A Istanbul l’unità dei cristiani è più vicina
Chryssavgis (Patriarcato Costantinopoli): "l’immagine dei due leader che pregano insieme ricorda al mondo che lavorare per la pace e la giustizia è un obbligo"
di CHIARA SANTOMIERO (www.aleteia.org, 30.11.2014)
Un evento storico, ha definito lo stesso patriarca ecumenico Bartolomeo I, la visita di papa Francesco in Turchia per la ricorrenza della solennità di S. Andrea, che costituisce la prosecuzione del cammino di amichevoli rapporti tra le due chiese e un buon auspicio per il futuro del completo ristabilimento dell’unità. Un futuro che sembra ancora più a portata di mano grazie all’amicizia personale tra le due autorità religiose, come conferma l’arcidiacono John Chryssavgis, consulente teologico del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli che Aleteia ha incontrato durante i giorni della permanenza in Turchia del pontefice.
Quale valore assume la visita di papa Francesco al patriarca Bartolomeo I e quelle del patriarca a lui, quasi una sorta di "ecumenismo delle visite"?
Chryssavgis: La visita di papa Francesco si inserisce nella tradizione dei viaggi dei pontefici a Istanbul, subito dopo la loro elezione, come espressione dell’impegno per la sacra causa dell’unità. Papa Francesco è il terzo pontefice a seguire la tradizione, dopo papa Giovanni Paolo II nel 1979 e Benedetto XVI nel 2006. Naturalmente, sebbene ciò che ci unisce sia molto più di ciò che ci divide, restano ancora i temi critici del primato e della collegialità, che sono sul tavolo di discussione del dialogo teologico ufficiale tra le due chiese. Tuttavia papa Francesco e il patriarca Bartolomeo si incontrano in questi giorni per la quarta volta dall’elezione, oltre ogni precedente, confermando la fedeltà dei due leader alla preghiera di Cristo sui suoi discepoli "che siano una cosa sola".
L’amicizia personale tra il papa e il patriarca quale influenza ha sul dialogo tra teologi considerato che sembra difficile trovare “reali soluzioni” come è evidenziato dal lavoro della Commissione teologica mista?
Chryssavgis: In questi ultimi mesi, il papa e il patriarca hanno sigillato la loro personale amicizia e il fraterno impegno per una testimonianza di unità nel mondo contemporaneo e nella chiesa. Il significato di questi incontri è immenso. Dobbiamo ricordare che, per novecento anni, c’era scarsa o nessuna comunicazione tra le due chiese. Il fatto che, oggi, le due "chiese sorelle" si scambino visite ufficiali, organizzino eventi insieme e producano dichiarazioni comuni, è un chiaro segno di cambiamento di mentalità e comportamenti. L’obiettivo finale è ristabilire la completa unità e condividere in pienezza i sacramenti. Ma la visita di papa Francesco a Istanbul dimostra che le antiche polemiche e i sospetti del passato sono stati superati. Inoltre, anche se non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo dell’unità dei cristiani, possiamo continuare a "camminare nella carità" (Ef. 5,2), secondo il motto della visita di quest’anno del papa al Patriarcato Ecumenico.
Cosa si aspettano i cristiani di Turchia da questa visita?
Chryssavgis: In anni recenti, ci sono stati molti cambiamenti in positivo nelle relazioni tra il governo turco e i cristiani ortodossi di questo paese. Numerose proprietà sono state restituite alle minoranze non musulmane e c’è meno ingerenza nelle questioni interne della Chiesa. Tuttavia, la Scuola teologica di Halki (n.d.r il seminario è stato chiuso dalle autorità turche come conseguenza di una controversia giuridica sulla natura dell’istituzione), si pone come un potente e doloroso ricordo del proseguire delle restrizioni religiose in Turchia. La verità è che la libertà di religione non può essere separata dalla libertà di insegnare religione. Del resto, il governo turco avrebbe molto da guadagnare da un Halki aperto, da un seminario che storicamente ha formato il clero con la maggiore apertura mentale del mondo, tra cui l’attuale patriarca ecumenico Bartolomeo.
Quali argomenti potrebbero entrare nella dichiarazione congiunta finale?
Chryssavgis: Nella dichiarazione congiunta, oltre all’accento sul rafforzamento delle relazioni tra cristiani, in particolare tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, sono certo che i due profetici leader si concentreranno su come annunciare il Vangelo nel mondo contemporaneo, soprattutto alla luce delle sfide che il mondo sta affrontando. Di certo essi esprimeranno la loro preoccupazione e lo sgomento per la brutale persecuzione dei cristiani nella regione in cui il cristianesimo è nato - come l’Iraq e la Siria, ma più in generale il Medio Oriente - e dove la popolazione cristiana è drasticamente diminuita. Si deve ricordare che, insieme, le due chiese rappresentano circa due miliardi di fedeli. E in un’epoca di così grande fermento e divisione, l’immagine di loro due in piedi mentre pregano insieme servirà per ricordare al mondo che siamo chiamati - anzi è un obbligo - a lavorare insieme per la pace e la giustizia nel nostro mondo.
Il rapporto con la Chiesa cattolica entrerà nella riflessione del Sinodo pan-ortodosso del 2016?
Chryssavgis: Il Grande Concilio del 2016 radunerà per la prima volta i rappresentanti di tutte le quattordici chiese autocefale ortodosse. La convocazione stessa di un grande concilio generale è di fatto senza precedenti, perché l’incontro sarà molto più rappresentativo di qualsiasi altro concilio mai convocato in passato. Uno degli argomenti più importanti che verrà affrontato nel Grande Sinodo sarà il rapporto tra la cristianità ortodossa e le altre confessioni cristiane, così come con le altre comunità religiose. Tra queste relazioni, il dialogo di amore e verità con la Chiesa cattolica di Roma occupa un posto speciale nel cuore del Patriarcato ecumenico. Sono sicuro che il Grande Concilio capirà quanto sia cruciale conservare una linea comune positiva nella relazione con la Chiesa di Roma e formare in modo collettivo i fedeli sull’importanza di lavorare per il ristabilimento dell’unità nella fede e nei sacramenti.
E’ in programma di celebrare insieme i 1700 anni del primo Concilio ecumenico di Nicea, celebrato quando le chiese erano ancora unite?
Chryssavgis: La possibilità di un evento comune nel 2025, per commemorare e celebrare l’anniversario del Concilio di Nicea è stata presa in considerazione; tuttavia non ci sono programmi concreti o nell’immediato in proposito. Sarebbe chiaramente, però, un’occasione importante per segnare una tappa fondamentale nella storia della Chiesa cristiana.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
ECUMENISMO RINASCIMENTALE. L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò - SI CFR. LE NOTE.
STORIA, FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-POLITICA.
"COSTANTINO" E "COSTANTINISMO". Per fare "#mente locale" sulla #hamletica #question (#Shakespeare), forse, è bene ricordare - in memoria di #Dante Alighieri e di #Lorenzo Valla - due contributi sul tema:
Il Papa: desidero andare nel 2025 a Nicea con Bartolomeo per i 1700 anni del Concilio
di Salvatore Cernuzio (Città del Vaticano, 29 giugno 2024 - ripresa parziale)
È un viaggio che desidera e che ha “voglia” di fare, “di cuore”, sin da quando l’“amato fratello” il patriarca Bartolomeo lo ha invitato: Nicea, luogo del primo Concilio Ecumenico di cui nel 2025 ricorre il 1700° anniversario. Papa Francesco condivide questo suo personale desiderio nell’udienza di oggi alla delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, ricevuta oggi, 28 giugno, in Vaticano nell’ambito del tradizionale scambio per le feste dei Santi Patroni della Chiesa di Roma, gli Apostoli Pietro e Paolo (una delegazione della Santa Sede si reca invece il 30 novembre al Fanar per la festa di Sant’Andrea).
L’anniversario del Primo Concilio Ecumenico
Tra la gratitudine e l’affetto per Bartolomeo, l’incoraggiamento ad andare avanti nel comune dialogo che “non comporta alcun rischio per l’integrità della fede”, un appello per la Terra Santa ferita dalle violenze e il ricordo del compianto teologo Zizoulas, Papa Francesco ricorda al termine del suo discorso il 1700° anniversario del Primo Concilio Ecumenico di Nicea.
In particolare, Francesco dice di rallegrarsi per il fatto che Patriarcato Ecumenico e Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani abbiano cominciato a riflettere su come commemorare insieme questo anniversario: “Io - aggiunge a braccio - ho la voglia di andarci; e ringrazio Sua Santità Bartolomeo per avermi invitato a celebrarlo nei pressi del luogo dove il Concilio si riunì”.
Il primo Concilio Ecumenico di Nicea
Pregare insieme per la pace in Terra Santa e nei territori di guerra
Sarebbe quella un’ulteriore occasione per assolvere alla missione che oggi le Chiese sono chiamate a compiere “in un’epoca in cui tanti uomini e donne sono prigionieri della paura del futuro”. Quella, cioè, “di annunciare sempre, ovunque e a tutti Gesù Cristo nostra speranza”. E anche di pregare insieme. A tal proposito il Papa ricorda il momento di preghiera nei Giardini Vaticani - di cui il 7 giugno ha celebrato il decennale - proprio al fianco di Bartolomeo e del Patriarca greco ortodosso di Gerusalemme, Teofilo III, con il compianto presidente dello Stato d’Israele, Shimon Peres, e il presidente dello Stato di Palestina, Abu Mazen, per invocare la pace in Terra Santa, in Medio Oriente e in tutto il mondo.
A distanza di dieci anni, la storia attuale ci mostra in modo tragico la necessità e l’urgenza di pregare insieme per la pace, perché questa guerra finisca, i Capi delle Nazioni e le parti in conflitto possano ritrovare la via della concordia e tutti si riconoscano fratelli
È questa una invocazione di pace che il Papa estende a tutti i conflitti in corso: “In particolare alla guerra che si combatte nella martoriata Ucraina”.
L’incontro a Gerusalemme tra Paolo VI e Atenagora
Con lo sguardo ancora a Gerusalemme, Francesco rammenta l’incontro di sessant’anni fa nella Città Santa tra Paolo VI e il patriarca ecumenico Atenagora; lo stesso incontro che ha dato impulso al “cammino di riavvicinamento e di pacificazione” che prosegue da allora e che oggi procede “verso il ristabilimento dell’unità alla quale soltanto lo Spirito Santo può guidarci, quella della comunione nella legittima diversità”.
L’amicizia con Bartolomeo
Ancora sul filo dei ricordi, il Papa richiama il viaggio del maggio 2014 in Terra Santa, anche quella volta con Bartolomeo al suo fianco: proprio là, “dove il nostro Signore Gesù Cristo è morto, risorto e asceso al cielo”, “abbiamo ribadito il nostro impegno a continuare a camminare insieme verso l’unità per la quale Cristo Signore ha pregato il Padre, perché tutti siano una sola cosa”. Il Pontefice conserva il ricordo vivo di quel pellegrinaggio e si dice grato per aver sviluppato un’“amicizia fraterna” col patriarca da quel viaggio mantenuta in questi anni e “alimentata in numerosi incontri, in tante occasioni di collaborazione concreta tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa su questioni di grande rilevanza per le Chiese e per il mondo, come la cura del creato, la difesa della dignità umana, la pace”.
Insieme nel Giubileo
L’attenzione del Papa passa poi al Giubileo del 2025, che avrà come motto “Pellegrini di speranza”. Come già nella Bolla di indizione Spes non confudit, Jorge Mario Bergoglio ribadisce l’invito al Patriarcato Ecumenico ad “accompagnare e sostenere con la vostra preghiera questo anno di grazia, perché non manchino abbondanti frutti spirituali”.
Proseguire il dialogo verso l’unità, superare le dispute accademiche
Da qui un nuovo invito a proseguire nel dialogo tra le nostre Chiese: “Non comporta alcun rischio per l’integrità della fede”, rimarca il Papa, ma anzi, “è un’esigenza che scaturisce dalla fedeltà al Signore e ci conduce a tutta la verità, attraverso uno scambio di doni, sotto la guida dello Spirito Santo”. Per questo, incoraggia il lavoro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa sullo studio di delicate questioni storiche e teologiche.
Il ricordo del vescovo Zizioulas
A conclusione dell’udienza un ricordo carico di affetto per il vescovo Ioannis Zizioulas, il teologo ortodosso, metropolita maggiore di Pergamo, scomparso nel 2023. “Era ironico, ma era bravo, gli volevo bene”. Di lui il Papa ricorda un’affermazione saggia, detta in forma di battuta: “Io so quando sarà il giorno della piena unità: il giorno del Giudizio finale. Ma, nel frattempo, camminiamo insieme, preghiamo insieme e lavoriamo insieme”.
La data. La Pasqua ortodossa (un mese dopo). Perché i cristiani non festeggiano insieme
La solennità oltre un mese dopo i cristiani d’Occidente perché le Chiese seguono calendari differenti. Ma l’anno prossimo le date coincidono e potrebbe aprirsi una stagione nuova
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 4 maggio 2024)
Il 5 maggio le Chiese ortodosse (e molti cattolici di rito orientale) festeggiano la Pasqua, oltre un mese dopo i cristiani d’Occidente. Questioni di calendario, naturalmente, anche se sullo sfondo resta il sogno di arrivare un giorno a festeggiare tutti insieme. La guerra in Ucraina ha infatti reso più difficile il dialogo ma l’impegno ecumenico (cioè la ricerca di unità tra chi pur appartenendo a Chiese diverse professa una comune fede in Cristo) non viene meno, anzi i più irriducibili rilanciano l’avvio di una nuova stagione di confronto. Un’ottima occasione sarebbe fornita nel 2025 dall’anniversario del Primo Concilio di Nicea, celebrato nel 325, e avrebbe come tema centrale l’individuazione di una data comune per la Pasqua. Tanto più che per giochi di date l’anno prossimo la Pasqua cadrà per tutti i cristiani il 20 aprile. Papa Francesco ne ha parlato più volte definendo uno scandalo questa divisione e così il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I. Il leader ortodosso è tornato sull’argomento più volte anche di recente invitando a pregare «il Signore affinché la celebrazione comune della Pasqua che avremo l’anno prossimo non sia una felice coincidenza, un evento fortuito, ma l’inizio della fissazione di una data comune per il cristianesimo occidentale, in vista del 1700° anniversario, nel 2025, della convocazione del primo Concilio ecumenico a Nicea, che tra l’altro affrontò anche la questione della regolamentazione del tempo della celebrazione della Pasqua. Siamo ottimisti perché c’è buona volontà e disponibilità da entrambe le parti, poiché la celebrazione separata dell’evento unico dell’unica Risurrezione dell’unico Signore è uno scandalo».
Come noto, e lo ricorda anche una nota del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani datata 27 ottobre 2022, a Nicea si stabilì una regola secondo cui «tutti i fratelli e le sorelle d’Oriente che fino ad oggi hanno celebrato la Pasqua con gli ebrei, d’ora in poi celebreranno la Pasqua in accordo con i romani, con voi e con tutti noi che l’abbiamo celebrata con voi fin dai primi tempi». Concretamente, come data si scelse la domenica successiva al primo plenilunio di primavera. Poiché fu anche deciso che la Pasqua doveva essere celebrata dopo la festa della Pesah ebraica, venne abbandonata la data comune di Pasqua tra cristiani ed ebrei.
Successivamente, nel XVI secolo, a complicare le cose, se così si può dire, arrivò l’introduzione da parte di papa Gregorio XIII del calendario gregoriano che riformava il calendario giuliano (promulgato da Giulio Cesare) seguito però ancora da molte comunità d’Oriente. Ne deriva uno sfalsamento di date, per cui, ad esempio, nel 2024 cattolici ed evangelici hanno festeggiato la risurrezione di Cristo il 31 marzo ì, le Chiese ortodosse lo faranno il prossimo 5 maggio. Fatto salve le fortunate eccezioni, come appunto capiterà nel 2025, il problema rimane e continua a interpellare studiosi e leader religiosi. Quelli almeno favorevoli alla data comune. «La soluzione più semplice - ricorda ancora il Dicastero per l’unità - sarebbe senza dubbio prendere come giorno della morte di Gesù il 7 aprile 30, in modo che la Pasqua venga sempre celebrata la seconda domenica di aprile. Il Consiglio ecumenico delle Chiese ha proposto di celebrare la Pasqua la domenica successiva al primo plenilunio di primavera; in tal caso, la città di Gerusalemme dovrebbe essere il punto di riferimento per il calcolo della luna piena. Un altro suggerimento degno di nota è quello del patriarca ecumenico Meletios IV (1921-1923), che riconosce e accoglie la precisione del calendario gregoriano e allo stesso tempo rispetta la data di Pasqua stabilita dalla Chiesa primitiva. Il calendario meleziano è quindi, almeno a prima vista, identico al calendario gregoriano, ma la data di Pasqua deve essere calcolata come se fosse ancora in vigore il calendario giuliano».
L’argomento è stato affrontato più volte nei secoli e il Concilio Vaticano II ne parla esplicitamente, in un’appendice alla Costituzione sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” adottata e promulgata nel 1963. Due i criteri indicati per definire una nuova datazione. In primo luogo va bene «che la festa di Pasqua venga assegnata ad una determinata domenica nel calendario gregoriano» purché «vi sia l’assenso di coloro che ne sono interessati, soprattutto i fratelli separati dalla comunione con la Sede apostolica». In secondo luogo, ricorda ancora il Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, il Concilio dichiara la propria disponibilità anche a «introdurre nella società civile un calendario perpetuo», a condizione, ovviamente, che sia preservata e tutelata la settimana di sette giorni con la domenica.
Ora la guerra in Ucraina con i suoi riflessi negativi soprattutto all’interno del mondo ortodosso sembra allontanare la prospettiva di una ricerca più articolata sull’argomento, però spesso, proprio dalle crisi più nere nascono soluzioni insperate. E chissà che non sia questa la volta.
Santa Sede.
Il Papa torna a essere “patriarca d’Occidente”: che cosa vuol dire
di Redazione Catholica (Avvenire, giovedì 11 aprile 2024)
Il Papa torna a essere anche patriarca d’Occidente.
Lo spiega l’agenzia Fides osservando come il titolo compaia nell’Annuario pontificio del 2024, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. Tale definizione era scomparsa nel 2006 su disposizione di Benedetto XVI. Nel comunicato diffuso allora dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei cristiani si chiariva che il titolo di «patriarca d’Occidente» era stato adoperato nell’anno 642 da Papa Teodoro I. In seguito, il suo utilizzo aveva preso piede nel XVI e XVII secolo, «nel quadro del moltiplicarsi dei titoli del Papa» nell’’Annuario Pontificio esso era apparso per la prima volta nel 1863. Il termine “Occidente” - proseguiva il comunicato «non intende descrivere un territorio ecclesiastico né esso può essere adoperato come definizione di un territorio patriarcale». Quindi il titolo «patriarca d’Occidente» - prosegue Fides citando il comunicato del 2006 «descriverebbe la speciale relazione del Vescovo di Roma a quest’ultima, e potrebbe esprimere la giurisdizione particolare del Vescovo di Roma per la Chiesa latina». Tuttavia, la soppressione di tale titolo non sottintendeva “nuove rivendicazioni” papali rispetto alle Chiese d’Oriente, ma era espressione di un “realismo storico e teologico” che spingeva a mettere da parte un titolo considerato obsoleto.
La scelta di papa Francesco di ripristinare il titolo di patriarca d’Occidente - prosegue ancora Fides - può essere collegata alla sua insistenza sulla importanza della sinodalità, e alla sollecitudine ecumenica che spinge a guardare sempre ai primi secoli del cristianesimo, quando tra le Chiese non c’erano lacerazioni di carattere dogmatico. Il titolo di patriarca d’Occidente richiama in qualche modo anche l’esperienza del Primo Millennio cristiano, quando le cinque sedi della cristianità antica (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), pur nella differenza delle rispettive storie e dei diversi accenti spirituali, rivestivano un rilievo particolare per il vincolo che le univa alla Tradizione apostolica. I rapporti di queste cinque sedi, nella comunione, apparivano strutturati nella prassi che gli studi di storia della Chiesa definiscono come “Pentarchia”.
In un momento storico segnato dal dilagare di conflitti che spingono i popoli verso il baratro di una terza guerra mondiale, la sollecitudine ecumenica vede come occasione propizia l’approssimarsi del 17° centenario del Concilio di Nicea, svoltosi nel 325 dopo Cristo. I cristiani - come ha suggerito Papa Francesco già il 6 maggio 2022 - hanno la possibilità di riunirsi e celebrare insieme i 17 secoli dal Concilio di Nicea, come per un nuovo inizio. E nel 2025, tutti i cristiani per coincidenze di calendario, tutti i cristiani celebreranno la Pasqua nello stesso giorno, domenica 20 aprile.
Dunque, nell’Annuario pontificio, i titoli del Papa sono: vicario di Gesù Cristo, successore del principe degli apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale, patriarca d’Occidente, primate d’Italia, arcivescovo e metropolita della provincia romana, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, servo dei servi di Dio.
FILOLOGIA E "SÀPERE AUDE" (ORAZIO-KANT): "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" (LUDWIG #FEUERBACH). Un invito alla riflessione critica sul "pane" artistico quotidiano, di cui ci cibiamo... 7 Gennaio 2024
STORIA SOCIALE DELL’ ARTE E USO DELLE #IMMAGINI A FINI DI PROPAGANDA DI FEDE (TEOLOGICO-POLITICA E ANTROPOLOGICA), SOPRATTUTTO DELLA FIGURA DELL’#UOMO PER ECCELLENZA ("ECCE HOMO", VALE A DIRE DELLA FIGURA DI GESU’ CRISTO).
#STORIA E #STORIOGRAFIA: DA COSTANTINO A COSTANTINO, #NICEA (325-2O25). SI RACCONTA CHE #CarloMagno, rimasto affascinato dal canto di certi monaci greci che celebravano il #Battesimo del #Signore, fece tradurre in latino i testi che aveva udito cantare, forse, per ringraziarlo di questo prezioso e importante gesto, i grandi esperti della Chiesa Cattolica del tempo confezionarono la famosa "Donazione di Costantino":
CONSIDERATO che "nel 1440 l’umanista italiano Lorenzo Valla dimostrò in modo inequivocabile che la donazione era un falso", e, che il suo lavoro, "De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio" ("Discorso sulla donazione di Costantino, altrettanto malamente falsificata che creduta autentica"), poté essere pubblicato solo nel 1517 e in ambiente protestante, mentre la Chiesa cattolica difese per secoli la tesi dell’originalità del documento", e, ancora, che "nel 1559 lo scritto di Valla fu incluso nell’indice dei libri proibiti in quanto pericoloso per la fede [...]" (Donazione di Costantino), FORSE, è importante e utile (dal punto di vista antropologico) avere in mente non solo l’#uomovitruviano->https://it.wikipedia.org/wiki/Uomo_vitruviano], ma anche (v. allegato: figura di Mercurio con caduceo *) l’uomo mercuriale (l’uomo #ermetico) di un sopravvissuto affresco di fine #Quattrocento, conservato in una "Casa di caccia" della Milano di #Ludovico il #Moro (e di #Leonardo da Vinci), un #segnavia importante della tradizione di "Mercurio e la filologia", della tradizione ermetica e dell’ermetismo cristiano.
*
COSTANTINO, NICEA (325-2025), E LA STORIA DI UN "CODICE" DI LUNGA DURATA.
Nell’immaginario teologico-politico antisemita l’Europa abita almeno a partire da [Costantino, dall’editto "Codex Judaeis" del 321 (cfr. Arturo Schwarz,"Costantino? Tutt’altro che tollerante, inventò l’antisemitismo di Stato, fino ad oggi: per il 2025 già si preparano le celebrazioni dell’anniversario del primo concilio di Nicea (325).
#PROFETI, #SIBILLE, #QUESTIONEANTROPOLOGICA (#KANT,1800), E #FILOLOGIA:
ANTONIO #ROSMINI, LA "PRISCA THEOLOGIA", E LA "#CHARITAS".
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (#PatriciaSalomoni, "#RosminiStudies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della #Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva [...] E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della #CappellaSistina è ancora un grosso problema! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3...).
*
"AD THEOLOGIAM PROMOVENDA" (L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023). Per promuovere la teologia, nel paragrafo 7, è scritto che Rosmini considerava la #teologia una espressione sublime di “carità intellettuale” ... chiedeva che la ragione critica di tutti i saperi si orientasse all’Idea di #Sapienza e [sapesse stringere] interiormente in un “circolo solido” la Verità e la Carità insieme [...] (https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-11/quo-252/ad-theologiam-promovenda.html ).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO...
Alcune considerazioni a margine di una riflessione sul Simbolo Niceno-costantinopolitano (Nicea, 325) o Credo niceno-costantinopolitano (Symbolum Nicaenum Costantinopolitanum):
UN "COMPROMESSO STORICO" DI LUNGA DURATA: LA TRAGEDIA. La grande instaurazione "olimpica", con le parole di Atena, parla chiara e tondo: «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, Eumenidi).
DIVINA COMMEDIA (DANTE 2021). LA SCOPERTA DEL LAOCOONTE (1506) E LA MEMORIA DI TROIA (VIRGILIO, "ENEIDE"): LA "SACRA FAMIGLIA" ("TONDO DONI"). Michelangelo, con i suoi profeti e le sue sibille, cosa ha indicato a Firenze (1506-1508), come a Roma (nella Volta della Cappella Sistina, 1508-1512)?
RINASCIMENTO, OGGI: "DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE" (1996) ... purtroppo da millenni, si preferisce ’navigare’ nel mare della tragica "dotta ignoranza" (Niccolò Cusano), e seguire ancora la rotta del "sapiente" Bovillus, con la sua "piramide" androcentrica (cfr. Stefano Mancuso - AlessandraViola, "Verde brillante", Giunti 2013, p. 19)!!!
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)?!
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
#FILOLOGIA E (#DISAGIO DELLA) #CIVILTÀ: #ANTROPOLOGIA (COME #ANDROLOGIA) E #TEOLOGIA-#POLITICA COME #COSMOTEANDRIA - #OGGI.
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu
* APPUNTI PER IL CONGRESSO MONDIALE DI #FILOSOFIA #ROMA2024 (#WCP2024 - XXV World Congress of #Philosophy). "I soggetti sono due, e tutto da ripensare". In memoria di #FrancaOngaro #Basaglia e di #LauraLilli...
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E VITA FUORI DALLA BILANCIA" ("LIFE OUT OF BALANCE").
COSMOTEANDRIA DEL XXI SECOLO: IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO SUPREMO.
PIANETA TERRA: DOPO 1700 ANNI DAL PRIMO CONCILIO DI NICEA (325), DI "QUALE" ECUMENISMO, LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INTERA EUROPA (LAICA E RELIGIOSA) VUOLE FARE MEMORIA?
A) - NICEA 325. "Il concilio di Nicea, tenutosi nel 325, è stato il primo concilio ecumenico cristiano. Venne convocato e presieduto dall’imperatore Costantino I, il quale intendeva ristabilire la pace religiosa e raggiungere l’unità dogmatica, minata da varie dispute, in particolare sull’arianesimo; il suo intento era anche politico, dal momento che i forti contrasti tra i cristiani indebolivano anche la società e, con essa, lo Stato romano. Con queste premesse, il concilio ebbe inizio il 20 maggio del 325. Data la posizione geografica di Nicea, la maggior parte dei vescovi partecipanti proveniva dalla parte orientale dell’Impero (...).
B) STORIA STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: COSTANTINOPOLI E LA "CRISTOLOGIA UMANISTICA". Riprendendo il filo dalla "Dotta Ignoranza" (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440, e dalla caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453, non è forse tempo di corre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica?!
C) BILANCIA DELLA COSTITUZIONE, BILANCIA DELL’ETICA, E PACEPERPETUA. Una "foto" per riflettere non solo l’8 marzo 2023, ma anche l’8 marzo 2025...
L’AZIONE PASTORALE DELLA CHIESA CATTOLICA E IL NATALE DEL 2022: IL CATTOLICESIMO-ROMANO DI COSTANTINO (NICEA 325 d. C) ESISTERA’ ANCORA NEL 2025 d. C.?! *
La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano
di Michele La Rocca (Insula Europea, 15 Dicembre 2022
La Chiesa rivolge la sua attenzione alla pietà popolare in vasti settori della sua azione pastorale, perché come in passato era stata efficace per arginare gli effetti negativi del movimento protestante, così ora si dimostra valida per contrastare le suggestioni corrosive del razionalismo. La fissa in rapporto con la Liturgia. Si tratta di due espressioni legittime del culto cristiano, che non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare. Liturgia e Pietà Popolare sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico in cui la seconda è oggettivamente subordinata e finalizzata alla prima. Un rapporto che va guardato alla luce delle direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium: «I pii esercizi del popolo cristiano siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 13).
Da una parte la pietà popolare è uno spazio adeguato per celebrare in modo libero e spontaneo la «Vita» e le sue molteplici espressioni, insomma uno spazio reale e semplice per la vita di preghiera: attraverso i credenti esercizi, infatti, il fedele dialoga veramente con il Signore, con «discorsi» che egli comprende pienamente e che sente propri; parlando direttamente all’uomo, ne coinvolge il cuore, lo spirito, il corpo. La ritualità attraverso cui si esprime è recepita e accolta dal fedele, perché vi è corrispondenza tra il suo mondo culturale e il linguaggio rituale. Dall’altra la Liturgia invece, pur centrata sul «Mistero di Cristo» e anamnetica per sua natura, proibisce la spontaneità e risulta ripetitiva e formalistica; non riesce a coinvolgere il fedele nella totalità del suo essere, nella sua corporeità e nel suo spirito. Al contrario, ponendo sulle sue labbra parole non sue e spesso estranee al suo mondo culturale, più che un mezzo si rivela un impedimento per la vita di preghiera. La sua stessa ritualità è invece incompresa, perché i suoi moduli espressivi provengono da un mondo culturale che il fedele sente diverso e lontano.
È importante ricordare cosa suggerisce l’ultimo Concilio ecumenico: «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 7).
Un altro aspetto significativo della Pietà Popolare è il pellegrinaggio, simbolo della condizione di ogni essere umano in quanto homo viator: «Il pellegrinaggio è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è un viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata» (Francesco, Misericordiae Vultus, 11 aprile, 2015, 14).
La vita dell’uomo nella Bibbia viene presentata come il grande Pellegrino che va alla ricerca dell’uomo e della creazione, fino ad assumere poi in Gesù Cristo la stessa carne della creatura, con cui farà ritorno al Padre. Si parla di un linguaggio semplice e naturale perché i credenti, come tutti gli altri uomini, esprimono il loro sentimento religioso e curano la dimensione della trascendenza. Esso ha un chiaro significato antropologico, descrive e definisce l’essere umano con un’identità definita, in quanto racconta la vita di Cristo e dei cristiani in viaggio verso la casa del Padre, equipaggiati del senso della vita in quanto si sentono amati da Dio.
In passato, raggiungere alcune mete comportava una vita totale: perché partire significava molte volte il non ritorno a causa dei mezzi non potenti, di malattie inguaribili; e questo trasformava il pellegrinaggio in un vero e proprio viaggio verso l’eterno.
L’immagine dell’uomo, che il pellegrinaggio propone, è un ideale rimedio alla rottura antropologica del postmoderno, che spesso descrive l’uomo come un individuo lacerato, senza patria, senza riferimenti e senza prospettiva (Cfr. Z. Bauman, Da pellegrino a turista, in “Rassegna Italiana di Sociologia” 36 (1995/1) 3-26, qui 13-21); una umanità aperta, labile ma senza progettualità. Invece il pellegrinaggio esprime la totalità della vita cristiana e l’autentica immagine dell’uomo, che sa dove lo conduce la strada della vita. L’essere pellegrino e il tema del viaggio appartengono non solo alla Bibbia ma al grande tema dell’umanità, dai filosofi ai poeti, agli scrittori; sono uno dei miti letterari più presenti da Omero con Ulisse, all’inquieto cuore di Agostino.
Come indica la Bolla di indizione del Giubileo, il pellegrinaggio «è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore» (Cfr. L. Pozzoli, L’apostolo e il personaggio-uomo: due nomadi su strade diverse, in AA. VV., Fede e cultura dagli Atti degli Apostoli, EDB, Bologna 1988, 27-55).
Il pellegrinaggio è un evento assai complesso, che abbraccia diversi momenti successivi: «la partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore o in una peculiare benedizione dei pellegrini. L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.
L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di “liturgia della soglia”, che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.
La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso. La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito; i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 287).
Il momento finale del pellegrinaggio è il «commiato»: essa rivela una forte alleanza tra i presbiteri al servizio del santuario e i pellegrini che incaricano i sacerdoti a continuare la loro lode nel luogo più santo. Non deve mai terminare il contatto con Dio, questo dialogo tra Dio e il popolo. Il pellegrinaggio non è un camminare erratico, senza una meta ben precisa. Il pellegrinare verso chiese, santuari, memorie della nostra fede, luoghi della nostra miseria e della misericordia di Dio ci porta a riconsiderare il ministero della Parola e della nostra fede. Inoltre entrare nel santuario in cui Cristo ha già fatto il suo ingresso fa riscoprire all’uomo la paternità e la maternità di Dio.
Al ritorno, il pellegrinaggio ricalca la discesa da Gerusalemme a Gerico e invita tutti di farsi prossimo dei pellegrini di ogni genere, sostando con loro, mettendo a disposizione anche i propri beni, con amore e affetto. Le differenze non devono dividere ma integrare nel piano di Dio e portare all’unione di tutti gli uomini in un solo corpo che è Cristo stesso. Le diversità sono doni di cui si serve lo Spirito per costruire la casa del Padre. Quando Dio rivolge gli occhi verso il suo popolo: «i cristiani scoprono paternità di Dio; l’illusione mitica che li faceva ricondurre alla terra della patria e credere di essere stati creati in diverse caste è distrutta; essi sanno che sono tutti di una stessa famiglia, e perciò veramente fratelli. La fede demitologizza il mondo, smaschera l’errore razzistico, i dogmi sociali, frutti di menzogna, allontanando gli uomini per condurli alla verità che rende liberi. La fede posseduta in comune, crea nello stesso tempo la comprensione tra gli uomini, continua il miracolo della Pentecoste, trionfa sulla confusione babilonica delle lingue, non, del resto per l’unità esteriore del linguaggio ma per l’unità dello spirito che essa stabilisce» (J. Ratzinger, Fraternitè, in Dictionnaire de Spiritualitè, V, 1159).
Il primo pellegrinaggio di ogni uomo dimora nel rinnovamento del cuore: convertirsi è farsi pellegrini verso sé stessi per ricomprendere la propria vita e la propria identità; è volgersi al proprio cuore «là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (Cfr. 1 Sam 16,7; Ger 17,10), là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 1965 dic. 7: cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, in AAS, 58 (1966), 14).
Infatti, «non è tanto il mutamento da un luogo all’altro che ci rende più vicini a Dio, ma una dimora ben preparata, dove Dio possa abitare. A nulla, infatti, servirebbe visitare i Luoghi Santi, fosse pure il Golgota, se non si è in grazia di Dio» (S. Gregorio di Nissa, Epist. 81). La conversione è l’invito all’amore e alla fedeltà a colui che resta fedele sempre anche se noi non lo siamo quasi mai e questa è la certezza che Dio non si è stancato di noi.
«Ravvediti» (Cfr. Ap 2,5): un ritornello continuo dello Spirito che è quasi una dichiarazione di amore da parte del Signore nei riguardi di ogni singolo uomo. La prima parola che il Vangelo annuncia è «conversione» perché compito proprio del ministero apostolico è la predicazione nel nome di Gesù della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti (Cfr. Lc 24,47). Anche noi oggi siamo chiamati ad accettare colui che viene e fa «nuove tutte le cose» (Cfr. Ap 2,5), attraverso un confronto e un «dialogo» aperto e coraggioso con Gesù; l’unico che può permettere la conversione: questo passaggio a un essere nuovo, ma non in qualche aspetto o verso l’interiorità, ma il completo rinnovamento. La meta cristiana del pellegrinaggio «non è più un luogo, una città, un tempio, bensì la persona stessa del Maestro e Signore che il pellegrino deve seguire, portando la propria croce, entrando per la propria parte nel mistero della sua Pasqua» (Commissione Ecclesiale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei, “Venite saliamo sul monte del Signore”, il pellegrinaggio alle soglie del III millennio, nota pastorale, 8).
L’essere cristiani possiamo considerarlo come un invito a superare sé stessi, al cercare di essere sempre gli uni per gli altri, ma soprattutto comporta il seguire il Signore, il mistero della sua Croce che è completamente dedita agli altri e lontana «dall’egoismo dell’io» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Quiriniana, Brescia, 1996, 203).
«Chi vuol venga dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Cfr. Mt 16,24.) Questo è anche il senso del Crocifisso, delle sue braccia spalancate che testimoniano il gesto della preghiera; un senso di abbraccio, di fraternità, di amore, di servizio tra uomini e glorificazione a Dio. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini sembrano diventare «araldi itineranti di Cristo»; perché «pellegrinare» rappresenta, in qualche modo, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina annunciando il Vangelo di salvezza.
* NOTA
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, #FILOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: IN #PRINCIPIO ERA IL #VERBO.
CHI HA VISTO L’ A O ... RISTO? Un omaggio a Salvo Micciché e a Carlo Pulsoni e una nota a margine di un articolo sulla #pietà popolare, sul #pellegrinaggio, apparso su Insula Europea...
#MARIAEGIUSEPPE, #GESÙ, E IL #PRESEPE. MA CHE NATALE è questo #Natale2022, con "La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano" ... e la vita e l’#idea platonica di un "#Gesù" segnato da tragico #androcentrismo e costruito ad uso e strumento della casta sacerdotale? #STORIA E #MEMORIA. "È significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di #Poitiers, 2010).
#APOCALISSE (1,8). Non è il caso e il tempo di riflettere un po’ di più sull’ AO...risto ("Io sono l’Alfa e l’Omega"), sulla delfica #conoscenza di sé, e su #comenasconoibambini? Ricordare che fra pochi giorni inizia il nuovo anno e che #Eleusi, città greca legata alla memoria dei #MisteriElesusini, sarà una delle capitali europea della cultura: #Eleusis2023.
#BUONNATALE E #BUON2023, #BUONANNO
A Valencia, sulle tracce della figlia devota di Federico II
La stauroteca di Costanza
di di Giuseppe Perta *
Il museo della Cattedrale di Valencia, attiguo alla cappella del Santo Caliz, si presenta al visitatore come un raggiante scrigno di reliquie cristologiche. Tra queste, trova spazio una stauroteca d’argento dorata di fattura neogotica, gemmata di preziosi coevi risalente al quindicesimo secolo e contenente un frammento della Vera Croce arrivato per mano di una donna di stirpe imperiale.
Costanza di Staufen, figlia di Federico II e sorella di re Manfredi, giunse in Spagna dopo un lungo girovagare che l’aveva vista protagonista della politica mediterranea sin da bambina, quando, suo malgrado, il padre la diede in sposa all’imperatore di Nicea, Giovanni III Ducas Vatatze. Nicea (l’odierna Iznik) era un’antica città anatolica posta a breve distanza dalla costa orientale del Mar di Marmara, a poche giornate di cammino da Costantinopoli e nota per aver ospitato il primo concilio ecumenico cristiano. Nel momento in cui la capitale dell’impero bizantino cadde nelle mani dei Latini, dopo la Quarta Crociata (1204), Nicea divenne fulcro dell’impero residuo, dove si raccolsero i rifugiati greci al seguito di Giovanni il "Misericordioso".
Costanza nacque nel 1231, figlia inizialmente illegittima dello stupor mundi e di Bianca Lancia. Ha dieci anni appena quando s’imbarca dalla Puglia per giungere in Asia Minore. Le circostanze che portano lo Svevo a usarla come pedina, nella complessa partita a scacchi che si va giocando nel quadrante levantino, appaiono piuttosto chiare. Giovanni Vatatze continuava a fregiarsi del titolo di "basileus dei Romani". Dopo aver combattuto Baldovino II di Costantinopoli, che era a capo di quell’impero latino spalleggiato, per mezzo secolo, dalla Chiesa di Roma, Vatatze stava ponendo le basi alla riconquista degli Stretti quando, venuta a mancare la prima moglie, incontrò nell’Hohenstaufen un alleato perfetto contro i nemici comuni, personificati da Gregorio IX e da Giovanni di Brienne, suocero dello stesso Federico, che si era messo a capo delle truppe pontificie con l’obiettivo di occupare l’Italia meridionale. Federico, a sua volta, aveva fatto saltare il banco dei suoi accordi prematrimoniali, partendo, dopo tante esitazioni, verso l’Oltremare crociato con l’obiettivo di occupare il trono di Gerusalemme. La politica antipapista di Federico aveva determinato le scelte. E poco importa che il cobelligerante fosse un bizantino scismatico, anzi! L’imperatore svevo finì per appoggiare ogni tentativo niceno di riconquista del Corno d’Oro, anche se il Vatatze non ne trasse nulla di concreto, se non la mano dell’appena adolescente Costanza. Visto da parte guelfa, l’accordo matrimoniale non poteva far altro che rimarcare i contorni dell’oppositore della Chiesa, disposto a scendere a patti con un "eretico", nemico dei Latini di Costantinopoli.
Fu in occasione delle nozze, tenutesi tra il 1240 e il 1241, che la figlia del puer Apuliae dovette assumere, rinunciando al proprio, il nome di Anna, più consono alla corte bizantina perché si prestava meglio ad un culto anche orientale. Ecco perché è conosciuta anche - si fa per dire, perché la letteratura su di lei è assai scarna - come Anna di Nicea o come Costanza Augusta.
I racconti sul legame tra Giovanni III e Costanza di Staufen sono per il vero relativi a una avvenente dama della corte sveva al seguito, che le fonti latine designano concordemente con il nome di "Marchesina", la quale, questa sì, finì per catalizzare le attenzioni dell’anziano basileus. La favorita dell’imperatore si guadagnò, come da topos letterario, sia i privilegi di una prima donna a corte, sia le rimostranze di chi, come il patriarca e alcuni religiosi di primo piano - tra i quali l’inflessibile Niceforo Blemmide - , manifestò ferma indignazione per lo scandalo.
La vexata quaestio, com’era facile prevedere, non turbò le notti di Federico II , che in una lettera del 1250 si rivolge al Vatatze in termini persino, almeno formalmente, affettuosi, informandolo pure delle vittorie in Italia meridionale, sicuro che la notizia potesse rallegrare suo genero. Ma nel gioco politico diplomatico di quegli anni - forse non troppo diversamente da quanto avviene oggi - gli scenari cambiavano in fretta. E la diplomazia pontificia, nonostante la persistenza dello Scisma che datava ormai due secoli, cominciava a tessere le trame di un riavvicinamento con Nicea. Tali trame irritarono Federico, il quale non perse l’occasione di lamentarsene in lettere dove mai una parola, tuttavia, fu dedicata alla sua Costanza/Anna.
La morte dello Stupor mundi fece il resto, mettendo la pietra tombale sull’alleanza svevo-greca, con tutte le conseguenze del caso per Costanza. Allorché morì pure il marito, e gli successe Teodoro Lascaris, la matrigna Costanza divenne ostaggio della corte bizantina, per quanto prezioso questo ostaggio fosse in termini di spendibilità e di onorabilità. Prezioso al punto che, quando Michele Paleologo usurpò il trono, egli tentò di legittimare la sua posizione per mezzo di lei. Ma la ferma opposizione di sua moglie Teodora e la risolutezza del patriarca di Costantinopoli, che si disse pronto a emettere la scomunica, lo fecero tornare sui suoi passi. Allora Costanza si rivelò un’ottima pedina di scambio, poiché Alessio Strategopulo, generale niceno, finì, nel frattempo, nelle mani di suo fratello Manfredi.
Costanza ritornò in Italia meridionale dopo più di vent’anni. Correva l’anno 1262. O forse era già il ’63. Poco importa. Non era comunque un buon momento. In seguito alla discesa degli Angioini nel Mezzogiorno, alla battaglia di Benevento (1266), alla fuga dalla roccaforte saracena di Lucera e alla morte del re, Costanza - che, in quanto donna, riuscì a evitare il peggio - si ritirò presso la corte dell’omonima nipote, sposa di Pietro d’Aragona. Non aveva neanche quarant’anni, ma già, alle spalle, un’esistenza densa di angosce e tumulti, neanche paragonabile alla quiete che l’avrebbe attorniata nei quarant’anni e più che ancora le rimanevano nel Levante iberico, dove visse fino al 1313.
A Valencia, l’Augusta portava in dote dall’Oriente cristiano non soltanto possedimenti e città la cui rendita complessiva si aggirava attorno ai trentamila bisanti, ma anche due oggetti di grande venerazione, che ancora si conservano nella città alla foce del Turia: una reliquia di santa Barbara e un frammento della Vera Croce.
Della vergine di Nicomedia, decapitata dal proprio padre, secondo un’agiografia che raggiunse in Occidente l’apice della sua diffusione tra XIV e XV secolo, Costanza condusse a Valencia una pietra dalla quale sarebbe sgorgata l’acqua che Barbara utilizzò per il proprio battesimo. La reliquia si conserva tutt’oggi nella chiesa di San Juan de l’Hopital. E, nella stessa chiesa, la cappella di Santa Barbara, ristrutturata in un barocco di un’esuberanza tutta iberica, fa posto a un’urna lignea ottocentesca sulla quale campeggia l’iscrizione: «Aquì yaçe D.a Constança Augusta Emperatriz de Grecia».
Il più insigne lascito di questa Costanza - meno nota rispetto alle due celebrate da Dante: la nonna paterna, «quella gran Costanza» che merita un posto in Paradiso, e la pronipote di quest’ultima, «genitrice dell’onor di Cicilia e d’Aragona», di cui si è detto - è forse in una disposizione testamentaria lasciata per mano del manomissore Enrico di Quintavalle e oggi conservata nell’Archivio cattedrale. Dopo essere passato pro tempore nelle mani dell’arcivescovo di Toledo, nel 1326 il Lignum Crucis di Costanza va ad arricchire un Tesoro che poteva vantare già una Sacra Spina donata da san Luigi IX. Si può provare a ipotizzare il percorso della reliquia che, dopo l’inventio eleniana, aveva visto circolare le sue particelle a partire proprio da Costantinopoli, dove la Vera Croce era stata messa al sicuro da Eraclio, che l’aveva recuperata al persiano Cosroe. I secoli XI-XIII furono un periodo di grande espansione del culto della Vera Croce, e la dispersione di molti suoi frammenti, come di tante altre reliquie sottratte da Costantinopoli in occasione della Quarta Crociata, non fecero che alimentarne la venerazione
Più volte scomunicati, visti nel Risorgimento come campioni anticlericali del laicismo, il padre Federico e il fratello Manfredi erano, in realtà, non antesignani della modernità ma semplicemente uomini del loro tempo, e pure uomini particolarmente devoti, non insensibili alla religiosità mistica che si andava diffondendo. Come sovrani cristiani, erano ben consapevoli della loro missione nel mondo (basti leggere due bei volumi appena pubblicati: F. Delle Donne Federico II e la crociata della pace (Roma, Carocci, 2022) e P. Grillo, Manfredi di Svevia. Erede dell’imperatore, nemico del papa, prigioniero del suo mito (Roma, Salerno, 2022). Donna dei suoi tempi, similmente, Costanza è un esempio di devozione, in senso lato. Quando giunge a Nicea - dove la particella della Croce era giunta da Costantinopoli - trova un segno prezioso della misericordia divina, e vi si aggrappa, portandola con sé nel suo lungo peregrinare.
