono della Creazione, ma anche per chiedere a lui di sostenere l’impegno per la cura e la protezione del Creato. E occorre anche che chi ha responsabilità politiche, economiche e sociali ascolti «il grido della terra» e la supplica dei milioni che implorano la guarigione del «creato ferito».
Non è un semplice manifesto green, ma un vero grido di preghiera il messaggio che Papa Francesco e il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I hanno sottoscritto insieme per chiedere a «tutte le persone di buona volontà» di dedicare tempo a pregare per l’ambiente venerdì 1° settembre, Giornata mondiale di preghiera per la Cura del Creato. Il testo, che del primo settembre porta anche la data, era stato anticipato ieri in una traduzione italiana curata dall’agenzia Asia News, rilanciata quasi integralmente dall’Ansa.
Il Successore di Pietro e il Successore di Andrea invitano a riconoscere che le vicende del mondo si intrecciano col mistero della creazione e col mistero della natura umana, ferita dal peccato originale. E nel contempo - e forse proprio per questo - suggeriscono anche uno sguardo critico originale sul modello di sviluppo trionfante e sulle responsabilità di ha il potere.
Un dono tradito
La Sacra Scrittura - sottolineano Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo nelle prime righe del loro messaggio - rivela che fin dal principio Dio volle che l’umanità cooperasse nelle custodia e nella protezione del creato. «All’inizio, come leggiamo in Genesi (2,5), “nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo”. La terra ci venne affidata come un dono sublime e come eredità della quale tutti condividiamo la responsabilità finché, “alla fine”, tutte le cose in cielo e in terra saranno ricapitolate in Cristo».
Ma a dispetto di questo disegno buono, la storia del mondo ha fatto emergere uno contesto diverso, segnato da «uno scenario moralmente decadente», dove l’attitudine degli uomini verso il creato ha progressivamente oscurato la vocazione degli uomini a essere «collaboratori di Dio». La pulsione a spezzare i «delicati ed equilibrati ecosistemi del mondo», l’insaziabile desiderio «di manipolare e controllare le limitate risorse del pianeta, l’avidità nel trarre dal mercato profitti illimitati: tutto questo ci ha alienato dal disegno originale della creazione». Adesso - proseguono Bartolomeo e Papa Francesco - «non rispettiamo più la natura come un dono condiviso; la consideriamo invece un possesso privato. Non ci rapportiamo più con la natura per sostenerla; spadroneggiamo piuttosto su di essa per alimentare le nostre strutture».
Pagano i poveri
Le conseguenze di questo processo di alienazione - si legge nel messaggio sottoscritto da Papa Bergoglio e dal Patriarca ecumenico - sono «tragiche e durevoli. L’ambiente umano e quello naturale si stanno deteriorando insieme, e tale deterioramento del pianeta grava sulle persone più vulnerabili. L’impatto dei cambiamenti climatici si ripercuote, innanzitutto su quanti vivono poveramente in ogni angolo del globo. Il nostro dovere a usare responsabilmente dei beni della terra - scrivono Papa e Patriarca - implica il riconoscimento e il rispetto di ogni persona e di tutte le creature viventi. La chiamata e la sfida urgenti a prenderci cura del creato costituiscono un invito per tutta l’umanità ad adoperarsi per uno sviluppo sostenibile e integrale ».
Il Signore e il cuore dei potenti
Davanti allo scenario descritto, i due pastori cristiani, uniti anche «dalla medesima preoccupazione per il creato di Dio, e riconoscendo che la terra è un bene in comune», invitano con fervore tutte le persone di buona volontà «a dedicare, il 1° settembre, un tempo di preghiera per l’ambiente». Una preghiera per ringraziare «il benevolo Creatore per il magnifico dono del Creato», ma anche per chiedergli di sostenere un rinnovato impegno per la cura e la preservazione di quel dono: «Alla fine, sappiamo che ci affatichiamo invano se il Signore non è a nostro fianco».
A Dio, Bartolomeo e Papa Francesco chiedono di cambiare il modo con cui gli uomini si relazionano con il mondo. E la preghiera rivolta a Dio, affinché tocchi i cuori di tutti, è implicitamente connessa all’appello che Papa Francesco e Bartolomeo, nel loro messaggio, rivolgono a chi gestisce il potere: « Noi rivolgiamo, a quanti occupano una posizione di rilievo in ambito sociale, economico, politico e culturale» scrivono i due pastori «un urgente appello a prestare responsabilmente ascolto al grido della terra e ad attendere ai bisogni di chi è marginalizzato, ma soprattutto a rispondere alla supplica di tanti e a sostenere il consenso globale perché venga risanato il creato ferito. Siamo convinti - aggiungono - che non ci possa essere soluzione genuina e duratura alla sfida della crisi ecologica e dei cambiamenti climatici senza una risposta concertata e collettiva, senza una responsabilità condivisa e in grado di render conto di quanto operato, senza dare priorità alla solidarietà e al servizio».
La sollecitudine del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli per la cura del creato si è accresciuta con manifestazioni più accentuate a partire dalla fine dagli anni Ottanta del secolo scorso. È la prima volta che Papa e Patriarca co-firmano una dichiarazione comune sull’ambiente, ma il Patriarcato di Costantinopoli già nel 1989 ha fissato al 1° settembre la Giornata di Preghiera per la salvaguardia della natura. Anche per questo appare fuori luogo ogni lettura dell’appello di Papa Francesco e Bartolomeo come strumento di polemiche politiche di corto respiro.
Nel settembre 1995, intervenendo al simposio internazionale su “Apocalisse e Ambiente”, organizzato dallo stesso Patriarcato ecumenico e dal Wwf, Bartolomeo già aveva invitato uomini di Chiesa e scienziati a dialogare sulla questione ambientale, pur ribadendo che su questo terreno «le esortazioni moraleggianti in nome del bene comune hanno scarsa utilità». Nella sensibilità ortodossa, oggi abbracciata con tanto entusiasmo da Papa Francesco, anche la devastazione del creato è un segno della generale dimenticanza del Mistero che fa tutte le cose. Così come l’amore vero ai doni della creazione appare connaturale a chi «diviene una nuova creatura in Cristo»
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL. Un’intervista a John Chryssavgis di Chiara Santomiero
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
Papa Francesco in Messico, a Cuba storico incontro con il patriarca Kirill
parlato come fratelli, io felice E rivela un retroscena,"ne parlai a Raul Castro già a settembre"
di Fausto Gasparroni *
"Con Kirill è stata una conversazione di fratelli. Abbiamo parlato con tutta franchezza. Sono rimasto felice". Sentir raccontare lo storico colloquio col patriarca di Mosca e di tutte le Russie direttamente dalla voce del Papa: tale la gioia e l’entusiasmo di Francesco per l’avvenuto incontro, che il Pontefice ne ha voluto fare partecipi i giornalisti subito dopo, durante il volo che dall’Avana lo ha portato a Città del Messico.
"Voglio dirvi i miei sentimenti - ha esordito Bergoglio -. Prima di tutto i sentimenti di accoglienza e disponibilità del presidente Raul Castro". Il Papa ha rivelato anche un retroscena della preparazione dell’incontro con Kirill. "Io avevo parlato col presidente Castro di questo incontro l’altra volta (nella sua visita dello scorso settembre, ndr) ed era disposto a fare tutto - ha raccontato -. E lo abbiamo visto: ha preparato tutto per bene. Per questo vorrei ringraziarlo".
"Secondo, col patriarca Kirill, è stata una conversazione di fratelli - ha proseguito -. Punti chiari, che ci preoccupano tutti e due. Ne abbiamo parlato con tutta franchezza. Io mi sono sentito davanti a un fratello. E anche lui mi ha detto lo stesso". "Due vescovi - ha spiegato il Pontefice - che parlano delle situazioni delle loro chiese. Poi della situazione del mondo, delle guerre, guerre che adesso si rischia non essere più tanto ’a pezzi’, ma che coinvolgono il mondo". Poi "della situazione dell’ortodossia, del prossimo sinodo pan-ortodosso".
L’ABBRACCIO TRA FRANCESCO E KIRILL
"Ma io vi dico davvero - ha ribadito il Papa -, io sentivo una gioia interiore, una gioia del Signore. Lui parlava liberamente e anche io parlavo liberamente. Si sentiva la gioia, i traduttori erano bravi, tutti e due". Bergoglio ha confermato che "è stato un colloquio a sei occhi: il patriarca Kirill e io, sua eminenza il metropolita Hilarion e il cardinal Koch, e i due traduttori. Ma con tutta libertà: parlavamo noi due, gli altri facevano qualche battuta". Terzo punto. "Si è fatto un programma di possibili attività in comune - ha annunciato Francesco - perché l’unità si fa camminando. Una volta io ho detto che l’unità si fa nello studio, nella teologia, ma verrà il Signore e noi saremo ancora lì a costruire l’unità". "L’unità si fa camminando - ha ripetuto -, che almeno il Signore ci trovi che stiamo camminando". Dopo le due ore di colloquio, "noi abbiamo fatto questa dichiarazione che avete in mano", ha quindi aggiunto il Papa. "Ci saranno tante interpretazioni, tante", ha pronosticato, "se c’è qualche dubbio padre Lombardi potrà dire il significato della cosa". "Non è una dichiarazione politica - ha rimarcato Francesco -, non è una dichiarazione sociologica, è una dichiarazione pastorale. Anche quando si pala di secolarismo, di cose chiare, la manipolazione biogenetica, è pastorale, di due vescovi che si sono incontrati con preoccupazione pastorale. Io sono rimasto felice". E adesso, ha concluso con un sorriso pensando all’arrivo a Città del Messico, "mi aspettano 23 chilometri di ’papamobile’ aperta".
* ANSA, 13 febbraio 2016 (ripresa parziale).
La rivoluzione cristiana a Cuba
Il Papa e il Patriarca. Il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa in uno storico incontro oggi all’Avana, luogo "neutro" scelto non certo a caso. Saranno loro due a salvare il mondo da fondamentalismi e turbocapitalismi?
di Franco Cardini (il manifesto, 12.02.2016)
Diciamola tutta: non è un annunzio di quelli che possono lasciare indifferenti. Nel novembre 2014, conversando con i giornalisti in aereo durante il viaggio di ritorno dalla Turchia, papa Francesco aveva risposto a un giornalista che gli aveva domandato qualcosa a proposito di un probabile incontro con il patriarca moscovita Kirill: «Gli ho detto: - Io vengo dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vengo -; e anche lui ha la stessa volontà».
Ora, il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa stanno per incontrarsi, oggi 12 febbraio, molto lontano dalle loro rispettive sedi: all’aeroporto dell’Avana, in Cuba, un luogo che papa Bergoglio già conosce per esservi stato trionfalmente accolto pochissimo tempo fa; un’isola caraibica abitata da discendenti di coloni spagnoli e di schiavi africani, un popolo che parla il medesimo idioma della “sua” Argentina, nella “sua” diletta America latina. Una periferia tra le periferie, di quelle che secondo il pontefice sono particolarmente adatte a comprendere e a farci comprendere il mondo nel quale viviamo.
Cuba ha conosciuto mezzo millennio di dominazione spagnola e più di mezzo secolo di “libertà” dominata in modo quasi coloniale dagli Stati Uniti, un triste periodo di brutali dittature e di pesante corruzione che l’avevano trasformata nella bisca e nel bordello dei Caraibi; quindi, l’oltre mezzo secolo di austero e sotto molti aspetti eroico regime socialista insidiato da un embargo disumano che non lasciava passare nemmeno le merci destinate a scopi umanitari ma durante il quale - nonostante la limitazione di certe libertà, la religiosa inclusa - l’isola è riuscita a porsi ad avanguardia e ad esempio di sviluppo civile, culturale e sanitario.