*
di Giuseppe Perta
Docente di Storia medievale, Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA SESSIONE PLENARIA
DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI
Sala del Concistoro *
Signori Cardinali,
cari fratelli Vescovi e Sacerdoti,
cari fratelli e sorelle!
Vi saluto tutti di cuore, e ringrazio il Cardinale Koch per le parole che mi ha rivolto a nome di voi membri, consultori e collaboratori del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Oggi si conclude la Plenaria del vostro Consiglio, che è stato finalmente possibile tenere in presenza dopo averla rimandata più volte a causa della pandemia. Questa, con il suo tragico impatto sulla vita sociale del mondo intero, ha fortemente condizionato anche le attività ecumeniche, impedendo negli ultimi due anni la realizzazione dei consueti contatti e di nuovi progetti. Al tempo stesso, però, la crisi sanitaria è stata anche un’opportunità per rafforzare e rinnovare le relazioni tra i cristiani.
Un primo significativo risultato ecumenico della pandemia è stata la rinnovata consapevolezza di appartenere tutti all’unica famiglia cristiana, consapevolezza radicata nell’esperienza di condividere la medesima fragilità e di poter confidare solamente nell’aiuto che viene da Dio. Paradossalmente, la pandemia, che ci ha costretti a mantenere le distanze gli uni dagli altri, ci ha fatto comprendere quanto in realtà siamo vicini gli uni agli altri e quanto siamo responsabili gli uni degli altri. È fondamentale continuare a coltivare questa consapevolezza, e far scaturire da essa iniziative che rendano esplicito e accrescano questo sentimento di fratellanza. E su questo vorrei sottolineare: oggi per un cristiano non è possibile, non è praticabile andare da solo con la propria confessione. O andiamo insieme, tutte le confessioni fraterne, o non si cammina.
Oggi la coscienza dell’ecumenismo è tale che non si può pensare di andare nel cammino della fede senza la compagnia dei fratelli e delle sorelle di altre Chiese o comunità ecclesiali. E questa è una grande cosa. Soli, mai. Non possiamo. È facile, infatti, dimenticare questa profonda verità. Quando ciò accade alle Comunità cristiane, ci si espone seriamente al rischio della presunzione di autosufficienza e della autoreferenzialità, che sono gravi ostacoli per l’ecumenismo. E noi lo vediamo. In alcuni Paesi ci sono certe riprese egocentriche - per così dire - di alcune comunità cristiane che sono un tornare indietro e non potere avanzare. Oggi, o si cammina tutti insieme o non si può camminare. È una verità e una grazia di Dio questa coscienza.
Prima ancora che l’emergenza sanitaria finisse, il mondo intero si è trovato ad affrontare una nuova tragica sfida, la guerra attualmente in corso in Ucraina. Dopo la fine della seconda guerra mondiale non sono mai mancate guerre regionali - tante! Pensiamo al Ruanda, per esempio, 30 anni fa, per dirne una, ma pensiamo al Myanmar, pensiamo... Ma poiché sono lontane, noi non le vediamo, mentre questa è vicina e ci fa reagire -, tanto che io ho spesso parlato di una terza guerra mondiale a pezzetti, sparsa un po’ ovunque. Tuttavia, questa guerra, crudele e insensata come ogni guerra, ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero, e non può non interpellare la coscienza di ogni cristiano e di ciascuna Chiesa.
Dobbiamo chiederci: cosa hanno fatto e cosa possono fare le Chiese per contribuire allo «sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale» (Enc. Fratelli tutti, 154)? È una domanda a cui dobbiamo pensare insieme.
Nel secolo scorso, la consapevolezza che lo scandalo della divisione dei cristiani avesse un peso storico nel generare il male che ha avvelenato il mondo di lutti e ingiustizie aveva mosso le comunità credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, a desiderare l’unità per cui il Signore ha pregato e ha dato la vita. Oggi, di fronte alla barbarie della guerra, questo anelito all’unità va nuovamente alimentato. Ignorare le divisioni tra i cristiani, per abitudine o per rassegnazione, significa tollerare quell’inquinamento dei cuori che rende fertile il terreno per i conflitti.
L’annuncio del vangelo della pace, quel vangelo che disarma i cuori prima ancora che gli eserciti, sarà più credibile solo se annunciato da cristiani finalmente riconciliati in Gesù, Principe della pace; cristiani animati dal suo messaggio di amore e fraternità universale, che travalica i confini della propria comunità e della propria nazione. Torniamo su quello che ho detto: oggi, o camminiamo insieme o rimarremo fermi. Non si può camminare da soli. Ma non perché è moderno, no: perché lo Spirito Santo ha suscitato questo senso dell’ecumenismo e della fratellanza.
Da questo punto di vista, la vostra riflessione su come celebrare in modo ecumenico il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea, che ricorrerà nel 2025, rappresenta un contributo prezioso. Nonostante le travagliate vicende della sua preparazione e soprattutto del successivo lungo periodo di recezione, il primo Concilio ecumenico è stato un evento di riconciliazione per la Chiesa, che in modo sinodale riaffermò la sua unità intorno alla professione della propria fede. Lo stile e le decisioni del Concilio di Nicea devono illuminare l’attuale cammino ecumenico e far maturare nuovi passi concreti verso la meta del pieno ristabilimento dell’unità dei cristiani.
Dato che il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea coincide con l’anno giubilare, auspico che la celebrazione del prossimo giubileo abbia una rilevante dimensione ecumenica.
Poiché il primo Concilio ecumenico fu un atto sinodale e manifestò anche a livello della Chiesa universale la sinodalità quale forma di vita e di organizzazione della comunità cristiana, voglio sottolineare l’invito che, insieme alla Segreteria Generale del Sinodo, il vostro Consiglio ha indirizzato alle Conferenze episcopali, chiedendo loro di cercare i modi per ascoltare, durante l’attuale processo sinodale della Chiesa cattolica, anche le voci dei fratelli e delle sorelle di altre Confessioni sulle questioni che interpellano la fede e la diaconia nel mondo di oggi.
Se vogliamo davvero ascoltare la voce dello Spirito, non possiamo non sentire ciò che ha detto e sta dicendo a tutti coloro che sono rinati «da acqua e da Spirito» (Gv 3,5).
Andare avanti, camminare insieme. È vero che il lavoro teologico è molto importante e dobbiamo riflettere, ma non possiamo aspettare di fare il cammino di unità finché i teologi si mettono d’accordo.
Una volta un grande teologo ortodosso mi disse che lui sapeva quando i teologi saranno d’accordo. Quando? Il giorno dopo il giudizio finale, mi ha detto. Ma nel frattempo? Camminare come fratelli, nella preghiera insieme, nelle opere di carità, nella ricerca della verità. Come fratelli. E questa fratellanza è per tutti noi.
Carissimi, vi incoraggio a proseguire nel vostro impegnativo e importante servizio, e vi accompagno con la mia costante vicinanza e gratitudine. Chiedo al Signore che vi benedica, e per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie.
* Fonte: Vatican.va, 6 maggio 2022.
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO VALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 25 MARZO 2022: https://www.latinatoday.it/attualita/sermoneta-epigrafe-visita-imperatore-1452.html) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
L’iniziativa.
I teologi ortodossi: no al “mondo russo”
In 65 firmano il documento che boccia l’ideologia alla base del sostegno di Kirill al conflitto
di Mimmo Muolo (Avvenire, lunedì 14 marzo 2022)
Russkii mir ovvero «il mondo russo». Secondo 65 teologi ortodossi, starebbe nell’ideologia retrostante a questa sigla, la radice del sostegno che il patriarca di Mosca Kirill darebbe da tempo al regime di Putin e anche la sua inaccettabile giustificazione della guerra in Ucraina, sulla base di motivazioni religioso-antropologiche. In cosa consista il Russkii mir, i teologi ortodossi - in gran parte residenti negli Stati Uniti e in altre nazioni occidentali e legati per lo più al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli - lo scrivono in un documento pubblicato sul sito “Public orthodoxy”, in cui si «condanna» e si «respinge» tale modo di pensare e lo si definisce «non conforme alla fede ortodossa».
Per gli estensori del testo, «il sostegno di molti esponenti del Patriarcato di Mosca alla guerra del presidente Putin contro l’Ucraina è radicato in una forma di fondamentalismo etnico-religioso di carattere totalitario», chiamato appunto Russkii mir. In altri termini «un falso insegnamento che sta attirando molte persone nella Chiesa ortodossa ed è stato anche ripreso dall’estrema destra e dai fondamentalisti cattolici e protestanti».
Gli stessi argomenti, prosegue il documento, furono usati per giustificare nel 2014 l’annessione della Crimea, per avviare «una guerra per procura nell’area del Donbas» e ora in Ucraina. Secondo l’insegnamento qualificato come «mondo russo», ricordano i teologi ortodossi, «esiste una sfera o civiltà russa transnazionale, chiamata Santa Russia o Santa Rus’, che include Russia, Ucraina e Bielorussia (e talvolta Moldova e Kazakistan), così come i russi etnici e le persone di lingua russa in tutto il mondo». Il Russkii mir ha dunque «un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kiev come la “madre di tutta la Rus”’), una lingua comune (il russo), una chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, Patriarcato di Mosca) e un patriarca comune (il patriarca di Mosca), che lavora in “sinfonia” con un presidente-leader nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre a sostenere una spiritualità, una moralità e una cultura distintive comuni».
Contro il «mondo russo» si erge, nella visione dei suoi promotori, «l’Occidente corrotto, guidato dagli Stati Uniti e dalle nazioni dell’Europa occidentale, che ha capitolato al “liberalismo”, alla “globalizzazione”, alla “cristianofobia”, ai “diritti omosessuali” promossi nelle sfilate gay e alla “laicità militante”». E naturalmente vi sono anche gli ortodossi caduti nello scisma e nell’errore, sostenuti dal patriarca ecumenico Bartolomeo.
Per Russkii mir, invece, il Patriarcato di Mosca e Vladimir Putin, sono «i veri difensori dell’insegnamento ortodosso, da essi visto in termini di moralità tradizionale, secondo una comprensione rigorista e inflessibile della tradizione e venerazione della Santa Russia».
Perciò, i 65 estensori del documento denunciano questo distorto modo di pensare: «L’insegnamento del “mondo russo” sta devastando e dividendo la Chiesa». E concludono: «Così come la Russia ha invaso l’Ucraina, così anche il Patriarcato di Mosca del patriarca Kirill ha invaso la Chiesa ortodossa, ad esempio in Africa, provocando divisioni e conflitti» e facendo «vittime non solo nel corpo ma nell’anima, mettendo in pericolo la salvezza dei fedeli».
Guerra in Ucraina.
La versione del patriarca di Mosca Kirill: colpa dell’Occidente
Il leader ortodosso: «La Nato ha ignorato le preoccupazioni della Russia. Sta crescendo una russofobia senza precedenti. Hanno lavorato per rendere nemici due popoli fratelli»
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 12 marzo 2022)
Kirill non fa marcia indietro. Anzi, accentua le sue accuse, e rende ancora più esplicito il sostegno all’invasione dell’Ucraina. Nell’analisi del patriarca ortodosso di Mosca, tutto appare rovesciato. Così le colpe del conflitto sono da attribuirsi alla Nato che ha ignorato le preoccupazioni di Mosca. E quello in corso non è un attacco, bensì per certi versi un’operazione difensiva. Tanto più che nel mondo occidentale si sta diffondendo una russofobia senza precedenti.
L’intervento di Kirill arriva all’indomani della lettera con cui Ioan Sauca segretario generale ad interim del Consiglio ecumenico delle Chiesa (Cec), organismo di cui il Patriarcato di Mosca fa parte, lo invitava a intervenire per fermare la guerra. «Molti la guardano come colui che potrebbe portare un segno di speranza per una soluzione pacifica - affermava Sauca il 2 marzo -. Scrivo a sua santità come segretario generale ad interim del Cec, ma anche come sacerdote ortodosso. Per favore alzi la sua voce e parli a nome dei fratelli e sorelle sofferenti, la maggior parte dei quali sono anche membri fedeli della nostra Chiesa».
Come noto, una prima risposta indiretta era arrivata domenica 6 marzo con l’ormai celebre sermone in cui Kirill identificava il conflitto in corso come una lotta del bene contro la promozione dei modelli di vita peccaminosi e contrari alla fede cristiana, portati avanti dall’Occidente. Esempio lampante: il gay pride. Ieri il patriarca ortodosso di Mosca e di tutte le Russie è andato oltre, articolando in chiave “geopolitica” l’analisi della guerra, a partire dalle ragioni che l’hanno prodotta. «Anno dopo anno, mese dopo mese - scrive Kirill nella lettera di risposta al Cec -, gli Stati membri della Nato hanno rafforzato la loro presenza militare, ignorando le preoccupazioni della Russia che queste armi un giorno potessero essere usate contro di essa».
Il conflitto non è iniziato oggi - aggiunge - e all’origine non ci sono i popoli di Russia e Ucraina bensì i rapporti tra Occidente e Mosca», diventati particolarmente tesi nel 2014 anno dell’autoproclamata indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Lugansk. «Fu allora - prosegue Kirill - che scoppiò un conflitto armato nella regione del Donbass, la cui popolazione difendeva il proprio diritto a parlare la lingua russa, chiedendo il rispetto della propria tradizione storica e culturale. Tuttavia, le loro voci restarono inascoltate, così come migliaia di vittime civili sono passate inosservate nel mondo occidentale».
Ora invece quel conflitto è diventato parte di una strategia volta, secondo Kirill - «in primo luogo, a indebolire la Russia». Le forze politiche occidentali, infatti, nella lettura del patriarca, hanno lavorato in questi anni per «rendere nemici popoli fraterni» senza risparmiare «sforzi e fondi per inondare l’Ucraina di armi e istruttori di guerra».
Ma ancora «più terribile» è «il tentativo di rieducare, di trasformare mentalmente gli ucraini e i russi che vivono in Ucraina, in nemici della Russia». Si tratta dello stesso fine - secondo Kirill - alla base dello «scisma creato dal patriarca Bartolomeo di Costantinopoli nel 2018». Il riferimento è alla nascita della Chiesa ortodossa autocefala ucraina, riconosciuta da Bartolomeo con conseguente rottura dei rapporti con Mosca.
Manca totalmente nell’analisi di Kirill un qualsiasi riconoscimento delle responsabilità moscovite nel conflitto. E la stessa preghiera che conclude la lettera contiene un indiretto atto di accusa.
«Prego incessantemente che il Signore aiuti a stabilire al più presto una pace duratura e basata sulla giustizia» - scrive Kirill -. E spero che anche in questi tempi difficili, il Cec rimanga una piattaforma per un dialogo imparziale, libero da preferenze politiche e da un approccio unilaterale».
Ucraina: appello a vescovi, ’Kirill interceda per stop a guerra’
Dall’associazione ’L’isola che non c’è’, oltre 100 firmatari *
(ANSA) - BARI, 10 MAR - Un appello ai vescovi del "Mediterraneo: Frontiera di Pace" affinché "rivolgano un accorato appello a sua santità Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, perché interceda presso il presidente Putin per far cessare la guerra in Ucraina" viene lanciato dall’associazione culturale pugliese "L’Isola che non c’è".
"Nella ricorrenza dell’anniversario del vostro incontro a Bari (19-23 febbraio 2020) e mentre eravate riuniti a Firenze per il secondo incontro (23-27 febbraio 2022), il mondo intero veniva sconvolto dalla tragedia che sta colpendo la nobile terra di Ucraina" dice l’associazione nell’appello, ricordando che "da Firenze avete fatto appello alla coscienza di quanti hanno responsabilità politiche affinché si fermi al più presto la follia della guerra".
"Nel manifestare pieno appoggio per tutte le iniziative che si intendono intraprendere per fermare la guerra", l’associazione "chiede umilmente a voi vescovi del Mediterraneo di farvi nostra voce" e ricorda una frase pronunciata proprio dal patriarca Kirill, "che in passato è giunto più volte pellegrino a Bari" per San Nicola e "accogliendo a Mosca nel 2017 una reliquia del Santo vescovo di Mira, ha affermato: ’Anche se non è mai stato in Russia e non è legato al nostro Paese né per nazionalità né per cultura, è percepito da noi come un santo russo perché ha attraversato con noi tutta la faticosissima e sanguinosa storia del nostro popolo’". (ANSA).
* Fonte: Redazione ANSA BARI, 10.03.2022
Si pone per Kirill una grande sfida. La versione di Spadaro
di Riccardo Cristiano (Formiche.net, 05/03/2022)
“Rimanere nella sua posizione attuale o ascoltare il suo metropolita di Kiev e i fedeli ucraini in comunione con lui che gli chiedono di levare la sua voce?”. Queste le parole del direttore de “La Civiltà Cattolica” rivolte in modo diretto al patriarca di Mosca
Sono parole che pesano eccome quelle, certamente pesate e a lungo meditate, del direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro e rivolte in modo diretto ed esplicito al patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill. Indicano la grande sfida che lo riguarda: “Rimanere nella sua posizione attuale o ascoltare il suo metropolita di Kiev e i fedeli ucraini in comunione con lui che gli chiedono di levare la sua voce?”. Le parole sono esplicite, dirette e seguite da una considerazione altrettanto determinante, che si spiega bene rammentando quella appena citata: “Sento di ricordare le parole che il Papa ha pronunciato nell’Angelus di domenica 20 febbraio: com’è triste, quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi la guerra”.
Il silenzio, sembra dirci il direttore de La Civiltà Cattolica, non si addice a un patriarca, soprattutto in momento così tragico per milioni di ucraini, privati di tutto. Nella conversazione con l’Adn Kronos alla quale qui ci si riferisce il direttore de La Civiltà Cattolica ricorda il punto decisivo e cioè che il metropolita di Kiev unito al patriarcato di Mosca, fedele a Mosca e al patriarca Kirill, “ha chiaramente sostenuto e continua a sostenere la sovranità statale e l’integrità territoriale dell’Ucraina e il 24 febbraio si è appellato al presidente Putin perché fermi la guerra fratricida”. Dunque la sfida sembra potersi presentare così: il pastore cosa fa, ascolta il gregge o ascolta il Cremlino?
Ecco allora che per me è lecito affermare a commento di queste parole importantissime per tutta l’Europa che Mosca è chiamata a fare i conti con la sua teologia, e a farlo rapidamente. Si considera una Chiesa etnica? La rivendicazione di questo conflitto affonda proprio in questo pericolo, esiziale per il cristianesimo, le sue radici. Questo rende questa guerra soprattutto di religione. Quando Putin nega l’esistenza dell’Ucraina indica di fatto di una visione etnicista.
Ma il patriarca Kirill sa bene che nel 1872 il sinodo panortodosso condannò come eresia il “filetismo”, cioè l’idea che la Chiesa dovrebbe essere divisa per linee etniche: “Denunciamo, censuriamo e condanniamo il filetismo, vale a dire, la discriminazione razziale e le dispute, rivalità e dissensi su basi nazionali nella Chiesa di Cristo come antitetico agli insegnamenti del Vangelo e ai sacri Canoni dei nostri beati Padri, che sostennero la santa Chiesa e, ordinando l’intera ecumene cristiana, guidandola alla pietà divina”.
È questa scelta che comporta la scelta decisiva, quella del tipo di rapporto che la Chiesa sceglie di aver con il potere politico. E allora non si può non notare che Formiche.net, pubblicando pochi giorni fa il testo dell’intervento di padre Spadaro alla fondazione ItalianiEuropei sulla guerra, ci ha fatto leggere che il direttore della Civiltà Cattolica ha citato tra virgolette una frase di Pier Paolo Pasolini che aiuta a capire di cosa parliamo e cosa muova Francesco a una geopolitica dalle mani libere che vorrebbe e potrebbe aiutare anche Kirill a liberarsi da retaggi molto pericolosi:
“Cristo non poteva in alcun modo voler dire: accontenta questo e quello, concilia la praticità della vita sociale e l’assolutezza di quella religiosa, dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Al contrario - in assoluta coerenza con tutta la sua predicazione - non poteva che voler dire: distingui nettamente tra Cesare e Dio, non confonderli, non farli coesistere qualunquisticamente con la scusa di poter servire meglio Dio: non conciliarli: ricorda bene che il mio ‘e’ è disgiuntivo, crea due universi non comunicanti, o, se mai, contrastanti: insomma, lo ripeto, inconciliabili”.
Nessuno pretenderà di portare oggi l’ortodossia russa dal filetismo a Pasolini in poche ore, sebbene drammatiche e decisive. Ma chi ha a cuore le sorti dell’Europa e quindi anche del cristianesimo russo può, non pretendendolo, aiutarlo ad aprire gli occhi e salvare se stesso. La geopolitica dalle mani libere ha certamente questa grande opportunità e potenzialità. A Kirill decidere se accettare la mano tesa, nella chiarezza propria di ogni geopolitica dalle mani libere. Quella mano con una visione che oggi non dimostra nessun altro indica a Kirill, nella chiarezza del richiamo, anche il modo per salvare se stesso. Senza nessuna presunzione, ma solo ricordandogli la voce del suo gregge.
Così la Chiesa ortodossa russa entra nel conflitto ucraino
di Maria Antonietta Calabrò *
Prendendo spunto dal Vangelo di domenica 20 febbraio 2022, Papa Francesco ha affermato all’Angelus, con evidente riferimento alla crisi ucraina: “Com’è triste, quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi la guerra!”. Un rigo e mezzo, non di più, eppure quanto basta per accendere un riflettore sul fatto che patriarchi e pope, cristiani, stanno giocando un ruolo non secondario nella crisi ucraina.
Tutto è cominciato nel 2014 quando l’invasione e l’annessione da parte della Russia della Crimea ha avuto come conseguenza l’allontanamento della Chiesa ortodossa ucraina dal Patriarcato di Mosca.
Il 15 dicembre 2018, il cosiddetto “Concilio di riconciliazione” portò all’unificazione tra il Patriarcato di Kiev (fino ad allora “legato” a quello di Mosca) e la Chiesa ortodossa autocefala ucraina.
La nuova Chiesa, la Chiesa ortodossa dell’Ucraina, è stata infatti riconosciuta dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ha concesso alla nuova entità religiosa i diritti connessi all’autocefalia, cioè il principio di autodeterminazione e di vera e propria indipendenza.
Una simile decisione presa dal Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, successore sulla cattedra dell’apostolo Andrea, fratello di San Pietro, e legato da stretti di vincoli di fraternità con Papa Francesco, è stata però fortemente contestata dalla Chiesa ortodossa russa, che di colpo si è vista privata di milioni e milioni di fedeli.
Il Patriarca di Mosca Kirill ha denunciato lo sconfinamento di quello di Costantinopoli, ha rotto le relazioni con Bartolomeo, e dichiarato illegale il Concilio del 2018 e “scismatica” la nuova Chiesa , guidata dal Metropolita di Kiev Epifanij.
Questi problemi intraortodossi sono alla base del raffreddamento dei rapporti del Vaticano sia con Costantinopoli, sia con il Patriarca di Mosca, dopo lo storico incontro avvenuto all’aeroporto di Cuba, nel febbraio del 2016, tra Francesco e Kirill, prima dello scisma ucraino ortodosso.
Un loro secondo incontro è sempre stato rimandato, ma il 18 febbraio 2022, l’ambasciatore russo presso la Santa Sede, Alexander Avdeyev, ha annunciato nel corso di una conferenza stampa a Genova, rilanciata dalla Tass: “Sono in corso preparativi per un secondo incontro tra Papa Francesco e il patriarca Kirill, intorno a giugno-luglio”. Precisando che “il luogo non è ancora stato scelto”. Lo stesso Francesco ha menzionato i preparativi per l’incontro con Kirill nella conferenza stampa di ritorno dal viaggio in Grecia e Cipro all’inizio di dicembre 2021. E ha dichiarato di essere sempre pronto ad andare a Mosca.
Nel frattempo però la crisi ucraina è divampata. E la posizione della Chiesa ortodossa russa, pur tradizionalmente ancillare nei confronti del potere di Mosca, si è schiacciata ancora di più su quella di Putin. Il presidente russo infatti all’inizio di febbraio ha insignito il Metropolita Hilarion di Volokolamsk, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca (e spesso in Vaticano) di una delle massime onorificenze russe: l’Ordine di Aleksandr Nevskij, il santo nobile russo, principe di Kiev, sepolto a San Pietroburgo, la città natale di Putin, di cui è patrono.
Nel Salone di San Giorgio del Cremlino, Hilarion si è rivolto a Putin non solo ringraziandolo per l’aiuto ai cristiani in Siria contro i terroristi, e per quello che sta facendo in Africa. Ha aggiunto, con un riferimento trasparente all’Ucraina: “Il nostro Dipartimento è talvolta chiamato Ministero degli Affari Esteri della Chiesa, il che non è esatto, poiché ci occupiamo non solo di affari esteri, ma anche di relazioni interreligiose nella nostra Patria. E negli ultimi anni ci sentiamo sempre di più una sorta di dipartimento di difesa, perché dobbiamo difendere le sacre frontiere della nostra Chiesa”.
Aggiungendo: “La Chiesa russa si è formata nel corso di più di dieci secoli e l’abbiamo ereditata entro i confini in cui è stata creata. Non l’abbiamo creata noi, e non possiamo distruggerla. Per cui continueremo a resistere alle sfide esterne che dobbiamo affrontare oggi”.
L’eventuale guerra della Russia all’Ucraina ha anche questo risvolto religioso per il Patriarcato di Mosca: riannettersi quello che, a suo parere, le sarebbe stato tolto.
C’è nella crisi “una prospettiva Nevskij “, come si chiama la strada principale di San Pietroburgo (immortalata da Gogol) che finisce proprio davanti al monastero in cui a metà del XIII secolo morì il santo guerriero, protettore di Hilarion.
* Fonte: Formiche.net, 21/02/2022 (ripresa parziale - senza immagine).
Patriarca Kirill, giusto combattere, è contro lobby gay
Per 8 anni tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbass
di Redazione Ansa *
ROMA. Nelle stesse ore in cui il Papa lanciava l’ennesimo, vibrante, appello alla pace, chiedendo di far tacere le armi, anche Kirill è tornato a far sentire pubblicamente la sua voce. L’occasione è stata la cosiddetta “Domenica del perdono”, che nel calendario giuliano precede l’ingresso nel tempo liturgico della Quaresima. In questo giorno, tradizionalmente, i fedeli riconoscono le proprie colpe davanti agli amici e persino alle persone sconosciute, impegnandosi a propria volta a dimenticare offese e rancori subiti. Una liturgia della purificazione, se così si può dire, che ha dato al patriarca di Mosca e di tutte le Russie l’occasione per ricollegarsi alla crisi in corso, senza peraltro mai parlare di guerra, termine proibito dal governo Putin.
La riflessione si è infatti circoscritta al Donbass, la regione comprendente le repubbliche di Donetsk e Lugansk autoproclamatesi tali nel 2014, la cui protezione è uno dei pretesti addotti dalle autorità moscovite per giustificare l’invasione iniziata la settimana scorsa. Nella sua omelia, infatti, Kirill ha fatto esplicito riferimento agli otto anni intercorsi da allora, durante i quali, nella ricostruzione storico-metafisica del patriarca, la regione mineraria è stata a rischio distruzione, innanzitutto “morale”, per colpa della sirene occidentali. In questo territorio, ha denunciato il leader ortodosso, «c’è un rifiuto fondamentale dei cosiddetti valori che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale». Per capirlo basta un test, di verifica dell’appartenenza all’impero «del consumo eccessivo» «della “libertà” visibile».
La prova «semplice e terribile» al tempo stesso è l’accettazione o il rifiuto di organizzare parate gay: se si dice no, allora si diventa estranei e rifiutati da quel mondo. Per entrare nel club di quei Paesi «è necessario organizzare una parata del gay pride». Chi resiste subisce repressioni. Si vuole cioè «imporre con la forza un peccato condannato dalla legge di Dio, e quindi» costringere le persone alla «negazione di Dio e della sua verità». Detto in altro modo, le parate gay «hanno lo scopo di dimostrare che il peccato fa parte del comportamento umano» e l’ospitarle rappresenta una sorta di «prova di lealtà» fornita dai governi occidentali. Un atteggiamento invece «sostanzialmente rifiutato» dalle autoproclamatesi repubbliche indipendentiste nell’Ucraina orientale, per questo combattute dall’Occidente. Di qui, dunque il sostegno all’offensiva putiniana, mai peraltro citata esplicitamente. «Oggi i nostri fratelli nel Donbass, gli ortodossi, stanno indubbiamente soffrendo, e noi non possiamo che stare con loro, soprattutto nella preghiera», ha concluso Kirill. Allo stesso tempo, «dobbiamo pregare affinché la pace giunga al più presto, che il sangue dei nostri fratelli e sorelle si fermi, che il Signore inclini la sua misericordia verso la terra sofferente del Donbass, che ha portato questo segno triste per otto anni, generato dal peccato e dall’odio umani».
Facile prevedere che il nuovo intervento di Kirill susciterà divisioni anche all’interno della comunità ortodossa russa. Si tratta di capire quale entità avrà questo dissenso e se sarà disponibile a manifestarsi pubblicamente.
Nei giorni scorsi in una lettera aperta, 236 tra sacerdoti e diaconi ortodossi, avevano parlato di «calvario» cui «i nostri fratelli e sorelle in Ucraina sono stati immeritatamente sottoposti», invocando riconciliazione e un immediato cessate il fuoco.
*Fonte: Ansa, 07.02.2022
LETTERA DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
A S.E. MONS. RINO FISICHELLA
PER IL GIUBILEO 2025
Al caro Fratello
Mons. RINO FISICHELLA
Presidente del Pontificio Consiglio
per la Promozione della Nuova Evangelizzazione
Il Giubileo ha sempre rappresentato nella vita della Chiesa un evento di grande rilevanza spirituale, ecclesiale e sociale. Da quando Bonifacio VIII, nel 1300, istituì il primo Anno Santo - con ricorrenza secolare, divenuta poi, sul modello biblico, cinquantennale e quindi fissata ogni venticinque anni -, il santo popolo fedele di Dio ha vissuto questa celebrazione come uno speciale dono di grazia, caratterizzato dal perdono dei peccati e, in particolare, dall’indulgenza, espressione piena della misericordia di Dio. I fedeli, spesso al termine di un lungo pellegrinaggio, attingono al tesoro spirituale della Chiesa attraversando la Porta Santa e venerando le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo custodite nelle Basiliche romane. Milioni e milioni di pellegrini, nel corso dei secoli, hanno raggiunto questi luoghi santi dando testimonianza viva della fede di sempre.
Il Grande Giubileo dell’anno 2000 ha introdotto la Chiesa nel terzo millennio della sua storia. San Giovanni Paolo II lo aveva tanto atteso e desiderato, nella speranza che tutti i cristiani, superate le storiche divisioni, potessero celebrare insieme i duemila anni della nascita di Gesù Cristo il Salvatore dell’umanità. Ora è ormai vicino il traguardo dei primi venticinque anni del secolo XXI, e siamo chiamati a mettere in atto una preparazione che permetta al popolo cristiano di vivere l’Anno Santo in tutta la sua pregnanza pastorale. Una tappa significativa, in tal senso, è stata quella del Giubileo straordinario della Misericordia, che ci ha permesso di riscoprire tutta la forza e la tenerezza dell’amore misericordioso del Padre, per esserne a nostra volta testimoni.
Negli ultimi due anni, tuttavia, non c’è stato un Paese che non sia stato sconvolto dall’improvvisa epidemia che, oltre ad aver fatto toccare con mano il dramma della morte in solitudine, l’incertezza e la provvisorietà dell’esistenza, ha modificato il nostro modo di vivere. Come cristiani abbiamo patito insieme con tutti i fratelli e le sorelle le stesse sofferenze e limitazioni. Le nostre chiese sono rimaste chiuse, così come le scuole, le fabbriche, gli uffici, i negozi e i luoghi dedicati al tempo libero. Tutti abbiamo visto limitate alcune libertà e la pandemia, oltre al dolore, ha suscitato talvolta nel nostro animo il dubbio, la paura, lo smarrimento. Gli uomini e le donne di scienza, con grande tempestività, hanno trovato un primo rimedio che progressivamente permette di ritornare alla vita quotidiana. Abbiamo piena fiducia che l’epidemia possa essere superata e il mondo ritrovare i suoi ritmi di relazioni personali e di vita sociale. Questo sarà più facilmente raggiungibile nella misura in cui si agirà con fattiva solidarietà, in modo che non vengano trascurate le popolazioni più indigenti, ma si possa condividere con tutti sia i ritrovati della scienza sia i medicinali necessari.
Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante. Il prossimo Giubileo potrà favorire molto la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza.
Per questo ho scelto il motto Pellegrini di speranza. Tutto ciò però sarà possibile se saremo capaci di recuperare il senso di fraternità universale, se non chiuderemo gli occhi davanti al dramma della povertà dilagante che impedisce a milioni di uomini, donne, giovani e bambini di vivere in maniera degna di esseri umani. Penso specialmente ai tanti profughi costretti ad abbandonare le loro terre. Le voci dei poveri siano ascoltate in questo tempo di preparazione al Giubileo che, secondo il comando biblico, restituisce a ciascuno l’accesso ai frutti della terra: «Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà» (Lv 25,6-7).
Pertanto, la dimensione spirituale del Giubileo, che invita alla conversione, si coniughi con questi aspetti fondamentali del vivere sociale, per costituire un’unità coerente. Sentendoci tutti pellegrini sulla terra in cui il Signore ci ha posto perché la coltiviamo e la custodiamo (cfr Gen 2,15), non trascuriamo, lungo il cammino, di contemplare la bellezza del creato e di prenderci cura della nostra casa comune. Auspico che il prossimo Anno giubilare sia celebrato e vissuto anche con questa intenzione. In effetti, un numero sempre crescente di persone, tra cui molti giovani e giovanissimi, riconosce che la cura per il creato è espressione essenziale della fede in Dio e dell’obbedienza alla sua volontà.
Affido a Lei, caro Confratello, la responsabilità di trovare le forme adeguate perché l’Anno Santo possa essere preparato e celebrato con fede intensa, speranza viva e carità operosa. Il Dicastero che promuove la nuova evangelizzazione saprà fare di questo momento di grazia una tappa significativa per la pastorale delle Chiese particolari, latine ed orientali, che in questi anni sono chiamate a intensificare l’impegno sinodale. In tale prospettiva, il pellegrinaggio verso il Giubileo potrà rafforzare ed esprimere il comune cammino che la Chiesa è chiamata a compiere per essere sempre più e sempre meglio segno e strumento di unità nell’armonia delle diversità. Sarà importante aiutare a riscoprire le esigenze della chiamata universale alla partecipazione responsabile, nella valorizzazione dei carismi e dei ministeri che lo Spirito Santo non cessa mai di elargire per la costruzione dell’unica Chiesa. Le quattro Costituzioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, unitamente al magistero di questi decenni, continueranno ad orientare e guidare il popolo santo di Dio, affinché progredisca nella missione di portare a tutti il gioioso annuncio del Vangelo.
Secondo la consuetudine, la Bolla di indizione, che a tempo debito sarà emanata, conterrà le indicazioni necessarie per celebrare il Giubileo del 2025. In questo tempo di preparazione, fin da ora mi rallegra pensare che si potrà dedicare l’anno precedente l’evento giubilare, il 2024, a una grande “sinfonia” di preghiera. Anzitutto per recuperare il desiderio di stare alla presenza del Signore, ascoltarlo e adorarlo. Preghiera, inoltre, per ringraziare Dio dei tanti doni del suo amore per noi e lodare la sua opera nella creazione, che impegna tutti al rispetto e all’azione concreta e responsabile per la sua salvaguardia. Preghiera come voce “del cuore solo e dell’anima sola” (cfr At 4,32), che si traduce nella solidarietà e nella condivisione del pane quotidiano. Preghiera che permette ad ogni uomo e donna di questo mondo di rivolgersi all’unico Dio, per esprimergli quanto è riposto nel segreto del cuore. Preghiera come via maestra verso la santità, che conduce a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione. Insomma, un intenso anno di preghiera, in cui i cuori si aprano a ricevere l’abbondanza della grazia, facendo del “Padre nostro”, l’orazione che Gesù ci ha insegnato, il programma di vita di ogni suo discepolo.
Chiedo alla Vergine Maria di accompagnare la Chiesa nel cammino di preparazione all’evento di grazia del Giubileo, e con gratitudine invio di cuore a Lei e ai collaboratori la mia Benedizione.
Roma, San Giovanni in Laterano, 11 febbraio 2022, memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes.
FRANCESCO
Fonte: Vatican.va, 11.02.2022
#ANTROPOLOGIA E #ARTE. #Michelangelo insegna: la #storia non la fanno solo i #profeti, ma anche le #sibille. #Apriregliocchi sulla #cornice del quadro #TondoDoni (https://uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni ) e la #CappellaSistina
Un esercizio audace e creativo per ispirare uno stile sinodale «dal basso».
Le Sibille e la narrazione sinodale.
di Paolo Scarafoni - Filomena Rizzo *
Il popolo di Dio torni a parlare nella Chiesa! Sembra che balbetti con problemi che vanno dalla afasia, potrebbe parlare ma non sa; alla disartria, saprebbe parlare ma non può. Lo sforzo iniziale del sinodo per recuperare il popolo di Dio sarebbe quello di una rieducazione alla comunicazione, magari con dei mediatori?
Papa Francesco raccomanda di non perdere il «filo rosso» del Convegno ecclesiale di Firenze, dove invitava a ricominciare «dal basso», «dalle piccole comunità, dalle piccole parrocchie» affinché «esca la saggezza del popolo di Dio». Si tratta di «porsi al servizio di questa grande opera di raccolta delle narrazioni delle persone: di tutte le persone, perché in ciascuno opera in qualche misura lo Spirito; anche in coloro che noi riterremmo lontani e distratti, indifferenti e persino ostili» (CEI 12.10.2021). La rieducazione è al contrario. È il nostro ascolto che si deve aprire a comprendere parole nuove. Il percorso sinodale di questo biennio nella dimensione della narrazione «è per sua natura alla portata di tutti, anche di coloro che non si sentono a loro agio con i concetti teologici» (CEI 29.09.2021).
È a noi cara la cittadina di Contursi Terme, in provincia di Salerno, dove trascorriamo parte dell’estate. La sua suggestiva chiesetta del Carmine ci ha stimolato a riconoscere alcuni percorsi di fede propri di quella comunità. È il nostro «caso serio», di Balthasariana memoria. È un esercizio audace di creatività che non vuole dettare un programma, ma ispirare uno stile sinodale «dal basso» per l’evangelizzazione (Evangelii gaudium 33).
Di fronte agli accomodamenti e alle storture che iniziavano ad attenuare la fiamma cristocentrica accesa dal Concilio, Von Balthasar scriveva della vergine e martire Cordula, modello della accoglienza della novità irrinunciabile di Cristo. Noi facciamo riferimento alle dodici vergini Sibille dipinte a tempera sulle pareti della «piccola cappella sistina» del Carmine, che sono patrimonio della vita di fede dei contursani. Sono percorsi meno ufficiali e linguaggi creativi, nei quali molti potrebbero riconoscersi come persone che si appartengono in ragione della chiamata di Dio e riscoprire l’identità della Chiesa particolare per aprire nuove prospettive e orizzonti, non soltanto in vista del contributo da inviare alla segreteria del sinodo.
I Padri della Chiesa hanno trovato alleate preziose nelle Sibille, grazie alle loro profezie, come lampade che illuminano il cammino dell’umanità pagana verso il cristianesimo. I profeti annunciavano il Messia al popolo d’Israele, le Sibille il Salvatore ai pagani.
Varrone e Lattanzio enumerarono dieci Sibille, per lo più collocate in oriente. Nel 1481 il domenicano Filippo Barbieri all’elenco ne aggiunge due, con il proposito di riequilibrare geograficamente la loro presenza nel mondo occidentale e raggiungere il numero simbolico di 12, segno di pienezza sacra nell’ebraismo e nel cristianesimo.
Nel 1608 un ignoto frate carmelitano, con l’aiuto di modesti artisti, «scrisse» pittoricamente un poema sulla «nascita della fede». Rappresentando le Sibille ha saputo raccogliere le istanze pietistico devozionali di quel tempo del popolo contursano, sensibile ai doni divini, circondato da bellezze naturali, con numerose e abbondanti sorgenti di acque benefiche e terapeutiche. Esse sono un patrimonio che attraversa le generazioni, in quella pietà popolare sana, nella consuetudine di stare con Dio.
Il popolo di Contursi Terme, molto attento e attivo riguardo alle problematiche civili, può attingere anche a questa ricchezza per cementare il senso di comunità. Le Sibille aiutano a pensare modelli ecclesiali più liberi, per riattivare la circolarità delle relazioni come nella Chiesa nascente, rispetto alla visione di un’armata, o di una istituzione ingessata d’altri tempi.
Le Sibille erano donne del Mediterraneo, libere, voci profetiche del paganesimo greco, del monoteismo giudaico, della religione politeista romana e del cristianesimo, in diretto collegamento con lo Spirito divino. Un importante esercizio narrativo, quando si partecipa «alle celebrazioni, alla preghiera, ai dialoghi, ai confronti, agli scambi di esperienze e ai dibattiti», sarebbe quello di ricordare le donne della comunità, non soltanto le più prestigiose, ma tutte quelle significative nelle singole famiglie e a livello di paese. Si tratta della memoria che penetra nel quotidiano e nei piccoli gesti, che costruiscono la vera santità comunitaria (Gaudete et exultate 16); ma non solo, sarebbe un esercizio che serve a tutti per superare una mentalità patriarcale, dare il giusto valore alle donne, costruttrici di quella comunità, ed educare a relazioni positive e paritarie, che non si prestino alla violenza di genere.
I nomi delle Sibille ricordano la fratellanza dei popoli perché sono derivati dal luogo che la tradizione assegna loro come patria, e rivelano il ruolo della loro missione nelle nazioni. La comunità potrebbe riflettere sull’accoglienza delle numerose famiglie di stranieri che ormai ne fanno parte e dei tanti turisti che ogni anno visitano le terme, per purificare stereotipi e pregiudizi. Aiuterebbe fare riferimento all’alleanza di Noè o dei popoli, alla quale è legata la Sibilla, spesso identificata con quella Cumana, che sarebbe salita sull’arca per essere salvata, quale moglie di uno dei figli del patriarca (Oracoli sibillini I, 211; III, 827).
Nella fratellanza e nell’accoglienza c’è sempre lo spezzare il pane insieme. La Sibilla Persica vaticinava che Cristo avrebbe moltiplicato il pane e i pesci per sfamare il popolo (Oracoli sibillini I,357; VI,15), a sostegno anche oggi della moltiplicazione di esperienze solidali, della cura per gli altri, che «viene dal basso e in piena gratuità».
Il territorio di Contursi è in prevalenza a vocazione agricola. Fa parte di quelle «aree interne» del Meridione d’Italia. Ora è seriamente minacciato dal dislocamento di industrie inquinanti. Le comunità della valle dei fiumi Sele e Tanagro sono chiamate ad intervenire con spirito libero e amore per il creato sul proprio futuro. La comunità sta reagendo con tante iniziative per diventare protagonista di una nuova stagione di sviluppo sostenibile.
Le Sibille superano la cultura maschilista del conflitto e del profitto perché hanno un aspetto cosmico messo in evidenza già da Plutarco: come donne sono legate alla vita, alla fertilità, la loro morte è una non morte. Il loro corpo insepolto valica i confini spazio-temporali, con «una sorta di metamorfosi del corpo, che si assimila alla terra, alle erbe, agli animali, anch’essi portatori dello pneuma profetico», ai quali dona capacità mantiche.
Ecco perché da sempre sono simbolo della «cura del creato» e della «forza dello Spirito». La loro presenza nelle nostre chiese, accolta nel tempo, avrebbe dovuto agevolare il processo di recezione dei contenuti del Sinodo sull’Amazzonia e degli appelli di Querida Amazonía, ed evitare polemiche sterili e pretestuose. Profondo è il collegamento con le culture amazzoniche, che presentano la Madre Terra, che mai potrebbe essere confusa con la Madre di Dio, alla quale proprio le Sibille dedicano tanti versi. Il più bello è forse quello della Libica o italica: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia dell’umanità».
Il magistero sul creato di Papa Francesco potrebbe rafforzare la consapevolezza della comunità locale per giungere a decisioni di bene comune per il proprio futuro. L’esercizio del «discernere insieme» proposto dalla Chiesa, potrebbe essere di aiuto e di ispirazione, senza invadere gli spazi e le competenze, in un reciproco scambio di doni eliminando definitivamente i vecchi schemi di contrapposizione ideologica. A sua volta il cammino sinodale locale si arricchirebbe di contributi a contatto con le problematiche reali che vive la comunità.
La Chiesa non rinunci ad essere un presidio, un «ospedale da campo». Il coinvolgimento civile, rispettoso e libero, da parte dei cristiani, che si sforzano di essere testimoni credibili, potrebbe risvegliare in molti il desiderio di conoscere Gesù e il ritorno ad una più autentica vita sacramentale: anche la tradizione liturgica è ricca di riferimenti alle Sibille. In pieno Medioevo, nella celebrazione della Vigilia di Natale, nell’elenco dei «Profeti di Cristo» (Ordo Prophetarum) era compresa anche la Sibilla Eritrea, chiamata ad annunciare con il canto il ritorno del Signore nel Giorno del Giudizio. Come non ricordare la devozione popolare che è confluita nella liturgia romana funebre con la sequenza Dies irae: «Dies irae, dies illa, Solvet seclum in favilla, Teste David cum Sibylla».
Le Sibille possiedono in germe i tre tratti dell’umanesimo cristiano «umiltà, disinteresse, beatitudine», che stentiamo ancora a riconoscere nella società e perfino nella Chiesa. Sono fortemente auspicati dal Concilio Vaticano II, e possiamo augurarci di ritrovarli seminati in mezzo al popolo. Quelle vergini non sono ossessionate dal «potere» e dalla ricchezza, hanno uno stile di vita sobrio. Non sono sacerdotesse, non vivono in templi ma in grotte e presso corsi d’acqua accessibili a chiunque. I loro vaticini non si rivolgono all’interesse dei singoli, dei potenti, ma riguardano tutti, l’intera comunità, non sono astratti né ideologici. Indicano un cammino che porta a Cristo, cambiamenti profondi nell’umanità, e mettono in guardia contro il male. Papa Francesco invita a ritrovare la gioia di «annunciare il Vangelo in un tempo di rigenerazione» partendo dalle realtà locali. È il momento favorevole per questo esercizio, possibile in tante piccole comunità cristiane in Italia, che de vono riscoprire il loro «caso serio», e trovare elementi di ispirazione per incarnare il Vangelo.
Il caso.
Giuseppe Flavio, ambiguo testimone del Cristo
Ci hanno provato in tanti a farne un cripto-cristiano, basandosi su alcuni passi dove sembra porgere la prova dell’esistenza storica di Gesù. Ma in un saggio Luciano Canfora smonta molti pregiudizi
di Franco Cardini (Avvenire, giovedì 8 luglio 2021)
Che ci sia sempre stato, e fin dall’antichità, qualcuno che ha dubitato dell’esistenza di Gesù come personaggio storico, è cosa nota. Del resto, è successo così anche per altri personaggi storici: per Napoleone, ad esempio, che ai bei tempi dell’ipercriticismo storiografico qualche bello spirito in vena di funambolismi comparativistici qualcuno volle far passare come un ’mito solare’.
Per Gesù, poi, le voci dovevano circolare con tanta insistenza che i Padri del Concilio di Nicea, nel 325, credettero bene di metter fine alle chiacchiere annoverandolo nel loro Synbolon (poi divenuto la preghiera del Credo) tra le verità oggetto di dogma. Si continua ancor oggi, peraltro, a discutere sulla storicità della figura del Cristo: argomento al quale è stato dedicato recentemente un tomo di ben 702 pagine, L’invenzione di Gesù di Nazareth, di Fernando Bermejo-Rubio (Bollati Boringhieri). E lo studioso spagnolo, esaminando nel primo capitolo del suo saggio il tema delle fonti storiche disponibili, dedica alcune dense pagine a un passo testuale da secoli considerato ’croce e delizia’ - ma soprattutto ’croce’, ed è il caso di dirlo... - dalla critica.
Si tratta del celebre Testimonium Flavianum, l’insieme di due brevi passi delle Antichità giudaiche (XVIII, 63-64, e XX, 200), nei quali lo storico Giuseppe - che si era denominato ’Flavio’ in omaggio al suo liberatore e patrono, l’imperatore Flavio Vespasiano -, scrivendo naturalmente in greco, accenna a Gesù e lo definisce ’il Cristo’. Personalità straordinaria e discussa, questo Giuseppe. Vissuto fra il 37 e il 103 circa d.C., di famiglia sacerdotale e di tendenze farisaiche, aveva partecipato alla rivolta giudaica del 66 ricoprendo anche funzioni militari importanti. Imprigionato nel 67 dall’imperatore Vespasiano, aveva ricevuto un generoso trattamento, era rimasto in Palestina con Tito, era stato testimone oculare della distruzione del Tempio di Gerusalemme e aveva seguito quindi a Roma il nuovo imperatore.
Giuseppe è (insieme con Filone d’Alessandria, di un paio di generazioni prima) uno dei massimi esempi di quegli ambienti ebraici che si convinsero dell’opportunità della collaborazione con l’impero romano restandone sudditi fedeli. È molto probabile che, nel lungo soggiorno romano coinciso con la seconda parte della sua esistenza, Giuseppe abbia avuto notizia dei nuovi fatti che laceravano sia la comunità degli ebrei restati in Palestina, sia quelli da tempo sparsi per l’impero - ed oltre - e in modo particolare presenti nel Caput Mundi. Il testo di quel passo della sua opera più ampia sembrerebbe una decisa dichiarazione filocristiana. Ma su questo punto è nata una violenta polemica: alcuni hanno accusato il Testimonium di essere un vero e proprio falso, altri vi hanno visto comunque delle infiltrazioni.
Nella secolare polemica sono entrati un po’ tutti: il cardinal Baronio, il dotto calvinista Isaac Casaubon, Edward Gibbon, ovviamente il Voltaire e via dicendo. La pietra dello scandalo non era tanto se davvero Giuseppe Flavio avesse mai nominato Gesù, quanto il fatto che fino dai suoi primi tempi l’intellighenzia cristiana si era impadronita di lui: da Giustino e Minucio Felice a metà del II secolo, fino a Eusebio e quindi, con decisione, a sant’Ambrogio e a san Girolamo, egli era divenuto non solo un testimone sicuro di Gesù ma un cristiano o filocristiano egli stesso.
È stato forse proprio Isaac Casaubon a gettare Luciano Canfora in caccia, sulle tracce di Giuseppe Flavio, della parziale o totale autenticità o meno del Testimonium Flavianum, della legittimità o meno della decisione con la quale gli autori cristiani procedettero al suo arruolamento nelle loro fila. Perché dalla filoromanità al filocristianesimo il passo di un ebreo ellenizzato del I secolo d.C. non è breve e potrebb’essere problematico. E la lettera del Testimonium è di per sé sottilmente ambigua: potrebbe esser letta come un’ovvia attestazione di fede, ma altresì come una tanto dura qualto sottile attestazione anticristiana.
Casuabon è abbastanza noto al grande pubblico in quanto egli e un paio di personaggi con il suo stesso cognome figurano nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, del 1988. Canfora ne aveva fatto il protagonista di uno studio attentissimo e coinvolgente del 2002, Convertire Casuabon (Adelphi, 2002), un vero e proprio ’thriller filologico’ fondato su un articolato tentativo gesuitico di conquistare al campo cattolico il dotto e implacabile erudito calvinista. Può darsi dunque che quel breve ma non brevissimo scritto che un ventennio fa valse a Canfora il ’Premio Capalbio’ sia la radice e l’antefatto di un suo libro recentissimo, La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato (Salerno, pagine 196, euro 18), che ha l’unico torto di essere stato riduttivamente inserito dall’Editore nella collana ’Piccoli Saggi’. Che un libro di quasi 200 pagine sia, quanto alla sua mole, già ’piccolo’, è discutibile ma accettabile; sul piano della sostanza, però, siamo al livello del Canfora migliore: come filologo rigoroso, come duttile storico capace di spaziare dall’antica Grecia al presente, come polemista lucido e talora perfido e infine - è giusto riconoscerglielo - come scrittore lucido e spesso divertente. Si è detto di lui ch’egli è capace di «trasformare la filologia in spy story e la storia della cultura in appassionante racconto».
Fedeli al suo spirito, ci guarderemo bene dall’assecondare l’odiosa e spregevole pigrizia di quei pessimi lettori di ’gialli’ che vanno subito a sbirciare nelle ultime pagine il nome dell’assassino. Del resto, in questo caso se lo facessero rimarrebbero delusi. Canfora è troppo buon professore per assecondare i vizi degli allievi: e il suo Epilogo - incentrato sulla corrispondenza fra Spinoza ed Heinrich/Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra e ’cristiano-apoca-littico’, è la perfetta conclusione filologica di una spy story: se non si è letto con attenzione il libro, si rischia di fraintenderne le conclusioni. Sine labore, nullum gaudium.
“La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato” di Luciano Canfora
Scritto da Laura Bigoni *
Nel XVIII libro delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, autore ebreo di età romana imperiale (37-100 d.C. ca.), si fa menzione del processo a Gesù:
Queste parole, definite nel corso del tempo Testimonium Flavianum, hanno rappresentato il principale biglietto da visita del loro autore per accedere alla tradizione manoscritta occidentale, in massima parte come sappiamo dovuta a mani cristiane; esse costituiscono però anche un appassionante caso filologico, se non altro per la strana ambiguità che le contraddistingue, se le si pensa (così come ce le trasmettono i manoscritti) nella penna di un intellettuale ebreo. -Nella ristampa del 2018 dell’edizione UTET delle Antichità, a cura di Luigi Moraldi, da cui è tratta la traduzione sopra riportata, il passo è presentato addirittura in copertina al secondo volume, di per sé un riconoscimento della centralità di quelle poche righe all’interno dell’opera di Giuseppe Flavio.
Si tratta però, prevedibilmente, di una centralità acquisita nel corso della tradizione e della sempre più grande fortuna che i padri della Chiesa costruirono attorno a Giuseppe Flavio e al suo Testimonium, decretandone di fatto la diffusione (e la copiatura). Proprio della storia di questa straordinaria fortuna ci fa dono Luciano Canfora nella breve ma densissima indagine dal titolo La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato, recentemente pubblicata per Salerno Editrice.
Il libro è organizzato in diciotto brevi capitoli, preceduti da un’introduzione e seguiti da un epilogo; ciascuno aggiunge un tassello al mosaico della tradizione testuale di Giuseppe Flavio, introducendone via via i protagonisti e i contesti. La struttura rende agevole a chi legge il viaggio tra i meandri di una tradizione testuale fatta di riconoscimenti, di attribuzioni pseudonime, di ritocchi più o meno tendenziosi, ma soprattutto, e fatalmente quando si tratta di testi cui si attribuisce valore religioso, di fazioni.
La storia del testo di Giuseppe Flavio narrataci da Canfora diventa infatti ben presto simile a quella della traduzione greca delle Scritture di Israele detta dei Settanta, campo di battaglia per dispute di natura teologica e oggetto di ripetute canonizzazioni. Secondo la puntuale ricostruzione del libro, infatti, la sopravvivenza delle opere quasi complete dell’autore (ovvero Guerra giudaica, Antichità, Contro Apione e Autobiografia) nella tradizione manoscritta sembra ricollegabile ad una cosciente appropriazione culturale da parte dei pensatori cristiani, fin da Eusebio di Cesarea (260-337 ca.) e Girolamo (347-419 ca.).
Nella temperie dei primi secoli del cristianesimo, apparve infatti vantaggioso che uno storico ebreo, che aveva assistito, dalla parte dei Romani, alla distruzione del Tempio a Gerusalemme, avesse anche solo menzionato Gesù e il suo processo, sebbene nel contesto di una serie di seditiones del tempo di Ponzio Pilato (cf. pp. 76ss.). Segno inequivocabile dell’avvenuta appropriazione è la migrazione del Testimonium all’altra grande opera di Giuseppe, la Guerra giudaica, che si trova in alcuni manoscritti, tra cui il Vossiano greco F 72, oggi conservato a Leiden, in cui il nostro testo è addirittura seguito da una scena di giudizio universale, che fa dunque della vicenda terrena di Gesù una tappa cruciale della storia della salvezza, secondo una visione strettamente cristiana; l’accoppiamento ha poi una vita propria nella tradizione successiva (cf. pp. 51s.).
Parallelamente alla fortuna negli ambienti dell’apologetica cristiana, nel mondo ebraico (come in quello pagano, in cui sempre cercò di inserirsi e di farsi leggere, senza successo) Giuseppe è stato ben presto ridotto al silenzio. Le vicende del testo sono alterne a seconda del contesto politico, ma per i cristiani il Testimonium sembra sempre un asso nella manica, come ad esempio nel periodo di crisi della Chiesa sotto Giuliano l’Apostata, in cui fu agevole forzare la dizione di un passo della Guerra guidaica (VI 250, 288-310) a significare una precisa volontà di Dio dietro la distruzione del Tempio, profetizzata ex post nei Vangeli (cf. pp. 155ss.).
Soffermandosi sul Testimonium e tratteggiando uno status quaestionis, l’autore si chiede come mai non ci si sia mai dedicati troppo alla domanda, per lui al contrario centrale, relativa all’appropriazione culturale operata dai cristiani sul testo di Giuseppe Flavio. Verrebbe da chiedersi se non ci sia forse ancora un impalpabile velo di sostituzionismo latente in questo genere di studi, che scoraggi i tentativi di fare luce su stadi precristiani dei testi poi incardinati nella tradizione della Chiesa. Pur lasciando irrisolta l’aporia a proposito degli studi moderni, Canfora punta il dito sul dato, eclatante per la storia della tradizione, che l’opera in greco di Giuseppe sia giunta intera (a fronte del naufragio di gran parte della letteratura, storiografica e non, in greco classico e postclassico), mentre non è rimasta nessuna traccia delle stesure aramaiche (cf. pp. 35ss.).
Importante è il riconoscimento e lo smascheramento del ruolo della progressiva cristianizzazione del Testimonium, che lo apparenta alla traduzione della Bibbia dei Settanta. Sul paragone l’autore si sofferma considerando un dato tanto ovvio quanto trascurato come l’appropriazione delle Scritture tradotte in greco dai giudei della diaspora ellenistica, che passano così nettamente nell’alveo della Chiesa da prendere il nome di ‘Antico Testamento’, che significa naturalmente un presupposto del Nuovo. Come Giuseppe Flavio perde terreno nella tradizione ebraica e di fatto ne scompare, lo stesso varrà per questa straordinaria impresa traduttoria del mondo antico.
Alla fine del capitolo IX è presentato con chiarezza il cruccio che fu di Ambrogio, ma anche di tutta la tradizione patristica, ovvero fino a quanto la Chiesa potesse permettersi di mostrare una continuità tra la tradizione cristiana e il mondo ebraico. In questo senso stabilire un canone diverso da quello ebraico, nella selezione dei libri sacri, nel loro ordine, nella denominazione e nel numero, fu un graduale ma vincente passo verso l’emancipazione della cristianità dalle sue pur irrinunciabili radici ebraiche[1].
La comunanza di destini che lega due testi molto diversi come le Antichità (e a partire da esse, come si è visto, gli opera omnia di Giuseppe Flavio) e la traduzione della Bibbia è occasione per una riflessione sull’importanza della philologia sacra per il metodo storico-critico. Così si esprimeva Pasquali a proposito della eccessiva divisione del lavoro all’interno della filologia: «La colpa di questa ignoranza [della prefazione di Lachmann al Nuovo Testamento] è, credo, tutta della specializzazione. La metà del secolo XIX fu il tempo dei classicisti puri e dei latinisti puri: chi si occupava di Catullo, sdegnava di leggere e studiare il Nuovo Testamento. E d’altra parte i teologi, anche quelli protestanti, non avevano interesse per le quisquilie della storia dei testi. Tutto questo è una prova di più che nella filologia la specializzazione non può che nuocere»[2].
Naturalmente, il testo di Giuseppe Flavio non è ritenuto sacro da alcuna confessione religiosa, ma si è visto come questo non impedisca alla sua storia testuale di presentare questioni simili a quelle tipiche dei testi religiosi, in quanto molto copiati e diffusi, proprio perché ritenuti oltremodo autorevoli. Un omaggio all’affinamento degli strumenti della philologia profana attraverso quella sacra sembra quindi doveroso (cf. pp. 87s.).
In questo libro, Canfora ha molti meriti: il primo è saper restituire gli ingranaggi di eventi molto lontani come se lontani non fossero, come se appartenessero a un presente senza tempo. Il merito di avvicinare le storie dei testi classici raccontandole per quello che sono, storie umane. E spogliandole così dell’aura di sacralità e intoccabilità che abbiamo progressivamente affibbiato all’antico. Nel suo narrare, assumono un ruolo centrale i recessi, il backstage che viene alla luce grazie alla minuzia filologica, col risultato di restituire un complesso vivo. Nei primi capitoli traccia un profilo dell’autore, sottolineando la tipicità e la concretezza della vita di un transfuga ebreo in epoca romana, il compromesso raggiunto con l’ellenismo e con la dominazione straniera, senza mai rinnegare la fede dei padri, ma tentando di inserirla nella (e legittimarla agli occhi della) cultura dominante. Come ci riferisce nel proemio, Giuseppe scrive «perché ritengo di essere debitore a tutti i Greci, perché - così mi pare - comprenderanno la nostra grande antichità e l’ordinamento politico degli Ebrei» (AJ, I 5). Nei capitoli successivi Canfora scava altrettanto scrupolosamente nelle ragioni dei rappresentanti delle fazioni pro e contra Giuseppe, restituendocene i tratti notevoli.
Un secondo merito è quello di aver sparso tra le pagine più di una lezione di filologia e di metodo, con un taglio divulgativo al punto giusto da essere comprensibile ai non addetti ai lavori, ma anche istruttivo, se non altro come memento, a chi addetto lo è eccome. Sfata, ad esempio, miti come quello del copista capriccioso che cambia il testo a suo (com)piacimento (pp. 42s.), e non lo fa per rendere meno appassionante la lettura di un saggio filologico, quanto per rinfrescare in chi legge l’attitudine al metodo storico-critico come valore inderogabile dello studio quotidiano; come ricorda, con felice espressione, a p. 49, «la via d’uscita è sempre la storia del testo».
In questo quadro credo debbano inserirsi anche le parole sferzanti riservate, spesso in nota ma non solo, ad alcune delle nuove imprese di studio comprensivo dell’antichità e dei suoi autori, in cui si ignora sistematicamente la discussione sei-settecentesca e in generale la storia della disciplina. Per esempio, l’affondo di p. 117 su studi contemporanei che, «purché espressi in inglese», possono dire quel che vogliono, dal momento che il nostro «è un ambito di studi nel quale non costa nulla fare passi indietro», o la desolante conclusione di p. 128: «Bilancio. Anche a seguito della feticistica devozione al monolinguismo anglico, si è andata via via smarrendo la conoscenza dei risultati cui era giunta la grande erudizione dei secoli XVI-XVII (quasi sempre in latino). Di conseguenza si riscrive goffamente e con qualche contributo peggiorativo ciò che era stato già da secoli prospettato e argomentato con ben altra finezza e disciplina critica». In effetti, quella di tornare a leggere la storia di una disciplina come la filologia, che funziona inevitabilmente per accumulazione, è nota importante, in un’epoca che sembra talora perdere l’attenzione per la storia[3]. Anche senza entrare in un discorso troppo generale e perciò troppo generico, occorre fare attenzione alla maniera in cui certe argomentazioni sono già state poste in passato; Canfora porta dunque alla luce del pubblico contemporaneo delle situazioni a loro modo paradigmatiche del mestiere della storia e della critica testuale, considerando uno spettro di fonti davvero ampio e riconoscendo il giusto credito a studiosi che sarebbero altrimenti dimenticati anche in opere di settore.
Oltre che illuminare sul metodo, Canfora ricorda a chi legge anche un dato cruciale della natura dei testi, ovvero la loro intrinseca mobilità (è forse questo che più di ogni altro cardine della filologia dovrebbe essere insegnato). L’autore riporta un breve ma significativo cenno ai tempi moderni, in cui sottolinea il valore costante e universale di questa caratteristica dei testi: «per chiarezza, è bene non dimenticare che una ‘citazione’ può nascere anche da un fraintendimento, o da una notizia di seconda mano, che - nel passaggio da una fonte all’altra - si gonfia e si complica, e magari [...] finisce in una ‘Enciclopedia’ (accade anche in tempi moderni)» (p. 51). Nel mutare continuo dei testi, anche una sola parola può bastare a cambiarne il volto, come nel caso del Testimonium, in cui è stato sufficiente sostituire un ‘era ritenuto’ con un ‘era’ nella frase cruciale «egli era il Cristo» (cf. p. 58). Non è certo la prima né l’ultima volta che un’unica parola è in grado di generare effetti così notevoli; si pensi al filioque dei primi concili cristiani, o al solum aggiunto da Lutero nella sua traduzione della Lettera ai Romani (3,28)[4].
Sebbene questo risulti quasi paradossale, vista la sua smisurata produzione scientifica, Canfora ricorda a chi si occupa di filologia il monito nietzschiano a proposito della lentezza di questa disciplina, per cui il/la filologo/a «non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento»[5]. Proprio nel lento ascolto delle fonti e nell’attento vaglio di ciascuna di esse sta la straordinaria (e forse per alcuni inaspettata) apertura della filologia: una metodologia non dogmatica, che presta attenzione alla pluralità delle fonti e al loro intreccio: lo si vede nel libro, ad esempio nell’uso della tradizione araba (cui è dedicato il cap. VII), o di quella siriaca. Le interazioni sempre più strette con le discipline orientalistiche e con le tradizioni delle lingue semitiche spostano l’orizzonte di quello che siamo abituati a conoscere come il mondo classico, ampliandolo e riformandone il concetto stesso.
L’ultima e forse la più importante delle lezioni che si può trarre dalla conoscenza così approfondita di certe controversie sull’autorità dei testi, fitte di accuse e controaccuse dettate da opportunità di politica religiosa (o culturale in senso ampio), è quella di tentare un affrancamento dalla faziosità, una visione laica, inclusiva e basata sulla profondità storica quando si approcciano testi dalla tradizione così imponente. È insomma quella di provare a sostenere un campo di studi che sproni a lasciarsi questo tipo di controversie finalmente alle spalle.
[1] Cf. J. Mead, The Biblical Canon Lists from Early Christianity. Texts and Analysis, Oxford University Press, Oxford 2018.
[2] G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Le Lettere, Firenze 2015, p. 8.
[3] Recentissimo il volumetto di Adriano Prosperi dall’eloquente titolo Un tempo senza storia. La distruzione del passato (Einaudi, Torino 2021).
[4] Sul primo caso, si veda l’inquadramento di L. Perrone, Da Nicea (325) a Calcedonia (451). I primi quattro concili ecumenici: istituzioni, dottrine, processi di redazione, in G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici, Queriniana, Brescia 1990, pp. 11-118; sul secondo, basti leggere la luterana Lettera del tradurre, nella versione italiana a cura di E. Bonfatti (Marsilio, Venezia 2001).
[5] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri su pregiudizi morali, trad. it. F. Masini, in B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 329.
* FONTE: PANDORA RIVISTA
#divina commedia.
dell’#ecumenismo rinascimentale di
come di
#PERUGINO,
con il suo
le sue #Sibille
e
i suoi #Profeti
del #Collegio del Cambio
a #Perugia
#ERMETISMO ED #ECUMENISMO RINASCIMENTALE:
#ERMETE TRISMEGISTO E LE #SIBILLE.
la #meraviglia
del
della Cattedrale di Siena
SCHEDA EDITORIALE *
Il pensiero occidentale
Matteo Tafuri
Commento agli Inni Orfici
Il sottile e profondo fascino misterico degli Inni orfici è celebrato in questo Commento, l’unico superstite ad oggi nel mondo, in lingua greca, in cui il trionfante platonismo d’età laurenziana si coniuga con le nuove istanze religiose, dando vita ad una sapientia filosofica e teologica, della quale erano depositari gli antichi teologi da Zoroastro a Ermete Trismegisto, Orfeo, Aglaofemo, Pitagora e Platone; essa fu trasmessa poi dai neoplatonici e culminò nella teologia cristiana, acme di un percorso iniziatico che conduce all’unità della Verità Rivelata.
Il Commento con la sua esegesi ai Poemi orfici rivela il nucleo dottrinale del pensiero dell’autore, in cui la teologia, la teurgia e la magia cerimoniale insegnano all’uomo come giungere al colloquio con gli angeli e ricongiungersi alla divinità. Gli Inni sotto il profilo ieratico-teurgico sono preghiere pronunciate dall’uomo per entrare in comunione con il divino, sotto quello magico, canti in grado di vincolare, di incantare, di infondere potere in colui che deve essere incantato e iniziato, il μύστης. Sulla base della translatio sapientiae pagana e biblicocristiana gli Inni orfici riproposti in questo Commento in chiave moderna rivendicano, sulle orme di Ficino, il connubio fra pia philosophia e docta religio. L’orfismo del Rinascimento è un rinascimento dell’orfismo, è la rinascita dei miti orfici ma soprattutto l’elaborazione delle dottrine orfiche in campo filosofico.
***
Matteo Tafuri
Vergato a Napoli per mano di Francesco Cavoti nel 1537, il Commento agli Inni orfici è l’unica opera, oltre ad un Pronostico ancora inedito, del filosofo e astrologo Matteo Tafuri, naturalista, raffinato interprete della fisiognomica e prodigioso nell’arte divinatoria. Affascinato dalle “scienze” occulte, dai sacri misteri divini e dai miti dei prisci theologi fa rivivere a nuova luce la sapienza orfica antica sovente concordata con le fonti evangeliche e restauratrice dell’originaria alleanza fra πίστις, εὐσέβεια ed ἔρως. Incline al platonismo, indulgente per i miti e per i fremiti religiosi, fedele alla philosophia Christi, tormentato dalle controversie teologiche, si accosta ai misteri divini orfici rivendicandone il carattere filosofico e teologico. L’impeto di fede, critico, d’impronta erasmiana, sembrò agli occhi dei suoi detractores superstizione e idolatria, più che palingenesi. L’impegno profuso per il rinnovamento della religio culminò in un’apologia dei veri principi del cristianesimo.
*FONTE: BOMPIANI.
* WIKIPEDIA: Matteo Tafuri (Soleto, 8 agosto 1492 - Soleto, 18 novembre 1584)
FLS
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E IL PROBLEMA DELL’UNO: "DOCTA IGNORANTIA", "COINCIDENTIA OPPOSITITORUM", E NUOVO PRINCIPIO DI CARITÀ (CHARITAS)! *
Maestri.
Ripartire da Cusano, il sapiente che sa di non sapere
Filosofo, teologo, diplomatico, cardinale, vescovo, umanista, un saggio di Massironi lo rilegge come modello di pensiero di fronte allo smarrimento culturale e spirituale del nostro tempo
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 15 aprile 2021)
Tocca in sorte all’epoca attuale fare esperienza della crisi di configurazioni religiose, filosofiche, simboliche, giuridiche che per secoli hanno dato senso e ordine alla realtà circostante. Scollinare da una stagione all’altra non lascia indenni. Il passaggio di epoca comporta lo scacco di una ragione ormai diventata incapace di ritrovare le proprie tracce nel mondo. Il suo naufragio non è però un fenomeno isolato. Fa il paio con la soggettività che se ne faceva interprete, e che ormai fatica a riconoscersi nella realtà che la circonda. Lo spaesamento avviene perché una ragione calamitata dal finito è esposta all’irrompere dell’imprevedibile e l’uomo, alla stregua di una singolarità in costruzione, scopre che essere umano significa non restare identici in rapporto alla Verità.
Sono le sfide da fronteggiare quando a un’epoca di cambiamenti succede il cambiamento di un’epoca. Sembrerebbero questioni più attuali che mai in questo frangente storico. Ma non appartengono esclusivamente al nostro tempo. Lo conferma Sergio Massironi nel suo Il cardinale inquieto. La ripresa di Cusano in Italia come provocazione alla modernità (pagine 228, euro 22) appena pubblicato dalle edizioni Vita e Pensiero e che sarà presentato oggi alle ore 18 in un confronto online che vedrà l’autore discuterne con monsignor Sergio Ubbiali, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, e Silvano Petrosino, che insegna Antropologia religiosa e media all’Università Cattolica del Sacro Cuore, moderati da Sara Corna, del Collegio Villoresi di Monza. Il dibattito sarà trasmesso, in diretta, sul canale Youtube e profilo Facebook della casa editrice. Massironi nel suo lavoro mette in dialogo, con gran agio, la biografia intellettuale di Nicola da Cusa con alcune analisi critiche del suo pensiero condotte di recente in Italia.
Pur passando in rassegna le fatiche di Davide Monaco, Giovanni Gusmini, Cesare Catà, Gianluca Cuozzo e Marco Maurizi, lo studioso lombardo non rinuncia al confronto con figure come il filosofo Harald Schwaetzer sullo statuto del soggetto, con il teologo Ingolf U. Dalferth sul problema della ragione e il contributo dell’escatologia e con Jorge Bergoglio sui risvolti ecclesiologici-magisteriali.
Riannodare i fili tra presente e passato è una necessità perché «la crisi della modernità - avverte Massironi - ha provocato nel pensiero del Novecento una ripresa critica della parabola europea. Ciò ha offerto al cristianesimo l’opportunità di ripensarsi e di intervenire nuovamente con la propria proposta a indicare una traiettoria». Nicola da Cusa rappresenta, per usare in maniera impropria un’immagine a lui cara, uno speculum, uno specchio con cui compiere questo passo.
Il Cusano (1401-1464) è uno straordinario modello di riflessione per oggi perché percorre il crinale tra due mondi altrettanto delicato del nostro senza trovarsi impreparato dinanzi alle nuove sfide. Egli è di certo l’ultimo pensatore della stagione medioevale ma anche il primo riformatore nella fase moderna. Lo testimoniano sia la sua opera sia la sua biografia intellettuale. Filosofo, teologo, diplomatico, cardinale, vescovo, umanista, al tempo stesso quindi pastore di anime, politico, teoreta e uomo di fede oltreché grande collezionista di manoscritti, in perfetta sintonia con la passione umanistica delle fonti.
Nel corso dell’esistenza ha percorso più e più volte l’Europa, dalla natia Kues a Bisanzio, da Basilea a Parigi, da Colonia a Roma. Gli studi condotti a Padova gli hanno permesso di svincolarsi dai dibattiti frustri e desueti vissuti nel corso dei primi anni trascorsi all’università di Heidelberg dove si discuteva ancora della disputa degli universali, quasi un duecentesco déjà vu.
Ma i tempi erano ormai fuggiti in avanti. Infatti è il soggiorno italiano a consentire a Nicola da Cusa di nutrirsi della grande cultura umanistica che allora soffiava sulla penisola. Frequentare Vittorino da Feltre, Giuliano Cesarini e Lorenzo Valla, interloquire con Tommaso Parentuccelli, il futuro Niccolò V e con Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, o ancora confrontarsi, durante la missione a Bisanzio, con Isidoro di Kiev, Giovanni da Ragusa, il cardinale Bessarione, Gemisto Pletone permettono al Cusano di non rinchiudersi tra le strette gole della scolastica ma di schiudere strategie di pensiero rivolte all’epoca nuova.
Mettendo a frutto il dispositivo della docta ignorantia, Nicola da Cusa comprende che il non sapere è il vero sapere e assume, nel De coniecturis, la natura prospettica della scienza umana che permette di conoscere, senza indulgere in alcun relativismo, la singola cosa come coincidentia oppositorum, un risultato che contrae il tutto in sé, punto nodale dell’intreccio di relazioni del reale, e capace di comprendere in sé il prima e dopo del passaggio d’epoca
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER LA PACE E IL DIALOGO, UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. GIUSEPPE dà a suo Figlio, GESU’ (= "Dio" salva), il NOME del Suo "Dio", e Gesù rivela che il Nome di "Dio" è "Amore" (Agape, Charitas)!!!
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE ..... RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
#Come nascono i bambini:
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla "#Visione di Dio" (1454), si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia (#Eschilo).
Arte e fede.
Gerusalemme: sui muri del Colosseo la mappa della “sposa contesa”
Il dialogo interreligioso tra i monoteismi e quello ecumenico, tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente, è nell’imprinting stesso di Gerusalemme e dovrebbe essere impegno costante di tutti
di Gianfranco Ravasi *
Ai mille legami storici, religiosi e culturali che collegano Roma e Gerusalemme si aggiunge la sorprendente mappa simbolica della città santa all’interno di uno dei segni maggiori della romanità classica, il Colosseo. In occasione del suo restauro sono stato invitato a proporre un profilo biblicoculturale di Gerusalemme proprio all’interno di quello spazio così emblematico com’è l’Anfiteatro Flavio.
Tutte e tre le religioni monoteistiche sono protese verso Sion che è simile a una sposa contesa, spiritualmente e materialmente. Basta solo gettare uno sguardo su una mappa dell’area antica della città. Si leggono le indicazioni topografiche di un quartiere ebraico, di uno cristiano, di un altro musulmano e di quello armeno. Se si avanza per quelle viuzze e si entra nei luoghi sacri delle varie religioni, si sente parlare in arabo ed ebraico, in greco e armeno, in siriano ed etiopico, in russo e inglese o in yiddish: si prega e si discute in almeno quindici lingue con sette alfabeti differenti! Ma tutti sono certi di avere un legame unico, insostituibile, inscindibile con quella città.
Infatti, le tre grandi fedi monoteistiche hanno in questa città ciascuna una sua pietra reale e simbolica su cui fondarsi. Così, gli Ebrei non possono non risalire a Davide e fondarsi sulla pietra sacra del tempio eretto da suo figlio Salomone (anche se le pietre del cosiddetto Muro del pianto sono di un millennio dopo, appartenendo al tempio eretto da Erode). È, infatti, questo il cuore della fede e della storia di Israele.
Un famoso detto rabbinico afferma che «il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». Il poeta ebreo spagnolo Giuda Levita, che la leggenda farà morire nel 1140 calpestato dai cavalli appena giunto pellegrino a Sion, cantava: «Io amo le tue pietre che voglio baciare e saporite mi saranno le tue zolle più del miele!». Ma già il Salmista aveva esclamato: «Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion!» (Salmo 102,15). Gesù stesso era convinto che queste pietre possono gridare una storia di fede e di sangue (Luca 19,40). Elena, la madre di Costantino, era giunta qui nel 326 alla ricerca delle memorie di Gesù e in particolare della sua tomba.
La pietra ribaltata del sepolcro di Cristo, ora custodita nella possente basilica crociata omonima, è il cuore della cristianità, che da allora non si è staccata più da Gerusalemme, pur sfrangiandosi in decine di comunità diverse (per i cattolici pensiamo alla presenza francescana) e non esitando a ricorrere alle crociate. Quella pietra, custodita nella basilica del Santo Sepolcro, è il segno della risurrezione, il mistero centrale della fede cristiana.
Anche i musulmani hanno a Gerusalemme una loro pietra fondante, quella che è protetta dalla sfolgorante cupola dorata della moschea di Omar, memoria del sacrificio di Abramo (Genesi 22) ma soprattutto dell’ascensione al cielo del Profeta, Maometto, che è ricordato anche dall’altra moschea della Spianata, al’Aqsa, come si legge nel Corano: «Lode a Dio che trasportò di notte il suo Servo [Maometto] dalla moschea sacra [Mecca] alla moschea al-’Aqsa [l’altra, più lontana]» (17,1). È per questo che in arabo Gerusalemme è al-Quds, cioè “la (città) santa” per eccellenza.
Tre pietre, quindi, sono per le tre religioni - che pure in Abramo hanno una radice comune - segno di una presenza propria, non solo spirituale ma anche “fisica”. È per questo che Gerusalemme è oggetto di un amore non solo ideale e quelle pietre sono state striate nella loro storia secolare anche dal sangue. È per questo che è arduo trovare accordi politici o religiosi attorno a questo simbolo così "personale".
Eppure il testo sacro ebraico-cristiano, la Bibbia che cita 656 volte Gerusalemme, è un ininterrotto appello a ritrovare unità nella molteplicità in Sion. Come sogna il profeta Sofonia verso la fine del VII secolo a.C., «allora io darò ai popoli un labbro puro perché tutti invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla» (3,9).
Certo, prima di ogni altro popolo è Israele che convergeva verso la città santa non solo nelle cosiddette “feste di pellegrinaggio”, cioè Pasqua, Settimane (o “Pentecoste”) e Capanne, che postulavano un itinerario orante al tempio di Sion, ma anche nella testimonianza orante e poetica - adottata pure dalla liturgia e dalla fede cristiana - dei “cantici delle ascensioni”, cioè in quel fascicolo di 15 Salmi (dal 120 al 134) che nel Salterio recano questo titolo. Essi sembrano appartenere quasi a un libretto del pellegrino che “ascende” materialmente (Gerusalemme è a 800 metri di altezza) e spiritualmente verso la città di Dio. Basterebbe solo ascoltare alcune battute del Salmo 122: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore! E ora i nostri piedi sono fermi alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore!».
Anzi, quell’itinerario verso le proprie sorgenti di fede e di vita si trasforma in un’esperienza non solo mistica ma anche esistenziale. Certo, prima di tutto c’è la gioia di un incontro col mistero di Dio perché lassù si sale «per lodare il nome del Signore», ossia per il culto: «L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore, il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio!» (Salmo 84,3-4).
Ma a Gerusalemme avviene anche un’altra esperienza di indole più sociale. «Là, infatti, sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide», canta l’orante del Salmo (v. 5). Si aveva nella capitale l’istanza suprema del potere politico e giudiziario e idealmente il popolo trovava quella giustizia a cui tanto anelava e che altrove gli era negata. In questa linea è capitale la voce dei profeti che ininterrottamente combattono ogni sacralismo fine a se stesso. Il tempio stesso, se privo di fede e di giustizia, è «una spelonca di ladri» (Geremia 7,11; cfr. Matteo 21,13), il culto senza l’impegno dell’esistenza è magia, i riti senza vita sono una farsa. Implacabili sono le parole di Isaia: «Quando vi presentate a me - dice il Signore - chi vi chiede di venire a calpestare i pavimenti del tempio? Finitela di presentare offerte inutili! L’incenso mi fa nausea, come noviluni, sabati, assemblee sacre. Non riesco a sopportare delitto e solennità. Odio i vostri noviluni e le vostre feste: sono un peso per me e sono stanco di sopportarli. Quando alzate le mani, io allontano da voi gli occhi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non le ascolto. Le vostre mani, infatti, grondano sangue. Allora, lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista! Smettetela di fare il male, imparate e fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!» (1,12-17).
Questa prospettiva è esaltata anche da Cristo che, pur amando e frequentando Sion, non esita a “smitizzarne” la funzione materiale sacrale per celebrarne il valore di santità, di simbolo di gloria, di pace e di vita. Infatti, di fronte al tempio di Gerusalemme Gesù non esita a dire: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere!». E Giovanni annota: «Egli parlava del tempio del suo corpo e, quando fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo» (2,19-22). Anzi, Gesù - stando al Vangelo di Marco - avrà come capo di imputazione iniziale durante il processo presso il tribunale giudaico del Sinedrio proprio questa testimonianza: «Noi lo abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo» (14,58). È in questa luce che l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, non solo sostituisce alla Gerusalemme terrena, materiale e spaziale, «la città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio» (21,2) ma la descrive come ormai priva del tempio: «Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22).
È proprio su questa traiettoria ideale che possiamo pensare alle divisioni di Gerusalemme sotto una nuova luce. Quei segni di sacralità, di separatezza e di separazione potrebbero diventare simboli di santità, di comunione, di incontro. È ciò che aveva configurato il profeta Isaia in una sua pagina indimenticabile (2,1-5). Gerusalemme si erge come un monte immerso nella luce su un pianeta avvolto nel sudario delle tenebre. In essa sfolgora la Parola divina. Ed ecco che da ogni angolo di quel mondo oscuro si muovono processioni di popoli che convergono verso quella città di luce. Giunti lassù, essi trasformano le armi che impugnano: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (2,4).
Finalmente Gerusalemme attuerà il suo nome di città di shalôm, della pace. Perché là tutti hanno un ideale diritto nativo di cittadinanza che li dovrebbe rendere fratelli e non avversari. È ciò che canta il Salmo 87 che descrive le nazioni mentre danzano e cantano rivolti a Sion: «Sono in te tutte le nostre sorgenti«. In questo canto “natale” di Gerusalemme come genitrice di tutte le nazioni per tre volte nell’originale ebraico risuona la locuzione jullad sham/bah, “è nato là / in essa”. Tutti i punti cardinali della terra, pur nella loro diversità, sentono di appartenere a un’unica matrice: c’è Rahab, cioè l’Egitto, la grande potenza occidentale, e c’è Babele, la grande potenza orientale babilonese; c’è Tiro, la potenza commerciale del nord, c’è la Filistea (o Palestina) che è l’area centrale, e l’Etiopia che rappresenta il profondo sud. Nell’anagrafe di Sion tutti sono registrati come figli: la citata locuzione jullad sham/bahera appunto la formula ufficiale giuridica con cui si dichiarava un individuo nativo di una determinata città e, come tale, dotato della pienezza dei diritti municipali.
*Avvenire, venerdì 16 ottobre 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
Turchia. Istanbul, la decisione è presa: Santa Sofia sarà moschea
Il Consiglio di Stato turco ha annullato il decreto del 1934 che aveva trasformato uno dei monumenti simbolo di Istanbul - fino al 1453 basilica e poi moschea - in un museo
di Redazione Internet e Marta Ottaviani (Avvenire, venerdì 10 luglio 2020)
Santa Sofia a Istanbul tornerà ad essere una moschea. Come già era stato anticipato, il Consiglio di Stato turco ha annullato il decreto del 1934 che aveva trasformato uno dei monumenti simbolo di Istanbul - fino al 1453 basilica e poi moschea - in un museo.
La notizia in Turchia circolava già da due giorni. La Danistay, il Consiglio di Stato, ha quindi accettato il ricorso presentato dal partito di centro destra Iyi Parti. L’edificio bizantino, quindi, verrà di nuovo adibito al culto islamico.
La Danistay si era riunita per esaminare il ricorso lo scorso 2 luglio. La seduta era durata appena 17 minuti. La decisione era attesa fra due settimane, ma il processo ha subito un’improvvisa accelerazione che, quasi sicuramente, non è frutto di un caso. Il 15 luglio, infatti, sarà il quarto anniversario del fallito golpe del 2016 e molti dirigenti dell’Akp, salutando nei giorni scorsi l’indiscrezione come se la notizia fosse già ufficiale, hanno ipotizzato una preghiera di inaugurazione nell’edificio proprio in quel giorno al quale, secondo il ministro dell’Interno Soylu, «dovrebbero partecipare tutti i leader politici turchi».
Un gesto che andrebbe a caricare ancora più di significato il ritorno dell’ex basilica cristiana in moschea e consacrare il presidente, Recep Tayyip Erdogan, non solo come il padrone assoluto del Paese, ma anche come il nuovo Sultano contrapposto all’Occidente, per il quale criticare le decisioni turche sull’argomento equivale a violare la sovranità nazionale della Mezzaluna.
Il suo portavoce, Ibrahim Kalin, giovedì aveva dichiarato che il monumento sempre «resterà patrimonio mondiale» e che con la trasformazione in moschea verrebbe visitata da ancora più persone.
La decisione della Danistay, però, potrebbe non essere accettata dall’Unesco, che ha iscritto Santa Sofia nella lista dei Beni patrimonio per l’Umanità, mentre la Commissione Europea ha chiesto ufficialmente e a gran voce che rimanga un museo, «simbolo di dialogo interreligioso e interculturale».
Covid-19.
Bartolomeo I: la preghiera comune vero atto di libertà per evitare il baratro
Sulla giornata di preghiera di oggi il patriarca ecumenico di Costantinopoli: "Nessun sincretismo". "Chiudersi all’altro tradisce l’idea di Dio". "Amore e solidarietà è la via"
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 14 maggio 2020)
«Amore e solidarietà sono gli aspetti positivi della preghiera mondiale, per un cambio di mentalità... Il tempo delle parole è finito, ora possono solo iniziare le opere. Possiamo pertanto affermare che la preghiera comune sarà un passo importante nella volontà di evitare il baratro». Aderendo alla proposta dell’Alto Comitato per la fratellanza umana, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I ha fin dal primo momento sottolineato l’importanza che i credenti di tutte le religioni si uniscano in preghiera a implorare l’aiuto per tutta l’umanità nel tempo segnato dalla pandemia che il mondo sta attraversando. E per “Avvenire” così risponde.
Santità, perché è importante questo momento di preghiera comune fatta da appartenenti di diverse religioni? La preghiera comune non è un atto di sincretismo religioso ma un vero atto di libertà, caratterizzato dalla capacità di ogni essere umano di porsi in relazione con Dio per il bene di tutti. La libertà della preghiera è il primo elemento che caratterizza ogni dialogo umano, perché è dialogo con Dio. Non è altresì una forma di panteismo, ma è relazione intima, profonda e sacra tra il creato e il Creatore. È intima, perché nella preghiera di ogni essere umano vi è una sinergia relazionale che parte dal cuore sensibile dell’uomo. È profonda, perché pone ogni creatura a guardare in sé stesso, senza essere vittima di condizionamenti esterni, che alterano la visione profonda di Dio. Infine, è sacra, perché nella sacralità della persona umana vi è la comune appartenenza alla famiglia umana, che non propone rapporti di tolleranza, ma rapporti di uguaglianza, che non è fondamenta-lista o fanatica, ma capace di trovare le ricchezze della fede o anche dei riferimenti metafisici in tutti gli aspetti della religiosità dell’uomo. La preghiera comune pertanto supera le persecuzioni, perché esse non hanno diritto di cittadinanza; supera ogni atto di tolleranza, perché non c’è qualcuno che permette e qualcuno che accetta il permesso dell’altro; supera l’integralismo, perché esso è la negazione della libertà e se si nega la libertà, si nega anche il rapporto tra Dio e l’uomo.
Come si deve intendere anche il gesto del digiuno legato alle opere di carità? Il digiuno, come modo di preghiera e le opere di carità, come atto di ogni rapporto umano. Nella storia bimillenaria della Chiesa, il digiuno non è assenza o riduzione di cibo o altro, ma è un atteggiamento insito nell’uomo che si fa preghiera in Dio. Gesù stesso ha digiunato e ha insegnato come il vero digiuno spirituale possa vincere ogni forza avversa. E nella libera preghiera e nel digiuno spirituale non può mancare l’attenzione verso i fratelli. Allora questa preghiera mondiale trova il suo vero modo di essere vissuta, partecipata e sicuramente ascoltata e ne spiega la sua importanza.
Questi gesti quali sviluppi posso portare in questa umanità sconvolta dalla pandemia? Da troppi anni, l’umanità non è stata attenta al grido di dolore che saliva dalla creazione di Dio. Un piccolissimo e sconosciuto virus, ci ha fermati. L’intera umanità si è accorta della sua fragilità, della importanza dei rapporti interpersonali e ancora una volta si trova ad un bivio dopo questa esperienza. Il tempo delle parole è finito, ora possono solo iniziare le opere. Possiamo pertanto affermare che la preghiera comune sarà un passo importante nella volontà di evitare il baratro. Innalziamo la nostra preghiera a Dio con fede, supplichiamo con la certezza dell’ascolto, imploriamo con lacrime di vera contrizione. Come sviluppo positivo del gesto della preghiera comune di tutta l’umanità ribadiamo di vivere questo periodo come un cammino del deserto per giungere in sicurezza alla Terra Promessa, quando la scienza, per grazia di Dio, vincerà la battaglia col virus. Perché siamo sicuri che, anche con le nostre preghiere, vincerà. E la prova è una occasione per cambiare al meglio. Nella direzione di rafforzare l’amore e la solidarietà. Amore e solidarietà sono gli aspetti positivi della preghiera mondiale per un cambio di mentalità.