Cuba è povera: ha le sue piantagioni di canna da zucchero e il suo pregiato rum, quelle di tabacco e i suoi celeberrimi sigari, un po’ di buon caffè e un po’ di rame; e vuole restare sobriamente povera, autolimita lo sviluppo industriale, ha espresso una saggissima legge che impedisce l’inquinamento dei suoi fiumi dove la navigazione a motore è vietata e che sono quindi dei veri e propri paradisi naturali. Ma produce una ricchezza straordinaria, che in questi decenni ha esportato in tutta l’America latina procurandosi in cambio il petrolio e altre merci indispensabili: le sue università, di eccellente livello (è uno dei paesi al mondo con la più forte densità di laureati) sfornano medici e insegnanti che poi lavorano, stimati e apprezzati, nell’intero continente. Un articolo di esportazione pregiatissimo.
Cuba è un paese di gente onesta e ordinata, dignitosissima anche nei suoi pur numerosi mendicanti che lo stato si sforza di reprimere con metodo e rigore, ma senza usare violenza.
La migliore cucina russa
D’altra parte, oltre mezzo secolo dopo la famosa crisi che per un pelo non fece scoppiare la terza guerra mondiale, i cubani non hanno dimenticato l’appoggio sovietico che per molto tempo ha consentito loro di far fronte all’embargo. Forse non rimpiangono il sogno sinistro della “cittadella” nucleare che avrebbe dovuto sorgere nell’estremo ovest dell’isola, e il profilo degli scheletri delle cui spettrali cupole abbandonate si nota ancora da lontano, circondato da un deserto di abitazioni in cemento armato degno della periferia staliniana di Mosca.
Però ricordano con simpatìa, quasi con affetto, i loro vecchi alleati: non è raro incontrare gente di mezza età che parla ancora un discreto russo; e sul Malecón, il Lungomare che collega il centro della città alla fortezza spagnola dominante il porto e che ora comincia a rifiorire dopo il forzato abbandono di tanti begli edifici che l’embargo rendeva impossibile restaurare, una grande bandiera rossa con tanto di falce e martello svetta sul palazzo che ospita il «Restaurante sovietico» nel quale si servono ancora i tipici piatti della migliore cucina russa.
A Cuba, come in molte altre regioni latinoamericane, esiste una fiorente comunità russo-ortodossa (non crediate che cose del genere siano esclusive degli Stati Uniti, come abbiamo imparato dal Cacciatore di Michael Cimino): proprio nel centro della città, accanto a una celebre rivendita di rum, una chiesa ortodossa nuova di zecca con le mura immacolate di calce e la cupola dorata reca ben in vista, sul frontone, una lucente targa di rame nella quale si ringrazia il presidente Vladimir Putin per un generoso finanziamento.
Si sa per certo che nel maggio scorso Raúl Castro, incontrando Putin e il patriarca Kirill a Mosca, aveva esternato a entrambi - su richiesta di papa Francesco - il desiderio del vescovo di Roma, cui egli deve tanto per il “disgelo” con gli Usa, d’incontrarsi con il capo degli ortodossi russi; e che in seguito, ospite del papa a Santa Marta, gliene aveva riferito.
Queste prospettive diplomatiche, mentre a Cuba nel rinnovato clima di collaborazione con il governo le autorità ecclesiastiche acquistano sempre più peso, appaiono di speciale importanza alla vigilia delle elezioni statunitensi del prossimo novembre.
Ted Cruz e Marco Rubio
Per quanto ne appaia poco importante la vittoria, si profila una qualche ipotesi che la Casa bianca - anziché dai due principali contendenti, Trump e la Clinton - possa venir occupata da un cattolico d’origine cubana figlio di rifugiati politici anticastristi. Se Ted Cruz o Marco Rubio diventassero presidenti, che cosa prevarrebbe in loro, l’affetto per la madrepatria d’origine oppure l’anticastrismo, probabilmente forsennato, succhiato con il latte materno?
Tutto ciò potrebbe influire in modo determinante sul carattere del “disgelo” tra Washington e L’Avana: un disgelo che a Cuba è atteso con speranza e apprensione poiché si teme che, insieme con l’acqua sporca del bagnetto, cioè quel che resta del regime monopartitico, il «ritorno della libertà» faccia sì, come accadde nell’Unione sovietica di un quarto di secolo fa, che si getti via anche il bambino delle garanzie sociali di base come l’istruzione e l’assistenza medica gratuite; e che si assista allo squallido spettacolo dell’assalto liberista e delle privatizzazioni selvagge con la conseguenza di un deciso ed esteso peggioramento delle condizioni della popolazione e dell’avvìo di un processo di crescente ingiustizia sociale. Grazie a Dio, i «Chicago Boys» sono oggi solo un triste ricordo: e tuttavia...
L’isola di Castro e «della libertà»
È comunque significativo che un influente personaggio del patriarcato moscovita, il metropolita Hilarion Alfeyev, conversando con i giornalisti russi, abbia detto a proposito dell’incontro fra i due capi delle Chiese: «Abbiamo scelto l’isola della libertà». Una tale definizione, che qualcuno ha trovato scandalosa e qualcun altro straordinariamente significativa, ha un carattere fondamentale. Non è facile credere casuale la scelta del territorio cubano - per definizione “neutro” - come luogo dell’incontro. È vero: Kirill sarà già nell’isola per la sua visita ufficiale a quel paese, Francesco anticiperà di alcune ore la partenza per la sua visita pastorale in Messico e potrà quindi rivedere, pochi mesi dopo gli incontri di Roma e dell’Avana, il suo ormai «vecchio amico» Raúl Castro, il quale in queste ore è comprensibilmente al settimo cielo per l’accresciuto prestigio internazionale che l’evento gli sta procurando.
Ma Cuba non è ancora uscita dal socialismo e rischia di diventar terreno di razzìa per il turbocapitalismo. Questo è il punto. Il presente, lo conosciamo. E il futuro?
Di che cosa dunque, parleranno, Francesco e Kirill? Si è fortemente sottolineato che entrambi lanceranno un forte appello ai popoli e ai governi affinché venga arrestata l’onda delle persecuzioni e degli assassinii di cui sono vittime i membri delle comunità cristiane ospiti di molti paesi musulmani dell’Asia e dell’Africa.
Intanto, a Mosca si ripubblicano i testi di Soloviev e circola con insistenza la sua profezia: l’alleanza tra il papa di Roma e la santa Russia salverà il mondo. Da che cosa? Dal fondamentalismo islamico che brucia le chiese e uccide i cristiani, commentano alcuni. Dall’arroganza turbocapitalista che ha imposto quel sistema della «inequità» denunziato dall’enciclica Laudato si’, replicano altri.
Dopo l’Internazionale dei lavoratori di tutto il mondo uniti che non si è mia avverata e quella dei capitalisti delle lobbies che si è avverata fin troppo con aberranti e allarmanti risultati, quella dei cristiani uniti nel segno della giustizia e della misericordia potrebbe sul serio essere la Rivoluzione del XXI secolo.
Papa Francesco: il 12 febbraio storico incontro con il patrarca di Mosca Kyrill a Cuba
Lombardi, incontro con Kyrill preparato da tempo
di Redazione ANSA *
Il Papa e il patriarca di Mosca Kyrill si incontreranno a Cuba il 12 febbraio, quando il Papa farà una tappa prima del viaggio in Messico. Lo annunciano congiuntamente Sante Sede e Patriarcato di Mosca, definendolo "storico incontro". I due si incontreranno all’aeroporto di Cuba e rilasceranno anche una dichiarazione comune.
"La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca - si legge nel comunicato congiunto, che è stato letto ai giornalisti da padre Federico Lombardi in sala stampa vaticana - hanno la gioia di annunciare che, per grazia di Dio, Sua Santità Papa Francesco e Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia, si incontreranno il 12 febbraio. Il loro incontro avrà luogo a Cuba, dove il Papa farà scalo prima del suo viaggio in Messico, e dove il Patriarca sarà in visita ufficiale. Esso comprenderà un colloquio personale presso l’aeroporto internazionale José Martí dell’Avana e si concluderà con la firma di una dichiarazione comune". "Questo incontro - prosegue la nota - dei Primati della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa russa, preparato da lungo tempo, sarà il primo nella storia e segnerà una tappa importante nelle relazioni tra le due Chiese. La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca auspicano che sia anche un segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà. Invitano tutti i cristiani a pregare con fervore affinché Dio benedica questo incontro, che possa produrre buoni frutti".
L’ incontro tra il Papa e il patriarca di Mosca Kyrill è stato "preparato da lungo tempo", afferma il comunicato congiunto Santa Sede-Patriarcato di Mosca, letto da padre Federico Lombardi in sala stampa vaticana. "Sono lieto - ha detto il portavoce - di poter leggere un importante comunicato, lo leggerò in quattro lingue, e ho aspettato le 12,10 perché è congiunto con il patriarcato di Mosca".
Secoli di teologia e mosse politiche per ricomporre il grande scisma
Dalla Bolla d’Unione del 1439 agli appelli per la difesa “unita” della cristianità di fronte all’avanzata dell’Islam
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 07.02.2016)
LA ricomposizione dello scisma tra le chiese ha nella storia un concreto precedente: la Bolla d’Unione che nel 1439, al concilio di Ferrara-Firenze, fu letta da Bessarione, allora delegato bizantino, e dal cardinale Cesarini, rappresentante di papa Eugenio IV. Dopo secoli di tentativi, sembrava abolito quel “colpo di forbice” (“scisma”, dal greco schìzo, “tagliare in due”) che aveva diviso la cristianità nel 1054, al tempo del cardinale di Silvacandida, legato di papa Leone IX, e di Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli.
La motivazione della reciproca scomunica tra papa e patriarca era politica. Silvacandida reiterava l’antica pretesa del primato petrino, rivendicando la supremazia del vescovo di una chiesa, quella di Roma, che si era fatta stato. Cerulario voleva imporsi sul proprio stesso imperatore, vero capo della chiesa in uno stato, quello bizantino, in cui il clero era stato estromesso dal potere secolare.
Non erano meno politici gli altri assunti dogmatici dello scisma: a parte il celibato dei preti o la questione delle azzime, al centro era, e tutt’oggi è, la questione del Filioque.
Concili e concili, nell’era delle dispute trinitarie, avevano discusso sottilmente la processione dello Spirito Santo, per accordarsi alla fine che procedeva dal Padre attraverso il Figlio (per Filium). La bizzarra pretesa, emersa nella lontana e selvatica Spagna dei secoli bui, che il divino Pneuma procedesse dal Padre “e dal Figlio” (Filioque, appunto) non era una reale alternativa alla conclusione dei grandi padri conciliari. Il Filioque cattolico era un’interpolazione incolta che non si poteva neanche includere tra le tante definizioni erronee della teologia trinitaria. Ma quella svista, che stravolgeva il credo niceno-costantinopolitano, era stata difesa per i loro buoni motivi dai papi del tempo di Carlo Magno, che aveva imposto un suo piccolo “sacro romano impero” rivale di quello fino ad allora egemone, Bisanzio.
Su questa forzatura il papato aveva prosperato e rafforzato la sua influenza sull’Europa. L’assunzione del Filioque a bandiera dello scisma era dunque teologicamente pretestuosa quanto eminentemente realpolitica.
Altrettanto realista, in un tempo di incalzante avanzata islamica, era stata la Bolla d’Unione di Firenze. La contropartita del trasformismo dogmatico di Bessarione era la grande spedizione militare delle potenze europee per evitare che Costantinopoli cadesse in mano ai turchi, effetti-vamente organizzata da Roma ma fallita a Varna nel 1444 per una di quelle variabili caotiche di cui è fatta la storia.
Senza il tradimento di alcuni mercanti genovesi l’Unione di Firenze avrebbe forse retto, il mondo cristiano non sarebbe rimasto scisso. Ma la storia non si fa con i “se”. Dopo la carneficina di Varna l’Unione fu vista in Occidente come una maledizione. In Oriente era stata già denunciata, non solo dal clero costantinopolitano ma anche e soprattutto dalla rampante chiesa russa.
Isidoro di Kiev, che insieme a Bessarione l’aveva concertata, fu rinchiuso nella fortezza del Gran Principe di Mosca. Non si sa come riuscì a fuggirne, ma lo fece e raggiunse Roma, dove divenne “cardinale orientale” della curia. Ancora alla vigilia della caduta di Costantinopoli celebrò a Santa Sofia una grande messa “a chiese unite”. Poi combattè sugli spalti, fu sconfitto, si salvò e scrisse al papa che il demonio islamico puntava all’Europa e “minacciava di entrare a San Pietro”.
Era un’esagerazione ma va detto che la caduta di Costantinopoli del 1453 ebbe sul mondo un effetto traumatico paragonabile a quello della caduta delle Torri Gemelle: insinuò un terrore dell’islam e un’islamofobia che solo pochi illuminati come Nicola Cusano o il papa umanista Pio II cercarono di attenuare. Con la Seconda Roma ampiamente islamizzata, il primato della cristianità orientale passò alla Terza Roma, Mosca.
Le nozze tra Ivan III e Zoe Paleologìna trapiantarono in Russia la successione dinastica dei “cesari”, saldandola ulteriormente all’ortodossia. La dottrina teologico- autocratica della Terza Roma zarista, sostenuta da Ivan il Terribile, si perpetuerà fino all’impero comunista. Nell’era moderna non sarà più la chiesa greca, languente sotto la turcocrazia, ma quella russa, legata a uno stato forte, il vero ostacolo al primato dei papi. Terza sponda nel duello tra impero ottomano e potenze europee, Mosca non revocherà mai la chiusura all’Unione manifestata fin dall’inizio dal suo clero.
Fin dall’incontro di Gerusalemme con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo nel maggio 2014, Bergoglio ha annunciato una celebrazione congiunta tra cattolici e ortodossi del concilio di Nicea del 325, che diciassette secoli fa espresse la formulazione originaria del credo. Ultimo di un crescendo di messaggi alla chiesa russa, preliminare al concilio panortodosso di giugno, il gesto di apertura al patriarca Kyril appare, nella strategia ecumenica di Francesco, un aiuto non solo al dialogo tra ortodossi e cattolici ma anche a quello interno tra ortodossi, condizionato dalla loro complessa storia.
Oggi che a porsi come difensore della cristianità nel mondo islamico in fiamme è di nuovo, come secoli fa, uno “zar”’, la mossa di Francesco appare di nuovo un richiamo alla Realpolitik: la migliore arma che la chiesa ha saputo usare nella storia quando ha guardato non alle questioni interne, ma ai grandi rivolgimenti del globo.
Quando i buddisti eravamo noi
La scoperta dell’immagine del Gesù-Siddharta venerato per secoli da una comunità manichea nel sud della Cina apre nuovi studi e riflessioni sul rapporto tra filosofia orientale e occidentale
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 16.01.2016)
La figura solitaria dal viso assorto, i capelli neri raccolti sulla nuca, siede su un alto trono esagonale. La testa è circondata da un’aureola di luce inscritta nel contorno di una più ampia mandorla che si intravede sullo sfondo brunito del lungo rotolo di seta dipinta. Uno sfolgorio di rosso e oro accomuna i petali dell’immenso fiore di loto dischiuso sotto le sue gambe incrociate e il simbolo della croce che regge tra le dita sottili della mano sinistra, all’altezza del cuore, mentre le dita della destra compongono un esoterico gesto.
È il Buddha, ed è insieme il Cristo, e in entrambe le vesti è stato venerato per secoli dagli adepti della comunità manichea del sud della Cina per cui la sua immagine, conservata dall’inizio del Seicento nel tempio zen di Seiun-ji in Giappone, fu prodotta fra il XII e il XIII secolo.
«O vasto e gentile Gesù Buddha, ascolta le mie parole di dolore. Modesto e sempre desto Re della Mente, Anticipatore del Pensiero, guidami fuori da questo mare avvelenato, verso l’acqua fragrante dell’Emancipazione», si legge nel Rotolo innologico manicheo della British Library, la più antica attestazione liturgica del culto di Gesù in quanto Buddha tra i seguaci di Mani della Cina medievale.
Quest’immagine e queste parole provengono dalle pagine di un articolo pubblicato su una rivista scientifica svizzera da una studiosa ugroamericana di arte religiosa dell’Asia Centrale, Zsuzsanna Gulacsi, grande esperta di manicheismo. La sua argomentazione e la sua tesi finale - nella raffigurazione del “profeta” Gesù Buddha è in realtà esplicitata la dottrina della religione dualistica e connaturatamente sincretistica di Mani, cui vanno attribuiti sia il simbolo della Croce di Luce, materializzato nella statuetta, sia il principio della separazione tra luce e tenebra, simboleggiato dal gesto della mano destra - danno nuovo senso a dati già acquisiti ma non ancora elaborati dagli eruditi.
Al di là dello specialismo, l’emergere dal passato orientale del Gesù-Buddha- Mani di Seiun-ji, i suoi epiteti, la forza delle invocazioni parlano in modo immediato al presente occidentale, dove sempre di più il buddismo si radica nella prassi di una crescente élite di figli dell’esistenzialismo, nell’utopia di una non-religione dall’etica resistente alla secolarizzazione ma compatibile con gli approdi della filosofia e con le conquiste della psicologia.
A metà del Novecento il Siddharta di Hesse aveva spontaneamente orientato il suo revival nella cultura pop. Anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza del buddismo in occidente aveva prodotto un’ibridazione confessionale in cui lo yoga e le tecniche ancestrali di meditazione proprie dell’esicasmo cristiano e del sufismo islamico, come già prima delle scuole platoniche e pitagoriche, erano sostanzialmente tollerate se non promosse dai residui esponenti delle religioni ufficiali.
«Perché non possiamo non dirci cristiani», si domandava Benedetto Croce all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta onestà dovremmo oggi riflettere sul perché non possiamo non dirci buddisti. Più di una filosofia, meno di una religione, mai una dogmatica, il buddismo è oggi la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna. In genere si fa risalire il suo influsso nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire occidentali allo slancio degli studi di orientalistica che influenzarono il giovane Schopenhauer.
Ma quella conoscenza era già ben diffusa tra gli illuministi, per il tramite privilegiato delle missioni in Cina e in Giappone, ma anche in Tibet e Sri Lanka, degli avventurosi gesuiti che tra Cinque e Settecento avevano trasmesso accurati resoconti, in particolare, sul buddismo tibetano.
Di recente una studiosa americana, Alison Gopnik, ha cercato di dimostrare l’influenza diretta delle Notizie istoriche del Tibet del padre Desideri sulla composizione del Trattato sulla natura umana di Hume, avvenuta a stretto contatto con l’ambiente gesuita del Collège de La Flèche, nel nord della Francia. Ma già il Seicento spagnolo era impregnato di buddismo. Il suo riflesso più occidentale è ne La vida es sueño di Calderón de la Barca, attraverso cui la trama della vita del Tathagata si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca.
Ancora molto prima il buddismo era penetrato in occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva, si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta che non possiamo non considerare oggi compiuta. La Controriforma aveva dovuto prendere atto che a Bisanzio fin dall’XI secolo il Buddha era venerato dalla chiesa e nonostante lo scetticismo di Bellarmino nel 1583 il cardinal Baronio lo aveva incluso nel Martirologio Romano come santo «apud Indos Persis finitimos. Il buddismo non aveva mai avuto una Scrittura.
Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro, aveva trasformato la vita del Buddha in libro: la cosiddetta Storia di Barlaam e Ioasaf, composta nell’età di sincretismo e cosmopolitismo immediatamente successiva all’espansione militare e culturale araba e al cosiddetto iconoclasmo. È a partire da questo decalcarsi dell’impronta buddista nello stampo greco per il tramite dell’islam che quel Siddharta ante litteram si riprodurrà in progressione geometrica nella letteratura globale e Buddha estenderà la sua predicazione nell’occidente ancora del tutto cristiano.
Detti e fatti dell’interpretazione cristiana del principe Siddharta risuoneranno in ogni lingua europea con una diffusione non raggiunta da nessun’altra leggenda agiografica. Sedurrà l’Italia più mistica, si trasfonderà nel Trecento senese di Caterina, attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio e di qui al teatro di Shakespeare. Aveva raggiunto, prima, la Provenza dei catari e degli albigesi, attraverso il latino ma con l’influenza del manicheismo orientale. È in effetti la pista manichea, desunta dai frammenti in turco uiguro e in neo-persiano portati alla luce dalle spedizioni archeologiche di inizio Novecento, quella che con più forza è emersa nel rompicapo degli eruditi sull’origine del Buddha cristiano. Ed ecco, il cerchio si chiude, riportandoci al rotolo di Seiun-ji.
Quest’immagine di perfetto sincretismo a sua volta permette un ulteriore passo indietro. Dal bacino del manicheismo emergeva, tra il IV e il V secolo, il massimo cervello cristiano di tutti i tempi, Agostino. Quella che aveva conosciuto in Mani era una dottrina gnostica già impregnata di un’idea di salvezza propriamente religiosa.
Ma in realtà, nel seno della filosofia ellenistica in cui il flusso oriente-occidente era continuo, lungo la rotta della conquista di Alessandro, nello splendore dei regni indogreci, nelle predicazioni dei monaci greci buddisti che re Ashoka inviò ai monarchi affacciati sul Mediterraneo, o degli asceti erranti che giunsero fino alla corte di Augusto, lo stesso germoglio di ciò che chiamiamo buddhismo dovette essere rinvigorito dallo scambio, prima che con lagnosi, con il pensiero delle scuole elleniche.
Anche se la prima menzione del Buddha nella storia della letteratura europea si trova solo alla fine del II secolo, negli Stromata, i “Tappeti” letterari di Clemente di Alessandria, è congetturabile una coabitazione e contaminazione tra le dottrine del Gautama Sakyamuni e quelle, ancora recentemente evocate da Christopher Beckwith, dei filosofi scettici, o dello stoicismo antico.
Se non possiamo non dirci buddisti, cos’è allora che veramente noi occidentali chiamiamo buddismo? Non una dottrina, non una religione, non una filosofia, piuttosto la prensile erba di una conoscenza capace di allacciarsi e adattarsi e dare linfa a diverse religioni, dottrine, filosofie.
Il germe radicato nel nostro passato, ciclicamente reinterrato e rifiorito, di una verità universalmente diffusa perché straordinariamente persuasiva, indiscutibile e intuibile, in certi folgoranti attimi, anche a livello prerazionale: la percezione, continuamente rimossa, delle “cose come sono”, per usare l’espressione di Hervé Clerc; la stupefazione che sta all’origine di ogni visione filosofica; dove il riconoscimento dell’illusorietà dell’esistenza e dell’impermanenza dell’essere è in realtà il nucleo stesso di ciò che gli antichi greci, poco dopo la morte del Gautama storico, chiamarono per la prima volta filosofia.