Qual è il contributo che possono dare le religioni per un mondo più vivibile? Possono aprire alla vera conoscenza dell’altro. La chiusura, in ogni religione, è da considerarsi di per sé stessa un tradimento e un offuscamento dell’idea di Dio e di Divinità. Conoscere significa partecipare alla vita intima del fratello che abbiamo accanto, significa superare gli stereotipi che arrivano da altre epoche, significa capire, comprendere, apprezzare e quindi rispettare e amare. Il rispetto e l’amore portano al dialogo, non per una “unica religione mondiale”, come alcune volte sentiamo dire, ma perché il dialogo forma la base profonda etica e spirituale dell’uomo. Se le religioni del mondo sapranno fare di questo dialogo la loro forza, allora anche la loro fede, il loro Credo sarà rafforzato, non contro qualcuno, ma a favore di tutti. Le religioni saranno così portavoci di una “società aperta” dove non avrà la ultima parola solamente la omogeneizzazione economica e lo sviluppo basato sul principio della autonomia dell’economia, ma saranno espressioni di fede nella libertà e nella dignità umana. (Si ringrazia per la traduzione p. Athinagoras e Nikos Tzotis)
CONCILIO DI NICEA I e il CONCILIO DI NICEA - 2025. Materiali sul tema:
2 MAGGIO 2020. Il santo del giorno
Atanasio. Discepolo di sant’Antonio, difensore dell’ortodossia
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 2 maggio 2019)
Sant’Atanasio fu come un ponte per la Chiesa antica: sulle spalle, infatti, portò il “peso” della retta dottrina, dell’ortodossia, traghettandola attraverso un periodo difficile, nel quale sembrava che l’eresia dovesse trionfare.
Era nato ad Alessandria nel 295 e nel 325 era al Concilio di Nicea come diacono del vescovo Alessandro. Lì si stabilì che il Figlio era della stessa sostanza del Padre, Cristo non era “come” Dio, ma era Dio.
Una verità che gli ariani tentavano di negare, mettendo in campo una lotta aspra, spesso fatta di calunnie e strategie politiche.
Nel 328 la gente volle Atanasio come nuovo vescovo di Alessandria e lui, nei suoi 46 anni di episcopato, si dimostrò un saldo difensore della verità. Ma dovette subire attacchi personali e anche esili prima di essere riabilitato. Ebbe come maestro sant’Antonio abate di cui scrisse una Vita. Morì nel 373.
Altri santi. San Felice di Siviglia, martire (IV sec.); sant’Antonino Pierozzi (di Firenze), vescovo (1389-1459).
Letture. At 5,27-33; Sal 33; Gv 3,31-36.
Ambrosiano. At 4,32-37; Sal 92; Gv 3,7b-15.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
Il messaggio.
Bartolomeo I: con Francesco difendiamo unanimi la casa comune
Il Patriarca di Costantinopoli scrive un messaggio in occasione del 50.mo anniversario dell’Earth Day: l’umanità è a un bivio, la pandemia ha messo a nudo la fragilità della terra
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 22 aprile 2020)
«Ricordare il cinquantesimo della Giornata Mondiale della Terra, in questi giorni della pandemia mondiale, che ha messo l’intero pianeta ‘a riposo’, deve farci riflettere su quanto abbiamo promesso e non mantenuto durante questo mezzo secolo». Il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I non ha mancato di lanciare il suo messaggio in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Earth Day, nel tempo in cui l’umanità è messa al bivio da uno «sconosciuto virus» e la pandemia ha messo a nudo la fragilità della terra. In gioco c’è il presente e il futuro del «pianeta azzurro», «casa di ogni essere vivente e non solo dell’uomo», la cui «arrogante ambizione» - ha scritto nel messaggio - ha rovinato questa casa per motivi di interesse, «dimenticando la giustizia, l’amore vicendevole, l’aiuto verso i più poveri e sfortunati, il rispetto reciproco, la sete della presenza di Dio».
E ora che «l’intera umanità si è accorta della sua fragilità, dell’importanza dei rapporti interpersonali», Bartolomeo I si chiede se questa esperienza rinnoverà le relazioni sociali e renderà gli esseri umani «pacifici e rispettosi», custodi della «casa che Dio ci ha dato». Perché questa non può che essere una «scelta di tutti noi assieme». L’impegno pionieristico e pluridecennale nella difesa del creato hanno fatto del Patriarca ecumenico di Costantinopoli un modello e un punto di rifermento imprescindibile in ambito cristiano.
Nella Laudato sì papa Francesco ha dato solenne risalto alla sua azione e alla sua riflessione, che richiama l’attenzione sulle radici etiche e spirituali dei problemi ambientali: «Il patriarca Bartolomeo si è riferito particolarmente alla necessità che ognuno si penta del proprio modo di maltrattare il pianeta - ha evidenziato il Papa - invitandoci a riconoscere i peccati contro la creazione... Bartolomeo ha richiamato l’attenzione sulle radici che ci invitano a cercare soluzioni non solo nella tecnica, ma anche in un cambiamento dell’essere umano, perché altrimenti affronteremo soltanto i sintomi. Ci ha proposto di passare dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere».
Attingendo dalla grande tradizione patristica e liturgica della Chiesa orientale il Patriarca considera l’ambiente come oikos, dimora di tutte le creature viventi e l’intera creazione come hoinonia, comunicazione di vita, di cui l’uomo è parte e da cui non può in alcun modo separarsi senza morire. Da qui la richiesta di una profonda metanoia, una conversione. Il patriarca ecumenico di Costantinopoli usa lo stesso linguaggio di Francesco sulla creazione, la quale, secondo la volontà originaria di Dio, non è un deposito di beni di consumo da depredare e sfruttare, ma un giardino da coltivare e da custodire.
In questa giornata nata per sensibilizzare sul disastro ecologico, Bartolomeo I si dichiara dunque «in sintonia» con il messaggio di papa Francesco contenuto nella sua enciclica. «Mano per mano come fratelli - scrive nel messaggio - gridiamo alla intera umanità di fermarsi, di accogliere il grido di dolore che sorge dalla natura ferita, da questa nostra casa comune, dentro la quale siamo divenuti tiranni e non operatori di pace e suoi buoni economi».
Presentazione volume - Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019
Lunedì 24 febbraio, alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
LINGUA GRECA E CRISTIANESIMO: LO STRUMENTO ELETTO E L’EU-CARESTIA... *
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA
ΣΚΕΥΟΣ ΕΚΛΟΓΗΣ • VAS ELECTIONIS
Il ruolo della lingua greca nella diffusione del pensiero cristiano
Sabato 8 febbraio 2020, ore 10
Sala conferenze - Palazzo Reale, Piazza Duomo 14, Milano
Interventi
Sua Eminenza Gennadios - Arcivescovo d’Italia e Malta
L’educazione e la cultura sono la via per la pace
Stefano Martinelli Tempesta - Università degli Studi, Milano
Fede cristiana e tradizione classica nei codici della Biblioteca Ambrosiana
Alberto Barzanò - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
La lingua greca: strumento e veicolo di comunicazione tra primo cristianesimo e Impero romano
Emanuela Fogliadini - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano
Eikōn, “icona”: somiglianza, rappresentazione, rivelazione del prototipo
Gilda Tentorio - Università degli Studi, Milano L’anima senza tempo dell’Athos: scrittori e impressioni di viaggio
Marco Roncalli - Saggista e scrittore
Patristica greca, ortodossia orientale ed ecumenismo in san Giovanni XXIII
Massimo Cazzulo - Presidente Società Filellenica Lombarda
Il lessico liturgico della poesia neogreca del Novecento: l’esempio di To ʼΆξιoν ἐστί di Odisseas Elitis
L’inizio dei lavori sarà preceduto dai saluti delle Autorità di
Filippo Del Corno Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Nikolaos Sakkaris Console onorario della Repubblica di Grecia a Milano,
Dimitri Fessas Presidente della Federazione delle comunità e delle confraternite greche di Italia, Sofia Zafiropoulou Presidente della Comunità ellenica di Milano
* FONTE: LICEO CLASSICO STATALE "TITO LIVIO" - MILANO (27 gennaio 2020)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO"
EU-ANGELO, EU-ROPA .... E "SCRITTURA ED EU-CARESTIA"?! LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
Federico La Sala
IL PIANETA TERRA, IL "PADRE NOSTRO", E IL SINODO DEI VESCOVI SUL MEDITERRANEO ...*
Mediterraneo, frontiera di pace. Le cose da sapere sull’incontro di Bari
Dal 19 al 23 febbraio l’evento per la pace. Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati
di Giacomo Gambassi, inviato a Bari (Avvenire, mercoledì 12 febbraio 2020)
Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati. Tre i continenti che idealmente si abbracceranno: Europa, Asia e Africa. Ecco in numeri l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace”, il grande forum ecclesiale voluto dalla Cei che per la prima volta riunisce i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da papa Francesco. -Le cifre non dicono tutto, ma raccontano la scommessa di un’iniziativa che si terrà dal 19 al 23 febbraio e che avrà come cornice Bari, la città “ponte” fra Oriente e Occidente come testimonia «la venerazione senza confini del suo patrono san Nicola» o la scelta del Pontefice di tenere nel luglio 2018 all’ombra del Castello svevo l’incontro per la pace in Medio Oriente con i capi delle comunità cristiane della regione, spiega l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Carucci.
Adesso lo sguardo si allarga all’intero Mediterraneo chiamando a un supplemento d’anima le Chiese. È l’urgenza della pace l’orizzonte di un evento che invita a una nuova responsabilità il mondo cattolico. Non un convegno o un seminario accademico ma un «incontro di fraternità dallo stile sinodale che vuole aiutare le comunità ecclesiali a camminare sempre più insieme», spiega il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, durante la conferenza stampa di presentazione a Roma moderata dal direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, Vincenzo Corrado.
Nel 2018 era stato proprio Bassetti a lanciare l’idea dell’evento «rileggendo i Colloqui mediterranei promossi da Giorgio La Pira circa sessant’anni fa», racconta il cardinale le cui radici affondano nella Firenze del sindaco “santo”.
«Se La Pira aveva coinvolto l’ambito politico - dice Bassetti - io mi sono chiesto: perché anche i vescovi non possono mobilitarsi di fronte ai drammi delle proprie genti? Del resto la Chiesa non ha altro scopo che servire l’uomo. E ciò implica anche affrontare i problemi che le nostre comunità vivono». Tutto l’episcopato italiano ha sposato il percorso: ecco perché i pastori della Penisola saranno a Bari nelle ultime due giornate.
Due i temi di cui discuteranno i vescovi del bacino: l’annuncio del Vangelo, a cominciare dai giovani; e il dialogo fra Chiese e società. «Di fatto come pastori ci siamo posti una domanda: che cosa Dio vuole oggi dal Mediterraneo? E l’incontro sarà un’occasione di discernimento», chiarisce il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, vice-presidente della Cei e coordinatore del comitato organizzatore.
A fare da sfondo al confronto le guerre che ancora insanguinano l’area (dal conflitto israelo-palestinese a quelli in Siria, Iraq o Libia); le nuove tensioni che scuotono la regione; le ferite ancora aperte delle guerre che dai Balcani al Libano hanno segnato gli ultimi decenni; la povertà; le disuguaglianze fra la sponda nord e quella sud; le politiche di sfruttamento da parte dei grandi del pianeta; la complessa convivenza fra le fedi; le persecuzioni delle minoranze religiose, soprattutto cristiane; il dramma delle migrazioni.
«La questione della pace - dice Raspanti - non è disgiunta dagli squilibri sociali che qui si registrano. E anche lo stesso tema delle migrazioni sarà visto secondo prospettive diverse. Penso al grido che alcuni vescovi delegati hanno già lanciato chiedendo di aiutare i loro Paesi a non lasciare fuggire i cristiani».
Lo stile dell’incontro è mutuato dal Sinodo dei vescovi. Non solo nei due anni di preparazione sono stati coinvolti gli episcopati del Mediterraneo che hanno contribuito a elaborare una bozza di lavoro, ma soprattutto le giornate di Bari saranno nel segno dell’ascolto e del dialogo fra i vescovi.
«Ore e ore di discussione», annuncia Raspanti. Dal confronto scaturirà il documento che sarà approvato dai presuli e che domenica mattina verrà consegnato al Pontefice durante il suo incontro con i vescovi nella Basilica di San Nicola.
«Il Papa che condivide a pieno il nostro incontro - dice Bassetti - ci ha chiesto proposte concrete che vadano oltre le lamentele».
Il dialogo fra il Pontefice e i pastori della regione rappresenterà l’appuntamento centrale di Bari, che verrà aperto dal saluto di Bassetti e dalle testimonianze del cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo e presidente della Conferenza episcopale di Bosnia ed Erzegovina, e dell’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, e che si chiuderà con l’intervento dell’arcivescovo di Algeri, il gesuita Paul Desfarges, presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa. Momento concluso dell’evento sarà la Messa presieduta da Francesco alle 10.45 nel cuore di Bari.
L’incontro dei vescovi si porterà dietro anche un segno concreto di attenzione a tutto il Mediterraneo.
«Si tratterà di borse di studio per giovani delle diverse sponde con lo scopo di formare una nuova classe dirigente», annuncia Bassetti. Il progetto avrà come guida la Caritas italiana e vedrà il coinvolgimento di Rondine-Cittadella della pace, il laboratorio della riconciliazione alle porte di Arezzo che fa studiare i giovani provenienti dai Paesi in guerra fianco a fianco con il loro "nemico".
I lavori “sinodali” dei vescovi saranno a porte chiuse ma ogni giorno è previsto un briefing con la stampa. Guai comunque a pensare che le giornate siano blindate.
Sono previste infatti Messe e momenti di preghiera aperti a tutti; venerdì sera ogni pastore delegato sarà ospite di una parrocchia; poi sabato pomeriggio, a partire dalle 15.30, al teatro Petruzzelli si terrà l’incontro di testimonianze con voci e volti da tutto il Mediterraneo e gli interventi dei vescovi e di esperti di geopolitica.
Intanto si immagina già il “dopo Bari”. «Non ritengo che tutto si possa concludere in Puglia - avverte il presidente della
Cei -. È possibile che si creino tavoli di lavoro tematici che permetteranno ai vescovi di incontrarsi di nuovo. Del resto la sfida è far riscoprire la vocazione propria del nostro grande mare: una vocazione alla pace e all’incontro».
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
RINASCIMENTO, OGGI (2020): PER "LA PACE DELLA FEDE" (1453) E IL CONCICLIO DI NICEA(2025). Note... *
Verso Bari 2020.
«Bari, ponte di pace per il Mediterraneo. Sui passi di san Nicola»
Parla l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Cacucci, padrone di casa all’Incontro dei vescovi del Mediterraneo sulla pace. Tutto pronto per la visita del Papa il 23 febbraio. «La nostra è terra di dialogo»
di Giacomo Gambassi (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
C’è una frase che l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Cacucci, ama ripetere per descrivere la vocazione della sua terra. È quella che gli aveva affidato papa Wojtyla durante una visita ad limina dei vescovi della regione. «Giovanni Paolo II si rivolge a me dicendo: “Dovete guardare al Mediterraneo e all’Africa”. Ecco, in un’espressione dal sapore profetico il Pontefice santo ha condensato ciò a cui siamo chiamati. Bari è tenuta a essere ponte fra le sponde del grande mare: in particolare fra Oriente e Occidente, come lo è stato e lo è ancora il nostro patrono san Nicola». Una pausa. «In quest’ottica va letto l’incontro per la pace in Medio Oriente voluto il 7 luglio 2018 da papa Francesco con i capi delle Chiese e delle comunità cristiane della regione - afferma l’arcivescovo -. E adesso l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei».
Mancano dieci giorni all’inizio di quello che il cardinale Gualtiero Bassetti ha definito “una sorta di Sinodo sul Mediterraneo” che dal 19 al 23 febbraio porterà nel capoluogo pugliese cinquantotto vescovi in rappresentanza di venti Paesi affacciati sul grande mare e di tre continenti (Europa, Asia e Africa). «Non ho proposto io Bari per questo evento - confida Cacucci -. È stato il cardinale Bassetti con il Consiglio permanente della Cei a indicare la nostra città. E come Chiesa locale abbiamo accolto con gioia la richiesta, ben sapendo che sono parte del nostro dna l’accoglienza, il dialogo, la cultura dell’incontro». L’arcidiocesi è in prima linea nell’organizzazione dell’iniziativa internazionale.
Il Castello svevo accoglierà le tre giornate “sinodali” di confronto (a porte chiuse) fra i vescovi. La Basilica di San Nicola e la Cattedrale faranno da cornice alle Messe quotidiane. Le parrocchie ospiteranno venerdì sera i singoli pastori. Il teatro Petruzzelli sarà lo sfondo dell’evento pubblico di sabato pomeriggio. Poi domenica arriverà papa Francesco che sarà a Bari per la seconda volta in due anni e che nella Basilica di San Nicola dialogherà con i vescovi, prima di presiedere la Messa in corso Vittorio Emanuele.
Eccellenza, l’Incontro giunge mentre il Mediterraneo torna a infiammarsi.
È vero, siamo di fronte a un disordine mondiale in cui gruppi etnici e formazioni militari scatenano conflitti sempre nuovi. Tutto ciò ha ripercussioni intorno al grande mare. Per questo l’iniziativa Cei si colloca in un momento dolorosamente provvidenziale per ciò che si sta verificando nel Mediterraneo. Se il bacino può essere considerato un «grande lago di Tiberiade», come lo definiva Giorgio La Pira, resta ancora oggi un luogo di morte. Pertanto dai vescovi che prenderanno parte alle giornate baresi non potrà che levarsi un’invocazione alla pace. Come del resto aveva fatto da qui, dal sagrato della Basilica di San Nicola, papa Francesco il 7 luglio 2018 quando aveva spiegato che la pace «va coltivata anche nei terreni aridi delle contrapposizioni perché oggi, malgrado tutto, non c’è alternativa possibile alla pace». Un’indicazione che troverà il suo sviluppo nell’imminente evento ecclesiale.
Bari si conferma sede privilegiata di dialogo.
Certo, a partire da san Nicola, uno dei santi più venerati nel mondo che collega Oriente e Occidente. Prima dell’incontro del 2018, il Papa aveva deciso che una reliquia del santo fosse traslata a Mosca e a San Pietroburgo. Un avvenimento straordinario, come ha sottolineato il patriarca Kirill, dal grande impatto ecumenico. Poi l’appuntamento per la pace nel Medio Oriente con il Pontefice. E adesso l’Incontro dei vescovi del Mediterraneo. In questo caso i protagonisti saranno i pastori cattolici che si ascolteranno a vicenda e poi consegneranno le loro osservazioni al Papa alla presenza dei vescovi italiani, invitati alle ultime due giornate.
Quale contributo alla pace dalle Chiese del bacino?
È proprio della nostra fede l’impegno per la pace. Di fronte agli odierni conflitti che costituiscono una «terza guerra mondiale a pezzi» secondo quanto detto dal Papa, come cristiani siamo chiamati ad annunciare al mondo che ogni uomo e ogni donna fa parte dell’unica famiglia umana. È questo il fondamento della fraternità. Il che significa prendere atto che esista un destino comune fra i popoli. Una visione rifluita nel Concilio come testimonia la Gaudium et spes la quale ci ricorda che la pace «non è mai qualcosa di stabilmente raggiunto ma un edificio da costruirsi continuamente».
Comunque già Giovanni XXIII, nell’enciclica Pacem in terris, evidenziava che l’urgenza di avere artigiani di pace. Ecco, nell’Incontro sul Mediterraneo entrerà tutto questo, consapevoli che i vescovi non giocano un ruolo politico ma intendono farsi apostoli di riconciliazione. Da Bari, quindi, non dobbiamo attendersi risultati politici. Va aggiunto che il cammino verso la pace richiede anche un cambio di mentalità. Ad esempio, la globalizzazione non va vista come pretesto per fomentare le paure ma come occasione per essere fratelli nella diversità.
L’Occidente e le grandi potenze agiscono ancora nel Mediterraneo per interesse particolare?
Negli ultimi due secoli è stato il Mediterraneo “coloniale” al centro delle preoccupazioni mondiali. Paradossalmente la creazione della Comunità europea ha spostato l’asse distante da questo mare. E ciò ha avuto l’effetto di allontanare le sponde, contribuendo ad alimentare il demone della paura. Di fatto l’Occidente non ha favorito il protagonismo del Medio Oriente o del Nord Africa. Così la riflessione dei vescovi intende aiutare anche l’Europa a ritrovare le sue radici che sono di per sé mediterranee.
A Bari papa Francesco aveva lanciato l’allarme sul rischio della scomparsa della presenza cristiana in alcuni angoli dell’area.
Tutti constatiamo che le persecuzioni verso i cristiani si sono intensificate. Non dimentichiamo che, anche solo guardando agli ultimi decenni, sono moltissimi i cristiani che hanno dato la vita per promuovere nel nome del Vangelo la convivenza pacifica fra i popoli in contesti segnati dalle guerre e dagli odi. Vorrei citare per tutti don Andrea Santoro ucciso in Turchia nel 2006. Ma siamo davvero consci che questa presenza abbia un ruolo profetico? O, come ammonisce il Papa, non c’è una congiura del silenzio?
Anche il tema dei migranti entrerà nell’agenda dei vescovi?
I processi di mobilità hanno accresciuto l’osmosi fra i popoli. Però da alcuni decenni il fenomeno migratorio ha subìto un’accelerazione a causa delle violenze e delle guerre ma anche della povertà generata da gravi ingiustizie e prevaricazioni. Tali processi hanno un inevitabile impatto sul dialogo fra le religioni e fra le confessioni cristiane ma anche sulla nostra identità di credenti. Se è vero che le migrazioni sono la conseguenza di un’assenza di pace, allora la questione non può non interrogare i vescovi. E anche tutti noi che siamo invitati a un’autentica testimonianza evangelica in grado di superare ogni sorta di egoismo.
Cacucci, dal 1999 arcivescovo di Bari-Bitonto
Ha 76 anni Francesco Cacucci, arcivescovo di Bari-Bitonto e delegato pontificio per la Basilica di San Nicola a Bari. Nato nel capoluogo pugliese, è sacerdote dal 1966. È laureato in teologia alla Pontificia Università Gregoriana e in scienze politiche all’Università di Bari. Nel 1987 viene nominato ausiliare di Bari-Bitonto e ordinato vescovo. Nel 1993 il Papa lo trasferisce alla sede arcivescovile di Otranto fino al 1999 quando torna come pastore nella sua Chiesa d’origine.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SULL’INCONTRO DI RATZINGER - BENEDETTO XVI E BUSH. LA CRISI DEL CATTOLICESIMO ROMANO E DELLA DEMOCRAZIA AMERICANA NON SI RISOLVE... RILANCIANDO UNA POLITICA OCCIDENTALE DA SACRO ROMANO IMPERO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Materiali sul tema:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
*
Sul tema, in rete, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
LA “CROCE” (“X”) DELL’APOSTOLO ANDREA E LA “BIBLIA PAUPERUM”. A GLORIA DI PRESICCE E IN MEMORIA DEL SUO PATRONO.... *
RICORDANDO CHE “lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre” (cfr.: Sant’ Andrea Apostolo), solleciterei storici e storiche, filologi e filologhe, filosofi e filosofe, a riflettere - visto che Gesù Cristo (dal greco Χριστός, Christós) è morto sulla “croce” - sulla differenza tra la “croce” (“X”) dell’apostolo Andrea e, unitariamente, la “croce” latina dell’apostolo Pietro (“Crocifissione di San Pietro” di Michelangelo Merisi), sia sul piano del significato del simbolismo della figura sia sul significato della lettera dell’alfabeto greco e dell’alfabeto latino.
Al buon-intenditore (del “buon-messaggio” - dell’ “ev-angelo”) poche parole....
Complimenti e buon lavoro
Federico La Sala
* Cfr.: Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano di Andrea Erroi, Fondazione Terra d’Otranto, 30.12.2018.
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
A SUA SANTITÀ BARTOLOMEO I, PATRIARCA ECUMENICO
IN OCCASIONE DELLA FESTA DI SANT’ANDREA
A Sua Santità Bartolomeo
Arcivescovo di Costantinopoli
Patriarca ecumenico
È con grande gioia spirituale e in profonda comunione di fede e carità che mi unisco alla preghiera della Chiesa di Costantinopoli nel celebrare la festa del suo santo patrono, l’Apostolo Andrea, primo chiamato e fratello dell’Apostolo Pietro. La mia vicinanza spirituale è manifestata ancora una volta, quest’anno, dalla presenza di una delegazione della Chiesa di Roma, alla quale ho affidato l’espressione dei miei più cordiali saluti e miglior auspici a Lei, Santità, ai membri del Santo Sinodo, al clero, ai monaci e a tutti i fedeli riuniti per la solenne Divina Liturgia nella chiesa patriarcale di San Giorgio. Attraverso la delegazione, trasmetto l’assicurazione della ferma intenzione della Chiesa cattolica, come anche mia, di proseguire nel nostro impegno a lavorare per il ripristino della piena comunione tra i cristiani d’Oriente e d’Occidente.
Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario dell’istituzione della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, inaugurata congiuntamente dal Patriarca Dimitrios I e da Papa San Giovanni Paolo II durante la visita di quest’ultimo al Fanar in occasione della festa di Sant’Andrea. In questi anni la Commissione mista internazionale ha compiuto molti significativi passi avanti. Esprimo pertanto la mia sentita gratitudine a tutti i suoi membri passati e presenti per il loro devoto impegno. In particolare, ricordo con gratitudine il Metropolita Stylianos, che per molti anni è stato il co-presidente ortodosso della Commissione, e che all’inizio di quest’anno è morto nella speranza della Risurrezione promessa a tutti coloro che hanno riposto la loro fiducia in Dio.
Durante la sua visita al Fanar, Papa San Giovanni Paolo II dichiarò che «la domanda che dobbiamo porci non è tanto di sapere se possiamo ristabilire la piena comunione, ma ancor più se abbiamo il diritto di restare separati» (Discorso a Sua Santità Dimitrios I, San Giorgio al Fanar, 30 novembre 1979). Questa domanda, che è retorica solo in apparenza, continua a sfidare le nostre Chiese ed esige che tutti i fedeli rispondano con un rinnovamento sia di mentalità sia di condotta.
La ricerca del ripristino della piena comunione tra cattolici e ortodossi certamente non è limitata al dialogo teologico, ma si compie anche attraverso altri canali di vita ecclesiale. Le nostre relazioni sono alimentate soprattutto attraverso gesti autentici di mutuo rispetto e stima (cfr. Rm 12, 9). Tali azioni mostrano una fedeltà condivisa alla parola del nostro unico Signore Gesù Cristo, nonché la volontà di rimanere insieme nel suo amore (cfr. Gv 15, 10). Questa carità è un frutto dello Spirito Santo (cfr. Gal 5, 22) e segno di vita cristiana autentica (cfr. Gv 13, 35). Inoltre, memori dell’unico battesimo nel quale siamo stati rigenerati, dell’unica fede che ci anima e dell’unico Spirito Santo che ci guida (cfr. Ef 4, 4-5), la nostra vicinanza cresce e s’intensifica ogni volta che preghiamo gli uni per gli altri (cfr. Gc 5, 16) e che preghiamo insieme come fratelli (cfr. Mt 18, 19-20). Infine, si vede che la nostra relazione è matura quando, obbedienti al mandato del Cristo Risorto di portare il Vangelo a tutte le creature e guarire gli ammalati (cfr. Mc 16, 15-18), cattolici e ortodossi lavorano insieme nel proclamare la Buona Novella e nel servire i bisognosi. La Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa si sono già imbarcate in questo viaggio promettente, come testimoniano le nostre iniziative comuni. Confido che anche nei contesti locali tutti noi rafforzeremo sempre più il dialogo quotidiano di amore e di vita in progetti spirituali, pastorali, culturali e caritativi comuni.
Amato fratello in Cristo, al quale sono legato da sincera e fraterna amicizia, queste sono solo alcune delle speranze e dei sentimenti che mi riempiono il cuore e che desidero condividere con lei in questa lieta occasione. Unito nella preghiera all’Apostolo Andrea, rinnovo a lei e a tutti i presenti i miei più cordiali buoni auspici e scambio con lei un santo abbraccio in Cristo nostro Signore.
Francesco
*
SITO: VATICANO
RITO GRECO E RITO LATINO: CONTRORIFORMA NEL SALENTO! PRESICCE, GALLIPOLI, E GALATONE...*
SE SI CONSIDERA CHE “Catalano stilò la data e la firma «IO: DOM.CO CAT.NO GALLIP.NO ME PINGEBAT 1601»” E CHE, IN QUEL TEMPO, NEL REGNO DI NAPOLI, VICEREAME DI SPAGNA, la macchina della Chiesa cattolica si era già messa in movimento per portare avanti il programma “controriformistico” del Concilio di Trento e, nella Terra d’Otranto, per eliminare la presenza del rito greco e realizzare una generale accettazione del rito latino, forse, è possibile COMPRENDERE meglio l’atmosfera politico-culturale, a Presicce (come a Gallipoli), e il senso dell’operazione affidata al pittore gallipolino Gian Domenico Catalano.
LA “MADONNA DALL’OCCHIO NERO” DI GALATONE NE SA già QUALCOSA (cfr. Commenti a “Galatone e le sue tradizioni, tra antropologia e fede”)!
Federico La Sala
* Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano (Fondazione Terra d’Otranto).
Verso Bari 2020.
La Chiesa in Grecia povera fra i poveri. E salvata dai migranti
A colloquio con l’arcivescovo di Atene, Rossolatos. «In trent’anni i credenti sono quadruplicati. Nelle Messe si parla albanese, polacco o filippino. E adesso i “nuovi” fedeli vengono dall’Africa» Un povero davanti a una chiesa greca
di Giacomo Gambassi, inviato ad Atene (Avvenire, domenica 1 dicembre 2019)
Prima la Messa ad Aigio con una comunità di albanesi. Poi due celebrazioni a Patrasso, terza città della Grecia: una in inglese e l’altra nella lingua nazionale. Quindi la tappa a Kalamata dov’è presente un drappello di 150 cattolici che provengono da 21 Paesi. Per capire la Chiesa cattolica greca basta trascorrere ventiquattro ore con l’arcivescovo di Atene, Sevastianos Rossolatos. Fra sabato e domenica macina 750 chilometri pur di essere vicino ai suoi “figli”. E, quando rientra nella capitale, trova la Cattedrale piena di filippini, pronti per l’inizio dell’Eucaristia.
«Siamo davvero una Chiesa universale», scherza l’arcivescovo di 75 anni, che dal 2016 è presidente della Conferenza episcopale ellenica. La sua diocesi copre metà della Grecia continentale. Ed è un pullulare di lingue, culture, etnie. I “grecigreci” sono ormai minoritari fra i cattolici del Paese che in gran parte hanno radici oltre confine: albanesi, polacchi, filippini e, negli ultimi anni, africani sia anglofoni, sia francofoni. «La nostra è una Chiesa per lo più di immigrati che la rendono viva e vitale», chiarisce Rossolatos. Una pausa. E subito aggiunge: «Siamo anche una Chiesa povera fra i poveri. I migranti hanno pochissimo a disposizione e quello che guadagnano lo inviano nei loro Paesi. Come se non bastasse, i greci stanno ancora affrontando una crisi che resta pressante».
Il presule parteciperà all’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei che dal 19 al 23 febbraio 2020 porterà a Bari i pastori dei Paesi affacciati sul grande mare e che sarà concluso da papa Francesco. «Nell’intera regione c’è bisogno di pensare e agire insieme di fronte a situazioni che sono variegate dal punto di vista sociale, politico e anche ecclesiale. Come, ad esempio, davanti all’emergenza migratoria», afferma Rossolatos. Le diocesi greche sono in prima linea nell’accoglienza. «Abbiamo anche affittato case o ex alberghi per dare un tetto ai rifugiati», racconta l’arcivescovo. Nella sala dove riceve gli ospiti sono appesi i dipinti con i ritratti dei suoi predecessori. Sopra un tavolino la foto di Madre Teresa di Calcutta. L’episcopio è appena dietro il Duomo, a poche decine di metri da piazza Syntagma, il cuore di Atene che ospita il Parlamento e che continua a essere teatro delle cicliche proteste anti-austerità.
Eccellenza, negli ultimi trent’anni il numero dei cattolici in Grecia è quadruplicato: 200mila in tutto, su 11 milioni di abitanti. Una crescita dovuta agli immigrati.
Vero. I primi flussi risalgono al 1985. Poi con il crollo dei regimi comunisti si sono avute ulteriori ondate: sono state alcune centinaia di migliaia i cattolici arrivati. Soltanto i polacchi avevano raggiunto quota 100mila. Poi gli albanesi, i romeni, gli ucraini. Più di recente, con le tensioni in Medio Oriente, è stata la volta di siriani e libanesi. Ma non mancano gli asiatici: filippini, indiani, srilankesi. Ultimamente i “nuovi” cattolici sono gli africani: giungono soprattutto dall’Africa subsahariana, attraversano il Mediterraneo o gli Stati del Medio Oriente, e approdano qui. Sono i fedeli con le maggiori difficoltà: perché non sono in regola e non possono contare su un lavoro.
Una comunità ecclesiale multiculturale. Quali le sfide?
Una è quella del clero. I sacerdoti locali sono di avanzata età. E oggi la metà dei preti è straniera. Non è semplice im- postare una pastorale missionaria che subentri a quella di conservazione. Altra questione è l’evangelizzazione. Nelle mie omelie insisto sul fatto che non è sufficiente avere fede per salvare l’anima: per salvarsi occorre salvare. Ossia, contagiare con la propria testimonianza i non praticanti o i lontani, a cominciare dai giovani influenzati nel profondo dalla secolarizzazione avanzata.
La Grecia è terra ortodossa. Come vive la minoranza in comunione con Roma?
Nel secolo scorso un greco doveva essere di per sé ortodosso. Pertanto un cattolico non era considerato greco. Ecco perché nelle diverse diocesi i laici hanno dato vita a organizzazioni che hanno la denominazione “grecocattolica”. Un modo per rivendicare l’uguaglianza dei diritti che lo Stato non riconosceva anche sotto l’influenza della maggioranza ortodossa.
Adesso però la Chiesa cattolica ha un suo status.
Ci sono voluti trenta anni di sforzi. E solo nel 2014 ci è stata riconosciuta la personalità giuridica insieme con altre realtà religiose.
Il rapporto con l’ortodossia è ancora segnato da tensioni?
In Grecia si fa fatica a parlare di ecumenismo. Soltanto in quei pochi luoghi dove cattolici e ortodossi vivono fianco a fianco, le relazioni sono serene. Invece la mentalità che prevale è quella di disprezzo o di paura verso i cattolici. Così il cammino ecumenico viene dipinto come il mostro dell’Apocalisse. E si ripete che i sacramenti ricevuti nella Chiesa cattolica, in quanto scismatica, non sono validi. Da notare anche che i vescovi ortodossi di Grecia hanno chiesto durante il Sinodo panortodosso del 2016 di non usare la parola “Chiesa” nei confronti degli altri cristiani.
Ma qualche passo avanti si registra?
Esistono legami personali positivi. Ad esempio, tre vescovi ortodossi hanno concesso ai cattolici locali i loro luoghi di culto per la Messa domenicale anche se non è permesso celebrare sulla mensa ortodossa. E nelle isole, dove la presenza dei cattolici è maggiore, i matrimoni misti sono sempre più numerosi. Tutto ciò contribuisce a una pacifica convivenza.
La crisi economica morde sempre. Molto. Lo Stato è indebitato e le tasse superano il 50% del reddito. Non ho timore a dire che la situazione è disastrosa. I disoccupati sono centinaia di migliaia. Si lavora al massimo 3 o 4 ore al giorno e con contratti di pochi mesi. A causa di tutto ciò, una parte di coloro che compongono il nostro popolo di Dio ha optato per l’estero: per l’Occidente, come si dice qui. Si parla di 600mila giovani che hanno lasciato il Paese, fra cui molti cattolici.
Tema rifugiati. Il Paese è il principale approdo europeo per chi fugge da conflitti e miseria: secondo l’Unhcr, gli arrivi in Grecia nel 2019 sono stati 66mila contro i 10.500 in Italia.
I migranti sono aumentanti anche nell’ultimo anno. Il governo ha creato nuove strutture d’accoglienza. Nei campi profughi delle isole si vive talvolta in condizioni disumane anche perché, siccome non si riesce a ospitare tutti gli arrivati, alcuni fuggono e creano baraccopoli di fortuna. La Caritas greca e quella di Atene sono molto attive anche grazie agli aiuti che giungono sia dalla Caritas Internationalis o da quelle nazionali come del-l’Italia, sia dal governo tedesco, sia dall’Onu.
Fra i profughi ci sono anche cattolici?
Racconto quello che accade nelle isole di Samo e Lesbo dove le nostre chiese che avevano qualche decina di fedeli si sono riempite grazie ai migranti, per lo più dell’Africa. Profughi che nei campi subiscono anche discriminazioni in quanto cattolici. Essendo la maggioranza musulmana, una croce al collo può dare molto fastidio. Ecco perché la Caritas si impegna a proteggerli offrendo loro un’abitazione in modo che lascino i campi.
La Grecia dovrebbe essere terra di passaggio.
Sulla carta sì. Ma l’Unione europea non vuole i profughi. E restano ingabbiati qui. Come Chiesa favoriamo il loro inserimento nella società: aiutandoli a imparare il greco, a trovare un lavoro, ad avere i documenti.
E come viene vista l’Ue dalla Grecia?
L’Europa parla di solidarietà, ma è una solidarietà fra virgolette. I Paesi che hanno un’economia forte accettano un numero di migranti esiguo: è quello di cui hanno bisogno. E non sono certo fraterni con noi. Ci dicono: vi finanziamo e voi tenete chi sbarca. Poi ci sono gli Stati che chiudono le frontiere o alzano i muri. Finché l’Occidente sfrutterà le nazioni “dimenticate” e le riempirà di armi, non si prospettano soluzioni. L’Europa si faccia un esame di coscienza e operi nel nome della pace che è attenzione verso tutti.
L’arcivescovo Rossolatos, presidente dei vescovi greci
Dal 2014, per volontà di papa Francesco, Sevastianos Rossolatos è arcivescovo di Atene e amministratore apostolico di Rodi. 75 anni, nato a Ermopoli sull’isola di Siro nell’Egeo meridionale, ha studiato a Roma alla Pontificia Università Gregoriana. Sacerdote dal 1968, è stato anche insegnante di religione nelle scuole pubbliche. Dal 2016 è presidente della Conferenza episcopale della Grecia.
Nel porto del Pireo o alla mensa Caritas, viaggio fra i profughi dimenticati in Grecia
Poco dopo le undici del mattino c’è già una prima parvenza di coda. In venti attendono che il piccolo portone si apra e venga servito un piatto di riso e carne. I volti sono quelli di alcuni giovani fuggiti dalla Siria, di altri giunti dal Nord Africa, di altri ancora che hanno abbandonato l’Iraq. E fra loro anche chi in Grecia è nato e cresciuto e si è ritrovato senza nulla con la crisi economica che ancora devasta il Paese. Alle tre, quando il portone si chiuderà, saranno oltre cinquecento i pasti distribuiti dalla mensa Caritas nel cuore di Atene. Nata grazie al «programma per i rifugiati», come si legge sopra l’ingresso del presidio nel quartiere di Omonia che resta l’agglomerato degli emarginati. Quasi a ogni angolo un clochard allunga la mano per chiedere qualche moneta. C’è l’uomo con le piaghe sulle gambe, l’anziana donna con il velo in testa, ma anche la ragazzetta di vent’anni o un’intera famiglia (con tanto di figli) della Romania.
La mensa è al 52 di via Kapodostriou, persa fra anonimi casermoni, negozi ormai chiusi con le saracinesche sprangate da catene e lucchetti, cassonetti colmi d’immondizia. E questo è uno degli “strumenti” con cui l’arcidiocesi di Atene accoglie i profughi che continuano ad approdare sulle isole e lungo le coste della Grecia. «Eppure il nostro servizio rischia di concludersi a fine anno», lanciano l’allarme i volontari. Perché i fondi sono sempre più scarsi e gli aiuti dall’estero non sono sufficienti a far fronte all’emergenza migranti che si unisce a quella della povertà locale. Come se non bastasse, metà delle risorse che entrano nelle casse dell’arcidiocesi finisce in tasse: altissime in un Paese con un debito pubblico fuori controllo. Con il paradosso che la Chiesa cattolica paga le imposte al ministero delle Finanze il quale, però, non paga l’affitto alla Curia per i suoi uffici ospitati in uno stabile ecclesiastico.
Sono 120 gli operatori della Caritas greca e 80 della Caritas di Atene che si dedicano ai migranti. Compresi quelli che giungono nel porto del Pireo, il porto della capitale. I due campi profughi “nascosti” che erano in una delle banchine più lontane dagli attracchi turistici delle navi da crociera sono stati chiusi dal governo e trasferiti nell’entroterra. Per non disturbare chi inizia una vacanza. Ma i rifugiati continuano a vivere nel porto, in ripari di fortuna.
È una comunità ecclesiale accanto agli ultimi quella di Atene. E povera. Difficile costruire una chiesa perché le risorse non ci sono. Accade, ad esempio, vicino all’aeroporto dove si sono trasferiti molti cattolici. In duemila vivono nei villaggi intorno allo scalo. L’arcidiocesi sogna di “regalare” loro una chiesa. «Ma ci vorranno dieci anni per realizzarla - raccontano in Curia -. Con i ridotti fondi che ci restano possiamo fare ben poco».
Il santo del giorno
Andrea.
Pescatore, portò a Gesù il fratello Pietro. È un modello per gli evangelizzatori
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 30 novembre 2019)
Abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci faccia conoscere Gesù e che ci porti all’incontro con lui: sant’Andrea è il modello per tutti coloro che "accompagnano alla fede" proprio perché fu il fautore del primo fondamentale incontro nella storia della Chiesa, quello tra Gesù e Pietro.
Il Vangelo di Giovanni ci presenta Andrea - che era nato a Betsaida sulle rive dell’omonimo lago in Galilea - intento ad ascoltare il Battista quando egli indicò il Messia. Andrea chiese allora a Gesù dove stava di casa e la risposta è un invito che vale ancora oggi per tutti gli esseri umani: "venite e vedrete".
Il primo pensiero di Andrea fu quello di andare a raccontare al fratello Pietro, anche lui pescatore, quell’incontro straordinario.
Secondo la tradizione Andrea, dopo la Risurrezione e la Pentecoste, fu evangelizzatore in Asia Minore, arrivando in seguito a Patrasso, dove sarebbe morto martire, su una croce a forma di "x" e a testa in giù attorno al 60.
Altri santi. San Tutwal, abate e vescovo (VI sec.); san Taddeo Liu Ruiting, martire (1773-1823).
Letture. Rm 10,9-18; Sal 18; Mt 4,18-22.
Ambrosiano. 1Re 19,19b-21; Sal 18; Gal 1,8-12; Mt 4,18-22.
Bartolomeo I in Calabria, amore fraterno
di Redazione ANSA (18 settembre 2019)
(ANSA) - LUNGRO (COSENZA), 18 SET - "Con sua Santità il Papa di Roma, Francesco, che vive e si comporta in modo degno del nome che porta, ci unisce un amore fraterno stretto e universale dall’amicizia che entrambi desideriamo vedere estesa tra il clero e i fedeli delle nostre Chiese sorelle". Lo ha detto Bartolomeo I, patriarca ecumenico delle Chiese Ortodosse, a Lungro, sede dell’Eparchia di rito bizantino-greco in Calabria istituita nel 1919, per una visita di due giorni, intervenendo durante la messa del vespro officiata nella cattedrale di San Nicola di Mira.
"Lo abbiamo incontrato appena ieri - ha aggiunto il patriarca - e abbiamo avuto un caloroso colloquio sempre con la piena unione della fede. Desideriamo inviargli anche da qui un caloroso abbraccio e il nostro saluto cordiale con tanto amore".
Alla celebrazione religiosa hanno partecipato il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della congregazione delle Chiese Orientali e il presidente della Cei card. Gualtiero Bassetti.
Religione.
L’Africa animista riletta col Vangelo
Cosa significa essere animisti, ma soprattutto cosa vuol dire arrivare al cattolicesimo dalla religione degli antenati. Il lucido sguardo di un africano, teologo gesuita, alla luce di papa Francesco
di Agbonkhianmeghe E. Orobator (Avvenure, martedì 17 settembre 2019)
"Animismo’ è stato ed è tuttora un’etichetta peggiorativa e dispregiativa. Nel passato e nel presente ha fornito a sociologi, storici e teologi uno strumento utile per interpretare e codificare la religione del-l’altro, in questo caso quella africana. È dimostrato che questo esercizio di interpretazione e codificazione ritrae il suo referente come primitivo e pagano. Non c’è dubbio che questo approccio sia irrazionale e riduttivo. Semplifica una realtà molto complessa. Tuttavia, accettando l’etichetta ’animista’, si può portare avanti un discorso e analizzare l’esperienza religiosa africana basata su un incontro diretto piuttosto che su stereotipi e pregiudizi. Mi interessa particolarmente esprimere un giudizio critico, ma rispettoso dei valori insiti nella religione africana, pur restando al tempo stesso fedele al Vangelo come principale depositario del messaggio cristiano.
Com’è davvero essere animista? Nel rispondere a questa domanda, lo scopo principale è delineare i fondamenti di un immaginario, di una pratica e una coscienza religiosi solitamente denigrati dai seguaci delle cosiddette religioni del mondo. Dai miei ricordi, e mentre continuo a trarre ispirazione da questa tradizione, emerge come fondamentale per l’intero sistema religioso in Africa una fede profonda nella vitalità del creato. In altre parole, questa tradizione rappresenta una profonda e intensa convinzione che nulla è privo di vita nel mio ambiente naturale, e che «esiste un potere invisibile insito in qualsiasi cosa in ogni momento». Trasposto nelle parole di papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’. Sulla cura della casa comune, ciò significa che «ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua [...] Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio» (n. 84).
Dall’albero ancestrale, chiamato ikhinmwin ( Newbouldia laevis), che sorgeva al centro della nostra proprietà, al fiume che scorreva a est della città e al turbine di vento che spesso credevamo trascinasse le persone nel mondo degli spiriti, tutto nell’immediato ambiente naturale della mia formazione trasudava forza, energia e vitalità. Difficilmente c’era qualcosa che non incutesse un certo grado di rispetto, e tutto aveva uno scopo. L’albero ancestrale era oggetto di reverenza e contrassegnava lo spazio sacro e il luogo di culto e delle pratiche rituali per la nostra fattoria.
Il premio Nobel Wangari Maathai avvalora questa credenza nell’affermare che alberi come questo sono «riconosciuti dalle comunità come punti nodali che connettono il mondo celeste con quello terrestre [...] luoghi dove risiedono gli antenati e/o i loro spiriti. Era così che consideravamo e ci riferivamo al sempreverde ikhinmwin. Una stanza delle medicine non è semplicemente la stanza di una casa, un albero non è soltanto un albero.