Papa a Bartolomeo I: nessun ostacolo a comunione eucaristica *
Nell’odierna festa di Sant’Andrea, Patrono della Chiesa ortodossa, il Papa al termine della Messa celebrata nel campo sportivo di Bangui ha rivolto un augurio speciale al Patriarca ecumenico Bartolomeo, al quale ha inviato anche un messaggio, che è stato letto stamani nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Fanar dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che ha ha guidato una delegazione della Santa Sede nell’ambito del tradizionale scambio di visite per le rispettive feste dei Santi Patroni, Pietro e Paolo il 29 giugno a Roma e Andrea il 30 novembre ad Istanbul. Il servizio di Roberta Gisotti
“Da qui dal cuore dell’Africa, vorrei rivolgermi al mio carissimo fratello Bartolomeo Patriarca ecumenico. Gli faccio gli auguri di felicità, di fraternità, e chiedo al Signore che benedica le nostre Chiese sorelle”
Francesco esprime poi - nel messaggio autografo - “fraterno affetto e vicinanza spirituale” all’arcivescovo di Costantinopoli, in “profonda comunione di fede e di carità”.
“Il mondo oggi ha grande bisogno di riconciliazione - scrive Francesco - specie alla luce di cosi tanto sangue versato nei recenti attacchi terroristici. Possiamo noi accompagnare le vittime con la nostra preghiera e rinnovare il nostro impegno per una pace duratura promuovendo il dialogo tra fedi religiose”, poiché “l’indifferenza e la mutua ignoranza possono solo portare sfiducia e sfortunatamente anche conflitti”.
“Per progredire il nostro cammino verso la piena comunione”, osserva Francesco, “dobbiamo continuare a trarre ispirazione dal gesto di riconciliazione e di pace” di Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora, che 50 anni fa il 7 dicembre del 1965 firmarono la Dichiarazione comune Cattolica-Ortodossa, con la quale si cancellavano le scomuniche del 1054.
Anche se da allora non tutte le differenze tra le due Chiese sono state annullate, osserva Francesco, “avendo ripristinato relazioni di amore e fraternità, in uno spirito di reciproca fiducia, rispetto e carità, non ci sono più impedimenti alla comunione eucaristica, che non può arrivare che attraverso la preghiera, la purificazione dei cuori, il dialogo e l’affermazione della verità”.
Francesco complimenta Bartolomeo, “testimone esemplare per i cattolici” per la sua particolare “sensibilità”, “consapevolezza” e “fervente impegno” per la salvaguardia del Creato, indicando quale “segno di speranza” la celebrazione comune della Giornata di preghiera per la cura del Creato, il primo settembre, seguendo la lunga esperienza del Patriarcato ecumenico.
Preghiere, il Papa chiede infine a Bartolomeo e a tutti i fedeli ortodossi per il Giubileo straordinario della Misericordia, assicurando a sua volta le preghiere per gli eventi che saranno celebrati quest’anno nella Chiesa ortodossa, specie per il Grande Sinodo Panortodosso.
* RADIO VATICANA, 30.11.2015 (RIPRESA PARZIALE).
La battuta di Francesco sul pugno spiazza laici e fedeli
Commentano le parole del Papa sul volo dallo Sri Lanka alle Filippine De Paolis, Lajolo, Cacciari, Tarquinio e De Masi. «Ha posto un limite». «È poco cristiano»
di Giacomo Galeazzi *
Città del Vaticano
Il «pugno» del Papa scuote il Sacro Collegio, gli intellettuali laici, i media cattolici. «Quella del Pontefice è una constatazione: nella vita di ogni giorno accade così - afferma il cardinale canonista Velasio De Paolis -. Se offendo qualcuno devo attendermi una contro-offesa. Purtroppo, infatti, la quotidianità non segue lo spirito del Vangelo e viene disatteso il monito di Gesù a porgere l’altra guancia». Ma «la reazione a una offesa verbale dovrebbe, quantomeno, essere un’altra offesa verbale e non un atto di violenza fisica». Comunque «chi ha realizzato quelle vignette avrebbe dovuto trattenersi dal farlo nella consapevolezza delle prevedibili conseguenze», aggiunge De Paolis. Il porporato di Curia Giovanni Lajolo ribadisce che «il male si vince solo con il bene», però riconosce che «esiste la libertà di opinione, non quella di insulto», altrimenti «vivremmo in un mondo di rissa continua».
Il quinto comandamento
In ogni modo, sottolinea Lajolo, «è lo spirito che fa la musica» e «un pugno morale può essere più duro di quello fisico». Certo, precisa Lajolo, «niente giustifica la reazione estrema e vile alle vignette messa in atto dagli attentatori di Parigi» che «non combattono faccia a faccia ma aggrediscono alle spalle persone disarmate». Parimenti «non va calpestato il quinto comandamento: non uccidere, non offendere», avverte il cardinale.
A Milano l’arcivescovo Angelo Scola non commenta le parole del Pontefice ma rimanda alla giornata di preghiera contro la violenza del 18 gennaio. «È una battuta non proprio cristiana, ma simpatica - osserva il filosofo Massimo Cacciari -. Francesco esprime l’impossibilità in questo secolo di porgere l’altra guancia e di rispettare le Beatitudini evangeliche che chiedono di amare il proprio nemico. Il Papa ha cercato l’effetto umano, forse anche troppo umano». Per il sociologo Domenico De Masi «il pugno viene poco prima del colpo di kalashnikov». Inoltre «non è vero che la satira può dire tutto: nulla è svincolato dalla legge», però, avverte De Masi, «serve un principio di proporzionalità tra offesa e difesa: a chi insulta Allah o la Madonna si risponde con una querela, non con una revolverata e neppure con un cazzotto».
Sacralità intima
Quella del pugno la trova, invece, «un’immagine geniale» Marco Taquinio, direttore del quotidiano dei vescovi Avvenire, secondo cui il Pontefice indicando la figura della madre rimanda a una sacralità intima, valida sul piano umano sia per i credenti in qualunque fede sia per gli atei: «Anche tra amici può accadere di superare il senso del limite e di provocare una reazione violenta. Ma se niente è rispettato, precipitiamo in una condizione di scontro permamente e la trivialità è cieca».
Indifferenza e presunzione
Secondo Taquinio quando chiudiamo gli occhi su qualunque persecuzione verso chiunque ovunque sia perpetrata, prepariamo l’irruzione dell’odio e della violenza anche nelle nostre città, nei luoghi simbolo delle nostre libertà, nelle nostre stesse case. «Il male si nutre di indifferenza e di presunzione». E solo una scelta limpida e chiara per la pace nella giustizia e nella libertà possono sventare i piani di dominio e di morte dei terroristi che osano agire «in nome di Dio». E «le nostre società aperte sono vulnerabili», quindi «l’uscita del Papa è una sintesi perfetta del rifiuto della logica di morte».
Un ampio excursus ricostruisce la vicenda dell’ermetismo e la sua influenza sulla teologia, da Agostino a Ficino
Il tentativo di svelare con la gnosi l’enigma di Dio e dell’uomo
di GIANFRANCO RAVASI *
A livello popolare, "ermetico" è sinonimo di "oscuro, chiuso, incomprensibile, enigmatico", nonostante il sotteso rimando a Hermes, il dio greco dell’interpretazione, dell’ermeneutica appunto. A livello più colto "ermetismo" è la corrente poetica sbocciata negli anni Trenta a Firenze sulle riviste Frontespizio e Campo di Marte, che annoverò tra i suoi cultori figure come Ungaretti, Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Luzi, Bigongiari e tra i suoi teorici Carlo Bo e Oreste Macrì.
In realtà l’ermetismo in senso storico-filologico risale a un orizzonte ben più remoto e sorprendente: per dirla con qualche semplificazione, fu un’affascinante e complessa operazione di ermeneutica. I grandi miti teogonici e cosmologici dell’antico Egitto faraonico furono "ellenizzati" e ricollocati in un nuovo linguaggio e in nuove coordinate storico-culturali. Così, il dio egizio Thoth, il rivelatore per eccellenza della sapienza divina, si trasformò nell’Ermete (Hermes) "tre volte grandissimo" (Trismegisto) e i suoi oracoli subirono riletture e ricreazioni sempre più complesse ed esoteriche.
Ma all’avventura ermeneutica del trapasso Egitto-Grecia si aggiunse un altro anello, quello cristiano e latino: la rivelazione pagana si rivestiva di un nuovo manto e diventava un’anticipazione profetica della Rivelazione per eccellenza e della sua inconcussa verità.
Questa vicenda di reinterpretazione delle antiche carte ermetiche non ebbe posa per secoli: passò attraverso Lattanzio, penetrò anche in Agostino, varcò la frontiera del MedioEvo con Abelardo e il platonismo di quell’epoca, approdò fino a Marsilio Ficino e alla filosofia del Rinascimento, attraversando perfino il giudaismo.
A ricostruire questa genealogia ermetica cristiana nelle sue tappe fondamentali è Claudio Moreschini, uno studioso di alto profilo della letteratura greca e latina cristiana. Egli lo fa in un volume suggestivamente ornato da un’immagine del Museo Capitolino che illustra in modo simbolico l’ermeneutica dell’ermetismo: in un rilievo dell’altare di Iside di Campo Marzio a Roma un Hermes chiaramente abbigliato in veste greco-romana e con le sue tipiche insegne ci mostra il volto canino del dio egiziano Anubi.
Naturalmente il trapasso ulteriore che possiamo solo immaginare sarebbe quello di staccare questa testa e sostituirla con un viso profetico cristiano per chiudere il cerchio delle reinterpretazioni. Come in ogni genealogia, il percorso è diacronico. Si parte dalla sorgente, da quel Corpus Hermeticum che fu acutamente studiato dal grande A. J. Festugière e si procede nella serie degli anelli cristiani, oggetto specifico dell’analisi di Moreschini. È un itinerario letterario e teologico di forte suggestione che conosce alcune soste in "slarghi" più ampi. È il caso dell’Asclepius, il più importante testo ermetico cristiano, traduzione latina di un originale greco perduto ma noto e citato da Lattanzio. È un trattato vistosamente destrutturato, affidato com’è alle connessioni per associazioni di parole, forse intenzionalmente impostato sull’impressionismo oracolare e teosofico, destinato a rivelare un mysterium iniziatico. Siamo, quindi, in un contesto di gnosi che ha come scopo quello di svelare la realtà profonda dell’uomo e la sua capacità di penetrare nel mistero divino.
Attraverso questa conoscenza superiore si infrangeranno le catene del carcere del corpo e si volerà verso la parte più pura dell’universo in una salvezza che è intimità perfetta con la divinità spirituale. Giustamente Moreschini - che, per altro, esamina di questo trattato il groviglio dei temi posti sul tappeto (il mondo, il fato, il male, la divinità) - osserva che "la preghiera finale riassume tutto il dialogo: il Trismegisto e i suoi giovani discepoli, possedendo il dono della conoscenza, se ne rallegrano e invocano Dio perché si degni di donare loro l’amore perpetuo per questa conoscenza, che li ha salvati" (p.119). Sono tante le finestre a cui affacciarsi in questo palazzo piuttosto "ermetico" dell’ermetismo cristiano.