Non c’è da stupirsi, dunque, che oltre a collegare due mondi, costituisca uno spazio di riunione e comunione per famiglie e comunità in cui le differenze vengono messe da parte per ristabilire rapporti e connessioni fondamentali. La sua importanza sta anche nel fatto che facilita la fondamentale capacità di relazione delle dimensioni orizzontale e verticale dell’esistenza. Anche il fiume esigeva rispetto, era oggetto di venerazione da parte degli adoratori della dea dell’acqua. Il turbine di vento incuteva religioso timore.
Non era un vento come gli altri, era lo strumento degli dei. Quando successivamente sono venuto a conoscenza della dottrina della creazione nel cristianesimo e della sacralità presente nel cattolicesimo, aveva senso pensare al ’vento’, all’’alito’ o allo ’spirito’ di Dio che aleggiava sulle acque, accarezzando l’universo e risvegliando la natura alla vita all’alba della creazione (Gen 1,1). La mia visione del dominio «su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28) acquista significato da questa formazione religiosa. Da convertito al cristianesimo cattolico, come milioni di altri africani ho compiuto una transizione dalla mia fede ancestrale alla fede cristiana.
Non è un passaggio facile. Sarebbe pretenzioso sostenere che ho compiuto una rottura netta col mio passato, penso che ciò sia praticamente impossibile. Il presente è sempre impregnato del passato; da qui deriva la mia predilezione per termini come viaggio, percorso, traiettoria e pellegrinaggio quando parlo della mia esperienza religiosa. Forse sarebbe stato più facile tagliare il legame col passato se fosse consistito semplicemente in credenze, dottrine e dogmi sostituibili. Invece, era e continua a essere uno stile di vita.
E, per citare un proverbio africano, «per quante volte un leopardo attraversi il fiume, non perderà mai le macchie». Ho resistito e continuo a opporre resistenza alla concezione secondo cui il mio stile di vita africano, radicato nella fede di mio padre e animato dallo spirito di mia madre, non sia altro che una ricerca irrazionale di Dio «nelle ombre e sotto le immagini», per ricorrere a un’altra espressione negativa del documento del Vaticano II Lumen gentium( n. 16).
Il modo di vivere dei miei genitori si basava su immagini per facilitare l’incontro con un regno del mistero luminoso e tangibile; irradiava energia ed evocava mistero e rispetto, piuttosto che ombre. Allo stesso modo, non mi sento lacerato fra due tradizioni religiose. E mi rifiuto di accettare l’etichetta di ’schizofrenia della fede’ o di ’doppia mentalità religiosa’ che certi teologi regolarmente impongono agli africani che credono che Dio continui a parlare attraverso il loro stile di vita ancestrale, nonostante egli si sia rivelato in Gesù Cristo. È un’esperienza di tensione piuttosto che di divisione, di ispirazione anziché di disperazione. È una ricerca di integrazione e armonia piuttosto che un’esperienza di alienazione e conflitto.
Per questa ragione, mi sono di immenso conforto le parole di Paolo VI quando afferma che «l’africano, quando diviene cristiano, non rinnega se stesso, ma riprende gli antichi valori della tradizione ’in spirito e verità?’». Non è mia pretesa lasciar intendere che la religione africana sia un’oasi incontaminata di purezza etica. Soltanto, ritengo che etichettarla per quello che non è distorce e limita l’esperienza religiosa di milioni di persone. Sostengo quindi che la religione africana, esperienza religiosa vitale e immaginario spirituale ancora attivo in molte parti dell’Africa, possieda un vero talento in grado di rinnovare la comunità globale dei credenti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Dal film "Amistad", l’arringa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti di John Quincy Adams.
Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. La lezione di Nelson Mandela.
Federico La Sala
Celio Secondo Curione...
L’ ELOGIO DEL RAGNO NELLA LETTERATURA RELIGIOSA DEL CINQUECENTO
di Luigi D’Ascia *
Tra il marmo e il legno dorato dei soffitti e le sontuose volte affrescate, che pascono l’occhio dei signori rinascimentali di mitologia e simbolismo, c’è spazio anche per un ospite umile ma necessario, che nasconde infinite virtù dietro un’apparenza insignificante: il ragno. Pur abituati a maestosi animali araldici, i potenti interlocutori laici ed ecclesiastici di Celio Secondo Curione - piccolo nobile della frontiera piemontese che si proietta con il suo brillante talento oratorio sul grande teatro dell’Italia settentrionale eternamente contesa fra le potenze europee - non si sentono infastiditi dalla presenza di quel minuscolo intruso che aspira a diventare il nume tutelare della casa. Partecipano anche loro - non solo Guillaume Pellicier vescovo di Montpellier, ambasciatore francese a Venezia e destinatario dell’Elogio del ragno - gli illustri protettori che a Pavia (dove poté appoggiarsi all’eminente famiglia Sfondrati), a Ferrara e a Venezia assicurarono a Curione quell’impunità di cui aveva vitale bisogno dopo le sue disavventure con l’Inquisizione cisalpina, di quella tensione religiosa, preparata dalla mistica quattrocentesca e in Italia dalla controversa figura di Pico, che invitava a cercare nel piccolo l’infinitamente grande e nell’allegoria l’unico modo appropriato di avvicinarsi al mistero divino.
Sono quindi disposti a tacitare i ‘cani del Signore’, quegli inquisitori domenicani che fanno la guardia ai palazzi dove si nascondono gli eterodossi e che, per arrivare ai soffitti dove il rinnovamento religioso tesse laboriosamente le proprie ragnatele, non esitano a cambiare il loro aspetto di mastini con quello più spregevole di servi armati di scopa, pronti a ripulire gli spazi loro affidati da qualsiasi contaminazione eretica. Il ragno che si cela sotto il soffitto è metafora del non conformista religioso che dissimula la propria presenza ma intanto resta pronto a catturare qualsiasi preda spirituale venga a cadere nella sua sottile ragnatela propagandistica.
Curione insomma nella sua prima opera a stampa, pubblicata a Venezia nel 1540 senza indicazione d’editore e poi ristampata a Basilea nel 1544 con il titolo Araneus sive de providentia Dei, fa del ragno l’emblema di quell’atteggiamento che in anni successivi verrà detto nicodemismo, dal nome dell’evangelico Nicodemo, che per paura dei farisei si recava a visitare Gesù soltanto di notte, e che implicava la diffusione di un messaggio certamente eterodosso in modi ‘coperti’, simbolici e allusivi, evitando di ‘trarre le illazioni’ che avrebbero sconfessato esplicitamente l’autorità ecclesiastica. [...]
Nel caso dell’Elogio del ragnoil messaggio religioso velato dalla ‘dissimu-lazione onesta’ di un linguaggio complesso e allusivo implicava un attacco a fondo alla base filosofica del concetto fondamentale di una mediazione istituzionale fra uomo e Dio, da cui discendevano culto dei santi, purgatorio e altre credenze della religiosità tardo-medioevale. Curione nega infatti l’esistenza di cause seconde, riconducendo ogni effetto fenomenico all’universale causalità divina.
Per arrivare a questa osservazione sviluppa un’argomentazione fortemente originale prendendo le mosse dal problema aperto dell’intelligenza animale, che rappresenta una sfida alla facile contrapposi-zione fra istinto e ragione, e la identifica con una forma oscura e incosciente dell’onnipotenza divina. Dentro il ragno, l’essere minuscolo e disprezzato, c’è Dio. Tale paradosso era già stato anticipato da Erasmo quando nella sua polemica con Lutero sul libero arbitrio aveva menzionato fra i sublimi misteri teologici da non divulgare al popolo la circostanza che da un certo punto di vista le sfere celesti e l’antro dello scarabeo - equivalente funzionale del ragno di Curione - fossero ugualmente partecipi dell’essenza divina.
L’infinità in potenza della materia collosa che il ragno produce da se stesso per tessere i fili della ragnatela presuppone l’infinità in atto dell’essere divino. La sua posizione al centro della ragnatela che si allarga verso l’esterno, aumentando continuamente lo spazio fra un perimetro e quello successivo, allude chiaramente a un universo teocentrico retto dalla provvidenza. Ma ciò che vale per il ragno vale per la natura nel suo complesso: non esistono cause seconde, cioè processi relativamente autonomi dall’intervento divino, e il principio delnatura non facit saltus, con la sua successione ordinata di cause che si accorda così bene con una visione gerarchica della società cristiana, cede alla libertà dello spirito divino che, essendo operoso, si manifesta dove e quando vuole. [...]
In ogni caso Curione dimostra una notevole capacità di attualizzare, nel contesto teologico della Riforma, una tradizione di teologia simbolica che si presentava strettamente intrecciata alla fortuna del genere letterario del detto pitagorico, inaugurata da Leon Battista Alberti e sviluppata da Ficino e da altri. Risulta agevole sintetizzare l’intero componimento di Curione in un ipotetico ma assai verisimile precetto «araneum incolam ne respuito», invito a non rifiutare la presenza del ragno nelle pie e dotte magioni [...] La figura di Pitagora, la cui rappresentazione deve molto al XV libro delle Metamorfosi ovidiane, è centrale nell’Elogio del ragno e non solo per l’evidente influsso di Zwingli, ma anche e soprattutto per la vicinanza di Curione a quelle fonti italiane cui si era abbeverato lo stesso teologo svizzero. [...]
Il pitagorismo ben interpretato è peraltro parte integrante di una theologia poetica che legge nella mitologia la chiave allegorica di una sapienza comune a tutte le religioni rivelate, facendo confluire sincretisticamente ermetismo e cabalismo nel contesto di un cristianesimo ispirato e profetico. Il riferimento ovidiano alla gara di tessitura fra Aracne e Minerva, che si conclude con la disfatta della prima e la sua trasformazione in ragno, diventa dunque parte integrante della ‘lettura’ del fenomeno della realtà naturale. Il concetto greco di hybris viene assimilato in maniera piuttosto prevedibile a quello di peccato originale, ma ciò che realmente interessa allo scaltrito propagandista della Riforma è ‘far passare’ una distinzione di stampo melantoniano fra il valore sociale e civile delle opere buone e la loro inutilità ai fini della salvezza eter-na, accettando in pieno l’idea di una giustizia divina arbitraria perché onni-potente che dal punto di vista umano diventa giustificazione per sola fede. Ribadire questo punto risulta così importante per l’eterodosso piemontese da indurlo ad accettare una certa incoerenza simbolica del protagonista animale dell’operetta: la condizione del ragno cambia completamente di significato e decade da dimostrazione della provvidenza divina a emblema della degenerazione animale dell’essere umano dimentico della propria dignitas originaria.
L’interpretazione biblica del mito di Aracne illustra la tendenza del Curione a conferire speciale rilevanza alla componente ebraica della sua costruzione sincretistica in quanto scaturigine di un linguaggio simbolico poi ripreso dai filosofi e divulgato dai poeti pagani, come illustra fra l’altro la caratteristica designazione di Salomone come «quel celebre Platone degli Ebrei». Del resto l’idea che «tutto è pieno di Cristo», già chiaramente enunciata nell’Elogio del ragno, si tradurrà nella ‘teologia politica’ del De amplitudine beati regni Dei in un’energica riaffermazione della salvezza finale degli Ebrei solo provvisoriamente privati della loro condizione di popolo eletto. Questo motivo ‘filosemita’ risulta decisamente preponderante rispetto al fugace accenno alla conversione finale dei musulmani e degli abitanti delle regioni recentemente scoperte del Nuovo Mondo. Nell’ambiente veneziano del 1540 dove vede la luce l’Elogio del ragno, contrassegnato da una presenza israelita cospicua e socialmente significativa, è lecito supporre un intrecciarsi di tradizioni profetiche ebraiche e cristiane che proiettano la pacificazione religiosa su uno sfondo escatologico. [...]
Nell’ Elogio del ragno si osserva la fermentazione di una dottrina sincretistica e vagamente esoterica non priva di punti di contatto con la speculazione di Bruno, che nella Cena delle ceneri mette in discussione, non diversamente dal Curione, la categoria di «istinto» animale e che pagò un duro scotto in termini processuali per il suo attaccamento alla dottrina della metempsicosi, che l’eretico piemontese aveva ritenuto potesse conciliarsi con i dati della rivelazione cristiana. [...]"
* CFR. CELIO SECONDO CURIONE, ARANEUS SEU DE PROVIDENTIA DEI, Edizione, traduzione e commento a cura di DAMIANO MEVOLI, Avvertenza di ANGELO ROMANO, Prefazione di LUCA D’ASCIA, Postfazione di LOTHAR VOGEL, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019, pp. IX-XIX - ripresa parziale).
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025) ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Madrid. Papa a Sant’Egidio: preghiera e dialogo nella prospettiva della pace
Si è aperto a Madrid “Pace senza confini”, l’annuale incontro di Sant’Egidio nello spirito di Assisi
di Giacomo Gambassi, inviato a Madrid (Avvenire, lunedì 16 settembre 2019)
La voce è quella di Carlos. Tocca a lui, 42 anni della Comunità di Sant’Egidio di Madrid, far “parlare” papa Francesco nella capitale spagnola che ospita l’incontro internazionale “Pace senza confini”. È l’appuntamento numero 33 “nello spirito di Assisi”. Uno spirito che è “preghiera a Dio e promozione della pace tra i popoli”, spiega Francesco tornando all’evento voluto da Giovanni Paolo II che nel 1986 aveva convocato nella città umbra i leader spirituali. Un’intuizione che ha dato vita a un “pellegrinaggio di pace” ideato da Sant’Egidio, come lo definisce Bergoglio, che adesso fa tappa a Madrid. Nella giornata di inaugurazione, domenica pomeriggio, sono in duemila nel Palacio municipal de congresos all’interno della Fiera. Duemila volti che raccontano fedi, culture, tradizioni e popoli di ogni latitudine.
“Stiamo vivendo un momento difficile per il mondo - scrive il Papa nel testo che viene letto all’inizio -. Dobbiamo unirci tutti, direi con uno stesso cuore e una stessa voce, per gridare che la pace non ha frontiere”. Anzi, aggiunge il Pontefice, “è folle chiudere spazi, separare popoli o, peggio, affrontarsi gli uni gli altri, rifiutare l’ospitalità a chi ha bisogno”. Nel messaggio indirizzato al “padrone di casa” il cardinale Carlos Osoro Sierra, arcivescovo di Madrid, il Papa ricorda la caduta del Muro di Berlino, trent’anni fa, che accese “nuove speranze di pace”. Ma, prosegue, oggi assistiamo “allo spreco di quel dono di Dio” dilapidato “con nuove guerre e con la costruzione di nuovi muri”.
Eppure i muri cadono “quando sono assediati con la preghiera e non con le armi”. Da qui i due punti fermi che Francesco indica: “preghiera” e “dialogo”. Che si traducono in “fraternità tra i credenti”, come mostra il Documento sulla fratellanza di Abu Dhabi, citato dal Pontefice.
Nell’auditorium siedono sette cardinali, fra cui il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, e oltre venti vescovi. Poi rappresentanti delle diverse confessioni cristiane e di numerose religioni, comprese alcune delegazioni giunte dall’Asia. “Il dialogo ci salverà, non i confini”, dice Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio e instancabile anima del forum organizzato stavolta con l’arcidiocesi di Madrid. Anche lui richiama la caduta del Muro per denunciare che adesso “il mondo globale ha smarrito l’entusiasmo per la pace”. E negli ultimi tre decenni sono sorti nuovi confini. “Alcuni non sono frontiere, ma muri: per ragioni militari, difensive, per frenare i migranti”. E la questione dei rifugiati “si pone con un vigore tale che è impossibile risolverla con le scelte dei singoli Paesi”. Inoltre c’è “una ripresa di prospettive nazionali antagoniste o nazionalistiche”. E ricorda l’inizio della seconda guerra mondiale, 80 anni fa. Tuttavia, ammonisce Riccardi, ormai “siamo troppo abituati all’assenza di pace e ci basta che la guerra che sia lontana da noi”. Serve allora un “umanesimo planetario”. Perché “i confini esistono ma non possono diventare muri” e “i credenti li superano con lo sguardo del cuore e con la parola del dialogo”.
È una carrellata di voci di speranza dal mondo quella che irrompe con la sua forza profetica nella Fiera di Madrid. Con sensibilità e punti di vista differenti che trovano sintesi intorno allo spirito di Assisi.
Il presidente della Repubblica Centrafricana, Faustin-Archange Touadéra, invoca fra gli applausi disarmo e abolizione della pena di morte. E rilancia l’idea di un’”Eurafrica” ringraziando papa Francesco. “Non ci sarà stabilità e sviluppo dell’Africa senza l’Europa e viceversa”, sostiene. Guerre, ingiustizie sociali, crisi ecologica segnano il presente. Più volte torna l’intuizione di Paolo VI che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” o lo slancio della Laudato si’ di Bergoglio.
Lo studioso statunitense Jeffrey D. Sachs sprona i Paesi ricchi a donare “l’1% del loro Pil agli Stati poveri: così verrebbe cancellata la povertà estrema”. E Filippo Grandi, alto commissario per i rifugiati dell’Onu, esorta ad andare alle vere cause degli “sfollamenti forzati” e a non perdere tempo “con i porti chiusi che sono risposte sbagliate e inutili”.
Fondamentale il ruolo delle fedi. Il segretario dell’università di Al Azhar in Egitto, Mohammad Al-Mahrasawi, rivendica l’impegno musulmano alla “pace illimitata” e insiste che il “terrorismo non ha religioni”. Invoca il dialogo il rabbino capo di Tel Avil, Israel Meir Lau, sopravvissuto ai lager nazisti in Polonia. “Sapete perché c’è stato il primo omicidio della storia, quello di Abele ucciso da Caino? - dice -. Perché i due forse non si confrontavano, non parlavano”. E il metropolita della Chiesa ortodossa russa, Hilarion, vede nella “comprensione reciproca fra le fedi e i popoli” la via per “opporsi alla violenza e al terrorismo”. Fondamentalismo che diventa “profanazione” con i gruppi radicali che “compiono le loro azioni anche durante le celebrazioni nelle chiese”. Poi tuona: “Il loro spirito non è lo Spirito di Dio”. E allora tornano le parole del messaggio del Papa per l’incontro. La sfida è costruire insieme “la casa comune”, come la chiama Francesco, che “non sopporta muri che separino” e che necessita di “porte aperte”. “Sempre, senza eccezioni”, insiste Bergoglio.
L’invito a essere a “servizio della fraternità” giunge domenica mattina dal cardinale Carlos Osoro Sierra, arcivescovo di Madrid durante la Messa di apertura dell’evento spagnolo. Non si riesce a entrare nella Cattedrale dell’Almudena. Ed è come se fra le navate soffi lo “spirito di Assisi” che più volte viene richiamato durante la celebrazione, a cominciare da Osoro Sierra. “Abbiamo il compito della pace”, ripete nell’omelia. È “un impegno personale e sociale” che ha bisogno di “un realismo incarnato”, sottolinea.
In prima fila il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, che ha vicino il presidente della Repubblica centroafricana, Faustin-Archange Touadéra. Intorno all’altare, accanto a Osoro Sierra, tre cardinali (più uno in pectore, Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna) e sedici vescovi. Nella preghiera dei fedeli, in più lingue, si sollecita un sussulto d’anima verso “coloro che bussano alle porte d’Europa” perché non le trovino chiuse. E il cardinale tiene a far sapere che “in questo momento storico ci è chiesto di non favorire mai coloro che approfittano del risentimento”. E se si vuole creare “canali di incontro” non è possibile farlo “attraverso il consenso ma solo con il dialogo” che consente di “distruggere i pregiudizi”. L’Italia è a mille chilometri, ma le parole di Osoro Sierra valgono qualsiasi sia la riva del Mediterraneo.
Papa. Francesco: ecco perché ho donato le reliquie di san Pietro a Bartolomeo I
di Mimmo Muolo (Avvenire, venerdì 13 settembre 2019)
In una lettera al Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Francesco spiega il motivo che lo ha indotto a consegnare nove frammenti ossei. E’ bene che Pietro stia accanto a suo fratello Andrea
È bene che i fratelli stiano insieme. Si potrebbe descrivere così la volontà espressa dal Papa in una lettera al patriarca Bartolomeo I di donare alcuni frammenti delle reliquie di san Pietro alla Chiesa di Costantinopoli. «Nella pace che nasce dalla preghiera, ho sentito che avrebbe avuto un significato importante che alcuni frammenti delle reliquie dell’Apostolo Pietro fossero poste accanto alle reliquie dell’Apostolo Andrea». Le reliquie furono consegnate da Francesco il 29 giugno scorso, al termine della Messa nella solennità dei santi Pietro e Paolo, al capo della delegazione del patriarcato, l’arcivescovo Job di Telmessos.
Ora dunque il Pontefice spiega il significato di quel gesto. «Ho creduto - ricorda infatti il Papa - che questo pensiero mi sia venuto dallo Spirito Santo, che in così tanti modi sollecita i cristiani a ritrovare quella piena comunione» per la quale Gesù aveva pregato alla vigilia della Passione. Un gesto, prosegue papa Bergoglio, «che vuole essere una conferma del cammino che le nostre Chiese hanno compiuto per avvicinarsi tra di loro: un cammino a volte impegnativo e difficile, eppure accompagnato da evidenti segni della grazia di Dio».
«Continuare questo cammino - scrive ancora il Papa a Bartolomeo I - richiede soprattutto una conversione spirituale e una rinnovata fedeltà al Signore, che vuole da parte nostra un maggiore impegno e passi nuovi e coraggiosi». Tutti gli ostacoli sul cammino dell’unità, aggiunge quindi, non devono distoglierci «dal nostro dovere e dalla nostra responsabilità di cristiani», soprattutto come pastori della Chiesa, davanti a Dio e alla storia. Ecco perché la riunificazione delle reliquie dei due fratelli apostoli «potrà essere anche un richiamo costante e un incoraggiamento perché, in questo cammino che continua, le nostre divergenze non siano più un ostacolo alla nostra testimonianza comune e alla nostra missione evangelizzatrice al sevizio della famiglia umana, che oggi è tentata di costruire un futuro puramente mondano, un futuro senza Dio».
Il Pontefice spiega infine quali sono e da dove provengono le reliquie donate. Sono frammenti che, sottolinea il Pontefice, «vennero posti in un reliquiario di bronzo con l’iscrizione Ex ossibus quae in Archibasilicae Vaticanae hypogeo inventa Beati Petri apostoli esse putantur (ossa trovate nella terra sotto la Basilica Vaticana, ritenute le ossa di San Pietro Apostolo)». Sono per la precisione nove frammenti che san Paolo VI volle conservare nella cappella privata dell’appartamento papale nel Palazzo Apostolico. Essi vennero rinvenuti nella famosa nicchia funeraria, scoperta nel 1952, accostata a un muro rosso risalente all’anno 150 e coperta di numerosi, preziosi graffiti, compreso uno di importanza fondamentale che recita, in greco «Pietro è qui».
Guarda il video: CLICCA QUI
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante. Un nota sul “disagio della civiltà”
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un dovere evangelico e umano
· Il messaggio del patriarca Bartolomeo ·
Al Reverendissimo p. Pino Di Luccio, Vice-Preside della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sezione San Luigi a Napoli, figlio amato della nostra Modestia, grazia e pace dal Signore nostro Gesù Cristo e da noi benevolenza
Abbiamo ricevuto la Vostra cortese Lettera del 3 giugno u.s., con la quale avete avuto la bontà di informare la nostra Modestia del prossimo Convegno su «La Teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo», che avrà luogo a Napoli nei giorni 20 e 21 giugno prossimi, per elaborare una teologia della accoglienza, adatta al nuovo contesto del Mediterraneo. Abbiamo altresì accolto con gioia che al Convegno parteciperà anche il nostro amato Fratello Vescovo della Antica Roma, Papa Francesco, col quale ci unisce il profondo impegno per la salvaguardia dell’essere umano e di tutto ciò che lo circonda, impegno fondato sulla κοινωνία propria della relazione Trinitaria. Lo salutiamo coll’adagio evangelico: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo, sia con tutti noi»!
Salutiamo inoltre l’amato Arcivescovo Metropolita di Napoli, Cardinale Crescenzio Sepe, gli Organizzatori e Relatori del Convegno, come tutti i partecipanti.
Nell’ambito di quanto previsto dalla Costituzione apostolica Veritatis gaudium di Papa Francesco, circa le Università e le Facoltà Ecclesiastiche, questo convegno pone al centro della sua attenzione il contesto del Mediterraneo e il tema dell’accoglienza. Due temi che fondano il loro postulato principale sul concetto di dialogo nei suoi multiformi aspetti, ma anche sulle dinamiche e introversioni che esso contiene.
Il Mare Nostrum, il Μεσóγειος θάλασσα, - come abbiamo ancora sottolineato - il mare tra le terre - è stato «culla di storia, civiltà, lingue, culture e religioni capaci di interconnessioni e di scambi, che hanno guidato i processi sociali dell’intera area per secoli, contribuendo alla crescita dei popoli che a esso si affacciano. Se il Cristianesimo, nella sua accezione Orientale e Occidentale, ha giocato un ruolo fondamentale, dopo l’Editto di Milano, non di meno l’Ebraismo e poi l’Islam hanno contribuito nelle alterne fasi storiche a trovare vie di comunione e di coesistenza. Il susseguirsi dell’Impero Romano, delle Invasioni Barbariche, dell’Impero Romano d’Oriente a Bisanzio, di quello Ottomano, non aveva mai rotto la sinfonia di comunione tra le varie anime esistenti tra i popoli dell’area, nonostante le tensioni mai sopite» (Bari 2016).
Oggi questo mare di incontro presenta una valenza molto diversa, alle volte presa ad esempio in tante aree del mondo, non come luogo d’incontro, ma piuttosto come confine da non valicare tra nord e sud del mondo, ponendo interrogativi allo stesso concetto di accoglienza dello straniero, di cui il Cristianesimo è espressione massima, secondo l’insegnamento del nostro Maestro e Salvatore. La Chiesa Ortodossa riconosce tuttavia che non c’è altra via al dialogo, e in tal modo si è espressa durante il Santo e Grande Concilio a Creta nel 2016: «In questo spirito di riconoscimento della necessità di una testimonianza e di una disponibilità, la Chiesa Ortodossa ha sempre attribuito grande importanza al dialogo, e in particolare a quello con i cristiani non ortodossi» (Enciclica cap. VII, 20).
I vari sconvolgimenti mondiali del precedente secolo, il nazionalismo e i fondamentalismi di varia natura, ancora presenti in troppe parti del nostro mondo, le tensioni accesesi oggi per l’accoglienza dei più deboli, di coloro che sono esposti alle tensioni sociali, economiche, climatiche, pongono nuovi interrogativi alle Chiese, a cui il Grande Concilio ha voluto porre attenzione, non sottacendo ai problemi derivanti dalla globalizzazione, dagli estremi fenomeni di violenza e della immigrazione: «In nessun momento l’opera filantropica della Chiesa non si è limitata semplicemente ad un atto di carità occasionale verso i bisognosi e sofferenti, ma piuttosto ha cercato di sradicare le cause che creano problemi sociali» (cap. 19).
L’accoglienza non può pertanto limitarsi a una opera di assistenza, ma deve guardare al tema della verità e della giustizia, per comprendere le cause, curarne gli effetti e testimoniare con forza il pericolo di vecchie e nuove schiavitù dell’essere umano, celate molte volte sotto forme di un acceso buonismo, di subdoli concetti di libertà illimitate, le cui conseguenze stanno affiorando prepotentemente all’interno di molti popoli, anche cristiani. La transumanza di interi popoli, o peggio di complete generazioni, causano ulteriori povertà nel sud del mondo e fenomeni di intolleranza in chi dovrebbe praticare l’accoglienza come dettame del proprio aderire evangelico. E tutto questo lo vediamo nei paesi del continente Africano in cammino verso i paesi che si affacciano sul Mare Mediterraneo, ma anche tra i paesi del Sud America in cammino verso il Nord, tra i paesi asiatici verso l’Oceania, e anche all’interno della stessa Europa tra Oriente e Occidente.
Diviene quindi preponderante l’impegno primario delle Chiese per la giustizia sociale, per creare i presupposti teologici e antropologici, anche attraverso il lavoro delle Università e dei Centri di Studi, al fine di creare una coscienza nuova nelle Istituzioni mondiali, in cui il profitto non sia l’unico metro di misura, ma si possa e si debba virare verso una economia ecosostenibile, rispettosa anche dell’ambiente in cui viviamo e che abbiamo il dovere di consegnare intatto alle generazioni future, una economia che dia dignità all’essere umano nella sua interezza, e pertanto libera da tensioni, libera da focolai di guerra, indotti molte volte al fine del proprio esasperato egoismo ed egocentrismo di pochi su molti. Una economia del rispetto delle peculiarità di popoli e aree può portare al miglioramento dell’esistenza di intere nuove generazioni, a un nuovo rinnovato interscambio, basato sul dialogo e la giustizia, ma anche sulla verità non manipolata e può pertanto evitare o limitare tali transumanze.
L’opposto è il grande pericolo che oggi attraversa il concetto di accoglienza, non più percepito dai popoli Cristiani come dettame evangelico ed esempio della fratellanza umana, ma come una “invasione” di popoli su altri popoli. La storia ci insegna che questo concetto di invasione non scompare più dal sentire comune dei popoli lungo i secoli, poiché esso ha sempre una accezione fortemente negativa. Ancora parliamo delle invasioni dei Persiani, dei Romani, delle Invasioni barbariche, della invasione araba, mongola, turca, dei bianchi sui Nativi americani, della Comunità nera in America sradicata nel passato dall’Africa, e ancora della invasione Nazista, Sovietica e altre ancora fino ai nostri giorni. Questo sentimento deve essere fortemente evitato oggi, anche dalle nostre Chiese, affinché non si realizzi il binomio accoglienza-invasione.
È quindi necessario esaminare con cura il modo di accogliere, il perché accogliere, ma soprattutto il come accogliere, nel rispetto delle popolazioni locali. L’accoglienza deve diventare principalmente integrazione, ma mai sincretismo. Se vi è la necessità di una giustizia mondiale per molti popoli in movimento, vi è anche la giustizia dei popoli che aprono i propri confini. C’è il dovere evangelico e umano di accogliere chi è in difficoltà, ma c’è anche il dovere di chi viene accolto di rispettare tradizioni, costumi, fedi di coloro che lo accolgono.
Con questi brevi pensieri, auguriamo ogni successo a questo importante Convegno, di cui tutti sentiamo la necessità per un confronto veritiero in dialogo, e invochiamo copiosa la grazia e la misericordia dall’Alto, con la nostra Apostolica e Patriarcale Benedizione su tutti.
Papa Francesco a Napoli: «Servono nuove narrazioni per toccare il cuore della realtà»
In visita a Napoli, Papa Francesco ha preso parte all’incontro sul tema “La teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo”, promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - sezione San Luigi - e ha pronunciato un discorso incentrato sul tema del dialogo e della ricerca di senso in quello spazio comune che è il Mare nostrum
di Marco Dotti (VITA, 21 giugno 2019)
In visita a Napoli, Papa Francesco ha preso parte all’Incontro sul tema “La teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo”, promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - sezione San Luigi - di Napoli e ha pronunciato un discorso incentrato sul tema dell’incontro e del dialogo.
Incontro e dialogo sono strade per il riconoscimento comune, per uno spazio di incontro e non di scontro, come si legge nel Documento di Abu Dhabi e nel proemio della Veritatis gaudium, due testi chiave per comprendere come rinnovare e fare in un contesto aperto, come quello «spazio fra le terre» che è il Mediterraneo. Da qui, la definizione di Teologia del Mediterraneo.
Altri sguardi, altre narrazioni
Il Mediterraneo, ha spiegato il Papa nella sua lectio è «un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione».
Il modo di procedere dialogico, ha proseguito il Papa, «è la via per giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli». Dobbiamo procedere come «etnografi spirituali dell’anima dei popoli per poter dialogare in profondità e, se possibile, contribuire al loro sviluppo con l’annuncio del Vangelo del Regno di Dio, il cui frutto è la maturazione di una fraternità sempre più dilatata ed inclusiva».
Per questo, «abbiamo bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che - a partire dall’ascolto delle radici e del presente - parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza».
Mediterraneo: il mare del meticciato
«Il dialogo come ermeneutica teologica presuppone e comporta l’ascolto consapevole. Ciò significa anche ascoltare la storia e il vissuto dei popoli che si affacciano sullo spazio mediterraneo per poterne decifrare le vicende che collegano il passato all’oggi e per poterne cogliere le ferite insieme con le potenzialità. Si tratta in particolare di cogliere il modo in cui le comunità cristiane e singole esistenze profetiche hanno saputo ― anche recentemente ― incarnare la fede cristiana in contesti talora di conflitto, di minoranza e di convivenza plurale con altre tradizioni religiose.
Tale ascolto dev’essere profondamente interno alle culture e ai popoli anche per un altro motivo. Il Mediterraneo è proprio il mare del meticciato - se noi non capiamo il meticciato, non capiremo mai il Mediterraneo - un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione. Nondimeno vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che ― a partire dall’ascolto delle radici e del presente ― parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza». Papa Francesco a Napoli (21 giugno 2019)
La «realtà multiculturale e pluri-religiosa del nuovo Mediterraneo si forma con tali, nuove narrazioni, nel dialogo che nasce dall’ascolto delle persone e dei testi delle grandi religioni monoteiste, e soprattutto nell’ascolto dei giovani”, ha osservato il Papa che ha invitato a praticare una “teologia dell’accoglienza” come “metodo interpretativo della realtà” e forma di un “dialogo sincero” che necessita di «teologi che sappiano lavorare insieme e in forma interdisciplinare, superando l’individualismo nel lavoro intellettuale».
I teologi, in particolare, devono porsi davanti alla realtù come « uomini e donne di compassione, toccati dalla vita oppressa di molti, dalle schiavitù di oggi, dalle piaghe sociali, dalle violenze, dalle guerre e dalle enormi ingiustizie subite da tanti poveri che vivono sulle sponde di questo ‘mare comune’. Senza comunione e senza compassione, costantemente alimentate dalla preghiera, la teologia non solo perde l’anima, ma perde l’intelligenza e la capacità di interpretare cristianamente la realtà»
Se con il duello tra Russia e Ucraina torna (anche) la guerra di religione
Nel mondo della tecnologia le passioni religiose e gli interessi politici restano pericolosamente intrecciati
di Sergio Romano (Corriere della Sera, 13.01.2019)
Può una cerimonia religiosa rendere ancora più tese e bellicose, dopo l’«incidente» del Mar di Azov, le relazioni fra Russia e Ucraina? È accaduto negli scorsi giorni a Istanbul quando l’ultimo erede dei patriarchi di Costantinopoli, alla presenza del presidente ucraino, ha solennemente firmato un documento (in greco tomos) che sottrae la Chiesa ortodossa di Kiev al magistero del Patriarcato di Mosca e ne certifica l’indipendenza. Il governo russo ha protestato e, insieme a Mosca, quella parte della società ucraina che non vuole rompere i propri secolari legami con la Grande Madre Russia.
Credevamo che le guerre di religione appartenessero al passato e pensavamo che i rapporti fra gli Stati, nel ventunesimo secolo, subissero l’influenza di più concrete motivazioni. Ma siamo costretti a constatare che nel mondo dei droni e dell’intelligenza artificiale vi sono ancora situazioni in cui le passioni religiose e gli interessi politici sono pericolosamente intrecciati.
La cerimonia di Istanbul, in particolare, ha un lungo antefatto. Comincia nel XVI secolo, quando un monaco di cui conosciamo soltanto il nome (Filofeo), scrisse al Gran Duca di Moscovia: «Sappi e riconosci, pio zar, che tutti i regni cristiani si sono compendiati nel tuo; che la Prima e la Seconda Roma sono cadute; e che ora si erge una Terza Roma, a cui non succederà mai una quarta; il tuo regno cristiano non cadrà in potere di nessun altro».
La profezia piacque ai russi, ne riscaldò i cuori e divenne, anche in epoche meno religiose, titolo di orgoglio per un popolo che si considerava votato, in nome di Dio, a un futuro imperiale. La Russia se ne servì per conferire nobiltà religiosa alla dinastia dei Romanov, rafforzare il proprio prestigio nella grande famiglia dei popoli slavi, accendere una ipoteca sui luoghi santi e sulle terre che erano appartenute all’Impero cristiano di Oriente.
Lenin vide nella Chiesa russa un potenziale nemico e ne perseguitò ferocemente il clero; ma anche nei primi anni dello Stato comunista vi fu un nazional-bolscevismo che non ignorava l’importanza del fattore religioso nel patriottismo russo. Ne fu consapevole anche Stalin quando comprese che «patria e fede», contro la Germania di Hitler, sarebbero state più efficaci di «falce e martello». Dopo la fine della guerra Stalin pagò il suo debito verso la Chiesa restituendo al culto qualche monastero e regalando al clero ortodosso ucraino i beni che erano appartenuti agli uniati (cattolici romani di rito greco).
Vladimir Putin è andato oltre. È credente, osserva con grande zelo le festività religiose, si immerge a torso nudo nella gelida acqua di un lago il 19 gennaio (giorno dell’Epifania ortodossa) ed è, a quanto pare, fraterno amico di Cirillo, Patriarca di Mosca. Attraversa una fase di declinante popolarità, ma l’ultima mossa ucraina gli garantisce un utile sostegno.
Scisma ortodosso, l’Ucraina si fa una chiesa «in casa»
Geopolitica della fede. Con una cerimonia a Istanbul dichiarato ufficialmente «autocefalo» il patriarcato di Kiev. Già tra il 1917 e il 1922, con il sostegno delle forze bianche e antibolsceviche, si assistette a un primo tentativo di staccare il capitolo ucraino da quello di Mosca
di Yurii Colombo (il manifesto, 06.01.2019)
MOSCA La scissione nella Chiesa Ortodossa, già preannunciata da qualche mese, è da ieri ufficiale. Con una cerimonia a Istanbul a cui hanno partecipato il patriarca ecumenico Bartolomeo e il presidente ucraino Petr Poroshenko è stato firmato il «tomos» (decreto) con cui viene dichiarato «autocefalo» il patriarcato ucraino. L’indipendenza della chiesa di Kiev da quella di Mosca, sin dalla data, ha un evidente significato simbolico visto che proprio oggi in ossequio al calendario giuliano, si celebrerà il Natale in tutto il mondo ortodosso. La disputa teologica e religiosa che ha condotto alla decisione di Istanbul affonda in un passato lungo oltre 300 anni ma le sue ricadute politiche hanno già iniziato a manifestarsi e aprono un nuovo capitolo nello scontro che oppone i due paesi slavi da ormai 5 anni.
GIÀ TRA IL 1917 E IL 1922, durante la rivoluzione russa, con il sostegno delle forze bianche e antibolsceviche, si assistette a un primo tentativo di staccare il capitolo ucraino dal patriarcato di Mosca. In seguito, nel 1991, con l’indipendenza dell’Ucraina dall’Urss, il primo presidente ucraino Leonid Kuchma si adoperò per giungere alla formazione di una chiesa ucraina indipendente, ma solo il tentativo dell’attuale presidente, intrapreso nella primavera di quest’anno è riuscito nell’impresa.
L’11 ottobre scorso, il Sinodo della chiesa di Costantinopoli dichiarò la cancellazione della decisione del 1686 di trasferire la metropoli di Kiev alla giurisdizione della Chiesa russa e annunciò anche la rimozione dell’anatema precedentemente imposto al patriarcato di Kiev. Poroshenko, che ha definito la decisione di Istambul «storica per il nostro popolo e per tutta la cristianità», ora cercherà di capitalizzare questo suo successo nella battaglia elettorale delle presidenziali, indette per il 31 marzo. I sondaggi però lo danno staccato di ben 8 punti dalla favorita Yulia Timoshenko ma soprattutto solo al quinto posto nelle preferenze tra i candidati in corsa.
Il «tomos» ha inevitabilmente suscitato l’ira del patriarca di Mosca Kirill. Il patriarca ha definito non solo «avventurista e illegale la decisione» ma anche un tentativo per «peggiorare i rapporti tra ucraini e russi preparando le condizioni per la guerra».
NELLE SCORSE SETTIMANE alcuni segnali ci sono già stati in questo senso. Il governo ucraino ha fatto sequestrare alla frontiera la tiratura degli opuscoli ai fedeli per il Natale di Kirill e ha dato lo sfratto ai seguaci di Mosca dal monastero di Pecerska Lavra di Kiev, il più celebre e antico di tutta la Russia. Decisioni che hanno provocato un netta condanna del Ministero degi Esteri russo che ha accusato Poroshenko di «voler accendere il fuoco della guerra civile».
Al Cremlino si resta convinti che tutta la vicenda sia stata montata ad arte prima che a Istanbul o a Kiev, a Washington, dove secondo Sergey Lavrov «si è tramato a lungo perché andasse a buon fine». Ora la chiesa di rito moscovita si appresta a contendere a quella «autocefala» fedele dopo fedele e parrocchia dopo parrocchia ricordando che ogni credente «ora deve decidere da che parte stare». Ma guarda anche avanti. La decisione di Istanbul decreta di fatto anche lo scisma all’interno dell’ortodossia, visto che la chiesa russa, quella con maggiori fedeli a livello internazionale, ha già rotto da mesi i rapporti con Costantinopoli. «Il patriarca Bartolomeo oggi si è definitivamente separato dall’ortodossia mondiale unendosi allo scisma». ha dichiarato padre Georgy, portavoce di Kirill.
«ORA PER NOI si apre il mondo anche in termini di proselitismo su scala mondiale», ha concluso Georgy, ricordando che le chiese nazionali ortodosse sono quasi tutte indipendenti, e il Patriarca Bartolomeo è sempre stato solo considerato solo un primus inter pares, un titolo che avrebbe però definitivamente perso dopo questa vigilia di Natale che gli ortodossi sicuramente ricorderanno a lungo.
Ortodossi.
Mosca e Costantinopoli divisi su Kiev. E cresce la tensione
La questione dell’autocefalia della Chiesa ucraina tocca di riflesso tutto il cristianesimo orientale. Parlano la teologa greca Despo Lialiou e il filosofo russo Arkadij Maler
di Andrea Galli (Avvenire, sabato 17 novembre 2018)
Era il 2016 quando il mondo ortodosso sembrava a un passo dal riunirsi nella forma più solenne da un millennio a questa parte, con un Concilio appunto pan-ortodosso programmato per l’estate di quell’anno a Creta. Solo due anni dopo l’ortodossia si ritrova invece alle prese con la più grave crisi di comunione forse degli ultimi secoli. I fatti sono noti: l’11 ottobre il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo ha annunciato la decisione di conferire l’autocefalia, cioè l’indipendenza, alla Chiesa ucraina. In un Paese in cui esiste una Chiesa ortodossa ucraina, guidata dal metropolita Onufrij (Berezovskij), sotto la giurisdizione del patriarcato di Mosca e due Chiese scismatiche, fino a ieri non riconosciute da nessun’altra Chiesa ortodossa: il cosiddetto patriarcato di Kiev, fondato nel 1995 dall’autoproclamatosi patriarca Filaret (Denisenko), e una Chiesa ortodossa ucraina autocefala, fondata nel 1991 dal vescovo Makarij (Maletic), entrambi i presuli anatemizzati o scomunicati da Mosca. Bartolomeo ha rimesso gli anatemi, “sanando” gli scismi, ha inoltre dichiarato decaduta la decisione del 1686 con cui l’allora patriarca ecumenico Dionisio IV poneva la metropolia di Kiev sotto la giursdizione di Mosca. E ha inviato due esarchi provenienti da Stati Uniti e Canada per avviare il processo che dovrà condurre alla nascita di una Chiesa ortodossa ucraina autocefala.
Durissima la reazione di Mosca, che ha denunciato una innumerevole serie di aspetti illegittimi nella decisione di Bartolomeo e ha interrotto la comunione eucaristica con Costantinopoli dichiarando che la “Chiesa madre” dell’ortodossia si ritrova attualmente in una situazione di scisma. Niente meno. Incerto è quello che potrà avvenire in Ucraina: la “scommessa” implicita di Costantinopoli e del presidente ucraino Petro Poroshenko - lui e Bartolomeo hanno stipulato un accordo di collaborazione lo scorso 3 novembre, il cui contenuto è rimasto riservato - è che nel tempo la gran parte del clero e del popolo che oggi si riconosce nella guida di Onufrij aderisca alla nuova Chiesa autocefala. Ma l’attuale Chiesa ortodossa ucraina, nel suo Sinodo celebrato nei giorni scorsi, ha condannato la decisione di Bartolomeo e ha difeso fermamente lo status quo canonico. E per quanto riguarda l’ortodossia nel suo insieme, se c’è chi vede un pesante indebolimento del patriarcato moscovita, che potrebbe arrivare a perdere un 40% delle sue parocchie che si trovano appunto in Ucraina, c’è chi ipotizza un prossimo Sinodo di Chiese vicine a Mosca per “accerchiare” il patriarcato ecumenico. Al Concilio di Creta furono quattro le Chiese che non si presentarono alle assise seguendo la linea russa: Antiochia, Serbia, Georgia e Bulgaria. E a schierarsi apertamente con Mosca nei giorni scorsi è stata la Chiesa ortodossa di Cechia e Slovacchia. Nel frattempo anche teologi e intellettuali dei due campi si confrontano in termini non meno netti e taglienti rispetto alle dichiarazioni degli esponenti della gerarchia. Come Despo Lialiou, teologa e già vice-rettore dell’Università Aristotele di Salonicco, e Arkadi Mahler, filosofo e fondatore e direttore del centro studi Katechon presso l’Accademia Russa delle Scienze.
Professor Maler, come è possibile che dopo tanti secoli ci sia ancora una disputa su una questione dirimente: se il patriarcato di Costantinopoli abbia o meno il potere di concedere l’autocefalia oppure no?
Di fatto questa questa disputa nacque solo nel XX secolo, perché nel 1921-1923 il patriarca di Costantinopoli Melezio IV fondò un’ideologia secondo la quale il patriarcato di Costantinopoli è la più importante fra le Chiese ortodosse e il suo potere si estende su tutti i territori dove non ci sono altre Chiese ortodosse, per esempio nell’Europa centrale e occidentale, in America, Australia, la maggior parte dell’Asia e perciò solo esso ha il diritto di stabilire lì Chiese ortodosse. Inoltre, in accordo con questa ideologia, il patriarcato di Costantinopoli può prendere l’autocefalia da altre Chiese e dare l’autocefalia a parti di altre Chiese. Nessuna Chiesa ortodossa concorda con questa ideologia, ma il patriarcato di Costantinopoli non è interessato ad alcuna argomentazione.
Quasi ogni Paese nell’Europa orientale ha una sua Chiesa ortodossa “sovrana”: non è inevitabile che ciò accada anche per l’Ucraina?
Nel cristianesimo ortodosso non c’è tale insegnamento, secondo cui ogni Paese o nazione debba avere la propria Chiesa. La Chiesa ortodossa è divisa non su base nazionale, ma su base territoriale. Se il patriarcato di Costantinopoli nel XV secolo non avesse accettato l’unione con la Chiesa cattolica di Roma, forse la Chiesa russa obbedirebbe ancora a Costantinopoli. Ed è molto importante comprendere che la Chiesa ortodossa ucraina oggi non chiede l’autocefalia, questa è richiesta solo dagli scismatici russofobi, che lo stesso patriarcato di Costantinopoli non ha riconosciuto fino a oggi.
Quanto c’è di ecclesiale e quanto di geopolitico nella decisione del patriarcato di Costantinopoli, secondo lei?
La decisione del patriarca Bartolomeo ha tre ragioni. Primo, è un ordine politico del presidente ucraino Petro Poroshenko, che vuole avere tempo prima delle elezioni presidenziali del 2019 per compiacere i nazionalisti ucraini e creare una Chiesa ucraina nazionale unificata. Secondo, è l’ambizione dello stesso patriarca di Costantinopoli, che ha lungo sognato di poter agire in tal senso per indebolire l’influenza della Chiesa russa. Terzo, è l’influenza politica degli Stati Uniti, che spinge il patriarcato di Costantinopoli a indebolire la Russia. Queste tre ragioni spiegano il conflitto in corso. Se parliamo di profonde motivazioni teologiche, sono molto serie. Il problema è che il patriarcato di Costantinopoli dal tempo del patriarca Melezio IV promuove una teologia liberale e modernista. Ricordi che la riforma del calendario del patriarca Melezio IV fu fatta solo per entrare in unione con la Chiesa angicana. Nell’agosto di quest’anno il patriarcato di Costantinopoli ha introdotto la possibilità di un secondo matrimonio per i sacerdoti, che viola i canoni della Chiesa. Ma la cosa più importante è l’eresia di un “papismo orientale”, che è impossibile nell’ortodossia. Dal momento che il patriarcato di Mosca è un polo conservatore nel mondo ortodosso, il patriarcato di Costantinopoli non ama molto la nostra Chiesa.
Quali sono gli aspetti più inaccettabili per lei e per il patriarcato di Mosca nella decisione di Bartolomeo?
La cosa più sbagliata nelle azioni del patriarca Bartolomeo è l’invio dei suoi esarchi in Ucraina, che è una violazione del territorio canonico della Chiesa russa e ancora peggio la remissione dell’anatema nei confronti dei leader dei due scismi ucraini, il “patriarca” Filaret e il “metropolita” Macario. Questi scismatici non sono stati riconosciuti dall’intero mondo ortodosso e ora, senza pentimento, le loro vengono riconosciute come Chiese canoniche. Questo è assolutamente inaccettabile.
Cosa prevede per il futuro, cosa accadrà in Ucraina e nell’ortodossia?
Se il Fanar non rifiuta di concedere l’autocefalia all’Ucraina, non ritira i suoi esarchi e non cancellerà la sua decisione di rimettere l’anatema agli scismatici ucraini, significa che il patriarcato di Costantinopoli stesso si separa dall’ortodossia e da ora in poi tutte le Chiese ortodosse dovranno decidere cosa fare: conservare la comunione sacramentale con il patriarcato di Costantinopoli oppure no. Certamente questa questione, per ogni Chiesa, non potrà essere decisa immediatamente, ma alla fine la Chiesa russa salverà la fede ortodossa dalle distorsioni liberali e le più corrette Chiese ortodosse saranno e resteranno unite. E il patriarcato di Costantinopoli creerà una Chiesa scismatica che si avvicinerà all’occidente, al cattolicesimo moderno e al protestantesimo. Se il patriarcato di Costantinopoli non si ferma, sarà inevitabile.
Professora Lialiou, perché si assiste a uno scontro sul potere o no di Costantinopoli di concedere l’autocefalia, come nel caso ucraino? Da dove origina?
Per capire che cosa significa autocefalia bisognerebbe capire meglio il suo significato e la relazione che ha con la struttura della Chiesa ortodossa, che è un organismo di 14 Chiese locali. Cinque di loro (patriarcato ecumenico di Costantinopoli, patriarcato di Alessandria, patriarcato di Gerusalemme, patriarcato di Antiochia e la Chiesa di Cipro, come arcidiocesi) sono le Chiese locali, i cui confini sono determinati dai canoni dei concili ecumenici. La Chiesa ortodossa accetta come ecumenici solo i sette concili ecumenici, che sono comuni con la Chiesa cattolica romana. Il patriarca ecumenico, fin dai tempi di san Fozio (patriarca tra l’858-867 e l’877-886) ha una responsabilità amministrativa e spirituale nei confronti dei popoli cristiani al di fuori dei territori degli altri patriarcati, e il potere di convocare sinodi generali, normalmente una prerogativa dell’imperatore. -Questo è avvenuto in particolare perché i patriarcati dell’Oriente erano occupati dagli arabi, e quindi un decreto (editto) dell’imperatore non aveva vigore in territorio straniero. A parte il fatto che il patriarca ecumenico era il patriarca della capitale dell’impero bizantino, due canoni di concili ecumenici, il 3° del II concilio ecumenico (381) e il 28° del IV concilio ecumenico assegnano al patriarca ecumenico un ruolo di coordinamento nella Chiesa, soprattutto dopo lo sviluppo parallelo del cristianesimo in Oriente e in Occidente, dai tempi di san Fozio in poi, cosa mai messa in doppio in Oriente.
Nel IX secolo ebbe luogo la cristianizzazione degli slavi da parte dei Santi Cirillo e Metodio, e nel 988 avvenne a Kiev la cristianizzazione dei rus’ - russi da parte del patriarcato ecumenico, dando inizio alle nuove Chiese ortodosse locali, che naturalmente dipendevano dal punto di vista amministrativo e spirituale dal patriarcato ecumenico, essendo sue metropolie. -Dopo la caduta di Costantinopoli e la conquista da parte degli ottomani dei territori degli altri antichi patriarchi d’Oriente, il patriarca ecumenico diventa responsabile per tutti gli ortodossi soggiogati e li rappresenta davanti al sultano. Alcuni patriarchi dei patriarcati orientali vengono eletti dal sinodo del patriarcato ecumenico e restano a Costantinopoli e non alle loro sedi. Nel 1589 il patriarca Geremia II, che si trovava per due anni in visita pastorale in Russia, sotto pressione dello zar Teodoro, conferisce l’onore patriarcale al metropolita Job di Mosca, a condizione che egli riconosca il patriarcato ecumenico come capo dell’ortodossia, così come lo riconoscevano gli antichi patriarcati.
Di fatto, dal 1589 inizia la storia delle nuove Chiese ortodosse locali, provenienti dal corpo del patriarcato ecumenico. Il 12 febbraio 1593 il patriarcato di Mosca si classificò al quinto posto nei dittici della Chiesa ortodossa. Geremia era un patriarca colto, e in Occidente è conosciuto per il dialogo che ha realizzato con i teologi luterani di Tubinga. Cento anni più tardi, nel 1686, durante il pontificato del patriarca Dionisio IV, che dal 1671 al 1694 fu eletto cinque volte al patriarcato, in un periodo estremamente difficile, viene assegnata al patriarca di Mosca l’ordinazione del metropolita di Kiev, a condizione che durante la Divina Liturgia fosse commemorato come capo il patriarca ecumenico. Sino ad allora il metropolita di Kiev era stato eletto dal clero e dal popolo della metropolia di Kiev, non dal patriarcato di Mosca.
Nel corso dei cento anni seguenti la Russia come Stato e come Chiesa cercò di presentarsi come la rappresentante degli ortodossi, da Mosca fino al Mediterraneo, cosa che riuscì a realizzare dopo la prima grande guerra russo-turca (1768-1774). Durante questo conflitto la Russia raggiunse la Bulgaria, dove nel villaggio Kaynardzha firmò il trattato di Küçük Kaynarca (1774) con 28 articoli più due segreti. Con questo trattato, i russi acquisirono il diritto di costruire la propria chiesa nel quartiere di Galata a Costantinopoli, iniziando così a soppiantare la posizione di primo trono nell’ortodossia del patriarcato ecumenico, allo scopo di prevalere politicamente su tutti i popoli ortodossi. In sostanza, i popoli ortodossi più recenti, derivati dal patriarcato ecumenico, subirono una doppia oppressione, russa e ottomana. A questo periodo risale l’inizio della formazione della loro doppia resistenza. Nel periodo seguente Napoleone Bonaparte sale al potere e prendono piede i vari processi che in Europa condurranno alla formazione degli Stati nazionali più recenti. Nella Chiesa ortodossa avvengono dei processi che dal 1839 - a partire dei Greci, i quali nel 1850 ricevono il tomos patriarcale di autocefalia - porteranno il patriarcato ecumenico a concedere una serie di autocefalie: nel 1879 alla Chiesa Serba, che nel 1920 viene riconosciuta come patriarcato; nel 1885 alla Chiesa di Romania, riconosciuta come patriarcato nel 1925; nel 1945 alla Chiesa di Bulgaria, riconosciuta come patriarcato nel 1961. Nel 1990 viene concesso l’onore patriarcale anche all’antica Chiesa della Georgia, che aveva sofferto molto sotto la Russia zarista, perché per cento anni, dal 1811 al 1917, aveva perso la propria autonomia ecclesiastica. Alla Chiesa di Polonia viene concessa l’autocefalia dal patriarcato ecumenico nel 1924; l’anno 1937 viene concessa alla Chiesa di Albania, e nel 1998 alla Chiesa ceca e slovacca. Dal patriarcato ecumenico dipendono l’arcidiocesi autonoma di Finlandia dal 1923 e la Chiesa Ortodossa di Estonia con atto sinodale del 1996.
Come può il patriarca Bartolomeo invalidare l’atto del 1686 con cui Costantinopoli poneva la metropolia di Kiev sottola giurisdizione di Mosca? Se possono essere revocate decisioni di 300 anni, cosa resta di sicuro per quanto riguarda il passato?
Ho risposto in modo così esteso all’ultima domanda per rendere il discorso più comprensibile a un pubblico che ha una percezione diversa di ciò che è l’unità ecclesiastica, anche se ovunque il cristianesimo ha i suoi problemi interni e le sue divisioni. In primis, deve essere chiaro che il patriarcato ecumenico non ha mai concesso la metropolia di Kiev al patriarcato di Mosca. La rimozione dell’atto di commissionare l’ordinazione del metropolita di Kiev da parte del patriarca di Mosca riguarda solo i cristiani ucraini e il patriarcato ecumenico e nessun’altra Chiesa locale. Per di più, se teniamo conto dei disagi dei popoli ortodossi dal Mediterraneo alla Finlandia, i ricatti politici del trattato di Küçük Kaynarca (1774), la rivoluzione russa del 1917, la seconda guerra mondiale e le sue conseguenze, il tempo si indurisce dinanzi alle ansie di ogni popolo ortodosso, e posso solo considerare come un miracolo il suo mantenimento della fede e la sua perseveranza nel riscoprire le radice della propria ecumenicità. Il patriarcato ecumenico non vive nel passato, ma è la Chiesa che ha conservato una continuità sia con gli antichi patriarcati d’Oriente che con le Chiese ortodosse locali, e tutto questo non solo come struttura ecclesiastica, ma come prassi e tradizione patristica, liturgica, teologica, e sinodale.
Quanto è diverso il caso della Chiesa ortodossa macedone - che vive in una sorta di “isolamento” da 50 anni, da quando i suoi metropoliti decisero di staccarsi da Belgrado - da quello dell’Ucraina: anche per gli ortodossi di Maceodnia c’è da aspettarsi un riconoscimento canonico e magari un’autocefalia?
C’è una differenza, perché nel 1923 il patriarcato ecumenico ha concesso l’arcidiocesi di Ocrida al patriarcato di Belgrado, come nel 1928 le metropolie dei cosiddetti nuovi territori alla Chiesa di Grecia del 1850. Le metropolie di Macedonia di Paolo Apostolo e di san Demetrio, come quelle di Epiro e Tracia, o il Monte Athos, appartengono spiritualmente al patriarcato ecumenico. In Macedonia si è spiritualmente orientati verso il patriarcato ecumenico, ci sono ricordi di famiglia che collegano al patriarcato ecumenico e simili memorie le hanno pure gli ortodossi di lingua slava di Skopje. Chi può privarli del loro ricollegamento con la propria Chiesa madre? Io credo che vi sia un interesse affinché gli ortodossi della FYROM acquisiscano canonicità e prendano il loro posto tra gli ortodossi. Noi ortodossi dei Balcani abbiamo tutti la stessa tradizione ecclesiale, sia quelli di lingua slava che quelli di lingua greca, ed è scandaloso ignorarli con il pretesto che sono scismatici. Credo che il patriarcato ecumenico, dopo la soluzione politica del nome dello Stato, cercherà la soluzione più appropriata.
Quali sono gli aspetti che ritiene più inaccettabili della reazione del patriarcato di Mosca?
Considero inaccettabili le espressioni del metropolita Hilarion contro il patriarca ecumenico. Raggiungono il livello di dispute da strada. Capisco che i cristiani russi abbiano poca esperienza con l’ordine ecclesiastico, nonostante il loro potere secolare, perché hanno trascorso quasi cento anni isolati a causa del loro sistema politico, che nemmeno adesso riescono a lasciare alle spalle. Quando avranno studiato e acquisito un maggiore equilibrio politico, comprenderanno i mali che hanno causato ai loro fratelli di fede. Il popolo russo non deve essere assente dalla famiglia dei popoli ortodossi, né dall’Europa, e le loro azioni unilaterali non sono giustificate, così come non lo sono gli ordini di togliere la comunione persino ai semplici chierici e dei laici. Questo fatto non trova riscontri nella storia della Chiesa ortodossa, nemmeno negli anni di Severo di Antiochia. Mi ricorda il protestantesimo di Calvino a Strasburgo.
Cosa prevede per il futuro, in Ucraina e di riflesso nel mondo ortodosso?
Verrà dato il tomos di autocefalia agli ucraini, che costituiranno la loro Chiesa locale. Spero che tutte le parti mostrino la maturità richiesta per guarire le loro ferite, ma anche per rivendicare le lotte dei loro antenati. Il mondo ortodosso, con la sua struttura gerarchica e i suoi antichi patriarcati, che da secoli vive in un ambiente eterogeneo, porta i segni dei chiodi del martirio e un’eredità di una tradizione ecclesiastica secolare e manterrà i suoi principi, come finora ha fatto seguendo la stessa strada, accondiscendendo ai bisogni degli uomini e alle debolezze dei fratelli.
La Chiesa russa dà l’addio a Costantinopoli
di Fabrizio Dragosei (Corriere della Sera, 16.10.2018)
È senza dubbio la rottura più importante di questi ultimi anni, paragonata addirittura al grande scisma che nel 1054 divise la chiesa d’Occidente e quella d’Oriente. Non solo: la separazione da Costantinopoli decisa ieri dal patriarcato di Mosca dopo un rapido sinodo tenuto a Minsk in Bielorussia, rischia di avere ripercussioni gravissime in Ucraina dove si temono frizioni e scontri tra fedeli. Il pomo della discordia tra i due grandi patriarcati dell’ortodossia è costituito infatti proprio dall’autonomia della chiesa ucraina, posta sotto la giurisdizione di Mosca dalla fine del Seicento.
È dallo scioglimento dell’Urss del 1991 che Kiev preme perché la sua struttura venga riconosciuta indipendente, «autocefala», come si dice. La guerra nel Donbass e l’annessione russa della Crimea hanno fatto precipitare le cose in questi ultimi anni. Così nei giorni scorsi il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, che è la guida spirituale dell’intera ortodossia («primus inter pares», primo fra uguali) ha accolto le richieste ucraine, suscitando l’ira di tutta la Russia. Il patriarca Kirill ha protestato e poi ha parlato con i suoi vescovi e metropoliti a Minsk per arrivare all’annuncio della rottura. Sarebbero vicine alla posizione di Mosca undici delle quindici chiese ortodosse nel mondo, compresi gli antichissimi patriarcati di Gerusalemme, Alessandria e Antiochia.
Il Cremlino, naturalmente, si è subito schierato con il suo clero e questo preoccupa non poco Kiev. Le due chiese di Ucraina (quella autonoma e quella che era invece rimasta sotto Mosca) dovrebbero ora unificarsi, ma già si sa che molti, soprattutto nel Donbass, non vorranno cedere. Cosa succederà alle tante proprietà delle due chiese? Il presidente ucraino Poroshenko ha già messo le mani avanti, assicurando che tutto verrà risolto pacificamente. Ma se così non sarà (e molti ne dubitano), allora il Cremlino potrebbe anche cogliere l’occasione per intervenire. Vladimir Putin ha sempre detto che tra i suoi compiti c’è anche quello di difendere i russi ovunque essi siano sottoposti ad angherie, maltrattamenti o altro. La motivazione che ha giustificato il «sostegno» agli abitanti della Crimea che si sono dichiarati indipendenti e poi hanno chiesto di entrare nella Federazione Russa.
La Chiesa ortodossa verso lo scisma sull’Ucraina
di Giuseppe Agliastro (La Stampa, 15.09.2018)
Uno scisma rischia di spezzare in due la comunità ortodossa mondiale e dividere i suoi 300 milioni di fedeli. L’aspro duello politico-religioso sull’Ucraina potrebbe provocare una frattura insanabile tra il patriarcato di Mosca e quello ecumenico di Costantinopoli. Uno storico passo verso il divorzio lo ha compiuto ieri la Chiesa russa che, di fronte alla minaccia di una Chiesa ucraina indipendente e non più a lei sottoposta, ha deciso di «sospendere temporaneamente ogni contatto» con Costantinopoli, che invece caldeggia l’autonomia. Si tratta di un segnale molto forte.
«Equivale alla rottura dei rapporti diplomatici», ha spiegato il metropolita Ilarion, «ministro degli Esteri» della Chiesa russa. Tanto per cominciare, d’ora in poi il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, non sarà più nominato nelle preghiere in Russia e la Chiesa di Mosca non parteciperà più a concili e incontri presieduti da pastori «rivali». Dietro lo scontro ecclesiastico si cela la politica internazionale. Russia e Ucraina sono ai ferri corti per l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass. Per questo, il governo di Kiev preme da tempo per il riconoscimento di una Chiesa ucraina autonoma da quella di Mosca, che è invece legata a doppio filo al Cremlino e il cui patriarca, Kirill, è un fedelissimo di Putin. In Ucraina ci sono ben tre Chiese ortodosse: una sottoposta a Mosca, un’altra con a capo il patriarca Filarete, che contesta Mosca e si dichiara autonoma, e una terza, la piccola Chiesa autocefala ucraina, su posizioni proprie. Le distinzioni si riflettono in ambito politico. La chiesa subordinata a Mosca auspica forti legami con la Russia. Le altre due guardano invece verso Occidente, ma non sono riconosciute dalla comunità ortodossa internazionale.
La resa alle pressioni di Kiev
Alla fine, il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo ha ceduto alle pressioni di Kiev e, in qualità di primus inter pares tra i capi della Chiese ortodosse di tutto il mondo, ha avviato l’iter per concedere all’Ucraina il «tomos», cioè la tanto agognata autonomia. Lui sostiene che l’unione che nel 1686 assegnò quelle terre all’autorità ecclesiastica di Mosca avesse un carattere «provvisorio».
La Chiesa russa però non ne vuole sapere ed è andata su tutte le furie dopo l’invio a Kiev di due vescovi di Costantinopoli per «preparare l’autocefalia». «Si tratta di un’invasione brutale del nostro territorio canonico», ha tuonato il portavoce Vladimir Legoyda. Ilarion ha invece lanciato un vero ultimatum: o Bartolomeo torna sui suoi passi o la scissione sarà inevitabile e addio status di primo tra i pari.
SCHEDA EDITORIALE *
Vasile Alexandru Barbolovici
Il Concilio di Ferrara - Firenze (1438-1439)
Storia ed ecclesiologia delle Unioni.
Presentazione di Virgil Bercea. Introduzione di Cesare Alzati
Descrizione
Il concilio aperto a Ferrara l’8 gennaio 1438 e trasferito l’anno dopo a Firenze proclama l’unione fra la Chiesa greca e quella latina, un accordo che dura sino alla presa di Costantinopoli, nel 1453, e viene rotto ufficialmente da un concilio della Chiesa greca poco meno di vent’anni dopo.
Questo volume si propone di indagare dal punto di vista storico ed ecclesiologico le unioni che si sono verificate dopo il concilio ferrarese-fiorentino. In particolare, la ricerca si sofferma sulla prima grande unione dei ruteni del 1595, conosciuta anche come Unione di Brest, e sull’unione della Chiesa romena ortodossa della Transilvania (1697-1700). Questo avvenimento ha portato alla riscoperta delle radici latine, alla comunione ecclesiastica con la Sede di Pietro e alla nascita di un movimento illuminista che ha suscitato, nel tempo, la nascita di un solo Stato per i romeni delle province di Moldova, Valacchia e Transilvania.
Dal punto di vista ecclesiologico il processo di unione della Chiesa ortodossa romena della Transilvania si compie con il Concilio Vaticano II, che con il documento sulle Chiese cattoliche orientali "Orientalium Ecclesiarium" riconosce le comunità cattoliche orientali come vere Chiese.
Sommario
Sigle e abbreviazioni. Presentazione (V. Bercea). Unio / Уния. Tra realtà storica e ideologie ecclesiastiche (C. Alzati). Premessa. Introduzione. I. L’Europa dell’est tra Roma e Bisanzio fino al concilio di Firenze (1439). II. L’Unione fiorentina del 1439 e le sue conseguenze tra i romeni. III. Le diverse unioni e le loro motivazioni. IV. Il concilio di Firenze e la sua ecclesiologia. V. Le unioni tra difficoltà e resistenze. VI. Il fondamento delle unioni: la tensione all’unità. VII. Il concilio Vaticano II e l’Oriente cattolico. La storia del decreto Orientalium Ecclesiarum del concilio Vaticano II. Conclusione. Bibliografia.
Note sull’autore
Vasile Alexandru Barbolovici, prete romeno greco-cattolico, è dottorato in Teologia con una specializzazione in Studi ecumenici. È vicario generale per la pastorale dei romeno greco-cattolici del Nord Italia e collabora con la rivista Colloquia Mediterranea.
* RECENSIONE (AVVENIRE). Scrive nella Presentazione di questo bel libro Virgil Bercea, vescovo dell’eparchia di Oradea, in Romania: Sin dai tempi apostolici sono esistite frazioni settarie che hanno generato scismi e vere ferite nel Corpo mistico di Gesù Cristo... la storia delle istituzioni ecclesiali - la storia della Chiesa - è una lunga catena dello sfaldarsi dell’unità dei cristiani, ma anche di tentativi di riconciliazione e di rifare questa unità (Maurizio Schoepfelin).
Federico La Sala
Teologia
Guido Bartolucci (Paideia) analizza l’opera di uno dei maggiori esponenti del filone umanista fiorentino
E Marsilio Ficino recuperò la spiritualità ebraica
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, 12.04.2018)
È ormai diventato un luogo comune l’affermazione secondo cui le radici della civiltà europea sarebbero, al tempo stesso, greco-latine, cristiane ed ebraiche.
È anche possibile individuare il momento preciso in cui si è costituita questa triplice eredità nella forma in cui ancora oggi la conosciamo. Essa è infatti il frutto della riscoperta, accanto a quella dei classici, della tradizione ebraica ad opera degli umanisti fiorentini del XV secolo, tra cui spicca il pensatore Marsilio Ficino. È costui, infatti, che per primo propone la conciliazione non solo tra la filosofia greca, specie quella platonica, e il cristianesimo, ma anche con il più antico strato della sapienza ebraica risalente ai patriarchi, che Ficino ritiene di ritrovare in alcuni elementi della qabbalah medievale.
L’interesse di Marsilio, osserva Guido Bartolucci nel libro Vera religio (Paideia), nasceva dal tentativo di ripensare la tradizione teologica e spirituale cristiana, di cui si avvertivano nitidamente i segni di una crisi destinata ad esplodere drammaticamente nel secolo successivo. Al momento, però, prevaleva ancora l’idea che un rinnovamento della Chiesa fosse possibile e che a questo fine la dimensione intellettuale potesse risultare decisiva.
Così, di lì a poco sarà Pico della Mirandola a sviluppare appieno l’idea di una originaria sapienza (la prisca theologia) di cui il cristianesimo rappresenta certo il culmine, ma cui a buon diritto appartengono anche ebraismo e classicità.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE. Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale (...)
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI
Federico La Sala
La storia
Bisanzio brucia nella crociata dimenticata
Nel 1204, due secoli prima di cadere in mano turca, Costantinopoli fu presa dai “fratelli” latini. Parte del suo patrimonio di arte e cultura passò a Venezia. Ora nuovi studi ricostruiscono quell’episodio drammatico
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 17.03.2018)
Il 13 aprile 1204, in una fredda giornata di primavera, una colonna di profughi dall’aspetto di fantasmi si incamminò fuori dalla grande città di Costantinopoli. Era “gente vestita di stracci, emaciata dal digiuno, trascolorata, cadaverica, con gli occhi così rossi che parevano colare sangue anziché lacrime”.
Erano stati torturati, depredati delle loro case e dei loro beni, avevano visto rapite le loro mogli, violentate le loro figlie. Non erano stati i turchi a compiere quello scempio, come sarebbe accaduto due secoli e mezzo dopo, nel 1453.
Erano stati i crociati occidentali. E non era contro gli infedeli che lo avevano portato, ma contro i loro correligionari, i bizantini.
La ferocia di quella singolare guerra santa ebbe tra i suoi testimoni oculari il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici dello Stato più prospero del medioevo: lo storico Niceta Coniata, massimo intellettuale della sua generazione, segretario del basileus fino a poco prima in trono ma anche suo indomabile critico, pensatore indipendente e non certo corifeo del potere, della cui opera è ora stata completata dalla Fondazione Lorenzo Valla l’edizione italiana (Grandezza e catastrofe di Bisanzio - Narrazione cronologica, traduzione di A. e F. Pontani, testo greco a cura di J.-L. van Dieten, introduzione di G. Cavallo, Fondazione Valla Mondadori, tre volumi).
Come ha scritto Steven Runciman, le crociate furono “le ultime invasioni barbariche”. I “barbari”, nelle frasi di Niceta, non sono gli islamici, che anzi i bizantini difesero strenuamente quando fu attaccata la locale moschea, ma quell’“accozzaglia di stirpi oscure e disperse” che erano gli eserciti latini, quei “precursori dell’Anticristo” che “portavano la croce cucita sulle spalle” e che in quei giorni di aprile del 1204 avevano devastato la culla stessa dell’impero romano cristiano, la città che ne custodiva da nove secoli l’identità religiosa oltre che l’eredità artistica, culturale, bibliografica così come la vocazione politica: un modello di Stato multietnico, meritocratico e sostanzialmente egualitario, dotato di una struttura diplomatica rivolta, come l’aquila bicipite, tanto a oriente quanto a occidente.
I profughi che si incamminavano “come una colonia di formiche” stanata dal fuoco avevano assistito al “più grande saccheggio della storia del mondo”, come lo definì lo stesso cronista francese Goffredo di Villehardouin che vi aveva partecipato al seguito di Bonifacio di Monferrato. Le atrocità perpetrate dai cavalieri della quarta crociata sono testimoniate non solo dagli storici bizantini ma anche dai cronisti occidentali, nonché dal papa che l’aveva indetta, Innocenzo III, inorridito nel suo epistolario.
La Città traboccava di capolavori d’arte e di inestimabili libri. Ma ad attrarre gli incolti latini era il fatto che, secondo i loro calcoli, contenesse i due terzi delle ricchezze del mondo conosciuto. Portarono “abominio e desolazione” nel Sacro Palazzo del Boukoleon, coprirono di sterco i marmi policromi della Grande Chiesa di Santa Sofia. Si precipitavano furiosi e urlanti per le strade distruggendo ogni cosa non apparisse trasportabile, fermandosi solo per trucidare gli abitanti e per spalancare le cantine e dissetarsi con il loro vino. Non risparmiarono monasteri, né chiese, né antichi monumenti, lasciarono bruciare gli archivi e le biblioteche. Una parte dei classici greci oggi perduti sarebbe arrivata fino a noi, non fosse stato per quella vandalica insipienza. Nel viaggio degli antichi testi la presa di Costantinopoli del 1204 segnò un naufragio paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria.
Ciò che i veneziani non portarono a casa i francesi distrussero. I cavalli di bronzo dorato dell’Ippodromo sono oggi noti come Cavalli di San Marco, altre inestimabili opere d’arte formano il ricco bottino oggi conosciuto come Tesoro di San Marco. Ma le altre antiche statue bronzee dell’Ippodromo e quelle del Foro di Costantino furono fatte a pezzi e fuse. Nella stessa Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi saccheggiare le reliquie, strappare i paramenti, svellere le suppellettili, calpestare i libri sacri e le icone, dilaniare gli arazzi.
L’orrore continuò per giorni, finché la capitale dell’ortodossia fu ridotta, scrivono i testimoni, a un macello. Perfino i saraceni, annotò Niceta, sarebbero stati più misericordiosi: “Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”, lamenta alla fine della sua opera.
La presa latina di Costantinopoli del 1204 è l’esempio più notevole di quella cruda verità economica delle crociate di cui, al di là dell’ideologia o della retorica confessionale, un libro dello storico oxfordiano Christopher Tyerman, in uscita in traduzione italiana, spiega in dettaglio mentalità, pragmatismo, finalità materiale e obiettivi strategici (C. Tyerman, Come organizzare una crociata, Utet). Si parla di “deviazione” della Quarta Crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli gli alleati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica al posto di quella ortodossa e insediando sul soglio patriarcale un veneziano.
L’alleanza della Realpolitik dei papi di Roma con l’Europa dei traffici, del protocapitalismo delle repubbliche mercantili, portò, con il successivo aiuto dei turchi, alla distruzione di una realtà politica che aveva garantito per secoli benessere e pace governando i conflitti fra le diverse etnie in un immenso territorio unificato dalla lingua greca, dalla religione cristiana, dal diritto romano, dominato da un formidabile sistema di pubblica istruzione e di cooptazione nelle burocrazie che assicurava il dinamismo delle élite e il loro costante ricambio sociale.
Per cinque giorni Niceta, la moglie incinta e il loro gruppo di amici dell’intelligencija costantinopolitana rimasero nascosti. Poi anche loro dovettero sfollare strisciando per i vicoli, i bambini piccoli in spalla, il viso delle ragazze mimetizzato col fango, in direzione della Porta d’Oro. Appena superate le sue torri, Niceta si gettò a terra e inveì contro le grandi mura di Teodosio: perché si reggevano ancora dritte in piedi? non vedevano che la civiltà che custodivano era finita? Poi, “gettando lacrime come semi” lungo la loro strada, si incamminarono per ricongiungersi al resto degli esuli e al governo in esilio insediato a Nicea, in Asia Minore.
Ma quella che Niceta, partito da Costantinopoli con in mano solo il suo manoscritto, pianse come un’irrimediabile fine si rivelò un inizio. Per più di cinquant’anni l’impero di Nicea coltivò non solo la resistenza politica ma anche quella culturale, ricreando un sistema scolastico e universitario, proseguendo la produzione libraria. Quegli intellettuali avevano imparato una lezione: i barbari esistevano. Non erano i popoli che si diceva avessero fatto cadere l’impero romano d’occidente, diversamente da quello d’oriente, che era stato invece capace di assimilarli e accoglierli nella sua classe dirigente. -Erano i figli del feudalesimo, che il sistema statale di Bisanzio aveva sempre combattuto, e di quel “satanico spirito del commercio”, per citare Baudelaire, da sempre incompatibile con la mentalità bizantina, dove la diffidenza dei cittadini verso il mercato e il rifiuto delle premesse etiche della mercatura espresso dagli intellettuali si univa alla condanna teologica del profitto e del lucro.
Anche dopo la riconquista del 1261 e l’insediamento della nuova dinastia dei Paleologhi, la guerra tra banchieri - genovesi e veneziani - continuerà a devastare economicamente e militarmente Bisanzio, a scarnificare quell’istmo culturale e strategico tra oriente e occidente. Ma per quanto cieche possano essere le strategie finanziarie e belliche, gli intellettuali possono sempre, discretamente, mobilitarsi.
Sempre di più si affermerà, tra i protagonisti della cosiddetta rinascenza paleologa, la coscienza dell’insopprimibilità di un’arma incruenta: la cultura. Il duello dei governanti, il risentimento delle masse, lo scontro delle chiese saranno trascesi da una simmetrica e inversa, silenziosa e superiore solidarietà tra umanisti orientali e occidentali. Sarà l’inizio di quella sempre più fitta circolazione di maestri e libri, liberamente scambiati dall’internazionale dei dotti, che darà vita a ciò che chiamiamo “il” rinascimento.
L’antica cultura oltraggiata dai crociati conquisterà la loro stessa patria, la loro stessa curia, la stessa repubblica di Venezia, dove sorgerà, per volere di un umanista bizantino, Bessarione, la prima biblioteca pubblica della storia occidentale moderna. Da Bisanzio verranno e si metteranno all’opera, alacri, i copisti. Nascerà la stampa e non uno ma dieci, cento, mille libri sorgeranno sulle ceneri di quelli distrutti, insieme alle vite dei loro possessori, nella primavera del 1204.
Claudio Moreschini,
Rinascimento cristiano. Innovazioni e riforma religiosa nell’Italia del Quindicesimo e Sedicesimo secolo,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017 *
INDICE DEL VOLUME
Prefazione ................................................................................................ VII
Parteprima
Difesa del Cristianesimo
I. Gianfrancesco Pico della Mirandola tra Savonarola e Giovanni Pico........................3
II. Francesco Zorzi: Teologia e cosmogonia .............................................................71
III. L’autenticità del Corpus Dionysianum: contestazioni e difese........................95
Parte Seconda
Aspetti della poesia cristiana
I. La poesia ermetica e cristiana di Ludovico Lazzarelli: i Fasti Christianae Religionis.....143
II. La poesia di Gian Francesco Pico della Mirandola ........................ 163
III. La riscrittura cristiana di un testo ‘poetico’: Francesco Zorzi e il Cantico dei Cantici..... 219
Parte terza
Le tradizioni teosofiche antiche si inverano nella religione cristiana
I. Cristianesimo e tradizione ermetica .............................................................. 231
II. La tradizione caldaica ..................................................................................265
III. La tradizione (neo)platonica ..........................................................................295
Appendice
Ioannes Francisci Pici Mirandulae domini Concordiaeque Com. Hymnus ad Sanctiss. Trinitatem. Con traduzione a fronte ..... 344
Indice dei nomi .......................................................................................365
* SCHEDA EDITORIALE. - STORIA E LETTERATURA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. il sogno del "regno di dio" in un solo Paese è finito... *
Nel nuovo “Credo” la chiesa del dialogo
Al patriarca Bartholomeos verrà donata oggi una diversa traduzione della preghiera che supera le divisioni fra Occidente e Oriente
di Alberto Melloni (la Repubblica, 13.09.2017)
Mancano otto anni (sembra tanto, ma è il tempo dedicato all’attesa del grande giubileo) al centenario del concilio di Nicea del 325. Il primo detto “ecumenico”. Quello che con la sua “esposizione della fede” (“il Credo” diciamo noi) ha segnato la storia cristiana facendo della sinodalità una esperienza che certo non appartiene alla “essenza” della Chiesa, ma è lo strumento con cui essa cerca di restare fedele al Vangelo nel tempo.
Quel concilio doveva garantire a Costantino l’unità dottrinale dell’impero e sedare un conflitto teologico lacerante sul modo di pensare Dio e dunque sul modo di pensare la natura del potere. La teologia di Ario, infatti, affermava una ineguaglianza fra il Padre e il Figlio: non era una quisquilia per teologi, ma la tesi che avrebbe permesso ad ogni potere di sacralizzare il proprio sistema discendente di dominazione come specchio dell’ordine divino. Il concilio, invece, fece la scelta più difficile: e disse che al cuore del mistero di Dio vi è la relazione e fece della dottrina trinitaria il cuore della fede cristiana.
La «esposizione della fede dei 316 padri» approvata a Nicea fu ampliata nel successivo concilio di Costantinopoli ed è diventata parte della vita liturgica di tutte le chiese cristiane fino ad oggi. Essa ha assorbito una questione che ha pesato come un macigno nei rapporti fra Oriente e Occidente. Il simbolo niceno-costantinopolitano, infatti, non ammetteva ritocchi. La sua immobilità segnalava un paradosso: per dire ciò che è essenzialissimo alla fede di e in Gesù servono parole e organi (il credo e il concilio) a lui ignote.
Ciò nonostante l’Occidente introdusse nella versione latina del Credo, le parole “e dal Figlio” - il Filioque - là dove i padri costantinopolitani aveva detto che lo Spirito si avventura (l’ekporesis è il cammino di chi lascia una città) procedendo “dal Padre”. Una addizione d’origine iberica che l’Occidente difese spiegando che significava “attraverso il Figlio”, lasciando dunque intatta la fede nicena. E che invece molti Orientali considerarono o considerano intollerabile: fino a giudicare i patriarchi che hanno abbracciato il papa come troppo indulgenti verso “l’eretico di Roma”.
Fatto sta che il Filioque è stato oggetto di conflitto, ora attutito ora riacutizzato: ma è anche un’occasione per chiedersi come l’Occidente tradurrebbe oggi nelle lingue vive il testo greco del simbolo. Non certo per illudersi di aggirare l’ostacolo della divisione con una furbizia filologica, ma per chiedersi quale sia il nesso che esiste fra il male del mondo, condannato dalle chiese con giusta energia, e la loro divisione, troppo spesso derubricata a questione tecnico-teologica. Così diciotto secoli dopo, il Credo domanda alle chiese se hanno memoria o meno dell’unità di fede - premessa che decide della celebrazione comune dell’eucarestia - che quel testo enunciava.
L’Occidente infatti s’è legato a una traduzione latina, che ha il Filioque e che soprattutto organizza in strofe a cui il canto aggiunge un po’ di trionfalismo tonale. Ma non ha mai perso il testo greco, con una metrica interna tutta diversa e del quale la Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto, da ultimo con un atto del 1995 della Santa Sede, la intangibilità.
L’Occidente dunque ha conservato il diritto di recitare il Credo in greco (lo hanno fatto anche i papi) e anche quello di tradurlo: specie ora, in una liturgia fatta di lingue vive, che nascono da traduzioni sulle quali il papa ha ridato da pochi giorni alle conferenze episcopali e ai vescovi i poteri che loro competono.
Da questa constatazione deriva l’ipotesi o l’esperimento di una traduzione - che come insegna Tullio Gregory è il ponte da cultura a cultura - del Credo: una traduzione nuova, “dal basso”, e come si vedrà, desiderosa di conservare in una sola parola ciò che il greco dice in una parola, anche a costo di alterare la memorizzazione oggi più diffusa. È stata confezionata in occasione della visita che il Patriarca Ecumenico Bartholomeos farà oggi a Bologna, e alla fondazione dove Giuseppe Alberigo e Giuseppe Dossetti hanno seminato l’amore per lo studio e per i concili: non è una proposta, è un dono.
Ruminata per molto tempo fra alcuni dotti, discussa con una filologa del calibro di Silvia Ronchey, nota a pochissime ma autorevoli figure delle chiese d’Oriente e d’Occidente, questa traduzione lascia il Credo latino alla sua storia: e cerca di far rivivere le rime nascoste della fede comune e il battere di quell’“uno” che sembra un ritornello: il Dio uno, il Figlio uno, la chiesa una, il battesimo uno.
A otto anni dal centenario di Nicea si contenta di dire che scoprire l’unità della fede vissuta dalle chiese e la sinodalità che ha permesso loro di conservare la fedeltà al vangelo sono ancora lì, come un eredità, come un traguardo, come un seme di pace di cui il mondo battuto dalla violenza attende i germogli.
Crediamo in un Dio Uno Padre, Onnipotente, Fattore del cielo e della terra, dei visibili e degli invisibili
E [crediamo] in un Signore Uno, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Unigenito, il Generato dal Padre prima di tutti i secoli, [Dio da Dio], luce da luce, Dio vero da Dio vero generato non fatto, consustanziale al Padre per mezzo del quale tutto fu creato.
Lui [che] per noi, gli uomini, e per la salvezza nostra discese dai cieli e s’incarnò di Spirito Santo e da Maria Vergine s’inumanò.
Il Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, Lui [che] morì e fu sepolto e risorse il terzo giorno, secondo le Scritture e ascese nei cieli, e intronizzato alla destra del Padre e di nuovo tornerà nella gloria giudicante i vivi e i morti, Lui, il cui Regno non avrà fine.
E [ crediamo] nello Spirito Santo il Signore e il Vivificante che si diparte dal Padre e con il Padre e il Figlio il Conadorato e Conglorificato il Parlante per mezzo dei Profeti.
[Crediamo] la chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica
Confessiamo un battesimo Uno per la remissione delle colpe, attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del secolo futuro
Amen.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Francesco e Bartolomeo: che Dio ci aiuti a salvare la sua creazione
Il Papa e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli firmano insieme il messaggio in occasione della Giornata di preghiera per la Salvaguardia del creato. Ricordano che i primi a pagare le devastazioni ambientali sono «i popoli più vulnerabili» e quelli che vivono in povertà «in ogni angolo del mondo». Appello ai potenti: non ci può essere soluzione alla crisi ecologica se la risposta non è concertata e collettiva
di Gianni Valente (La Stampa, 01/09/2017)
Città del Vaticano. La terra ci è stata affidata dal Creatore come un dono mirabile. Ma lo «scenario moralmente decadente» che segna la storia del mondo si è manifestato anche nel nostro «insaziabile desiderio di manipolare e controllare le limitate risorse del pianeta», cedendo all’ingordigia per i «profitti illimitati» promessi dal mercato. Così ci siamo allontanati dal «disegno originale della creazione», e i primi a fare le spese di questo tradimento del disegno di Dio sono quelli che «vivono poveramente in ogni angolo del globo». Per questo serve pregare Dio per ringraziarlo del dono della Creazione, ma anche per chiedere a lui di sostenere l’impegno per la cura e la protezione del Creato. E occorre anche che chi ha responsabilità politiche, economiche e sociali ascolti «il grido della terra» e la supplica dei milioni che implorano la guarigione del «creato ferito».
Non è un semplice manifesto green, ma un vero grido di preghiera il messaggio che Papa Francesco e il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I hanno sottoscritto insieme per chiedere a «tutte le persone di buona volontà» di dedicare tempo a pregare per l’ambiente venerdì 1° settembre, Giornata mondiale di preghiera per la Cura del Creato. Il testo, che del primo settembre porta anche la data, era stato anticipato ieri in una traduzione italiana curata dall’agenzia Asia News, rilanciata quasi integralmente dall’Ansa.
Il Successore di Pietro e il Successore di Andrea invitano a riconoscere che le vicende del mondo si intrecciano col mistero della creazione e col mistero della natura umana, ferita dal peccato originale. E nel contempo - e forse proprio per questo - suggeriscono anche uno sguardo critico originale sul modello di sviluppo trionfante e sulle responsabilità di ha il potere.
Un dono tradito
La Sacra Scrittura - sottolineano Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo nelle prime righe del loro messaggio - rivela che fin dal principio Dio volle che l’umanità cooperasse nelle custodia e nella protezione del creato. «All’inizio, come leggiamo in Genesi (2,5), “nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo”. La terra ci venne affidata come un dono sublime e come eredità della quale tutti condividiamo la responsabilità finché, “alla fine”, tutte le cose in cielo e in terra saranno ricapitolate in Cristo».
Ma a dispetto di questo disegno buono, la storia del mondo ha fatto emergere uno contesto diverso, segnato da «uno scenario moralmente decadente», dove l’attitudine degli uomini verso il creato ha progressivamente oscurato la vocazione degli uomini a essere «collaboratori di Dio». La pulsione a spezzare i «delicati ed equilibrati ecosistemi del mondo», l’insaziabile desiderio «di manipolare e controllare le limitate risorse del pianeta, l’avidità nel trarre dal mercato profitti illimitati: tutto questo ci ha alienato dal disegno originale della creazione». Adesso - proseguono Bartolomeo e Papa Francesco - «non rispettiamo più la natura come un dono condiviso; la consideriamo invece un possesso privato. Non ci rapportiamo più con la natura per sostenerla; spadroneggiamo piuttosto su di essa per alimentare le nostre strutture».
Pagano i poveri
Le conseguenze di questo processo di alienazione - si legge nel messaggio sottoscritto da Papa Bergoglio e dal Patriarca ecumenico - sono «tragiche e durevoli. L’ambiente umano e quello naturale si stanno deteriorando insieme, e tale deterioramento del pianeta grava sulle persone più vulnerabili. L’impatto dei cambiamenti climatici si ripercuote, innanzitutto su quanti vivono poveramente in ogni angolo del globo. Il nostro dovere a usare responsabilmente dei beni della terra - scrivono Papa e Patriarca - implica il riconoscimento e il rispetto di ogni persona e di tutte le creature viventi. La chiamata e la sfida urgenti a prenderci cura del creato costituiscono un invito per tutta l’umanità ad adoperarsi per uno sviluppo sostenibile e integrale ».
Il Signore e il cuore dei potenti
Davanti allo scenario descritto, i due pastori cristiani, uniti anche «dalla medesima preoccupazione per il creato di Dio, e riconoscendo che la terra è un bene in comune», invitano con fervore tutte le persone di buona volontà «a dedicare, il 1° settembre, un tempo di preghiera per l’ambiente». Una preghiera per ringraziare «il benevolo Creatore per il magnifico dono del Creato», ma anche per chiedergli di sostenere un rinnovato impegno per la cura e la preservazione di quel dono: «Alla fine, sappiamo che ci affatichiamo invano se il Signore non è a nostro fianco».
A Dio, Bartolomeo e Papa Francesco chiedono di cambiare il modo con cui gli uomini si relazionano con il mondo. E la preghiera rivolta a Dio, affinché tocchi i cuori di tutti, è implicitamente connessa all’appello che Papa Francesco e Bartolomeo, nel loro messaggio, rivolgono a chi gestisce il potere: « Noi rivolgiamo, a quanti occupano una posizione di rilievo in ambito sociale, economico, politico e culturale» scrivono i due pastori «un urgente appello a prestare responsabilmente ascolto al grido della terra e ad attendere ai bisogni di chi è marginalizzato, ma soprattutto a rispondere alla supplica di tanti e a sostenere il consenso globale perché venga risanato il creato ferito. Siamo convinti - aggiungono - che non ci possa essere soluzione genuina e duratura alla sfida della crisi ecologica e dei cambiamenti climatici senza una risposta concertata e collettiva, senza una responsabilità condivisa e in grado di render conto di quanto operato, senza dare priorità alla solidarietà e al servizio».