Particolarmente interessanti sono quelle che ci permettono di gettare uno sguardo sulla stanza di Marsilio Ficino, il traduttore in latino del Corpus Hermeticum su commissione di Cosimo de’ Medici, oppure di scoprire le carte di quel Ludovico Lazzarelli di San Severino Marche al quale già il famoso P.O. Kristeller aveva dedicato un saggio appassionato. Egli fu l’autore rinascimentale del Crater Hermetis (il "cratere" è un simbolo tipico dell’ermetismo per indicare la formazione di una dottrina segreta) e di altri testi ove dottrina cristiana ed ermetici si miscelano tra loro. O ancora si potrebbe sbirciare negli scritti di Agostino Steuco, vescovo di Gubbio e grande erudito e in quelli di Francesco Patrizi, convinto che l’ermetismo sia alle origini di tutta la filosofia greca e sia per di più del tutto consono coi dogmi della dottrina cristiana.
Una nota finale importante. Il volume di Moreschini offre una vasta appendice sia l’Asclepius di cui sopra si è detto, sia il Crater Hermetis di Ludovico Lazzarelli, sia il poema Prometeus dello stesso autore, entrambi tradotti in italiano da un’allieva di Moreschini, Sara Petri.
Religione
E’ valida la benedizione del patriarca Bartolomeo I a papa Francesco?
E’ un rito che offre Grazia ad un cattolico anche se impartito da un ortodosso
di Gelsomino Del Guercio *
«Alla fine del suo discorso papa Francesco ha chiesto la benedizione del patriarca Bartolomeo e si è chinato davanti a lui per ricevere la benedizione. Il patriarca lo ha baciato sul capo. È un gesto fortemente simbolico quello che conclude la giornata. È ormai calata la sera a Istanbul, e nella vigilia della festa di Sant’Andrea, patrono del patriarcato ortodosso, Francesco varca la soglia della chiesa insieme al fratello Bartolomeo».
Vatican Insider (29 novembre) descrive così la "storica" benedizione ricevuta da papa Francesco, che insieme alla preghiera in moschea, ha rappresentato uno dei due gesti più "discussi" ed emblematici della visita di Bergoglio in Turchia.
La benedizione impartita da un cristiano, in questo caso il patriarca Bartolomeo, appartenente ad una Chiesa peraltro scismatica come quella ortodossa, è valida? O è solo un gesto carico di significati simbolici, ma privo di "efficacia"?
SACRAMENTALE CHE OFFRE GRAZIA
«Una benedizione - spiega ad Aleteia padre Robert Gahl Jr., docente di Etica Filosofica alla Pontificia Università della Santa Croce - è un sacramentale, cioè, un’azione simbolica che offre Grazia secondo le disposizioni delle persone che partecipano». Il Catechismo della Chiesa Cattolica 1667-1672 e 1677-1678 spiega dettagliatamente la funzione di un sacramentale.
DA’ AUTORITA’ A CHI LA RICEVE
Anche il Codice di Diritto Canoninico 1166 evidenzia: «I sacramentali sono segni sacri con cui, per una qualche imitazione dei sacramenti, vengono significati e ottenuti per l’impetrazione della Chiesa, effetti soprattutto spirituali».
«La benedizione più frequente - prosegue padre Gahl - nel vissuto quotidiano dei cristiani è la benedizione prima dei pasti. La persona che offre la benedizione è normalmente scelta tra "pari" o esercita una certa autorità su coloro che la ricevono. In quanto il capo del collegio episcopale, il Papa normalmente offre lui stesso la benedizione e in occasioni specialmente solenni può anche offrire una benedizione apostolica con l’indulgenza plenaria».
AFFETTO E VENERAZIONE PER FRANCESCO
In tale direzione, il Codice di Diritto Canonico 1170 recita: "Le benedizioni, che vanno impartite in primo luogo ai cattolici, possono essere date anche ai catecumeni, anzi, se non vi si oppone una proibizione della Chiesa, persino ai non cattolici".
«In Turchia, invece - evidenzia il docente - come un gesto di speciale rispetto ed affetto per la Chiesa Ortodossa di Costantinopoli ed il suo vescovo, il patriarca Bartolomeo, il Papa ha chiesto la benedizione da quest’ultimo. Il patriarca, palesemente sorpreso, invece di impartire una benedizione tradizionale, ha baciato il papa sulla testa in segno di affetto e venerazione reciproca, per la persona e per l’ufficio».
OLTRE I PROTOCOLLI TRADIZIONALI
«Non è la prima volta che il papa Francesco fa un gesto forte, sorprendente, e forse del tutto spontaneo che provoca critiche da cattolici molto legati ai protocolli tradizionali. Tuttavia, con questi gesti, il papa raccoglie affetto da molti perché manifesta la sua autenticità personale ed uno spirito evangelico, in questo caso il suo forte desiderio di unità tra la Chiesa Cattolica e gli ortodossi».
LA VALIDITA’ DEI SACRAMENTI ORTODOSSI
Fin qui il punto di vista di un esperto di dottrina della Chiesa cattolica. Ma, invece, un ortodosso come ha letto la benedizione al papa da parte del "proprio" Patriarca? Innanzitutto può essere considerato un sacramento valido (nella dottrina ortodossa non c’è differenza tra sacramento e sacramentale come in quella cattolica, in cui la benedizione è un sacramentale)?
"FRATELLI" NONOSTANTE LO SCISMA
Va infatti sottolineato che nonostante la cancellazione bilaterale della scomunica ad opera di Paolo VI e Athenagora, gli ortodossi sono ancora considerati scismatici. Don Basilio Petrà, presidente Atism e docente di Teologia morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia centrale di Firenze, esperto di dottrina ortodossa, chiarisce: «L’abolizione delle scomuniche ha un valore simbolico notevole ma scarso significato teologico e canonico. Per noi, gli ortodossi sono fratelli che hanno una comunione imperfetta con la Chiesa cattolica, nella quale sussiste la vera Chiesa. I sacramenti ortodossi sono validi anche per i cattolici, e dunque lo è pure la benedizione sacerdotale a qualsiasi livello».
INVALIDATI O "LEGATI"
A parti invertite, cioè se fosse stato Bergoglio a benedire Bartolomeo, non sarebbe la stessa cosa. «Gli ortodossi considerano i cattolici eretici o scismatici. E per loro i sacramenti degli eretici non sono in sé validi, quelli degli scismatici sono legati, cioè vuol dire che la loro efficacia sacramentale è come sospesa. Se non è efficace il sacerdozio non è efficace neppure la benedizione: rimane una semplice preghiera».
ASSENZA DI RECIPROCITA’ CON I CATTOLICI
Pertanto, «per gli ortodossi che ritengono eretici i cattolici, la benedizione sacerdotale cattolica non ha alcun valore, nella migliore delle ipotesi. Per chi li ritiene scismatici è una benedizione che non dà quello che potrebbe dare. Tra cattolici e ortodossi non c’è reciprocità nel riconoscimento dei sacramenti: noi riconosciamo i loro; loro non riconoscono i nostri. Questa naturalmente è la dottrina. Mentre la prassi assume forme varie».
* Aleteia, 12.12.2014 (ripresa parziale).
Meglio uniti che “uniati”. Con gli ortodossi Francesco vuole cambiare strada
Sul volo di ritorno da Costantinopoli a Roma, interpellato da un giornalista russo ortodosso, papa Francesco ha fatto una battuta non immediatamente comprensibile dai non esperti:
“Dirò una cosa che forse qualcuno non può capire, ma... Le Chiese cattoliche orientali hanno diritto di esistere, è vero. Ma l’uniatismo è una parola di un’altra epoca. Oggi non si può parlare così. Si deve trovare un’altra strada”.
Per capire il senso di questa battuta viene in soccorso la seguente nota.
L’autore insegna storia della Chiesa ortodossa nell’università statale di Bologna e nella facoltà teologica dell’Emilia Romagna. È diacono e presiede la commissione per l’ecumenismo dell’arcidiocesi di Bologna.
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“PAROLA DI UN’ALTRA EPOCA”
di Enrico Morini
“Uniatismo” è una brutta parola, anche se è un termine ormai consacrato dall’uso ed è difficile farne a meno. L’alternativa corretta sarebbe infatti una parafrasi: “insieme dei cristiani orientali uniti a Roma”. L’espressione è stata coniata in ambito ortodosso, con un senso pesantemente dispregiativo, per designare il frutto di un’unione spuria, ingannevole, sleale e provocatoria.
Si tratta di un fenomeno iniziato, nella dinamica dei rapporti tra le Chiese, in età moderna, quando la Chiesa cattolica si rese conto che, dopo il fallimento dell’unione con la Chiesa ortodossa sottoscritto a Firenze nel 1439, qualsiasi altro tentativo di giungere ad una unione completa tra le due Chiese - anche per le mutate condizioni culturali e politiche dell’Ortodossia, sotto il dominio turco - non aveva più la benché minima possibilità di successo.
Si passò pertanto dall’obiettivo tradizionale, e più ambizioso, dell’unione globale con l’Ortodossia nel suo complesso, alla nuova strategia delle unioni parziali, strette con singoli episcopati di una regione, che accettavano sinodalmente i termini dell’unione sancita a Firenze, i quali comportavano l’accettazione del dogma cattolico con la garanzia di mantenere il proprio rito e, più in generale, le proprie tradizioni religiose (quale, ad esempio, il calendario giuliano).
Il fenomeno iniziò nel 1596 con l’unione, sancita a Brest, dell’episcopato dell’Ucraina orientale - allora sotto la corona unita polacco-lituana -, che guardava a Roma per superare una profonda crisi culturale e morale.
Continuò con l’unione sancita a Uzhorod nel 1646 da parte del clero ortodosso della Rutenia subcarpatica, allora nel regno d’Ungheria.
E si concluse con l’unione dei Romeni ortodossi di Transilvania, che seguirono il vescovo di Alba Iulia, nel 1700, nell’adesione alla Chiesa di Roma.
Poiché alla fine del XVIII secolo, sotto Caterina II, la Chiesa ucraina unita venne abolita per legge, ma la Santa Sede la riorganizzò nell’Ucraina occidentale, cioè in Galizia, attorno alla sede episcopale Leopoli (Lviv), tutti questi cattolici di rito orientale vennero a trovarsi all’interno dell’impero austro-ungarico, che si assunse il compito di proteggerli e di promuoverne lo sviluppo e dove essi assunsero la denominazione di greco-cattolici.
Nel frattempo anche nell’antico patriarcato di Antiochia - allora sotto i turchi - si era prodotto un movimento di riavvicinamento a Roma e quando, nel 1724, uno degli esponenti di questo movimento arrivò al patriarcato si produsse una scissione in questa Chiesa, che sussiste tuttora nel Vicino Oriente, tra greco-cattolici ed ortodossi, entrambi di lingua araba.
Infine successivamente la Santa Sede ha istituito degli esarcati apostolici in Russia (1917), in Bulgaria (1926) e in Grecia (1932) per i fedeli cattolici di rito “bizantino”, frutto dell’attività missionaria cattolica tra gli ortodossi.
Per gli ortodossi il fenomeno rappresenta una ferita sempre aperta. Non si tratta infatti semplicemente di rispettare la libertà religiosa: la loro avversione nasce da una incomprensione legata alla loro stessa ecclesiologia.
Gli ortodossi non concepiscono infatti il rito separato dal dogma: il modo in cui si prega è il riflesso di ciò che si crede. Da questo punto di vista gli “uniati” sono un ibrido mostruoso: hanno il rito ortodosso, ma professano la fede cattolica e, non essendo pertanto né ortodossi né cattolici, sono percepiti esclusivamente come uno strumento di propaganda, per svuotare di fedeli le Chiese ortodosse. In altri termini, sono come il “cavallo di Troia” per espugnare l’Ortodossia.
Quando queste Chiese ritornarono alla luce dopo il periodo del comunismo - che la aveva liquidate promuovendo il ritorno dei loro fedeli all’Ortodossia - gli ortodossi posero un aut-aut alla Chiesa cattolica: il dialogo teologico poteva proseguire soltanto dopo avere risolto il problema dell’”uniatismo”.
Ne uscì, nel 1993, il documento di Balamand, nel Libano, della commissione paritetica per il dialogo teologico, che però non è stato recepito né dalla Chiesa cattolica, per la quale era troppo severo nel giudizio storico sull’“uniatismo”, né dalla maggioranza delle Chiese ortodosse, che lo ritengono troppo permissivo nel difendere la sopravvivenza di queste Chiese. Anche una successiva sessione plenaria della commissione a Baltimora nel 2000, sempre su questo tema, si è conclusa con un nulla di fatto.
Le parole del Santo Padre, nel suo volo di ritorno da Costantinopoli, riprendono esattamente i termini del testo di Balamand, che del resto egli aveva già citato nell’intervista a “La Civiltà Cattolica” del 2013.
Il documento afferma che queste Chiese devono continuare ad esistere, in quanto ormai hanno conseguito una particolare fisionomia, una propria identità ecclesiale e culturale, all’interno del Cattolicesimo, che anche arricchiscono infondendo in esso la linfa vitale della spiritualità e della teologia orientale (basti pensare al ruolo del patriarca greco-cattolico di Antiochia, Massimo IV Saigh, al Concilio Vaticano II; il patriarca Atenagora gli disse: “Voi ci rappresentate!”) e hanno testimoniato con il sangue la loro fedeltà alla Chiesa di Roma.
Nel contempo il documento riconosce che il metodo di costruire l’unità tra le due Chiese attraverso le unioni parziali è oggi superato, in quanto ferisce la carità ed è assolutamente incompatibile con l’ecclesiologia delle Chiese sorelle.
*
UNA POSTILLA - Tra gli “uniati” gli ucraini sono il gruppo più numeroso, con più di cinque milioni di fedeli. E sono anche quello più in conflitto con la Chiesa ortodossa. Sono infatti i greco-cattolici ucraini il principale ostacolo all’incontro tra il papa e il patriarca di Mosca, con l’ulteriore aggravante - richiamata da Francesco nella conferenza stampa del 30 novembre - della guerra civile in corso nel paese.
Il prossimo 10 dicembre i greco-cattolici ucraini celebreranno a Kyiv il venticinquesimo anniversario del loro ritorno alla libertà, dopo il crollo dell’impero sovietico che li aveva forzatamente annessi all’ortodossia. E per l’occasione papa Francesco invierà come suo rappresentante il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e quindi della storica capitale di quell’impero asburgico che li protesse dall’imperialismo russo politico e religioso.
* L’Espresso / Settimo Cielo di Sandro Magister, 02 dic 2014
Francesco e Bartolomeo: quale unità *
di Il Cittadino di Lodi *
Il Papa in Turchia. L’abbraccio con il patriarca ecumenico Bartolomeo. L’enorme attenzione mediatica, le trasmissioni televisive, le paginate dei giornali. A distanza di una settimana da questi eventi ci è parso naturale chiedere al vescovo - che per vent’anni e fino a poco tempo fa si è occupato in prima persona delle Chiese orientali - un commento.
Monsignor Malvestiti ha accolto immediatamente la proposta. Ne è scaturita un’intervista tutta particolare, ricca anche di aspetti inediti.
Eccellenza, come giudica l’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo?
«Si è trattato di un ulteriore seme di unità gettato per il futuro. È stato un buon passo in avanti per ambedue le Chiese. I gesti del Papa, poi, hanno avuto un significato altissimo. Egli ha detto: “A cosa serve la nostra fedeltà al passato, se questo non significa nulla per il futuro? A cosa giova il nostro vanto per quanto abbiamo ricevuto, se tutto ciò non si traduce nella vita per l’uomo e per il mondo di oggi e di domani?”».
Posso chiederle di fare un passo indietro? Io non ho per nulla chiaro quante e quali siano le Chiese di tradizione orientale, e quali di queste riconoscono il Papa in quanto tale.
«Le Chiese orientali in comunione con Roma sono ventidue e godono però di un’ampia autonomia nel loro territorio e sono regolate da una propria legislazione. Sono dette sui juris. Accanto al Codice di Diritto Canonico c’è infatti il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. L’unico “supremo legislatore” - come viene chiamato - è il Papa».
Come sono suddivise?
«Ci sono anzitutto sei Chiese patriarcali: la prima è quella di Alessandria. Seguono le tre di Antiochia: di Siria, dei Maroniti e dei Melchiti. Poi abbiamo la Chiesa di Babilonia dei Caldei e quella di Cilicia degli Armeni. Tutte e sei sono governate da un patriarca e pur rimanendo fedeli alla tradizione teologica, liturgica condivisa dalla rispettiva Chiesa non cattolica sono in piena comunione col Vescovo di Roma».
E queste sono le prime sei.
«Ci sono poi quattro arcivescovi maggiori che governano rispettivamente la Chiesa Greco Cattolica dell’Ucraina con sede a Kiev, la Chiesa Siro-Malabarese e quella Siro-Malankarese ambedue con sede nello Stato Indiano del Kerala, la Chiesa Greco-cattolica di Romania con sede in Transilvania, nella cittadina di Blaj, chiamata “mica-Roma” ossia piccola Roma. Questi arcivescovi maggiori in comunione con il Papa hanno gli stessi diritti dei patriarchi».
E questo significa che...
«Vengono eletti anch’essi dal rispettivo sinodo composto da tutti i vescovi e subito dopo l’elezione chiedono la conferma al Papa, mentre i Patriarchi gli presentano la richiesta di “ecclesiastica communio” e il successore di Pietro la accoglie con una lettera che consente al nuovo “capo e padre” della rispettiva chiesa di svolgere il suo servizio nell’unità con l’intera Chiesa cattolica. Ecco il respiro universale».
E le altre dodici Chiese?
«Si tratta di Chiese metropolitane, a ciascuna delle quali fanno riferimento tre o quattro diocesi, chiamate eparchie, oppure delle semplici chiese particolari come quelle italo-albanesi di Lungro in Calabria e di Piana degli Albanesi in Sicilia, ambedue bizantine insieme al Monastero di Grottaferrata alle porte di Roma fondato addirittura nel 1004, le quali sono in cammino verso la piena maturità ecclesiale. Quando la composizione anche numerica e le strutture lo consentiranno potranno accedere al superiore grado ecclesiale».
Come si pone la Chiesa cattolica nei confronti delle Chiese ortodosse?
«Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha definito queste “vere Chiese”, riconoscendole come “custodi viventi delle origini cristiane” insieme alle Chiese della corrispondente tradizione rituale, dalla quale esse provengono e riservando a quelle cattoliche un auspicio: che fioriscano e crescano per assolvere la loro missione per l’unità tra tutte le Chiese».
Cosa significa?
«Le Chiese cattoliche orientali non sono un ostacolo all’ecumenismo, bensì un ponte affinché la conoscenza e la stima reciproca, la preghiera e la collaborazione vicendevoli, ci mantengano sulla nuova via da seguire: guardare a Cristo per trovarci più vicini di quanto oggi pensiamo».
Perché il Papa si è recato in Turchia? Mi pare che la Chiesa ortodossa del patriarca Bartolomeo non abbia un numero consistente di seguaci. Ad esempio, i fedeli della Chiesa ortodossa russa sono invece alcune centinaia di milioni...
«È tutto legato alla storia. Costantino fondò la nuova Roma sulle rive del Bosforo e vi pose un patriarca. Giustiniano eresse la splendida cattedrale patriarcale: è l’attuale museo di Santa Sofia ad Istanbul. Quando i patriarcati di Antiochia e di Alessandria caddero sotto la dominazione araba, dall’ottavo secolo il patriarca di Costantinopoli diventò l’autorità ecclesiastica più importante dell’Oriente, attirando nella propria orbita alcune regioni che prima facevano riferimento a Roma, ed avviando un’intensa attività missionaria specialmente tra le popolazioni slave. E poiché Costantinopoli era rimasta la sede dell’Impero romano d’Oriente, sorse la contrapposizione con Roma sull’esercizio della giurisdizione in Oriente».
Quindi è una vicenda antichissima.
«Come è noto, la rottura definitiva avvenne nel 1054, quando il papa Leone IX e il patriarca Michele Cerulario si scomunicarono a vicenda, dando inizio allo scisma che si è trascinato fino alla reciproca cancellazione delle scomuniche alla vigilia della conclusione del Concilio Vaticano II. Quel giorno fu preparato dallo storico abbraccio tra il beato Paolo VI e il patriarca ecumenico Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Per commemorare il cinquantesimo anniversario di quel gesto ha già avuto luogo quest’anno un incontro tra Papa Francesco e Bartolomeo al Santo Sepolcro nella Città Santa».
Dal 1054 iniziò una vera frammentazione per la Chiesa ortodossa.
«Sì. E ai quattro patriarcati storici di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Costantinopoli se ne sono aggiunti diversi altri. Praticamente ogni nazione può avere un proprio patriarcato indipendente. Al patriarca di Costantinopoli è riconosciuto però il primato d’onore, e può intervenire - potremmo dire - solo è richiesta la sua consulenza».
Sono 35 anni che una commissione mista di teologi cattolici e ortodossi si affatica nel tentativo di trovare un accordo per rimetterci insieme. Mi pare che di passi sostanziali ne siano stati fatti ben pochi.
«La commissione si incontra periodicamente, ma il confronto è molto faticoso. Le Chiese ortodosse per prime sono divise tra loro, alcune faticano ad accordarsi anche sul tipo di primato che la tradizione assegna al patriarca ecumenico di Costantinopoli. Un primato che Bartolomeo è tornato a rivendicare, nel suo scambio di messaggi con il Papa».
Perché non si trova un accordo? Qual è la questione più spinosa?
«Un ostacolo di rilievo è il modo di intendere il primato del vescovo di Roma. La Chiesa ortodossa sarebbe disposta ad accettare il Papa come un primus inter pares perché, secondo la loro interpretazione, nel primo millennio fino allo scisma del 1054, tra Chiesa Occidentale ed Orientale, il Papa sarebbe stato tale».
Ma questo non è condiviso dalla Chiesa cattolica.
«Infatti, perché noi riconoscamo al Papa un primato che gli deriva dall’essere il successore dell’apostolo Pietro, sul quale Cristo ha fondato la sua Chiesa. Il servizio petrino è quello di garantire l’unità nella verità e nell’amore e quindi al vescovo di Roma è riconosciuta una autorità piena, immediata e universale sui pastori e sui fedeli».
È un privilegio?
«No. È un carisma a custodia del supremo bene della unità. Spetta proprio allo stesso successore di Pietro sostenere la vita delle Chiese nella loro diversità, che esprime la ricchezza dell’unico Spirito di Cristo e mai nuoce all’unità, bensì la esalta».
Che risultati ha prodotto la visita del Papa in Turchia?
«Ha confermato le prospettive di due Chiese che si trovano molto vicine e scoprono sempre più di avere la responsabilità grave di lavorare perché si realizzi la preghiera di Gesù al Padre per tutti i battezzati: siano una cosa sola perché il mondo creda. Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa sono in profonda sintonia sulla difesa della vita e del creato, sui grandi temi della giustizia, della libertà religiosa e della pace».