La sollecitudine del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli per la cura del creato si è accresciuta con manifestazioni più accentuate a partire dalla fine dagli anni Ottanta del secolo scorso. È la prima volta che Papa e Patriarca co-firmano una dichiarazione comune sull’ambiente, ma il Patriarcato di Costantinopoli già nel 1989 ha fissato al 1° settembre la Giornata di Preghiera per la salvaguardia della natura. Anche per questo appare fuori luogo ogni lettura dell’appello di Papa Francesco e Bartolomeo come strumento di polemiche politiche di corto respiro.
Nel settembre 1995, intervenendo al simposio internazionale su “Apocalisse e Ambiente”, organizzato dallo stesso Patriarcato ecumenico e dal Wwf, Bartolomeo già aveva invitato uomini di Chiesa e scienziati a dialogare sulla questione ambientale, pur ribadendo che su questo terreno «le esortazioni moraleggianti in nome del bene comune hanno scarsa utilità». Nella sensibilità ortodossa, oggi abbracciata con tanto entusiasmo da Papa Francesco, anche la devastazione del creato è un segno della generale dimenticanza del Mistero che fa tutte le cose. Così come l’amore vero ai doni della creazione appare connaturale a chi «diviene una nuova creatura in Cristo»
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL. Un’intervista a John Chryssavgis di Chiara Santomiero
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
Papa Francesco in Messico, a Cuba storico incontro con il patriarca Kirill
parlato come fratelli, io felice E rivela un retroscena,"ne parlai a Raul Castro già a settembre"
di Fausto Gasparroni *
"Con Kirill è stata una conversazione di fratelli. Abbiamo parlato con tutta franchezza. Sono rimasto felice". Sentir raccontare lo storico colloquio col patriarca di Mosca e di tutte le Russie direttamente dalla voce del Papa: tale la gioia e l’entusiasmo di Francesco per l’avvenuto incontro, che il Pontefice ne ha voluto fare partecipi i giornalisti subito dopo, durante il volo che dall’Avana lo ha portato a Città del Messico.
"Voglio dirvi i miei sentimenti - ha esordito Bergoglio -. Prima di tutto i sentimenti di accoglienza e disponibilità del presidente Raul Castro". Il Papa ha rivelato anche un retroscena della preparazione dell’incontro con Kirill. "Io avevo parlato col presidente Castro di questo incontro l’altra volta (nella sua visita dello scorso settembre, ndr) ed era disposto a fare tutto - ha raccontato -. E lo abbiamo visto: ha preparato tutto per bene. Per questo vorrei ringraziarlo".
"Secondo, col patriarca Kirill, è stata una conversazione di fratelli - ha proseguito -. Punti chiari, che ci preoccupano tutti e due. Ne abbiamo parlato con tutta franchezza. Io mi sono sentito davanti a un fratello. E anche lui mi ha detto lo stesso". "Due vescovi - ha spiegato il Pontefice - che parlano delle situazioni delle loro chiese. Poi della situazione del mondo, delle guerre, guerre che adesso si rischia non essere più tanto ’a pezzi’, ma che coinvolgono il mondo". Poi "della situazione dell’ortodossia, del prossimo sinodo pan-ortodosso".
L’ABBRACCIO TRA FRANCESCO E KIRILL
"Ma io vi dico davvero - ha ribadito il Papa -, io sentivo una gioia interiore, una gioia del Signore. Lui parlava liberamente e anche io parlavo liberamente. Si sentiva la gioia, i traduttori erano bravi, tutti e due". Bergoglio ha confermato che "è stato un colloquio a sei occhi: il patriarca Kirill e io, sua eminenza il metropolita Hilarion e il cardinal Koch, e i due traduttori. Ma con tutta libertà: parlavamo noi due, gli altri facevano qualche battuta". Terzo punto. "Si è fatto un programma di possibili attività in comune - ha annunciato Francesco - perché l’unità si fa camminando. Una volta io ho detto che l’unità si fa nello studio, nella teologia, ma verrà il Signore e noi saremo ancora lì a costruire l’unità". "L’unità si fa camminando - ha ripetuto -, che almeno il Signore ci trovi che stiamo camminando". Dopo le due ore di colloquio, "noi abbiamo fatto questa dichiarazione che avete in mano", ha quindi aggiunto il Papa. "Ci saranno tante interpretazioni, tante", ha pronosticato, "se c’è qualche dubbio padre Lombardi potrà dire il significato della cosa". "Non è una dichiarazione politica - ha rimarcato Francesco -, non è una dichiarazione sociologica, è una dichiarazione pastorale. Anche quando si pala di secolarismo, di cose chiare, la manipolazione biogenetica, è pastorale, di due vescovi che si sono incontrati con preoccupazione pastorale. Io sono rimasto felice". E adesso, ha concluso con un sorriso pensando all’arrivo a Città del Messico, "mi aspettano 23 chilometri di ’papamobile’ aperta".
* ANSA, 13 febbraio 2016 (ripresa parziale).
La rivoluzione cristiana a Cuba
Il Papa e il Patriarca. Il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa in uno storico incontro oggi all’Avana, luogo "neutro" scelto non certo a caso. Saranno loro due a salvare il mondo da fondamentalismi e turbocapitalismi?
di Franco Cardini (il manifesto, 12.02.2016)
Diciamola tutta: non è un annunzio di quelli che possono lasciare indifferenti. Nel novembre 2014, conversando con i giornalisti in aereo durante il viaggio di ritorno dalla Turchia, papa Francesco aveva risposto a un giornalista che gli aveva domandato qualcosa a proposito di un probabile incontro con il patriarca moscovita Kirill: «Gli ho detto: - Io vengo dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vengo -; e anche lui ha la stessa volontà».
Ora, il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa stanno per incontrarsi, oggi 12 febbraio, molto lontano dalle loro rispettive sedi: all’aeroporto dell’Avana, in Cuba, un luogo che papa Bergoglio già conosce per esservi stato trionfalmente accolto pochissimo tempo fa; un’isola caraibica abitata da discendenti di coloni spagnoli e di schiavi africani, un popolo che parla il medesimo idioma della “sua” Argentina, nella “sua” diletta America latina. Una periferia tra le periferie, di quelle che secondo il pontefice sono particolarmente adatte a comprendere e a farci comprendere il mondo nel quale viviamo.
Cuba ha conosciuto mezzo millennio di dominazione spagnola e più di mezzo secolo di “libertà” dominata in modo quasi coloniale dagli Stati Uniti, un triste periodo di brutali dittature e di pesante corruzione che l’avevano trasformata nella bisca e nel bordello dei Caraibi; quindi, l’oltre mezzo secolo di austero e sotto molti aspetti eroico regime socialista insidiato da un embargo disumano che non lasciava passare nemmeno le merci destinate a scopi umanitari ma durante il quale - nonostante la limitazione di certe libertà, la religiosa inclusa - l’isola è riuscita a porsi ad avanguardia e ad esempio di sviluppo civile, culturale e sanitario.
Cuba è povera: ha le sue piantagioni di canna da zucchero e il suo pregiato rum, quelle di tabacco e i suoi celeberrimi sigari, un po’ di buon caffè e un po’ di rame; e vuole restare sobriamente povera, autolimita lo sviluppo industriale, ha espresso una saggissima legge che impedisce l’inquinamento dei suoi fiumi dove la navigazione a motore è vietata e che sono quindi dei veri e propri paradisi naturali. Ma produce una ricchezza straordinaria, che in questi decenni ha esportato in tutta l’America latina procurandosi in cambio il petrolio e altre merci indispensabili: le sue università, di eccellente livello (è uno dei paesi al mondo con la più forte densità di laureati) sfornano medici e insegnanti che poi lavorano, stimati e apprezzati, nell’intero continente. Un articolo di esportazione pregiatissimo.
Cuba è un paese di gente onesta e ordinata, dignitosissima anche nei suoi pur numerosi mendicanti che lo stato si sforza di reprimere con metodo e rigore, ma senza usare violenza.
La migliore cucina russa
D’altra parte, oltre mezzo secolo dopo la famosa crisi che per un pelo non fece scoppiare la terza guerra mondiale, i cubani non hanno dimenticato l’appoggio sovietico che per molto tempo ha consentito loro di far fronte all’embargo. Forse non rimpiangono il sogno sinistro della “cittadella” nucleare che avrebbe dovuto sorgere nell’estremo ovest dell’isola, e il profilo degli scheletri delle cui spettrali cupole abbandonate si nota ancora da lontano, circondato da un deserto di abitazioni in cemento armato degno della periferia staliniana di Mosca.
Però ricordano con simpatìa, quasi con affetto, i loro vecchi alleati: non è raro incontrare gente di mezza età che parla ancora un discreto russo; e sul Malecón, il Lungomare che collega il centro della città alla fortezza spagnola dominante il porto e che ora comincia a rifiorire dopo il forzato abbandono di tanti begli edifici che l’embargo rendeva impossibile restaurare, una grande bandiera rossa con tanto di falce e martello svetta sul palazzo che ospita il «Restaurante sovietico» nel quale si servono ancora i tipici piatti della migliore cucina russa.
A Cuba, come in molte altre regioni latinoamericane, esiste una fiorente comunità russo-ortodossa (non crediate che cose del genere siano esclusive degli Stati Uniti, come abbiamo imparato dal Cacciatore di Michael Cimino): proprio nel centro della città, accanto a una celebre rivendita di rum, una chiesa ortodossa nuova di zecca con le mura immacolate di calce e la cupola dorata reca ben in vista, sul frontone, una lucente targa di rame nella quale si ringrazia il presidente Vladimir Putin per un generoso finanziamento.
Si sa per certo che nel maggio scorso Raúl Castro, incontrando Putin e il patriarca Kirill a Mosca, aveva esternato a entrambi - su richiesta di papa Francesco - il desiderio del vescovo di Roma, cui egli deve tanto per il “disgelo” con gli Usa, d’incontrarsi con il capo degli ortodossi russi; e che in seguito, ospite del papa a Santa Marta, gliene aveva riferito.
Queste prospettive diplomatiche, mentre a Cuba nel rinnovato clima di collaborazione con il governo le autorità ecclesiastiche acquistano sempre più peso, appaiono di speciale importanza alla vigilia delle elezioni statunitensi del prossimo novembre.
Ted Cruz e Marco Rubio
Per quanto ne appaia poco importante la vittoria, si profila una qualche ipotesi che la Casa bianca - anziché dai due principali contendenti, Trump e la Clinton - possa venir occupata da un cattolico d’origine cubana figlio di rifugiati politici anticastristi. Se Ted Cruz o Marco Rubio diventassero presidenti, che cosa prevarrebbe in loro, l’affetto per la madrepatria d’origine oppure l’anticastrismo, probabilmente forsennato, succhiato con il latte materno?
Tutto ciò potrebbe influire in modo determinante sul carattere del “disgelo” tra Washington e L’Avana: un disgelo che a Cuba è atteso con speranza e apprensione poiché si teme che, insieme con l’acqua sporca del bagnetto, cioè quel che resta del regime monopartitico, il «ritorno della libertà» faccia sì, come accadde nell’Unione sovietica di un quarto di secolo fa, che si getti via anche il bambino delle garanzie sociali di base come l’istruzione e l’assistenza medica gratuite; e che si assista allo squallido spettacolo dell’assalto liberista e delle privatizzazioni selvagge con la conseguenza di un deciso ed esteso peggioramento delle condizioni della popolazione e dell’avvìo di un processo di crescente ingiustizia sociale. Grazie a Dio, i «Chicago Boys» sono oggi solo un triste ricordo: e tuttavia...
L’isola di Castro e «della libertà»
È comunque significativo che un influente personaggio del patriarcato moscovita, il metropolita Hilarion Alfeyev, conversando con i giornalisti russi, abbia detto a proposito dell’incontro fra i due capi delle Chiese: «Abbiamo scelto l’isola della libertà». Una tale definizione, che qualcuno ha trovato scandalosa e qualcun altro straordinariamente significativa, ha un carattere fondamentale. Non è facile credere casuale la scelta del territorio cubano - per definizione “neutro” - come luogo dell’incontro. È vero: Kirill sarà già nell’isola per la sua visita ufficiale a quel paese, Francesco anticiperà di alcune ore la partenza per la sua visita pastorale in Messico e potrà quindi rivedere, pochi mesi dopo gli incontri di Roma e dell’Avana, il suo ormai «vecchio amico» Raúl Castro, il quale in queste ore è comprensibilmente al settimo cielo per l’accresciuto prestigio internazionale che l’evento gli sta procurando.
Ma Cuba non è ancora uscita dal socialismo e rischia di diventar terreno di razzìa per il turbocapitalismo. Questo è il punto. Il presente, lo conosciamo. E il futuro?
Di che cosa dunque, parleranno, Francesco e Kirill? Si è fortemente sottolineato che entrambi lanceranno un forte appello ai popoli e ai governi affinché venga arrestata l’onda delle persecuzioni e degli assassinii di cui sono vittime i membri delle comunità cristiane ospiti di molti paesi musulmani dell’Asia e dell’Africa.
Intanto, a Mosca si ripubblicano i testi di Soloviev e circola con insistenza la sua profezia: l’alleanza tra il papa di Roma e la santa Russia salverà il mondo. Da che cosa? Dal fondamentalismo islamico che brucia le chiese e uccide i cristiani, commentano alcuni. Dall’arroganza turbocapitalista che ha imposto quel sistema della «inequità» denunziato dall’enciclica Laudato si’, replicano altri.
Dopo l’Internazionale dei lavoratori di tutto il mondo uniti che non si è mia avverata e quella dei capitalisti delle lobbies che si è avverata fin troppo con aberranti e allarmanti risultati, quella dei cristiani uniti nel segno della giustizia e della misericordia potrebbe sul serio essere la Rivoluzione del XXI secolo.
Papa Francesco: il 12 febbraio storico incontro con il patrarca di Mosca Kyrill a Cuba
Lombardi, incontro con Kyrill preparato da tempo
di Redazione ANSA *
Il Papa e il patriarca di Mosca Kyrill si incontreranno a Cuba il 12 febbraio, quando il Papa farà una tappa prima del viaggio in Messico. Lo annunciano congiuntamente Sante Sede e Patriarcato di Mosca, definendolo "storico incontro". I due si incontreranno all’aeroporto di Cuba e rilasceranno anche una dichiarazione comune.
"La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca - si legge nel comunicato congiunto, che è stato letto ai giornalisti da padre Federico Lombardi in sala stampa vaticana - hanno la gioia di annunciare che, per grazia di Dio, Sua Santità Papa Francesco e Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia, si incontreranno il 12 febbraio. Il loro incontro avrà luogo a Cuba, dove il Papa farà scalo prima del suo viaggio in Messico, e dove il Patriarca sarà in visita ufficiale. Esso comprenderà un colloquio personale presso l’aeroporto internazionale José Martí dell’Avana e si concluderà con la firma di una dichiarazione comune". "Questo incontro - prosegue la nota - dei Primati della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa russa, preparato da lungo tempo, sarà il primo nella storia e segnerà una tappa importante nelle relazioni tra le due Chiese. La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca auspicano che sia anche un segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà. Invitano tutti i cristiani a pregare con fervore affinché Dio benedica questo incontro, che possa produrre buoni frutti".
L’ incontro tra il Papa e il patriarca di Mosca Kyrill è stato "preparato da lungo tempo", afferma il comunicato congiunto Santa Sede-Patriarcato di Mosca, letto da padre Federico Lombardi in sala stampa vaticana. "Sono lieto - ha detto il portavoce - di poter leggere un importante comunicato, lo leggerò in quattro lingue, e ho aspettato le 12,10 perché è congiunto con il patriarcato di Mosca".
Secoli di teologia e mosse politiche per ricomporre il grande scisma
Dalla Bolla d’Unione del 1439 agli appelli per la difesa “unita” della cristianità di fronte all’avanzata dell’Islam
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 07.02.2016)
LA ricomposizione dello scisma tra le chiese ha nella storia un concreto precedente: la Bolla d’Unione che nel 1439, al concilio di Ferrara-Firenze, fu letta da Bessarione, allora delegato bizantino, e dal cardinale Cesarini, rappresentante di papa Eugenio IV. Dopo secoli di tentativi, sembrava abolito quel “colpo di forbice” (“scisma”, dal greco schìzo, “tagliare in due”) che aveva diviso la cristianità nel 1054, al tempo del cardinale di Silvacandida, legato di papa Leone IX, e di Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli.
La motivazione della reciproca scomunica tra papa e patriarca era politica. Silvacandida reiterava l’antica pretesa del primato petrino, rivendicando la supremazia del vescovo di una chiesa, quella di Roma, che si era fatta stato. Cerulario voleva imporsi sul proprio stesso imperatore, vero capo della chiesa in uno stato, quello bizantino, in cui il clero era stato estromesso dal potere secolare.
Non erano meno politici gli altri assunti dogmatici dello scisma: a parte il celibato dei preti o la questione delle azzime, al centro era, e tutt’oggi è, la questione del Filioque.
Concili e concili, nell’era delle dispute trinitarie, avevano discusso sottilmente la processione dello Spirito Santo, per accordarsi alla fine che procedeva dal Padre attraverso il Figlio (per Filium). La bizzarra pretesa, emersa nella lontana e selvatica Spagna dei secoli bui, che il divino Pneuma procedesse dal Padre “e dal Figlio” (Filioque, appunto) non era una reale alternativa alla conclusione dei grandi padri conciliari. Il Filioque cattolico era un’interpolazione incolta che non si poteva neanche includere tra le tante definizioni erronee della teologia trinitaria. Ma quella svista, che stravolgeva il credo niceno-costantinopolitano, era stata difesa per i loro buoni motivi dai papi del tempo di Carlo Magno, che aveva imposto un suo piccolo “sacro romano impero” rivale di quello fino ad allora egemone, Bisanzio.
Su questa forzatura il papato aveva prosperato e rafforzato la sua influenza sull’Europa. L’assunzione del Filioque a bandiera dello scisma era dunque teologicamente pretestuosa quanto eminentemente realpolitica.
Altrettanto realista, in un tempo di incalzante avanzata islamica, era stata la Bolla d’Unione di Firenze. La contropartita del trasformismo dogmatico di Bessarione era la grande spedizione militare delle potenze europee per evitare che Costantinopoli cadesse in mano ai turchi, effetti-vamente organizzata da Roma ma fallita a Varna nel 1444 per una di quelle variabili caotiche di cui è fatta la storia.
Senza il tradimento di alcuni mercanti genovesi l’Unione di Firenze avrebbe forse retto, il mondo cristiano non sarebbe rimasto scisso. Ma la storia non si fa con i “se”. Dopo la carneficina di Varna l’Unione fu vista in Occidente come una maledizione. In Oriente era stata già denunciata, non solo dal clero costantinopolitano ma anche e soprattutto dalla rampante chiesa russa.
Isidoro di Kiev, che insieme a Bessarione l’aveva concertata, fu rinchiuso nella fortezza del Gran Principe di Mosca. Non si sa come riuscì a fuggirne, ma lo fece e raggiunse Roma, dove divenne “cardinale orientale” della curia. Ancora alla vigilia della caduta di Costantinopoli celebrò a Santa Sofia una grande messa “a chiese unite”. Poi combattè sugli spalti, fu sconfitto, si salvò e scrisse al papa che il demonio islamico puntava all’Europa e “minacciava di entrare a San Pietro”.
Era un’esagerazione ma va detto che la caduta di Costantinopoli del 1453 ebbe sul mondo un effetto traumatico paragonabile a quello della caduta delle Torri Gemelle: insinuò un terrore dell’islam e un’islamofobia che solo pochi illuminati come Nicola Cusano o il papa umanista Pio II cercarono di attenuare. Con la Seconda Roma ampiamente islamizzata, il primato della cristianità orientale passò alla Terza Roma, Mosca.
Le nozze tra Ivan III e Zoe Paleologìna trapiantarono in Russia la successione dinastica dei “cesari”, saldandola ulteriormente all’ortodossia. La dottrina teologico- autocratica della Terza Roma zarista, sostenuta da Ivan il Terribile, si perpetuerà fino all’impero comunista. Nell’era moderna non sarà più la chiesa greca, languente sotto la turcocrazia, ma quella russa, legata a uno stato forte, il vero ostacolo al primato dei papi. Terza sponda nel duello tra impero ottomano e potenze europee, Mosca non revocherà mai la chiusura all’Unione manifestata fin dall’inizio dal suo clero.
Fin dall’incontro di Gerusalemme con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo nel maggio 2014, Bergoglio ha annunciato una celebrazione congiunta tra cattolici e ortodossi del concilio di Nicea del 325, che diciassette secoli fa espresse la formulazione originaria del credo. Ultimo di un crescendo di messaggi alla chiesa russa, preliminare al concilio panortodosso di giugno, il gesto di apertura al patriarca Kyril appare, nella strategia ecumenica di Francesco, un aiuto non solo al dialogo tra ortodossi e cattolici ma anche a quello interno tra ortodossi, condizionato dalla loro complessa storia.
Oggi che a porsi come difensore della cristianità nel mondo islamico in fiamme è di nuovo, come secoli fa, uno “zar”’, la mossa di Francesco appare di nuovo un richiamo alla Realpolitik: la migliore arma che la chiesa ha saputo usare nella storia quando ha guardato non alle questioni interne, ma ai grandi rivolgimenti del globo.
Quando i buddisti eravamo noi
La scoperta dell’immagine del Gesù-Siddharta venerato per secoli da una comunità manichea nel sud della Cina apre nuovi studi e riflessioni sul rapporto tra filosofia orientale e occidentale
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 16.01.2016)
La figura solitaria dal viso assorto, i capelli neri raccolti sulla nuca, siede su un alto trono esagonale. La testa è circondata da un’aureola di luce inscritta nel contorno di una più ampia mandorla che si intravede sullo sfondo brunito del lungo rotolo di seta dipinta. Uno sfolgorio di rosso e oro accomuna i petali dell’immenso fiore di loto dischiuso sotto le sue gambe incrociate e il simbolo della croce che regge tra le dita sottili della mano sinistra, all’altezza del cuore, mentre le dita della destra compongono un esoterico gesto.
È il Buddha, ed è insieme il Cristo, e in entrambe le vesti è stato venerato per secoli dagli adepti della comunità manichea del sud della Cina per cui la sua immagine, conservata dall’inizio del Seicento nel tempio zen di Seiun-ji in Giappone, fu prodotta fra il XII e il XIII secolo.
«O vasto e gentile Gesù Buddha, ascolta le mie parole di dolore. Modesto e sempre desto Re della Mente, Anticipatore del Pensiero, guidami fuori da questo mare avvelenato, verso l’acqua fragrante dell’Emancipazione», si legge nel Rotolo innologico manicheo della British Library, la più antica attestazione liturgica del culto di Gesù in quanto Buddha tra i seguaci di Mani della Cina medievale.
Quest’immagine e queste parole provengono dalle pagine di un articolo pubblicato su una rivista scientifica svizzera da una studiosa ugroamericana di arte religiosa dell’Asia Centrale, Zsuzsanna Gulacsi, grande esperta di manicheismo. La sua argomentazione e la sua tesi finale - nella raffigurazione del “profeta” Gesù Buddha è in realtà esplicitata la dottrina della religione dualistica e connaturatamente sincretistica di Mani, cui vanno attribuiti sia il simbolo della Croce di Luce, materializzato nella statuetta, sia il principio della separazione tra luce e tenebra, simboleggiato dal gesto della mano destra - danno nuovo senso a dati già acquisiti ma non ancora elaborati dagli eruditi.
Al di là dello specialismo, l’emergere dal passato orientale del Gesù-Buddha- Mani di Seiun-ji, i suoi epiteti, la forza delle invocazioni parlano in modo immediato al presente occidentale, dove sempre di più il buddismo si radica nella prassi di una crescente élite di figli dell’esistenzialismo, nell’utopia di una non-religione dall’etica resistente alla secolarizzazione ma compatibile con gli approdi della filosofia e con le conquiste della psicologia.
A metà del Novecento il Siddharta di Hesse aveva spontaneamente orientato il suo revival nella cultura pop. Anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza del buddismo in occidente aveva prodotto un’ibridazione confessionale in cui lo yoga e le tecniche ancestrali di meditazione proprie dell’esicasmo cristiano e del sufismo islamico, come già prima delle scuole platoniche e pitagoriche, erano sostanzialmente tollerate se non promosse dai residui esponenti delle religioni ufficiali.
«Perché non possiamo non dirci cristiani», si domandava Benedetto Croce all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta onestà dovremmo oggi riflettere sul perché non possiamo non dirci buddisti. Più di una filosofia, meno di una religione, mai una dogmatica, il buddismo è oggi la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna. In genere si fa risalire il suo influsso nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire occidentali allo slancio degli studi di orientalistica che influenzarono il giovane Schopenhauer.
Ma quella conoscenza era già ben diffusa tra gli illuministi, per il tramite privilegiato delle missioni in Cina e in Giappone, ma anche in Tibet e Sri Lanka, degli avventurosi gesuiti che tra Cinque e Settecento avevano trasmesso accurati resoconti, in particolare, sul buddismo tibetano.
Di recente una studiosa americana, Alison Gopnik, ha cercato di dimostrare l’influenza diretta delle Notizie istoriche del Tibet del padre Desideri sulla composizione del Trattato sulla natura umana di Hume, avvenuta a stretto contatto con l’ambiente gesuita del Collège de La Flèche, nel nord della Francia. Ma già il Seicento spagnolo era impregnato di buddismo. Il suo riflesso più occidentale è ne La vida es sueño di Calderón de la Barca, attraverso cui la trama della vita del Tathagata si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca.
Ancora molto prima il buddismo era penetrato in occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva, si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta che non possiamo non considerare oggi compiuta. La Controriforma aveva dovuto prendere atto che a Bisanzio fin dall’XI secolo il Buddha era venerato dalla chiesa e nonostante lo scetticismo di Bellarmino nel 1583 il cardinal Baronio lo aveva incluso nel Martirologio Romano come santo «apud Indos Persis finitimos. Il buddismo non aveva mai avuto una Scrittura.
Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro, aveva trasformato la vita del Buddha in libro: la cosiddetta Storia di Barlaam e Ioasaf, composta nell’età di sincretismo e cosmopolitismo immediatamente successiva all’espansione militare e culturale araba e al cosiddetto iconoclasmo. È a partire da questo decalcarsi dell’impronta buddista nello stampo greco per il tramite dell’islam che quel Siddharta ante litteram si riprodurrà in progressione geometrica nella letteratura globale e Buddha estenderà la sua predicazione nell’occidente ancora del tutto cristiano.
Detti e fatti dell’interpretazione cristiana del principe Siddharta risuoneranno in ogni lingua europea con una diffusione non raggiunta da nessun’altra leggenda agiografica. Sedurrà l’Italia più mistica, si trasfonderà nel Trecento senese di Caterina, attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio e di qui al teatro di Shakespeare. Aveva raggiunto, prima, la Provenza dei catari e degli albigesi, attraverso il latino ma con l’influenza del manicheismo orientale. È in effetti la pista manichea, desunta dai frammenti in turco uiguro e in neo-persiano portati alla luce dalle spedizioni archeologiche di inizio Novecento, quella che con più forza è emersa nel rompicapo degli eruditi sull’origine del Buddha cristiano. Ed ecco, il cerchio si chiude, riportandoci al rotolo di Seiun-ji.
Quest’immagine di perfetto sincretismo a sua volta permette un ulteriore passo indietro. Dal bacino del manicheismo emergeva, tra il IV e il V secolo, il massimo cervello cristiano di tutti i tempi, Agostino. Quella che aveva conosciuto in Mani era una dottrina gnostica già impregnata di un’idea di salvezza propriamente religiosa.
Ma in realtà, nel seno della filosofia ellenistica in cui il flusso oriente-occidente era continuo, lungo la rotta della conquista di Alessandro, nello splendore dei regni indogreci, nelle predicazioni dei monaci greci buddisti che re Ashoka inviò ai monarchi affacciati sul Mediterraneo, o degli asceti erranti che giunsero fino alla corte di Augusto, lo stesso germoglio di ciò che chiamiamo buddhismo dovette essere rinvigorito dallo scambio, prima che con lagnosi, con il pensiero delle scuole elleniche.
Anche se la prima menzione del Buddha nella storia della letteratura europea si trova solo alla fine del II secolo, negli Stromata, i “Tappeti” letterari di Clemente di Alessandria, è congetturabile una coabitazione e contaminazione tra le dottrine del Gautama Sakyamuni e quelle, ancora recentemente evocate da Christopher Beckwith, dei filosofi scettici, o dello stoicismo antico.
Se non possiamo non dirci buddisti, cos’è allora che veramente noi occidentali chiamiamo buddismo? Non una dottrina, non una religione, non una filosofia, piuttosto la prensile erba di una conoscenza capace di allacciarsi e adattarsi e dare linfa a diverse religioni, dottrine, filosofie.
Il germe radicato nel nostro passato, ciclicamente reinterrato e rifiorito, di una verità universalmente diffusa perché straordinariamente persuasiva, indiscutibile e intuibile, in certi folgoranti attimi, anche a livello prerazionale: la percezione, continuamente rimossa, delle “cose come sono”, per usare l’espressione di Hervé Clerc; la stupefazione che sta all’origine di ogni visione filosofica; dove il riconoscimento dell’illusorietà dell’esistenza e dell’impermanenza dell’essere è in realtà il nucleo stesso di ciò che gli antichi greci, poco dopo la morte del Gautama storico, chiamarono per la prima volta filosofia.
Papa a Bartolomeo I: nessun ostacolo a comunione eucaristica *
Nell’odierna festa di Sant’Andrea, Patrono della Chiesa ortodossa, il Papa al termine della Messa celebrata nel campo sportivo di Bangui ha rivolto un augurio speciale al Patriarca ecumenico Bartolomeo, al quale ha inviato anche un messaggio, che è stato letto stamani nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Fanar dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che ha ha guidato una delegazione della Santa Sede nell’ambito del tradizionale scambio di visite per le rispettive feste dei Santi Patroni, Pietro e Paolo il 29 giugno a Roma e Andrea il 30 novembre ad Istanbul. Il servizio di Roberta Gisotti
“Da qui dal cuore dell’Africa, vorrei rivolgermi al mio carissimo fratello Bartolomeo Patriarca ecumenico. Gli faccio gli auguri di felicità, di fraternità, e chiedo al Signore che benedica le nostre Chiese sorelle”
Francesco esprime poi - nel messaggio autografo - “fraterno affetto e vicinanza spirituale” all’arcivescovo di Costantinopoli, in “profonda comunione di fede e di carità”.
“Il mondo oggi ha grande bisogno di riconciliazione - scrive Francesco - specie alla luce di cosi tanto sangue versato nei recenti attacchi terroristici. Possiamo noi accompagnare le vittime con la nostra preghiera e rinnovare il nostro impegno per una pace duratura promuovendo il dialogo tra fedi religiose”, poiché “l’indifferenza e la mutua ignoranza possono solo portare sfiducia e sfortunatamente anche conflitti”.
“Per progredire il nostro cammino verso la piena comunione”, osserva Francesco, “dobbiamo continuare a trarre ispirazione dal gesto di riconciliazione e di pace” di Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora, che 50 anni fa il 7 dicembre del 1965 firmarono la Dichiarazione comune Cattolica-Ortodossa, con la quale si cancellavano le scomuniche del 1054.
Anche se da allora non tutte le differenze tra le due Chiese sono state annullate, osserva Francesco, “avendo ripristinato relazioni di amore e fraternità, in uno spirito di reciproca fiducia, rispetto e carità, non ci sono più impedimenti alla comunione eucaristica, che non può arrivare che attraverso la preghiera, la purificazione dei cuori, il dialogo e l’affermazione della verità”.
Francesco complimenta Bartolomeo, “testimone esemplare per i cattolici” per la sua particolare “sensibilità”, “consapevolezza” e “fervente impegno” per la salvaguardia del Creato, indicando quale “segno di speranza” la celebrazione comune della Giornata di preghiera per la cura del Creato, il primo settembre, seguendo la lunga esperienza del Patriarcato ecumenico.
Preghiere, il Papa chiede infine a Bartolomeo e a tutti i fedeli ortodossi per il Giubileo straordinario della Misericordia, assicurando a sua volta le preghiere per gli eventi che saranno celebrati quest’anno nella Chiesa ortodossa, specie per il Grande Sinodo Panortodosso.
* RADIO VATICANA, 30.11.2015 (RIPRESA PARZIALE).
La battuta di Francesco sul pugno spiazza laici e fedeli
Commentano le parole del Papa sul volo dallo Sri Lanka alle Filippine De Paolis, Lajolo, Cacciari, Tarquinio e De Masi. «Ha posto un limite». «È poco cristiano»
di Giacomo Galeazzi *
Città del Vaticano
Il «pugno» del Papa scuote il Sacro Collegio, gli intellettuali laici, i media cattolici. «Quella del Pontefice è una constatazione: nella vita di ogni giorno accade così - afferma il cardinale canonista Velasio De Paolis -. Se offendo qualcuno devo attendermi una contro-offesa. Purtroppo, infatti, la quotidianità non segue lo spirito del Vangelo e viene disatteso il monito di Gesù a porgere l’altra guancia». Ma «la reazione a una offesa verbale dovrebbe, quantomeno, essere un’altra offesa verbale e non un atto di violenza fisica». Comunque «chi ha realizzato quelle vignette avrebbe dovuto trattenersi dal farlo nella consapevolezza delle prevedibili conseguenze», aggiunge De Paolis. Il porporato di Curia Giovanni Lajolo ribadisce che «il male si vince solo con il bene», però riconosce che «esiste la libertà di opinione, non quella di insulto», altrimenti «vivremmo in un mondo di rissa continua».
Il quinto comandamento
In ogni modo, sottolinea Lajolo, «è lo spirito che fa la musica» e «un pugno morale può essere più duro di quello fisico». Certo, precisa Lajolo, «niente giustifica la reazione estrema e vile alle vignette messa in atto dagli attentatori di Parigi» che «non combattono faccia a faccia ma aggrediscono alle spalle persone disarmate». Parimenti «non va calpestato il quinto comandamento: non uccidere, non offendere», avverte il cardinale.
A Milano l’arcivescovo Angelo Scola non commenta le parole del Pontefice ma rimanda alla giornata di preghiera contro la violenza del 18 gennaio. «È una battuta non proprio cristiana, ma simpatica - osserva il filosofo Massimo Cacciari -. Francesco esprime l’impossibilità in questo secolo di porgere l’altra guancia e di rispettare le Beatitudini evangeliche che chiedono di amare il proprio nemico. Il Papa ha cercato l’effetto umano, forse anche troppo umano». Per il sociologo Domenico De Masi «il pugno viene poco prima del colpo di kalashnikov». Inoltre «non è vero che la satira può dire tutto: nulla è svincolato dalla legge», però, avverte De Masi, «serve un principio di proporzionalità tra offesa e difesa: a chi insulta Allah o la Madonna si risponde con una querela, non con una revolverata e neppure con un cazzotto».
Sacralità intima
Quella del pugno la trova, invece, «un’immagine geniale» Marco Taquinio, direttore del quotidiano dei vescovi Avvenire, secondo cui il Pontefice indicando la figura della madre rimanda a una sacralità intima, valida sul piano umano sia per i credenti in qualunque fede sia per gli atei: «Anche tra amici può accadere di superare il senso del limite e di provocare una reazione violenta. Ma se niente è rispettato, precipitiamo in una condizione di scontro permamente e la trivialità è cieca».
Indifferenza e presunzione
Secondo Taquinio quando chiudiamo gli occhi su qualunque persecuzione verso chiunque ovunque sia perpetrata, prepariamo l’irruzione dell’odio e della violenza anche nelle nostre città, nei luoghi simbolo delle nostre libertà, nelle nostre stesse case. «Il male si nutre di indifferenza e di presunzione». E solo una scelta limpida e chiara per la pace nella giustizia e nella libertà possono sventare i piani di dominio e di morte dei terroristi che osano agire «in nome di Dio». E «le nostre società aperte sono vulnerabili», quindi «l’uscita del Papa è una sintesi perfetta del rifiuto della logica di morte».
Un ampio excursus ricostruisce la vicenda dell’ermetismo e la sua influenza sulla teologia, da Agostino a Ficino
Il tentativo di svelare con la gnosi l’enigma di Dio e dell’uomo
di GIANFRANCO RAVASI *
A livello popolare, "ermetico" è sinonimo di "oscuro, chiuso, incomprensibile, enigmatico", nonostante il sotteso rimando a Hermes, il dio greco dell’interpretazione, dell’ermeneutica appunto. A livello più colto "ermetismo" è la corrente poetica sbocciata negli anni Trenta a Firenze sulle riviste Frontespizio e Campo di Marte, che annoverò tra i suoi cultori figure come Ungaretti, Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Luzi, Bigongiari e tra i suoi teorici Carlo Bo e Oreste Macrì.
In realtà l’ermetismo in senso storico-filologico risale a un orizzonte ben più remoto e sorprendente: per dirla con qualche semplificazione, fu un’affascinante e complessa operazione di ermeneutica. I grandi miti teogonici e cosmologici dell’antico Egitto faraonico furono "ellenizzati" e ricollocati in un nuovo linguaggio e in nuove coordinate storico-culturali. Così, il dio egizio Thoth, il rivelatore per eccellenza della sapienza divina, si trasformò nell’Ermete (Hermes) "tre volte grandissimo" (Trismegisto) e i suoi oracoli subirono riletture e ricreazioni sempre più complesse ed esoteriche.
Ma all’avventura ermeneutica del trapasso Egitto-Grecia si aggiunse un altro anello, quello cristiano e latino: la rivelazione pagana si rivestiva di un nuovo manto e diventava un’anticipazione profetica della Rivelazione per eccellenza e della sua inconcussa verità.
Questa vicenda di reinterpretazione delle antiche carte ermetiche non ebbe posa per secoli: passò attraverso Lattanzio, penetrò anche in Agostino, varcò la frontiera del MedioEvo con Abelardo e il platonismo di quell’epoca, approdò fino a Marsilio Ficino e alla filosofia del Rinascimento, attraversando perfino il giudaismo.
A ricostruire questa genealogia ermetica cristiana nelle sue tappe fondamentali è Claudio Moreschini, uno studioso di alto profilo della letteratura greca e latina cristiana. Egli lo fa in un volume suggestivamente ornato da un’immagine del Museo Capitolino che illustra in modo simbolico l’ermeneutica dell’ermetismo: in un rilievo dell’altare di Iside di Campo Marzio a Roma un Hermes chiaramente abbigliato in veste greco-romana e con le sue tipiche insegne ci mostra il volto canino del dio egiziano Anubi.
Naturalmente il trapasso ulteriore che possiamo solo immaginare sarebbe quello di staccare questa testa e sostituirla con un viso profetico cristiano per chiudere il cerchio delle reinterpretazioni. Come in ogni genealogia, il percorso è diacronico. Si parte dalla sorgente, da quel Corpus Hermeticum che fu acutamente studiato dal grande A. J. Festugière e si procede nella serie degli anelli cristiani, oggetto specifico dell’analisi di Moreschini. È un itinerario letterario e teologico di forte suggestione che conosce alcune soste in "slarghi" più ampi. È il caso dell’Asclepius, il più importante testo ermetico cristiano, traduzione latina di un originale greco perduto ma noto e citato da Lattanzio. È un trattato vistosamente destrutturato, affidato com’è alle connessioni per associazioni di parole, forse intenzionalmente impostato sull’impressionismo oracolare e teosofico, destinato a rivelare un mysterium iniziatico. Siamo, quindi, in un contesto di gnosi che ha come scopo quello di svelare la realtà profonda dell’uomo e la sua capacità di penetrare nel mistero divino.
Attraverso questa conoscenza superiore si infrangeranno le catene del carcere del corpo e si volerà verso la parte più pura dell’universo in una salvezza che è intimità perfetta con la divinità spirituale. Giustamente Moreschini - che, per altro, esamina di questo trattato il groviglio dei temi posti sul tappeto (il mondo, il fato, il male, la divinità) - osserva che "la preghiera finale riassume tutto il dialogo: il Trismegisto e i suoi giovani discepoli, possedendo il dono della conoscenza, se ne rallegrano e invocano Dio perché si degni di donare loro l’amore perpetuo per questa conoscenza, che li ha salvati" (p.119). Sono tante le finestre a cui affacciarsi in questo palazzo piuttosto "ermetico" dell’ermetismo cristiano.
Particolarmente interessanti sono quelle che ci permettono di gettare uno sguardo sulla stanza di Marsilio Ficino, il traduttore in latino del Corpus Hermeticum su commissione di Cosimo de’ Medici, oppure di scoprire le carte di quel Ludovico Lazzarelli di San Severino Marche al quale già il famoso P.O. Kristeller aveva dedicato un saggio appassionato. Egli fu l’autore rinascimentale del Crater Hermetis (il "cratere" è un simbolo tipico dell’ermetismo per indicare la formazione di una dottrina segreta) e di altri testi ove dottrina cristiana ed ermetici si miscelano tra loro. O ancora si potrebbe sbirciare negli scritti di Agostino Steuco, vescovo di Gubbio e grande erudito e in quelli di Francesco Patrizi, convinto che l’ermetismo sia alle origini di tutta la filosofia greca e sia per di più del tutto consono coi dogmi della dottrina cristiana.
Una nota finale importante. Il volume di Moreschini offre una vasta appendice sia l’Asclepius di cui sopra si è detto, sia il Crater Hermetis di Ludovico Lazzarelli, sia il poema Prometeus dello stesso autore, entrambi tradotti in italiano da un’allieva di Moreschini, Sara Petri.
Religione
E’ valida la benedizione del patriarca Bartolomeo I a papa Francesco?
E’ un rito che offre Grazia ad un cattolico anche se impartito da un ortodosso
di Gelsomino Del Guercio *
«Alla fine del suo discorso papa Francesco ha chiesto la benedizione del patriarca Bartolomeo e si è chinato davanti a lui per ricevere la benedizione. Il patriarca lo ha baciato sul capo. È un gesto fortemente simbolico quello che conclude la giornata. È ormai calata la sera a Istanbul, e nella vigilia della festa di Sant’Andrea, patrono del patriarcato ortodosso, Francesco varca la soglia della chiesa insieme al fratello Bartolomeo».
Vatican Insider (29 novembre) descrive così la "storica" benedizione ricevuta da papa Francesco, che insieme alla preghiera in moschea, ha rappresentato uno dei due gesti più "discussi" ed emblematici della visita di Bergoglio in Turchia.
La benedizione impartita da un cristiano, in questo caso il patriarca Bartolomeo, appartenente ad una Chiesa peraltro scismatica come quella ortodossa, è valida? O è solo un gesto carico di significati simbolici, ma privo di "efficacia"?
SACRAMENTALE CHE OFFRE GRAZIA
«Una benedizione - spiega ad Aleteia padre Robert Gahl Jr., docente di Etica Filosofica alla Pontificia Università della Santa Croce - è un sacramentale, cioè, un’azione simbolica che offre Grazia secondo le disposizioni delle persone che partecipano». Il Catechismo della Chiesa Cattolica 1667-1672 e 1677-1678 spiega dettagliatamente la funzione di un sacramentale.
DA’ AUTORITA’ A CHI LA RICEVE
Anche il Codice di Diritto Canoninico 1166 evidenzia: «I sacramentali sono segni sacri con cui, per una qualche imitazione dei sacramenti, vengono significati e ottenuti per l’impetrazione della Chiesa, effetti soprattutto spirituali».
«La benedizione più frequente - prosegue padre Gahl - nel vissuto quotidiano dei cristiani è la benedizione prima dei pasti. La persona che offre la benedizione è normalmente scelta tra "pari" o esercita una certa autorità su coloro che la ricevono. In quanto il capo del collegio episcopale, il Papa normalmente offre lui stesso la benedizione e in occasioni specialmente solenni può anche offrire una benedizione apostolica con l’indulgenza plenaria».
AFFETTO E VENERAZIONE PER FRANCESCO
In tale direzione, il Codice di Diritto Canonico 1170 recita: "Le benedizioni, che vanno impartite in primo luogo ai cattolici, possono essere date anche ai catecumeni, anzi, se non vi si oppone una proibizione della Chiesa, persino ai non cattolici".
«In Turchia, invece - evidenzia il docente - come un gesto di speciale rispetto ed affetto per la Chiesa Ortodossa di Costantinopoli ed il suo vescovo, il patriarca Bartolomeo, il Papa ha chiesto la benedizione da quest’ultimo. Il patriarca, palesemente sorpreso, invece di impartire una benedizione tradizionale, ha baciato il papa sulla testa in segno di affetto e venerazione reciproca, per la persona e per l’ufficio».
OLTRE I PROTOCOLLI TRADIZIONALI
«Non è la prima volta che il papa Francesco fa un gesto forte, sorprendente, e forse del tutto spontaneo che provoca critiche da cattolici molto legati ai protocolli tradizionali. Tuttavia, con questi gesti, il papa raccoglie affetto da molti perché manifesta la sua autenticità personale ed uno spirito evangelico, in questo caso il suo forte desiderio di unità tra la Chiesa Cattolica e gli ortodossi».
LA VALIDITA’ DEI SACRAMENTI ORTODOSSI
Fin qui il punto di vista di un esperto di dottrina della Chiesa cattolica. Ma, invece, un ortodosso come ha letto la benedizione al papa da parte del "proprio" Patriarca? Innanzitutto può essere considerato un sacramento valido (nella dottrina ortodossa non c’è differenza tra sacramento e sacramentale come in quella cattolica, in cui la benedizione è un sacramentale)?
"FRATELLI" NONOSTANTE LO SCISMA
Va infatti sottolineato che nonostante la cancellazione bilaterale della scomunica ad opera di Paolo VI e Athenagora, gli ortodossi sono ancora considerati scismatici. Don Basilio Petrà, presidente Atism e docente di Teologia morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia centrale di Firenze, esperto di dottrina ortodossa, chiarisce: «L’abolizione delle scomuniche ha un valore simbolico notevole ma scarso significato teologico e canonico. Per noi, gli ortodossi sono fratelli che hanno una comunione imperfetta con la Chiesa cattolica, nella quale sussiste la vera Chiesa. I sacramenti ortodossi sono validi anche per i cattolici, e dunque lo è pure la benedizione sacerdotale a qualsiasi livello».
INVALIDATI O "LEGATI"
A parti invertite, cioè se fosse stato Bergoglio a benedire Bartolomeo, non sarebbe la stessa cosa. «Gli ortodossi considerano i cattolici eretici o scismatici. E per loro i sacramenti degli eretici non sono in sé validi, quelli degli scismatici sono legati, cioè vuol dire che la loro efficacia sacramentale è come sospesa. Se non è efficace il sacerdozio non è efficace neppure la benedizione: rimane una semplice preghiera».
ASSENZA DI RECIPROCITA’ CON I CATTOLICI
Pertanto, «per gli ortodossi che ritengono eretici i cattolici, la benedizione sacerdotale cattolica non ha alcun valore, nella migliore delle ipotesi. Per chi li ritiene scismatici è una benedizione che non dà quello che potrebbe dare. Tra cattolici e ortodossi non c’è reciprocità nel riconoscimento dei sacramenti: noi riconosciamo i loro; loro non riconoscono i nostri. Questa naturalmente è la dottrina. Mentre la prassi assume forme varie».
* Aleteia, 12.12.2014 (ripresa parziale).
Meglio uniti che “uniati”. Con gli ortodossi Francesco vuole cambiare strada
Sul volo di ritorno da Costantinopoli a Roma, interpellato da un giornalista russo ortodosso, papa Francesco ha fatto una battuta non immediatamente comprensibile dai non esperti:
“Dirò una cosa che forse qualcuno non può capire, ma... Le Chiese cattoliche orientali hanno diritto di esistere, è vero. Ma l’uniatismo è una parola di un’altra epoca. Oggi non si può parlare così. Si deve trovare un’altra strada”.
Per capire il senso di questa battuta viene in soccorso la seguente nota.
L’autore insegna storia della Chiesa ortodossa nell’università statale di Bologna e nella facoltà teologica dell’Emilia Romagna. È diacono e presiede la commissione per l’ecumenismo dell’arcidiocesi di Bologna.
*
“PAROLA DI UN’ALTRA EPOCA”
di Enrico Morini
“Uniatismo” è una brutta parola, anche se è un termine ormai consacrato dall’uso ed è difficile farne a meno. L’alternativa corretta sarebbe infatti una parafrasi: “insieme dei cristiani orientali uniti a Roma”. L’espressione è stata coniata in ambito ortodosso, con un senso pesantemente dispregiativo, per designare il frutto di un’unione spuria, ingannevole, sleale e provocatoria.
Si tratta di un fenomeno iniziato, nella dinamica dei rapporti tra le Chiese, in età moderna, quando la Chiesa cattolica si rese conto che, dopo il fallimento dell’unione con la Chiesa ortodossa sottoscritto a Firenze nel 1439, qualsiasi altro tentativo di giungere ad una unione completa tra le due Chiese - anche per le mutate condizioni culturali e politiche dell’Ortodossia, sotto il dominio turco - non aveva più la benché minima possibilità di successo.
Si passò pertanto dall’obiettivo tradizionale, e più ambizioso, dell’unione globale con l’Ortodossia nel suo complesso, alla nuova strategia delle unioni parziali, strette con singoli episcopati di una regione, che accettavano sinodalmente i termini dell’unione sancita a Firenze, i quali comportavano l’accettazione del dogma cattolico con la garanzia di mantenere il proprio rito e, più in generale, le proprie tradizioni religiose (quale, ad esempio, il calendario giuliano).
Il fenomeno iniziò nel 1596 con l’unione, sancita a Brest, dell’episcopato dell’Ucraina orientale - allora sotto la corona unita polacco-lituana -, che guardava a Roma per superare una profonda crisi culturale e morale.
Continuò con l’unione sancita a Uzhorod nel 1646 da parte del clero ortodosso della Rutenia subcarpatica, allora nel regno d’Ungheria.
E si concluse con l’unione dei Romeni ortodossi di Transilvania, che seguirono il vescovo di Alba Iulia, nel 1700, nell’adesione alla Chiesa di Roma.
Poiché alla fine del XVIII secolo, sotto Caterina II, la Chiesa ucraina unita venne abolita per legge, ma la Santa Sede la riorganizzò nell’Ucraina occidentale, cioè in Galizia, attorno alla sede episcopale Leopoli (Lviv), tutti questi cattolici di rito orientale vennero a trovarsi all’interno dell’impero austro-ungarico, che si assunse il compito di proteggerli e di promuoverne lo sviluppo e dove essi assunsero la denominazione di greco-cattolici.
Nel frattempo anche nell’antico patriarcato di Antiochia - allora sotto i turchi - si era prodotto un movimento di riavvicinamento a Roma e quando, nel 1724, uno degli esponenti di questo movimento arrivò al patriarcato si produsse una scissione in questa Chiesa, che sussiste tuttora nel Vicino Oriente, tra greco-cattolici ed ortodossi, entrambi di lingua araba.
Infine successivamente la Santa Sede ha istituito degli esarcati apostolici in Russia (1917), in Bulgaria (1926) e in Grecia (1932) per i fedeli cattolici di rito “bizantino”, frutto dell’attività missionaria cattolica tra gli ortodossi.
Per gli ortodossi il fenomeno rappresenta una ferita sempre aperta. Non si tratta infatti semplicemente di rispettare la libertà religiosa: la loro avversione nasce da una incomprensione legata alla loro stessa ecclesiologia.
Gli ortodossi non concepiscono infatti il rito separato dal dogma: il modo in cui si prega è il riflesso di ciò che si crede. Da questo punto di vista gli “uniati” sono un ibrido mostruoso: hanno il rito ortodosso, ma professano la fede cattolica e, non essendo pertanto né ortodossi né cattolici, sono percepiti esclusivamente come uno strumento di propaganda, per svuotare di fedeli le Chiese ortodosse. In altri termini, sono come il “cavallo di Troia” per espugnare l’Ortodossia.
Quando queste Chiese ritornarono alla luce dopo il periodo del comunismo - che la aveva liquidate promuovendo il ritorno dei loro fedeli all’Ortodossia - gli ortodossi posero un aut-aut alla Chiesa cattolica: il dialogo teologico poteva proseguire soltanto dopo avere risolto il problema dell’”uniatismo”.
Ne uscì, nel 1993, il documento di Balamand, nel Libano, della commissione paritetica per il dialogo teologico, che però non è stato recepito né dalla Chiesa cattolica, per la quale era troppo severo nel giudizio storico sull’“uniatismo”, né dalla maggioranza delle Chiese ortodosse, che lo ritengono troppo permissivo nel difendere la sopravvivenza di queste Chiese. Anche una successiva sessione plenaria della commissione a Baltimora nel 2000, sempre su questo tema, si è conclusa con un nulla di fatto.
Le parole del Santo Padre, nel suo volo di ritorno da Costantinopoli, riprendono esattamente i termini del testo di Balamand, che del resto egli aveva già citato nell’intervista a “La Civiltà Cattolica” del 2013.
Il documento afferma che queste Chiese devono continuare ad esistere, in quanto ormai hanno conseguito una particolare fisionomia, una propria identità ecclesiale e culturale, all’interno del Cattolicesimo, che anche arricchiscono infondendo in esso la linfa vitale della spiritualità e della teologia orientale (basti pensare al ruolo del patriarca greco-cattolico di Antiochia, Massimo IV Saigh, al Concilio Vaticano II; il patriarca Atenagora gli disse: “Voi ci rappresentate!”) e hanno testimoniato con il sangue la loro fedeltà alla Chiesa di Roma.
Nel contempo il documento riconosce che il metodo di costruire l’unità tra le due Chiese attraverso le unioni parziali è oggi superato, in quanto ferisce la carità ed è assolutamente incompatibile con l’ecclesiologia delle Chiese sorelle.
*
UNA POSTILLA - Tra gli “uniati” gli ucraini sono il gruppo più numeroso, con più di cinque milioni di fedeli. E sono anche quello più in conflitto con la Chiesa ortodossa. Sono infatti i greco-cattolici ucraini il principale ostacolo all’incontro tra il papa e il patriarca di Mosca, con l’ulteriore aggravante - richiamata da Francesco nella conferenza stampa del 30 novembre - della guerra civile in corso nel paese.
Il prossimo 10 dicembre i greco-cattolici ucraini celebreranno a Kyiv il venticinquesimo anniversario del loro ritorno alla libertà, dopo il crollo dell’impero sovietico che li aveva forzatamente annessi all’ortodossia. E per l’occasione papa Francesco invierà come suo rappresentante il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e quindi della storica capitale di quell’impero asburgico che li protesse dall’imperialismo russo politico e religioso.
* L’Espresso / Settimo Cielo di Sandro Magister, 02 dic 2014
Francesco e Bartolomeo: quale unità *
di Il Cittadino di Lodi *
Il Papa in Turchia. L’abbraccio con il patriarca ecumenico Bartolomeo. L’enorme attenzione mediatica, le trasmissioni televisive, le paginate dei giornali. A distanza di una settimana da questi eventi ci è parso naturale chiedere al vescovo - che per vent’anni e fino a poco tempo fa si è occupato in prima persona delle Chiese orientali - un commento.
Monsignor Malvestiti ha accolto immediatamente la proposta. Ne è scaturita un’intervista tutta particolare, ricca anche di aspetti inediti.
Eccellenza, come giudica l’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo?
«Si è trattato di un ulteriore seme di unità gettato per il futuro. È stato un buon passo in avanti per ambedue le Chiese. I gesti del Papa, poi, hanno avuto un significato altissimo. Egli ha detto: “A cosa serve la nostra fedeltà al passato, se questo non significa nulla per il futuro? A cosa giova il nostro vanto per quanto abbiamo ricevuto, se tutto ciò non si traduce nella vita per l’uomo e per il mondo di oggi e di domani?”».
Posso chiederle di fare un passo indietro? Io non ho per nulla chiaro quante e quali siano le Chiese di tradizione orientale, e quali di queste riconoscono il Papa in quanto tale.
«Le Chiese orientali in comunione con Roma sono ventidue e godono però di un’ampia autonomia nel loro territorio e sono regolate da una propria legislazione. Sono dette sui juris. Accanto al Codice di Diritto Canonico c’è infatti il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. L’unico “supremo legislatore” - come viene chiamato - è il Papa».
Come sono suddivise?
«Ci sono anzitutto sei Chiese patriarcali: la prima è quella di Alessandria. Seguono le tre di Antiochia: di Siria, dei Maroniti e dei Melchiti. Poi abbiamo la Chiesa di Babilonia dei Caldei e quella di Cilicia degli Armeni. Tutte e sei sono governate da un patriarca e pur rimanendo fedeli alla tradizione teologica, liturgica condivisa dalla rispettiva Chiesa non cattolica sono in piena comunione col Vescovo di Roma».
E queste sono le prime sei.
«Ci sono poi quattro arcivescovi maggiori che governano rispettivamente la Chiesa Greco Cattolica dell’Ucraina con sede a Kiev, la Chiesa Siro-Malabarese e quella Siro-Malankarese ambedue con sede nello Stato Indiano del Kerala, la Chiesa Greco-cattolica di Romania con sede in Transilvania, nella cittadina di Blaj, chiamata “mica-Roma” ossia piccola Roma. Questi arcivescovi maggiori in comunione con il Papa hanno gli stessi diritti dei patriarchi».
E questo significa che...
«Vengono eletti anch’essi dal rispettivo sinodo composto da tutti i vescovi e subito dopo l’elezione chiedono la conferma al Papa, mentre i Patriarchi gli presentano la richiesta di “ecclesiastica communio” e il successore di Pietro la accoglie con una lettera che consente al nuovo “capo e padre” della rispettiva chiesa di svolgere il suo servizio nell’unità con l’intera Chiesa cattolica. Ecco il respiro universale».
E le altre dodici Chiese?
«Si tratta di Chiese metropolitane, a ciascuna delle quali fanno riferimento tre o quattro diocesi, chiamate eparchie, oppure delle semplici chiese particolari come quelle italo-albanesi di Lungro in Calabria e di Piana degli Albanesi in Sicilia, ambedue bizantine insieme al Monastero di Grottaferrata alle porte di Roma fondato addirittura nel 1004, le quali sono in cammino verso la piena maturità ecclesiale. Quando la composizione anche numerica e le strutture lo consentiranno potranno accedere al superiore grado ecclesiale».
Come si pone la Chiesa cattolica nei confronti delle Chiese ortodosse?
«Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha definito queste “vere Chiese”, riconoscendole come “custodi viventi delle origini cristiane” insieme alle Chiese della corrispondente tradizione rituale, dalla quale esse provengono e riservando a quelle cattoliche un auspicio: che fioriscano e crescano per assolvere la loro missione per l’unità tra tutte le Chiese».
Cosa significa?
«Le Chiese cattoliche orientali non sono un ostacolo all’ecumenismo, bensì un ponte affinché la conoscenza e la stima reciproca, la preghiera e la collaborazione vicendevoli, ci mantengano sulla nuova via da seguire: guardare a Cristo per trovarci più vicini di quanto oggi pensiamo».
Perché il Papa si è recato in Turchia? Mi pare che la Chiesa ortodossa del patriarca Bartolomeo non abbia un numero consistente di seguaci. Ad esempio, i fedeli della Chiesa ortodossa russa sono invece alcune centinaia di milioni...
«È tutto legato alla storia. Costantino fondò la nuova Roma sulle rive del Bosforo e vi pose un patriarca. Giustiniano eresse la splendida cattedrale patriarcale: è l’attuale museo di Santa Sofia ad Istanbul. Quando i patriarcati di Antiochia e di Alessandria caddero sotto la dominazione araba, dall’ottavo secolo il patriarca di Costantinopoli diventò l’autorità ecclesiastica più importante dell’Oriente, attirando nella propria orbita alcune regioni che prima facevano riferimento a Roma, ed avviando un’intensa attività missionaria specialmente tra le popolazioni slave. E poiché Costantinopoli era rimasta la sede dell’Impero romano d’Oriente, sorse la contrapposizione con Roma sull’esercizio della giurisdizione in Oriente».
Quindi è una vicenda antichissima.
«Come è noto, la rottura definitiva avvenne nel 1054, quando il papa Leone IX e il patriarca Michele Cerulario si scomunicarono a vicenda, dando inizio allo scisma che si è trascinato fino alla reciproca cancellazione delle scomuniche alla vigilia della conclusione del Concilio Vaticano II. Quel giorno fu preparato dallo storico abbraccio tra il beato Paolo VI e il patriarca ecumenico Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Per commemorare il cinquantesimo anniversario di quel gesto ha già avuto luogo quest’anno un incontro tra Papa Francesco e Bartolomeo al Santo Sepolcro nella Città Santa».
Dal 1054 iniziò una vera frammentazione per la Chiesa ortodossa.
«Sì. E ai quattro patriarcati storici di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Costantinopoli se ne sono aggiunti diversi altri. Praticamente ogni nazione può avere un proprio patriarcato indipendente. Al patriarca di Costantinopoli è riconosciuto però il primato d’onore, e può intervenire - potremmo dire - solo è richiesta la sua consulenza».
Sono 35 anni che una commissione mista di teologi cattolici e ortodossi si affatica nel tentativo di trovare un accordo per rimetterci insieme. Mi pare che di passi sostanziali ne siano stati fatti ben pochi.
«La commissione si incontra periodicamente, ma il confronto è molto faticoso. Le Chiese ortodosse per prime sono divise tra loro, alcune faticano ad accordarsi anche sul tipo di primato che la tradizione assegna al patriarca ecumenico di Costantinopoli. Un primato che Bartolomeo è tornato a rivendicare, nel suo scambio di messaggi con il Papa».
Perché non si trova un accordo? Qual è la questione più spinosa?
«Un ostacolo di rilievo è il modo di intendere il primato del vescovo di Roma. La Chiesa ortodossa sarebbe disposta ad accettare il Papa come un primus inter pares perché, secondo la loro interpretazione, nel primo millennio fino allo scisma del 1054, tra Chiesa Occidentale ed Orientale, il Papa sarebbe stato tale».
Ma questo non è condiviso dalla Chiesa cattolica.
«Infatti, perché noi riconoscamo al Papa un primato che gli deriva dall’essere il successore dell’apostolo Pietro, sul quale Cristo ha fondato la sua Chiesa. Il servizio petrino è quello di garantire l’unità nella verità e nell’amore e quindi al vescovo di Roma è riconosciuta una autorità piena, immediata e universale sui pastori e sui fedeli».
È un privilegio?
«No. È un carisma a custodia del supremo bene della unità. Spetta proprio allo stesso successore di Pietro sostenere la vita delle Chiese nella loro diversità, che esprime la ricchezza dell’unico Spirito di Cristo e mai nuoce all’unità, bensì la esalta».
Che risultati ha prodotto la visita del Papa in Turchia?
«Ha confermato le prospettive di due Chiese che si trovano molto vicine e scoprono sempre più di avere la responsabilità grave di lavorare perché si realizzi la preghiera di Gesù al Padre per tutti i battezzati: siano una cosa sola perché il mondo creda. Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa sono in profonda sintonia sulla difesa della vita e del creato, sui grandi temi della giustizia, della libertà religiosa e della pace».
Anche i predecessori di Papa Francesco hanno lavorato moltissimo, negli anni passati, sui grandi temi del dialogo interreligioso.
«Certamente! Cito soltanto Benedetto XVI, il quale disse che “il dialogo ecumenico è una scelta irreversibile”. E aggiunse che il rispetto e il confronto interreligioso costituiscono un impegno inderogabile, lavorando alacremente con parole e gesti indimenticabili in quella ottica».
Ha detto il patriarca Bartolomeo: “Gli odierni persecutori dei cristiani non chiedono a quali Chiese appartengono le loro vittime. L’unità si attua già in alcune regioni, purtroppo, attraverso il martirio”.
«È vero. È avvenuto anche durante la persecuzione ateistica nell’Europa dell’Est, nel secolo appena passato. E oggi i cristiani stanno fuggendo dal Medio Oriente. Non dobbiamo mai dimenticare che essi, invece, hanno il diritto di rimanere dove sono nati. E dove meritano di rimanere per l’amore inscindibile che insieme a quello per la fede cristiana hanno sempre riservato a proprio Paese, alla lingua e alla cultura native».
E nel frattempo i massacri continuano.
«Si pone chiaramente il problema di un Islam moderato. Ha parlato chiaro il Papa: “Sarebbe bello che tutti i leader politici, religiosi e accademici, parlino chiaramente e condannino questi atti di violenza, perché questo aiuterà la maggioranza del popolo islamico a dire “no” alla violenza”».
Lei è mai stato a Istanbul?
«Più volte. L’ultima poche settimane fa».
Quando? In quale occasione?
«Nel luglio scorso mi sono recato a Istanbul a motivo di alcune proprietà della Chiesa greco-cattolica di Bulgaria, risalenti a quando la nazione era parte dell’Impero Ottomano. Da Istanbul iniziò l’unione di un gruppo di ortodossi con
Roma. Si trova nella loro chiesa in quella città la data scolpita sulla base dell’altare: il 1861. Ho visitato la comunità cattolica composta dai latini, dagli armeni, dai caldei e dai siri. In Turchia è tuttora molto vivo il ricordo di monsignor Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII».
Perché?
«Roncalli dal 1935, e per un decennio, fu delegato del Papa in Turchia e in Grecia. I rapporti che seppe instaurare con le altre Chiese furono tali che quando morì Pio XI, nella cattedrale cattolica di Istanbul furono invitati, per il pontificale di suffragio, tutti i rappresentanti delle Chiese cattoliche e ortodosse orientali. In vista della prima festa liturgica di San Giovanni XXIII, l’11 ottobre scorso, sono riuscito ad avere per la grande chiesa cattolica di Sant’Antonio in Istanbul una reliquia particolare».
Quale?
«Una reliquia di Papa Giovanni, in un reliquiario simile a quello presentato a Papa Francesco il giorno della canonizzazione. In quella circostanza Bartolomeo vi prese parte e tenne una conferenza sul ruolo ecumenico svolto in Turchia dall’arcivescovo Roncalli».
Questa è una notizia originalissima, che interessa molto i lodigiani, perché permette loro di conoscere meglio la figura del proprio vescovo.
«A Istanbul mi sono recato anche a pregare sulle tombe di tre gloriosi patriarchi: San Basilio Magno, San Giovanni Crisostomo e San Gregorio Nazianzeno, veneratissimi nel mondo orientale ma anche dalla Chiesa cattolica. La cattedrale del Phanar, che è attigua alla residenza del Patriarca ecumenico, ricevette solo nel novembre 2004 le reliquie del Crisostomo e del Nazianzeno per volontà di Papa Giovanni Paolo II. Ero presente quando in una indimenticabile celebrazione ecumenica, nella basilica di San Pietro, egli le consegnò a Bartolomeo, dopo averle tratte dagli altari dove i loro corpi sono custoditi».
Non ha mai incontrato personalmente il patriarca Bartolomeo?
«L’ho incontrato sia alla Congregazione per le Chiese Orientali sia al Pontificio Istituto Orientale, sempre a Roma, dove egli fu studente di teologia. Parla magnificamente l’italiano. E l’ho incontrato anche nelle visite alla sua residenza con i tre cardinali prefetti con cui ho collaborato. Nel luglio scorso, dopo la preghiera nella cattedrale di San Giorgio, sua santità mi ha gentilmente ricevuto, parlando - tra l’altro - della tanto attesa visita di papa Francesco e delle sorti dei cristiani in Oriente. Abbiamo insieme recitato la preghiera del Signore per l’unità dei cristiani e della famiglia umana».
GIORNATA DELLA PACE.
Il messaggio
«Globalizzare la fraternità»
“Globalizzare la fraternità” per sconfiggere “l’abominevole fenomeno” della schiavitù: questo il cuore del Messaggio del Papa per la 48.ma Giornata mondiale della pace, che ricorre il prossimo primo gennaio. Il documento - intitolato “Non più schiavi, ma fratelli” - descrive le cause profonde della tratta, tra cui “le reti criminali che ne gestiscono il traffico” ed esorta gli Stati ad applicare “meccanismi efficaci di controllo” per non lasciare spazio a “corruzione ed impunità”.
“Abominevole fenomeno”, “reato di lesa umanità” che colpisce “milioni di persone”: non usa mezzi termini Papa Francesco per descrivere la schiavitù nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace che nel titolo - “Non più schiavi, ma fratelli” - richiama la Lettera di San Paolo a Filemone (Fm 1, 15-16). Due le parti costitutive del Messaggio: nella prima, il Pontefice descrive i tanti volti della schiavitù e ricorda le vittime del lavoro-schiavo, i migranti privati della libertà, abusati, detenuti in modo disumano, ricattati dal datore di lavoro; gli schiavi sessuali, i bambini-soldato, vittime dell’espianto di organi o di forme mascherate di adozione, prigionieri di terroristi.
Ma se tanti sono i volti della schiavitù, altrettante sono le sue cause profonde. La prima, sottolinea il Papa, è ontologica, provocata dal “peccato che corrompe il cuore dell’uomo”: è “il rifiuto dell’umanità dell’altro”, il trattarlo come un oggetto, un mezzo e non un fine. Ci sono poi altre cause: povertà, mancato accesso all’educazione ed al lavoro, “reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani”, conflitti armati, terrorismo, l’uso criminale di Internet per adescare i più giovani. E poi la corruzione che - sottolinea il Pontefice - passa attraverso componenti delle forze dell’ordine e dello Stato.
La seconda parte del Messaggio esorta a sconfiggere la schiavitù con un’azione “comune e globale”, attraverso la “globalizzazione della fraternità” che sappia contrastare la “globalizzazione dell’indifferenza” così diffusa nel mondo contemporaneo. Tre i modi in cui le istituzioni devono agire: prevenire il crimine della schiavitù, proteggere le vittime e perseguire i responsabili. Occorrono, dunque, “leggi giuste” su migrazione, lavoro, adozione e delocalizzazione delle imprese per tutelare i diritti fondamentali dell’uomo e rispettarne la dignità. E servono anche - scrive il Pontefice - “meccanismi efficaci di controllo” che non lascino spazio a “corruzione e impunità”. Papa Francesco chiama poi in causa tutti gli attori della società, chiede il riconoscimento del ruolo sociale delle donne, lavoro dignitoso e stipendi adeguati per i dipendenti d’impresa, catene di distribuzione esenti dal fenomeno della tratta, cooperazione intergovernativa per combattere “le reti transnazionali del crimine organizzato che gestiscono il traffico illegale dei migranti”.
Il Pontefice si rivolge anche ai consumatori e richiama la loro “responsabilità sociale”, perché siano consapevoli che, come scritto da Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, “acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico” (n. 66). Di fronte al traffico di essere umani o a prodotti realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone, tutti siamo interpellati, ribadisce il Papa: sia chi chiude un occhio per indifferenza o convenienza, sia chi sceglie di impegnarsi civilmente o di compiere un piccolo gesto, come rivolgere un saluto, un sorriso a chi è vittima della schiavitù.
Globalizzare la fraternità, non la schiavitù, né l’indifferenza: questa dunque l’esortazione di Papa Francesco perché tutti gli uomini e le donne di buona volontà non si rendano complici di questo male e riescano a ridare speranza alle vittime della tratta.
Infine, il Pontefice ricorda Santa Giuseppina Bakhita e le tante congregazioni religiose, specialmente femminili, che - seguendo il suo esempio - operano in favore delle vittime della tratta. Il Papa guarda anche alla comunità cristiana, “luogo della comunione vissuta tra i fratelli”, la cui diversità di origine e stato sociale “non ne sminuisce la dignità, né li esclude dall’appartenenza al popolo di Dio”, poiché tutti sono accomunati dal “vincolo di fraternità in Cristo”. Siano rispettate, dunque, “dignità, libertà e autonomia dell’uomo”, improntando i rapporti interpersonali a “rispetto, giustizia e carità”, in nome della fraternità, “vincolo fondante” della famiglia e della società.
Che delusione Papa Francesco che si piega ai diktat di Pechino
di Alberto Maggi (@AlbertoMaggi74) *
Papa Francesco è amato da tutti, o quasi. Non ci sono dubbi sulla sua carica umana e spirituale e sulla sua capacità di ridare alla Chiesa nuovo lustro, anche e soprattutto con le aperture nei confronti dei divorziati. Ma la scelta del Santo Padre di non incontrare il Dalai Lama, in visita a Roma, lascia l’amaro in bocca. Che non lo abbia incontrato Obama, sempre meno meritevole del Nobel per la pace, si può anche capire (la Cina ha in mano il debito pubblico degli Stati Uniti), ma che anche il Pontefice si adegui alla realpolitik e, di fatto, si inginocchi al volere del regime di Pechino lascia quantomeno sgomenti. Da questo Papa, ecumenico e rivoluzionario, ci saremmo aspettati più coraggio. E più indipendenza. E forse anche più autorevolezza. E per favore il Vaticano non ci racconti la storiella che non è stato possibile organizzare un faccia a faccia anche di soli 10 minuti. Un incontro e una stretta di mano sarebbero stati gesti importantissimi per chi difende i diritti umani, in Tibet e non solo. E invece niente. Che delusione caro Francesco...
Nobel e diplomazia
di Giacomo Galeazzi ( La Stampa, 11/12/2014)
L’incontro tra il Dalai Lama e papa Francesco non ci sarà. Non è il momento, nonostante la stima e l’apprezzamento reciproci tra il pontefice e il leader spirituale del buddhismo, perché c’è il rischio di creare «inconvenienti».È lo stesso Dalai Lama, al suo arrivo a Roma dove fino a domenica parteciperà al XIV Summit mondiale dei Premi Nobel, a smentire definitivamente le voci che si sono rincorse in questi giorni sulla possibilità di un suo incontro con Bergoglio. Un diniego del Vaticano, secondo l’entourage del Dalai Lama, che aveva espressamente richiesto il faccia a faccia.
«Questa volta non incontrerò papa Francesco, l’amministrazione del Vaticano dice che non è possibile perché potrebbero crearsi degli inconvenienti», ha spiegato il leader tibetano. Lo avevamo chiesto, insistono i suoi collaboratori che ancora sperano in un colloquio privato, magari come avvenne con Benedetto XVI, che ricevette il Dalai Lama per un breve incontro il 13 ottobre del 2006, ma non gli concesse udienze né nel 2007 né nel 2009.Sulla natura di questi «inconvenienti» non trapela nulla, né da fonti tibetane né Oltretevere. Anzi, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto di non poter nemmeno confermare se sia vero che papa Francesco abbia deciso di non incontrare il leader tibetano.
È però facile intuire che il rifiuto del Vaticano, se di rifiuto si tratta, sia stato dettato dalla volontà di non porre ostacoli sul percorso di riavvicinamento con Pechino che ha ricevuto un notevole impulso dal viaggio in Corea del Sud di Francesco, lo scorso agosto. Proprio in quell’occasione il Papa - primo pontefice ad attraversare lo spazio aereo cinese - si disse pronto ad andare in Cina «anche domani». Il Vaticano ha comunque voluto sottolineare la «stima» che Bergoglio nutre nei confronti del Dalai Lama. Un apprezzamento ricambiato dal leader tibetano, che anche oggi ha ribadito di ammirare «la semplicità» di Francesco, «mentre ci sono altri leader religiosi che praticano la semplicità ma hanno una vita privata...».
Durante il summit romano, presentato in Campidoglio dal sindaco Ignazio Marino e da diverse donne insignite del Premio Nobel, saranno commemorati la vita e il lavoro dell’icona mondiale della pace, Nelson Mandela. «Mi sento onorato di riprendere la tradizione di ospitare a Roma il summit dei premi Nobel per la pace - ha detto il primo cittadino della Capitale -. Mi sento piccolo vicino a persone che in tanti modi hanno rischiato la vita per manifestare per la pace, per l’uguaglianza, per pari diritti per tutti. Ci sono cose più importanti del Pil nelle nostre vite: ad esempio vivere in un Paese dove c’è pace».
«Le guerre in nome della religione sono incomprensibili», ha detto il Dalai Lama, sottolineando «la necessità di promuovere l’armonia tra le religioni, come è stato fatto in India che è un esempio di convivenza pacifica». «Tutti abbiamo la responsabilità di promuovere l’armonia», è stato l’appello rivolto alla piccola folla di fedeli buddhisti giunti a Roma per accogliere il loro leader.
Molti gli italiani presenti accanto ad una rappresentanza della comunità tibetana in Italia. Una comunità piccola, 180 persone, che a Roma continua a rivolgere un appello: essere riconosciuti come «rifugiati politici». «L’Italia è l’unico Paese europeo a non farlo», ha detto Chodup Lama, professore ed ex presidente della Comunità tibetana.
«Sui documenti dei tibetani che vivono in Italia c’è scritto `cinesi’ - ha spiegato - È una negazione della nostra identità. E questo ci fa molto male».Nessuna traccia invece dei contestatori del Dalai Lama, i seguaci del culto buddhista Shugden - sostenuto dalla Cina - che hanno annunciato manifestazioni di protesta nei prossimi giorni.
I Nobel per la Pace a Roma, Dalai Lama: "Papa Francesco? A volte sono fonte di guai"
A Roma il summit dei Nobel per la Pace. Dalai Lama: la pace può arrivare solo dalla "comprensione reciproca"
di Redazione ANSA *
"Io incontro tante persone, sono positivo e gioviale ma per qualcuno posso essere fonte di guai. E’ comprensibile, non c’è problema, mi è capitato tante volte". Così il Dalai Lama ha risposto ad una domanda sul mancato incontro con Papa Francesco alla conferenza stampa conclusiva al summit mondiale dei premi Nobel.
È gremita l’Aula Giulio Cesare del Campidoglio dove sono in corso i lavori dell’ultima giornata del quattordicesimo summit dei Nobel per la Pace ’Peace. Living it! In honour of Nelson Mandela’. Nell’Aula, solitamente adibita alle riunioni della assemblea capitolina, si stanno susseguendo gli interventi dei Nobel presenti.
La pace può arrivare solo dalla "comprensione reciproca" e dall’assunzione di ognuno "della responsabilità morale di costruire un mondo felice", ha aggiunto il Dalai Lama chiudendo il summit. "Usate la vostra professione per fornire" un contributo alla pace e al futuro dell’umanità", è stato l’appello del Dalai Lama. "Bisogna sviluppare un senso di responsabilità universale, ogni giorno, per 24 ore al giorno, senza troppe aspettative", ha insistito la guida spirituale sottolineando come tutti dobbiamo lavorare" non pensando al bene per "la nostra vita" ma al futuro dell’umanità".
Marino: orgoglio inviare da Roma messaggio di pace. "Siamo giunti al termine di giornate intense, in cui si sono discussi temi fondamentali con icone di pace, libertà e giustizia. Roma è veramente orgogliosa di aver ospitato un incontro che invia un messaggio di pace". Così il sindaco di Roma Ignazio Marino.
* ANSA 14 dicembre 2014 (ripresa parziale).
Papa, ’Non si uccide in nome di Dio ma non ridicolizzare fede’
Francesco saluta lo Sri Lanka e sbarca nelle Filippine. "Preoccupato per incolumità fedeli"
di Redazione ANSA *
COLOMBO (SRI LANKA). Non si uccide in nome di Dio ma non si ridicolizza la fede altui. E’ il messaggio del Papa che, dall’aereo che lo sta portando dallo Sri Lanka alle Filippine, incalzato dai cronisti, torna a parlare del terrore dei giorni scorsi a Parigi. "Essere miti, umili non aggressivi" - è il messaggio del Papa - è "miglior modo per rispondere" a minacce di attentati.
Il Papa è "preoccupato per l’incolumità dei fedeli", per sé ha paura ma anche "una sana incoscienza" e ha paura del dolore fisico. "La libertà di religione" - ha detto ancora Francesco - è essenziale, e "non si uccide in nome di Dio". La "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza".
Libera espressione sì, "ma se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Così il Papa, in volo verso Manila, ha spiegato il "limite" alla libertà di espressione: la fede non sia ridicolizzata. Non si "giocattolizza la religione degli altri".
"Forse è una mancanza di rispetto - ha risposto il Papa a una domanda sui kamikaze e sui bimbi usati come kamikaze - ma credo che in ogni attacco suicida c’è qualcosa di squilibrio mentale e umano, c’è qualcosa che non va nelle persone, nel senso che danno alla propria vita e a quella degli altri. Sì, il kamikaze dà la propria vita, ma non la dà bene, i missionari per esempio danno la propria vita ma per costruire, quando si dà la vita per distruggere c’è qualcosa che non va".
Saluto allo Sri Lanka - "Dio benedica e protegga lo Sri Lanka". Con questo tweet Papa Francesco ha salutato il Paese asiatico per proseguire il suo viaggio che lo ha visto sbarcare a Manila nelle Filippine. Una volta sceso dalla scaletta è stato il presidente del Paese, Aquino III, ad accoglierlo.
All’aeroporto di Manila un’accoglienza calorosa con centinaia di giovani che cantano e ballano. Folla sterminata ad accogliere Francesco anche nelle zone subito fuori dall’aeroporto, inquadrate dalle immagini del Ctv, il Centro televisivo vaticano. Molti i sacerdoti e i vescovi, tra i quali l’arcivescovo di Manila, il cardinal Luis Antonio Tagle. Si sono salutati con un forte abbraccio e grandi sorrisi. Tira un forte vento e appena il Papa si è affacciato dal portellone dell’aereo è volata la papalina. Anche a Manila, come era già accaduto all’aeroporto di Colombo in Sri Lanka, due bambini hanno offerto al Papa un omaggio floreale, con fiori banchi e gialli, i colori del Vaticano.
di Giovanna Chirri
Non è facile imparare a perdonare, e perdonarsi, dopo aver visto, subito o anche compiuto tanta violenza, come quella che per decenni ha opposto tamil e cingalesi. Prima condizione è non dimenticare il "sangue sparso". Ma soprattutto bisogna lavorare per una "riconciliazione più grande, in cui il balsamo del perdono e della misericordia possa portare tutti alla guarigione".
Papa Francesco ha nuovamente indicato la strada della verità, dell’ammissione degli errori, e della reciproca riconciliazione come via per far passare lo Sri Lanka dalla assenza di guerra a una pace vera. Lo ha fatto nel santuario di Madhu, nella zona di Mannar, a nord del Paese, nelle province dove i tamil avevano cominciato a concentrarsi a partire dagli anni Sessanta. Lì dal 2007 al 2009 si è svolta la fase più cruenta del conflitto, con l’esercito governativo che ha annientato le "tigri", ma ha poi militarizzato la regione, violando una serie di diritti umani dei civili, come documentano Ong, una commissione di inchiesta e vari rapporti dello Osservatorio internazionale sui diritti umani.
Madhu è un luogo frequentato non solo da cristiani, e simbolico per questi ultimi giacché dalla sua origine ha assistito tra l’altro nel 1544 alla persecuzione anticristiana da parte del re di Jaffna, alla persecuzione, nel Sei-Settecento, dei calvinisti olandesi contro i cattolici e, da ultimo è stato, dal 1990 campo profughi per gli sfollati del conflitto, zona demilitarizzata ma comunque coinvolta in combattimenti furiosi.
Nel santuario, riaperto al culto nel 2010, papa Francesco è giunto nel pomeriggio, in elicottero da Colombo, ed è stato accolto da una folla grande, capace di passare dalla festa alla preghiera, grazie al modo composto e sincero di accogliere l’ospite con danze e ghirlande di fiori, ai canti sacri. Anche dolenti e come pensosi, simili a quelli che la notte scorsa hanno accompagnato centinaia di migliaia di fedeli lungo il litorale dell’Oceano Indiano, per raggiungere il luogo della canonizzazione del primo santo di qui, Giuseppe Vaz.
A Madhu il compito di salutare papa Francesco è stato assolto da mons. Joseph Rayappu, il vescovo di Mannar che ha sempre difeso i diritti dei tamil e ha anche reso testimonianza davanti alla Commissione per la riconciliazione nazionale.
I due giorni nell’ex Ceylon, - ieri con l’appello ai leader religiosi a non essere "equivoci" contro le violenze in nome di Dio, e oggi con la reiterazione dell’appello a "riconciliazione, giustizia e pace", - sono quasi una scuola per l’uomo contemporaneo, chiunque egli chiami Dio, per costruire una vera fratellanza, che cambi la vita dei popoli e delle persone. Un modo di essere uomini, e perciò capaci di curare le ferite più purulente, che il Papa considera l’unico possibile per pacificare il mondo.
Come al mattino, nella messa con più di cinquecentomila persone lungo l’oceano, anche nel pomeriggio nel piccolo santuario bianco su cui svettano le bandiere blu dello Sri Lanka, davanti a circa 300mila persone, il Papa oggi ha parlato attraverso la preghiera, - presenti un gruppo di famiglie sia tamil che cingalesi duramente provate dalle ostilità - tenendo anche in mano per diversi minuti la statuetta della Vergine di Madhu.
Ciò non toglie che la sintonia provata nei confronti del neopresidente Sirisena - eletto a sorpresa anche dalle minoranze e da tutti gli srilankesi stanchi anche dei metodi arroganti del predecessore Rajapaksa e della incuranza di questi per i problemi di una vera pacificazione - possa sostenere anche la azione della Chiesa srilankese e della diplomazia del Papa, per questi obiettivi, che accomunano il piccolo e per molti lontano Sri Lanka ai grandi e ai piccoli di ogni angolo del pianeta.
Papa Francesco neppure oggi ha rinunciato ai fuori programma, e ha visitato il monaco buddista Banagala Upatissa, che lo aveva invitato ieri, e ha incontrato i vescovi del Paese, ai quali ieri aveva cancellato un incontro conviviale.
* ANSA, 15 gennaio 2015 16:40 (ripresa parziale).
Le radici occidentali di Shankara
Filosofia indiana . Attingendo alla sua erudizione, Coomaraswamy identificò, fra il ’32 e il ’47, una sostanziale conformità fra la metafisica del Vedanta e quella di Platone: «La tenebra divina», Adelphi
di Stefano Beggiora (il manifesto, Alias, 16.07.2017)
Nato in Sri Lanka e cresciuto a Londra, Ananda Kentish Coomaraswamy è oggi riconosciuto, a settant’anni dalla sua morte, come il più grande storico dell’arte indiana del XX secolo. Il suo lavoro più maturo lo portò a compimento quando, attingendo a una impareggiabile erudizione artistica, folklorica, mitologica, religiosa, espose la propria prospettiva sul pensiero tradizionale, elevando sé stesso, e la indiscussa genialità del suo sapere, a punto di reciproco contatto fra la cultura occidentale classica e le filosofie orientali. Nella sua immane attività produttiva, che conta svariate decine di opere critiche, La tenebra divina Saggi di metafisica (edizione italiana a cura di Roberto Donatoni, pp. 511 , euro 42,00), che oggi Adelphi pubblica come seconda parte dei Selected Papers, usciti postumi in versione inglese a cura Roger Lipsey nell’ormai lontano 1977 a Princeton, getta le fondamenta di quel ponte lanciato fra Oriente e Occidente che Coomaraswamy edificò cominciando proprio con l’identificare la sostanziale conformità - e non solo le similitudini - fra i principi metafisici della scuola indiana del Vedanta e gli insegnamenti di Platone.
Il volume - assieme al precedente dedicato al simbolismo e all’arte, pubblicato in Italia con il titolo Il grande brivido (Adelphi, 1987) - consta di una vasta scelta di scritti risalenti al periodo compreso fra il 1932 e il 1947 in cui l’autore era sovrintendente presso il dipartimento di arte asiatica al Museum of Fine Arts a Boston, e coincide con quella che fu, probabilmente, la fase più creativa della sua eccezionale produzione.
Il volume si apre seguendo le tracce, purtroppo esili, della vita di Shankara, grande maestro e metafisico indù vissuto tra il VIII e il IX secolo, a cui si deve la sistematizzazione dell’Advaita Vedanta, uno degli insegnamenti cardine della filosofia indiana. Pescando dagli antichi testi sacri dell’induismo - le Upanishad, i Brahma Sutra, la stessa Bhagavad Gita - Shankara oppose il continuo divenire della realtà fenomenica, appartenente al mondo manifesto, alla Realtà assoluta, in una prospettiva monistica. L’Advaita infatti, letteralmente «non duale», concilia i principi del Sé (Atman) con l’Assoluto (Brahman) sulla base della loro intrinseca consustanzialità e indivisibilità.
Il merito dell’insegnamento di Shankara - per quanto lungi dall’intaccare la caleidoscopica frammentarietà di scuole, prospettive religiose e indirizzi soteriologici del mondo indiano - fu l’armonizzazione dei fondamenti di quella che fu l’alta speculazione filosofica con la religione popolare e con il profondo trasporto emozionale delle correnti devozionali a venire, e della mistica indiana in generale.
A questa sistematizzazione di Shankara, dalla quale prende l’avvio, Coomaraswamy dona tuttavia un respiro più ampio, cucendo assieme pazientemente i punti in comune che avvicinano Cristianesimo, Islam, Neoplatonismo con le discipline indù, alla ricerca di quella Realtà che ciascuna tradizione interpretò come suprema conoscenza. Del resto, ottenere l’Assoluto, secondo la filosofia indiana non è alla fine un’opportunità dell’essere umano che implichi per forza di cose un punto di partenza prestabilito. Infatti i sei darshana classici dell’induismo, ovvero i sistemi filosofici frutto di diverse «prospettive» in tema religioso (fra i quali c’è appunto il Vedanta), erano concepiti come i raggi della ruota di un carro: pur partendo da prospettive diverse, e percorrendo traiettorie differenti, essi fanno parte di un unicum e tendono tutte allo stesso centro. Allo stesso modo, Coomaraswamy parla di rami, ramificazioni della conoscenza - o meglio di un’unica scienza - che va però avvicinata secondo i modi propri di ciascun filosofo, il quale non può che far cominciare la propria esperienza nel tempo e nel luogo in cui si trova, sapendo come tutte le strade conducano, infine, al medesimo Sole.
Immergendosi nella codifica delle radici comuni al simbolismo d’Oriente e d’Occidente, Coomaraswamy illumina la differenza fra reincarnazione, trasmigrazione e metempsicosi, interrogandosi sui concetti di anima e di Sé, indagando ancora le facoltà umane di conoscenza basate su sensi, ragione e intelletto. Per cimentarsi in questa impresa ricorre a figure quali essenza e sostanza, potenza e atto, forma e accidente, e così via: strumenti terminologici abituali a chi abbia familiarità con la filosofia e le discipline orientali, che l’autore esprime con coinvolgente semplicità e chiarezza.
Assieme a René Guenon, che esercitò su di lui una grande influenza, Coomaraswamy traduce questo suo sapere in un linguaggio spirituale che vanta a sua volta numerosi dialetti, e non può venire indagato se non secondo una prospettiva tradizionale, purtroppo troppo spesso dimenticata nel mondo moderno e probabilmente oggi offuscata, se non esplicitamente deviata, più in Occidente che India.
Considerando quanto il mondo occidentale sembri sempre meno interessato alla ricerca di un Dio, e meno incline al cammino spirituale e alla trascendenza, Coomaraswamy torna al platonismo, al periodo ellenistico, alla prima patristica, al neoplatonismo, passando per i Vangeli e giungendo alla teologia mistica del Medioevo cristiano, non senza frequenti incursioni nella letteratura arabo-persiana, nel sufismo e nella teologia islamica in generale.
Non solo Platone, Filone, Ermete, Plotino, Boezio, Agostino e Dante, dunque, ma anche Jami, Ibn ’Arabi, Rumi e moltissimi altri studiosi si offrono come strumenti concreti per affrontare questo meraviglioso viaggio, capace di ricondurre il lettore a un continente che dovrebbe sembrargli, ora, meno lontano: l’India dei Veda e delle Upanishad, degli insegnamenti dei maestri e della letteratura sacra che costituiscono le basi di una metafisica pienamente accessibile, proprio grazie agli studi di Coomaraswamy e alla sua capacità espositiva.
Il suo incredibile itinerario si articola attraverso una selezione di ventisette saggi in cui traspare una immensa erudizione derivata dalla aderenza ai testi e alle fonti. Grazie a Limpsey, curatore dell’opera, veniamo informati sul modo in cui le primissime edizioni dei saggi fossero state corredate dal loro stesso autore con una fitta selva di osservazioni, postille appunti presi a mano, che oggi impreziosiscono il volume.
La redazione di un materiale così ricco (Coomaraswamy, come i pandit indiani, usava citare i testi a memoria) ha richiesto un lavoro di revisione, verifica, traduzione e compilazione di più indici tematici e bibliografici di eccezionale acribia. Questa fatica - svolta anche con peculiari competenze linguistiche in merito al sanscrito, al pali e al greco antico - ha visto coinvolti nel tempo studiosi e indologi del calibro di Heinrich Zimmer, Joseph Campbell, Stella Kramrisch, Mircea Eliade e moltissimi altri. Il risultato è dunque un’opera di straordinaria profondità, che funziona ancora come validissimo strumento di studio e di ricerca interiore, costituendo uno di quei testi impossibili da esaurire definitivamente e a cui viceversa attingere nel corso di una intera vita.
Vale per il testo di Coomaraswamy quel che scrisse Dadu Dayal, mistico indiano del XVI secolo: «La parola del guru è simile a una freccia: giunge lontano e a remote regioni il discepolo conduce. Colui che la sa coglier con chiarezza, si libera e si risveglia dal sonno in cui era immerso».