Anche i predecessori di Papa Francesco hanno lavorato moltissimo, negli anni passati, sui grandi temi del dialogo interreligioso.
«Certamente! Cito soltanto Benedetto XVI, il quale disse che “il dialogo ecumenico è una scelta irreversibile”. E aggiunse che il rispetto e il confronto interreligioso costituiscono un impegno inderogabile, lavorando alacremente con parole e gesti indimenticabili in quella ottica».
Ha detto il patriarca Bartolomeo: “Gli odierni persecutori dei cristiani non chiedono a quali Chiese appartengono le loro vittime. L’unità si attua già in alcune regioni, purtroppo, attraverso il martirio”.
«È vero. È avvenuto anche durante la persecuzione ateistica nell’Europa dell’Est, nel secolo appena passato. E oggi i cristiani stanno fuggendo dal Medio Oriente. Non dobbiamo mai dimenticare che essi, invece, hanno il diritto di rimanere dove sono nati. E dove meritano di rimanere per l’amore inscindibile che insieme a quello per la fede cristiana hanno sempre riservato a proprio Paese, alla lingua e alla cultura native».
E nel frattempo i massacri continuano.
«Si pone chiaramente il problema di un Islam moderato. Ha parlato chiaro il Papa: “Sarebbe bello che tutti i leader politici, religiosi e accademici, parlino chiaramente e condannino questi atti di violenza, perché questo aiuterà la maggioranza del popolo islamico a dire “no” alla violenza”».
Lei è mai stato a Istanbul?
«Più volte. L’ultima poche settimane fa».
Quando? In quale occasione?
«Nel luglio scorso mi sono recato a Istanbul a motivo di alcune proprietà della Chiesa greco-cattolica di Bulgaria, risalenti a quando la nazione era parte dell’Impero Ottomano. Da Istanbul iniziò l’unione di un gruppo di ortodossi con
Roma. Si trova nella loro chiesa in quella città la data scolpita sulla base dell’altare: il 1861. Ho visitato la comunità cattolica composta dai latini, dagli armeni, dai caldei e dai siri. In Turchia è tuttora molto vivo il ricordo di monsignor Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII».
Perché?
«Roncalli dal 1935, e per un decennio, fu delegato del Papa in Turchia e in Grecia. I rapporti che seppe instaurare con le altre Chiese furono tali che quando morì Pio XI, nella cattedrale cattolica di Istanbul furono invitati, per il pontificale di suffragio, tutti i rappresentanti delle Chiese cattoliche e ortodosse orientali. In vista della prima festa liturgica di San Giovanni XXIII, l’11 ottobre scorso, sono riuscito ad avere per la grande chiesa cattolica di Sant’Antonio in Istanbul una reliquia particolare».
Quale?
«Una reliquia di Papa Giovanni, in un reliquiario simile a quello presentato a Papa Francesco il giorno della canonizzazione. In quella circostanza Bartolomeo vi prese parte e tenne una conferenza sul ruolo ecumenico svolto in Turchia dall’arcivescovo Roncalli».
Questa è una notizia originalissima, che interessa molto i lodigiani, perché permette loro di conoscere meglio la figura del proprio vescovo.
«A Istanbul mi sono recato anche a pregare sulle tombe di tre gloriosi patriarchi: San Basilio Magno, San Giovanni Crisostomo e San Gregorio Nazianzeno, veneratissimi nel mondo orientale ma anche dalla Chiesa cattolica. La cattedrale del Phanar, che è attigua alla residenza del Patriarca ecumenico, ricevette solo nel novembre 2004 le reliquie del Crisostomo e del Nazianzeno per volontà di Papa Giovanni Paolo II. Ero presente quando in una indimenticabile celebrazione ecumenica, nella basilica di San Pietro, egli le consegnò a Bartolomeo, dopo averle tratte dagli altari dove i loro corpi sono custoditi».
Non ha mai incontrato personalmente il patriarca Bartolomeo?
«L’ho incontrato sia alla Congregazione per le Chiese Orientali sia al Pontificio Istituto Orientale, sempre a Roma, dove egli fu studente di teologia. Parla magnificamente l’italiano. E l’ho incontrato anche nelle visite alla sua residenza con i tre cardinali prefetti con cui ho collaborato. Nel luglio scorso, dopo la preghiera nella cattedrale di San Giorgio, sua santità mi ha gentilmente ricevuto, parlando - tra l’altro - della tanto attesa visita di papa Francesco e delle sorti dei cristiani in Oriente. Abbiamo insieme recitato la preghiera del Signore per l’unità dei cristiani e della famiglia umana».
GIORNATA DELLA PACE.
Il messaggio
«Globalizzare la fraternità»
“Globalizzare la fraternità” per sconfiggere “l’abominevole fenomeno” della schiavitù: questo il cuore del Messaggio del Papa per la 48.ma Giornata mondiale della pace, che ricorre il prossimo primo gennaio. Il documento - intitolato “Non più schiavi, ma fratelli” - descrive le cause profonde della tratta, tra cui “le reti criminali che ne gestiscono il traffico” ed esorta gli Stati ad applicare “meccanismi efficaci di controllo” per non lasciare spazio a “corruzione ed impunità”.
“Abominevole fenomeno”, “reato di lesa umanità” che colpisce “milioni di persone”: non usa mezzi termini Papa Francesco per descrivere la schiavitù nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace che nel titolo - “Non più schiavi, ma fratelli” - richiama la Lettera di San Paolo a Filemone (Fm 1, 15-16). Due le parti costitutive del Messaggio: nella prima, il Pontefice descrive i tanti volti della schiavitù e ricorda le vittime del lavoro-schiavo, i migranti privati della libertà, abusati, detenuti in modo disumano, ricattati dal datore di lavoro; gli schiavi sessuali, i bambini-soldato, vittime dell’espianto di organi o di forme mascherate di adozione, prigionieri di terroristi.
Ma se tanti sono i volti della schiavitù, altrettante sono le sue cause profonde. La prima, sottolinea il Papa, è ontologica, provocata dal “peccato che corrompe il cuore dell’uomo”: è “il rifiuto dell’umanità dell’altro”, il trattarlo come un oggetto, un mezzo e non un fine. Ci sono poi altre cause: povertà, mancato accesso all’educazione ed al lavoro, “reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani”, conflitti armati, terrorismo, l’uso criminale di Internet per adescare i più giovani. E poi la corruzione che - sottolinea il Pontefice - passa attraverso componenti delle forze dell’ordine e dello Stato.
La seconda parte del Messaggio esorta a sconfiggere la schiavitù con un’azione “comune e globale”, attraverso la “globalizzazione della fraternità” che sappia contrastare la “globalizzazione dell’indifferenza” così diffusa nel mondo contemporaneo. Tre i modi in cui le istituzioni devono agire: prevenire il crimine della schiavitù, proteggere le vittime e perseguire i responsabili. Occorrono, dunque, “leggi giuste” su migrazione, lavoro, adozione e delocalizzazione delle imprese per tutelare i diritti fondamentali dell’uomo e rispettarne la dignità. E servono anche - scrive il Pontefice - “meccanismi efficaci di controllo” che non lascino spazio a “corruzione e impunità”. Papa Francesco chiama poi in causa tutti gli attori della società, chiede il riconoscimento del ruolo sociale delle donne, lavoro dignitoso e stipendi adeguati per i dipendenti d’impresa, catene di distribuzione esenti dal fenomeno della tratta, cooperazione intergovernativa per combattere “le reti transnazionali del crimine organizzato che gestiscono il traffico illegale dei migranti”.
Il Pontefice si rivolge anche ai consumatori e richiama la loro “responsabilità sociale”, perché siano consapevoli che, come scritto da Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, “acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico” (n. 66). Di fronte al traffico di essere umani o a prodotti realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone, tutti siamo interpellati, ribadisce il Papa: sia chi chiude un occhio per indifferenza o convenienza, sia chi sceglie di impegnarsi civilmente o di compiere un piccolo gesto, come rivolgere un saluto, un sorriso a chi è vittima della schiavitù.
Globalizzare la fraternità, non la schiavitù, né l’indifferenza: questa dunque l’esortazione di Papa Francesco perché tutti gli uomini e le donne di buona volontà non si rendano complici di questo male e riescano a ridare speranza alle vittime della tratta.
Infine, il Pontefice ricorda Santa Giuseppina Bakhita e le tante congregazioni religiose, specialmente femminili, che - seguendo il suo esempio - operano in favore delle vittime della tratta. Il Papa guarda anche alla comunità cristiana, “luogo della comunione vissuta tra i fratelli”, la cui diversità di origine e stato sociale “non ne sminuisce la dignità, né li esclude dall’appartenenza al popolo di Dio”, poiché tutti sono accomunati dal “vincolo di fraternità in Cristo”. Siano rispettate, dunque, “dignità, libertà e autonomia dell’uomo”, improntando i rapporti interpersonali a “rispetto, giustizia e carità”, in nome della fraternità, “vincolo fondante” della famiglia e della società.
Che delusione Papa Francesco che si piega ai diktat di Pechino
di Alberto Maggi (@AlbertoMaggi74) *
Papa Francesco è amato da tutti, o quasi. Non ci sono dubbi sulla sua carica umana e spirituale e sulla sua capacità di ridare alla Chiesa nuovo lustro, anche e soprattutto con le aperture nei confronti dei divorziati. Ma la scelta del Santo Padre di non incontrare il Dalai Lama, in visita a Roma, lascia l’amaro in bocca. Che non lo abbia incontrato Obama, sempre meno meritevole del Nobel per la pace, si può anche capire (la Cina ha in mano il debito pubblico degli Stati Uniti), ma che anche il Pontefice si adegui alla realpolitik e, di fatto, si inginocchi al volere del regime di Pechino lascia quantomeno sgomenti. Da questo Papa, ecumenico e rivoluzionario, ci saremmo aspettati più coraggio. E più indipendenza. E forse anche più autorevolezza. E per favore il Vaticano non ci racconti la storiella che non è stato possibile organizzare un faccia a faccia anche di soli 10 minuti. Un incontro e una stretta di mano sarebbero stati gesti importantissimi per chi difende i diritti umani, in Tibet e non solo. E invece niente. Che delusione caro Francesco...
Nobel e diplomazia
di Giacomo Galeazzi ( La Stampa, 11/12/2014)
L’incontro tra il Dalai Lama e papa Francesco non ci sarà. Non è il momento, nonostante la stima e l’apprezzamento reciproci tra il pontefice e il leader spirituale del buddhismo, perché c’è il rischio di creare «inconvenienti».È lo stesso Dalai Lama, al suo arrivo a Roma dove fino a domenica parteciperà al XIV Summit mondiale dei Premi Nobel, a smentire definitivamente le voci che si sono rincorse in questi giorni sulla possibilità di un suo incontro con Bergoglio. Un diniego del Vaticano, secondo l’entourage del Dalai Lama, che aveva espressamente richiesto il faccia a faccia.
«Questa volta non incontrerò papa Francesco, l’amministrazione del Vaticano dice che non è possibile perché potrebbero crearsi degli inconvenienti», ha spiegato il leader tibetano. Lo avevamo chiesto, insistono i suoi collaboratori che ancora sperano in un colloquio privato, magari come avvenne con Benedetto XVI, che ricevette il Dalai Lama per un breve incontro il 13 ottobre del 2006, ma non gli concesse udienze né nel 2007 né nel 2009.Sulla natura di questi «inconvenienti» non trapela nulla, né da fonti tibetane né Oltretevere. Anzi, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto di non poter nemmeno confermare se sia vero che papa Francesco abbia deciso di non incontrare il leader tibetano.
È però facile intuire che il rifiuto del Vaticano, se di rifiuto si tratta, sia stato dettato dalla volontà di non porre ostacoli sul percorso di riavvicinamento con Pechino che ha ricevuto un notevole impulso dal viaggio in Corea del Sud di Francesco, lo scorso agosto. Proprio in quell’occasione il Papa - primo pontefice ad attraversare lo spazio aereo cinese - si disse pronto ad andare in Cina «anche domani». Il Vaticano ha comunque voluto sottolineare la «stima» che Bergoglio nutre nei confronti del Dalai Lama. Un apprezzamento ricambiato dal leader tibetano, che anche oggi ha ribadito di ammirare «la semplicità» di Francesco, «mentre ci sono altri leader religiosi che praticano la semplicità ma hanno una vita privata...».
Durante il summit romano, presentato in Campidoglio dal sindaco Ignazio Marino e da diverse donne insignite del Premio Nobel, saranno commemorati la vita e il lavoro dell’icona mondiale della pace, Nelson Mandela. «Mi sento onorato di riprendere la tradizione di ospitare a Roma il summit dei premi Nobel per la pace - ha detto il primo cittadino della Capitale -. Mi sento piccolo vicino a persone che in tanti modi hanno rischiato la vita per manifestare per la pace, per l’uguaglianza, per pari diritti per tutti. Ci sono cose più importanti del Pil nelle nostre vite: ad esempio vivere in un Paese dove c’è pace».
«Le guerre in nome della religione sono incomprensibili», ha detto il Dalai Lama, sottolineando «la necessità di promuovere l’armonia tra le religioni, come è stato fatto in India che è un esempio di convivenza pacifica». «Tutti abbiamo la responsabilità di promuovere l’armonia», è stato l’appello rivolto alla piccola folla di fedeli buddhisti giunti a Roma per accogliere il loro leader.
Molti gli italiani presenti accanto ad una rappresentanza della comunità tibetana in Italia. Una comunità piccola, 180 persone, che a Roma continua a rivolgere un appello: essere riconosciuti come «rifugiati politici». «L’Italia è l’unico Paese europeo a non farlo», ha detto Chodup Lama, professore ed ex presidente della Comunità tibetana.
«Sui documenti dei tibetani che vivono in Italia c’è scritto `cinesi’ - ha spiegato - È una negazione della nostra identità. E questo ci fa molto male».Nessuna traccia invece dei contestatori del Dalai Lama, i seguaci del culto buddhista Shugden - sostenuto dalla Cina - che hanno annunciato manifestazioni di protesta nei prossimi giorni.
I Nobel per la Pace a Roma, Dalai Lama: "Papa Francesco? A volte sono fonte di guai"
A Roma il summit dei Nobel per la Pace. Dalai Lama: la pace può arrivare solo dalla "comprensione reciproca"
di Redazione ANSA *
"Io incontro tante persone, sono positivo e gioviale ma per qualcuno posso essere fonte di guai. E’ comprensibile, non c’è problema, mi è capitato tante volte". Così il Dalai Lama ha risposto ad una domanda sul mancato incontro con Papa Francesco alla conferenza stampa conclusiva al summit mondiale dei premi Nobel.
È gremita l’Aula Giulio Cesare del Campidoglio dove sono in corso i lavori dell’ultima giornata del quattordicesimo summit dei Nobel per la Pace ’Peace. Living it! In honour of Nelson Mandela’. Nell’Aula, solitamente adibita alle riunioni della assemblea capitolina, si stanno susseguendo gli interventi dei Nobel presenti.
La pace può arrivare solo dalla "comprensione reciproca" e dall’assunzione di ognuno "della responsabilità morale di costruire un mondo felice", ha aggiunto il Dalai Lama chiudendo il summit. "Usate la vostra professione per fornire" un contributo alla pace e al futuro dell’umanità", è stato l’appello del Dalai Lama. "Bisogna sviluppare un senso di responsabilità universale, ogni giorno, per 24 ore al giorno, senza troppe aspettative", ha insistito la guida spirituale sottolineando come tutti dobbiamo lavorare" non pensando al bene per "la nostra vita" ma al futuro dell’umanità".
Marino: orgoglio inviare da Roma messaggio di pace. "Siamo giunti al termine di giornate intense, in cui si sono discussi temi fondamentali con icone di pace, libertà e giustizia. Roma è veramente orgogliosa di aver ospitato un incontro che invia un messaggio di pace". Così il sindaco di Roma Ignazio Marino.
* ANSA 14 dicembre 2014 (ripresa parziale).
Papa, ’Non si uccide in nome di Dio ma non ridicolizzare fede’
Francesco saluta lo Sri Lanka e sbarca nelle Filippine. "Preoccupato per incolumità fedeli"
di Redazione ANSA *
COLOMBO (SRI LANKA). Non si uccide in nome di Dio ma non si ridicolizza la fede altui. E’ il messaggio del Papa che, dall’aereo che lo sta portando dallo Sri Lanka alle Filippine, incalzato dai cronisti, torna a parlare del terrore dei giorni scorsi a Parigi. "Essere miti, umili non aggressivi" - è il messaggio del Papa - è "miglior modo per rispondere" a minacce di attentati.
Il Papa è "preoccupato per l’incolumità dei fedeli", per sé ha paura ma anche "una sana incoscienza" e ha paura del dolore fisico. "La libertà di religione" - ha detto ancora Francesco - è essenziale, e "non si uccide in nome di Dio". La "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza".
Libera espressione sì, "ma se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Così il Papa, in volo verso Manila, ha spiegato il "limite" alla libertà di espressione: la fede non sia ridicolizzata. Non si "giocattolizza la religione degli altri".
"Forse è una mancanza di rispetto - ha risposto il Papa a una domanda sui kamikaze e sui bimbi usati come kamikaze - ma credo che in ogni attacco suicida c’è qualcosa di squilibrio mentale e umano, c’è qualcosa che non va nelle persone, nel senso che danno alla propria vita e a quella degli altri. Sì, il kamikaze dà la propria vita, ma non la dà bene, i missionari per esempio danno la propria vita ma per costruire, quando si dà la vita per distruggere c’è qualcosa che non va".
Saluto allo Sri Lanka - "Dio benedica e protegga lo Sri Lanka". Con questo tweet Papa Francesco ha salutato il Paese asiatico per proseguire il suo viaggio che lo ha visto sbarcare a Manila nelle Filippine. Una volta sceso dalla scaletta è stato il presidente del Paese, Aquino III, ad accoglierlo.
All’aeroporto di Manila un’accoglienza calorosa con centinaia di giovani che cantano e ballano. Folla sterminata ad accogliere Francesco anche nelle zone subito fuori dall’aeroporto, inquadrate dalle immagini del Ctv, il Centro televisivo vaticano. Molti i sacerdoti e i vescovi, tra i quali l’arcivescovo di Manila, il cardinal Luis Antonio Tagle. Si sono salutati con un forte abbraccio e grandi sorrisi. Tira un forte vento e appena il Papa si è affacciato dal portellone dell’aereo è volata la papalina. Anche a Manila, come era già accaduto all’aeroporto di Colombo in Sri Lanka, due bambini hanno offerto al Papa un omaggio floreale, con fiori banchi e gialli, i colori del Vaticano.
di Giovanna Chirri
Non è facile imparare a perdonare, e perdonarsi, dopo aver visto, subito o anche compiuto tanta violenza, come quella che per decenni ha opposto tamil e cingalesi. Prima condizione è non dimenticare il "sangue sparso". Ma soprattutto bisogna lavorare per una "riconciliazione più grande, in cui il balsamo del perdono e della misericordia possa portare tutti alla guarigione".
Papa Francesco ha nuovamente indicato la strada della verità, dell’ammissione degli errori, e della reciproca riconciliazione come via per far passare lo Sri Lanka dalla assenza di guerra a una pace vera. Lo ha fatto nel santuario di Madhu, nella zona di Mannar, a nord del Paese, nelle province dove i tamil avevano cominciato a concentrarsi a partire dagli anni Sessanta. Lì dal 2007 al 2009 si è svolta la fase più cruenta del conflitto, con l’esercito governativo che ha annientato le "tigri", ma ha poi militarizzato la regione, violando una serie di diritti umani dei civili, come documentano Ong, una commissione di inchiesta e vari rapporti dello Osservatorio internazionale sui diritti umani.
Madhu è un luogo frequentato non solo da cristiani, e simbolico per questi ultimi giacché dalla sua origine ha assistito tra l’altro nel 1544 alla persecuzione anticristiana da parte del re di Jaffna, alla persecuzione, nel Sei-Settecento, dei calvinisti olandesi contro i cattolici e, da ultimo è stato, dal 1990 campo profughi per gli sfollati del conflitto, zona demilitarizzata ma comunque coinvolta in combattimenti furiosi.
Nel santuario, riaperto al culto nel 2010, papa Francesco è giunto nel pomeriggio, in elicottero da Colombo, ed è stato accolto da una folla grande, capace di passare dalla festa alla preghiera, grazie al modo composto e sincero di accogliere l’ospite con danze e ghirlande di fiori, ai canti sacri. Anche dolenti e come pensosi, simili a quelli che la notte scorsa hanno accompagnato centinaia di migliaia di fedeli lungo il litorale dell’Oceano Indiano, per raggiungere il luogo della canonizzazione del primo santo di qui, Giuseppe Vaz.
A Madhu il compito di salutare papa Francesco è stato assolto da mons. Joseph Rayappu, il vescovo di Mannar che ha sempre difeso i diritti dei tamil e ha anche reso testimonianza davanti alla Commissione per la riconciliazione nazionale.
I due giorni nell’ex Ceylon, - ieri con l’appello ai leader religiosi a non essere "equivoci" contro le violenze in nome di Dio, e oggi con la reiterazione dell’appello a "riconciliazione, giustizia e pace", - sono quasi una scuola per l’uomo contemporaneo, chiunque egli chiami Dio, per costruire una vera fratellanza, che cambi la vita dei popoli e delle persone. Un modo di essere uomini, e perciò capaci di curare le ferite più purulente, che il Papa considera l’unico possibile per pacificare il mondo.
Come al mattino, nella messa con più di cinquecentomila persone lungo l’oceano, anche nel pomeriggio nel piccolo santuario bianco su cui svettano le bandiere blu dello Sri Lanka, davanti a circa 300mila persone, il Papa oggi ha parlato attraverso la preghiera, - presenti un gruppo di famiglie sia tamil che cingalesi duramente provate dalle ostilità - tenendo anche in mano per diversi minuti la statuetta della Vergine di Madhu.
Ciò non toglie che la sintonia provata nei confronti del neopresidente Sirisena - eletto a sorpresa anche dalle minoranze e da tutti gli srilankesi stanchi anche dei metodi arroganti del predecessore Rajapaksa e della incuranza di questi per i problemi di una vera pacificazione - possa sostenere anche la azione della Chiesa srilankese e della diplomazia del Papa, per questi obiettivi, che accomunano il piccolo e per molti lontano Sri Lanka ai grandi e ai piccoli di ogni angolo del pianeta.
Papa Francesco neppure oggi ha rinunciato ai fuori programma, e ha visitato il monaco buddista Banagala Upatissa, che lo aveva invitato ieri, e ha incontrato i vescovi del Paese, ai quali ieri aveva cancellato un incontro conviviale.
* ANSA, 15 gennaio 2015 16:40 (ripresa parziale).